Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Labeone: botanica filosofica -- il diritto romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza.
(Roma). Abstract. Grice: “It has to
be reminded that I would have never attended Oxford save for that scholarship I
won as pupil at Clifton. It was a classical scholarship – since they never
tested me for philosophy at Clifton (we were only boys!). In any case, to my
surprise, under the Faculty of Lierae Humaniores, it had been instituted a
sub-faculty of philosophy. I liked the idea, since I’m a subversive at heart!”
-- Keywords: Filosofo italiano. Ha
larga cultura filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età d’OTTAVIANO. S’ignora
se L. segue un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma rifiuta
il consolato offertogli d’Ottaviano perchè conseguito prima di lui da persona
meno anziana. Appartenne al partito repubblicano. Scruve CCCC saggi
di cui restano frammenti. Si ricordano fra gli altri: "De iure
pontificio" -- in almeno XV libri, diversi "Commentarii
giuridici", 7davd, "Responsae", in almeno XV
libri, "Librì posteriores", in almeno XL libri. Come Grice,
L. s’interessa anche di studi logico-grammaticali, o di botanica filosofica. Collezionista di botanica,
artropodi, madama butterfly. Grice: “Logico-grammatical stuff is my thing, as
was Labeone’s. My example is “Fido is shaggy,” Labeone’s was not!” – Nome compiuto:
Marco Antistio Labeone. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Labeone,” The H. P. Grice Papers, Bancroft.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Labriola:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di
Cassino -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cassino). Abstract. Grice: “If Oxford had her pinko, Italy had her
Labriola!” Grice had a knack for good
tags: ontological marxism: if x WORKS, x exists. Surely ‘lavoro’ is key to
Marx. But, as Labriola points out, so is ‘comune. It would be reductionist to
consider Labriola just a communist, seeing that he essayed on Socrates! Keywords: comunism, Grice, Labriola, il marxismo
ontologico di Grice. Filosofo italiano. Casino, Frossinone, Lazio. Grice:
“Labriola is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential Italian
philosopher -- Con particolari interessi nel campo del marxismo. Nacque da
Francesco Saverio, insegnante ginnasiale di lettere. Il padre, oriundo di Brienza,
e nipote diretto di PAGANO. Si iscrive alla facoltà di filosofia di Napoli,
città nella quale la famiglia si e trasferita. Qui studia con VERA e SPAVENTA,
il cui appoggio gli procura un posto di applicato di pubblica sicurezza nella
segreteria del prefetto. Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller, un
saggio in cui osteggia il CRITICISMO contro ogni ipotesi di un ritorno a Kant.
Rivendica l'attualità dell'hegelismo. Consegue il diploma di abilitazione e
insegna nel ginnasio Principe Umberto di Napoli. Il suo saggio, premiato
dall'Napoli, sull'”Origine e natura delle passioni”: una significativa presa di
distanze dall'idealismo in favore del materialismo. Scrive “La dottrina
di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele”, premiata dalla Reale Accademia di Scienze
morali e politiche di Napoli. Consegue la libera docenza in filosofia e si
mette in aspettativa in attesa di ottenere un incarico nell'università. Scrive
la dissertazione “Esposizione critica della dottrina di VICO” e collabora con
il "Basler Nachrichten", al quale invia corrispondenze politiche, al
quotidiano napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto da Zerbi,
futuro deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al quale L. aderisce.
Entra anche nella redazione della "Gazzetta di Napoli" e dell'Unità
Nazionale, diretta da Bonghi, al Monitore di Bologna e alla Nazione di Firenze,
nella quale escono le sue X Lettere napoletane. Si dichiara herbartiano in
psicologia e in morale, pubblicando a Napoli i saggi Della libertà morale,
dedicata a Graf e Morale e religione. Trasferitosi a Roma, supera il concorso alla cattedra di filosofia a Roma.
Pubblica il saggio Dell'insegnamento della storia.” Divienne direttore del
Museo di istruzione e di educazione. Sono anni in cui L. mostra un particolare
impegno verso il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la
diffusione dell'istruzione di base della popolazione, inteso come primo passo
per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo s'informa sug’ordinamenti
scolastici dei paesi europei. Pubblica gli Appunti sull'insegnamento secondario
privato in altri stati e l'Ordinamento della scuola popolare in diversi paesi.
Contemporaneamente L. abbandona le convinzioni politiche di moderato
liberalismo per approdare a posizioni radicali. Oltre alla lotta
all'analfabetismo, auspica l'intervento dello stato nell'economia, una politica
sociale di assistenza ai poveri, il suffragio universale che permetta anche a
candidati operai l'ingresso al parlamento. Ottiene la cattedra di filosofia a Roma
e inizia un corso sul socialismo. A seguito di notizie che danno imminente la
stipula del concordato con il Vaticano, L. tiene a Roma la conferenza Della
Chiesa e dello stato a proposito della conciliazione, considerando una minaccia
per la libertà di pensiero ogni accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza
nella vita pubblica italiana. Il quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua
lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere teoricamente socialista ed
avversario esplicito delle dottrine cattoliche e nella conferenza Della scuola
popolare, auspica l'ABOLIZIONE DELL’INSEGNAMENTO RELIGIOSO. Sul giornale Il
Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni. Tiene
agl’operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti
condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica
e dichiara di desiderare un governo del popolo mediante il popolo stesso e la
formazione di un grande partito popolare. Scrive che i parlamenti, come forma
transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo
del proletario e tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso
Del socialismo commemorando la comune di Parigi. L. saluta il congresso
della social-democrazia tedesca a Halle scrivendo che il proletariato militante
procede sicuro sulla via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di
produzione ed l'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei
suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze. Entra in rapporto epistolare con
Engels, che conosce a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei,
Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprove a TURATI, il più
prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica
sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degl’avversari
politici. Vuole che il partito socialista, che deve nascere ufficialmente con
il congresso di Genova, sia un partito d’operai e non di intellettuali
positivisti borghesi. Vede nei fasci siciliani un concreto esempio di
socialismo popolare e rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a
essere compreso in Italia (cf. GRICE, MARXISMO ONTOLOGICO). Fa lezione
sul manifesto di Marx ed Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un corso
sulla genesi del socialismo ma di non riuscire a risolversi a scriverne un
saggio per l'ignoranza su tanti fatti, persone, teorie, etc, che sono tante
fasi, tanti momenti né sentiti né conosciuti in Italia, come ribadisce a Adler
che il marxismo non piglia piede in Italia. Su sollecitazione di Sorel,
scrive In memoria del Manifesto dei comunisti, sulla concezione materialistica
della storia, che esce sulla rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce
a Engels, ricevendone le lodi. Anche CROCE che ne promuove la stampa in
Italiane è influenzato tanto da attraversare il suo pur breve periodo di
adesione al marxismo. Nei due anni successivi L. scrive altri due saggi, Del
materialismo storico, dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e
di FILOSOFIA. È sepolto presso il cimitero acattolico di
Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e
politico di L. in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore
dell'idealismo hegeliano, influenzato da SPAVENTA, del quale e allievo a Napoli. Successivamente, possiamo
distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del
realismo herbartiano. Infine, il momento in cui aderisce pienamente al
marxismo. L'approccio di L. al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart,
per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Kautsky. Egli
vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla
storia, ma piuttosto come una filosofia auto-sufficiente per capire la
struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. E
necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo
vuole considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze
operanti nella storia. Il marxismo dove essere inteso come una teoria critica,
nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad
interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo
al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque
la concreta e materiale prassi umana. La sua descrizione del marxismo come
filosofia della prassi e ripresa nei Quaderni dal carcere di GRAMSCI. In
pedagogia L. avvertì l'esigenza collettiva dei tempi nuovi, il bisogno di una
scuola popolare che servisse da reale tessuto connettivo dell'Italia
post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e fine dell'evoluzione
morale e complessiva delle classi sub-alterne. Nella monografia
Dell'insegnamento della storia, dedicata alle più importanti questioni della
pedagogia generale, L. aveva asserito la centralità dell'educazione alla
socialità. Il metodo pedagogico dove essere quello della ricerca critica e di DIBATTITO
e di sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero
logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al
confronto (non a caso i primi studi di L. Sono stati rivolti a Socrate e al
metodo socratico. Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per L. e
necessaria un'attenzione maggiore ai pre-requisiti logici piuttosto che alla
struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che
egli chiama un'epi-genesi analitica. Celebre e una sua conferenza tenuta
nell'Aula Magna dell'Roma, discorso sollecitato dalla stessa Società degli
Insegnanti della capitale, che poi ne cura la pubblicazione in opuscolo. E
necessario dare concretezza a piani di istituzioni scolastiche entro le quali
le didattiche si sviluppassero non da una deduzione della teoria, ma come
risultato di lotte politiche, di ideali sociali, di tradizioni storiche, di
condizioni ambientali. Per L. proprio l'azione dell'ambiente storico sociale
sugli uomini e la loro reazione ad esso costituiscono il tema dell'educazione.
Per cui le idee non cascano dal cielo. Il metodo deve partire dalla prassi,
dalla pratica e non dalle idee, dai principi astratti. Il nucleo
essenziale della pedagogia della prassi sta nella percezione della connessione
dell'opera educativa con le condizioni dello sviluppo economico-sociale.
Trockij conosce con entusiasmo i saggi di Labriola, quando e detenuto nel
carcere di Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che come pochi scrittori
latini, L. possede la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'e
impacciato, certo nel campo della FILOSOFIA della storia. Sotto quel
dilettantismo brillante c'e vera profondità. L. liquida egregiamente la teoria
dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i
nostri destini. Trockij aggiunge che dopo anni continua a rimanergli in mente
il ritornello Le idee non cascano dal cielo. Altri saggi: Una risposta alla
prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza,
La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Napoli,
Stamperia della Regia Università, Della
libertà morale, Napoli, Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Ferrante, Dell'insegnamento
della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola
popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta, I problemi della filosofia della storia.
Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza
tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato
per la commemorazione di BRUNO in Pisa. Lettera, Roma, Aldina, Del socialismo. Conferenza,
Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera a Socci a proposito del
Congresso democratico, Roma, La CO-OPERATIVA; Saggi intorno alla concezione
materialistica della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma,
Loescher, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo
di socialismo e di FILOSOFIA. Lettere a Sorel, Roma, Loescher, CROCE, Bari,
Laterza, Da un secolo all'altro.
Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la
libertà della scienza, Napoli, Veraldi, A proposito della crisi del marxismo,
"Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di
filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Croce, Bari, Laterza, Socrate, Croce,
Bari, Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta di Croce
sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia
e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia,
Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e
socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Pane, I,
Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di
Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche
sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti
di pedagogia e di politica scolastica, Bertoni Jovine, Roma, Riuniti, Saggi sul
materialismo storico, Gerratana e Guerra, Roma, Riuniti, introduzione e cura di
Santucci, Il materialismo storico, antologia sistematica Poni, Firenze, Le
Monnier, Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e
introduzioni di Marchi, Firenze, La nuova Italia, Scritti politici. Gerratana,
Bari, Laterza, Opere, Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Sbarberi,
Torino, Einaudi, Lettere a Croce. Napoli, Istituto italiano per gli studi
storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza al monopolio.
Nascita e lotte del socialismo. IV saggio della concezione materialistica della
storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici,
Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario Roma, Riuniti, Roma, Riuniti,
Roma, Riuniti, Lettere inedite. Roma,
Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica
italiana Corrispondenze alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di
Miccolis, Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti,
Milano, M&B Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI,
Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni
della Normale,. Tutti gli scritti
filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,.
Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione
l'edizione nazionale delle opere di L., istituita con decreto del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, Savorelli e Zanardo, Bibliopolis, I problemi della
filosofia della storia e recensioni Cacciatore e Martirano, Bibliopolis, Da un secolo
all'altro. Miccolis e Savorelli, Bibliopolis, archividifamiglia-sapienza.beniculturali.
Trotzkij, La mia vita, Fiorilli, L. Ricordi «Nuova Antologia», Berti, Per uno studio della
vita e del pensiero di L., Roma, Ernesto Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e
socialisti italiani: Milano, Luigi Cortesi, La costituzione del Partito socialista
italiano, Milano, Sergio Neri, Antonio Labriola educatore e pedagogista,
Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio Labriola, la vita e il pensiero, Bologna,
Demiro Marchi, La pedagogia di Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane,
Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Stefano
Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo
italiano, Milano, Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio
Labriola, Roma, Filippo Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia.
Scritti politici, Milano, 1979. Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali,
Bari, Stefano Poggi, Introduzione a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi,
Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari, Livorsi,
Turati. Cinquant'anni di socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi,
Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio
Areddu, Sulle lettere di Antonio Labriola a Croce, Firenze, Renzo Martinelli,
Antonio Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende
del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, L. e B. Croce
nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini,
"Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo",
in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale M. Guidi e L. Michelini, Annali della
Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e
nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A.
Labriola, "Il Cronista", L. e la sua Università. Mostra documentaria
per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di Antonio
Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio
introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia,
Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi,
contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007.
Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica,
Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis,
Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica,
Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio
Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,, Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale
di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro
Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Antonio Labriola, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Antonio Labriola, su Liber
Liber. Opere di L., su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio Labriola,
su Progetto Gutenberg. L'Archivio
Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio Labriola, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Roma. La personalità storica di Socrate Socrate o gli Ateniesi.
Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni
su le fonti. Orizzonte delia coscienza socratica Posizione di Socrate nella storia della
religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di
Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del formalismo logico. Limitazione
del sapere umano. Socrate e i Solisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso
misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici.
Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione formale del metodo
socratico. Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio
d'identità. Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene. Conoscere
e volere. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv). Fondamento della
pedagogia socratica. Le forme concrete della vita elica È Socrale un
riformatore? L’individuo e le sue relazioni domC5tiche. L’ individuo e lo stato. Vili. Delle virtù. Generalità.
Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e
del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità c del
sapere. Del bone. Della felicità. Del
sapere. Del divino e dell’anima umana nell’orizzonte socratico. Il Concetto del
divino. II concetto dell’ anima. Riepilogo e conclusione La personalità
storica di Socrate. Socrate e gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della
coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni su
le fonti. Orizzonte della coscienza socratica. Posizione di Socrate nella
storia della religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del
valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del
forma- lismo logicoLimitazione del sapere umano. Socrate e i Sofisti. Pretesa
soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti
storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione
formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione
e concetto, p^^- e del principio d'identità. Dell'etica socratica i?i
generale, e del concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione
fra volere e sapere (yvttjtì-t. aauxóv). Fondamento della pedagogia
socratica. Le forme concrete della vita etica . È Socrate un riformatore?
L'individuo e le sue relazioni domestiche L'individuo e lo Stato. Delle
viriti. Generalità. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione
della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene,
della felicità e del sapere. Del bene. Della felicità. Del sapere. Del
divino e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. Il Concetto del divino. Il
concetto dell'anima. Formalismo logico. Senofonte e Platone mettono in
bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse
ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il
libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea
esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla
maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto
il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera
sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di
spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo
conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi
uditori. Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più,
perchè rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione ora- Sen. Meni. IV,
4, 6. Plat. Gorg. p. 490 E. Strùmpell fa rilevare molto vivamente la differenza
che correa fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento formale. toria
non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche
fac- cende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di
continuo all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per ripeterla
ogni istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era egli forse un
mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea forse in
serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui- stioni ?
Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti disparatissimi, e
quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta
degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla ripetizione monotona delle
medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di
pronun- ziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni
stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si
potesse apprendere, come avvenne Zeller ha molto bene criticata l'opinione or-
dinaria, che fa di Socrate un moralista popolare; ma noi non ci accordiamo con
lui nella determinazione del valore filosofico del dialogo socra- tico; la qual
cosa abbiamo voluto dire qui recisamente, per evitare ogni ulteriore
polemica. più tardi, le relazioni morali nell'astratta uni-
versalità della massima, o formulare netta- mente una esigenza logica; tanto è
vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare,
ciascuno per proprio conto, i pfermi che avean raccolto dalle acci- dentali
conversazioni del maestro, che a di- scutere sul valore positivo di questo o
quel principio. Quella monotonia notata dagli avversari non concerneva che
l'esigenza della formale evidenza e certezza del discorso; ed era quindi
l'intenzionale ritorno ai medesimi presuppo- sti, nel lato formale d'ogni
quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in Socrate come già
isolato, e distinto dall'og- getto della ricerca, e come presente alla co-
scienza del filosofo per sé ed obbiettivamente; perchè agisce solo come reale
esigenza di [Vedi su questo punto Hermann: Gescìiichte ecc.; e lo stesso autore
Ritler's Darstellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, Hegel è stato uno
dei primi a riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la
determinazione del prin- cipio filosofico di Socrate, e cfr. Biese: Die
Philosophie des Aristoicles, colui, che ragionando avverte per la prima volta,
che il ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera
corretta e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa
troppo ovvia, e la nostra educazione ci fornisce ben presto dello schema logico
della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso
indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza della forma
logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore : ma
tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del sapere esatto e
formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un
bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione
chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria coeffi-
cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non può
ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi
ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che la
coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa nella
storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei sapienti;
e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed
inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora
intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la
parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira-
zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe
avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le
incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la
vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui-
stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella
definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due
funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era
tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello
spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la
natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza
precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza,
per- Labriola — Socrate. !Hl<^3 che possa dirsi certa ed evidente.
Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come
elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare
dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto
pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di
affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza
isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di
sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio
efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore
attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick-
ziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des
Gedankens, sondern aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so schreitet sie
nicht zu einem Systeme fort etc. Hegel. Da questo e da altri luoghi può
scorgersi, come Hegel avesse un concetto più schietto della filosofia
socratica, di quello che hanno formulato molti scrittori posteriori, non
escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non volerlo, parla sempre in una
maniera troppo astratta del principio del sapere, e ricade nell'errore di
Schleier- macher e di Brandis. Determinazione del valore del formalismo
logico La caratteristica, che noi abbiamo data dell'attività filosofica di
Socrate in generale, pare risponda a quello che già s'è detto da altri; e che
non serva se non a rifermare un'opinione corrente, secondo la quale So- crate
sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del
sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea del sapere sia la
scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la esclusiva ricerca del
mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell'idea, del soggetto,
dello spirito e così via (^). Senza la pretensione della novità, noi riteniamo
per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perchè at- tribuiscono
a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè
devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell'etica
socratica. Ba- Per es. Schleiermacher. La forma più esagerata è quella del
Ròtscher, il quale parla di Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit.,
passim. sterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che
Socrate avesse avuto co- scienza del sapere preso per sé stesso, come forma o
attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente di non poter trovare
un solo luogo di Senofonte che confermi questa opi- nione, ma si è poi
obbligati a fare una qui- stione oziosa su la natura empirica o a priori del
sapere socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in ultimo, si
è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per
certe ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica; mentre la
repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un
risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e semplice
esigenza delle sue con- vinzioni religiose. Abbiamo invero detto, che il valore
filo- sofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo;
ma la forma li- mitativa, con la quale abbiamo espressa que- sta opinione,
esclude di fatto tutte le caratte- ristiche alle quali può in apparenza
sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op. cit., p. 2 e seg. che ci
avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza
deter- minata, e serva a correggere l'opinione e la tradizione, ed a condurre
come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complica- zioni e le
incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia
rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il
termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confronto di Socrate
coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli
ha potuto raggiungere della sua posizione storica, si viene a confondere due
ordini di criteri del tutto diversi perchè dal giudizio che noi riportiamo su
la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di
consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto. Il valore filosofico di
Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte della sua co- (L'Alberti
specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una piena coscienza del
proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile errore, dal momento che
s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un documento biografico;
scienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti mo- tivi di natura più immediata, più
complessa, e più personale di quelli che conducono esclu- sivamente alla
conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca della sua attività ci
fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la
congettura, il processo genetico della sua coscienza filoso- fica, che è stato
impossibile d'intendere su la semplice testimonianza delle fonti storiche.
Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè
l'ac- cettazione o la critica di una tradizione teo- retica; e per questa
ragione stessa non arrivò all'affermazione astratta del principio logico della
certezza, come regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed
incon- sapevole. Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano
predisposto a sentire prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e
depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo
tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni
correnti: e quella naturale pre-disposizione toccò il suo soddisfacimento in un
concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia
del mondo, e la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza,
la fermezza d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza
della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose
perchè riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la
sua in- telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma
costante dei giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua
alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli,
che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella
lingua e nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei
contemporanei, se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti
con- dizioni della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di
consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il
bisogno di fare entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con-
seguenza lo fece divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In
questa nostra maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un
posto na- turale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono,
e che altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni,
che si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono escluse di fatto.
Tocche- remo alcuni di questi punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto
dello Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque altra delle sue
definizioni, il contrasto Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. Vedi il Jacobs, Vermischte Schrifteii: Jene
Sitte enthalt ebeti so, wie die Liebe zum andern Geschlechte, alle Elèmente des
Edelsten und des Nichtswiirdigsten, des Lasters, des Besten und des
Schlechtesten in sich. che correa
fra la novità delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla
conser- vazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era
sussidiata dal convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il
principio normativo della consape- volezza non gli consentiva di ammettere che
la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti
potessero costi- tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello
Stato ('). Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono-
scenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad
una legit- tima ambizione politica; e questa diviene per sé stessa un dovere,
quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica
intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita
politica. Al- l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i
suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e
perfetta notizia degli obblighi spe- Mem., e Plat. Apol. Mem.,.SOCRATE ciali che spettano a questo o a
quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica
nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel
sapere. L'importanza di questa massima in- novatrice ci fa apparire l'attività
socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della
politica greca, perchè, in virtù di essa, il dritto ereditario della monar-
chia e dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico della maoraioranza erano
recisi nella loro radice e subordinati alla necessità di una generale
rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista della
consapevolezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi non
sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il presentimento di una radicale
riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul
principio della conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava Socrate, non era
qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica
amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie univer- sali e
scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la
costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere
sociali fossero determi- nate dal concetto psicologico della gradazione della
conoscenza. Il suo concetto non ha co- lorito e carattere esclusivo di una
tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esi- genze della vita per
regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle
sfere sociali, e non ne sconosce la ori- ginalità per farla rientrare nei
confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, mal- grado l'apparenza di
una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle leggi come
impreteribile; e, fedele all'antico principio ellenico della sostanzialità
dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello della comunità. E
considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di
cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna
pronun- ziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione
dell'attività dello Stato. L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il
concetto sostanziale e l'esigenza di una per- [Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7,
9. Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol.; e
Phaed.. sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag- giormente nelle
scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non deve
essere inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico, né come un segno
precursore del Cristianesimo, ma conviene sia spiegato come un progresso
teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel
sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza
dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto
pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell'esercizio
speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al manteni-
mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea fondamentale di tutti quei
dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui
l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell' individuo
all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza Come vuole
Hermann. Come vuole Baur. Vedi su questa quistione lo Zeller, Der Plato7iische
Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei citati Vortràge ecc., pp.
62-82 incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio
e lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio ed il generale ecc., perquantovarie
le loro occupazioni e diversi i finì cui sono rivolti, devono tutti convenire
nella norma dell'esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla
pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza
entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo, perchè in
tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola con- clusione, basterà qui
dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata l'esigenza di
una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a capo di ogni
pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa: e, per le
cose già espo- ste, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero,
perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teo-
ria, l'arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare che la
meraviglia, con la quale molti hanno ri- guardato il dialogo che Senofonte
riferisce con la meretrice Teodota ('), non ha fonda- (i) Mem., Ili, cap.
ii, mento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo,
che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione di
Socrate fosse la ricerca dei concetti ('), né può essere inteso come
interamente derisorio, perchè l'ironia è un momento ofenerale della
conversazione socratica, mo- stra, a nostro parere, che il mestiere della meretrice
potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio
socratico di un esercizio normale e riflesso. Quel- l'arte non destava allora
gli scrupoli esage- rati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni
divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica. Anzi,
per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne
libere un grado di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Zeller. Questa è
l'opinione di Brandis: Enhvickelungen ecc., Vedi su questo argomento Hermann:
Privatalterthilmer, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John :
The Hellenes, the history of the mannei's of the ancient Greeks, LE FORME
CONCRETE DELLA VITA ETICA a quello della donna legalmente ritenuta nelle
angustie del gineceo. E a terminare questo schizzo della coscienza politica e
sociale di Socrate osser- veremo, che egli, col rilevare l' importanza
dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli
elementi costitutivi dello stato e della famiglia. Questa veduta era allora
qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fon- dato
nella costituzione sociale dell'antica Gre- cia e già da gran tempo invalso,
che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col
lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se
ritenesse per giusta come vuole Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone
p), l'offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti
dai vari espositori noi non sappiamo affermare. Ad ogni modo, l'autorità di
Senofonte ci par- [V. Jacobs, “Vertnischte Schriften”. Meni. Crit., e Rep.. Questa
è anche l'opinione dello Zeller.] rebbe da preferire, e la maniera arbitraria
come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni
verosomiglianza. Meiners: Geschichte der Wissenschaften, pone una distinzione
arbitraria fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello che può
toccare il suo benessere interno, negando che quest’ultimo sia incluso nel
xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione di Brandis,
secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il pensiero di
Socrate. Strumpell tenta supplire Senofonte col Gorgia. Nome compiuto: Antonio
Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo, partito
socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola, Labriola su
Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della storia,
dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del
socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo
in Italia, il marxismo ontologico di Grice. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e il Vico di
Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lacida: la diaspora di Crotone -- Roma
– filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Abstract.
Grice: “Cuoco, an Italian nationalist philosopher, after reading Giamblico’s
Vita di Pitagora, concludes by stating that Pythagoras, if not Giamblico,
should be deemed – by the mere number of his disciples – the father of Italian
philosophy!” Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean, according to the “Vita
di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lacrate: la diaspora di Crotone -- Roma
– filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Abstract. Grice: “Cuoco, an Italian
nationalist philosopher, considers Pythagoras the father of Italian philosophy –
which seeing that he (Pythagoras, not Cuoco) was born in Samos, would be like claiming
that Cicero is the father of Oxford philosophical analysi!” Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lacrito: la diaspora di Crotone -- Roma
– filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Abstract.
Grice: “Cuoco, an Italian nationalist philosopher, calls Pythagoras the FATHER
of Italian philosopher – ‘even if we have to forgive him for himself NOT being
an Italian’!” -- Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean, according to the “Vita
di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lafeonte: la diaspora di Crotone -- Roma
– filosofia basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Abstract.
Grice: “Cuoco, an Italian nationalist, oddly calls Pythagoras, a notably
NON-Italian philosopher, the father of, er, Italian philosophy!” Filosofo
italiano. Metaponto, Basilicata. A
Pythagorean, according to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”).
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lagalla:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazoinale della teoria geo-centrica
– la terra al centro del universo – filosofia campanese -- filosofia italiana
-- Luigi Speranza (Padula). Abstract. Grice: “Austin was,
like many of us, up to date in modern science, and would often criticize Donne
for thinking that the Earth had four corners!” -- Filosofo italiano. Padula,
Salerno, Campania. Grice: “I love Lagalla: the fact that he was an Aristotelian
when everybody in Florence was a Platonist!” Figlio di un alto funzionario della burocrazia vice-reale.
Studia filosofia. Perdette i genitori ed e affidato alla tutela di uno zio
paterno, che lo avvia agli studi di filosofia. Volle trasferirsi a Napoli per
proseguire nella sua formazione. Si iscrive ai corsi di filosofia dello Studio
ed ebbe come maestri Stillabota, Vivoli e Longo. Affidato dal Collegio degli
archiatri a Provenzale e Caro per un periodo di tirocinio, sembra vi si fosse
condotto con una tale competenza da meritare i gradi accademici nulla
pecuniarum solutione. Grazie a Longo, divenne l'ufficiale sanitario di una
squadra navale pontificia di stanza a Napoli, con la quale si dirigge verso le
coste laziali, per giungere poi a Roma. A Roma consegue una laurea, in seguito alla quale entra al servizio
di Santori, per il cui interessamento ottenne da Clemente VIII l'incarico di
lettore di filosofia presso la Sapienza. Cura per Facciottola stampa di un
commento ad Aristotele, “De immortalitate animae ex sententia Aristotelis VII”,
manifestazione di un interesse verso la
questione dell'anima, intorno alla quale L. si interrogò per buona parte della
sua vita intellettuale e che contribuì ad attirargli sospetti di eterodossia. Altre saggi: “La circuncisione di Cristo”. Al
problema dell'anima L. dedica corsi della lettura ordinaria di filosofia, che
tenne alla Sapienza. Queste lezioni sono raccolte in “De anima commentarii”. Allo stesso argomento
è dedicato un saggio dato alle stampe da L., il “De immortalitate animorum ex
Aristotelis sententia libri III” (Roma). L., pur riaffermando le posizioni
della tradizione d’AQUINO sulla questione dell'anima umana, secondo le quali
l'anima intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta
quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli,
ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove
eternamente, ma piuttosto come forma informante. Morto Santori, s’avvicina ad Aldobrandini, entrando al suo
servizio. Conosce Cesi, al quale e legato da una cordiale amicizia. Se questa
non da luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa
richiesta da parte di L., e solo a causa della sua marcata professione
aristotelica Cesi lo presenta comunque a GALILEI quando quest'ultimo si reca a
Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al
giudizio degli autorevoli astronomi del collegio romano, nonché di influenti
membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni
incontri, durante i quali L., incuriosito dall'occhialino galileiano, lo
sperimenta ed e intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle pietre lucifere
di Bologna. Da ciò che vide, trasse spunto per due saggi, pubblicati in De
phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. GALILEI nunc iterum
suscitatis physica disputatio nec non de luce et lumine altera disputatio (Venezia). Atteso con impazienza da Galilei, che e costantemente
informato da Cesi dei progressi nella composizione, il saggio delude l'ambiente
linceo. Nel primo dei due saggi, pur
difendendo la verità ottica di ciò che mostra il telescopio, cerca di spiegare
l'irregolare -- la scabrosità della superficie lunare, detta perfetta da
Aristotele -- come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione di
un principio di regolarità -- invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni
inclusi in essi -- cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le
asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense d’etere, più
opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo saggio L.
racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, Misiani
e Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente
o una qualità reale, tratta delle pietre lucifere e, contro l'interpretazione
di Galilei, osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del
minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che
rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di
luce, poi lentamente rilasciata. Con ciò esclude che possa essere il prodotto
della riflessione della luce solare sulla terra da parte della luna. A proposito del primo dei due saggi, Galilei
medita di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso L., di cui le
note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro preparatorio.
Tale risposta non arriva, ma i rapporti tra i due divennero più stretti, forse
per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche.
In occasione dell'osservazione di una cometa, scrive il Tractatus “de metheoro
quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium” e
poiché quest'opera pare, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, e
attaccato di scarso aristotelismo. Si convence così a chiedere a Galilei e a
Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando l'occasione (la morte
di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fa niente, ma anche in
questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi. Aumenta intanto la sua
insofferenza verso gl’ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto.
La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento d’Allacci.
Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di
fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta di
trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le compromesse condizioni di salute
(soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con
complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo
portarono a rifiutare. Continua a praticare
la filosofia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari
luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere L. sulla Luna. Altre saggi: “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii
usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris
anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera
disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca
apost. Vaticana, Barb. lat.; cfr. Kristeller; cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze,
Biblioteca, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una
stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo
[Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii
laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani,
Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario istorico” (Napoli); F. Colangelo, Storia dei filosofi e dei
matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae patrum
bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina); G.
Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani,
Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini,
Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura
salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno, Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere
del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione
nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è
pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G.
Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary
bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia
napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him
Italian!” – Nome compiuto: Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un
aristotelico che dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the
earth is flat; la terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la
kryptonite, la luna, l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici,
licei, sublunary, lunary. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lagalla” – The
Swimming-Pool Library. Lagalla.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lamisco: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone – Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto – filosofia tarantina –
scuola tarantina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Abstract. Grice: “We often think of Ancient philosophy
as mainly Greek – but had it not been for Lamisco, Plato would hav remained a
prisoner in Sicily, and it would all be, to Musolini’s pride, but ITALIAN
philosophy!” Keywords. Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean and
friend of Archita di Taranto. When Plato runs into trouble in Siracusa, Archita
sent L. to rescue him – which takes him ‘two weeks and a half.’
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia Grice e Lamanna:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del risorgimento
fiorentino filosofia basilicatese – la scuola di Matera -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Matera). Abstract. Grice: “When I have a lecture in Italy on
Athenian dialectic versus Oxonian dialectic, I was criticized for having just
overpassed what the Florentines call the Florentine dialettica, which
flourished in, er, Florence!” Philosophers who appraoch Grice tend to
pigeon-hole him as ‘member of the Oxford school of ordinary language
philosophy’ – he hated that, but understood it. He spent most of his talks,
however, talking about Aristotle, Plato, Leibniz – the inventor of the
analytic-synthetic distinction --, Kant, Prichard, Stout, and making a point
about the need to approach philosophy from the stand point of the unity she
displays both latitudinally and longitudinally, in her history – making the
ffort to introjedt into a past philosopher’s shoes! So much for Oxford
parochialism! In Italy, Lamanna may be considered his counterpart or
doppelgaenger. Keywords: unita longitudinale e unita
latitudinale della filosofia. Filosofo italiano. Matera, Basilicata. Grice: “I like Lamanna – a very
systematic philosopher especially interested in the longitudinal history of
philosophy – he wrote on economics during controversial times, too!” Linceo. Fa i primi studi in seminario e poi nel Liceo
classico della sua città. Si trasfere a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna
a Messina e Firenze. Pubblica un commento alla dottrina. Autore di un fortunato
manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei.
Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli.
Stabilito, per L., che la religiosità e un'esigenza naturale dello spirito
umano, egli rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere”
(“is”) e il dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita
come razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale
e disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la
concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la
necessità dell'esistenza di Dio. Analoga antinomia gli sembra esistere tra
morale e politica che a suo avviso può essere risolta trasportando
nell'attività pratica la riconosciuta razionalità dell'ordine trascendente e
divino, che è di per sé bene assoluto. In questo modo l'operare umano si fa
etico ossia, secondo L., realmente politico, realizzandosi concretamente
nell'ordinamento giuridico e, così come nell'operare razionale si concreta la
vita morale, da questa si raggiunge l'armonia in cui consiste la bellezza.
Altri saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze), Kant, Milano, “La polizia di
Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici d’eta antica” (Firenze); La
filosofia, Firenze); “Il bene per il bene” (Firenze); “Il regno di fini”
(Firenze); Scritti storici e pensieri sulla storia, Padova; Piovani (Torino);
Piovani, Tra etica e storia, Napoli); Martano, L'esperienza speculative, in
«Filosofia», Calò, Il pensiero, Napoli, Calò, Studi e testimonianze, Matera,
Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana
Treccani. Grice: “Lamanna
was concerned about the idea of the state, which is not an easy thing. More
specifically, the concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy
for ‘i licei classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’.
– The history goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He
is the only philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism
into FASCISMO, which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own
entry for ‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The
third volume is ITALO-CENTRIC, from VICO onwards, FARLINGIERI, and notably
GENTILE to end with MUSSOLINI. The idea is presented by L. as a ‘riconstruzione
dello stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato liberale
borghese is in ruins – and although he plays with the ‘socialist state’ he does
not consider it within the realm of the proper history of philosophy when he
talks of French illuminism. So his concern is wht the idea of the state in the
liberal party – the philosophy of the laissez-faire. It provides NEGATIVE
freedom. Freedom from the other. And there is competition. Also, as he notes,
liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly ‘equal’ for every
member of society, so that liberalism only pays lip service to ‘liberale’. With
the socialist state, the problem is the opposite: the state becomes a gestore –
and there is this idea of an endless dialectic among the classes. So how does
Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato fascista’ – Had L. continued
from Kant to Fichte and Hegel, the student would be more prepared! Mussolini’s
idea of the state is Hegel’s – it is the NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks
of the ‘individui’ of this nazione, he means the Italians (not the Jews, etc.).
SO this NAZIONE however, is MORE than the sum of its individui. Individui come
and go – but the state remains. The state becomes governo. Mussolini’s prose is
machist and homosocial, and Lamanna has to lower down the rhetoric, but nothing
is said about Germany. It is ITALY which is seen as proposing this new or novel
idea of the state (after la rivoluzione fascista) with a Kantian approach.
Since L. has only read Kant seriously, he applies Kantian categories here:
Mussolini’s fascist state gives each individual POSITIVE freedom – to be a
slave to the CAPO or Duce who ‘knows’ how to command. L. quotes from CICERONE
to the effect that it is obeying the law that makes us free. The emphasis is
constantly on the azione or prassi, which is understandable since the pupils
are supposed to learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is
candid about this. When ‘I all started it’ I did not know where I was going. It
was the ANTI-PARTY movement --. L. provides the editorial. During the
ventennio, this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE
NATION, becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government
(polizia, politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even
the religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to
worthip the God of the Heroes. It is an ‘etica guerriera’ and it targets the
male – virtu, andreia. Being commanded by one know knows is a privilege. Ths is
interesting because this is conceived after the temporary successes in Africa –
Mussolini romano e africano – and before the problems of the second world war.
For the first time, Italians FEEL they are part of a NATION. The seeds are in
the Risorgimento, but this got stuck with a liberal kind of state, which only
provides negative freedom, anyway, and where the initial conditions are
unequal. Lo stato fascista does not play with parlamentarism, so Congress is
closed, and the only party is the national party. Jews are excluded from PUBLIC
service -- even if some wrote panegirici for fascism, like Mondolfo. The philosophical
foundations are found in Hegel. If Hegel concentrated all in the Kaiser of
Prussia, Mussolini does so with himself. GENTILE did not really help, although
he was the official voice of fascist philosophy --. The student of philosophy
then is taught the lessons of history (philosophy is IDENTIFIED with its
history) and indoctrinated in the final stages into a particular IDEOLOGY. The
tone is catechistic, and there is no idea of dissent. L. however emphasises
that the stato fascista still recognizes the indidivuality and the personality
of each member – as the stato comunista or socialista would not!” IL REALISMO PSICOLOGISTICO NELLA FILOSOFIA ITALIANA.
SARLO, Sarlo, nato in un paesello della Basilicata, San Chirico Raparo, venne
alla filosofia dalla medicina filosofica. E ve Io condusse intima vocazione,
oltre, e più, che esterna vicenda di casi. Già durante gli studi universitari,
a Napoli, si compiace di frequentare, colle lezioni della facoltà cui era
iscritto, quelle di filosofia: ed è, tra l’altro, uditore di SPAVENTA negli
ultimi anni del suo insegnamento. La stessa sua prima pubblicazione — un
volumetto di saggi su Darwin attesta la tendenza di lui a studiare, anche nel
campo delle scienze biologiche, le questioni più generali, quelle che sono poi
stimolo e offrono motivi alla speculazione filosofica. Questa tendenza divenne
in lui sempre più consapevole durante gli anni che passa, come medico, nel
manicomio di Reggio Emilia, dove compì ricerche psichiatriche che, mettendolo a
contatto più diretto con i problemi dell’anima, determinarono il suo passaggio
alla psicologia e alla filosofia. In questo campo non ha maestri. È un
autodidatta: dove cercar da sè, come a tentoni, la sua strada, ed è naturale
che la trova solo attraverso deviazioni, incertezze, ritorni. La sua educazione
naturalistica e l’influenza dell’ambiente culturale del tempo, impregnato di
positivismo, lo portano dapprima a seguire questo indirizzo di filosofia: e in
uno degl’organi della filosofia positivistica, la rivista d’ANGIULLI (vedasi),
SARLO fa le sue prime armi. Ma non tarda ad allontanarsi dal positivismo, a
mano a mano che venne acquistando coscienza delle deficienze di quella dottrina
cosi in ordine all’interpretazione del fatto conoscitivo come in ordine alla
fondazione della moralità e religiosità umana: deficienze, che illustra poi in
quelle Note sul positivismo in Italia, pubblicate in appendice ai saggi sulla
filosofia, una delle critiche più penetranti e conclusive che della gnoseologia
positivistica siano state fatte in Italia. La sua coscienza filosofica si venne
formand. Concorsero a questa formazione lo studio di SERBATI, i rapporti
personali o spirituali con alcuni dei più cospicui rappresentanti italiani
dello spiritualismo e del criticismo, come FERRI (vedasi), MASCI (vedasi), e,
in particolare, BONATELLI (vedasi), e, più specialmente, lo studio diretto
delle correnti più significative della filosofia, alcune delle quali egli per
primo, o tra i primi, fa conoscere in Italia. E di questa sua attività sono
frutto due saggi su SERBATI: La logica di SERBATI e i problemi della logica e
Le basi della psicologia e della biologia secondo SERBATI, considerate in
rapporto ai risultati della scienza, Roma, poi rifusi in altri lavori; volumi
di Saggi filosofici, Torino, Clausen, posteriormente anch’essi rielaborati e
rifusi; studi su filosofi sparsi in varie riviste, alcuni dei quali furono poi,
con altri di epoca posteriore, raccolti nel volume Filosofi, Firenze, La
Cultura Filosofica; saggi di psicologia; il volume Metafisica, Scienza e
Moralità, Roma, Balbi, e il volume già ricordato Studi sulla Filosofia : La
filosofia scientifica, Roma, Loescher. L’esigenza che si rivela come
fondamentale in questi studi di SARLO (vedasi), è quella di mostrare le vie per
le quali le scienze positive, e più particolarmente quelle naturali, sboccano,
per una necessità imposta dalla logica a loro immanente, in una concezione
filosofica nella quale il naturalismo è superato, cosi per il riconoscimento
dei poteri originari e irriducibili dello spirito quale soggetto conoscente e
quale persona morale, come per il coronamento del sapere filosofico in
un’interpretazione teistica della realtà universale; mentre, dall’altro lato,
la filosofia stessa, come sistemazione e critica del sapere, riceve dalle scienze
particolari continuo alimento e stimolo. E la necessità di questo connubio
fecondo, nella loro reciproca azione, della scienza e della filosofia, è
rimasta come uno dei motivi principali della filosofia di SARLO, anche quando,
nel periodo di piena maturità della sua attività di studioso, tratta i
principii del suo filosofare non più dal criticismo, di cui si sente l’influsso
neghi scritti sinora citati, ma dallo sperimentalismo, da Locke a Mill;
dall’intuizionismo, specie per il rilievo costantemente dato agl’assiomi così
gnoseologici come etici, costitutivi dello spirito umano, e apprensibili con
evidenza immediata nell’esperienza e infine dal realismo dell’Herbart e del
Lotze. Conseguita la libera docenza in filosofia a Roma, insegna questa disciplina
nei licei di Benevento, di Torino, di Roma, quando ottenne per concorso la
cattedra di filosofia teoretica a Firenze, cattedra ch’egli ha tenuto e tiene
ancor oggi con l’autorità e l’efficacia di un maestro. Fonda un gabinetto di
psicologia sperimentale, il primo del genere in Italia, e che è rimasto anche
oggi il più ricco di apparecchi. Molte e importanti ricerche vi sono state
compiute sotto la sua direzione, sebbene, in questi ultimi anni, la
potenzialità scientificamente produttiva del gabinetto sia stata assai ridotta
per le condizioni materiali veramente miserevoli nelle quali si è venuto a
trovare. Sarlo diretto la Cultura Filosofica, una Rivista che ebbe un programma
ben definito e, specie nei primi anni, fu vivacemente battagliera cosi contro il
positivismo ormai declinante, come, e più, contro il risorgente idealismo. La
sua operosità di studioso ha dispiegato con assiduità e intensità instancabile
nel campo della psicologia, dell’etica, della filosofia generale, pubblicando
poderosi volumi, ai quali specialmente noi ci riferiremo nella esposizione e
caratterizzazione della sua filosofia. Il valore della sua opera ha avuto
riconoscimento ufficiale nel premio Reale per la filosofia, conferitogli nel
1920 dall’Accademia dei Lincei, della quale egli è, dal 1921, socio nazionale.
Elenchiamo qui le opere principali del De Sarlo, escluse le prime già citate
che poi sono state rifuse nelle successive: Metafisica Scienza e Moralità.
Studi di Filosofia morale. Roma, Balbi, , 1 voi. di circa 250 pagg. in 8:
[Contiene: Il naturalismo Il telismo L’idealismo e la moralità Il socialismo
come concezione filosofica — Vita morale e vita sociale]. Studi sulla Filosofia
contemporanea. — Prolegomeni : La « Filosofia scientifica ». — Roma, Loescher.
Sarlo d’ordinario è presentato come un teista e uno spiritualista. Tale egli
stesso ha sovente dichiarato esplicitamente [Contiene : Du Boys-Reymond,
Helmholtz, Darwin, Il positivismo contemporaneo in Italia ]. I dati
dell’esperienza psichica. Firenze, Pubblicazioni del R. Istituto di Studi
Superiori, 1903, 1. voi. di pagg. 430 in-8. L’attività pratica e la coscienza
morale. Firenze, Seeber, 1907, 1 voi. di pagg. in-16. Principii di Scienza
etica, con un’Appendice su La patologia mentale in rap- perto all’etica e al
diritto. Palermo, Sandron, [1907], 2 voi. di circa pagg. 500 in-16 (in
collaborazione con Q. Calò). II Pensiero Moderno. Palermo, Sandron, [1915], 1
voi. di pagg. 410 in-8. [Contiene: a) Tre studi che possiamo dire introduttivi
: La formazione della coscienza filosofica odierna — Uno sguardo alla
filosofia. I compiti della filosofia. Altri tre studi che costituiscono come la
parte centrale del volume, la più vasta per il contenuto che abbraccia e per
l’estensione che ha: ! problemi gnoseologici nella filosofia contemporanea. Lo
psicologismo nelle sue principali forme. I diritti della metafisica, nel quale
ultimo specialmente sono sottoposti a un rapido e vigoroso esame critico i
principali indirizzi della filosofia. Altri studi su particolari problemi o
correnti filosofiche. Il significato filosofico dell'evoluzione. Filosofia e
scienza dei valori. Stillo spiritualismo. Filosofi. Firenze, La cultura
filosofica. Contiene saggi su Paulsen, Hodgson, Ward, OXONIAN Bradley, Reitike,
Hartmann, Zeller, e BONATELLI – l’uniico italiano. Psicologia e filosofìa.
Studi e ricerche. Firenze, La cultura filosofica. Contiene: Alcuni saggi di
filosofia generale, importantissimi pella comprensione della posizione di SARLO
nel campo filosofico, e della concezione dei rapporti tra filosofia e
psicologia: Psicologia. La psicologia e le scienze normative. L’esperienza
psichica. L’individuo dal punto di vita psicologico. Il soggetto. La causalità
psichica. Sensazione e coscienza. Ampi saggi di psicologia metafisica – o
psicologia filosofica, come la chiama Grice: il concetto dell'anima nella
psicologia. Idee metafisiche intorno all’anima. Saggi contenenti la materia per
un organico trattato sulle funzioni psichiche. La classificazione dei fatti
psichici. L’attività conoscitiva. L’attività immaginativa. Vita affettiva ed
attività pratica, con i quali saggi è strettamente connesso un amplissimq
saggio intorno alle determinazioni formali della vita psichica, e più
particolarmente all'azione dell’esercizio e dell'abitudine su tutte le funzioni
fisiologiche e psichiche. Appartengono a questo gruppo altri saggi. Sulla
teoria somatica delle emozioni. Sullo studio dei sentimenti nella psicologia.
Sulla percezione delle forme. Saggi di psicologia fisiologica e patologica.
Cervello ed attività psichica. L’attività psichica incosciente, Sulla
psicologia della suggestione. Le alterazioni della vita psichica. La psicologia
degl’animali. di essere. E tale, certo, egli si rivela nei suoi scritti, dai
più antichi ai più recenti. Ma, è da aggiungere subito, non è data così la
caratteristica più saliente della sua figura di pensatore: sfugge a quella
designazione gran parte, e forse la più significativa, della sua opera
filosofica; viene, comunque, lasciata cosi nell’ombra quella concezione della
filosofia e del metodo di filosofare che, meglio d’ogni altro elemento, vale a
individuare la sua posizione personale nel movimento filosofico italiano
contemporaneo. Uno dei suoi primi lavori, anzi il primo veramente organico che
l’ulteriore sviluppo del suo pensiero abbia lasciato immune da quelle
rielaborazioni più o meno sostanziali cui, come abbiamo già detto, egli ha
sottoposto altri suoi scritti di quel tempo, voglio dire il volume Metafìsica,
Scienza e Moralità, è tutto una riaffermazione dei princìpi fondamentali della
dottrina teistica cosi contro il naturalismo come contro l’idealismo assoluto.
La concezione di Dio quale Ragione che si esprime continuamente ed eternamente
nel mondo, e non come legge o ordinamento astratto, bensì come soggetto
concreto e vivente, è in quel libro svolta e presentata come la sola concezione
metafisico-religiosa, che, gravitando sulle esigenze morali più profonde della
coscienza umana, sulla considerazione del valore assoluto della persona,
contenga di queste esigenze il riconoscimento e la giustificazione più piena, e
fornisca per ciò stesso il principio di quella sistematica unificazione di
tutta la realtà, a cui la mente umana tende per sua natura, e in cui possono
essere inverate le particolari connessioni di frammenti di realtà che le
scienze della natura stabiliscono mediante le serie causali dei fenomeni. E tra
gli scritti meno antichi, due saggi, dei più elaborati e ricchi d’idee, I
diritti della Metafìsica (nel volume « Pensiero Moderno ») e Idee metafìsiche
intorno all’anima (nel II voi. di « Psicologia e Filosofia »), giungono,
attraverso l’analisi dei concetti di causa e di sostanza, alle medesime
conclusioni teistico-spiritualistiche intorno a Dio e all’anima umana. Dio è la
Causa prima, la causa che non è effetto, postulata qual condizione essenziale
della comprensibilità di qualsiasi fatto particolare in quanto anello di una
serie causale: causa la quale non può esser concepita, se non come analoga alla
sola causa vera a noi nota, che è la nostra stessa volontà in quanto libera, in
quanto costitutiva d’un cominciamento assoluto; non può quindi esser concepita
se non come volere essa stessa, e quindi come causa finale. E Dio è la Sostanza
Assoluta. l’Essere nel quale trova compiuto soddisfacimento l’esigenza del
pensiero a cui risponde il concetto di sostanza: che è il concetto di essere
che non è in altro nè per altro, ma è essere per sè, condizione e presupposto
di ogni altra determinazione, principio e unità reale di ogni molteplicità. E
anche per questo rispetto esso non può venir concepito se non in analogia con
quella che è per noi l’espressione più immediata e genuina della sostanzialità,
ossia la coscienza, che è appunto esistenza per sè, l’io che è immediatamente
percepito come principio unico di una molteplicità di funzioni e di atti, in
cui manifesta la sua realtà. E le sostanze finite possono anche esser
considerate come pensieri di Dio, e quindi come atti di quest’Essere per sè per
eccellenza, purché però l’atto e la funzione di Dio siano intesi come tali che
il termine di essi abbia un essere almeno parzialmente indipendente e sia
fornito della capacità di esistere per sè, di spontaneità e di libertà. Appunto
queste proprietà degli esseri finiti rileva e illustra il De S. nel tentativo
di determinare cosi l’origine come il destino delle anime. L’origine dell’anima
la quale implica, per un lato, la produzione di qualcosa di nuovo e, per
l’altro, la conformità a un ordine di leggi immutabile, può, secondo il De S.,
esser posta in rapporto con l’azione divina, purché questa s’intenda appunto
come sostrato reale in cui ha il suo sostegno quell’ordinamento di leggi, per
il quale, in date condizioni, nuovi fatti accadono o nuovi fini e valori
vengono realizzati. E poiché quell’ordinamento è eterno, anche delle anime può dirsi
che esistono ab aeterno, come principi potenziali, i quali aspettano che i
destini si maturino per poter divenire attuali. E una volta divenuti attuali, i
centri reali di vita e di coscienza sono, secondo il De S-, indistruttibili,
appunto in forza del pregio intrinseco che essi posseggono come sostanze: onde
l'affermazione dell’immortalità di tutte le anime. È innegabile, dunque, che
del problema metafisico per eccellenza SARLO presenta costantemente una
soluzione conforme, nei suoi principii fondamentali, al teismo e spiritualismo
tradizionale. Ma bisogna subito aggiungere che nella trattazione di questo
problema della realtà egli è sempre consapevole del carattere meramente
congetturale di quella soluzione, quantunque questa gli sembri meno inadatta delle
altre a dare dei fatti e della realtà conoscibile una certa quale
interpretazione sistematica. Egli non si nasconde mai le oscurità che si
oppongono alla piena intelligibilità dell’Assoluto: non dissimula le antinomie
tra le quali la ragione umana si dibatte ogni volta che pretende di dare della
realtà ultima una definizione esauriente. E’ troppo persuaso dello scarso
valore dimostrativo che possono avere le analogie in base alle quali noi
trasportiamo dal finito all’infinito o estendiamo da una ad altra sfera di
realtà i nostri concetti, perchè si possa credere che egli s’illuda sulla
portata effettiva di quelle ipotesi, anche se l’intimo convincimento suo della
preferibilità di quelle ad altre ipotesi dia talora alla sua trattazione un
tono che può parere alquanto dommatico. Le riserve prudenziali che spesso
interrompono la sua trattazione di tali problemi potrebbero anzi indurre a
ritenere ch’egli sia in fondo un agnostico in fatto di metafisica: ed egli non
disdegnerebbe certo questo epiteto, se per agnosticismo s’intende la
persuasione che il mistero dell’universo è e rimarrà ineluttabilmente un
mistero per la mente umana. Agnosticismo, che ben si concilia in lui con la
fede — questa, si, veramente dommatica nel senso migliore delia parola con la fede
sulla validità assoluta dei princìpi razionali, con l’affermazione che nel
fondo della realtà è la Ragione : si concilia, perchè, data appunto
l’ind'pendenza relativa delle coscienze finite dall’Essere assoluto di Dio,
possono da ognuna di quelle essere colti soltanto frammenti della razionalità
in cui questo si rivela come immanente all'universo. È uno dei caconi della
maniera di filosofare del De S. questo, che l’esigenza dell’unità, la quale è
essenziale alla ragione e si esprime nel suo grado più alto nella posizione del
problema metafisico, non può e non deve essere sodisfatta con l’eliminazione
delle differenze che la realtà presenti e la ragione stessa riconosca come
irriducibili, anche se non riesca poi facile o possibile alla mente umana
stabilire come questa molteplicità irreduttibile possa esser ricondotta o
comunque messa in relazione con quel principio reale di unità assoluta che è
Dio. Cito due esempi caratteristici, relativi al concetto fondamentale di
sostanza. Della sostanza, come s’è visto, noi abbiamo, secondo SARLO., una
conoscenza immediata nell’apprensione del nostro io, in quanto questo è un
essere per sè e si manifesta nei fatti psichici come in atti suoi, senza
esaurirsi in nessuno di essi. Da ciò parrebbe lecito dedurre che il mondo sia
costituito di sostanze omogenee, ossia di esseri che siano per sè come unità di
coscienza, anche se tra le varie sostanze si debba stabilire una differenza di
grado: parrebbe cioè giustificato il monismo spiritualistico. Invece il De S.
dedica due saggi ad una critica stringente di questa soluzione del problema
metafisico, che pur parrebbe la più conforme ai suoi supposti spiritualistici
(// monismo psichico e Sullo spiritualismo odierno, nel volume « Pensiero
Moderno »). È vero, egli dice, che tutto ciò che esiste, per il fatto che
esiste, agisce in una data maniera, e noi non possiamo rappresentarci codesta
attività che facendo uso di nozioni attinte alla nostra esperienza intima, e
che quindi in ultimo siamo sempre spinti a identificare l’esistenza con una
forma, per quanto attenuata, di psichicità. Ma l’analogia non deve far perdere
di vista le profonde differenze esistenti se non altro tra il modo di
comportarsi degli obietti e fatti costituenti la natura esterna e quello degli
esseri e processi psichici. Anzi, per il De S., a rigore non basterebbe opporre
al monismo, sia esso materialistico o immaterialistico, il dualismo : sarebbe
più logico parlare di pluralismo senza aggettivi, esprimente una pluralità di
energie e di attività tanto differenti tra loro,' che a rigore non possono
essere accomunate nè sotto la rubrica spirito né sotto qualsiasi altra rubrica.
Come e perchè esista quel dato numero di principii, cornee perchè esistano
quelli e non altri, non è possibile dire: è un fatto che va constatato, e non
si può e non si deve spiegare; come vanno indagate, constatate e descritte le
varie maniere di agire e reagire reciprocamente di questi vari esseri, ma non
si può presumere di spiegare, nel vero senso della parola, come e perchè si
stabilisca la connessione reciproca di tali esseri che sono esistenti per sè,
sebbene nelle maniere speciali di agire e reagire essi affermino e rivelino la
loro esistenza. Ma vi ha di più: la sostanza vivente e, più in particolare, la
sostanza psichica esiste ed agisce in quanto si sviluppa. Ora uno dei saggi più
penetranti del De S. (Il significato filosofico dell'evoluzione, nel volume Il
Pensiero) è dedicato all’analisi del concetto di evoluzione, ed è uno dei più
significativi per dimostrare come nella concezione metafisica del De S. si
conciliino un temperato razionalismo e un prudente agnosticismo. Il concetto di
evoluzione, lungi dall’essere — come vuole, ad es., l’hegelismo — un principio
esplicativo, e lungi dal dare un’espressione compiuta della realtà ultima, ha
bisogno esso stesso di venir reso intelligibile. E l’analisi critica di tal
concetto rivela la presenza in esso di vere e proprie contradizioni, che non
possono essere eliminate se non considerando lo sviluppo non già come il prius
della realtà, ma come qualcosa di accessorio e di secondario. Il processo
evolutivo, mentre implica necessariamente il tempo, esige l’illusorietà del
tempo; mentre vuol essere creazione, implica già la preesistenza del termine a
cui arriva; si può leggere in esso, almeno post factum, la rispondenza a un
ordine razionale, ma chi dice razionalità, dice estra- temporaneità. Ogni
evoluzione implica dunque qualcosa di assoluto, di perfetto, di stabile, che
rappresenta il principio vero dell’evoluzione. Ecco il risultato, positivo, certo,
cui conduce l’analisi del concetto di evoluzione: ma è una certezza che fa
sorgere nuovi interrogativi: allora, ci si domanda, come e perchè i reali
concreti e finiti sono cosi fatti da dover attuare i fini solo mediante il
processo evolutivo, come e perchè l’ordine si realizza per gradi e attraverso
lo sviluppo? Il che equivale a domandarsi come e perchè esistano esseri finiti
che si trovano con l’assoluto in quegli speciali rapporti. E a questi
interrogativi non è possibile rispondere: ed ecco come, conclude il De S.,
l’evoluzione è un aspetto del « my- sterium magnurn » della realtà. Il problema
dell’evoluzione reale conduce al problema del tempo, e come questo resulta
dalla connessione del flusso con la permanenza, della successione con la
durata, così l’evoluzione poggia sul rapporto del divenire o variare con ciò
che è immutabile, permanente e eterno. Compito df;fa filosofia, dunque, di
fronte al problema più propriamente metafisico sembrerebbe essere, per SARLO,
quello di rendere chiare e in un certo senso acuire e dimostrare insuperabili,
piuttosto che superare, le difficoltà che quel problema offre alla mente umana;
di illuminare i limiti di essa, piuttosto che additarle un varco alla
conoscenza piena dell’Assoluto. Ma non è questo, per il De S., l’unico compito
della filosofia: o meglio, per assolvere questo stesso compito, per condurre la
mer*e umana appunto a queste posizioni che sono al margine del mistero, a
queste che possono dirsi frontiere della conoscenza umana, e per dimostrare che
sono frontiere invalicabili, la filosofia deve, secondo il De S., percorrere il
dominio stesso che innanzi alla conoscenza si stende, di qua da quelle
frontiere: ed è il dominio dell’esperieza nel senso più pieno e più ampio di
questa parola. Prima della dialettica trascendentale e quindi prima della
critica della ragion pratica con i suoi postulati, vi è e vi deve essere una «
Estetica » e una «Analitica», per servirci della terminologia usata da Kant, a
designare un atteggiamento di pensiero analogo, per questo rispetto, a quello
criticistico, anche se, come vedremo, muova da supposti e segua un.
procedimento e giunga a risultati profondamente diversi. L’attività filosofica
di SARLO ha avuto sempre, sin dalle sue prime manifestazioni, un’impronta di
positività, disdegnosa di ogni audacia speculativa, derivante così dalla tempra
del suo spirito come dalla sua educazione scientifica, oltre che dal
convincimento del valore nullo di ogni concezione che non sia un portato
necessario della critica della conoscenza positiva e non abbia quindi una larga
base empirica. Ma questo convincimento, si può dire, si è venuto in lui sempre
più radicando col maturarsi del suo pensiero, sino a divenire il motivo
fondamentale sempre più insistente del suo filosofare; sì che con questa
designazione appunto di filosofia dell'esperienza egli ama contrassegnare la
sua dottrina e il suo metodo, in recisa opposizione alla speculazione
idealistica dei neo hegeliani, che si è andata sempre più affermando in Italia.
Si direbbe che il diffondersi di quell’antiempirismo dialettico ch’egli
considera un vero « contagio » delle menti, l’abbia indotto ad accentuare
sempre più la necessità di ricorrere a cautele immunizzatrici, in un contatto
sempre più stretto, e più esclusivo, della filosofia col sapere empirico; di
ricondurre la filosofia, come in rifugio sicuro, in quei confini entro i quali
essa possa mantenere il carattere di scienza, essere, ai pari delle altre
scienze, un prodotto dei processi logici comuni della mente umana, anziché
l’espressione — mistica o lirica che sia, notevole quanto si voglia per novità
e originalità, ma non suscettibile d’una dimostrazione razionale —
l’espressione, dicevo, di una coscienza e quasi d’un temperamento individuale
traverso il quale la realtà si rifranga. E inaugurando, nello scorso ottobre,
l’ultimo Congresso italiano di filosofia a Firenze, giunse alle affermazioni
estreme che le attuali condizioni della cultura filosofica in Italia esigono un
più o meno lungo periodo di astinenza dall’alta speculazione, e che non il
problema filosofico, quello metafisico intorno alla natura della realtà ultima
e assoluta, ina / problemi filosofici particolari, o meglio questi prima e con
più fiducia e anzi con più sicurezza di successo che quello, e come condizione
per la stessa impostazione non che per ogni tentativo di soluzione di quello,
meritano di essere oggetto dell’indagine filosofica. Ma con ciò, si può
osservare, non è stato sacrificato proprio quello che è il carattere distintivo
del sapere filosofico rispetto alle scienze particolari, e che è appunto la
determinazione della relazione dei distinti, il riferimento della molteplicità
delle distinzioni a un principio unitario? SARLO risponde che la filosofia è
aspirazione alla unità dell’Essere, senza che perciò il filosofo debba
trasformarsi in un allucinato dell’unità. La varietà e la inconciliabilità dei
tentativi compiuti nella storia della filosofia per unificare i reali e-le
conoscenze e per dedurre la complessità dei fatti da un unico principio, sta a
dimostrare, secondo lui, che all’unificazione si giunge colmando con
l’immaginazione le lacune della conoscenza certa e dimostrabile. Gli si può
replicare con l’obiezione consueta, che la vanità di quei tentativi risulta
dall’aver cercato la unità nell’oggetto invece che nel soggetto, nella natura
(o in Dio, che è lo stesso) invece che nello Spirito. Ma il De S. ribatte che
anzi appunto attraverso quel riferimento degli oggetti al soggetto conoscente,
appunto attraverso quella unificazione, diremmo, metodologica e gnoseologica,
di tutto il reale nell’io — che è propria del sapere filosofico —, si rivela la
irriducibilità, diremo, ontologica degli oggetti e dei valori. Infatti, per il
De S., se da un lato la filosofia non può non scindersi in una molteplicità di
discipline, fondate su principii irriducibili (essere e valere, p. es.),
dall’altro lato queste hanno caratteri comuni, che valgano a fare di esse
appunto un unico gruppo, quello delle disciplini; filosofiche. E questi
caratteri comuni sono: I) determinazione dei concetti universali, attraverso i
quali la realtà può essere razionalizzata; 2) riferimento di tutta la realtà
allo spirito del soggetto, in cui e per cui l’esperienza in ogni sua forma si
costituisce. Due caratteri, questi, che sono per il De S. strettamente uniti e
come interdipendenti: perchè le idee universali — ossia le nozioni metafisiche
fondamentali — intanto assurgono a quel grado di fecondità per cui
rappresentano i mezzi di razionalizzazione della realtà, in quanto o sono il
risultato della giustii.jata estensione a tutta la realtà di concetti che
abbiamo direttamente appreso nella coscienza (sostanza, fine, causa), ovvero
sono il prodotto della riflessione sui modi in cui la realtà diviene
intelligibile e acquista consistenza nella mente umana. Lo spirito, in quanto
termine comune di riferimento di tutti gli elementi e fatti della realtà, viene
ad occupare una posizione centrale nel mondo, e la psicologia, come scienza
dello spirito, costituisce il terreno di incontro delle diverse discipline filosofiche.
Si è detto, la psicologia come scienza dello spirito : e di questa
determinazione v’è bisogno per non cadere nei facili equivoci cui può dar luogo
la parola psicologia o psicologismo. Già nei 1903, nel suo poderoso volume I
dati dell'esperienza psichica, il De S. insisteva sulla profonda differenza
esistente tra la psicologia come scienza empirica e la psicologia coinè scienza
filosofica. La prima, quale si è venuta costituendo negli ultimi decenni,
studia l’anima umana come un « obietto» tra gli altri obietti della natura, ha
aspetto e procedimento di una scienza naturale e non mira che alla spiegazione
causale dei fenomeni. Per essa la vita psichica è un complesso di « stati » di
coscienza: i quali, sì, implicano tutti una certa coscienza dell’io (in maniera
che per il De S. non è possibile una psicologia « senz’anima », anche se sia
psicologia empirica): ma il soggetto non è còlto, da questa, in funzione, ossia
nella sua attività tendente a determinati scopi. Si tratta di una considerazione
statico di dati, a cui il concetto di atto è necessariamente estraneo; di una
considerazione che tende a fissare i rapporti condizionali dei vari ordini di
stati psichici e a ridurre il complesso al semplice. La psicologia empirica
deve quindi limitarsi all’«analisi morfologica» della coscienza, escludente
qualunque funzionalità e quindi qualunque dinamismo. Ora « lo spirito — dice
Sarlo — non è una cosa tra le altre cose, ma è il mezzo di rivelazione della
realtà. Come tale lo spirito è universale: universalizza sè stesso nelle sue
funzioni ed universalizza per ciò stesso l’obietto a cui è rivolta la sua
attività ». Ecco perchè lo spirito può considerarsi come in una posizione
centrale rispetto a tutte le cose: e la scienza che lo studia, ossia la
psicologia come “ fisiologia „ dello spirito, è necessariamente scienza
filosofica. Nella considerazione funzionale dello spirito s’impone il concetto
di valore e quindi di fine. Le funzioni dello spirito mercè i loro atti
oggettivano i dati e stati soggettivi; perchè sono determinazioni che
qualificano, sì, il soggettò, ma lo qualificano in rapporto all’oggetto, e
danno quindi luogo a ciò che è universalmente valido, a quelli che sono i
valori oggettivi. La verità, il bene, il bello non sono dei dati o dei fatti: sono
degl’ideali, sono appunto valori, distinti da ogni altro valore unicamente
soggettivo per questo carattere, che sono forniti di una speciale necessità che
è la necessitàdi diritto ben diversa dalla necessità di fatto degli stati
psichici. Quest’ultima denota soltanto che uno stato è inevitabilmente
determinato, nella sua insorgenza, da certe condizioni, una volta che queste
siano date, cioè siano determinate da altre condizioni, e così via; denota cioè
che uno stato o un fatto psichico ha sempre la sua ragione d’essere in altro.
Ma è indifferente al valore di quello stesso stato o fatto, se per valore
s’intende ciò che ha la ragion d’essere in sè e non in altro ossia un valore
incondizionato e assoluto, ciò che deve essere anche se le condizioni dell’essere
non sussistano e quindi la realtà non sia ad esso adeguata. La necessità
psicologica abbraccia indifferentemente nella sua spiegazione così il valore
come il disvalore, così il vero, il bello, il bene, come l’errore, il brutto,
il male. Una tale distinzione di valore, come distinzione obiettiva e
universale, non si può avere se non mediante il riferimento alle leggi
costitutive delle funzioni originarie ed essenziali dello spirito, leggi non
meccaniche, superiori anzi al meccanismo psichico, perchè essenzialmente
teleologiche, indicanti cioè la maniera in cui quelle funzioni agiscono ogni
volta che raggiungono il termine che è costitutivo della loro natura
spirituale, leggi rivelanti la loro natura attraverso una forma di evidenza che
è indizio della loro necessità e universalità. Le leggi logiche e gnoseologiche
definiscono la natura del pensiero, le leggi etiche quelle della volontà, le
leggi estetiche quelle della fantasia. Sono principii o assiomi i quali
significano che il pensiero, il volere e la fantasia in tanto meritano
veramente questo nome e in tanto raggiungiamo il termine che ad esse è proprio,
in quanto si esplicano nel senso indicato da quelle leggi piuttosto che in
altro senso. La distinzione tra psicologia empirica, come scienza dell’anima —
morfologica, naturalistica e la psicologia come scienza dello spirito —
funzionale e filosofica, così nettamente affermata dal De S. nell’opera su
citata del 1903, è forse stata successivamente attenuata in altri scritti, nel
senso che, a suo giudizio, la conoscenza del meccanismo psichico risulta utile
alla determinazione dei modi in cui lo spirito si eleve al di sopra di esso r e
reciprocamente la conoscenza dei fini dello spirito è indispensabile per
l’apprensione esatta del meccanismo che serve di mezzo al raggiungimento di
t'°i. Ma l’attenuazione si riferisce ai rapporti tra le due considerazioni
dell’anima e non elimina con ciò la distinzione. E comunque il De S. non ha mai
cessato di differenziare nettamente ed energicamente il suo psicologismo da quello
naturalistico, che considera i valori dello spirito come « o applicazioni di
leggi psicologiche già operative in altre direzioni, ovvero particolari,
originarie manifestazioni dell’attività psichica, le quali però attingono il
loro significato dall’essere effetti necessari di certe cause psichiche o
risultati inevitabili di processi mentali naturali, e non già dal rispondere a
certi fini od esigenze valide anche se non mai realizzate». Si leggano
specialmente, in proposito, i saggi Lo psicologismo nelle sue principali forme
(nel voi. < Pensiero Moderno »), Vecchia e nuova psicologia, La psicologia e
le scienze normative, e La classificazione dei fatti psichici (nel I voi. di «
Psicologia e Filosofia »). Lo psicologismo di SARLO . non è dunque naturalismo,
ma non è neppure immanentismo: offre anzi a lui il mezzo per affermare e
dimostrare, contro ogni forma d’idealismo immanentistico, il suo realismo
gnoseologico. Se nella determinazione di ciò che è l’essere e, in genere, di
ciò che è oggetto di conoscenza, il De S. ritiene di dovere attenersi ai
criteri generali su esposti del suo psicologismo, non è già perchè egli ritenga
che la psiche e i processi psichici costituiscano la stessa realtà, anzi lo
stesso essere, ma è solo in considerazione delle prerogative che, in ordine
alla conoscenza, sono proprie dell’esperienza psichica di fronte ad ogni altra
forma di esperienza. E queste prerogative sono due: 1) innanzi tutto la così
detta esperienza estèrna si rivela e acquista consistenza sempre attraverso l'interna,
perchè ciò che è direttamente percepito, anche in quelli che sono comunemente
detti oggetti esterni, è sempre il contenuto d’un atto psichico; l’esperienza
interna presenta la nota dell’evidenza (evidenza di fatto) derivante dalla
coincidenza del percepire col percepito; e perciò l’esperienza psichica
rappresenta il vero fondamento per la constatazione di qualunque esistenza
reale, e quindi di ogni sapere empirico. 2) In secondo luogo, l’esperienza
psichica è il solo tramite attraverso il quale tutto ciò che è (reale o
pensabile che sia), l’essere in generale ci si può rivelare. L’io
distinguendosi da tutta la realtà traspare a sè medesimo, e insieme tutta la
realtà diviene trasparente attraverso di esso. Nulla esiste che sia
propriamente nell’io, tranne l’io stesso, e insieme, in un certo senso, nulla
di cui si può discorrere esiste al di fuori dell’io, perchè la cosa, per essere
affermata e riconosciuta, deve in qualche maniera esser presente alla
coscienza. In questo consiste ciò che si può chiamare funzione rappresentativa
della mente. Ma proprio da questo carattere essenziale alla mente il De S.
deriva la necessità di affermare la trascendenza dell’oggetto rispetto alla
mente che lo afferma e lo pone. Noi, egli dice, arriviamo, è vero, al concetto
di essere e di obietto solo mediante la riflessione sull’atto di
riconoscimento: ma questo in tanto è tale, in quanto è provocato da qualcosa di
diverso da sè. La mente, non contenendo la realtà come tale, nè identificandosi
con essa, non può giungervi se non attraverso qualcosa che rappresenti o
sostituisca la realtà medesima. Le rappresentazioni mentali forniscono i segni
in base a cui l’intelletto costituisce la realtà. La realtà, si può anche dire
che sia « percipi « e « intelligi », purché con ciò non si voglia significare
che l’essere si esaurisca nel fatto di essere percepito e inteso, ma solo che
non si ha modo di definire quest’essere prescindendo dalle sue rivelazioni
nella coscienza individuale. La conoscenza vale sempre per altro, si riferisce
sempre ad altro. Non che si tratti di una specie di corrispondenza tra
l’obietto trascendente e la rappresentazione mentale — come grossolanamente si
ritiene da molti critici di tale concezione —, quasi fosse ammissibile
un’apprensione dell’oggetto qual’è in sé al di fuori della coscienza e quindi
un confronto tra la Cosa e 1 idea- L affermazione della trascendenza è imposta
dal bisogno di dare un senso alla funzione conoscitiva qual’è còlta in atto, al
fatto conoscitivo nel suo significato e nell’intendimento che lo anima. Certo,
per il De S., non si deve con Jiò pregiudicare la soluzione del problema
metafisico della costituzioile intima della realtà ultima. La metafisica può
anche giungere alla conclusione che la realtà, divelta da qualsiasi rapporto
con la coscienza, è un non senso, che tutto ciò che esiste, esiste in quanto è
connesso con una coscienza. Ma questo rapporto metafisico non può essere
identificato col rapporto gnoseologico tra obbietto e coscienza in quanto
conoscente. La coscienza nel riferimento alla quale può farsi consistere la
realtà di tutto ciò che è, non è certo la coscienza individuale del soggetto
che conosce questa realtà e la conosce riferendola a sé come altro da sè: anche
quando si sia ridotta metafisicamente la realtà a coscienza, tale coscienza
rispetto al soggetto conoscente, a questo o quel soggetto, è sempre un reale,
un oggetto, è sempre appresa da esso come altro da sè. Il quale ultimo punto
non potrebbe essere negato se ì.'in dimostrando che la distinzione delle
singole coscienze è illusoria e che i rapporti tra gli obietti costituenti
l’universo sono identici ai rapporti tra i fatti psichici di ciascuno. Questa
dimostrazione, per il De S., non può essere data: e ne vedremo il perchè, tra
poco, a proposito della natura del soggetto come reale. E, comunque, allo
stesso modo che la soluzione del problema gnoseologico non deve accogliersi
come tale da contenere o assorbire in sè la soluzione del problema metafisico,
cosi questa — che, d’altronde, può essere solo punto d’arrivo dell’indagine
filosofica, e irta, come s’è già detto, di difficoltà e oscurità d’c^ni sorta
—, non può e non deve pregiudicare la soluzione del problema gnoseologico, sino
a eliminare ciò che è costitutivo del fatto della conoscenza, la dualità di
soggetto e oggetto. L’esperienza psichica — l’abbiamo già detto — è, per il De
S., costituita di atti : e perciò anche il pensiero è atto. Ma chi dice atto,
dice qualcosa che accade nel tempo, qualcosa che sorge e si dilegua in un
determinato punto della durata. E allora, secondo il De S., non si può sfuggire
a questo quesito: se tutta l’esperienza psichica si risolve in un complesso di
atti e se in conseguenza tutto ciò che può essere conosciuto non lo può che
attraverso atti, come é possibile arrivare al concetto di ciò che non è atto,
al concetto, poniamo, di una relazione universale e necessaria tra idee, com'è
possibile arrivare al concetto del mondo della pensabilità, che esclude
qualsiasi elemento di efficienza, di azione reale, e che non è nel tempo? Appunto
per rispondere a questo quesito, occorre negare l’immanenza o l’inclusione
dell’oggetto nell’atto psichico corrispondente. Mentre vi sono contenuti di
coscienza i quali si moltiplicano come si moltiplicano i centri di coscienza,
ve ne sono altri che, pur essendo in speciale rapporto con i primi, rimangono
unici e anzi non sono concepibili che come unici. E anche quando agli obietti
in quanto parvenze non è attribuibile nessuna consistenza reale, non è lecito
affermare che essi si identifichino con gli atti stessi, giacché anche in tali
casi è sempre necessario presupporre ddle condizioni indipendenti atte a
provocare l’esplicazione dell’attività psichica riconosciuta poi come
illusoria. L’esistenza di siffatte condizioni è un presupposto ineliminabile :
o l’attività psichica ch’esse hanno provocata è adeguata alle condizioni
medesime, e allora si è autorizzati a identificarle con obietti reali, aventi
un’esistenza indipendente; o tale esplicazione è inadeguata, e allora s’impone
la necessità di ricercare quale forma di realtà e di esistenza possa essere
attribuita a quelle condizioni. Ma come si può decidere se vi sia o no
adeguazione dell’atto all’oggetto? Qui il De S. insiste sulla distinzione tra i
due ordini di oggetti conoscibili: gli obietti concreti e individuali (con le
loro qualità) da una parte, e gli elementi ideali o intelligibili, dall’altra.
L’esistenza è fornita sempre dall’esperienza: o è dato sensoriale, o è dato
della coscienza, e non può non occupare tempo ; l’intelligibile, invece, è sempre
formulabile per mezzo di un rapporto o di un complesso di rapporti, ed è
estraneo alle vicende del tempo. E il fondamento della cognizione, in rapporto
a questi due ordini di obietti, è da un lato la percezione dei fatti psichici e
di ciò che è relativo ad essi, e dall’altro la conoscenza di certi principii e
assiomi costituenti come l’ossatura della ragione; da un lato, cioè, l’evidenza
di fatto, fornita, come si è già accennato, dalla diretta esperienza che
abbiamo di noi stessi, e, dall’altro, la necessità razionale, qual’è còlta nei
principii logici. Questa distinzipne, però, non è da intendere, secondo il De
S., nel senso che l’apprensione dell’esistente e della sua qualità possa farsi
indipendentemente dal pensiero logico. Il fatto individuale non è caratterizzabile
che mediante nozioni universali; e 1 intelligibile, se può essere considerato
per sè (astratto) solo per opera della mente, è tanto intimamente connesso
(consubstanziale) con resistente, col puro fatto, che questo non può formare
oggetto di conoscenza se non per ciò che contiene di inttj ligibile. È il
pensiero che deve in certo modo investire di sè i dati'dell’esperienza psichica
per og- gettivarli affermandoli, facendone cioè termini di atti giudicativi, e
trasformarli così in reali conosciuti. Più in particolare, è il pensiero che fa
di quella sfera dell’esperienza psichica che è la sensibilità, il tramite di
una realtà trascendente la coscienza, e fa delle qualità sensoriali non
soltanto contenuti psichici — aventi la realtà stessa di altri contenuti
psichici, come sentimenti, volizioni ecc., aventi cioè resistenza che è propria
degli stati o atti di quel prototipo di realtà individuale che è l’io —, ma
fenomeni d’una realtà trascendente. Il pensiero pone e risolve il problema
della realtà di un correlato obiettivo delle q alità sensoriali, in quanto da
un Iato queste non sono meri contenuti di coscienza o creazione del soggetto —
come dimostrano la coerenza e permanenza che presenta l’esperienza sensibile e
le variazioni a cui questa può andar soggetta indipendentemente da qualsiasi
rapporto con la coscienza individuale — ; e dall’altro lato non sono cose in sè
— come dimostra la loro relatività alle condizioni subiettive, per cui è
impossibile dire chiaramente in che cosa consistano, per sè prese. D’onde
risulta che esse hanno una forma di esistenza speciale che è appunto l’essere
proprio dei fenomeni. Ora questo correlato obiettivo delle qualità sensoriali
può essere raggiunto solo per opera del pensiero e non è determinabile nei suoi
tratti essenziali che in base ai principii razionali. Il pensiero rappresenta,
pertanto, il solo mezzo per distinguere l’apparenza dalla realtà, anzi il solo
mezzo per attribuire un significato a tale distinzione. Le parvenze sensoriali,
i puri fenomeni e le forme intuitive dello spazio e del tempo non possono non
essere constatati, e quindi come pseudo-esistenze, non possono non divenire
obietti di conoscenze immediate, nella forma di giudizi percettivi (pensiero
tetico, immediato, concreto). E quando i dati così affermati si trovino in
contrasto col sistema delle conoscenze organizzate intorno ai principii
razionali, il pensiero medesimo è chiamato a decidere in ultima istanza su ciò
che va affermato come reale e ciò che va riguardato come apparenza, è chiamato
a decidere intorno all’obbiettivo e al subbiettivo. Se già l’esistenza come
tale esige, secondo il De S., l’intervento del pensiero logico, s’intende che
anche l’essenza del reale non possa, e con più forte ragione, esser determinata
che dal pensiero. Essa consiste in relazioni, nelle quali la mente traduce ciò
che dapprima è soltanto sperimentato e vissuto (somiglianza e differenza, nesso
di dipendenza, rapporti quantitativi, rapporti di azione e passione, rapporti
spaziali e temporali atti a fornire le coordinate per l’individuazione).
L’intelligibile, distrigato dal reale per mezzo dei processi intellettivi,
finisce per assumere l’ufficio di segno rispetto a ciò che è posto come
indipendente dal soggetto e come sussistente. E il progressivo sviluppo della
conoscenza è determinato dal bisogno di fissare ciò che nella realtà vi ha di
conforme alla ragione e quindi di assimilabile da essa mediante la traduzione
della realtà stessa in rapporti razionali. La credenza che l’obietto sia sempre
risolubile in elementi intellettuali è il presupposto e anzi l’anima di
qualsiasi conoscenza. La realtà esistente, dunque, non può essere posta che dal
pensiero in quanto giudizio tetico; e non può essere conosciuta nella sua
struttura se non nella misura in cui il pensiero la traduce in un complesso di
rapporti intelligibili. Ma — e con ciò Sarlo riafferma il carattere nettamente
realistico del suo razionalismo — i termini di questi rapporti e il contenuto
di quelle « tesi » non sono risolvibili in pensiero.Vi è sempre distinzione,
secondo il De S., tra lo sperimentare e il pensare, nel senso che quello non è
derivabile da questo, anche se non possa divenire sperimentare «obiettivo », e
quindi conoscere, che per mezzo dell’attività del pensiero; vi è distinzione
tra il pensiero come oggetto di conoscenza, come pensabile o pensato, e il
pensiero come attività d’un soggetto, volta a raggiungere la verità — sia
questa un dato di fatto o un’idea —, come pensiero pensante. È questa la natura
dei rapporti, il cui complesso costituisce la pensabilità del reale: da un lato
essi sono il risultato di atti (riferimento) compiuti dal soggetto, sì che,
come tali, parrebbero immanenti a una mente e quindi il prodotto di un
soggetto. Ma dall’altra parte non sono posti arbitrariamente; sono, più che
suggeriti, imposti da esigenze obiettive. Nè l’inlelligibiiità dei rapporti
viene ad essere facilitata dal riferimento di essi ad una Mente universale. Con
ciò i rapporti vengono consideratifcome creazione arbitraria di tale Mente ? E
allora ogni analogia di questa con la mente umana verrebbe ad essere
cancellata, e il ricorso ad essa diverrebbe inutile allo scopo. Vengono,
invece, i rapporti considerati come espressione di una necessità intrinseca
alla natura delle cose? E allora la Mente universale non è che il nome per
esprimere la coerenza logica, l'intelligibilità nel suo aspetto obiettivo;
i»/telligibilità che può condurre la mente ad ammettere un’Intelligenz.l!
assoluta, senza che però questa sia assunta a principio esplicativo della
razionalità: la razionalità vale per sè, indipendentemente dall’essere
insidente in una mente. Quel che noi possiamo dire, conclude in proposito il De
S. t è che i rapporti, quali possono essere studiati dall’intelletto finito
individuale, suppongono obietti (termini) nella cui proprietà hanno il loro
fondamento, e che le relazioni, realizzate in questa o quella coscienza
mediante gli atti di riferimento, sono il riflesso delle relazioni obiettive.
Il problema gnoseologico, s’è visto, non può, secondo il De S., essere
convenientemente trattato se non quando si tenga presente che il soggetto a
cui, nel fatto conoscitiva, vien riferito l’oggetto, è il soggetto individuale;
e la soluzione réalistica ch’egli ha dato al problema potrebbe essere
compromessa esclusivamente nel caso che si fosse riusciti a dimostrare, in sede
metafisica, non solo che la realtà non può esser resa intelligibile che quando
sia considerata come il pensiero di una Mente Universale, ma anche che la
distinzione delle coscienze individuali tra loro e dalla Mente Universale sia
illusoria. La dimostrazione di questo secondo punto è per il De S. impossibile.
Intanto l’aver riconosciuto che l’esperienza psichica è costituita
essenzialmente di atti, non significa per il De S. affermare che il soggetto dell’esperienza
psichica si risolve in null’altro che in un complesso di atti. È il concetto e
l’esperienza stessa di atto che rinvia per necessità al concetto di soggetto
come di un reale distinto da ogni altro reale e quindi da ogni altro soggetto.
Certo, non è possibile determinare la natura del soggetto (unità reale) senza
riferirsi agli atti ch’esso compie: ma alla variabilità degli atti non
corrisponde la variabilità dell’unità del soggetto. L’individuo non può non
aver coscienza di essere in rapporto con altro da sè per mezzo di atti da sè
stesso compiuti; ma se esso non distinguesse sè (come principio degii atti)
dagli atti stessi, e questi dagli obietti a cui gli atti sono rivolti, non
potrebbe parlare di atti suoi numericamente distinti da quelli degli altri
individui. Inoltre il soggetto si fa, si crea con i suoi atti, ma perchè possa
farsi e crearsi, occorre che vi sia un principio reale, un dato iniziale e
quindi qualcosa di già fatto. La creazione non è ex nihilo; e la stessa
potenzialità o capacità è concepibile soltanto come inerente a qualcosa di
attuale, come funzione possibile di un essere. Non può, dunque, la coscienza
essere ridotta al mero complesso degli atti e fatti psichici. Ma non può
neppure, d’altra parte, — sostiene il De S., confutando in svariatissime
occasioni la tesi idealistica —, non può neppure essere ridotta a una mera
equazione di pensante e pensato, alla pura relazione formale d’identità tra
conoscente e conosciuto. L’idealismo afferma che la suicoscienza è il grado
supremo dell’evoluzione d’un principio ideale, d’una legge, d’un universale;
quello in cui la realtà, che negli stadi inferiori si presenta come scissa
dall’idea, come essere distinto dal pensiero, come oggetto opposto al soggetto,
rivela invece la sua più intima natura, che è appunto unità e identità di
soggettivo e di oggettivo, di pensante e di pensato, di essere e di pensiero.
Quest’affermazione è per il De S. risultato d’una confusione derivante dal
significato equivoco EQUIVOCO GRICE della parola coscienza. Quando si parla di
coscienza e di suicoscienza, egli dice, bisogna distinguere tra la suicoscienza
vera e propria, fondata sulla capacità che ha l’io di ripiegarsi su se stesso e
di percepire il complesso dei fatti psichici come incentrantisi in un punto; e
la coscienza, in senso largo, come espressione dello speciale rapporto che può
esistere tra l’oggetto e l’io come conoscente. Quanto alla prima, l’equazione
di pensiero e di pensato non è che l’espressione, in termini intellettuali,
d’una esperienza vissuta sui generis, di un fatto che può essere indicato ma
non definito, perchè per sè preso oltrepassa il pensiero, e non può assumere
carattere di necessità razionale. E quanto alla seconda, la identificazione dei
due termini del rapporto conoscitivo non può ottenersi se non sostituendo
all’io empirico il cosi detto io universale o coscienza in generale o io
trascendentale. Ma osserva il De S., o con ciò s’intende quello che è comune
alle menti individuali ; e allora non si vede come si possa distinguere il soggettivo
psicologico dal soggettivo gnoseologico. 0 s’intende qualcosa che vale
indipendentemente da questa o quella coscienza empirica, che esprime il modo
come lo spirito deve operare perchè sia veramente tale, le esigenze
dell’intelligibilità significanti veri e propri compiti impditi da ciò che è
indipendente dal soggetto; e allora non v’è più ragione di parlare di io, di
soggetto, quando la soggettività si è identificata/con la razionalità, con
l’intelligibilità, che è anzi l 'oggetto della conoscenza e del pensiero
pensante. Ma da tale concezione della coscienza come di categoria delle
categorie, questo solo, secondo il De S., si ricava, che la realtà in tanto può
essere conosciuta ed essere compenetrata dal pensiero, in quanto è concepita
essa tessa come implicante pensiero. Il che poi significa che la realtà è fcosì
fatta da imporre certe esigenze alla mente individuale, ossia che nell’obietto
vi è qualcosa atto a provocare il riconoscimento. Ma il passaggio dalla
intelligibilità in quanto esigenza del riconoscimento da parte del soggetto,
alla riduzione della realtà a un processo di autocoscienza, all’affermazione
che nella realtà stessa non si trovi niente di più di ciò che è in noi stessi
quando giungiamo a identificarci e a riconoscerci, non è affatto giustificato.
L’autocoscienza, piuttosto, è già nel fondo della realtà, indipendentemente da
noi: non è dunque l’autocoscienza, quale si presenta negli individui singoli,
l’espressione genuina e compiuta della realtà. Nè vale ammettere l’autocoscienza
come potenzialmente esistente ab aeterno e attuantesi poi negli individui: si
riaffaccia allora quella suprema difficoltà contro cui, come già si è
accennato, urta sempre il pensiero umano, la difficoltà d’intendereA:ome da ciò
che è puramente pensabile, ideale, estratemporaneo, uno, si passi a ciò che è
reale, attuale, temporaneo, contingente, diverso, mutevole. Non è possibile
considerare soggetti molteplici che sono nel tempo e hanno uno sviluppo e sono
direttamente impenetrabili e incomunicabili, come determinazioni,
differenziazioni o sezioni dell’Uno, sol perchè essi hanno il potere di
superarci limiti del tempo idealmente e di elevarsi al mondo della pura
razionalità. E una riprova di questo è l’esistenza dell’errore logico, etico,
estetico che dimostra, come già si è visto, la possibilità d’una discrepanza
fra le funzioni psichiche e le categorie o principii ideali, di qualunque
ordine siano, tra la necessità psicologica e quella deontologica. Questa
distinzione tra la necessità di fatto e la necessità di diritto, tra ciò che è
ed è per opera di un soggetto reale e quel che dovrebbe essere in virtù di
principii razionali, è il presupposto da cui, è naturale, muove più
particolarmente il De S., nelle sue indagini di etica (per cui v. specialmente
VAttività pratica e la coscienza morate e i Principii di scienza etica). Per
lui tutta la vita morale ha il suo fondamento in certi principii valutativi che
si rivelano alla coscienza come forniti d’evidenza immediata analoga a quella
logica: veri e propri assiomi morali, la cui azione pervade le particolari
contingenze della vita pratica. Compiti dell’Etica sono perciò questi: a)
determinare la natura del- Vevidenza pratica (necessità e universalità) e- il
contenuto di queste condizioni essenziali nella vita morale (e per il De S.
tali principii si riducono a quelli della dignità e della perfezione personale,
della giustizia e della benevolenza); — b) porre in luce lo svolgimento storico
di tali principii, in quanto, pur essendo stati sempre operativi, hanno dispiegato
variamente la loro efficacia in relazione con il variare delle condizioni della
civiltà; — c) considerare tutte le istituzioni — per qualunque via primamente
sorte — alla luce degl’ideali etici, come organi dell’attuazione di essi. II De
S., nella trattazione di questi problemi, afferma l’autonomia dello spirito nel
senso che il soggetto è tratto dalla sua stessa natura a dare l’assentimento a
principii superiori al suo io empirico. Egli quindi ammette una forma di
esperienza morale specifica e distinta da ogni altra forma di esperienza
spirituale, scientifica, estetica, religiosa ecc. La specificità di questa
esperienza è la condizione che rende possibile una scienza etica: della quale
egli insiste nel rivendicare l’autonomia e la priorità rispetto a qualsiasi
concezione propriamente metafisica. La Metafisica ha nell’etica una delle sue
basi più solide — e a tal principio è ispirato, come abbiamo visto, tutto il
volume del De Sarlo "Metafisica, Scienza e Moralità „ — ; ma nessuna
teoria morale può, secondo lui, essere costruita alla luce di una determinata
concezione generale dell’universo, piuttosto che sulla base dell’analisi
dell’esperienza morale. Come si vede, di fronte al problema etico il De S.
mantiene fermo quello stesso atteggiamento — che abbiamo più particolarmente
illustrato a proposito del problema gnoseologico — di stretta aderenza
all’esperienza, come tramite traverso il quale soltanto ci si rivela nella sua
efficienza e nella pienezza del suo contenuto ciò è che universale e razionalmente
necessario. A coloro che trovassero troppo modesto il compito cosi assegnato
alla filosofia, il De S opporrebbe volentieri le parole che Kant scrisse
all’indirizzo dei «metafisici» del suo tempo: «Il nostro disegno può mirare a
costruire una torre alta fino al cielo: ma il materiale è appena sufficiente
per una casa, spaziosa tuttavia abbastanza per le occupazioni nostre sul piano
dell’esperienza e alta a sufficienza per abbracciare questa d’uno sguardo ». E
comunque « le alte torri e i grandi metafisici simili ad esse, intorno a cui
(sia le une che gli altri) generalmente spira molto vento, non sono fatti Der
me. Il mio posto è la feconda bassura dell’esperienza. Dalla scuola di Sarlo
usce ALIOTA (vedasi) (n. a Palermo, ora già da alcuni anni professore di
filosofia nell’Università di Napoli). Iniziò la sua attività di studioso con un
volume, assai apprezzato anche all’estero, su la Misura in psicologia
sperimentale, (Firenze, « Pubblicazioni del R. Istituto di Studi Superiori).
Nel campo più specificamente filosofico si affermò, oltre che con lavori minori
e con l’attivissima sua collaborazione alla «Cultura Filosofica» del De Sarlo,
col libro: La reazione idealistica contro la scienza (Palermo, 1912), che è una
bella battaglia in difesa del valore della scienza contro tutte le forme
d’intuizionismo, di prammatismo e d’idealismo assoluto, che tendono a svalutare
i concetti scientifici. Il motivo centrale di questa opera è che i concetti
della scienza non sonò un impoverimento della realtà, ma un arricchimento del
mondo dell’intuizione. Il concetto, infatti, non è nello schema convenzionale
che serve a comunicarlo praticamente, e che per se stesso non ha certamente
valore di realtà, ma nella sintesi di esperienze concrete che attraverso quello
schema si realizza e nella quale l’intuizione si eleva ad una superiore
potenza, inquadrandosi in un contesto più largo di relazioni, completandosi con
altre intuizioni che sfuggono alla veduta dell’attimo fuggitivo e ai nostri
sensi limitati. Questo modo d’intendere il concetto scientifico, come processo
d’integrazione dell’esperienza, che non sostituisce l’intuizione e non può
mettersi al suo posto, ma la completa ed arricchisce, già fin dal 1905, nelle
sue prime discussioni col Croce, — ora raccolte nel volume L’estetica del Croce
e la crisi dell’idealismo moderno, Napoli 1917 — l’Aliotta aveva contrapposto
alia teoria dello pseudoconcetto, con la quale il Croce innestava nel
ne^hegelianismo la dottrina del Mach intorno al valore puramente pratico ed
economico dei concetti- E questo motivo di rivendicazione del valore teoretico
della scienza è il nucleo che è rimasto costante nel pensiero dell’Aliotta
anche quando dal teismo delle sue prime Linee d’una concezione spiritualistica
del mondo (« La Cultura filosofica) — comparse poi come conclusioni della
traduzione inglese del suo libro La reazione idealistica contro la scienza (The
Idealistic Reaclion against Science, London, 1917) — egli è passato attraverso
la crisi della guerra mondiale a una concezione pluralistica del mondo. Questa
seconda fase del suo pensiero, che comincia col libro La guerra eterna e il
dramma dell’esistenza (Napoli) e si sviluppa e completa per la parte
gnoseologica nei saggi La teoria di Einstein e le mutevoli prospettive del
mondo (Palermo), Relativismo e Idealismo (Napoli 1922), Il problema di Dio e il
nuovo pluralismo (Città di Castello, 1924), è caratterizzata da un radicale
sperimentalismo, il quale però sia per i principi! da cui muove e le
conclusioni a cui arriva, sia specialmente per gli arditi procedimenti che
segue, si allontana di parecchio dallo sperimentalismo del De Sarto, come sarà
facile scorgere dalla breve esposizione che segue. La realtà, per l’A., è
l’atto stesso di esperienza che ha due aspetti, distinti, ma sempre uniti, il soggettivo
e l’oggettivo. Non posso aver coscienza di me senza distinguermi dal mondo e
dalle altre persone: l’affermazione della mia individualità implica dunque
l’affermazione degli altri individui e del mondo, da cui mi distinguo. Non ha
senso parlare d’un soggetto in sè o d'un oggetto in sè, nè di soggetti come
monadi solitarie fuori di questa relazione. L’io e il mondo e le varie anime
non esistono che nella sintesi concreta dell’esperienza, come momenti,
distinguibili, ma inseparabili, del suo processo. Questa sintesi è, per l’A.,
l’unicovivente modello a immagine del quale possiamo costruire le altre
attività reali che non ci son date all’intuizione immediatamente. E l’atto di
esperienza col suo processo di unificazione e distinzione del soggettivo e dell’oggettivo,
come dell’individuo e delle altre persone, col suo ritmo di concreta durata e
la sua intuizione dello spazio concreto, è l’unica forma a priori, soggettiva
ed oggettiva insieme. Le forme della nostra conoscenza, dunque, non sono pure
apparenze; bensì le forme stesse della realtà che si svolge, essendo questa
appunto il concreto processo dell’esperienza. Questo processo, per l’A., è
inesauribile; non ha nè principio, nè fine. Non ha senso domandarsi donde sia
derivata la esperienza. Ed è originaria la forma della sua distinzione nella
pluralità degli individui; pluralità che non esclude, come abbiamo già detto,
la concreta unità dell’esperienza, perchè nell’atto stesso in cui si coglie la
distinzione, si coglie insieme indissolubilmente l’unità dei termini distinti.
I soggetti d’esperienza son dunque originarli e imperituri nella loro eterna
correlazione. Possono da una forma oscura di vita elevarsi a una forma più
consapevole e chiara, o dalla luce della coscienza discendere nella penombra, ma
non si estinguono mai, non cessano di essere e di agire come spontanee energie
motrici del processo della realtà. Queste attività non sono originariamente
coordinate al raggiungimento d’un fine, allo svolgimento di un piano razionale
che si at- turi nella storia del mondo. La materia corrisponde alla fase in cui
esse si urtano disordinatamente in continui conflitti, dirigendosi a caso per
la loro spontaneità in tutte le direzioni. Statisticamente ne risultano medie
costanti di azioni complessive delle masse; onde l’apparente inerzia e
uniformità della materia. La vita dalle sue forme più semplici alle più
complesse è il coordinarsi di quella attività a un fine comune, che si
raggiunge provando e riprovando attraverso secolari esperimenti nell’evoluzione
biologica e sociale. E l’armonia del mondo non è mai completa, ma si va ancora
realizzando attraverso le più alte funzioni dello spirito: l’arte, la scienza,
la religione e la filosofia, che sono tutte forme diverse per le quali la vita
dell’individuo si integra progressivamente con la vita degli altri. E le
sintesi più alte si raggiungono sempre con l’esperimento: non c’è nessuna
teoria e nessun sistema che possa pretendere una giustificazione a priori: la
dialettica è arbitraria e infeconda. Agli abusi logici dei neo-hegeliani
l’Aliotta contrappone l’assoluto sperimentalismo della sua dottrina della
verità. Il vero non è nella corrispondenza a un modello oggettivo, sussistente
in sè; ma non è neppure nel processo puramente dialettico del pensiero. Una
teoria è vera se le azioni da essa suggerite riescono a realizzare un superiore
accordo delle nostre attività umane e delle altre innumerevoli energie operanti
nel mondo. E questo criterio non vale soltanto per le teorie scientifiche, ma
anche per i sistemi religiosi e filosofici che debbono sottoporsi anch’essi
all’esperimento storico. Non vi sono categorie immutabili e definitive, nè nel
mondo della natura nè in quello dello spirito. Tutte le forme di sistemazione
sono provvisorie e relative. Non c’è una verità assoluta, ma gradi diversi di
verità e realtà, secondo che realizzano forme più complete e integrali di vita
d’esperienza. L’errore, il falso non è quindi neppur esso tale in senso
assoluto; ma è una visione parziale, frammentaria, unilaterale rispetto a una
veduta più alta e più comprensiva. Tutte le intuizioni individuali, tutte le
varie prospettive sono vere e reali, ciascuna dal suo punto di vista; ma è più
vera e reale quella che riesce a coordinarle in una visione più completa da un
punto di vista più alto. E questo non esclude e cancella i punti di vista
inferiori, ma in sè li comprende integrandoli; dimodoché il progresso verso i
più alti gradi di verità è insieme un elevarsi a una maggiore ricchezza di
vita. Nel nostro pensiero è la realtà stessa che si tormenta nello sforzo di
attingere una superiore armonia. Calò (n. a Francavilla Fontana, in prov. di
Lecce) è professore di pedagogia nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze.
Rivolse la sua attenzione dapprima ai problemi morali, ma con preferenza a
quelli che più direttamente si connettono a problemi filosofici d’ordine
generale e metafisico. Il suo primo lavoro importante, infatti, è quello
intorno al Problema della libertà nel pensiero contemporaneo (Palermo,
Sandron), che contiene un’analisi molto penetrante e un’ampia e sottile critica
del contingentismo e del prammatismo e di altre correnti contemporanee come il
neo-criticismo renouvieriano; e giunge all’affermazione del potere di libertà
come attitudine propria dello spirito individuale, presupposto indispensabile
della libertà etica; attitudine che si confonde con la stessa proprietà della
coscienza di porsi come un io, cioè come centro assoluto indeducibile e
irreducibiie d’ordinamento della realtà psichica e insieme d’energia
produttrice di fatti. Altri lavori ha dedicato il Calò a esaminare particolari
tendenze dell’etica moderna, come quello su l’ Individualismo etico nel sec.
XIX, premiato dall’Accademia Reale di Napoli, un quadro vasto e vivace delle
varie forme d’individualismo affermatesi non soltanto nella filosofia ma anche
nella letteratura del secolo scorso. Di fronte ad esse il C., mentre afferma
l’obiettività e universalità dei valori morali, riconosce insieme che questi
non hanno esistenza concreta nè azione effettiva se non nella sintesi vivente
della personalità, che è per ciò da porre come il valore etico supremo, come la
sola realtà fornita d’intrinseco valore morale. Queste idee che, nei due citati
lavori, costituiscono la conclusione o i principii ispiratori dell’esame critico
di svariati indirizzi dell’etica contemporanea, furono poi sviluppate e
sistemate, in forma di trattazione teorica della coscienza morale, nel volume
Principii di Scienza etica (Palermo, Sandron), preparato insieme col De Sarlo e
scritto dal C. In esso si illustra la specificità e l’immediatezza
dell’esperienza morale attraverso la quale si rivelano i principii etici
fondamentali, contro tutte le teorie che vogliono ridurre la necessità ideale a
necessità d’altro genere — al che il C. ha dedicato anche altri scritti minori,
tra cui notevole il saggio su L’in- terpretàzione psicologica dei concetti
etici (in « Atti del V Congresso Internazionale di psicologia » Roma) — . Vi
sono inoltre definiti nel loro contenuto gli oggetti-fini dell’attività umana,
il cui va- ìore intrinseco è connaturato all’esperienza etica. Ed è dato infine
particolare sviluppo all’evoluzione storica dei principii morali, la quale si
fa consistere dal C. — come, l’abbiamo visto, dal De S. — nel successivo
chiarirsi e purificarsi di quei principii da elementi extramorali o paramorali;
nella loro più rigorosa e coerente esplicazione, resa possibile dallo sviluppo,
oltre che della sensibilità e della discriminazione etica, della cultura e del
pensiero ; nella successiva soluzione dei conflitti nei quali essi a volte
vengono a trovarsi, e nello sforzo sempre meglio riuscito di armonizzarli in
valutazioni sintetiche; nella estensione della loro applicazione a una sfera di
realtà sempre più larga. Pur occupandosi di problemi etici, il C. non ha
mancato di portare il suo contributo ad altri campi di discipline filosofiche
(notevoli, p. es., i suoi studi sulla dottrina del Brentano intorno al giudizio
tetico e intorno alla classificazione dei processi psichici, e parecchi saggi
storici e critici sul Boutroux, sul Bergson, sull’Allievo, sul Naville, sul
Ladd, ecc.). Da questi studi risulta che il C. è un seguace dello spiritualismo
realistico, e concorda sostanzialmente, in metafisica e gnoseologia, con le
idee sopra esposte del De Sarlo. Voltoli alla Pedagogia, il C. ha lavorato
sulle medesime basi. In questo campo i suoi principali lavori sono: La
Psicologia dell'attenzione in rapporto alla scienza educativa (Firenze, Tip.
Cooperativa); Fatti e problemi del mondo educativo (Pavia, Mattei e Speroni);
Il problema della coeducazione e altri studi pedagogici (Roma, Soc. ed. D.
Alighieri); L'educazione degli educatori. (Napoli, Perrella); Dalla guerra
mondiale alla scuola nostra (Firenze, Bemporad); per non citare i suoi scritti
minori, specie di storia della pedagogia, come quelli sul Lambruschini e sul
Rousseau, premessi ai volumi di questi autori, da lui stesso curati, nella
Biblioteca pedagogica ch’egli dirige presso l’editore Sansoni. Il valore e il
carattere dell’opera pedagogica del Calò furono rilevati, con giudizio non
sospetto, dal Codignola, che nel 1916 affermò essere il Calò « il più serio
avversario della pedagogia idealistica in Italia » (1). Invero, il C., mentre
ammette una filosofia dell’educazione e ne riconosce la fecondità,' non crede peraltro,
come l’idealismo sostiene, che la dottrina dell’educazione si riduca a
filosofia. Vi sono metodi relativi allo sviluppo delle attività psichiche, sia
in sè stesse sia in rapporto con quelle organiche, i quali non possono non
essere ricavati direttamente dalla conoscenza della realtà psichica e delle sue
leggi, quali si offrono all’esperienza e alla sperimentazione; vi sono norme
educative che si ricavano dalla determinazione dei fini etici dell’attività
umana, considerati in rapporto al progressivo potere d’attuazione del
fanciullo; vi sono infine tipi e norme didattiche che si ricavano
dall’esperienza storica e da necessità storiche. Per il C., perciò, la
pedagogia non può trovare la sua sicura costituzione e la sua vera fecondità di
vedute e di applicazioni che in una concezione la quale, correggendo e
integrando, riprenda la posizione herbartiana e consideri le leggi psicologiche
in funzione delle finalità etiche. L’educazione è per lui pur sempre fatto
essenzialmente spirituale, che si distingue da ogni altra forma di sviluppo o
di perfezionamento in quanto vi collabora la libera attività del soggetto
educando, e porta a un sempre più pieno uso della propria libertà e
all’acquisto sempre più consapevole di valori intrinseci alla persona. Ciò che
il C. nega è che l’azione educativa si definisca per questo solo rispetto e
sussista indipendentemente da ogni forma di eteronomia: là dove i’eteronomia
svanisce ovvero si riduce a pura materia della libera determinazione del
soggetto, si ha l’attività etica strettamente intesa, non più il processo
educativo. Per la tendenza a psicologizzare il metodo, l’educazione appare al
C. come un processo di formazione nel quale le attività del soggetto e la forma
valgono anche più dei contenuto, degli oggetti, della materia del sapere o
dell’operare, e gl 'interessi, nel senso her- bartiano, sono le forze che si
tratta di nutrire e di promuovere in Kant nella storia della pedagogia e
dell'etica, Napoli. Nonostante ciò o forse appunto per ciò — il Codignola,
facendo la storia della pedagogia italiana contemporanea (nel libro Monroe
Codignola, Breve corso di storia dell’educazione, voi. II, Vallecchi, Firenze,
p. 284), si è contentato di accennare al Calò ponendolo accanto a G. M.
Ferrari, come seguace di un «indirizzo spiritualistico eclettico»; — e questo
raccostamelo come questa caratterizzazione sono stati poi echeggiati dal Saitta
nel suo Disegno storico della educazione, Bologna, Cappelli. modo da creare la
personalità più viva e compiuta e armonica. Perciò egli ha insistito sui
diritti della cultura Jormale, senza peraltro porre nel nulla il valore degli
acquisti concreti (conoscenze e abilità), come vorrebbe fare un certo
formalismo e subiettivismo pedagogico superficiale. Ha mostrato la rispettiva
necessità e insostituibilità della cultura umana e storica e di quella
realistica e scientifica. Ha rivendicato l'esigenza d’un’educazione religiosa,
elementare e aconfessionale prima, storica poi nella scuola, confessio- sionale
nella famiglia. Infine dalla legge della storicità come aspetto essenziale
dell’anima umana, egli deduce l'immanenza dell’idea di patria alla vita dello
spirito e quindi alla sua educazione. Questa perciò non può, secondo il C., non
essere nazionale, non può cioè non curare che ideali di cultura e di moralità
traggano dalla tradi zione storica e dalla organizzata esperienza del fanciullo
forma e colore che ne facciano, traverso le coscienze individuali, elemento di
vita, di coesione, di prosperità della società nazionale. E perciò, in tutto
quel che abbia riflessi e importanza per questo fine, l’istruzione,
l’educazione, la scuolà non possono non costituire ufficio e dovere dello
Stato, che è coscienza suprema, organizzazione unitaria, garanzia conservatrice
della vita della nazione. Alla luce di questa concezione il C. ha discusso — e
non soltanto in sede scientifica, ma anche in Parlamento, dove egli ha seduto
per due legislature — problemi concreti, come quello dell’ordinamento della
Scuola media, della preparazione magistrale, della riforma universitaria, dei
rapporti tra scuola e famiglia, della coeducazione ecc., mostrando sempre
lucidità e prontezza di visione dei termini essenziali di ogni problema e dei
rapporti di esso con i principii dottrinari generali, calore vivace e
penetrazione nelle proposte di soluzioni. Lamanna (n. a Matera, in Basilicata,
professore di filosofia nell’Università di Messina) ha spiegato la sua attività
nel campo della filosofia della religione, dell’etica, e della filosofia del
diritto e della politica. Dopo alcuni studi minori sulle dottrine religiose
dello Schleier- macher, del Pfleiderer e delle scuole sociopsicologiche più
recenti, pubblicò un volume su La religione nella vita dello spirito, (Firenze,
La «Cultura Filosofica), nel quale, attraverso un ampio esame critico dei
principali indirizzi di filosofia religiosa del sec. XIX, da Kant a Blondel e a
James, si sforza di determinare quale è per lui l’essenza della religione,
intesa questa essenza come il sostrato spirituale di tutte le forme storiche
della religione, come il principio dinamico informante e determinante
l’evoluzione della vita religiosa attraverso i secoli. Per il L. la religiosità
è elemento essenziale e perenne della vita spirituale umana: è un’esigenza
irriducibile alla coscienza dell’ideale (conoscitivo o estetico o morale),
sebbene nella coscienza dell’ideale, o, meglio, nella coscienza
dell’universalità e necessità dei valori costitutivi degli ideali immanenti
allo spirito, essa trovi la sua radice. In ogni atto spirituale v’è la
rivelazione, fatta a un’autocoscienza individuale, di qualcosa d 'assoluto
(universalità e necessità dei prin- cipii della ragione, intesa questa nel suo
senso più ampio) e, insieme, di qualcosa di relativo (elementi naturali,
particolaristici e contingenti, nei quali l’universale e il necessario volta a
volta si determina, ma sempre inadeguatamente). La natura stessa della
razionalità, la quale o è tutto o è nulla, o è universale o è una
fantasmagoria, determina nell’uomo l’aspirazione ad attuare pienamente in sè e
ad estendere a tutto l’universo il dominio dell’Assoluto. Ma, d altra parta, la
presenza del «relativo» dimostra per un lato che l’oggetto della razionalità,
il vero, il bene, il bello è indefinito, e contingente e parziale e
continuamente minacciato ne è, per l’attività umana, il possesso; e per l’altro
lato che nella realtà v’è qualcosa che non dev essere, qualcosa di anormale, di
opposto alla razionalità. Da questa situazione tragica lo spirito si libera
mercè la credenza in Dio, come fondamento reale di quello che nell’uomo è
ideale, che spiega, per una parte, la validità delle leggi ideali costitutive
della razionalità, e garantisce, per l’altro, l’indefinita attuabilità di esse,
nonostante l’inadeguazione ad esse della realtà empirica. Dimostrare come dall’esercizio
stesso delle funzioni fondamentali dello spirito scaturisca necessariamente
l’idea di Dio, nell’affermazione che quel che dev’essere è, quel che pér noi è
soltanto un ideale, ha già la sua piena attuazione in una sfera trascendente di
realtà, questo è il termine a cui tendono le dimostrazioni del volume del L. I
problemi morali sono stati dal L. esaminati specialmente nei due volumi II
sentimento del valore e la morale criticistica (Firenze) e II fondamento morale
della politica secondo Kant (Firenze), a cui si collegano studi minori, Il bene
per il bene, L’amoralismo politico, L'esperienza giuridica, Il diritto
correlativo al dovere nell’idea di bene. In quei due volumi si prende lo spunto
dall’esame critico della dottrina Kantiana, rilevandovi il contrasto, così tra
il principio dell’autonomia e le conclusioni rigoristiche dell’etica in
generale, come tra le premesse idealistiche e democratiche e alcune conclusioni
assolutistiche e realistiche della morale politica; e si dimostra che quel
contrasto è conseguenza necessaria del formalismo nella determinazione
dell’ideale e del pessimismo nella considerazione della realtà, inquanto,
ipostatizzata la legislazione autonoma nella volontà in sè e nella respublica
noumenon, Kant vede nella realtà individuale e sociale null’altro che
inclinazioni al male e giuoco meccanico di passioni. Da questi rilievi e
dimostrazioni di carattere storico il L.. prende occasione per affermare la
necessità di un tramite che, eliminando il dualismo tra l’ideale e il reale,
renda possibile la compenetrazione di questo da parte di quello. E siffatto
tramite egli trova nella caratteristica funzione della valutazione morale,
rivelante con evidenza immediata oggetti della volontà forniti d’intrinseco
valore (beni universali e necessari), nell’amore attivo per i quali si
costituisce come valore supremo la personalità, e nella cui indefinita
attuabilità attraverso il succedersi delle generazioni è posta la possibilità
del progresso morale e della unificazione spirituale sempre più piena della
specie umana. Alla luce di questo principio il L.: 1) riconduce nell’ambito
della nozione di dovere —caratteristica dell’esperienza morale — anche quegli
elementi che in opposizione al rigorismo kantiano son posti in rilievo nella
concezione morale dell’* anima bella» (Schiller e Fics), a proposito della
quale egli fa un ampio esame dei rapporti tra la funzione etica e quella
estetica. 2) Illustra l’ordinamento giuridico come tecnica per l’ordinamento
morale: confutando i tentativi di ridurre il diritto a qualche concetto
estramorale, ne trova la radice nell’idea di bene morale e nella correlatività
al concetto di dovere, in quanto l’idea di lecito scaturisce dalla coscienza
della legittimità di respingere il limite e l’ostacolo — postoda altri individui
— all’attuazione di un bene conforme a un principio etico riconoscibile anche
da questi ultimi: onde la conclusione che se il contrasto è occasione per
l’insorgenza della coscienza del diritto, la sostanza ideale di questo è
Varmonia, Y accordo-, e da questo punto di vista sono idealmente giustificati
gli elementi empirici costitutivi della giuridicità (potere supremo e
coattività). Afferma, infine, la sovranità della morale in politica, mostrando
come, entro l’amb'to stesso di una rigorosa moralità politica, possano essere
pienamente sodisfatte quelle esigenze alle quali l’amoralismo politico dà il
massimo rilievo; e dimostra, rimettendo in valore alcuni elementi delle
concezioni giusnaturalistiche, il valore deontologico e il concetto ideale di
certe nozioni della coscienza politica moderna (come volontà generale,
contratto originario, società dei popoli ecc.). ENZO Bonaventura, libero
docente e incaricato di psicologia nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze
e assistente del De Sarlo nel Laboratorio di psicologia sperimentale, dopo
alcuni scritti minori di psicologia e di logica, pubblicò un grosso volume su
Le qualità del mondo fisico: studi di filosofia naturale (Firenze, «
Pubblicazioni del R. Ist. di St. Sup.), in cui i dati della fisica, della
chimica, della fisiologia non dirò solo che siano largamente utilizzati, ma
costituiscono addirittura la base per la soluzione del problema, se sia o no
possibile spiegare le differenze qualitative tra le diverse energie fisiche
riducendole ad un unico tipo di energia: problema che il B. risolve in modo
negativo, dimostrando che la riduzione delle molteplicità qualitative delle
energie fisiche ad un’unica forma nel senso del meccanismo e di taluni
indirizzi energetici, è illusoria. Posteriormente egli ha volto la sua attività
più in particolare agli studi e alle ricerche di psicologia, compiuti, nel
laboratorio diretto dal De Sarlo, coi metodi rigorosi propri della psicologia
moderna; ma la ricerca psicologica sebbene abbia anche, per lui, un valore in
sè stessa, come ricerca scientifica, e un valore sociale, per le sue
applicazioni, è stata ed è sempre, nell’economia dal suo pensiero, il punto di
partenza e di appoggio per salire verso la filosofia. Tra i problemi
psicologici, oltre ad alcune questioni di metodo (come queile del valore
dell’introspezione e- delle sue illusioni, a cui è dedicato il volume
intitolato appunto Ricerche sperimentali sulle illusioni dell'introspezione,
Firenze), quello che lo ha più attratto e su cui ha più lavorato, è il problema
della percezione, concepita come elaborazione intellettuale dei dati
sensoriali, e in ispecie della percezione dello spazio e del tempo: problema
che da un lato connette la ricerca psicologica con concezioni d’importanza
fondamentale per la fisica e per la matematica, dall’altra forma il punto
centrale della teoria della conoscenza. Intorno a questo problema egli ha
lavorato da vari anni, sia sottoponendo a revisione critica tutto il lavoro
sinora compiuto sull’argomento, sia compiendo egli stesso ricerche sperimentali
per chiarire quei punti che ancora gli sembravano non abbastanza illuminati.
Alcune di queste ricerche (concernenti l’attività del pensiero nella percezione
tattile dello spazio; i mezzi coi quali si stabilisce e i limiti entro i quali
si contiene l’accordo tra dati spaziali visivi e dati spaziali tattili; le
illusioni ottico-geometriche; l’importanza dei giudizi spaziali visivi nella
psicofisica) sono state già pubblicate in Riviste di psicologia italiane e
straniere; ma la somma di tutte le ricerche e di tutti gli studi costituisce un
grosso volume — già pronto, ma ancora inedito —, in cui il problema psicologico
dello spazio e del tempo e le conseguenze filosofiche che ne scaturiscono, sono
trattati in tutti loro asp Lamanna (n. a Matera, in Basilicata, professore di
filosofia nell’Università di Messina) ha spiegato la sua attività nel campo
della filosofia della religione, dell’etica, e della filosofia del diritto e
della politica. Dopo alcuni studi minori sulle dottrine religiose dello Schleier-
macher, del Pfleiderer e delle scuole sociopsicologiche più recenti, pubblicò
nel 1914 un volume su La religione nella vita dello spirito, (Firenze, La
«Cultura Filosofica), nel quale, attraverso un ampio esame critico dei
principali indirizzi di filosofia religiosa del sec. XIX, da Kant a Blondel e a
James, si sforza di determinare quale è per lui l’essenza della religione,
intesa questa essenza come il sostrato spirituale di tutte le forme storiche
della religione, come il principio dinamico informante e determinante
l’evoluzione della vita religiosa attraverso i secoli. Per il L. la religiosità
è elemento essenziale e perenne della vita spirituale umana: è un’esigenza
irriducibile alla coscienza dell’ideale (conoscitivo o estetico o morale), sebbene
nella coscienza dell’ideale, o, meglio, nella coscienza dell’universalità e
necessità dei valori costitutivi degli ideali immanenti allo spirito, essa
trovi la sua radice. In ogni atto spirituale v’è la rivelazione, fatta a
un’autocoscienza individuale, di qualcosa d 'assoluto (universalità e necessità
dei prin- cipii della ragione, intesa questa nel suo senso più ampio) e,
insieme, di qualcosa di relativo (elementi naturali, particolaristici e
contingenti, nei quali l’universale e il necessario volta a volta si determina,
ma sempre inadeguatamente). La natura stessa della razionalità, la quale o è
tutto o è nulla, o è universale o è una fantasmagoria, determina nell’uomo
l’aspirazione ad attuare pienamente in sè e ad estendere a tutto l’universo il
dominio dell’Assoluto. Ma, d altra parta, la presenza del «relativo» dimostra
per un lato che l’oggetto della razionalità, il vero, il bene, il bello è
indefinito, e contingente e parziale e continuamente minacciato ne è, per
l’attività umana, il possesso; e per l’altro lato che nella realtà v’è qualcosa
che non dev essere, qualcosa di anormale, di opposto alla razionalità. Da
questa situazione tragica lo spirito si libera mercè la credenza in Dio, come
fondamento reale di quello che nell’uomo è ideale, che spiega, per una parte,
la validità delle leggi ideali costitutive della razionalità, e garantisce, per
l’altro, l’indefinita attuabilità di esse, nonostante l’inadeguazione ad esse
della realtà empirica. Dimostrare come dall’esercizio stesso delle funzioni fondamentali
dello spirito scaturisca necessariamente l’idea di Dio, nell’affermazione che
quel che dev’essere è, quel che pér noi è soltanto un ideale, ha già la sua
piena attuazione in una sfera trascendente di realtà, questo è il termine a cui
tendono le dimostrazioni del volume del L. I problemi morali sono stati dal L.
esaminati specialmente nei due volumi II sentimento del valore e la morale
criticistica (Firenze) e II fondamento morale della politica secondo Kant
(Firenze), a cui si collegano studi minori, Il bene per il bene, L’amoralismo
politico, L'esperienza giuridica, Il diritto correlativo al dovere nell’idea di
bene. In quei due volumi si prende lo spunto dall’esame critico della dottrina
Kantiana, rilevandovi il contrasto, così tra il principio dell’autonomia e le
conclusioni rigoristiche dell’etica in generale, come tra le premesse
idealistiche e democratiche e alcune conclusioni assolutistiche e realistiche
della morale politica; e si dimostra che quel contrasto è conseguenza
necessaria del formalismo nella determinazione dell’ideale e del pessimismo
nella considerazione della realtà, inquanto, ipostatizzata la legislazione
autonoma nella volontà in sè e nella respublica noumenon, Kant vede nella
realtà individuale e sociale null’altro che inclinazioni al male e giuoco
meccanico di passioni. Da questi rilievi e dimostrazioni di carattere storico
il L.. prende occasione per affermare la necessità di un tramite che,
eliminando il dualismo tra l’ideale e il reale, renda possibile la
compenetrazione di questo da parte di quello. E siffatto tramite egli trova
nella caratteristica funzione della valutazione morale, rivelante con evidenza
immediata oggetti della volontà forniti d’intrinseco valore (beni universali e
necessari), nell’amore attivo per i quali si costituisce come valore supremo la
personalità, e nella cui indefinita attuabilità attraverso il succedersi delle
generazioni è posta la possibilità del progresso morale e della unificazione
spirituale sempre più piena della specie umana. Alla luce di questo principio
il L.: 1) riconduce nell’ambito della nozione di dovere —caratteristica
dell’esperienza morale — anche quegli elementi che in opposizione al rigorismo
kantiano son posti in rilievo nella concezione morale dell’anima bella»
(Schiller e Fics), a proposito della quale egli fa un ampio esame dei rapporti
tra la funzione etica e quella estetica. 2) Illustra l’ordinamento giuridico
come tecnica per l’ordinamento morale: confutando i tentativi di ridurre il
diritto a qualche concetto estramorale, ne trova la radice nell’idea di bene
morale e nella correlatività al concetto di dovere, in quanto l’idea di lecito
scaturisce dalla coscienza della legittimità di respingere il limite e
l’ostacolo — postoda altri individui — all’attuazione di un bene conforme a un
principio etico riconoscibile anche da questi ultimi: onde la conclusione che
se il contrasto è occasione per l’insorgenza della coscienza del diritto, la
sostanza ideale di questo è Varmonia, Y accordo-, e da questo punto di vista
sono idealmente giustificati gli elementi empirici costitutivi della
giuridicità (potere supremo e coattività). Afferma, infine, la sovranità della
morale in politica, mostrando come, entro l’amb'to stesso di una rigorosa
moralità politica, possano essere pienamente sodisfatte quelle esigenze alle
quali l’amoralismo politico dà il massimo rilievo; e dimostra, rimettendo in
valore alcuni elementi delle concezioni giusnaturalistiche, il valore
deontologico e il concetto ideale di certe nozioni della coscienza politica moderna
(come volontà generale, contratto originario, società dei popoli ecc.). MATHIEU
STORIA DELLA FILOSOFIA, MONNIER. La filosofia italiana: idealismo,
anti-idealismo, spiritualismo, MONNIER, FIRENZE. Accettando di condurre a
termine un'opera altrui, mi sono assunto una responsabilità assai grave. Non
l'avrei fatto se la storia della filosofia di L. non è giunta già così innanzi
da richiedere questo completamento come quasi indispensabile, e se le carte
manoscritte, fatte trascrivere diligentemente dalla Signora Edvige, non mi
avessero offerto una trattazione già perfetta di una parte considerevole del
periodo scoperto. In una storia generale della filosofia, composta in Italia,
lasciar fuori tutta la filosofia italiana sarebbe stata ima lacuna grave: basti
pensare alle posizioni radicali di un Gentile o di un Carabellese, che non
trovano riscontro in tutto l'arco restante del pensiero. Per di più il piano
del lavoro, quale si era andato progressivamente definendo nella mente del L.
durante una vita dedicata in gran parte alla ricerca storica, si allarga a mano
a mano che si avvicina a noi. Infatti i capitoli già pronti, sull'eredità
filosofica dell'Ottocento italiano, erano proporzionalmente i più, estesi di
tutta l'opera. Ciò significa che la parte rimasta fuori sarebbe stata ancor più
cospicua di quanto il paragone con le parti già stampate lascia pensare. Certo,
riprendendo il filo interrotto, non potevo presumere di rimediare alla perdita
che aveva rappresentato per gli studi la morte di Lamanna, ma potevo sperare di
ridurre in qualche misura il danno. La trattazione già svolta non poteva,
infatti, uscir monca; e, d'altro canto, sarebbe stato colpevole verso il
pubblico lasciarla inedita, per l'impegno che lo storico vi aveva posto e per V
esperienza viva e diretta degli autori e delle dottrine: un'esperienza che, per
quel periodo, nessuno più, avrebbe potuto acquisire. Così gli ultimi due volumi
di questa storia della filosofia, che, per la loro mole e per il loro
argomento, possono fungere anche da trattazione autonoma, portano il mio nome
accanto a quello di L. Ho cercato, per quanto potevo, di uniformarmi al tono
delle parti già svolte, che, salvo un paio di aggiornamenti, non ho più
toccate. Esse sono: nel volume I, le prime due sezioni, salvo 6, 8, 11-13, le
prime due sezioni e la prima sezione del capitolo su Croce; nel volume II, il
capitolo sull'Abbagnano. Di tutto il resto la responsabilità è mia. Avermela
data è stata una grande prova di fiducia da parte dell'editore e dei due amici
che si son presi cura delle Opere complete di L. presso Le Monnier: Pesce e
Piovani, a cui son grato anche per l'aiuto e i consigli datimi. Mathieu. Nel
quadro panoramico deUe correnti di pensiero che si delineano IN ITALIA negli
anni di transizione dall'Otto al Novecento, fa spicco il movimento
positivistico, sia per ampiezza dell'area di diffusione, sia per profondità di
forza penetrativa. Questo movimento si caratterizza non per unità di Unità di
procontenuto dottrinale, ma per programma di lavoro e metodo di ricerca: nel
continuo contatto con l'esperienza concreta e nel riferimento ai fatti
accertati o accertabili – GRICE AS AN EXPERIENTIALIST --, la filosofìa ha la
sua ragione, e il suo alimento vitale nello stabilire una essenziale
inscindibile connessione, con le scienze particolari, di cui è matrice costante
e coronamento finale. E cioè la filosofia: da un lato si pone come principio La
filosofia propromotore di quel processo di speciale spiritualizzazione del
sapere a cui sono dovuti i meravigliosi progressi deUa conoscenza deUa natura,
come graduale profilarsi entro un indistinto nebuloso di concetti problematici,
ognuno dei quah, sempre più distinguendosi dagh altri, diventa nucleo di un
particolare organarsi di un settore di ricerche; e, dall'altra parte si pone come
organizzazione logica dei risultati dei vari settori del sapere. Positivismo e
correnti affini Naturalismo. Soggetto e oggetto come insiemi di sensazioni. Per
l'uno e per l'altro rispetto, la filosofia positivistica italiana rivendica la
qualifica di filosofia scientifica. E Rivista di filosofia scientifica
s'intitola quella che tra fu l'organo di questo movimento, fondato e diretto da
Morselli, professore nell'Università di Torino, e a cui collaborarono, accanto
a cultori di discipUne più specificamente filosofiche, scienziati che godevano
di alta fama, particolarmente nei campi della fisica, della biologia e
dell'antropologia. Tra essi emerge, universalmente riconosciuto da tutti duce e
maestro, la figura di Ardigò. Proprio in quegli anni egli veniva compiendo la
costruzione di un edificio speculativo nel quale il positivismo italiano trova
l'espressione più fedele dei propri caratteri e l'indicazione più articolata
dei propri compiti. La sua vuol essere una visione della realtà rigidamente
naturalistica: non c'è nessuna forma d'essere che non sia originata dalla
natura e non sussista nella natura, intesa semplicemente come la totaHtà
infinita dei fatti d'esperienza. E il fatto d'esperienza fondamentale
assolutamente originario è la sensazione. Questa è, sì, coscienza, ma di nient'
altro coscienza che di sé, non implicante, quindi, una duahtà per cui essa sia
contrapposta come soggettiva a qualcos'altro che sia l'oggetto: la sensazione
come coscienza di sé stessa non é né soggetto, né oggetto. Certo la distinzione
soggetto-oggetto trova posto nell'esperienza, ma non è un fatto primitivo
rispetto all'atto della sensazione, non anteriore e trovata primitivamente in
sé dalla coscienza, ma posteriore e costruita a poco a poco nella medesima per
via dello stesso processo conoscitivo, Chi considera primitiva e originaria
quella distinzione è portato a trasformarla in un duahsmo metafisico, per cui
soggetto e oggetto implicano sostrati eterogenei, l'uno spirituale, l'altro
materiale, e si contrappone l'io come sostanza spirituale alla cosa fisica, un
mondo interiore a un mondo esterno, ciò che rende insolubile il problema della
conoscenza come rapporto tra queste due entità eterogenee. Il fatto originario
dell'esperienza, ripetiamo, é la sensazione: Il positivismo ardigoiano e la sua
crisi e questa è indifferenziata, non è soggettiva più che oggettiva, o
viceversa. Soggetto e oggetto non sono che aggruppamenti o sintesi di
sensazioni – pirot obble GRICE --, differenziantisi secondo la specificazione
degli organi di senso (sensi intemi e sensi estemi) e secondo la stabiHtà e
costanza o la accidentahtà e intermittenza delle attività sensoriali. Si ha
cosi l'auto-sintesi (io o mondo psichico – GRICE PERSONAL IDENTITY) e
l'etero-sintesi (il non-io – GRICE NEGATION ITENTION AS DISPOSITION o mondo
fisico): con che, in verità, la differenziazione che si intendeva spiegare, è
semphcemente presupposta. Spirito e materia -- RYLE CATEGORY MISTAKE
BEHAVIOURISM GRICE -- non sono opposte entità metafisiche, ma astrazioni significanti
alcuni caratteri generali propri rispettivamente dei fenomeni interni e di
quelli estemi. Il che non esclude, tuttavia, con scarsa coerenza che si possa
parlare di un monismo psico-fisico – cf. GRICE PERSONAL IDENTITY PURE EGO BROAD
GALLIE--, e che si ricada anche nell'ingenuo dogmatismo materiaUstico, che del
fenomeno psichico pone come causa necessaria il fatto fisiologico della
vibrazione nervosa e giunge, col Taine, a considerare l'intelligenza – GRICE
HART HOLLOWAY LANGUAGE AND INTELLIGENCE BANFIELD MEANING -- come una funzione
dell'organismo. Il principio ardigoiano dell'assoluta originarietà della Non
c'è un sosensazione come fatto costitutivo dell'esperienza – GRICE OAKESHOTT
--, ossia della realtà immediatamente vissuta nella coscienza, esprime in
termini psicologici il principio metafisico che riduce il mondo a un processo
di formazione naturale, ossia a una continua serie di cangiamenti, che non
presuppone alcun sostrato permanente (antisostanziahsmo) ma consiste nello
scaturire necessario di un nuovo stato o momento attuale dell'essere dagH stati
o momenti anteriori – PIROTOLOGICAL PROGRESSION --, in virtù di forze insite in
questi stati antecedenti. E la struttura di un tal processo universale del
divenire si offre intuitivamente nel fatto fondamentale della sensazione:
l'esperienza nella sua immediatezza si costituisce nel necessario passaggio
daUa unità indifferenziata del sentire originario nella duaUtà soggetto oggetto
OBBLE. Ebbene, il divenire della realtà risulta appunto come un processo nel
quale la moltepHcità delle forme di essere che il pensiero apprende come
distinte emergono continuamente da un indistinto nel quale quel moltepHce trova
la sua unità e la sua condizione. Non che in questa inter prelazione della
formazione naturale l'indistinto venga contrapposto al distinto in modo
assoluto: l'indistinto è tale solo relativamente, cioè rispetto ai distinti che
esso vale a spiegare; ma ognuno di questi distinti sollecita aUa sua volta
ulteriori distinjzioni di cui esso figura come l'unione sintetica –GRICE THE
ANALYTIC THE SYNTHETIC A PRIORI Sweaters which are red and green all over no
stripes allowed --, e quindi come indistinta. Il processo di formazione
naturale come emergenza dei distinti dall'indistinto, è infinito: se i distinti
sono finiti, infinito è l'indistinto in seno al quale e ad opera del quale essi
si generano. E per questo rispetto il naturalismo ardigoiano s'ispira a quello
rinascimentale, rivela l'affinità del suo concetto d'indistinto con quello
bruniano d'infinito e respinge ogni interpretazione trascendente del principio
generatore – GRICE GENITOR – the betes noires of MECHANISM and NATURALISM -- e
unificatore del reale, sia del tipo dell'inconoscibile spenceriano
[l'indistinto è semplicemente r ignoto, ossia ciò che non è ancora conosciuto,
appunto perchè ancora privo di quelle intrinseche distinzioni che rendono
possibile il conoscere) sia del tipo del noumeno kantiano (l'unità sintetica
del molteplice fenomenico è appunto l'indistinto immanente ai distinti e fenomenico
al pari di questi). Universo infiIn questa tipica struttura – GRICE ON
PHENOMENALISM AS SENSELESS WITHOUT NOUMENALISM -- di formazione naturale è
concepito dall' Ardigò l'universo, come tutto infinito, le cui parti non sono
entità semplici, elementi fissi, ma sono ritmi d'esperienza – GRICE ON NEGATION
AND PERSONAL IDENTITY Locke empiricism--, ossia forme speciaU di regolarità
nella successione dei fatti, costantemente ricorrenti e unificantisi in quel
ritmo dei ritmi che è l'ordine razionale deUa natura. Quest'ordine presenta
caratteri che possono apparire opposti e anche contraddittori, ma che nella
riflessione filosofica dell' Ardigò tendono a conciMarsi, anche se non sempre
il risultato risponde pienamente al proposito. Così, ad esempio, l'universale
ritmicità comporta una rigida necessità causale in tutte le formazioni naturah,
ma questa determinazione non esclude la casuahtà. L'universo comporta una
infinità di ordini possibili: il verificarsi -- GRICE AYER -- effettivo di uno
di essi e il determinarsi in seno ad esso di essenze causali necessarie, non ha
nulla di necessario e predeterminato, è il prodotto di combinazioni la cui
fortuita rende imprevedibile il corso nito. Il positivismo ardigoiano e la sua
crisi degli eventi GRICE ACTIONS AND EVENTS CAUSE. Analogamente, la necessità
che genera e domina l'ordine cosmico, è necessità rigidamente mnemonica, sì che
ciò che di più meraviglioso essa presenta è per Ardigò il fatto che la
diversità prodigiosa delle cose che compongono la natura e la varietà inesauribile
delle forme che vi si vanno continuamente sostituendo è il risultato di un
lavoro semphcemente meccanico, cioè di nuli' altro che certi impulsi, dati e
ricevuti – GRICE: NO METIER. Ma nel tempo stesso l'ordine comporta anzi esige
una spontaneità della forza per la quale il processo – alla WHITEHEAD -- di
distinzione risulta un vero e proprio processo creativo – alla Bergson --,
inconcihabile col meccanicismo puro, che vede nel divenire cosmico un complesso
di trasformazioni dell'essere per sé stesso non suscettibile di creazione o
distruzione. E Meccanicismo questa duplice faccia che nel positivismo
ardigoiano pre« '^^t^deterimmsenta l'ordine cosmico, la faccia meccanicistica e
quella antideterministica o contingentistica riappare nell'antitesi tra la
tendenza a interpretare lo sviluppo cosmico come un semphce accrescimento
quantitativo e a cercare il segreto delle forme più complesse e derivate in
strutture più primitive e povere di determinazioni e la tendenza opposta a
vedere nel divenire cosmico un processo dinamico di ascensione dell'essere in
forme sempre più ricche di realtà, in sistemi ritmici forniti di un grado di
autonomia sempre più elevato. Questo contrasto tra le due istanze appare in più
cruda luce quando oggetto della riflessione filosofica è l'uomo e il mondo
umano: esso s'inserisce nell'ordine cosmico senza romperne l'unità e continuità
col mondo fisico: formazione naturale è la vita della coscienza, quale è
indagata dalla psicologia come scienza positiva, come scienza di fatti dominati
dal meccanismo psichico; formazione naturale è la società nella quale gh uomini
formano sé stessi e costruiscono la propria storia; formazione naturale la
coscienza delle ideaHtà superiori etiche, giuridiche, rehgiose, estetiche,
scientifiche che regolano e promuovono l'operare umano. Ma queste formazioni
naturah si presentano nel cosmo con connotazioni speciah che rendono
esasperantemente problematica la inseribihtà dell'umano nel monismo
naturalistico: problematica è la derivazione, per meccanismo psichico, dei
poteri intellettuali dalla sensibilità e del volere dall'impulsività inerente
alla sensazione; problematica la fondazione della libertà spirituale e
dell'autonomia umana sulla necessità della natura, come coronamento di essa;
problematica, l'identificazione dell'opposizione tra morale e immorale con
quella tra socialità antiegoistica ed egoismo, pur essendo l'uno e l'altro
formazione naturale. Fortuna delLa fortuna del positivismo ardigoiano presenta
due fasi Ardigo. distinte: l'una, che riempie l'ultimo trentennio
dell'Ottocento ed è compresa tra il discorso su Pomponazzi, che apre la rottura
col mondo ecclesiastico in cui aveva fin allora militato, e la decadenza
mentale della tarda vecchiaia: periodo di progressiva maturazione e
articolazione del pensiero positivo e di crescente efficacia rinnovatrice cosi
nella demolizione dei vecchi idoli della filosofia tradizionale, svuotata negh
ultimi decenni di vera vitahtà, come nella costruzione della nuova Itaha uscita
dal Risorgimento, laica e democratica: la seconda, che si estende oltre il
primo trentennio del nostro secolo, in cui i discepoli di Ardigò, usciti dalla
scuola di Padova, accolgono l'eredità del Maestro, e mentre se ne fanno
apologisti e spesso agiografi, mentre esaltano la fecondità del suo positivismo
inteso come metodo, sentono il bisogno di sottoporre a revisione critica i temi
principaH della sua dottrina, sensibili alle difficoltà e contradizioni che vi
si annidavano, messi in sempre più chiara luce dalla polemica incalzante di agguerriti
avversari, militanti nelle file del risorgente spiritualismo e più
particolarmente dell'ideahsmo d'ispirazione hegehana, che proprio in quel tomo
di tempo si veniva costituendo e grandeggiava sempre più potente, fino a
soppiantare il positivismo nel dominio della cultura itaHana. Questa seconda
fase fu detta dagh stessi discepoli di Ardigò fase di crisi. È questa crisi del
positivismo che si esprime specialmente nella dottrina del Marchesini, del
Troilo e, con iimovazioni più radicali in tutto l'arco dei problemi filosofici,
del Tarozzi. Marchesini Marchesini. Già nel 1898, quando Ardigò era ancora
intento a completare il suo edificio speculativo, dal seno stesso della scuola
ardigoiana usciva una denuncia di crisi del positivismo: La crisi del positivismo
e il problema filosofico, di cui era autore Marchesini, uno dei discepoli più
fedeli ed entusiasta divulgatore del pensiero del Maestro, per lunghi anni fino
alla morte professore di filosofia morale nell'Università di Padova. Nella
prima fase della sua produzione aveva accentuato contro Vidoiae applicato il
principio capitale del positivismo, che non v'è conoscenza la quale non sia
fondata esclusivamente su fatti sperimentati o sperimentabiH. Questo principio
era da lui affermato con tanto piri intransigente rigore quanto più viva e
urgente era la lotta che il positivismo conduceva contro la tradizione
metafisica e rehgiosa. Ma col graduale ampharsi del campo delle sue esperienze
culturaH e col maturarsi della sua riflessione critica, Marchesini si formò la
convinzione, svolta appunto in quel suo libro, che proprio siffatta idolatria
del fatto poneva in crisi il positivismo. Questo deve attenersi al fatto, ma il
fatto vederlo alla luce della ragione, al di fuori della quale non è possibile
nessuna conoscenza non che filosofica o scientifica, neppure comune. E per
ragione Marchesini intende non solo i poteri intellettuaU, ma anche
ambiguamente quegli atteggiamenti dell'anima umana che più spesso sono
quahficati come irrazionaH o alogici, gh slanci del sentimento e
deU'immaginazione, che Marchesini volentieri chiama romantici o mistici. Dopo
Platone ed Hegel egli scrive dopo i trionfi delle rehgioni, delle metafisiche e
dell'arte, è assurdo voler soffocare e sopprimere, per l'amore incomposto del
fatto, il senso àeW! idealità razionale. Non è possibile isolare e
circoscrivere il nostro pensiero entro una breve cerchia di fatti minuti e non
risahre a principii superiori razionali La crisi del positivismo. Il
positivismo è in crisi, ogni volta che limita il suo orizRitmicità. zonte
mentale a fatti accertabili nella loro bruta oggettività, dissimulando per
giunta la presenta e l'azione di quei principii razionali che costituiscono V
imperativo dell'esperienza e rendono possibile la conoscenza scientifica pur di
questo ordine di fatti, ossia la scoperta in esso d'una ritmicità, per la quale
la scienza si trova innanzi non a un coacervo di dati empirici (i fatti minuti,
di cui Marchesini parla nel passo or ora citato, ma innanzi a un mondo uno e
continuo, il mondo della natura materiale, scandita con necessità meccanica,
nei gradi della fisicità, della organicità biologica e della psichicità. Il
positivismo è in crisi ogni volta che, presentandosi come naturalismo
materialistico, ignora e si mostra incapace di spiegare la realtà di un regno
dello spirito, incentrato nell'uomo, quale essere non riducibile a mera realtà
bio-psichica, ma soggetto di ideaUtà capaci di rompere il meccanismo della
natura materiale e d'instaurare, pur in seno ad essa, un mondo superiore, il
mondo umano della storia, il mondo dell'incivihmento. Superiorità
delNell'ordine biologico e nell'ordine psichico, l'uomo afVuomo. ferma
risolutamente Marchesini ha una superiorità su tutti gh esseri, della quale è
fattore essenziale la capacità sua a trarre appunto dal suo fondo
fisio-psichico delle idealità, ossia principii di condotta accompagnati da
coscienza del dovere, capaci di contrastare a inclinazioni sensoriali insite
nella sua natura. L'ideale non è un lusso, perchè non è un lusso la civiltà,
che dall'ideale trasse sempre aHmento e forza. È un prodotto umano, dovuto a
leggi necessarie, di cui la ragione è il soggetto libero e eterno. Negare
l'ideale morale, come fatto e come legge, come principio fondamentale della
nostra esistenza, significa negare, con la nostra ragione e dignità, la nostra
stessa natura: in una parola, significa dimenticare sé stessi. Il positivismo
non è dunque contrario alla Morale, ma da esso la Morale sorge come scienza,
spoglia da ogni preconcetto, forte e sicura. Il positivista non può arrestarsi
a scoprire nell'uomo civile il selvaggio e il bruto, e trascurare quegli
elementi di civiltà vera che sono Marchesini ii come le stratificazioni nuove,
solidissime, sovrappostesi agli strati più antichi. Tutta la storia dell'uomo
c'insegna che la nostra civiltà è la naturale continuazione e il dinamico
sviluppo delle primitive tendenze; ma in questa continuità dinamica il
positivista ritrova la legge del progresso civile, e soprattutto del progresso
morale. È merito del Marchesini aver posto al centro del suo positivismo i
problemi dell'uomo e della sua formazione nella storia e nell'educazione,
conforme alla sua schietta vocazione di morahsta e di educatore. Secondo lui,
la via per la quale il positivismo poteva superare la sua crisi era che esso
diventasse positivismo idealistico, capace cioè di salvare la specifica
funzione delle ideahtà umane nella realtà deUa natura, e di spiegare come in un
mondo di fatti particolari e relativi possano formarsi ed essere operativi
principii ideali che s'impongano alla coscienza con la pretesa dell'universahtà
e imperatività assoluta. Egli tentò una costruzione sistematica di questo suo
positivismo idealistico nell'opera che, anche cronologicamente, occupa il posto
centrale nella sua trentennale produzione speculativa. La dottrina positiva
delle idealità. In questo Hbro egU convoghò anche un nucleo di idee già
ampiamente formulate nell'opera capitale Le finzioni dell'anima: e
costantemente riprese e variamente appUcate negh anni successivi; nucleo d'idee
per cui il positivismo ideahstico si configura come funzionalismo o etica e
pedagogia del come se – GRICE VAHININGER SEMINARS ON AS IF --, o anche
prammatismo razionale, che egli considerò come l'apporto più originale e
significativo da lui recato all'esplorazione del mondo umano, ma che
effettivamente è forse la parte più debole del suo pensiero, rivelante
l'ambiguità d'impostazione e l'incertezza o addirittura la contraddittorietà di
soluzione del suo problema. Il compito che Marchesini si propone è quello di
mostrare L'etica come la idoneità e sufiicienza del metodo positivo a fondare
una dottrina deUe ideahtà razionah, ossia a costituire l'etica come scienza. Un
tal compito imphca una critica radicale di qualunque forma di etica metafisica
ossia di qualunque dottrina scienza Analisi morale. Natura e ir, flusso
sociale. la quale esiga riferimento a una sfera trascendente l'esperienza per
spiegare dati rivelantisi nella esperienza morale: il produrre elementi
metafìsici nello studio della moralità è un procedimento non conforme a ragione
scientifica, consistendo esso nel proiettare nel mondo trascendentale e
assoluto modi soggettivi ed empirici della nostra vita spirituale. La morale
come scienza deve eliminare dalla concezione delle idealità siffatte
trasfigurazioni e deformazioni del procedimento metafìsico per fissare i dati
concreti dell'esperienza spirituale umana. Vale per l'Etica, non meno che per
le altre scienze, il principio che ogni indagine scientifica presuppone una
realtà data, la quale ne costituisce l'oggetto: l'Etica presuppone la realtà
del fatto morale, realtà che va non soltanto constatata empiricamente ma
determinata altresì nei caratteri e nelle leggi specifiche ad essa pertinenti.
Siffatta determinazione si realizza mediante il procedimento deìl' analisi del
fatto morale: si tratta di decomporre questo fatto nei suoi elementi
costitutivi e vedere come esso sia il prodotto o la sintesi di coefficienti
anche d'ordine inferiore. Riassumendo i risultati di questa analisi quale Marchesini
la conduce, vediamo che le componenti del fatto morale sono: incUnazione
naturale propria dell'individuo come essere biopsichico; fattori della
socialità propria della vita umana; ideaUtà razionale ossia aspirazione a modi
e forme di vita superiori alla realtà attuale – GRICE PERSONS OR US IN OUR BEST
MOMENTS OF COURSE THAT IS --; tendenza a concepire e sentire l'ideale etico
come la rivelazione dell'Assoluto. I primi due ordini di taU coefficienti sono
omogenei in quanto esprimono i fattori costitutivi della struttura
dell'individualità umana come soggetto morale. Il soggetto morale risulta anche
dalle attitudini originarie dell'uomo, che si differenziano in ogni individuo
per il vario contributo delle eredità biologica o bio-psichica; e risulta inoltre
tra i rapporti sociali stendentesi nello spazio e nel tempo in cui la
personalità è compresa, e che del pari si differenziano negli individui per il
contributo di una determinata eredità sociale. Il soggetto morale si compie per
l'integrazione di questi due ordini di coefficienti: né la natura bio-psichica
dell'individuo, né l'influenza sociale bastano isolatamente a spiegarne, con le
idealità, la vita morale. I due ordini di fattori per contrario si fondono, e
ripercotendosi negH uni la efficienza degli altri, si modificano reciprocamente
La dottrina positiva delle idealità. Siffatta unità organica di vita
bio-psichica e vita sociale è la base reale per la formazione della personahtà
morale, per la quale é necessario l'apporto di quello che noi abbiamo indicato
come terzo ordine di coefficienti, cioè le ideahtà etiche. Queste sono
caratterizzate, a dire del Marchesini, dall’obbligazione ossia dalla coscienza
di una necessità ideale -- Grice: Return Jones the money Repay Jones -- a cui
si deve sottostare, dalla coscienza che certi modi di condotta devono essere
preferiti a certi altri – Grice: DULL EMPIRICIST versus ‘enough of a
rationalists’ – MAXIMS SHOULD BE FOLLOWED and are not JUST FOLLOWED. The
fundamental question. Ma proprio neUa illustrazione di questo concetto del
dover essere specifico alla vita morale, il pensiero del Marchesini si presenta
particolarmente oscuro. Da una parte sembra che egli insista sulla essenziale
amoraUtà della vita sociale in quanto priva del valore derivante daUa idealità
(vi sono forme di società animali affini alle associazioni umane ma prive di
ogni carattere di morahtà – THE RELUCTANT CANNIBAL; dall'altra parte tende a
identificare socialità e morahtà. Parte dalla giusta osservazione che la
morahtà non sarebbe inteUigibile fuori dei rapporti sociali, delle tradizioni,
del costume, delle istituzioni varie e dell'azione inter-individuale, e da
questa affermazione inferisce che nel sentimento sociale è già l'essenza del
sentimento morale in quanto il primo imphca per sua natura la coscienza
dell'obbligazione di risentire e rispettare i vincoH compresi nei rapporti
sociali -- ccoperativi, non strategici Grice, l’altro come persona e non cosa,
e un bene comune --, imphca cioè la tendenza a restringere il proprio arbitrio,
e a mantenersi in un certo accordo con i consociati: e in ultima anahsi adunque
la tendenza sociale è una tendenza morale. Noi possiamo separare l'uno
dall'altro sentimento per astrazione, e fissare neUe rispettive definizioni
termini differenziah; ma tutto ciò è ben lungi dal distruggere la loro
fondamentale unità psicologica... per ver essere. la quale le idealità sociali
costituiscono il principio supremo della moralità,... e si comprende come si
possano scambiare i due termini morale e sociale – as in Hitler – Grice’s
criticism to Hart --, in quanto ha natura morale tutto ciò che è sociale, ed è
sociale ogni morale – or Hegel revisited. Questa tendenza a unificare sul piano
psicologico le ideaHtà morali con le esigenze sociaU – cf. Grice on social
engineering and socal justice --, attuata fino in fondo, porterebbe a una
dottrina etica risolventesi in pura socio// fatto e il dologia. Marchesini
sembra restio ad accettare una posizione del genere, intuendo più o meno
oscuramente la differenza radicale tra l'obbligazione o normatività sociale e
l'obbhgazione o normatività morale – GRICE ON PRIORITY moral right legal right
--, in quanto la prima si risolve in una pressione che di fatto la società –
John Austin external reading --, nel costume – di Kant – Grice -- e nella legge
esercita sulla coscienza individuale, e a una tale situazione di fatto
l'individuo avrebbe sempre il diritto – NOT GEACH – GRICE -- di contrapporre un
altro fatto costituito dalle sue esigenze egoistiche; viceversa l'ideaHtà
morale sta ad indicare non una realtà storica o psicologica, bensì il diritto
all'esistenza di qualcosa che non ha attualmente esistenza – ratio essendi,
ratio cognoscendi Grice --: la normatività morale è un dover essere che
s'impone indipendentemente da ogni condizione particolare ed è in forza di esso
che si sente il valore imperativo – GRICE CHICAGO SECOND LECTURE --
dell'idealità sociale non solo, ma anche la necessità ideale di aspirare ad una
costituzione sociale superiore – Grice Social Justice Grice Fairness AUNE --,
nella quale siano superate le deficienze della vita sociale attuale. Ma,
ripeto, questa distinzione è intuita da Marchesini solo oscuramente. Egli
descrive la vita schiettamente morale in questi termini: si deve sentire e
operare altruisticamente superando l'esclusivismo egoistico; si deve attenersi
al dovere, qualunque sacrificio possano subirne i nostri desideri – Grice
morality cashing on desire – BAKER akrasia – GRICE/BAKER --; ci si deve
sottrarre alla servitù vile delle passioni ignobih e dei ciechi istinti
brutali, e acquistare quella hbertà che ha nella virtù i propri simboli eterni.
Ma quando si domanda quale è il fondamento di quel dovere che è l'anima della
vita morale cosi caratterizzata, si risponde che questo fondamento è dato da
quella che egli chiama natura morale essenziale all'uomo, ossia dalla
potenzialità propria dell'uomo di costituirsi come soggetto Potenzialità
morale. Il principio della naturale umanità morale significa che esistono
nell'uomo in quanto tale tendenze naturali potenzialmente morali, destinate a
svolgersi per l'esperienza della vita, questa non crea le tendenze in cui
l'umanità consiste, ma interviene necessariamente a svilupparsi. Le idealità
morali traducono in se medesime la nostra umanità morale, quale è e quale aspira
a divenire. Non esiste uomo normale che nella coscienza del valore delle
ideaUtà non affermi la coscienza del valore umano e proprio; che non riconosca
insomma intimamente la necessità che il dovere e il diritto non l'arbitrio e la
violenza -- o FORZA MACHT German Grice Habermas -- governino la condotta
individuale della vita sociale. Dal che risulta che la umanità morale è
illazione (ILLATUVM) tautologica daM'essere delle ideaUtà morali al loro poter
essere e non può quindi offrire a queste un fondamento che esse non abbiano già
in sé. La difficoltà nella visuale del Marchesini di distinguere Ricerca di una
chiaramente l'obbhgazione morale da quella sociale risulta anche nella ricerca
che egh fa di una norma delle valutazioni -- GRICE ASSIOLOGIA -- delle idealità
etiche. Il regno dei valori – GRICE CONCEPTION OF VALUE, NOT JUST MORAL VALUE
-- morah, egU dice, è l'io dell'uomo – GRICE PERSONAL IDENTITY, ossia essi sono
soggettivi, creazioni del soggetto. Ma d'altra parte l'individuo stesso li
sente come oggettivi -- GRICE SECOND CHICAGO LECTURE -- in quanto la creazione
loro da parte del soggetto non è arbitraria – MA MOTIVATA, HA UNO RATIONALE --
e questa oggettività consiste nel riconoscimento che quelli sono valori
sociali, storici, tradizionah; che in essi convengono i consociati – the
conversational other --; che hanno una durata nel tempo, se non anche la
perennità propria dei valori fondamentaU d'ogni consorzio umano; che si fissano
perfino nello spazio mediante varie istituzioni, e nel costume. L'individuo
perciò ne riconosce la sovrana potenza, superiore infinitamente al suo
arbitrio; riconosce che non provengono dalla Ubertà creatrice dello spirito suo
ma da ragioni obiettive concrete. Dunque la validità oggettiva delle idealità
etiche si risolve nella normatività delle valutazioni dominanti nella società
in una determinata epoca; non è una necessità del genere di quella formulata da
Kant con l'imperativo categorico ma una necessità concreta, naturale,
immediata, relativa alle condizioni specifiche della convivenza, ossia del modo
e grado di sviluppo che in una determinata epoca e società venne raggiunto
dalla comune umanità morale. La necessità delle norme della valutazione è, per
Marchesini, razionale solo in quanto è naturale e storica e come tale si scosta
dalla necessità pura immutabile concepita e propugnata dall'idealismo kantiano.
La reintegrazioInfine uu tentativo di caratterizzare nella sua specificità
"^l'obbUgazione morale è compiuta da Marchesini col riferire la formazione
delle ideahtà etiche al processo che egli chiama di reintegrazione, per cui i
motivi interiori, le inchnazioni naturali risultano gli elementi originari che
si rifondono, persistendo, nelle formazioni superiori dello spirito. Come la
sensazione persiste nell'idea, che non avrebbe senza di queUa né origine né
contenuto, e tuttavia l'idea non si riduce alla sensazione (poiché si pone come
un vero, cioè in relazione a una idealità logica, che l'individuo apprende per
effetto di una speciale cultura), così persistono nelle ideahtà le tendenze
varie, fondamentali della personalità, o insomma persiste quello che possiamo
dire il suo interesse, ricostituendosi, reintegrandosi in forme nuove, a cui si
attribuisce più propriamente il carattere di valori. Per Marchesini questo principio
della reintegrazione abbraccia l'universa natura: questa procede per
integrazioni, disintegrazioni e reintegrazioni; equivale cioè al principio
evolutivo del passaggio dall'indistinto al distinto, della continuità tra mondo
fisico, mondo biologico e mondo psichico. E entro il mondo biopsichico esso
opera come passaggio dall'istinto animale e piii in generale dalle inclinazioni
biopsichiche fondamentali alle formazioni superiori della umanità morale. Ma
nella illustrazione di questo passaggio Marchesini insiste più sul concetto del
persistere dei coefficenti inferiori nelle formazioni superiori, che sul
concetto dell'originalità e novità di queste ultime e sulla specificità dei
caratteri specifici che le distinguono l'una dall'altra. E così, a proposito
lità della norma. Marchesini della formazione della nostra umanità morale non
si accenna neppure alla distinzione in essa delle idealità sociali dalle
idealità speciiìcamente etiche, limitandosi Marchesini ad affermare che gli
elementi inferiori si reintegrano nelle formazioni superiori dello spirito,
soprattutto per la provocazione e il materiale suggestivo di elaborazione che
provengono dai rapporti sociah. E ad esempio, a proposito della ideahtà della
Giustizia, si afferma che il processo reintegrativo in essa consiste nella
trasformazione degl'impulsi biopsichici dell'individuo assommantisi nella
tendenza a perseverare nel proprio essere in un senso di sohdarietà e simpatia
che si traduce nelle istituzioni giuridiche, e sembra che in queste si esaurisca
l'obbligazione morale, come dipendenza dell'individuo dalla volontà sociale.
L'idealità della Relativa stabigiustizia al pari delle altre idealità etiche è
legata alla mobilità dell'esperienza storica dell'umanità: e questa connessione
su cui Marchesini giustamente insiste giustifica il principio metodologico che
è da questa esperienza che noi dobbiamo ricavare i criteri di giudizio da
appHcare ai nuovi dati dell'esperienza stessa. Il che significa che
l'esperienza storica ci presenta elementi che hanno per noi valore normativo: e
questi elementi sono quelli che nel mutamento del mondo dell'esperienza
storica, risultano i più stabili e che, nei contrasti della vita sociale,
raccolgono i consensi più larghi. Ma se questa stabihtà e questo consenso sono
puramente elementi di fatto, bastano essi a costituire quella normatività o
imperatività che è essenziale all'ideahtà etica? Lo stesso Marchesini sembra
dubitarne: egH infatti in un passo importante parla non semplicemente di
stabihtà o di consenso, ma di diritto alla stabihtà e al consenso sempre più
generale. Ma non dice su che cosa si fonda e donde deriva un tale diritto.
Nell'anahsi del fatto morale Marchesini rileva un altro coefficiente quello da
noi designato come quarto e cioè un ordine d'impulsi, per i quali l'ideale
etico è sentito come la rivelazione d'un mondo trascendente e insomma
dell'Assoluto. Assoluto. Per Marchesini l'Assoluto si presenta alla coscienza
umana: come la realtà suprema da cui ogni cosa dipende e in cui tutte le cose
si unificano, oggetto d'un'idea metafisica; un ideale trascendente di
perfezione, con cui la vita degli individui tende a identificarsi, contenuto
d'un sentimento essenziale all'umanità morale. Ma pel Marchesini, la critica
razionale del pensiero dell'Assoluto nell'una e nell'altra forma dimostra che
esso appare fattore costitutivo del fatto morale non in quanto la trascendenza
ad esso attribuita significhi un'esistenza esteriore in un mondo ultraempirico,
in quanto cioè si ponga come verità oggettiva; bensì in quanto sia il simbolo
di tutto ciò che di eccellente l'uomo sente immanente alla propria natura,
esprima una verità soggettiva rispondente a un bisogno essenziale della
coscienza. La visione dell'Assoluto nella coscienza morale emerge dal senso del
mistero di cui le ideahtà si circonfondono. Il sentimento dell'Assoluto è
essenzialmente mistico: e non risulta dall'idea metafisica, ma la precede e la
suggerisce. La esistenza esteriore all'Assoluto è una finzione del pensiero, ma
non è finzione il processo psicologico ond'esso è sentito nella sua spirituale
potenza, e per cui il soggetto vince gU impulsi accidentali. Analogamente, la
trascendenza metafisica dell'ideale assoluto di perfezione uno, universale,
immutato è una. finzione, un'immagine puramente contemplabile ma priva di ogni
efficacia pratica. Un ideale è necessario alla vita; fuori dell'ideale non c'è
che meccanismo insulso: esso è degno pertanto dell'entusiasmo onde lo si
esalta. Ma quando venisse posto fuori della natura umana e dell'esperienza,
esso si ridurrebbe a una vuota forma pura, a una realtà che non è realtà, a un
mero nome. Ci si può rappresentare l'ideale etico come uno, immutabile,
trascendente, solo in quanto si faccia astrazione dalla realtà concreta,
psicologica e storica, dai caratteri individuali e dai modi vari onde si
compone nei singoli la coscienza morale; dalle tradizioni etiche, dal costume,
dalle leggi, daUe istituzioni sociah e poUtiche; cioè da tutto ciò che dà un
contenuto concreto e relativo all'ideale etico; ma sarebbe Marchesini assurdo
ritenere che dopo ciò sussistesse tutt'ora l'ideale stesso. Perchè questo abbia
quella funzione teleologica che gli è intrinseca è necessario che attecchisca
nella personalità, assumendone il vigore razionale, affettivo, e pratico, ossia
che diventi un suo interesse; che si fondi nella esperienza soggettiva perdendo
la purezza astratta e nominale che l'idealismo metafìsico gh attribuisce; che
diventi insomma una finzione dell'umanità morale dell'individuo, un bisogno
interiore, un modo fondamentale della stessa vita Naturalismo e soggettiva, una
legge naturale dell'esistenza. La sua consoggettivismo. cezione naturalistica o
realistica importa necessariamente questo soggettivismo. La critica razionale
tende a ridurre l'Assoluto al relativo, l'idea di perfezione quale entità
oggettiva trascendente a esigenza biopsichica della coscienza individuale, a
fattore immanente della soggettività umana. Così ad esempio l'ideale della
giustizia, che dalla metafìsica è prospettata come trascendente la natura, in quanto
sovrasta su tutte le accidentahtà e imperfezioni delle cose umane,
incontaminata e perenne e come trascendente la storia, in quanto questa, nella
sua perenne mutevolezza, lungi dal rilevare che cosa il Giusto sia, lo
presuppone come un a priori, un primum stabile ed eterno, è per Marchesini una
formazione naturale e un prodotto storico, emerge dalla natura umana in quanto
questa è natura morale oltre che fìsica. La consistenza oggettiva chela
metafìsica attribuisce Osservazioni alle idealità morah è da Marchesini
interpretata come estra'^^neità ai voti della vita del soggetto; e perciò
insiste nel concetto che la morahtà non possa essere attuata se non nella
natura, che i principii ideali valgono in quanto hanno la funzione di investire
e organizzare, non già negare, le tendenze naturali perchè il soggetto morale
si formi nella sua concretezza vivente. Ed è, questo, un concetto giusto: ma
non è necessariamente derivabile dalla premessa, discutibile, che la
trascendenza sia per sua natura esclusiva di ogni forma di immanenza o
interiorità al soggetto. Questo appare evidente nel concetto fondamentale di
dovere o obbligazione specificamente morale. Marchesini riconosce che l'uomo
avverte nella sua natura una necessità cui spetta un assoluto impero, e vi si sente
legato pur se vi facciano contrasto altre inchnazioni: non v'è coscienza, di un
valore senza la coscienza di un vincolo, d'una restrizione dell'arbitrio, d'una
rinuncia. E giunge perfino ad affermare che l'azione della società
sull'individuo, onde si distingue in lui la coscienza delle norme e dei valori
moraU, è puramente provocatoria e suggestiva: l'obbligazione sociale è
costrittiva, ossia vincolo esteriore, mentre l'obbligazione morale è interiore,
è correlativa al riconoscimento da parte della coscienza del soggetto agente
del valore inerente al fine proposto. Di siffatto valore, a cui è correlativa
l'imperatività incondizionata, indipendente cioè dalle circostanze empiriche
particolari in mezzo alle quali l'azione si svolge, il soggetto ricerca il fondamento
ultimo, le ragioni impersonali e universaU, assolute. E crede di trovarle,
queste ragioni, o neUa volontà legislatrice di Dio (morale teologica o
religiosa), o in una sfera di realtà oggettiva superiore a tutti gli impulsi
del soggetto, in un mondo (di valori) per sé stante (morale ontologica), o in
una ragione pura impersonale che, identica in tutti gl'individui, detta a tutti
un medesimo imperativo categorico come forma universale che investe a priori i
contenuti più vari e mutevoli della condotta e indica quali tra i fini che
l'esperienza dimostra desiderati o desiderabili, debbano essere desiderati
(etica formale). A priori reiaMa pel Marchesini sono queste concezioni
inaccettabili dal punto di vista positivo, poiché tutte ugualmente pongono il
fondamento dell'obbligazione propria delle ideahtà moraU in qualcosa di
trascendente che sfugge all'esperienza: implicano la proiezione delle idealità
fuori della vita interiore del soggetto, e pertanto le presuppongono già
formate nell'ambito di questa, nell'atto stesso che pretendono essere tale
formazione dovuta all'azione estrinseca del trascendente; e quanto alla
presunta ragione impersonale dell'etica iov tivo Marchesini male, essa non è
che una forma fittizia della ragione personale consociata, e la necessità a
priori del dovere è una necessità naturale. L'identità formale della ragione
non esprime che l'identità psicologica dell'umanità morale: Nel dovere formale
si traduce la nostra vita morale concreta, che ne acquista il carattere
dell'universalità o dell'apparente incondizionaHtà. Accade cioè che la forma
pura, assunta come essenza del dovere, abbia l'apparenza e la funzione della
sintesi a priori; ma questa forma pura è in realtà nient'altro che l'indistinto
degH elementi concreti della coscienza morale: è una sintesi di questi, ossia
un a priori relativo e positivo, non già assoluto e metafisico. Il dovere, per
dire con altre parole, è un impulso originario della nostra umanità morale, una
legge della nostra vita, un fondamento della nostra esistenza come individui
sociali, e in ciò consiste, se si vuole, il suo carattere a priori. È tale in
relazione alla nostra successiva esperienza, rimanendo a questa anteriore non
diversamente che la nostra stessa natura morale originaria, in cui s'innesta.
In conclusione, per Marchesini, quelle concezioni etiche Le concezioni sono
costruzioni fittizie, sono finzioni, sotto le quah la cri^^l" j T
finzioni. tica razionale deUa scienza positiva non può riconoscere altra radice
reale deUe ideahtà che la stessa natura umana nella sua struttura biopsichica,
intesa come originaria potenziahtà morale indistinta, su cui la comunione
sociale esercita infinite azioni stimolatrici di quei processi di attuazione da
cui emergono le ideahtà stesse. E la dottrina positiva delle ideahtà ponendo il
principio fondamentale dell'umanità morale, come germe (e indistinto) sempre
fecondabile dell'evoluzione etica, ci lega alla natura, ma non alla natura
bruta, bensì aUa natura umana, che non nega né asservisce lo spirito, ma è per
sé medesima capace di autonomia morale. Questa soluzione del problema del
fondamento deUe idealità, a dir vero, potrebbe essere sospettata di petizione
di principio: le ideahtà morali, quali vengono sperimentate nell'interiorità
della vita individuale e neUo sviluppo deUa storia, avrebbero la Positivismo e
correnti affini loro base in una natura, che assume la qualifica di morale,
solo in virtù e in conseguenza dell'esperienza di quelle idealità che pur si
pretende siano da essa spiegate e giustificate. Comunque, tale dottrina
positiva delle ideahtà escludente come irrazionale qualunque interpretazione
che faccia appello a un fondamento trascendente la sfera empirica, ha come suo
presupposto l'interpretazione naturalistica, della realtà, diciamo pure una
metafisica sottostante all'empirismo, al materiahsmo che Marchesini qualifica
come umanistico, in quanto riconosce i caratteri peculiari dell'umanità, ma
sempre naturalismo: la fede nelle ideahtà è fede nella natura umana, in cui le
ideahtà germinano. Rifiuto del trascendente. Trasfigurazione delle cose. Che il
naturalismo etico delineato dal Marchesini, in quanto corollario del naturahsmo
metafisico, lasci fuori nel tentativo di giustificare e fondare le idealità
etiche, alcuni aspetti od elementi del contenuto di queste, e che quel concetto
di natura umana che Marchesini ha costruite per imperniare su di esso una
visione positiva della vita morale, positiva in quanto rifiuti come irrazionale
ogni riferimento al trascendente e assoluto, sia così vago e indefinito da
includere in se, contradditoriamente, proprio quel bisogno dell'assoluto a cui
esso avrebbe dovuto apporre un'insormontabile barriera, è dimostrato dalla
dottrina del finzionalismo che, come abbiamo ripetutamente accennato, a
Marchesini sta tanto a cuore. Proprio nel paragrafo conclusivo dell'opera La
dottrina positiva delle idealità (il paragrafo, intitolato L'Arte morale)
Marchesini dice che è essenziale alla vita dello spirito r insoddisfazione egli
dice anzi disgusto, per la realtà di fatto, e che questo disgusto provoca lo
spirito a fare ogni sforzo per vincerlo, svolgendo le sue attività costruttive,
ossia quel vigore artistico che gU è proprio. Quest'arte speculativa investe
tutte le attività dello spirito, sia quelle del pensiero logico riflesso, il
cui prodotto la scienza delle cose se è provocato ne Marchesini cessariamente
dalle cose, è tuttavia una costruzione del soggetto, trasfiguratrice delle
cose, a cui viene attribuita oggettività appunto in virtìi dell'arte
speculativa, sia il sentimento e il volere con le mirabili sintesi ideali in
cui si ripercuotono i moti etici e con i disegni d'azione in cui si congegnano
gl'impulsi e le inibizioni. E le idealità stesse sono creazioni estetiche dello
spirito (creazioni dell'arte speculativa, che si specifica come arte morale),
in quanto riproducono in immagini sublimi e perfette, moti vaghi e tendenze
multiformi della nostra natura sensibile e morale. Ma pur come tali esse
rispondono a una necessità naturale dello spirito, e rappresentano inoltre il bisogno
umano di adattamento dell'io alle ideahtà sociali. Nelle idealità, sentimento e
ragione si armonizzano: la natura nostra, fonte originaria del mondo ideale, è
in pari tempo affettiva e razionale, onde la ragione si spiega pure nel
sentimento e il sentimento si modera nella ragione. Ora quest'attività
costruttiva o arte speculativa, di cui sono creazione le idealità, è
qualificata da Marchesini come potere di finzione, e le ideahtà etiche non
hanno efficacia e valore nella vita morale se non in quanto vengono
riconosciute come finzioni. E come abbiamo già accennato, questo concetto è
l'idea direttiva dell'opera Le finzioni dell'anima. Il termine finzione è
equivoco EQUIVOCO GRICE: Marchesini stesso distingue in esso due significati
opposti: nel primo finzione è infingimento e ipocrisia, vera e propria menzogna
per cui, mentre si cela agh occhi altrui il proprio essere e pensare, si tenta
con atti e parole di farlo apparire diverso da quello che è, e ciò col
proposito consapevole di raggiungere con l'inganno un qualsiasi utile
egoistico. Nel secondo Equivocità dei significato, finzione è il risultato d'un
atteggiamento della coscienza in cui l'immaginazione ha parte prevalente, per
cui si costruiscono (fingere, etimologicamente, è appunto plasmare) parvenze
d'essere o tipi ideali di condotta, che in sé non hanno realtà, ma
s'inseriscono nella realtà, conformandola e adattandola a sé. All'inizio della
sua trat Positivismo e correnti affini tazione, Marchesini precisa la
definizione della finzione in questi termini: il fatto della finzione consiste
nel creare enti che, mentre per sé sono irreaU, si assumono e si trattano come
reaU. Esso consiste nel prevalere d'uno stato interno di coscienza per cui si
dà corpo alle ombre, proiettando nel mondo reale un prodotto
dell'immaginazione. È quell'artificio interiore, per cui si dà forma di
obiettiva verità a credenze che sono dovute a un singolare disporsi dell'anima
per effetto di intimi bisogni, di segrete tendenze, e che si stabiliscono e
deducono senza che il soggetto penetri veramente l'essere e il modo del proprio
spirito. Le finzioni dell'anima. E in questo quadro del concetto di finzione
rientrano le massime pratiche nelle quali si traducono le ideahtà etiche: cerca
il bene altrui come il tuo stesso bene (altruismo, come identificazione di sé
con gh altri nella comune umanità); riponi la tua felicità esclusivamente nella
virtìi (identificazione di virtri e felicità); fa'quel che devi esclusivamente
per dovere (identificazione della volontà buona con la forma del dovere); senti
la responsabihtà di tutte le tue azioni, quali manifestazioni della tua libertà
assoluta (identificazione del volere con l'agire hbero) E la sintesi dei valori
additati da taH MASSIME é simboleggiata nelVideale etico come modello di perfezione,
assoluto e universale, trascendente tutte le singole personalità e uguale per
tutti. E pertanto il principio morale supremo é formulabile così: adegua la tua
personalità al modello di perfezione assoluta, imphcante il concetto
dell'identificazione della volontà individuale con l'assolutezza dell'ideale
etico Ragioni del finOra quaU sono le ragioni per le quaU, secondo Marchesini,
queste ideahtà sulle quaU la morale si regge, sono finzioni? In breve, sono
queste tre: esse sono in contrasto con la realtà: le identificazioni che
l'anahsi discopre impHcite sono irreah, e perciò i concetti etici sono erronei.
La impossibihtà d'una concihazione tra realtà e ideahtà in sede teoretica, non
esclude la possibihtà d'una conciha ztontsmo. Marchesini zione in sede pratica,
in quanto il fatto, accettabile nell'esperienza, che la vita etica con le sue
idealità si realizza, pur in forme parziali e relative, giustifica il principio
prammatistico che comanda di agire conformemente a quei valori, i cui concetti
sono riconosciuti erronei, come se fossero veramente assoluti. Attraverso il
prammatismo, l'errore, riconosciuto in sede teorica, dell'obiettività del
valore assoluto, è superato in una superiore verità teorica, per cui non è
contestabile la realtà della persona, quale si viene costituendo nella sua
dignità attraverso l'azione ispirantesi ai valori assoluti: e in tal modo è
salva l'unità della ragione pratica e della ragione teoretica – GRICE
AEQUI-VOCALITY thesis. Lavorare è finzione se la si fa consistere nel pieno La
perfezione possesso della idealità assoluta morale, o nella perfezione.
Ciascuno è morale secondo la propria natura, e condizionatamente a questa, per
i motivi che sono in essa, per le inclinazioni particolari ad essa consentanee,
e nei modi cui comportano le innumerevoli e svariatissime combinazioni degli
elementi del suo divenire psichico La perfezione, se fosse un concetto
positivamente valutabile, sarebbe in ciascuno in quanto la sua coscienza morale
risponde ^^'gnamente alle condizioni da cui è emersa e dalla quale è
determinata. Invece la moraHtà di un uomo è sempre l'esponente delle
accidentahtà del suo io; e se un grano di bontà morale è possibile, questo
risulta necessariamente dalla hmitazione inerente al modo concreto dell'essere
e del divenire intimo, personale {Le finzioni). Una conciliazione teorica tra
la morale della realtà e quella che l'ideale etico assoluto rappresenta come
modello unico, incondizionato, è dunque impossibile Ma a questa inconciliabihtà
teorica non corrisponde Conciliabilità un'assoluta inconcihabiHtà pratica. La
personalità che ha le sue proprie tendenze e i suoi propri ideah deve essere
tuttavia dominata e diretta dall'ideale etico impersonale, obiettivo, assoluto;
deve ricercarsi dunque una conciliazione tra le tendenze relative ai bisogni
soggettivi, e l'impersonalità -- cf. Grice three levels of generality:
impartiality – applicational, formal, and universalisability -- o assolutezza
dell'imperativo morale – Grice’s IMMANUEL. E questa conciliazione dovrà
necessariamente essere pratica. Questa conciliazione pratica si attua nel
principio prammatistico del come se: i valori assoluti sono fittizi, ma noi
dobbiamo agire come se fossero realtà. L'esistenza subiettiva è non meno reale
che quella obiettiva, e se esiste nell'anima dell'individuo una credenza
qualsiasi, fosse pure nell'assurdo, questa credenza, come modo di essere dello
spirito, è una realtà. Reale è quindi nello spirito l'oggetto, il contenuto del
credere, e ha necessariamente un'azione motrice o inibitrice, un potere di
direzione nel concerto delle idee, dei sentimenti e delle azioni individuah.
L'individuo, per l'eccitamento che a lui proviene dalla sua fede, opera dunque
come se questa fosse pienamente giustificata; come se esistesse obiettivamente
l'oggetto della sua credenza. Il processo di moralizzazione della vita ha due
momenti: constatarsi secondo il proprio reale essere individuale, con la sua
relatività, e trasfigurarsi fingendosi mighore: l'individuo constata in sé il
difetto di bontà, di giustizia, di generosità quale gli apparisce dal sincero
confronto di sé con le analoghe idealità, ed opera per queste idealità la
catarsi del proprio io, l'incremento morale del proprio essere e poiché le
ideahtà sono essenzialmente sociali, espressioni di una volontà, la volontà
collettiva – l’imperativo conversazionale di Grice --, non soggettiva ma
obiettiva, non arbitraria ma necessaria, io mi identifico con questa volontà
sociale – self love other love benevolence -- e riconosco praticamente questa
norma suprema: opera come se ciò che é vero socialmente, ed è socialmente
imposto come assoluto, fosse vero e assoluto anche per te; questa formula
esprime la rcLzionahtà della condotta morale, e per il suo valore pratico può
dirsi prammatistica. Fecondità della La volontà morale è per sé stessa feconda,
e può volontà morale, crearsi un mondo teoretico obiettivamente razionale –
GRICE the objectivity of value. Non è da escludere a priori che un mondo
teoretico razionale, obiettivo, possa costituirsi anche come mondo morale; non
è da escludersi che sia conciliabile senza finzione la ragione pratica o
volontà morale con la ragione teoretica o critica, Marchesini che possano
mantenersi integri e rigogliosi i valori morali seguendo la scienza. Questo è
l'edificio speculativo costruito da Marchesini ideale e valore. per la sua
Morale della finzione e del come se. Dei tre punti nei quali, per amor di
chiarezza, l'abbiamo articolato, il primo è quello che dimostra il grande
equivoco su cui tutto l'edificio si regge. È l'equivoco EQUIVOCO GRICE per cui
l'ideale etico della perfezione, e gii altri ideaH più speciaH in cui esso si
determina, siano realtà in atto, esprimano l'esistenza per sé stante, obiettiva
di un'Assoluto trascendente tutti i modi di essere relativi costituenti l'esperienza.
E messa a raffronto con la realtà empirica, alla cui stregua noi misuriamo la
verità o falsità delle nostre conoscenze, quell'altra realtà che è significata
dall'ideale, risulta in netto contrasto, rivela una contraddizione insuperabile
sul piano teoretico: e questa contraddizione spinge il pensiero critico a
qualificare come fittizia la realtà attribuita all'ideale, a definire come
nulla più che finzioni le idealità stesse e a riconoscere erronee tutte le
credenze nell'obiettività di esse. Il vero si è, invece, che ideale non
significa realtà, ma solo possibihtà e necessità di realizzazione, non
esistenza, ma diritto all'esistenza per il valore intrinseco che essa presenta,
e quindi dovere, per la volontà, di proporsele come fine della propria azione.
E tra essere e dover essere non è possibile una contraddizione logica, appunto
perchè essi non sono termini logicamente omogenei: per contro, l'essere, in un
soggetto di morahtà, fa appello al dover essere per riceverne elevazione e
incremento, e il dover essere fa riferimento all'essere di un soggetto per
potersi incarnare nella realtà. Perciò l'idealità non ignora la realtà naturale
ad essa opposta, ma la investe per impregnarla di sé, trasfigurandola: é
trascendente e assoluta, ma solo nel senso che il suo valore è sovraordinato ad
ogni realtà; e la sua imperatività é incondizionata. Se l'esperienza morale é
in questi termini, che senso ha il trattare l'ideahtà come finzione? Finzione
essa é nel significato etimologico, in quanto é costruzione della coscienza, in
quanto Positivismo e correnti afini è prospettiva di uno stato da realizzare;
ma non nel significato d'infingimento, di autoinganno, implicito nel principio
prammatistico del come se –cf. H. P. GRICE, SEMINAR ON “AS IF” --, che,
problematico dal punto di vista psicologico, è negativo dal punto di vista
morale, segno d'insincerità. L'ideale di perfezione segna una mèta, che, posta
a distanza infinita, può anche esser riguardata come irraggiungibile: ma non
per questo è fittizia, perchè con la sua imperatività segna alla coscienza, che
aspira a quella mèta una direttiva, nella quale è il criterio oggettivo per
distinguere ciò che nella condotta è retto, ha valore positivo, e ciò che è
deviazione, ha valore negativo. Apoditticità Certo, il pensiero speculativo
trova aperta innanzi a del dovere. g^ jg^ metafisica, c inclina a fare
dell'imperatività assoluta dell'ideale etico e della fecondità progressiva
dell'azione che ad essa s'ispira, l'indice di una Realtà superiore (Perfezione
assoluta, l'Essere divino, la sfera trascendente dei valori). Questo passaggio
dal dover essere all'essere si attua in costruzioni problematiche: ma la
problematicità delle deduzioni metafisiche non distrugge la certezza apodittica
dell'assoluta imperatività di quei principii morali, da cui la metafisica trae
le sue conclusioni sull'Essere assoluto. Alla morale, sia come scienza sia come
pratica di vita, basta il possesso di quella certezza. Nell'ambito di essa,
aggiungiamo, si pone la questione fondamentale della specificità dei valori
morali e della radice della loro obbligazione assoluta. Marchesini, abbiamo
visto, risponde riportando la morahtà alla sociahtà. Contro questa soluzione
possono essere riprese le critiche ripetutamente mosse a ogni interpretazione
esclusivamente sociologica della moralità. Ma non a questo si riferiscono i
nostri rihevi finali, bensì al fiiizionalismo e agh equivoci da cui esso
deriva. Troilo: dalla posizione positivistica al realismo assoluto DaUa scuola
d’Ardigò usci anche Troilo, nato nel MoKse, professore di filosofia teoretica
dapprima nell'Università di Palermo e Troilo: il che esprime la concezione
universalistica dell etica, nella quale il soggetto che valuta pone sé stesso
come un assoluto, senza tener conto delle circostanze particolari nelle quali
la sua coscienza morale si è costituita quale è, e assume quella coscienza come
infallibile principio di discriminazione tra il bene e il male. Il dovere, che
è l'astrazione di un fatto psicologico ultimo, è di natura formale, e comporta
pertanto ogni maniera di contenuti; e il bene morale non può farsi consistere
in uno o altro di questi contenuti, bensì neU'atteggiarsi della condotta
coerentemente al riconoscimento e al sentimento dell'obbUgazione. È
assolutamente infondata l'esigenza di stabiUre quale è il contenuto in se e per
sé buono, quali sono i principii che la coscienza dell'individuo particolare
accogherà e riconoscerà. La psicologia della valutazione porta al
riconoscimento di una pluraHtà di punti di vista, i quah con le loro armonie e
con le loro antinomie le forniscano un proprio oggetto. Ciascuna delle
moltephci direzioni costanti del nostro volere vanta diritti o accampa pretese
sopra l'uomo tutto quanto, e in questo é il germe dei conflitti nei quali si
esprime la problematica della nostra attività pratica. S'invoca un criterio
alla stregua del quale siano conciliati i contrari e superate le
contraddizioni. Poiché ciascuno è inclinato a pensare, qualora abbia risolto
per proprio conto il problema, che quella soluzione da lui prescelta sia anche
la soluzione adeguata e giusta, si spiega la tendenza ad assegnarle un valore
universale, a esigere che universalmente venga approvata e fatta propria dagh
altri. L. Limentani: pluralismo etico Questa concezione del Limentani solleva
riserve, dubbi, gh intenti dei obiezioni, di cui faremo qualche cenno tra poco.
Ma, al di là di tutte le critiche anche le più radicali che ad essa possano
muoversi, è da riconoscere innanzi tutto che essa è tutta animata e sorretta da
genuina e fervida preoccupazione di salvare i più elevati valori morali. Il
concetto centrale che morahtà non è altro che fedeltà nella condotta effettiva
all'idea liberamente assunta dal soggetto come il proprio dovere, come
direttiva che la coscienza dell'obbhgo impone alla propria azione, significa
affermazione del valore supremo della persona, quale operosa costruzione della
propria realtà spirituale nello sforzo di sanare il dissidio interiore
inehminabile dalla vita individuale, con l'assicurare l'effettiva supremazia di
ciò che è sentito come doveroso sulle tendenze avverse: in quell'enunciazione
dell'imperatività della coerenza dell'atto col sentimento del dovere, è l'eco
della celebre affermazione kantiana che l'unico vero bene morale è la volontà
buona e universale, nel suo carattere puramente formale questo valore della
dignità umana consistente nella fedeltà pratica al proprio sentimento del
dovere: nessuno di noi, certo, può penetrare il segreto della coscienza degli
altri individui e dare un giudizio sulla moralità del loro operare, ma
presumendo in tutti la sincera dedizione di ciascuno all'idea da lui sentita
come doverosa, noi sentiamo negh altri individui, anche se la causa per cui
combattono con sincerità sia diversa e perfino antitetica alla nostra, uno
sforzo, identico al nostro, di costruire la propria personalità, comprendiamo
il senso della loro azione e questa comprensione si trasforma in umana
simpatia, che ci affrateUa anche ai nostri nemici nella partecipazione a uno
stesso regno spirituale, E non manca infine nel Limentani, sebbene oscura e
incerta, l'aspirazione a porre le basi per interpretare il mondo degli uomini
come una società di spiriti che collaborano all'opera comune di costruzione
dell'umanità non soltanto in ciascuno di noi ma anche in tutti gh altri
consoci. NobiHssime aspirazioni e preoccupazioni, queste, che Osservazioni
pervadono la costruzione speculativa del Limentani dando alle sue sottili e
faticose analisi un afflato di schietta ed elevata eticità. Ma gli apparati
teoretici che egli appresta per la soluzione dei problemi che l'esame della
vita etica viene via via affrontando, sono adeguati all'appagamento di quelle
aspirazioni e preoccupazioni? Qui appunto la critica solleva obiezioni così
numerose e gravi, da giustificare o rendere almeno plausibile la conclusione
che quella dottrina, piuttosto che convaUdare e fondare, rinneghi le esigenze
etiche affermate, e porti al dissolvimento di ogni eticità. Cosi, all'esame dei
concetti che pel Limentani esprimono i vari momenti o elementi costitutivi
dell'atto fondamentale della costruzione del valore della propria personalità
individuale, risulta che la coscienza dell'obbligo ossia l'attribuzione del
carattere d'imperatività a uno dei molteplici e contrastanti fini verso cui ci
spingono le tendenze e inclinazioni costituenti la nostra natura di esseri
fisio-psichici e sociah, è per Limentani un dato di fatto, che potrà essere
spiegato causalmente nella sua genesi; ma rifiuta qualunque tentativo di
giustificazione che fondi la preferibilità assoluta del fine prescelto rispetto
agli altri: io debbo agire così; perchè così son fatto, e, in forza di questa
mia costituzione di fatto, così sento di dover agire: la coscienza
dell'obbligatorietà non è che sentimento, e il sentimento è espressione della mia
soggettività quale è di fatto, e si sottrae ad ogni esigenza giustificativa.
Può questa determinazione del mio essere quale mi si rivela nel sentimento già
costituito reggere il peso della prospettiva del mio dover essere ossia della
mia opera morale come instaurazione d'un essere che è da costituire come una
realtà nuova rispetto a quella che sentiamo al punto di partenza? D'altra
parte, il sentimento mi rivela il mio essere individuale quale è costituito in
questo momento, in questo punto attuale del processo di formazione della mia
individualità: ma in ulteriori momenti questo mio essere, sotto l'azione dei
moltepUci fattori che concorrono a costituirlo, potrà mutare, e il sentimento
registrerà questi mutamenti e potrà portare all'assunzione di fini obbligatori
diversi da quelli che attualmente s'impongono a me. Ora Limentani: pluralismo
etico è lecito domandare se la possibilità di siffatta mutevolezza possa
conciliarsi con la funzione che al fine assunto come obbligatorio si
attribuisce, di bandiera sotto la quale io combatto la mia battaglia morale, di
causa alla quale si debba nell'azione testimoniare la propria fedeltà; non
implica tale funzione una costanza e continuità, che abbraccia anche i momenti
futuri della mia esistenza e renda possibile l'unità e coerenza interiore della
mia personaUtà? Ma nulla giustifica, nella dottrina del Limentani, la pretesa
del mio fine attuale, ad estendere il proprio predominio al futuro: il cambiar
bandiera, il sostituire alla mia causa di ieri un'altra causa, non altera quel
rapporto formale di coerenza tra l'azione e il dovere, che è l'essenza della
moralità e il tratto costitutivo della personahtà. Se il valore morale della
mia personahtà sussiste immusì devono ritato pur nella diversità e antitesi dei
fini che io posso assu^P programmi op mere come obbhgati in momenti diversi dal
mio operare, è pressivi? chiaro che questo concetto formale della personalità
può essere esteso anche agh altri individui: ma con questa conseguenza
palesemente contraddittoria, che, mentre da un lato si afferma che ogni
personahtà merita rispetto essendo assoluto il valore morale di essa,
dall'altro lato deve essere non solo compresa ma giustificata, in questo o
queU'individuo, la fedeltà a una causa che implichi il programma di oppressione
o addirittura di soppressione violenta delle personahtà altrui. Non posso
simpatizzare, in nome di una presunta comune umanità con un altro individuo il
quale si arroga il diritto anzi come dovere di farsi persona attraverso
l'osservanza di un principio che è negazione di una comune umanità, un
principio di sopraffazione deUe personahtà altrui. Di comune a tutti i soggetti
che intendono essere membri del regno dello spirito attuantesi nel mondo degli
uomini è il diritto e dovere di essere coerenti con sé stessi: ma è un
requisito questo che, nella sua formahtà, nella sua indifferenza per il
contenuto del fine e della norma con cui l'individuo si sente obbhgato ad
essere coerente, ha un'universahtà che non ehmina ma ribadisce la chiusura
dell'individuo in sé stesso, in una radicale estraneità agh altri. Positivismo
e correnti a fini Il positivismo Il sociologismo di Levi. Uno svicnhco cerca ti
i^ppo autonomo del positivismo sociale troviamo in un altro senso dei fatti.
scolaro dell'Ardigò, Levi che, dopo aver schizzato a vent'anni le vie
fondamentali del proprio pensiero in Determinismo economico e psicologia
sociale, si specializzò poi in iìlosofìa del diritto Per un programma di
filosofia del diritto e insegnò tale discipHna in varie Università, da ultimo a
Firenze. Classici sono rimasti i suoi Contributi ad una teoria filosofica
dell'ordine giuridico e il saggio su Filosofia del diritto e tecnicismo
giuridico, nonché la Teoria generale del diritto. Dopo la sua morte. Fassò curò
la raccolta in due volumi degli Scritti minori di filosofia del diritto,
coiTedandoli di una completa bibliografia. Politicamente Levi aveva simpatia
per il sociaHsmo, espressa nei lavori suLa filosofia politica del Mazzini e II
positivismo politico di Cattaneo; e nell'analisi concreta dei fatti sociali,
pur restando fedele al modello di quello che egli chiamò positivismo critico,
seppe fare i conti anche con le esigenze messe innanzi dall'idealismo
storicistico. L'accertamento dei fatti, nella sfera dei fenomeni sociali, non
può per lui andare disgiunto dalla penetrazione del senso dei fatti medesimi,
in cui si manifesta la coscienza collettiva dei gruppi sociali. Questo tradursi
della psiche umana collettiva nei fatti sociaU è oggetto di uno studio che può
dirsi di fenomenologia positiva, e che rappresenta un'interessante risposta, da
parte di un ricercatore formatosi in clima positivistico, al nuovo modo
storicistico e non più naturahstico di intendere i fatti. Al di fuori dei
quadri della scuola ardigoiana con i suoi sviluppi e le sue crisi, si
delinearono in ItaUa nei primi decenni del secolo e. Guastella: il fenomenismo
indirizzi filosofici d'ispirazione o orientamento più o meno schiettamente
positivistico. L'assunzione dell'esperienza senL'esperienza sibile interpretata
in senso naturalistico a fonte prima dei criteri di soluzione dei problemi del
conoscere, della realtà, della moralità, l'avversione ad ogni forma
d'apriorismo o di presupposti metafisici, un atteggiamento decisamente polemico
verso l'idealismo assoluto che veniva prendendo n sopravvento nella cultura
italiana, sono tratti comuni a taH indirizzi: tra questi i più rilevanti per la
natura delle posizioni in cui sboccano, sono il fenomenismo del GuasteUa, il
superrealismo dell' Orestano, lo scetticismo e relativismo del Rensi, del Levi
e del Tilgher. Guastella professore di filosofia teoretica all'Università di
Palermo, si era formato nel clima del positivismo italiano, ma, risalendo alle
fonti lontane di esso, e più particolarmente al classico empirismo inglese, era
giunto a formulare una dottrina sistematica sul pensiero e sull'essere, che è
in sostanza una rimeditazione e rielaborazione delle tesi fondamentali di Mill,
sviluppate fino alle estreme conseguenze. Espose le sue idee in opere ponderose
{Saggi sulla teoria della conoscenza: Saggio primo: Sui limiti e l'oggetto
della conoscenza a priori; Saggio secondo: Filosofia della Metafisica in 2
voli.; Le ragioni del Fenomenismo). Ma nonostante il rigore logico della sua
trattazione e la fermezza intransigente con cui sostenne le sue idee, queste
non ebbero larga ripercussione nel pensiero italiano, sia per l'indole sohtaria
dell'Autore, sia per la scarsa novità dei motivi fondamentali, sia per
l'avanzare vittorioso dell'ideaUsmo nella stessa scuola (per alcuni anni, nell'Università
di Palermo, accanto al Guastella insegnò il Gentile). Non è possibile
oltrepassare il mondo dell'esperienza: impossibilità fuori dell'esperienza non
c'è nulla e non è pensabile nuUa. l'esperZma"^ Ed esperienza significa
sensibilità: pensare è sentire, cioè presenza o avvertimento immediato di
determinazioni qualitative concrete e particolari, senza che questo implichi
Positivismo e correnti afini Problema dell'oggettività. Nominalismo. un ente
distinto da esse a cui esse siano presenti o da cui siano avvertite: quel che
si dice soggetto dell'esperienza o io non è esso stesso che un insieme di
sensazioni anche se illanguidite o deboh nella forma di immagini o
rappresentazioni. E d'altra parte quelli che diciamo oggetti reali, essendo un
insieme di sensazioni, sussistono se e in quanto essi sono sentiti : esse est
percipi. Se la conoscenza ha per oggetto la verità come accordo tra pensiero e
essere, nessun'altra dottrina è, secondo Guastella, in grado di dare a
quest'accordo che è la verità, un fondamento altrettanto sicuro quanto la sua,
che considera essere e pensiero fatti della stessa stoffa, la sensazione. Ma su
queste basi non si spiega la possibilità di un conoscere oggettivo, del sapere
scientifico, le cui verità hanno la pretesa di valere universalmente, di essere
leggi della realtà, soverchianti la provvisorietà e parziahtà e causaUtà delle
immediate esperienze soggettive. Occon^e dunque, a questo scopo, ammettere
principii ultrasensibiH? e attribuire al pensiero il potere di oltrepassare i
limiti dell'esperienza e di procedere a priori alla conquista di verità
oggettive? Guastella lo nega risolutamente, e per riaffermare il suo radicale
empirismo sottopone a un esame critico la teoria del pensiero, nella
tradizionale distinzione dei tre momenti di esso, il concetto, il giudizio, il
ragionamento. Per quel che riguarda il concetto, di esso non può darsi che
un'interpretazione nominahstica: esso cioè è im'entità puramente verbale, un
nome che, riferito alla realtà, non designa un contenuto nuovo rispetto a
quello sensibile i] cosiddetto intelligibile universale, ma sempUcemente una
molteplicità di sensazioni concrete e particolari: è assurdo attribuire realtà
alle astrazioni concettuah, perchè queste sono immagini generali, ed è
impossibile ammettere che esista un reale, per esempio un uomo, che possegga i
caratteri comuni all'umanità senza quei caratteri particolari che distinguono
un uomo da un altro nella sua concreta particolarità. e. Guastella: il
fenomenismo Quanto al giudizio, esso è affermazione di rapporti tra 11 giudizio
come dati sensoriaU e tra immagini. Ora pel GuasteUa i rapporti \Z^f^'ZZu^' più
generali tra le cose sono quelli di tempo e di spazio, sono sequenze o
coesistenze: e questi non possono essere offerti che dall'esperienza effettiva
delle cose, sono a posteriori: la presenza al pensiero della nozione o immagine
di ciò che in una sequenza è l'antecedente, perchè in esso il pensiero stesso
vi trovi il fondamento del passaggio al conseguente. Ma accanto ai rapporti di
sequenza e coesistenza Guastella pone un'altra classe di rapporti, quella della
somigHanza e dissomigHanza; la cui affermazione è il contenuto di quei giudizi
ch'egH chiama comparativi. Ora per questi non è necessario il ricorso
all'esperienza delle cose, basta la comparazione delle nozioni o idee di esse:
non c'è bisogno di percepire due gruppi di due oggetti ciascuno da una parte e
di un altro gruppo di quattro oggetti dall'altro, ma basta la comparazione dei
concetti (immagini) di essi, per scorgerne l'uguaghanza (somigHanza), come
basta la comparazione delle immagini di verde e di giallo per affermarne la
differenza: e dunque la vaHdità di questi giudizi è a-priori, e solo
successivamente è trasferibile nelle cose. La matematica è, secondo Guastella,
costituita di giudizi di somigHanza, e perciò è scienza razionale a-priori. Ma
appunto perchè i giudizi a priori non hanno riferimento aUa realtà,
l'ammissione di essi, secondo GuasteUa, non incide menomamente sul valore del
principio che solo l'esperienza sensibile consente la conoscenza deUa realtà:
l'empirismo radicale non è intaccato. Solo i giudizi esistenziali concernono le
cose, mentre, i rapporti di somigHanza non sono nuUa di oggettivo, non fanno
parte del contenuto dei singoH termini, ma sono il risultato di una sintesi
mentale. Pertanto le scienze fisiche come queUe storiche sono costituite di
giudizi esistenziaH e sono scienze sperimentaH, mentre le matematiche sono
costituite di giudizi comparativi e riguardano le idee. Con ciò, non è ancora
risolto il problema deUa possi Possibilità delia biHtà deUa scienza come sapere
oggettivo, come determi sctenza. Positivismo e correnti affini nazione di leggi
universali dei fenomeni. I rapporti di sequenza e di coesistenza constatabili
nell'esperienza sono particolari: il passaggio all'universale è compito di quel
terzo momento del pensiero che è il ragionamento, di cui l'unica forma
legittima per l'empirismo è l'induzione. Il fondamento dell'induzione è la
costanza di certi rapporti di sequenza e di coesistenza constatata
nell'esperienza passata. Ma questo non basta ancora per la trasformazione di un
certo rapporto in legge: a ciò si esige che la costanza del rapporto constatata
nell'esperienza passata sia estesa alla esperienza futura, esige cioè che il
futuro sia conforme al passato. Ma la credenza nell'uniformità della natura è
un postulato indipendente dall'esperienza. Qui non soccorre più l'empirismo. E
si profila nella conclusione l'ombra dello scetticismo humiano. Uiiiusione meUn
empirismo così radicale come quello del Guastella tafistca va spieesclude
qualunque forma di conoscenza metafìsica. Eppure, egU riconosce come permanente
e irresistibile la tendenza dello spirito umano a oltrepassare il mondo
dell'esperienza e ad ammettere una realtà assoluta soprasensibile. Pertanto egh
ritiene che compito del filosofo sia quello di mostrare insieme con
l'illusorietà del sapere metafìsico la genesi psicologica del suo necessario
formarsi. La dimostrazione della illusorietà della conoscenza metafìsica
comprende i) la critica condotta sul modello dell'empirismo inglese, da Locke a
Hume e al Mill dei due concetti fondamentali di causalità efficiente e di
sostanza, intesi come arbitraria trasformazione d'una sequenza temporale
attestata dall'esperienza in connessione necessaria tra antecedente e
conseguente (produzione del secondo da parte del primo) per quel che riguarda
la causa, e, per quel che riguarda la sostanza, d'un rapporto di coesistenza
tra varie rappresentazioni quaUtative in un qualcosa di distinto da esse che ne
costituisca come il sostrato permanente; l'arbitrarietà del procedimento
psicologico da cui si origina l'aspirazione alla conoscenza di una realtà
ultrasensibile, ossia della tendenza a estendere alla totahtà dei fenomeni a
noi non famihari e. Guastella: il fenomenismo le spiegazioni o, meglio le
presunte spiegazioni che dei fenomeni a noi più familiari si crede di poter
dare mediante il concetto di causazione efficiente. In altri termini, si
ritiene che al senso comune e all'intelletto che non ha fatto ancora la critica
di sé e delle sue nozioni, sembra che l'esperienza a noi più familiare presenti
due tipi di causazione efficente dei fenomeni, l'azione dello spirito sul corpo
(cioè la produzione dei movimenti del nostro corpo da parte dello spirito) e
l'urto di un corpo con un altro corpo come causa dei movimenti di questo.
L'evidenza di questi due modelli di causazione autorizza ad estendere l'uno o
l'altro di essi a tutti quanti i fenomeni e si hanno così le due classi di
sistemi metafisici apparsi nella storia del pensiero, cioè i sistemi
spirituaUstici (che antropomorficamente scorgono in tutta la realtà l'azione
causale dello spirito) e quelli meccanicistici che considerano tutta la realtà
come un complesso di urti reciproci dei corpi. Ma secondo Guastella questa
tendenza psicologica a univerzalizzare rapporti che al più valgono per
l'esperienza più famihare a noi uomini non è per nulla giustificata, e pertanto
la filosofia della metafisica è dimostrazione deU'iUusorietà della metafisica
stessa. La fallacia dei sistemi metafisici, dimostrata attraverso la critica
empiristica del concetto di causahtà efficiente, è confermata dalla critica
empiristica del concetto di sostanza. Il senso comune e l'intelletto non
critico credono di Fallace concetscorgere nelle esperienze dei fenomeni esterni
a noi più fa'° materiale o spi miUari permanenza o identità con sé stesso di
qualcosa rituale. che si manifesta nel divenire, ossia nel sorgere e nello
scomparire di qualità sensoriaU, ma non si esaurisce in esso, in quanto non
nasce e non muore. E col sohto passaggio dal famihare al non famihare
s'interpreta tutto il mondo esterno come una plurahtà di sostanze materiali
immutabih, le cui diverse posizioni reciproche nello spazio determinerebbero le
variazioni quahtative costituenti il divenire. Si formano così 1 sistemi
metafisici materiahstici o meccanicistici, tra cui l'atomismo. Ma la critica
scopre l'illusorietà del concetto. Positivismo e correnti affini di identità
sostanziale delle cose, in quanto nell'esperienza non v'è nulla di permanente,
e quindi nessun fondamento oggettivo hanno le interpretazioni metafisiche
materialistiche e atomistiche. Analogamente è illusoria la credenza che
l'esperienza interna ci riveU la permanenza e identità di una sostanza
spirituale o anima, perchè questa non è altro che una collezione di stati di
coscienza, e quindi infondate sono tutte le interpretazioni metafisiche di
orientamento spirituahstico. Questa critica porta alla conclusione che la
filosofia dell'esperienza deve limitarsi alla constatazione dell'esistenza di
quaUtà sensoriali e di dati di coscienza, rifiutandosi di ammettere sostanze
materiali o spirituali. È soltanto un pregiudizio del senso comune la credenza
che il cosiddetto mondo esterno sia costituito da corpi che esistono per sé
quah noi li percepiamo ma indipendentemente dal nostro percepirli: che siano
percepiti o no, è indifferente per il loro essere. Su questo pregiudizio si
basano tutte le forme di reahsmo, e da esso derivano le antinomie che le
concezioni reahstiche presentano e sono per esse insuperabiH. Solo liberandoci
da questo pregiudizio si ha una visione coerente della realtà, quale è data dal
fenomenismo: esse est percipi. A questa confutazione del realismo e alla
conseguente dimostrazione della tesi che non v'è altra realtà che quella degli
stati di coscienza ossia quella della nostra esperienza, Guastella dedica la
sua opera conclusiva, Le ragioni del fenomenismo. L'assiologia di Sacheli. Uno
sviluppo originale in direzione della filosofia dei valori fu dato al
fenomenismo del Guastella da Calogero SACHELI, scolaro, oltre che del
Guastella, del pedagogista Colozza, e professore lui stesso di pedagogia a
Messina. Il primo nucleo di scritti del Sacheli si colloca poco dopo la fine
della prima guerra mondiale {Assiologia; Indagini etiche; Fenomenismo), e mira
soprattutto a scalzare la pretesa di L'assiologia di Sacheli una struttura
concettuale data, che offra una volta per tutte il quadro necessario
dell'attività umana. In un secondo gruppo di scritti {Atto e valore e Ragion
pratica), Sacheli mostra che riconoscere la concretezza dell'immediato non
significa negare ma, al contrario, salvaguardare i valori dello spirito. Il
proton pseudos, per Sacheli, è cercar n valore non è di ricondurre il valore
all'essere: poiché allora il valore sarà concepito come qualcosa di già dato,
vuoi come fatto, vuoi come forma, e perciò come qualcosa di inerte, di
irrilevante, che cessa pertanto, non solo di essere valore, ma anche di essere
comunque, per ridursi al nulla. L'essere va bensì cercato, ma muovendo dal
dover essere, senza mai pretendere d'averlo trovato compiutamente: va cercato
in una tensione continua. Per questo il reale concreto è sempre mobile,
imprevedibile, problematico, caratterizzato da quella che Sacheli chiama axiofenomenicità:
cioè fenomenicità costituentesi nella tensione verso un valore. In questo
concetto dell'esistere si può notare un influsso, sia della critica del
concreto di CarabeUese, sia dell'idealismo di Gentile, nel senso che entrambi
stimolano la polemica del SacheU e quindi, in parte, lo condizionano. Contro il
primo, SacheU sostiene infatti il vanificarsi di un ontologismo verso cui non
ci si muova axiofenomenicamente; contro il secondo, la necessità di ammettere
una plurahtà di soggetti, e non un soggetto unico e assoluto. L'esigenza
dell'alterità è, anzi, il principio sintetico originario dell'esperienza, ciò
per cui l'esperienza concreta si fa nell'io, in vista dell'unità con l'altro
io. Ciascun io, nella sinteticità concreta che egli è, è chiamato a reaUzzare
quel pieno sé stesso che non può veramente essere un me, un ego che distingue,
separa ed oppone ma un io che per tale mezzo é, in ultima analisi,
quell'unicità axiologica cui solo siamo necessariamente, interiormente
orientati Ragion pratica. Non senza forzature e oscurità, Sacheh si sforza così
di mettere in luce una vocazione intimamente axiologica nel fenomenismo,
affacciatosi con Hume, e soffocato da Kant e dai postkantiani sotto strutture a
priori. Positivismo e correnti affini Orestano: scienza etica e superrealismo
Orestano, nato nel Palermitano, professore di FILOSOFIA MORALE e di storia
della filosofia, lascia volontariamente la cattedra, dichiarando di voler
dedicare tutta la sua attività all'esecuzione d'un programma speculativo molto
ambizioso, o forse, più propriamente, presuntuoso: la costruzione di un Ricerca
di sistcma, nel quale da un lato il problema etico e, più in ge^ifica'^^r^J-^'
dei valori umani, dall'altro, il problema della realtà e della conoscenza,
impostati su basi sperimentali, avessero una soluzione rigorosamente
scientifica, e costituissero quindi (pur al di fuori dei quadri della scuola
positivistica) una nuova filosofia positiva. E d'altra parte questa, a suo
giudizio, si inseriva nella più genuina tradizione del pensiero italiano: si
presta quindi ad essere strumento e appoggio nel campo culturale del nuovo
regime politico instauratosi in Italia, a difesa e incremento dei nostri valori
nazionali. Accademico d'Italia tra i primissimi nominati e quale presidente della
Società Filosofica Italiana, abile orchestratore di congressi e convegni
filosofico-politici, Orestano con una campagna ferocissima di poco edificanti
polemiche svolse un'accanita concorrenza con l'ala gentiliana deU'ideaUsmo da
lui boUata per le sue origini hegeliane come espressione deUo spirito
germanico, in uno sforzo tenace di soppiantarla nella funzione di filosofia
ufficiale del regime. I primi lavori teoretici concernono la fondazione di una
nuova etica: e con essi egli carezza in segreto e più tardi lo dichiara
apertamente l'idea di essere BONAIUTO Galilei o Newton deUa scienza del bene e
del male, / valori umani, e i Prolegomeni alla scienza del bene e del male,
sono le più importanti tra le sue opere. Orestano presenta un programma di innovazione
nell'indagine dell'esperienza morale, perchè questa possa assumere carattere e
valore di una vera e propria scienza quale esperienza pura, analogamente alla
concezione che della scienza dei fatti naturah ha formulata Avenarius. La
scienza Orestano: scienza, etica e superrealismo etica non può essere altro che
la descrizione della vita moDescrizione di rale da cui risultino lepri
esprimenti relazioni funzionali ^^! / 00 ir j ztonah costanti. costanti tra
fenomeni e rappresentanti la massima economia concettuale rispetto alla varietà
infinita dei fenomeni stessi, senza alcuna pretesa normativa. Si aggiunge che
la scienza della morale, se vuol essere scienza veramente positiva e riuscire
alla descrizione più completa e più semplice della realtà etica, deve rendere
formali i propri concetti, senza dare alcuna definizione concreta del bene e
del male, né difendere alcuna intuizione particolare della vita morale, sia
egoistica o altruistica, sia individualistica o collettivistica, ecc., bensì
applicando indistintamente i propri concetti a tutte le esperienze morali, dai
gradi infimi ai supremi. E le relazioni funzionali costanti che si scoprono
nel/ valori. l'esperienza morale sono i valori: l'atto di valutazione è quello
che la scienza morale deve innanzitutto analizzare. Ogni valutazione è reazione
di un oggetto alla soggettività: ma a proposito della natura di tale reazione,
il pensiero dell'Orestano presenta oscillazioni e incertezze tra la persuasione
che essa sia un atto di coscienza (reazione psicologica) e l'altra che essa
comprenda elementi extra psicologici, inconsci e subconsci. La soggettività,
che reagisce nella valutazione, è per Orestano un sistema di vita, che presenta
una composizione multipla e pluricentrica: sotto l'aspetto psicologico è polipsichica
nel senso che nello stesso individuo si trovano più centri di attività, fonte
di processi sconnessi e discontinui; sotto l'aspetto organico è polizoico cioè
costituito da una moltephcità di vite, e sotto l'aspetto sociale policoinotico.
Questo sistema di vita di cui la coscienza non sarebbe che una piccola porzione
accanto a quelle dell'inconscio e del subconscio è la fonte onde promanano
tutte le determinazioni dei valori umani. Ulteriore chiarificazione della
natura dell'atto valutativo sembra all'Orestano la riduzione del valore a uno
stato di interesse, inteso non nel senso intellettualistico di curiosità, ma in
senso bio-psichico, come reazione della personalità nella sua Positivismo e
correnti affini totalità bio-psichica, riferita al suo oggetto determinato e
indeterminato (il che, come si vede, non è certo una chiariII subconscio,
ficazione). Ma per quanta importanza possa avere neUa vita della personalità il
subconscio e l'inconscio e per quanta verità sia contenuta neUe lunghe anahsi
che Orestano fa di queste zone, rimane indubitato che gli elementi inconsci e
subconsci, intanto possono essere riguardati come fattori della mia personahtà,
in quanto presentano un qualche rapporto e hanno una qualche ripercussione
nella coscienza, e propriamente in quel centro di essa che costituisce l'unità
di tutte le sue più diverse manifestazioni, e che appunto chiamiamo io. Un
valore è valore solo in quanto vien sentito come tale dalla coscienza,
qualunque siano le indicazioni che da questa esperienza cosciente possano
trarsi in ordine aUa realtà extra-psichica, qualunque possano essere le
condizioni obiettive di essa, tra le quali appunto rientrano i fattori
subcoscienti e incoscienti. E questo è in ultima anahsi riconosciuto dallo
stesso Orestano sia quando definisce la valutazione coscienza riflessa di uno
stato di interesse, sia quando risolutamente afferma che la coscienza è la
vera, l'unica sede della vita morale e quindi della attività valutativa in essa
imphcita. Ma allora noi ci domandiamo, perchè dichiarare vano il tentativo di
spiegare psicologicamente il fatto della valutazione e respingere la teoria
deUa funzione valutatrice come specifica e irriducibile ad altro, quando la sua
equazione valore-interesse è espressione diversa di questa stessa tesi e non
denota elementi più semphci ai quali la nozione di valore sia riducibile? La
soggettività NeU'equivoco EQUIVOCO GRICE e nel vago noi restiamo quando
Orestano, loi possa immaginare. La vita è im complesso di funzioni e di
attività, le quali si svolgono nelle direzioni più varie: è vita quella
dell'idiota, come è vita quella di Socrate o di Gesù: a quale delle due debbono
venir ragguagliati i diversi valori, perchè se ne possa stabilire una serie
graduale? La vita è il campo in cui l'attività pratica si svolge, diciamo
meglio è la materia che questa attività tende ad elaborare, a sistemare, a
unificare; è chiaro che questa sistemazione ed unificazione non potrà esser
fatta, se non alla stregua di criteri e principii di valutazione che non
possono esser fatti dalla vita stessa ut sic. La vita può anche essere
considerata, come vuole Orestano, il quantum d'energia qualunque questa sia di
cui in ogni istante disponiamo per l'attuazione di questo o di quel fine; ma è
chiaro che è la graduazione dei fini e dei valori, presupposta come già
compiuta, quella che determina la misurazione del quantìim di energia da
mettere al servizio di questo o quel fine, e non viceversa. E comunque può
richiedersi tanta forza fisica, tanta intelhgenza, tanta energia vohtiva, tanto
coraggio, ecc., per perpetrare un dehtto, quanta per compiere un atto di
salvataggio. Nessun lume ci viene in proposito dal ricorso a una o altra delle
metafore tratte dalla matematica, che per Orestano rappresentano come lo
specimen del metodo di misurazione che nello studio dell'esperienza etica deve
essere introdotto perchè questo studio sia veramente scientifico: {scire est
mensurare). Nessun lume, dicevo, ci viene dalla possibihtà, affermata
d’Orestano, di rappresentare i diversi valori come tante frazioni con
numeratore vario e con comune denominatore la vita, quando a questo
denominatore, espresso si con un unico simbolo, si dà volta a volta un valore e
un contenuto diverso. In questa teoria della valutazione in generale l'Orestano
Teoria delia vainquadra il problema del carattere differenziale che
contro^«o^^distingue la valutazione morale dalle altre forme d'interesse. E
ravvisa questo tratto caratteristico nel riferimento di un oggetto ad un
concetto unitario della vita nella totalità dei Positivismo e correnti afini
suoi scopi: il fatto morale è impiego effettivo, cosciente e volontario della
vita in funzione di un concetto di essa, considerata nella totalità dei suoi
aspetti e delle sue relazioni; l'esperienza morale è la vita che pensa e vuole
sé stessa. Nei giudizi morali è tutta la vita in questione, non la vita
puramente vissuta, ma la vita secondo un concetto o ideale che noi ci formiamo
di essa e dei suoi scopi. Questo concetto o ideale è il vero fondamento di
tutti i giudizi etici: fondamento relativo, perchè soggetto a mutazioni
storiche e individuah; ma una volta fissato, agisce come principio assoluto
nella determinazione dei valori dipendenti, e non c'è momento particolare della
vita, che non si possa valutare sotto l'aspetto morale. Il centro di
riferimento delle valutazioni morali è non necessariamente la vita neUe sue
attuali modalità biologiche, ma il concetto di vita nella totalità dei suoi
scopi, sia che questi scopi confermino o sia che tendano a modificare in
qualsiasi modo la realtà biologica nel piìi largo senso di questa espressione.
u ideale. Nella valutazione morale dunque, la nozione di vita che costituisce
per Orestano il fulcro della dottrina dei valori umani, si comphca con
l'introduzione di un nuovo elemento, il concetto o ideale di vita: e questo
presenta nuove difficoltà e incertezze. Come si forma questo concetto unitario
della vita, a cui devono essere riferiti tutti i valori, perchè assumano
carattere morale? Se s'è detto che la vita è l'unità di misura di ogni valore e
quindi anche del valore dell'ideale, come si può poi affermare che è l'ideale
l'unità di misura? L'Orestano afferma che l'ideale impone la propria legge alla
vita, e parla di coscienza di dovere, immanente in date valutazioni e
determinazioni; parla, altresì, di un soggetto che ha capacità e diritto di
promulgare ideaH di vita. Ma invano noi cerchiamo nella dottrina dell'Orestano
un'analisi approfondita della nozione di dovere. Per lui la norma morale non è
che lo schema astratto e costante di un'esperienza o di un gruppo di esperienze
che tendono a stabiLLzzarsi nella ripetizione, e importa la proclamazione di
volere e la coscienza di volere persistere in tutti i casi analoghi Orestano:
scienza, etica e superrealismo nelle medesime disposizioni valutative e
nell'attività corrispondente. Quando poi la norma è concepita e proclamata in
termini universali non soltanto per un dato soggetto, ma per una moltitudine di
soggetti appartenenti ad una data società (e tendenzialmente per la totalità
dei soggetti possibili), quella norma si chiama legge; e le leggi morali sono
norme e sistemi di norme che dispongono della vita umana nella totalità delle
sue relazioni. Queste sono le conclusioni a cui l'OreStano giunge nella Morale
econodescrizione della vita morale, e significano la pura e semplice ^If^ mora
e constatazione del fatto che esistano date valutazioni piìi o meno durevoli,
piii o meno intense, più o meno costanti. Ma quando è proposta la questione
della legittimità della coscienza, dell'obbligatorietà e della almeno
potenziale universalità delle norme e leggi morali che è poi la questione
centrale dell'etica Orestano fa una distinzione importantissima, che minaccia
di fallimento il programma stesso della fondazione di un'etica scientifica. E
la distinzione è tra due morali, caratterizzate d’Orestano come morale
economica e morale elettiva o morale dell'ideale. La prima è un insieme di
norme e leggi che hanno una funzione protettiva della vita, di comandi
proibitivi di tutto ciò che può nuocere alla vita, e costituiscono l'ordine
etico giuridico avente per principio fondamentale il valore assoluto della vita
biologicamente intesa (vita tanto di un individuo quanto di una specie). Questa
morale fondata sulla economia della vita tende al mantenimento di un ordine
sociale che tuteli ogni vita individuale contro qualunque fattore volontario di
distruzione e assicuri a tutti il libero svolgimento della personalità. Alle
leggi e norme della morale economica è riconosciuta come essenziale
l'obbhgatorietà e universaHtà ma questa si risolve nel consenso sociale, ha la
sua fonte nella autorità dello stato. La seconda morale invece si fonda non sul
valore assoluto della vita ma sul valore assoluto dell'ideale, ossia del
concetto di bene come costituente il contenuto spirituale positivo della vita.
Questo problema comporta soluzioni varie sempre più libere per ciascuna
personaUtà (e perciò è detta morale elettiva. Appunto perchè la personalità è,
come s'è visto, una collettività pluricentrica e i vari centri di funzioni sono
relativamente autonomi, ad un stesso individuo quel problema presenta conflitti
incomponibili e ineliminabili antinomie. L'ideale di vita è assoluto m.a in
rapporto all'individuo che lo formula e che vi si sottomette, anzi al momento
di vita che egli attraversa. I contrasti alle antinomie fra i vari ideali di
vita potrebbero portare ad uno scetticismo etico, potrebbero portare a credere
che la vita si svolge a caso senza né ordine né legge. Ma Orestano arretra
innanzi a questa conclusione negativa e si hmita a dubitare che l'esperienza
morale e forse tutta l'esperienza umana non rivela al pensiero la totaUtà delle
sue condizioni; che l'empiria esiga l'integrazione di un qualche elemento
metempirico che è forse l'elemento essenziale, ma inafferrabile per la scienza,
avvolto nel mistero. Mentre si voleva fondare sull'esperienza pura l'etica come
fondazione scientifica e la distinzione fra bene e male, alla fine sembra
inevitabile il ricorso alla metafisica come tentativo di svelamento del
mistero. Orestano scrive esphcitamente, alla fine dei Prolegomeni: non tutta la
realtà è nell'esperienza. Questo ci dice l'esame scientifico piiì accurato,
esaurite le sue più rigorose indagini fra crescenti oscurità e contraddizioni,
alla presenza di residui che ci sfuggono. Altra volta la scienza era invocata a
far piena luce in tutto: oggi essa non fa che adunare prove intorno all'esistenza
di un mistero inviolabile. V antinomia del Tra le antinomie scaturite
dall'anafisi dell'etica impersacrtficto. niata nel concetto di vita, è rilevata
d'Orestano in particolare quella relativa al dovere che l'etica elettiva impone
del sacrificio assoluto dell'individuo per la causa ideale trascelta. È quello
che Orestano chiama il paradosso della guerra: per l'economia della vita si
distrugge la vita: l'ideale, funzione della vita, può pretendere di attuarsi a
prezzo della vita. La vita è per il soggetto la sola vera misura che il
soggetto possiede, della realtà e del valore: come può una funzione dipendente
di essa, cioè l'ideale, inghiottire la variabile indipendente, cioè la vita? Questo
paradosso non si risolve Orestano: scienza, etica e superrealismo col
determinarne un certo rapporto di quantità: la vita è un valore assoluto che
non può sottoporsi a misura quantitativa; le vite distrutte nella guerra non
valgono meno, sol perchè meno numerose, delle vite protette: forse erano anzi
le piìi valide, le più nobili, le piìi degne di vivere. La guerra è un tragico
esperimento: il paradosso della guerra è comprensibile solo se si oltrepassa
l'individuo mettendo un legame intrinseco tra esso e il tutto. Se l'individuo
fosse veramente individuo, il suo sacrifìcio per la sua collettività sarebbe
assurdo. Se egli s'immola all'idea del tutto, vuol dire, che questa vive in lui
con una forza e un valore che trascendono ogni considerazione individuale.
Quanto più anzi l'idea del tutto vive nei singoli ed è capace di assorbire e
disciplinare tutte le altre valutazioni, tanto più il sacrifìcio individuale
diviene facile e pronto. E quando si dice idea del tutto s'intende non la
totalità della vita individuale, ma la totahtà dell'Essere. Siamo in piena
metafìsica: alla via discendente della riflessione verso lo sviluppo formativo
della scienza del bene e del male, qui Orestano sostituisce la via ascendente,
per la quale il problema morale scientificamente trattato diventa tutto il
problema umano: problema della verità e dell'errore, della certezza del dubbio,
del pensabile e dell'impensabile, il problema della coscienza riflessa, del
destino umano universale. Il passaggio è determinato La crisi delia dallo
spettacolo tragico della guerra. Fu questo dichiara §"'^'^Orestano nella
prefazione all'opera Nuovi principii ciò che lo indusse a una riforma del
pensiero, per renderlo idoneo a quella più integrale comprensione della realtà
e del divenire naturale e umano che egH chiama nuovo realismo o iperrealismo;
al quale egli dedica, oltre l'opera ora ricordata dei Nuovi principii parecchi
altri scritti successivi, tra cui il più importante è Verità dimostrate. Alla
fine il volume di raccolta di saggi intitolato // nuovo realismo. Per Orestano
il problema dei problemi della filosofia La realtà obietodierna è quello della
realtà: si tratta di vedere, contro l'immanentismo prima dominante, se si possa
ammettere l'esistenza e determinare la struttura d'una realtà obiettiva per sé
stante, indipendente dal soggetto, Antimmanen È Sorprendente che, nel procedere
alla dimostrazione tismo. della sua tesi realistica in senso
anti-immanentistico, 'Orestano muova da premesse che sembra significhino
l'accettazione in pieno deUa posizione immanentistica: oggi, egli dice, non è
più lecito dubitare né deUa soggettività deUe esperienze, né della
impossibilità di un sapere che pretenda uscir fuori dall'esperienza. Da un lato
l'esperienza è necessariamente relativa alla struttura psico-fisica e
logico-categoriale del soggetto dell'esperienza stessa; e, dall'altro lato,
l'esperienza è invalicabile. Ma per Orestano questo duplice riconoscimento non
basta a negare una realtà indipendente dal soggetto, ma anzi la postula a vera
necessaria integrazione. Significa andare oltre quella premessa, dedurne che
l'esperienza sia nulla più che indice d'una realtà soltanto soggettiva. Negare
in nome dell'esperienza una realtà trascendente è già oltrepassare
l'esperienza, e fare dell'ontologia: posizione arbitraria, questa, che
contraddice le premesse. E questo va detto non solo delle esperienze
particolari nelle loro concrete presentazioni, ma anche delle stesse forme a
priori, che Kant proclamò soggettive e soltanto soggettive, mentre niente
autorizza ad escludere che esse, oltre che forme a priori nel soggetto, siano
anche schemi oggettivi dell'accadere, o abbiano quanto meno un analogo
oggettivo. La subiettività, una volta stabihta, vieta di affermare, ma vieta
anche di negare ogni e qualsiasi corrispondenza tra le nostre esperienze e una,
sia pure ipotetica realtà transubbiettiva: chi lo nega viola il principio della
subiettività quanto chi l'afferma. Pertanto, se ne desume come unica
conseguenza legittima, non la soppressione di qualunque riferimento
trascendentale della nostra esperienza a una realtà in sé, ma l'affermazione
della problematicità della realtà in sé. Ogni esperienza nasce e si fissa con
un suo riferimento ontologico, cioè con un senso vettoriale verso una sia pure
ipotetica realtà in sé, assunta come il sustrato, lo sfondo, ragione F. Orestano:
scienza, etica e superrealismo e misura della stessa esperienza. Ma la
problematicità di questi riferimenti ne esige una continua verificazione,
escludendone l'accettazione passiva e totale. La soluzione del problema della
realtà in sé deve per Orestano essere in qualche modo positiva, ancorché
parziale, approssimata, provvisoria, pena la vita; perchè noi viviamo
effettivamente non mai tra soU fenomeni, ma tra noumeni, noumeni noi stessi.
Come presupposto di tutta la trattazione del problema La dimensioontoloedco,
Orestano ammette quella che egh chiama trascendentale dell'espe dimensione
trascendentale dell'esperienza, come componente Henza. costante e
insopprimibile di tutta l'esperienza nel suo complesso e di ciascuna esperienza
particolarmente presa, che ne addita i riferimenti a una realtà in sé, a un
ipotetico sfondo noumenico, trascendente tutti i dati componenti l'esperienza
stessa. E un tale riferimento si manifesta in due direzioni: l'una verso un
non-io (cose esteme, soggetti altri da noi, ecc.), e l'altra verso il nostro
stesso io, come entità tanto nascosta e misteriosa e inaccessibile quanto ogni
oggetto o non-io a noi estraneo. E in questa dupUce direzione, le rivelazioni
della cosa in sé che riusciamo a coghere sono egofanie, se riferibili al nostro
io trascendente, eterofanie se riferibih a un mondo in sé, a un non-io. Sulla
dimensione trascendentale si fonda quella che Orestano chiama metafisica del
fatto empirico. La dimensione trascendentale propone per ciascuna esperienza
un'ipotesi di ordine ontologico e non soltanto fenomenico; ipotesi suscettibile
di verificazioni sperimentaU soltanto parziaU e provvisorie, di correzioni,
integrazioni, abbandoni e riprese. La dimensione trascendentale costituisce
l'asse non solo di tutto il nostro pensare e conoscere, ma di tutto il nostro
agire, in quanto ad essa noi ci appoggiamo nel trattare i fenomeni sia sul
piano teoretico, sia sul piano tecnico e pratico. La questione fondamentale
dell'ontologia, secondo Orestano, consiste nell'esaminare se è possibile uscire
dalla problematicità ontologica delle esperienze, rimanendo con le esperienze e
nella esperienza. Questo problema comporta una soluzione positiva solo a
condizione che ammettiamo a priori di poter distinguere con criterii interni
esperienze da esperienze, confrontare cioè le esperienze ontologicamente certe
con le dubbie e con le ingannevoli, le obiettivamente condizionate dalle
incondizionate, ecc. La scala ontoioCon questo intento e questo procedimento
Orestano crede di poter ordinare i valori ontologici del nuovo realismo in una
scala ontologica graduata in modo che i gradi superiori implichino tutti gli
inferiori, ma li oltrepassino aggiungendo ai precedenti indici di accrescimento
di potere e di valore umano. Questa scala è così costituita: i) ricerca e
verificazione di costanti delle esperienze implicante la ripetizione delle
esperienze, sia la ripetizione indipendente dalla nostra volontà (osservazione)
sia ripetizione a volontà (esperimento): la scienza è tutta un'ansiosa ricerca
di tali costanti; 2) verifica delle costanti teoriche scientificamente
accertate, negazione integralmente considerata: l'uomo, per la soddisfazione
dei suoi bisogni, svolge un'azione la quale è come un interrogatorio a una
realtà in sé, proposto con le nostre previsioni: i risultati dell'azione sono
altrettante risposte; che danno sempre un valore positivo e negativo alle
nostre incognite e costituiscono l'unico controllo che possediamo, sebbene e
soltanto approssimativo e provvisorio, delle nostre verità e dei nostri errori
in un piano non soltanto fenomenico ma ontologico; 3) gli atti di valutazione,
con cui si trasfigura in senso umano la realtà obiettivamente data e vi si
inseriscono realtà umane che la stessa natura ignora; 4) funzione creatrice di
realtà tutte e soltanto umane, Creazione di la Creazione del mondo dei valori
umani: creazione che ha luogo non soltanto nella sfera circoscritta di una
personalità ma nelle costruzioni storico-collettive le quali danno indicazioni
pregnanti e provanti il realismo, nel grado massimo consentito. Questa
ontologia non è più confinata ai rilievi realtà umane. Orestano: scienza, etica
e superrealismo di date costanti, pur utilizzandole tutte; essa va oltre tutto
ciò che è già acquisito all'esperienza, non solo, ma che possa esservi
empiricamente dato. Non è un'ontologia passiva e contemplativa, ma
essenzialmente attiva, guerriera, in cui funzioni creatrici e rivelazioni
trascendentali (egofanie ed eterofanie) si compenetrano oltre tutti i hmiti.
Per essa il mondo non è più una quantità data; ma il soggetto s’immette in un
mondo di possibilità sconosciute e sconfinate e marcia alla conquista di
posizioni assolute. Nel mondo dei valori umani, edificato storicamente da
intere collettività umane, i valori spiegano tanta piii potenza realizzatrice
propria, quanto meno sono obiettivamente condizionati. Perciò si graduano essi
pure in una scala dai più ai meno condizionati, e inversamente dai meno ai più
elettivamente costituiti: valori economici, giuridici, politici, morali, poetici,
religiosi. In questa gradazione interna del mondo dei valori umani si va da
queUi che segnano un massimo di dipendenza o condizionalità obiettiva (i valori
economici) a quelH (i valori rehgiosi) che segnano il massimo d'indipendenza o
incondizionalità empirica e fondano realtà umane storicamente resistenti e
universalmente dominanti. I valori rehgiosi trasformano l'asse ontologico di
tutti i valori umani in un sistema metempirico: la categoria dell'Assoluto
opera in tutta la sua estensione: la trascendenza involge e domina tutta
l'immanenza e questa si potenzia e subhma nella trascendenza. Alle egofanie ed
alle eterofanie sono congiunte le teofanie. Tutti i gradi di questa ontologia
dalla prima ricerca delle costanti dell'esperienza al più alto ed efficiente
sforzo costruttivo di un mondo umano in funzione del SoprannaAnelito ai
soturale, sono pervasi dall'anelito a una realtà non illusoria. P''^Questo
slancio di continuo superamento riesce a fondare sistemi di realtà spirituale
trasumananti, a cui nessuna realtà fisica e naturale è confrontabile per
potenza ordinatrice e per fecondità creativa. Era un errore di prospettiva
della vecchia ontologia dare per veramente reale il regno della natura, e per
reale no Positivismo e correnti affini il regno dell'uomo solo in quanto
assimilato al primo. Per rOrestano è vero il contrario: non c'è nulla di cosi
labile come il fenomeno fisico, e nulla di più resistente e fecondo di realtà
del mondo dei valori umani, che la stessa natura è incapace di porre in essere
e che l'uomo crea e propaga all'infuori di ogni dipendenza da modelli fisici e
naturali. La scala ontologica, per essere umana, non è mai soltanto soggettiva,
e per essere frutto di pensieri, sentimenti e volizioni dell'uomo non per
questo presenta caratteri di realtà meno imponenti, anzi più, di qualsiasi più
potente processo cosmico. E, poiché ciascun grado superiore non solo implica e
convahda ma anche supera tutti i gradi inferiori, Orestano quahfica il suo
reahsmo costruttivo come superrealismo. Secondo questo realismo costruttivo il
processo della conoscenza non è mai sempHce adeguazione passiva a una realtà
data, ma si alimenta di un attivismo, che concorre col fatto proprio a
stabilire la consistenza e misura della realtà da noi conosciuta e vissuta. Le
nostre categorie contro quel che pensa Kant non hanno impiego e significato, se
non sono riferite alla realtà in sé. Esse sono gli schemi relativamente stabih,
benché sempre ipotetici, alla cui stregua noi tentiamo di congetturare e
organizzare l'accordo deUa nostra mente con una vera e non illusoria realtà. La
loro funzione è quella di ipotesi trascendentale e più precisamente di ipotesi
di lavoro. Le configurazioni che l'esperienza assume in esse e per esse sono
certo simboliche, ma le risposte che noi otteniamo alla nostra inchiesta
logico-categorica della realtà hanno sempre un significato. Le categorie, come
ipotesi di lavoro, sono da conservare finché utili e da abbandonare, se
sostituibiH con altre più feconde. // «superreaiiNel supcrrealismo dell' Orestano
confluiscono: i) motivi del positivismo (invalicabilità dell'esperienza nella
determinazione del reale, valore della scienza come attività formulatrice di
costanti relazionali e funzionali dell'esperienza, rifiuto dell' a-priorità e
fissità delle strutture categoriali del pensiero, da considerare invece come
risultato provvisorio d'un processo di formazione sempre aperto, concezione
dell'io smo. Orestano: scienza, etica e superrealismo i> ili non come realtà
originaria e centro e sostegno dell'esperienza ma come una costruzione
mentale); 2) motivi prammatistici {['azione come supremo criterio di verifica e
di discriminazione tra vero e falso); 3) motivi spiritualistici (la
spiritualità umana come potenza trasfiguratrice di tutta quanta la realtà alla
luce e in forza di valori costitutivi dell'essenza stessa della spiritualità, e
come potenza creatrice d'un mondo umano, grado supremo della realtà medesima,
culminante nell'Assoluto divino). Questi motivi di cosi diversa provenienza e
così eterogenei sono, nel nuovo realismo delrOrestano, piuttosto accostati e
giustapposti che non fusi organicamente in una visione veramente unitaria, e
gli sviluppi di essi lasciano tante oscurità e ambiguità, che essi spesso
appaiono asserzioni gratuite piuttosto che, come Orestano pretende, verità
dimostrate. Lo stesso concetto di dimensione trascendentale dell'esperienza,
che è presentato d’Orestano come l'asse della sua ontologia, non è sorretto da
ragioni che valgano a dissipare l'impressione che esso non si distingua sostanzialmente
dall'esigenza, puramente psicologica, che è alla radice di ogni realismo
ingenuo. L'ontologia del nuovo reaUsmo si presenta come la trascrizione in
chiave trascendentlstica di quella rete di rapporti che l'immanentismo pone
come prodotta dall'io e insidente nell'io. IO. Lo SCETTICISMO E IL MATERIALISMO
FENOMENISTICO DI Rensi. Rensi dopo avere esercitato, per molti anni a Verona,
sua città natale, e nel Canton Ticino, suo rifugio di profugo, l'avventura e n
giornalismo pohtico, fu professore di filosofia nell'Istituto Superiore di
Magistero a Firenze e poi nelle Università di Messina e di Genova, fino al
1934, anno in cui, avendo rifiutato il giuramento di fedeltà al fascismo, fu
privato della cattedra. Dalla fine della prima guerra mondiale in poi egh, con
una abbondante produzione filosofica, si fece banditore d'un radicale
scetticismo, denunciando l'impotenza della ragione a stabihre principii che,
oltre le moltepUci e 9. Positivismo e correnti affini contrastanti opinioni,
permettano un qualsiasi accordo fra gli uomini nella ricerca del vero, nella
pratica del bene, nella contemplazione del bello, nello sforzo di costruzione
d'un ordine sociale e politico, nell'aspirazione al divino Scrittore popòcome
fonte di fiducia e di speranza. E si conquistò una larga ^"^cerchia di
lettori, anche al di fuori del mondo dei filosofi di professione. Questa
quasi-popolarità fu favorita dalle innegabiU doti di scrittore vivace e
immaginoso; dallo spirito polemico, pronto agli attacchi piìi violenti contro
gl'idoli del giorno, a cui magari egli stesso aveva il giorno avanti bruciato
qualche grano d'incenso (e il neo-idealismo di Croce e Gentile fu l'oggetto dei
colpi più duri), pronto, altresì, alla difesa della causa dei vinti,
all'abilità dialettica, spesso contaminata se non soverchiata da capziosità
sofìstica, nel raccattare alle fonti piìi eterogenee e lontane e accozzare
insieme argomenti a sostegno delle proprie tesi, con scarso senso della
prospettiva storica, più per estrinseca giustapposizione che per intima
rigorosa connessione logica; infine, dalla consonanza dei motivi fondamentali
del suo speculare con lo stato di disorientamento e di angoscia dominante in
un'Europa turbata e sconvolta dalla catastrofe della guerra mondiale, della
rivoluzione russa, dal croUo di vecchi mondi, dalle convulsioni violente di
lotte tra partiti e nazioni. Nella lunga prefazione al volume che può
considerarsi come il Manifesto del suo scetticismo. Lineamenti di filosofia
scettica, Rensi insiste nel tentativo di dimostrare la continuità del suo
pensiero, quale è formulato in quest'opera, con le idee direttive di scritti
antecedenti: e rileva, in particolare, i titoH significativi dei due hbri, Le
antinomie dello Spirito, e Sic et non, oltre che l'orientamento Le antinomie
generale dell'altro volume, La trascendenza, per modeiia ragione, strare chc in
tutte e tre queste raccolte di saggi è chiaro l'intento di mettere in luce
l'insuperabile e reciproco contrasto tra le posizioni che la ragione prende di
fronte ai problemi fondamentah della morale e della rehgione [Lineamenti) . Ma
è da notare che qui si tratta di un atteggiamento che è soltanto antidogmatico
e critico, non ancora Rensi: scetticismo e materialismo fenomenistico
propriamente scettico: la negazione non è definitiva, solo si esclude la
possibilità di giungere attraverso l'esame comparativo di ipotesi anche opposte
a una ricostruzione sintetica: positiva. È l'atteggiamento che esplicitamente
viene affermato dal Rensi stesso nel dehneare, il programma della rivista Coenobium
(di cui fu per parecchi anni magna pars), a cui pure fa riferimento la
prefazione citata: Qualche millennio di svariate ipotesi metafisiche e un
secolo di educazione strettamente scientifica hanno tolto al pensiero
contemporaneo ogni rigidità dogmatica. Noi possiamo comprendere, e, quasi
diremmo, accoghere nel più intimo del nostro spirito le ipotesi, le tendenze,
le soluzioni più opposte.... tutte noi le comprendiamo ed amiamo, perchè di
tutte scorge le ragioni profonde la nostra anima multipla. Comunque, è fuori
dubbio che, in quel primo periodo della sua attività di pensiero, Rensi ebbe
fede sincera oltre che nel sociahsmo, quale aspirazione a una più alta
giustizia nell'idealismo, o almeno in un certo ideahsmo, al cui incremento,
diede opera con la traduzione delle opere del Royce e di uno studio di Hibben
sulla logica di Hegel. Egli dà, dell'idealismo hegeUano, un'interpretazione
trascendentlstica, quale era richiesta da quella vena rehgioso-mistica che,
come egli stesso dichiarò più tardi nella sua Autobiografia intellettuale, si
mescolava in lui, in questa prima fase, con la vena scettica o antidogmatica.
Contro la tendenza prevalente nel neo-ideahsmo itahano Contro l'imma
contemporaneo, Rensi afferma che 1 immanenza non e lo stadio più alto del pensiero
ideaUstico, ma è solo lo stadio intermedio tra una concezione meccanica del
mondo e la concezione della divinità personale, immanente e trascendente a un
tempo. Successivamente dichiara Rensi nella citata AutoPassaggio a un biografia
intellettuale, quella vena reUgioso-idealisticomistica che prima era commista
con quella scettica, s’estinse in lui e lasciò il posto a una visione della
realtà e della vita decisamente scettico-pessimistica. Tra le ragioni di questa
pessimismo ateistico. Positivismo e correnti afini scelta Rensi pone, in
particolare, la guerra. La guerra ci pone impetuosamente sotto gli occhi la
terribile e vissuta grandiosa messa in scena dell'inesistenza d'un'universalità
e comunità di ragione. Non mi limito semplicemente a dire: qui non c'è verità
perchè gli uomini la pensano diversamente e si contraddicono tra loro
(contraddizioni esterne); ma dimostro anche: qui non c'è verità, perchè questo
pensiero logicamente non si sorregge, non può condursi avanti senz'urti,
erompono in esso invincibili contraddizioni interne. Se un concetto è
interiormente e in sé stesso contraddittorio cioè contiene aspetti
insolubilmente inconcOiabiU, non si ha che da riflettere che ciascuno di questi
aspetti viene incorporato e fatto proprio dalla mente di un uomo o di un
popolo, per scorgere come la contraddizione interna si traduca e rispecchi
nella contraddizione estema del dissenso e della guerra [Lineamenti). La
guerra. La guerra è un fatto pohtico, in cui si affida alla irra zionalità
della forza la decisione delle controversie tra le opposte ragioni dei
contendenti. E le lotte interne tra i partiti non sono di natura diversa: la
democrazia e il liberalismo ahmentano la fiducia che la Ubera discussione porti
a un accordo suUe questioni controverse, ma i fatti dimostrano che l'urto tra
le idee diventa sempre più irriducibile; la ragione continua inesauribilmente a
fornir ragioni a tutte le tesi. Un parere vale l'altro: e non c'è che una via
per uscire dal contrasto, lasciare la decisione aUa forza, all'irrazionalità
deUa violenza camuffata di legahtà: il principio degl'autorità costituisce
l'unico fondamento della poUtica. Il volume La filosofia dell'autorità fu
pubblicato da Rensi nel 1920, con largo successo di pubbUco, e forniva
argomenti di propaganda al regime autoritario che si veniva preparando in
ItaHa, e che pure Rensi combattè tenacemente e sinceramente, dando si direbbe
una conferma personale alla teoria scettica della vanità della ragione. La
guerra è la molla della storia umana, e appunto per questo la storia è senza
senso, è un vagare cieco verso un fine che non esiste, offre il quadro
sconsolante del passaggio Rensi: scetticismo e materialismo fenomenistico
continuo da un'assurdità e sofferenza ad un'altra assurdità e sofferenza: lo
scetticismo si fonde col pessimismo. Il presente è insopportabile, si vuole
evaderne, si aspira a un futuro che sia altro dall'assurdità e dal male che è
il presente: all'essere si contrappone un dover essere. E così si crea il
tempo: nel presente che è, si sogna un futuro che deve essere: e quando il
dover essere si fa essere, cade in quella stessa assurdità e male che è il
presente. Il processo storico è avanzamento da errore a errore, da male a male:
se si fosse nel bene e nel vero, non vi sarebbe ragione di uscire da esso, di
far seguire z\ì! adesso un poi: ci sarebbe permanenza, non processo [Interiora
rerum). In conclusione, il principio deU'ideahsmo è n reale è irrada,
rovesciare: ciò che è reale, è irrazionale; ciò che è razionale è irreale. La
razionalità è sogno, è fantasia che tenta di mascherare l'assurdità del reale,
fìngendo un universale che invano tenta di sovrapporsi alla moltephcità
incomponibile dell'individuale: non c'è una ragione una, vi sono tante ragioni
quanti sono gH individui, anzi, i momenti delle vite individuah. La ragione
sorge nell'uomo quando questi contrappone all'essere un dover essere, che gli
permetta di farsi giudice del reale, distinguendo il vero dal falso, il bene
dal male, il bello dal brutto. La critica scettica dimostra che il reale si
ribella a questa pretesa deUa ragione, affermandosi costantemente come posto al
di là del vero e del falso, al di là del bene e del male, al di là del bello e
del brutto (e, accanto ai Lineamenti di filosofia scettica in generale, Rensi
illustra La scepsi estetica, e La scepsi etica). La critica scettica dimostra,
da una parte, che quella pretesa della ragione è una chimera, e, dall'altra,
che nell'uomo il perseguimento di questa chimera è la radice deU'infehcità.
Quale lo sbocco di questo scetticismo pessimistico? Il più ovvio sembra sia la
rinuncia alla ragione a questo che è, insieme, privilegio e maledizione
dell'uomo; rinuncia al suo chimerico dover essere e accettazione rassegnata e
inerte del reale quale è di fatto. Ed è la via che il Rensi imbocca
risolutamente, specialmente nelle opere dai titoli Positivismo e correnti
affini significativi Realismo, Materialismo critico e Apologia dell'ateismo. Ma
v'è anche un'altra via, opposta alla prima: ed è quella di riconoscere un
valore positivo all'esperienza del male, nel senso che, nel cruccio pel trionfo
del male, nella sofferenza per la sconfitta che il reale infligge alla nostra
coscienza del dover essere, s’attua l'elemento piri nobile del nostro spirito,
si ravviva l'aspirazione mistica al divino: e anche questa via percorre Rensi
neUe sue ultime opere, quali Testamento filosofico e Lettere spiritiiali.
Scetticismo reaRcaUsmo è la posizione nella quale sfocia lo scetticismo hstico.
^Qj^ 1^ g^g^ negazione radicale della ragione. Se col sorgere della ragione
nasce nell'uomo la pretesa di giudicare la realtà, nell'illusione di possedere
un saldo criterio per la valutazione dei fatti, di approvazione e
disapprovazione, il ripudio della ragione significa rifiuto di attribuire alla
realtà quelle qualifiche di irrazionale, assurdo, male che essa per sé non
possiede, ma risultano da discriminazione operata in nome di un principio per
cui qualcosa è ma non dovrebbe essere. Realismo significa constatare la realtà
quale è di fatto, accettare quel che ci consta. E ciò che consta, sottratto ad
ogni dubbio, è il mondo dei sensi, il mondo del positivismo ridotto al più
rigoroso empirismo. Le sensazioni sono, non il tramite dell'apparire della
realtà a una coscienza, bensì gli elementi che costituiscono senza residuo la
realtà stessa. Le cose come Le cose souo aggregati di quahtà sensoriaH secondo
aggregati di rapporti Spaziali e temporali e categoriah: le cose sono ciò che
si palpa, si vede, si ode e così via. E lo stesso io non è altro che un fascio
d'impressioni sensoriali. Il linguaggio comune chiama materia ciò che nella sua
concretezza è oggetto del sentire, senza complicazioni di significati
metafisici: in questo senso, per RENSI, il reahsmo è materialismo. E questo
materialismo egli qualifica come fenomenistico o critico. Dando del criticismo
kantiano un'interpretazione opposta a quella prevalsa nell'idealismo, egli
afferma che la correlatività del reale al pensiero, che costituisce il prin
Rensi: scetticismo e materialismo fenomenistico cipio fondamentale del
criticismo, non può non essere raccolta dal realismo (il quale, appunto per
questo, è qualificabile come realismo critico), ma va intesa nel senso che il
Pensiero a cui il reale in sé (noumeno) deve essere riferito perchè sia
soggetto conoscibile (fenomeno), non è un soggetto analogo all'io empirico, una
Coscienza originaria a cui siano essenziaU le forme sensibili-intellettuali,
(spazio, tempo, categorie), che vengano immesse nell'oggetto, ma è l'insieme di
queste stesse forme come inerenti al mondo dei fenomeni, purificate da ogni
elemento psicologico della soggettività, constituenti la pensahilità del
fenomeno. Il fenomeno è indipendente da ogni soggettività, e s'identifica
quindi con la cosa in sé: ma cosa in sé categorizzata, e quindi conoscibile. Il
realismo non è che fenomenismo, materialismo fenomenistico. E questo, in
rehgione, é ateismo. Se nulla è reale all'infuori di ciò che può essere
percepito come fenomeno sensoriale, attribuire realtà a un essere che si
sottrae ad ogni percezione, quale sarebbe Dio, é pel Rensi pura pazzia. Ma la
negazione di Dio non significa irreligiosità: l'ateismo é anzi, per Rensi, la
più alta e pura delle rehgioni. Insegnandoci a guardare alla realtà come
sovranamente indifferente, esso bandisce dalla nostra \dta ogni egoismo: é la
Uberazione dall'egoismo, la stoica fermezza di fronte alle vicende tormentose
del mondo, é religiosità. Ma quest'atteggiamento non é permanente: in alcuni
Ritorno di fede. degli scritti più tardi Rensi riafferma l'antico bisogno di
credere: riscopre, al di là del mondo degli atomi e del vuoto, il divino in me;
il regno di Dio riluce come un regno di valori atti a salvare il nostro spirito
dal naufragio nel prevalere del male. La genuina rehgiosità consiste, per lui,
nel non adagiarsi, sia nella pace della negazione, sia in quella
dell'affermazione: il problema ci sta dinanzi come un problema che continua ad
eccitarci e ad angosciarci. Tutta la produzione del Rensi, dalle prime opere a
quelle della vecchiaia, é un perenne intrecciarsi e susseguirsi di motivi
contrastanti: inflessioni d'una sensibihtà estrema Positivismo e correnti
affini mente mobile e acuta, piuttosto che articolazioni di un pensiero vigile
e rigoroso: lirica, piuttosto che filosofia. Lo SCETTICISMO SOLIPSISTICO DI
LeVI Diversissimo, fuorché nel nome, da quello del Rensi lo scetticismo di
Levi, elaborato attraverso un'indagine storica, intelligente e minuziosa, di
tutte le posizioni filosofiche fondamentali. Nato a Modena da una famigha di
Reggio Emilia Levi, precocemente incline agli studi ma ostacolato da una
malferma salute, si licenzia al Liceo Spallanzani di Reggio, e, quando si
iscrisse all'Università di Pisa, aveva già in cantiere la pubbhcazione di
alcuni codici. Proseguì poi gli studi a Firenze, con Tocco e Sarlo, e a Roma, dove
si laurea con Barzellotti. La tesi, su L' indeterminismo fu lodata da Bergson.
Levi entrò nell'insegnamento secondario, che professò con grande scrupolo ed
efficacia, ad Arezzo e a Torino. Ottenne la libera docenza, e più tardi la
cattedra di storia della filosofia nell'Università di Pavia. La sua produzione
storica, ripetutamente premiata dai Lincei e dall'Accademia delle Scienze di
Torino, comprende ormai numerosi titoli, soprattutto di filosofia antica: da Le
origini della scienza a Platone [Sulle interpretazioni immanentistiche della
filosofia di Platone, Il concetto del tempo nei suoi rapporti coi problemi del
divenire e dell'essere nella filosofia di Platone, che riprende l'identico tema
trattato sulla / sofisti. Rivista di filosofia neoscolastica per il periodo
anteriore a Platone. Più tardi Levi affrontò i sofisti, sceverando gli
autentici dagli pseudosofisti, difendendoU dall'accusa di aver corrotto i
costumi, e insistendo sul contenuto etico del loro insegnamento. I pregi
filologici di questi studi (ripresi nella Storia della sofistica, a cura di
Pesce, dimostrano come Levi avesse messo a frutto l'insegnan problema delmento
di Vitelli. Seguì una serie di articoli su Verrore. ji p^^oblema dell'errore,
dai presocratici a Windelband in varie riviste, e una serie di saggi su
pensatori inglesi Levi: scetticismo solipsistico Bacone, Hobbes, Berkeley,
Hume, messi a raffronto con Descartes e con Leibniz, allo scopo di sfatare la
leggenda di una contrapposizione rigida tra empirismo e razionalismo da Cartesio
a Kant. L'interesse teoretico che spinge Levi a queste ricerche non ne falsa,
tuttavia, la prospettiva storica. Duro fu per Levi abbandonare l'insegnamento a
causa delle leggi razziali. Si ritirò a Todi, nelle terre di famigha della
moghe, poi a Roma, dove potè continuare a studiare nelle biblioteche pontifice.
Alla fine della guerra fu reintegrato ma, sempre più debole di salute, non
riprese a insegnare: continuò fino all'ultimo l'attività di ricerca preparando,
in particolare, una Storia della filosofia romana. Il frutto speculativo che
Levi trasse dalle sue ricerche L'estetica. storiche lo troviamo anzitutto nel
volume La fantasia estetica, la cui conclusione, tutta problematica, è che
l'opera d'arte nasce dal mistero, ha caratteri non determinabili completamente
ed esaurientemente, e suscita, in chi la contempla, uno stato particolarissimo,
irriducibile e non del tutto definibile; e lo troviamo soprattutto, in
Sceptica, ristampato da Ravà con aggiunte inedite. Questo hbro ebbe una
risonanza notevole, in Itaha e fuori. Fu largamente letto. Ne parlarono Losacco
e Varisco, dopo che Pastore aveva dedicato un intero volume alla sua
confutazione Il solipsismo, Torino. Che il Hbro fosse notato anche in
Inghilterra Mind non meraviglia: il suo andamento aporetico ricorda quello di
Apparenza e realtà del Bradley. Tra noi, esso urtava inevitabilmente
l'ortodossia gentihana, perchè accusa la teoria deUo spirito come atto puro di
essere un soHpsismo trascendentale che avrebbe trovato la propria coerenza solo
diventando soHpsismo empirico. Comprensibile, quindi, la reazione di Carlini
Studi di filosofia, in AnnaH deU'istruzione media, a cui Levi rispose con il
scritto Come si ricostruisce la storia Rivista Pedagogica. Il solipsismo. La
tesi del Levi trovò per contro, buone accoglienze presso la scuola del Varisco.
Castelli ZUBIENA, dopo averla ripresa in Idealismo e solipsismo Roma, dedicherà
a II solipsismo, un intero volume del suo Archivio di filosofia che già aveva
pubblicato Scetticismo e solipsismo del Levi medesimo. Anche Allenej giudica
con benevolenza la filosofia di Levi sulr Archivio di storia delia filosofia.
Muovendo da altro punto di vista, Piovani pubbHca nel Giornale critico della
filosofia italiana un articolo. La conclusione del solipsismo, in cui dichiara
fondamentale il contributo del Levi allo studio del sohpsismo, proprio perchè
esperto dell'esperienza dell'idealismo: pur osservando che la soluzione
raggiunta risulta assai fragile, nella sua pretesa di formulare un imperativo
della coscienza senza sapere Fa ciò che devi, avvenga ciò che può. Infatti
l'imperativo implica già, quanto meno un agire sapendo quale sia il dovere da
farsi. Tale incertezza deriva dal fatto che la posizione del Levi non è
attivistica, ma ancora legata, per taluni aspetti, allo scetticismo
tradizionale, mentre il sohpsismo, secondo Piovani, non può essere, da ultimo,
che attivistico. Non si sa se Lo Scetticismo del Levi non afferma che sia
impossibile sapere: afferma però che è impossibile sapere se si sappia o no. È
come il fuoco, che consuma le altre cose, ma anche sé stesso. Esso sfugge,
così, all'accusa di interna contraddizione che colpisce lo scetticismo
dogmatico [Sceptica, ed. a cura di Ravà, Firenze. E a una tal conclusione
giunge muovendo da un'impostazione gnoseologistica, secondo cui tutto ciò che
si dice dell'oggetto è condizionato dal pensiero, che pensa l'oggetto. La
domanda è allora, anzitutto, se il pensiero sia uno strumento in sé stesso
adatto al suo ufficio, o non includa qualche vizio di costruzione. Solo in seconda
istanza, posto che il pensiero sia uno strumento adatto, potremo domandarci
quale interpretazione debba darsi dell'oggetto pensato si sa. Levi: scetticismo
solipsistico Un motivo fortissimo di diffidenza è dato dall'errore: da quel
problema, cioè, che, appunto perciò, Levi anda studiando sotto un profilo
storico. L'esperienza d'aver sbagliato una volta mi fa sospettare che sia
possibile sbaghare sempre, e lo scetticismo nasce da questo sospetto.
Acutamente Levi vede che, a questo problema, sfugge l'ideaHsmo attuale
gentiliano, quando contrappone all'errore, come pensato, l'atto del pensare
che, in quanto è attuale, non può non essere nel vero. EgU vede però anche che
questo vantaggio è illusorio: ciò da cui si avrebbe interesse a tener lontano
l'errore è, appunto, il pensato. Infatti che l'atto, in quanto atto puro, sia
infaUibile, non mi dice nulla circa la validità di ciò che penso. Per poter
fruire di un contenuto, occorre affidarsi all'evidenza del pensato: ma si può
sempre temere di scambiare per evidenza una sempHce impressione soggettiva.
Sollevato il dubbio sulla capacità di mediazione del Critica a reaiipensiero,
Levi passa a domandarsi se, ciò posto, vi sia id^una metafisica plausibile, se
non certa dell'oggetto pensato: e attacca, nell'ordine, il reaUsmo espHcito, il
monismo, la filosofia dell'esperienza, il monadologismo, l'ideaHsmo attuale.
Egli osserva che il reahsmo ingenuo, che identifica il reale con ciò che
appare, è messo in crisi dall'esigenza di discernere che cosa vi sia di oggettivo
in questo apparire; ma che, d'altra parte, il tentativo di rintracciare la
realtà oggettiva in un insieme di elementi materiali, dotati di mere qualità
primarie secondo i canoni del meccanicismo, fallisce, perchè non spiega
quell'effettivo divenire sensibile del mondo, colorato, sonoro, ecc., che è,
appunto, il concreto. Il meccanicismo altro non è se un tentativo di eHminare
quell'offesa al principio di identità che è rappresentato dal divenire: la
realtà vera, afferma infatti il meccanicismo, rimane immutata. Ma e qui si
sente, nell'argomentare del Levi, l'influsso del Bergson e del Meyerson esso
non può giustificare come mai questa immutabihtà sostanziale appaia, al
soggetto, come un mutamento qualitativo. Come determinazioni dell'essere, il
quale non esiste che in esse determinazioni, le singole coscienze si
distinguono in quanto coscienze, s'accordano quanto al contenuto; ciascuna è un
variare per conto suo, e insieme, per la stessa ragione, il variare di ciascuna
si compie, ciascuna si svolge o si inviluppa, secondo le medesime leggi
universah. L'assoluto, pertanto, viene a coincidere con l'universo. L'Essere
come Nell'unità della sua forma, che imphca la necessità, ma, insieme, neUa
moltepHcità deUa sua materia e delle sue forme secondarie: moltepHcità che
impHca la accidentahtà. L'essere indeterminatissimo, di cui Varisco parla
richiamandosi al Rosmini è, per un verso, l'orizzonte in cui ogni soggetto
pensa impHcitamente l'universo; ma non è qualcosa che sussista
indipendentemente dai fenomeni e da quelle loro unità secondarie che sono i
soggetti. Ciò spiega, più esaurientemente di quanto non facessero / fnassimi
problemi, perchè Varisco non si senta in grado, in questa fase del suo
pensiero, di giustificare la trascendenza dell'assoluto a cui, pure, l'esigenza
del permanere dei valori lo porterebbe a credere. Il soggetto dei soggetti.
Dopo Conosci te stesso 11 soggetto diil Varisco lavorò per altri vent'anni al
suo problema fondamentale, che rimase il problema del principio unitario, il
problema di Dio. Qualche altro cauto passo è mosso verso il riconoscimento
della trascendenza divina, e porta, da ultimo, a una concezione che a Varisco
appare concihabile con una religione positiva quale il cristianesimo. Nelle
Linee di filosofia critica, un hbretto di introduzione teorico-storica alla
filosofia, esposto in forma piana e colloquiale, e che fu raccolto per iscritto
da Castelli la parte conclusiva, più interessante, verte appunto su Dio, e
prospetta la necessità di risalire a Dio muovendo dal problema della
subcoscienza. Il soggetto è fatto in gran parte di subcoscienza: basti pensare
ai ricordi che tornano di quando in quando, e in minima parte, alla mente. E
ciò suscita il problema: come può il non conscio (o non più conscio) divenire
conscio? La subcoscienza rende evidente che il soggetto che conosciamo è
finito, cioè che ha qualcosa, per qualche aspetto, fuori di sé. Ma, d'altro
canto, una realtà non riducentesi a pensiero pensato è un controsenso. Per
superare le difficoltà rilevate, non c'è che un modo: riconoscerle relative
soltanto al singolo; ammettendo, al di sopra d'ogni singolo, il soggetto
universale. Il pensiero di questo soggetto universale dovrà essere: in primo
luogo, tutto consapevole; in secondo luogo, creatore d'ogni realtà. Allora si potrà
capire che, ciò che è subconscio nel singolo sussiste tuttavia come pienamente
conscio nel soggetto universale, e che la realtà, irriducibile al pensiero del
singolo, consiste tuttavia in un pensiero del soggetto universale. La
creazione. Quella chc generalmente si dice creazione si può, allora, concepire
così: il soggetto universale fa, di certi suoi pensieri, un gruppo connesso, e
li dota di una coscienza e di una iniziativa autonome, di cui neppure il
soggetto universale conosce in anticipo gli sviluppi. Ciò peraltro non limita
il soggetto universale, se non nella misura in cui lui stesso vtwle questo
indeterminismo, mantenuto all'interno di un controllo costante e consapevole.
// teismo. Varisco formula, così, un teismo in cui Dio è, in certo modo, esterno
ai singoh, ma non viceversa: perchè il soggetto singolo, essendo, anche in
ordine alla propria iniziativa, interno al soggetto universale, nella coscienza
del singolo non ci può essere nulla che non sia, ipso facto, anche nella
coscienza del soggetto universale. // soggetto dei soggetti È quello che il
volume Dall'uomo a Dio, chiamerà immanentismo relativo, o identicamente
trascendentahsmo relativo, in contrapposto a trascendentahsmo e immanentismo
assoluti: non senza citare San Paolo, negU Atti degli Apostoli, secondo cui gli
uomini in generale, i soggetti vivono, si muovono ed esistono in Dio Dall'uomo
a Dio. Frattanto Varisco aveva pubblicato in Logos un articolo su La prova
ontologica, affermando che l'argomento di AOSTA non compie un salto ingiustificato
dall'ordine del pensiero a quello dell'esistenza, perchè, quando si pensa un
oggetto, non lo si pensa isolatamente, ma sempre in un sistema di relazioni;
quindi, quando si pensa id quo maius cogitari nequit, si pensa qualcosa che
effettivamente non si trova nella sola mente umana. Ma significa anche, ciò,
che questo essere sia tutt'uno col Dio del cristianesimo? Cosi si chiede
Dall'uomo a Dio; e risponde: si tratta, senza dubbio d'un pensiero (anzi di un
pensare), senza, però, che se ne possa concludere nulla rispetto ad altri
attributi, pur necessari al concetto cristiano di Dio. Dall'uomo a Dio
rappresenta, per certi aspetti, un perDifficoltà. fezionamento del
monadologismo varischiano, ma non toglie tutte le difficoltà. Non soddisfa
l'esigenza, sentita da Varisco fin dal periodo positivistico, di ascendere al
concetto di Dio attraverso una riflessione ben fondata, compatibile con quella
della religione positiva. E, questo, perchè il Dio di Varisco è pur sempre un
concetto gnoseologico-metafisico. Pili che di quel rapporto lo-Tu, in cui
l'uomo rehgioso si sente rispetto a Dio, si tratta, insomma, del rapporto tra
una monade infinita, leibnizianamente priva di rappresentazioni oscure e
confuse, e, quindi, di materia e le innumerevoh monadi finite, che essa
costituisce in sé, come espressione (non già parziale, ma prospettica) di
particolari punti di vista. Tutto ciò che l'uomo presentemente pensa è, in ogni
caso, pensiero divino presente: l'uomo non è staccabile dalla coscienza divina
di cui è una formazione. L'uomo è tutto immanente in Dio, invece Dio non è
tutto immanente in alcun uomo; essendoci necessariamente nel pensiero divino
qualcosa che nessun singolo, né tutta insieme la moltitudine dei singoli, pensa
con determinazione. Del resto, nonostante gli sforzi meritori della figlia, e
poi, dopo la sua morte, di Castelli-ZUBIENA coadiuvato dal nipote del Varisco,
Alliney, per riordinare i manoscritti inediti seguendo alcune sommarie
indicazioni rinvenute in un libro di appunti. Dall'uomo a Dio risente della
mancanza di una revisione definitiva da parte dell'autore, e le sue conclusioni
rimangono, in parte, sospese. Interesse pra La filosofia del Varisco, pur nel
suo '^mai abbandonato teoreticismo cioè nel suo intendere il problema della
realtà essenzialmente come un problema di teoria della conoscenza è assai
sensibile al problema morale, quando questo sia inteso nel suo senso piìi
universale e profondo. Il pensiero infatti, che della realtà è il fondamento,
consiste essenzialmente in un'attività, in un fare (sia pure non riducibile al
fare poetico di chi plasma una materia preesistente; e il bene consiste
neU'espandersi di questa attività, protesa su tutto l'universo. La sezione
introduttiva del capitolo su I valori, nei Massimi problemi, afferma appunto:
Il soggetto, per sua natura, ossia in virtù di quella legge a cui deve
l'essere, tende insieme a intensificare sé stesso e ad espandersi, ad includere
in sé l'universo: la soddisfazione o l'insoddisfazione di queste due tendenze
(che, in sostanza, ne fanno una sola) sono essenzialmente, per il soggetto, un
bene o un male. Questo espandersi mostra il suo vero valore solo quando non
riguardi l'animale associato all'io, bensì l'io medesimo; e io vuol dire
autocoscienza, ossia cognizione. // conoscere è Di Conseguenza, conoscere o non
conoscere, o, peggio, errare, sono un bene e, rispettivamente, un male:
do\Temmo anzi dire, il bene, il male. Ma questo, aggiunge Varisco, non vuol
dire che bene e male si riducano a mo identico al bene. // valore menti di coscienza
teoretica, perchè coscienza teoretica, attività e sentimento non sono tre cose,
sono tre aspetti, o tre forme, d'mia stessa cosa. Ciò implica una particolare
unità della coscienza in senso pratico con la coscienza in senso teoretico, in
virtù di un originario principio di organizzazione universale necessario
indicato comunemente col termine di a priori e che si riduce all'essenziale
connessione della coscienza umana con la divina Dall'uomo a Dio. In questo
senso Varisco può affermare che la coscienza, una, saldamente organizzata,
essendo la radice dei valori, è il massimo valore. Questo particolare carattere
attivo, e non soltanto contemplativo, del coscienziahsmo varischiano spiega
l'interesse del Varisco per i problemi dello stato: di uno stato che deve
essere fortissimamente organizzato: cosi organizzato come un uomo robusto,
intelligente e di carattere che s'afferma, s'apre una via, sviluppa l'attività
propria d'accordo con gh altri, se gli riesce: ma anche, se non gU riesce,
contro chiunque gli impedisca di realizzare il suo diritto, che è la sua forza,
ma che sta un poco anche nella sua forza. Questo l'ideale che accomuna gh
scritti di La scuola per la vita con i Discorsi politici, da cui la citazione è
tratta. Codesti discorsi si concludono con lo scritto introduttivo su L'idea
dello stato, che indica la vera funzione deUo stato nel realizzare la
prosperità, così del popolo in quanto moltitudine ordinata, come dello stato,
cioè ancora del popolo, in quanto unità viva e spirituale. A uno stato che la
compia, non si può domandare altro se non che seguiti a compierla,
sviluppandola. Uno stato che non la compia non fa che disorganizzare sé stesso
e il popolo. Neoclassicismo filosofico. In una età di ritorni romantici in
filosofìa, la dottrina del Varisco rappresentò un esempio di filosofìa
neoclassica, che dal romanticismo, tuttavia, è condizionata. Condizionata per
la sua impostazione, costituendosi come una riflessione di secondo grado
Monadismo teistico di Varisco sull'attività del soggetto, attraverso la quale
si perviene a una conoscenza dell'oggetto, cioè della realtà unitaria,
costituita dall'interferire di infiniti centri soggettivi. E condizionata nel
suo esito: perchè tale conoscenza dell'oggetto a differenza che nei grandi
classici della filosofia, a cui Varisco si ispira non riesce più a svilupparsi
in una forma schiUerianamente ingenua, ma solo in una forma sentimentale. E,
infatti, la cautela scientifica, che, pur trasformandosi, rimane il canone
metodologico del Varisco, dà luogo, non già a una vera e propria inibizione
speculativa perchè Varisco non esita a proporre un suo sistema ma, certo, a una
speculazion e fatta più per discutere che per Eredità più di costruirc. Ciò che
Varisco trasmise a una parte non trastimoh che di scurabile della filosofia
italiana fu, quindi, un'eredità fatta contenuti. più di stimoli che di
contenuti. All'estero, il suo pensiero ebbe qualche risonanza in Francia, e
meglio che altrove fu capito in Inghilterra, grazie all'attenzione che gli
dedicò Taylor. In effetti, se la forma mentis del Varisco ha qualcosa in comune
con quella del Bradley, il suo monadologismo si lascia facilmente avvicinare a
quello degli idealisti inglesi non monisti, e del McTaggart in particolare. La
cosa può colpire, considerando che il Varisco ha fonti al di fuori delle
italiane (Rosmini) soprattutto tedesche e francesi; ma, in realtà, si spiega
facilmente: l'idealismo inglese non monistico e l'idealismo varischiano
risalgono a una stessa radice comune, non sempre scoperta, ma assolutamente
fondamentale: il pensiero del Lotze. Di qui Varisco trasse, oltre che i
materiali più importanti della sua costruzione coscienzialistica, l'impulso (di
origine lontanamente leibniziana) che gU permise di uscire dalla prospettiva
del positivismo: il riconoscere, cioè, alla scienza la possibilità di afferrare
l'intero reale, però sotto un suo aspetto soltanto. Ciò rende inevitabile, per
giustificare l'oggetto stesso della scienza, il non rimanere chiusi nella sua
prospettiva soltanto, bensì l'uscirne, pur con tutte le necessarie cautele
metodologiche, verso una prospettiva specificamente filosofica. La formazione
di CaraBELLESE ben corrisponde aUa difficoltà di collocare il suo pensiero in
uno sviluppo organico della filosofia italiana. Dopo aver frequentato le scuole
secondarie presso il Seminario di Molfetta (dove era nato), si iscrisse in
Giurisprudenza a Napoli, e si laureò con una tesi, poi stampata, dal titolo
Sulla vetta ierocratica del Papato, che rivela abbastanza scoperte ambizioni
letterarie. Solo nel 1905 si laureò in filosofia a Roma, dove avvenne
l'incontro col Varisco sotto il segno di un comune interesse per il Rosmini. La
teoria della percezione intellettiva in Rosmini fu l'argomento della tesi,
pubblicata , e recensita dallo stesso Varisco sulla Rivista di filosofia. Anche
quando, dopo aver insegnato a lungo nelle scuole secondarie, CarabeUese salì in
cattedra a Palermo, forte ormai di una concezione tutta sua, egli rimase devoto
al Varisco come al massimo rappresentante di un ideahsmo non storicistico. E
grazie a Varisco, che premeva su Giovanni Gentile, CarabeUese fu chiamato a
Roma, di dove ebbe modo di esercitare una influenza quantitativamente meno
vasta di quella di Gentile, ma assai profonda. Quando CarabeUese mori (a
Genova) la sua attività speculativa, cominciata assai tardi, era an
L'Ontologismo di Carahellese Soluzione originale di un problema comune. L'uovo
di Colombo. Cora in pieno corso, sul binario su cui, da 25 anni, egli l'aveva
avviata. Ma l'essenziale del suo pensiero, probabilmente, era ormai stato
detto: difficilmente le applicazioni che egli anda definendo soprattutto
attraverso una preparazione meditatissima dei suoi corsi di teoretica avrebbero
dato un indirizzo nuovo alla sua riflessione, che aveva proposto, ormai, una sua
soluzione personaUssima a una problematica tutta inserita nell'ambiente
italiano di quegli anni. Se, infatti, la soluzione di Carabellese non è
avvicinabile a nessun'altra, i problemi che egU affronta non sono sollevati da
lui: gU sono posti, piuttosto, dalla filosofia di Gentile, e dalla
interpretazione che Gentile dato dell'Ottocento tedesco, in relazione alla
filosofia moderna. Gentile rappresenta, come si vedrà, il punto d'arrivo di un
processo storico lunghissimo, cominciato con Platone, giunto al suo punto di
rottura con Hegel, e portato da Gentile a un estremo che rovescia i termini
stessi del problema; del problema di determinare il contenuto dell'idea. Colla
teoria dell'atto puro, Gentile era giunto a un radicale ideahsmo senza le idee.
Varisco, per contro, affonda le sue radici in un passato piìi recente: da
Leibniz in poi; e propone in Italia (parallelamente a quanto fa l'idealismo
personahstico in Inghilterra) temi dello spirituaUsmo tedesco non hegehano: in
particolare, il tema del rapporto indispensabile, ma cosi difficile da
configurare tra soggetto e oggetto del conoscere. Con un tratto di genio (uovo
di Colombo, lo chiama la Critica del concreto), Carabellese si accorge che è
possibile soddisfare alle esigenze del Gentile e del Varisco insieme, h'idea
può essere considerata in una forma non assolutamente plurahzzabile, e tuttavia
non come un atto come atto soggettivo bensì come oggetto puro. Il compito di
attuare tale idea andrà invece affidato a soggetti plurimi, mai unificabili nel
varischiano soggetto assoluto. Così i punti d'arrivo delle due distinte
evoluzioni dell'idealismo assoluto e dell'idealismo personalistico vengono a
coincidere in un punto solo, grazie a un riassestamento Il problema nel
significato di certi termini tradizionali, che li rende compatibili in una
forma nuova. Per certi aspetti, questo riassestamento è bensì un rovesciamento
di Gentile, come sostiene Abbagnano sulla scorta di una osservazione dello
stesso Carabellese: ma non certo un rovesciamento meccanico. Occorre un pensiero
originale per arrivarci, sebbene, poi, i concetti così riassestati assumano
tutta l'aria d’essere appunto qualcosa che le due Hnee idealistiche precedenti
avrebbero voluto pensare, senza riuscirci. Ripensamento della filosofia
moderna. Tratinteresse storitandosi, dunque, di riprendere originalmente
problemi altrui, ^o-teorehco. si spiega che la filosofia del CarabeUese nasca
da una continua discussione storico-critica dei sistemi che formavano la base
della cultura filosofica del tempo: essenzialmente, da una reinterpretazione
della filosofia moderna Da Cartesio a Rosmini, che, come dice il sottotitolo di
questo volume, stampato da Carabellese, rappresenta la fondazione storica
dell'ontologismo critico carabellesiano. D'altro canto la pretesa, che CarabeUese
manifesta, di trovare, in questo medesimo materiale storico (e in particolare
neUa tappa pili importante rappresentata da Kant), un significato speculativo
tutto diverso da quello che s’era comunemente abituati a riconoscervi spiega
perchè Carabellese, pur nel suo filosofare tutto appoggiato a una critica
storica, assuma un atteggiamento che potremmo dire profetico: non nel senso di
predire il futuro, s'intende, bensì di parlare in nome di altro, essendo questo
altro una Verità con cui gl’uomini erano già prima a contatto, ma senza essere
capaci di riconoscerla: come i dormienti di EracUto, che non si accorgono di
quel logos con cui massimamente hanno a che fare (framm.). Atteggiamento
profetico, al punto che CarabeUese giunse a pensare che fosse necessaria la sua
sparizione come persona fisica perchè la verità da lui proclamata trionfasse.
Questo presentarsi come uno che dice: Ora vi spiego io ciò che cercavate di
pensare, senza riuscirci dava inevilabilmente fastidio a molti; e l'espressione
piìi fuor dei denti di questo fastidio si trova probabilmente in un articolo
d’Ottaviano: Pontifex Maximus locutus est (in «Sophia Ma, in fondo, Carabellese
non ne poteva nulla se il suo filosofare era un ripensare creativo, e se il suo
ripensamento dei problemi era una trasposizione, che da un senso nuovo a un
materiale già apparentemente sfruttato fino in fondo. Interpretazione In che
cosa consiste qucsta trasposizione, che trasforma del termine i^ogjj problema
quasi con un colpo di bacchetta magica? Consiste in una interpretazione del
termine oggetto, che per un verso rovescia ciò che con quella parola si è sohti
pensare, ma per un altro porta in piena luce una esigenza che, pure, aveva
guidato i filosofi nel parlare di oggettività. Oggetto è, comunemente, il determinato
che sta contro alla facoltà di rappresentazione cosciente: il Gegen-stand,
rispetto a cui una coscienza, in sé potenziale, si determina in guise
particolari. Oggetto è il calamaio, la penna, il libro senza i quali la mia
coscieriza sarebbe una tabula rasa, priva di segni che la determinino. Rasa non
è detto che significhi inattiva: anzi, la mia facoltà rappresentativa non
sarebbe tale se non fosse attività; ma, certo, questa attività rimarrebbe priva
di contenuto, se non si riferisse a certi dati esterni particolari, che
sarebbero gh oggetti. Questa impostazione realistica del problema dell'oggetto
è, per Carabellese, il proton pseiidos della filosofia: il primo falso, e, in
fondo, anche l'ultimo, perchè questo falso radicale ritorna, rovesciato, anche
in quella dottrina che tradizionalmente s’oppone al realismo empiristico,
l'idealismo. L'idealismo si era sforzato, con Platone, di porre oggetti (in
questo caso sarebbe meglio dire: principii di determinazione) sovratemporaH, le
idee, distinti dagli oggetti empirici. Molto più tardi, con Berkeley, aveva
cercato di riportare all'attività di uno Spirito il principio di determinazione
particolare delle coscienze, che le cose materiali, inattive, non potevano
fornire. In seguito Fichte aveva cercato in una egoità pura quell'unità delle
coscienze che, prima. Ripensamento della filosofia moderna si era soliti
attribuire al fatto che le coscienze, per determinarsi, si riferirebbero ai
medesimi oggetti. Infine, con Gentile, l'idealismo si era scrollato di dosso
tutta questa problematica. Aveva interpretato quella moltepHcità di
determinazioni, in cui si è soKti cercare il concreto, come un mèro salto in
basso: come una caduta dall'atto puro, nell'astratto. Di fronte al soggetto,
sempre identico a sé, la molteplicità delle determinazioni non è piri che
l'astratto, sebbene, dialetticamente, sia contenuta nel soggetto medesimo. A
questo punto era divenuto inutile fondare l'ideahsmo su un mondo di idee, vuoi
eterne, vuoi prodotte volta per volta da uno Spirito divino. L'ideahsmo poteva
liberarsi dal problema delle idee, al plurale, la pluralità non essendo altro
che caduta nell'astratto, da cui l'ideahtà deve, appunto, riscattarci. Sembra
così, al momento in cui Carabellese cerca la sua via, che il problema di una
pluralità ideale fosse stato risolto definitivamente, cancellandone il
concetto. Unicità dell'oggetto. Una linea diversa, di idea Non u soggetto hsmo
pluralistico, oppone tuttavia al monismo l'irriduci^^^.J'° bihtà dei soggetti
plurimi, eppure concreti. Una esigenza che era giusto far valere; ma essa aveva
il torto di farla valere attraverso una contrapposizione estrinseca
all'idealismo trascendentale: quindi di non poter spiegare a quest'ultimo,
dall'interno, perchè, impostando il problema in quel modo, l'ideahsmo si
rovesciasse, paradossalmente, in un idealismo senza le idee. Per contro,
osserva Carabellese, basta chiarire una cosa semplicissima: quell'esigenza
d’unità e unicità a cui l'ideahsmo gentiliano cerca di rispondere con il
concetto di un soggetto unico come atto puro è invece precisamente l'esigenza
espressa dal termine oggetto. Non è appunto l'oggetto ciò in cui tutti i
soggetti s'incontrano, convengono, riconoscono un'unità? È dunque l'aspetto
oggettivo quello che non si lascia plurahzzare, l'unico per tutti, e non
l'aspetto soggettivo dell'esperienza. Converrà, dunque, cessare di parlare di
oggetti, al plurale: sarebbe uno scambiare 1'oggetto colla cosa. unico. lato.
E, dal momento che le cose non sono l'oggetto (sebbene abbiano, certamente, un'oggettività,
non occorrerà piìi, come fa l'ideaHsmo tradizionale, andare in cerca di oggetti
superiori alle cose, le idee, per superare l'empiricità. L'oggetto è
inconfondibile coll'empiricità, per ciò stesso che è unico. In questo modo
l'idealismo riesce a scalzare veramente il reahsmo, senza lasciarsene
soggiogare. Per contro gli oggetti superiori alle cose, presi al plurale, come
idee, sono in realtà concepiti ancora al modo di cose. E appunto per sfuggire a
tale incongruenza l'ideaHsmo s’era visto costretto, da ultimo, a rifugiarsi in
una egoità pura, e poi in un atto puro, di cui tutte le determinazioni
particolari non sono che una caduta. Realismo deheiAppena si csclude
dall'oggetto, in quanto oggetto, ogni pluralità, il realismo è debellato,
perchè il modello empirico delle cose non vale piìi. Non per questo i soggetti
saran costretti ad attribuire aUa mèra empiria (seguendo Gentile) il loro
reciproco distinguersi l'uno dall'altro. Anzi, liberati dall'obbligo di fornire
il principio di unificazione, i soggetti molteplici potranno, e dovranno,
rivendicare come irriducibile la propria plurahtà, ben piìi fondatamente che
nell'ideaKsmo personaHstico varischiano. Quest'ultimo, per spiegare l'incontro
dei soggetti che costituisce una stessa esperienza oggettiva, doveva ricorrere
a un Soggetto assoluto supremo, che tollererebbe in sé i punti di vista Umitati
dei soggetti particolari. NeUa nuova situazione, invece, il concetto di un
oggetto, assolutamente unico, come idea, non solo tollera, ma esige d’essere intrinseco,
nella coscienza, a una pluralità di punti di vista soggettivi. Intrinsecità di
soggetto e oggetto. Occorre dunque cessare di concepire l'oggetto come qualcosa
che ci sta contro, secondo una relazione che, per ciò stesso, risulterà
esterna. Ciò che ci sta contro non è l'oggetto come idea luogo d'incontro di
tutti i soggetti bensì l'altro da me; cioè sempre l'edtro soggetto. Le cose, è
vero, ci stanno contro: ma solo perchè nascono daU'interferire dei vari
Intrinsecità di soggetto e oggetto soggetti, non perchè siano oggetto, o
oggetti al plurale, a cui ci riferiamo. In altri termini, il rapporto, su cui
tanto avevano insil« concretezza stito i vari idealismi spiritualistici
dell'Ottocento, non nei rapporto tra i soggetti e l'og mtercorre tra 1 soggetti
e 1 oggetto: il rapporto, legando getto. altro ad altro, è sempre tra i diversi
soggetti; e aver concepito V intrinsecità di soggetto e oggetto come un
rapporto (in conseguenza di un uso troppo generico, e perciò equivoco EQUIVOCO
GRICE, delle parole rapporto e relazione) ha fatto fallire gli innumerevoh
tentativi (conosciuti anche in Italia, soprattutto da Martinetti in poi), di
costruire la concretezza dell'esperienza attraverso il rapporto tra soggetto e
oggetto. Che il concreto non si trovi, né nell'oggetto per conto suo, né nel
soggetto per conto suo, ma solo nel loro rapporto, era stato ripetuto in mille
maniere da spiritualisti, psicologi, monisti, idealisti, neokantiani, ecc. :
ciascuno cercando di utilizzare a modo suo il trascendentalismo di Kant. Ma
nessuno aveva saputo liberarsi da quell'elemento falsificatore attraverso cui,
malauguratamente, il trascendentahsmo kantiano era filtrato: la teoria della
rappresentazione di Reinhold. Dire che il concreto non si trova né nel soggetto
per conto suo, né nell'oggetto per conto suo, é vero, ma non implica che si
trovi in un loro rapporto; e neppure nel semphce rapporto dei soggetti tra
loro, come per il Varisco. Il concreto si trova neU'intrinsecità dei soggetti
con l'oggetto, che non può dirsi rapporto perché non é un riferimento ad altro.
CarabeUese chiama questa intrinsecità compattezza interpretando in questo modo
il problema che l'Ottocento tedesco aveva ereditato da Kant, e poi trasmesso,
irrisolto, al secolo successivo: l'inseparabilità del soggettivo e
dell'oggettivo. Kant, osserva la Critica del concreto, ha dimostrato, con
evidenza che finora nessuno é riuscito di oscurare, che quei due mondi formano
una concreta compattezza Nella terza edizione, il testo sarà variato: che quei
due mondi necessariamente formano o richiedono un mondo solo, che non é piìi
mondo, ma é essere concreto deUa coscienza. L'aggancio a Questo Oggetto che è
unità (non Rosmini, Gio-Qi^^dMìk di cose o di idee a immagine e somiglianza
delle berti e Gentile. cose) è l'essere; l'essere in quanto oggettività pura:
dunque, se si vuole, 1'essere oggettivo di Rosmini. Ciò spiega a sufficienza
l'attenzione di Carabellese verso la dottrina del roveretano che attraverso
Bonatelli e per ragioni tutte diverse era stata già una fonte anche del
Varisco. In che modo, però, si potesse adoperare Rosmini per ovviare davvero
(come Rosmini avrebbe voluto) all'errore gnoseologistico della filosofia
moderna, non poteva risultare chiaro a CarabeUese ai tempi della laurea:
occorre, in verità, che Gentile porta alle sue ultime conseguenze quell'errore.
Questa è la ragione sostanziale per cui Carabellese, come filosofo, matura
tardi. Dopo che Gentile ebbe pubblicato la sua Riforma della dialettica
hegeliana, il pensiero di CarabeUese comincia a dehnearsi. Nel volume
suLl’essere e il problema religioso. A proposito del Conosci te stesso di
Bernardino Varisco si configura il tema di quello che sarà il suo ontologismo;
e nel saggio sula coscienza morale, stampato a qualche settimana di distanza
dal precedente, è già quasi esplicita (Critica del concreto) la scoperta della
concretezza dell'essere, Venne, però, la guerra e la meditazione del
Carabellese dovette interrompersi per cinque anni. Quando riprese (Gentile,
frattanto, aveva pubbhcato le sue opere principali), le linee maestre del suo
pensiero mostrano, ormai, queUo che sarà i] loro assetto definitivo, l'assetto
della Critica del concreto. Rosmini è rimasto, ma l'essere oggettivo e
indeterminato che, con la sua presenza alle menti, permette loro di pensare,
non è più la mèra idea dell'essere, è l'essere. L'ontologismo di Gioberti, con
la sua critica al mèro essere ideale, è ripreso, ma con un intento diverso e
ben piti radicale: perchè l'essere non è più r ente e neppure è il concreto; è
la pura ontologicità degh enti: pura idea, inseparabile dalla loro
pluralizzazione soggettiva. In altri termini, l'essere è pensabile, ormai, solo
L'Ontologismo in una assoluta immanenza: quell'immanenza che Gentile e, ancor
più, i gentiliani andano spasmodicamente cercando, e che, paradossalmente,
veniva trovata in un rovesciamento della posizione di Gentile. Unità di
conoscere e fare, nel concreto. Il testo fondamentale per penetrare
nell'ontologismo del La Critica dei Carabellese è, dunque, la Critica del
concreto, che, uscita 'a Pistoia, fu dall'Autore rimaneggiata abbastanza
profondamente pella seconda edizione romana, e meno profondamente pella terza,
che usci a Firenze, in vista di una opera omnia poi non condotta alla fine. La
Critica del concreto è lo strumento costante di meditazione e di espressione
del Carabellese; e, nonostante che nella prefazione alla terza edizione egli
insista molto sulla provvisorietà di questo sillabario concettuale delle
successive ricerche, rimane il testo fondamentale. Del resto le successive
ricerche, per Carabellese, erano più quelle che rimanevano da svolgere che
quelle svolte: e, quindi, noi non possiamo sapere quali sarebbero state. Anche
le opere storiche, per quel che si è detto, vanno capite muovendo da quella
intuizione fondamentale, che a tratti illumina, senza dubbio, gU autori
considerati, ma che essenzialmene si chiarisce attraverso di essi. Dopo gli
scritti su Kant e sulla filosofia da Kant a Fichte, queste opere storiche si
concretarono soprattutto nel primo periodo romano, in cui Carabellese occupa
una cattedra di Storia della filosofìa, prima di passare sulla cattedra, a lui
più congeniale, di teoretica. Esse erano infatti, in origine, corsi
universitari usciti in dispense, e poi ristampati nei tre volumi delle
Obiezioni al cartesianesimo e nel volume La fdosofia dell'esistenza in Kant
(Bari). Del resto, non fu solo un interesse archeologico quello storiografia
che spinse Carabellese a ritornare per due volte sulla Crispeculativa, tica,
Hbro, bensì la coscienza che di lì si sviluppava tutta la sua filosofìa.
Seguiremo dunque la Critica del concreto nella sua edizione definitiva, che
differisce dalla originaria su punti non trascurabili (il termine esperienza,
ad esempio, a partire dalla seconda edizione è spesso sostituito dal termine
varischiano di coscienza. Teoria e praIl CarabcUese comincia col distinguere,
nell'attività ttca non corneiu^^ana, i duc aspetti della teoria e della pratica
che si rifiuta dono con cono scema e azione, di assimilare, comc si fa di
solito, a conoscenza e azione. La teoria è l'aspetto universale di ogni
attività, e la pratica ne è l'attuazione moltepUce: indispensabile anche quando
si tratti di attività conoscitive. Del pari Carabellese mostra falsa
l'identificazione del binomio pratico-teoretico col binomio astratto-concreto:
Sia la teoria che la pratica, se prese ciascuna per sé, sono astratte; sono
entrambe aspetti separati dell'attività spirituale, e quindi entrambe affette
da una astrazione per cui dimezziamo l'atto, per fermarci a una parte di esso.
Concreta è solo un'attività che attui, in forme particolari, una idea unica e
universale, senza la quale idea non sarebbe presente nel nostro volere un dover
fare che non è dovere etico soltanto, e quindi si cadrebbe in una inconsistente
vanità delle azioni nella loro singolarità plurima. Per contro è evidente nel
concreto volere la presenza della qualità universale di esso l'idea, quanto
evidente nel concreto conoscere la presenza dei molti fatti conosciuti.
L'individuazio7 QuestO ne deiv unico nei rifiuto di chiamare teoretico il
conoscitivo soltanto vuol singoli essere una contestazione dei distinti
crociani, ed evitare, al tempo stesso, il monismo gentiUano. Ma esso serve
anche a ben piìi:a dirigere le menti verso la vera sintesi a priori dell'essere,
e cioè l'individuazione dell'unico nei singoli; o, come diceva la seconda
edizione, verso la concretezza e cioè la compattezza dei singoH nell'unico. La
teoria è, dunque, l'orizzonte impersonale in cui i singoH si attuano
personalmente. Essa serve, inoltre, a fondare ontologicamente la struttura
dell'agire sulla struttura dell'essere. La temporalità dell'essere e il male
Croce aveva fornito, dell'attività umana, una sistemazione che aveva avuto un
successo perfino superiore aUe sue intenzioni. Ma il Carabellese, prima ancora
che comparisse sull'orizzonte uno Heidegger, fornisce un sistema delle forme di
coscienza la prima edizione diceva esperienza fondato ontologicamente sui
momenti dell'essere, cioè sulla intrinseca temporalità deW essere come essere presente
nella coscienza. Noi conosciamo ciò che fu, sentiamo ciò che è, vogliamo ciò
che sarà. La conoscenza, è, infatti, una particolare forma di coscienza, che si
rivolge al passato; l'intuizione è un sentire come coscienza, del presente;
l'azione è coscienza dell'essere che sarà, coscienza del futuro. Momenti del
tempo, che sono gh stessi momenti dell'essere, in corrispondenza dei quali
troviamo, rispettivamente, nell'oggetto il vero, il hello, il buono. Il
concreto importa, così, una valutazione ontologica // tempo. del tempo che,
affacciatasi già in L'essere e il problema religioso, starà alla base del modo
antistoricistico di concepire e salvare La storia, prospettato nel saggio con
questo titolo uscito in Scritti in onore di Varisco. Nasce qui il concreto come
compattezza o, come Carabellese preferirà dire piìi tardi, intrinsecità di
oggetto e soggetto: Oggetto e soggetto, in quanto separati, sono astrazioni le
stesse che si chiamano, rispettivamente, teoria e pratica mentre in concreto la
coscienza è pratica dell'essere come l'essere è teoria della coscienza. Una
appHcazione importante è fatta da Carabellese al L'errore di vaproblema
dell'errore di volontà, o male, in cui Croce, 'distinguendo Tattività pratica
in due gradi, e rendendo Ìl primo indipendente dal secondo, era rimasto
invischiato. Nella moralità come tale, dice Carabellese (rovesciando, si può
osservare, quello che per Croce vale dell'economia non c'è errore: la coscienza
morale, come teoria della volontà, è infallibile. Ma, di per sé, la moralità
non è ancora concreta: è solo la teoria del concreto volere, e di questa un mio
atto (o io stesso tutto intero addirittura?) potrà essere un errore. Vi è,
insomma, un'oggettività morale (e una estetica), e non soltanto un'oggettività
conoscitiva. A tale oggettività, i soggetti tendono con un volere che non è
pura facoltà del soggetto, ma è attività concreta, e perciò unità di teoria e
di pratica, di oggettività e soggettività insieme. L'oggettività, in tutte le
sue forme, è intrinseca ai soggetti, ma non certo identica ad essi: essa è
infatti l'unità, di cui i soggetti sono il molteplice. I soggetti sentono,
dunque, l'oggettività come una esigenza, come un bisogno; e ciò fa della
filosofìa del Carabellese una tipica filosofìa del finito e della tensione del
finito verso l'infinito. Filosofìa dinamica, ma non prassistica, essendo la
prassi tesa verso la teoria, e la teoria accessibile solo attraverso la prassi.
Idealismo assoE poichè l'cssere è l'oggetto, presente nei soggetti, la luto non
soggetfilosofìa di Carabcllese si presenta come un idealismo asso tivtsttco. ^
luto, non però soggettivistico: perchè nell'idealismo soggettivistico l'oggetto
è concepito ancora al modo del realismo, come un particolare, mentre per
Carabellese l'oggetto ha da essere l'universale, il valere per tutti. La cosa
particolare a cui mi riferisco in un mio atto (conoscitivo, intuitivo o
pratico), ad esempio un ulivo che vedo dalla finestra, non è un oggetto in
quanto sia un mèro particolare: è, tutto al contrario, qualità o atto
soggettivo. Quello che esso ha di oggettivo è l'essere ulivo non solo per me,
ma per tutti: cioè il rappresentare sia pure individuata in un atto particolare
l'unicità dei soggetti. Se, allora, si conserva astrattamente questa unicità da
sola, si ottiene 1'oggettività dei soggetti, che non è però l'oggettività
dell'ulivo: cioè la particolarità, in quanto, tale si perde. L'ulivo in quanto
universale vuol dire l'unicità (per quanto parziale, perchè si tratta soltanto
di un ulivo) dei soggetti. E se l'universalità costituisce l'oggettività,
questa unicità dei soggetti costituisce l'oggettività loro. Quell'ulivo, in
fondo, costituisce una parte della oggettività naturale dei soggetti uomini.
Nel realismo, o nel La temporalità dell'essere e il male l'idealismo
soggettivistico che lo ricalca, i soggetti e gH oggetti si presentano, invece,
come membri di una stessa comunità (in relazione tra loro): hanno un analogo
modo d'essere, che impedisce a questi due aspetti del concreto di assumere la
loro vera funzione. Questo è l'errore. L'essere, come puro oggetto, non è un
insieme di cose: è piuttosto quella «coscienza normale » kantiana su cui tanto
avevano insistito invano le fonti tedesche; quella normalità della coscienza,
con cui CarabeUese giungerà presto a identificare il concetto kantiano di cosa
in se. I soggetti, per contro, sono molteplici / soggetti come per definizione.
Non enti-io, da porre accanto agU enti-cose: ^soiaredtco ., scienza. in
quest'ultimo caso non si avrebbe modo di risolvere la vertenza tra il realismo
ingenuo, che fa dei primi i soggetti passivi di una attività dei secondi, e
l'idealismo parimenti ingenuo, che inverte semplicemicnte la relazione, ma non
muta la natura dei suoi termini. I soggetti non sono neppure coscienza, in
concreto, bensì il singolare di coscienza, così come l'oggetto è l'universale
di coscienza; sono individuazione dell'essere, termini singolari della sua
individuazione. Parlare di un soggetto unico è, dunque, il massimo dei Rifiuto
dei sognon sensi: il soggettivizzarsi della coscienza è identico al ^ suo
pluralizzarsi. Codesto pluralizzarsi non chiude, tuttavia, i soggetti in sé
stessi: perchè l'io, che è il soggetto concreto, non è aw^ocoscienza, non è un
riflettersi su sé stesso che porterebbe diritti al solipsismo, è l'aprirsi
sull'unica oggettività dell'essere. Sicché, mentre le monadi varischiane
s’aprivano l'una al guardare dell'altra, e producevano l'oggettività con il
loro reciproco interferire, i soggetti carabeUesiani s’aprono pell'immanere in
essi di un identico oggetto, in cui si è rovesciata la concezione gentihana
dell'unico soggetto. Del Soggetto universale di Varisco non c'è, dunque, pili
bisogno, anzi esso non è neppur concepibile. Se io penso Dio come un principio
soggettivo, non ottengo altro che il personale Dio pagano, tutt'altro che
unico; mentre se lo affermo come soggetto unico ne faccio un di là che, non
dovendo constare per nulla nel di qua, non ha piìi per noi alcun significato:
Affermare, dunque, la personalità di Dio è non affermare Dio; è negarlo. La
trascendenza. Ciò non toglie che si possa e si debba dare un significato alla
trascendenza. Trascendenza, dice l'edizione, significa che il concreto è sempre
inadeguato alle sue condizioni trascendentali che, nella loro purezza, superano
la coscienza concreta, non vengono da questa raggiunte interamente. Anziché di
condizioni trascendentah, l'edizione definitiva parla di distinti, che la
coscienza non attua interamente: probabilmente perchè la dizione condizioni
trascendentah sembra imphcare un' antecedenza sul concreto, sia pure logica e
non cronologica. Trascendenza La stessa Struttura del concreto porta quindi
Cararehgiosa e traj^gjjgse ad ammettere le due forme tradizionah di trascen
scendenza gnoseologica, denza: la trascendenza religiosa, per la quale si
afferma l'esistenza separata e irrelativa dell'ente spirituale assoluto, e la
trascendenza gnoseologica, più grossolana e primitiva, che afferma
l'indipendenza e assolutezza dell'essere in sé. Ma egli riconduce entrambe
queste forme alla inadeguabilità dell'intrinseco, cioè dell'essere oggettivo
puro, che non è qualcosa di esterno, bensì qualcosa d'intrinseco, appunto, ai
soggetti che trascende. Del resto Carabellese riconosce alla trascendenza
religiosa il merito di rilevare, sia pure in modo imphcito soltanto, il valore
della coscienza, e così di porsi veramente sul terreno dell'essere concreto.
Infatti, anche se ad essa accade d’insistere sull'eternità di Dio, si deve
tener presente che l'assolutezza divina ha sempre avuta una propria rappresentanza
nell'essere concreto, almeno in coloro che l'affermavano. ,.tT..J7JAt^,l
Riformulate così le due forme di trascendenza tradizionale, concreta. il
Carabellese non le accetta, tuttavia, tali quali: sostituisce La trascendenza
ad esse due forme di trascendenza concreta, la trascendenza relativa, cioè
l'alterità reciproca di coscienza tra un soggetto e l'altro, e la trascendenza
dell'unico assoluto di fronte ai singoli soggetti. Quest'ultima non è, al
contrario della prima, relativa, perchè tra l'essere assoluto e i soggetti,
come abbiamo visto, non intercorre una relazione. La trascendenza assoluta, in
altre parole, non è simmetrica, perchè, mentre noi non riusciamo ad adeguare
l'oggetto, questo non è mai trasceso da noi: Il principio non si trascende. Così,
mentre la trascendenza gnoseologica, che si crede trascendenza dell'assoluto
oggetto alla coscienza, si riconosce come irriducibihtà relativa di un soggetto
concreto singolare all'altro, la trascendenza religiosa, che pare soltanto
soggettiva, manifesta veramente la sua assolutezza in quanto inadeguabihtà
dell'oggetto puro, immanente neUa coscienza dei soggetti. La trascendenza è
dunque nella coscienza, e perciò non è il reaUstico di là da questa. L'esigenza
della trascendenza è, invece, l'esigenza che il concreto ha di un principio,
esigenza che è soddisfatta relativamente dalla reciprocità condizionata dei
soggetti, e assolutamente dalla unicità universale dell'oggetto. A questo punto
si in Il sacrificio del nesta la più sorprendente conclusione della Critica del
concreto. coscienza. Abbiamo visto che, isolando le condizioni del concreto, si
cade nell'astratto: ma allora perchè la coscienza cerca di cogliere detti
distinti nel loro isolamento, perchè cerca di dissolvere la propria individua
concretezza nell'uno o nell'altro suo distinto? In luogo di distinto l'edizione
precedente diceva estremo. CarabeUese avvicina questo sacrificio che la
coscienza fa della propria concretezza al dramma di Gesìi, che prega: Transeat
a me caUx iste, pur sapendo che il sacrificio a cui va incontro è necessario
alla redenzione. Il transire della ricerca del distinto come tale non può
avvenire senza l'annullamento L'Ontologismo di Carahellese della stessa
concretezza, come non poteva avvenire quello di Gesìi senza l'annullamento
della redenzione. In altri termini, alla concretezza è necessaria anche la
distinzione delle sue condizioni intrinseche (oggettiva e soggettiva): non già
per una necessità di tipo dialettico, che faccia risultare il concreto dalle
antitesi, bensì per una necessità immediata: Il credente muove dal bisogno di
sapere la sua stessa essenza singolare, di sentirla distinta. D'altra parte, di
fronte al credente, la coscienza rappresenta uno sforzo continuo che non giunge
mai al termine per risolversi nel suo principio universale, e perciò essa è
sempre inesausta e inesauribile problematicità e, quindi, filosofìa. Le
attività traNel concrcto pcrciò, a cagione della sua polarità come scendentah:
re chiamata, ad escmpio, in L'idealismo italiano (Napoli, hgione e filosofia),
si costituiscono due attività trascendentali, rehgione e filosofìa che sono
l'intrinseca trascendentahtà del concreto, non la concretezza stessa. Esse
dovran tornare, dice Carabellese, dopo tutte le scaltrezze, alla loro esigenza
ingenua. La concreta coscienza umana non segue, certo, solo la misteriosa fede
del credente o la superba ansia dimostrativa del filosofo, ma nella sua
attività è proprio sforzo che richiede riposo, riposo che prepara lo sforzo. In
che misura il credente possa sentirsi soddisfatto dell'esigenza ingenua della
religione, quale Carabellese ghela presenta, è dubbio: il credente ha
generalmente bisogno di un Dio a cui rivolgersi come a un Tu, e non soltanto di
genuflettersi dinnanzi all'universale mistero che lo trascende. Ma il filosofo
può essere più soddisfatto. Egli può trovare nella trascendenza carabellesiana
la ragione della prohlematicitcì della sua ricerca, che una mèra considerazione
dell'oggettività come tale non avrebbe fatto supporre. In un immanentismo di
tipo hegehano, in cui la filosofia è il prendere coscienza dell'Assoluto, la
problematicità si risolve interamente nello sviluppo storico; in un
immanentismo gentihano, in cui l'atto coincide eternamente con I due poli del
concreto sé stesso, la problematicità scade nell'indifferenza verso la
singolarità dei fatti. Per contro nell'immanentismo carabellesiano, in cui
l'oggettività è una idea pura, universale e di per sé astratta, l'esigenza di
una tale oggettività riesce invece, inevitabilmente, problematica e pluralisticamente
attuata. Per questo l'analisi del concreto nelle sue condizioni, o nei suoi
distinti di per sé astratti, é necessaria alla redenzione. Una redenzione che
riscatta anche quello che abbiamo chiamato il profetismo di Carabellese. La
profezia in nome dell'assoluto apre, infatti, e non chiude la ricerca. Rimane,
senza dubbio, un problema gravissimo: con Quai è u crUequal criterio misurare
se questa esigenza di oggettività sia ''^o deii'oggethpiù o meno soddisfatta?
Il criterio non può essere dato, é chiaro, da una formula; l'oggettività
carabellesiana non sarebbe tale se vi fosse una formula capace di definirla.
Ciò rende difficile quasi altrettanto nella posizione di Carabellese quanto in
quella di Gentile passare dalla sistemazione del valore in generale a una
valutazione specifica, dei prodotti portatori di valore. Ma ciò dà altresì al
problema della filosofìa una apertura che le posizioni di dialettiche, di
stampo hegeliano, per contro gli negavano. Possibilità di un pluralismo
filosofico. L'anno stesso della Critica del concreto, 1, il Carabellese pubbHca
infatti, sulla Rivista di filosofìa un articolo fondamentale Che cos'è la
filosofia? in cui riconosce la difficoltà della conciliazione dell'assoluta
universalità della filosofia colla sua determinata concretezza (edizione in
volume, con altri saggi); e non esita, dovendo scegliere, a lasciar cadere
pittosto la concretezza, per conservare l'universafità. Ma, se si tien conto
della attuazione e pratica della filosofia, ci si accorge che, rispetto a quella
universahtà, il filosofo è esso il problema dell'individuazione. L'universaHtà
ha bisogno di essere individuata per esistere, e quindi l'esplicazione
dell'imphcito, che è il problema filosofico fondamentale, quando si consideri
la filosofia nella sua attuahtà diviene il problema dell'individuazione
dell'universale. Si parte dall'affermazione dell'essere nella sua universalità,
e si arriva a una assoluta affermazione della individualità, che può parere
dogmatica, intollerante, tirannica ed arbitraria solo a chi nulla sente di
filosofia, e perciò scambi l'arbitrio del singolo, che deve farsi valere pur
quando debba affermare non il suo proprio arbitrio, ma l'assoluto universale,
con l'universale idea animatrice da quel singolo, toccata in un potente sforzo
di sublimazione. In questo senso è riconquistato il concetto ingenuo della
filosofia, che non è possesso ma sforzo. Il saggio del '21 sul concetto della
filosofia fu ristampato come secondo volume dei Saggi: ma le postille e
l'ultimo saggio, aggiunto, fanno in realtà, di questo volume l'espressione di
una maturazione ulteriore del Carahellese, che presuppone tutto il lavoro di
insegnamento universitario e di polemica. Infatti, Carabellese si dedica a
verificare la propria concezione sulla storia della filosofia, soprattutto
kantiana: su quello strano destino, cioè che aveva portato l'annunzio kantiano
(mal formulato) della pura oggettività a rovesciarsi nella soggettività
assoluta di Fichte. // problema della filosofia. Da Kant a Fichte è il problema
interno della filosofia: quel problema che la filosofia soUeva a sé stessa
quando si interroga suUa propria possibiUtà, e che va distinto accuratamente
dal problema oggettivo che la filosofia vuol risolvere, che CarabeUese chiama
problema teologico. Kant (e questo è il punto in cui l'esegesi del Carabellese
si mostra più aderente ai problemi testuah) non chiarì mai in modo
soddisfacente il rapporto tra critica propedeutica Il problema teoe metafisica
filosofìa. Ciò portò i suoi successori a confonogtco. ^gj.g ^ problema interno
della filosofia col problema oggettivo, e a pretendere di risolverh in un sol
colpo, col concetto di autocoscienza. È la tesi che Carabellese espone nella
prima parte di La filosofia di Kant. L'idea teologica (parte non più seguita
dalla seconda e dalla terza, che avrebbero dovuto riguardare, rispettivamente,
1'idea psicologica e l’idea cosmologica. Carabellese contesta la legittimità
Possibilità di un pluralismo filosofico di presentare come filosofia di Kant il
criticismo, che voleva essere soltanto la via per arrivarci; ma non perchè
segua l'indicazione espressa di Kant, secondo cui il contenuto effettivo deUa
filosofia andrebbe cercato in una metafisica della natura e dei COSTUMI,
contenente l'insieme delle condizioni a priori rispettivamente della scienza
deUa natura in generale e della MORALITA. Carabellese cerca, al contrario di
determinare, attraverso la dottrina metafisica che Kant tacitamente o
esplicitamente professa, quella che la critica gli impone di professare. In che
cosa consiste questa dottrina? Essa è la dottrina dell'idea come oggettività
pura; dell'idea Dio come Carabellese ama dire, e LUidea dìo. non idea di Dio:
secondo una precisazione che risale, effettivamente, a Kant àeWOpus poshimum,
sebbene Carabellese conosce l'Opus postumum solo indirettamente. Carabellese
riconosce che Kant non fu consapevole della scoperta che egh fa quando, di
fronte al problema dell'esistenza di Dio, risponde che Dio è idea, e trasforma
così l'argomento ontologico La filosofia di Kant. Riconosce, cioè, che la
verità che egli attribuisce a Kant è, in fondo, la stessa verità scoperta da
lui, Carabellese. Con tutto ciò il suo hbro, come tutto il resto delle sue
ricerche storiche, pur nel carattere molto personale delle sue vedute, contiene
spesso intuizioni illuminanti. Il problema teologico. Dopo questi saggi, non
esaurienti ma condotti in profondità, su Kant e su Fichte, Carabellese poteva
raccoghere la somma del proprio pensiero intorno al problema oggettivo e non
piìi interno soltanto della filosofia, nel volume II problema teologico come
filosofia, che, pur avendo una origine alquanto composita, costituisce una
sintesi molto coerente. La filosofia trascendentale sbagHa quando fa della
critica La critica DELLA RAGIONE CONVERSAZIONALE non è la scienza assoluta: ma
non per questo ha ragione scienza suHegel che critica tale assunto di cercare
la verità nel dialettismo. L'errore di Kant è di muovere dalla critica DELLA
RAGIONE CONVERSAZIONALE della conoscenza soltanto, anziché della coscienza: che,
allora, si scoprirebbe in essa l'immanenza dell'essere in sé, come puro
oggetto, cioè come idea. La metafisica critica può, dunque, essere definita
come l'attività teorica della trascendenza nella immanenza dell'assoluto. Ma
poiché la trascendenza é sforzo verso l'assoluto e non l'assoluto medesimo, la
filosofia si personalizza; e non capitalizza, come la religione, un patrimonio
di fede, ma si consuma in sempre nuovo sforzo. Con ciò Carabellese rende
esphcito e risoluto il suo schierarsi per una filosofia critica contro ogni
filosofia normativa. La filosofia rinunzia ad essere, con le proprie norme, la
guidatrice di ogni concreta attività spirituale, avendo natura di sforzo, e non
di scienza. La filosofia deve dunque abbandonare la scientificità, per salvare,
insieme con la propria oggettività, quella stessa dell'essere. Dio come asso
Giustificate COSÌ le tesi della Critica del concreto e quelle luto oggetto ^j
£j^^Q^ i^filosofia?, la nuova analisi del Carabellese viene puro. a trovarsi
direttamente di fronte al problema di Dio. Dio, come assoluto oggetto puro, é
ancora il problema del lontano volume, L'essere e il problema religioso,
filtrato, tuttavia, attraverso tutta l'esperienza storiografica e speculativa
di quegli anni. Al volume era stato obiettato che l'essere, che è il piìi
astratto dei concetti, non può illuminare il problema religioso, che é tra i
piìi concreti; e la meditazione carabellesiana di quegli anni era stata la
risposta a tale obiezione: l'inserzione dell'essere nel concreto. Perciò Carabellese
torna a dire che la filosofia, non solo non può evitare, ma ha per suo compito
oggettivo specifico il parlare di Dio, e il correggerne la rappresentazione
realistica che ne dà generalmente la religione; nonché il liberare Dio dai due
presupposti, della esistenza e della soggettività, senza peraltro aver punto la
pretesa di contestare l'atteggiamento dell'adorazione religiosa: anzi,
offrendole il suo vero oggetto. Dio è, non esiDÌO, afferma Carabellese, è, non
esiste. Era stato detto ^già da molti altri, in particolare da Vico, al termine
della // problema teologico Prima risposta al Giornale dei letterati:
Impropriamente esplica la sua pietà chi come Cartesio inferisce dalla propria
esistenza l’esistenza di Dio, perchè Dio non esiste, ma è e ancora: Iddio non
c'è, ma è. Il senso, tuttavia, in cui il CarabeUese riprende questa formula è
originale: Se, infatti, Dio è essere in sé, e l'esistere invece è essere in
relazione, dire che Dio come tale esiste, comunque si intenda l'esistere, è
pronunciare verbalmente soltanto una contraddizione, ma non dire nulla:
affermare l'esistenza di Dio è negare Dio. Affermare l'esistenza di Dio è
negare Dio rendendo impossibile uno spirito che lo affermi. Anche l'argomento
ontologico, che CarabeUese come L'argomento quasi tutti gh idealisti riprende e
accogUe originalmente, °s^°adattandolo al proprio tipo di idealismo, è bensì
inadatto egH dice a dimostrare l'esistenza di Dio, ma serve ad attestarne la
pura inseità: la quale è solo di Dio, dato che tutto ciò che esiste non è in
sé, perchè l'esistenza sta proprio nella reciprocità, che è alterità, e non
inseità. L'essenza dell'argomento ontologico sta proprio nella negazione della
singolarità e rappresentatività di Dio negazione della quale l'inconoscibilità
kantiana non è lontana. Pensare, e non pensare Dio, è davvero impossibile, come
osserva AOSTA: perché Dio è l'oggettività di ogni atto di pensiero. La
manifestazione dell'essere. Tuttavia questo essere come puro oggetto del
pensiero, pur essendo stato immesso nel concreto, rischia facilmente di
apparire troppo povero di determinazioni per costituire il problema oggettivo
della filosofia. E negH anni dell'insegnamento di teoretica a Roma CarabeUese
si sforza di quaUficarlo maggiormente, servendosi deUe determinazioni del tempo,
secondo la hnea già indicata daUa Critica del concreto. Queste meditazioni di
CarabeUese furono raccolte in cinque volumi di dispense, preparate da lui prima
dei rispettivi corsi. I titoli sono: L'essere e la sua manifestazione. La
dialettica delle forme; L'essere. Io GRICE PERSONAL IDENTITY THE “I” -- ;
L'attività spirituale umana. Linee di una logica dell'essere. Uessere quali
L'essere qualitativo egli spiega nel primo di questi tahvo. volumi proprio
perchè è il diverso, presenta la sua attività, che è attività prima e principio
di ogni attività, sotto tre aspetti, che finora hanno costituito tre ordini di
problemi separati gli uni dagli altri, e che, quindi, sono stati risolti
indipendentemente e incoerentemente: dico i problemi dei valori delle categorie
e degU atti dell'attività spirituale. Anche se l'essere è una pura potenziahtà
eterna, gli atti si diversificano: il passato, inserendosi nel presente, vi
costituisce il fatto e il futuro vi costituisce il fine: Il fine, come già il
fatto, è un diverso atto in sé, e ha anch'esso una sua oggettività pura, perchè
il sommo fine in sé non può essere uno dei tanti che sentono il fine, ma
dev'essere, invece, proprio quel tale unico sentimento del bene che tutti noi
abbiamo quando ci proponiamo dei fini . La bellezza. Auchc la bellezza ritorna,
nell'esame di Cara bellese, come realtà in sé del sentimento fondamentale, e,
quindi, non come prodotto dell'arte crocianamente, bensì all'inverso come suo
presupposto: Dio come bellezza è l'ineliminabile presupposto dell'arte e degli
artisti. Coerentemente con tutto il resto della sua posizione, Carabellese
considera un grave errore il presupporre l'artista al bello, cioè il singolare
all'universale. Nella seconda parte dell'opera, intitolata L'io, Carabellese
ribadisce la sua concezione della coscienza concreta: Il consapere è il sapere
che io, compatta unità plurima, ho di Dio, l'unico universale. Maggiori novità
si trovano nella parte su L'attività spirituale umana, che obbedisce a questo
canone generale: L'attività spirituale umana attui l'essere: canone
specificantesi poi nell'imperativo di attuare l'essere in quanto bene e in
quanto necessità. Su quest'ultimo punto si fonda la logica, come legge
dell'attività umana consapevole, dato La manifestazione dell'essere che il logo
si rivela come lo stesso essere in quanto presente nell'attiva coscienza umana.
Sotto questa rubrica Carabellese estende ora la sua riLa società. cerca a un
campo che poteva sembrare marginale, rispetto ai suoi interessi, la società:
poiché la logica, come legge dell'attività umana, sotto il suo aspetto
sentimentale, è logica della famigha, oltre che della poesia e dell'arte, e
sotto il suo aspetto intellettivo è logica della nazione, della scuola e della
storia. Infine, sotto il suo aspetto vohtivo, è logica del popolo, dello Stato,
del costume. Per quanto affiancate, però, da un volumetto, L'idea politica
d'Italia, queste riflessioni di Carabellese sui temi della società appaiono
prive di sufficiente elaborazione. Del resto, questo non è un caso: risponde al
rifiuto del Carabellese di sacrificare alla concretezza della filosofia la sua
universalità. Abbiamo già incontrato questo rifiuto nell'articolo, e nel
Problema teologico; e lo troviamo ribadito negli scritti Che cos'è la
filosofia? Esso non è altro che un corollario del rifiuto di accettare
l'idealistica riduzione dell'essere alla coscienza, la quale impedirebbe alla
filosofia di continuare ad essere filosofia dell'essere, e quindi, in ultima
analisi, annullerebbe la possibilità della filosofia medesima. Capire ciò
osserva una postilla al saggio irriducibilità deve essere ben difficile, se i
miei amici, certo di filosofia. pronto ingegno, come Spirito prima e Calogero
dopo, non hanno visto che, con la loro aperta professione di riduzione della filosofia
alle determinate scienze (Spirito), o a filosofia della prassi (Calogero) non
hanno fatto altro che dotarmi di spirito profetico, in quanto avevo
prearmunziato il necessario finire della filosofia neohegehana in genere, e
attuahstica in specie, nell'uno o nell'altro dei detti estremi Che cos'è la
filosofia? La stessa soluzione che Carabellese aveva proposta, peraltro, \'iene
da lui criticata, perchè in essa il problema interno della possibihtà del
filosofare non era visto nella sua connessione colla soluzione ontologica del
problema oggettivo. Là si parla ancora, infatti, di una trascendenza della
filosofia, mentre la filosofia come la religione non è trascendente essa
stessa, bensì ricerca del trascendente, trascendentalità. Entrambe, filosofia e
religione, se rivendicassero il concreto, dovrebbero perire insieme nel
contendersi tutta l'attività spirituale concreta, o una determinata forma di
questa. Ma che periscano è impossibile: bisogna dunque che rinunzino entrambe
alla concretezza, per salvarsi entrambe, ciascuna col suo proprio valore.
Eppure questa rinunzia è ancora soltanto una condizione negativa. Dopo di essa
bisogna chiedersi, come fa il saggio conclusivo del volume: È possibile
filosofare? Kant aveva dimostrato secondo CarabeUese che una filosofia come
specifico sapere dell'essere è indispensabile. Ma i post-kantiani annullarono
la dimostrazione kantiana, e con ciò la stessa filosofia, ridotta all'attività
spirituale in genere. Solo la riflessione pura della coscienza ontologica ristabilisce
la possibilità della filosofia, evitando di identificarla, sia col sapere
concreto delle scienze, sia con lo stesso principio trascendente verso il quale
è sforzo. Allora problema interno e problema oggettivo del filosofare si
stringono saldamente tra loro, pur senza confondersi: perchè sia possibile
filosofare devesi ammettere l'essere in sé, del quale la filosofia sia
riflessione; perchè si ammetta l'essere in sé, bisogna che sia possibile la
filosofia come speciale sapere o meglio, se si vuole, come quello speciale
atteggiamento di coscienza che ricerca il trascendente assoluto, che é l'essere
in sé. La filosofia e I4. DcttO CÌÒ, tuttavia, l'oggethvtia. gj vcdc aucora da
che cosa il filosofo possa desumere ciò che ha da dire.Il filosofo non deve professare
la filosofia che a lui personalmente piaccia, ma quella a cui l'oggettiva
coscienza lo induca Che cos'è la filosofia? ma quale è quella filosofia a cui
l'oggettiva coscienza lo induce? A questa domanda Carabellese non può ri co.
Sovranità della filosofia spendere, se non con una perenne problematicità, che
corrisponde, in qualche modo, a quella problematicità che Spirito trarrà dall'
attuaUsmo. Egli dice che la problematicità del filosofo non parte affatto dal
nulla, né dalla negazione: parte dalla coscienza concreta: ma con ciò non fa
altro che reinserirsi, in sostanza, nella tradizione socratico-platonica
(Carabellese ne cita come rappresentanti Aristotele e Agostino, qui d'accordo,
secondo cui sapere è sempre sapere in modo piìi espUcito ciò che già si sapeva.
Questo appello a un implicito da esphcitare si giustifica, tuttavia, forse meno
nell'ontologismo critico che nelle filosofie tradizionali, platoniche e
cristiane. Queste riserve non tolgono che Carabellese, con il suo spirito
profetivolume sulla possibilità della filosofia scritto che può considerarsi
come il suo testamento spirituale ponga il tema principale del dibattito
filosofico in Italia per almeno un decennio: il tema della morte della
metafisica. Anche se non tutti coloro che conducevano quel dibattito si
ricordarono di lui, anche se i più tra quelli che pronunziarono una sentenza di
morte per la metafisica non si accorsero della loro ignoratio elenchi rispetto
alle tesi del Carabellese, noi non possiamo non riconoscere ancora una volta in
Carabellese una sorta di spirito profetico e, questa volta, anche rispetto al
futuro. Con lucidità impressionante, infatti, egli respinge, insieme col
pregiudizio della normatività della filosofia, l'identificazione tra filosofia
e politica pura, tra filosofia e pohtica determinata, tra filosofia e storia
della filosofia nel senso che sarà sostenuto poi, tra gh altri, da Garin e,
infine, tra filosofia e fede oltre che, come già si è visto, tra filosofia e
scienza e tra filosofia e prassi. La capacità di prevedere e prevenire i
nemici, in Carabellese, non aveva l'eguale. Il vedere neUa non hegeliana
identificazione di filosofia e politica pura la esasperazione della hegehana
eticità dello Stato; il riconoscere l'inutihtà del filosofare nelle determinate
esigenze poUtiche, contro il sogno platonico dei filosofi reggitori di Stato;
il sostenere l'inutilità del filosofare per la vita, come segno deUa sovranità
della filosofia, sono una battaglia combattuta in anticipo contro nemici non
ancora tutti schierati. E, se si dove guardare al suo esito pragmaticamente e
storicisticamente, si dove anche dire: una battaglia perduta. Ma il senso del
testamento spirituale di Carabellese è appunto il rifiuto di una considerazione
pragmatica e storicistica della filosofia. Questo rimane, anche se la tendenza
a sacrificare il concreto all'universalità toghe, a quel rifiuto, molte
opportunità di proporsi come più positivamente costruttivo. CrOCE giunse assai
tardi alla Tardivo appro fìlosofia. Benché la sua attività di studioso fosse
precocissima (prima dei vent'anni egli aveva già pubblicato alcuni lavori) e si
esplicasse fin dall'inizio con rara intensità, tuttavia essa non offrì stimoli
efficaci al manifestarsi della sua vocazione filosofica, essendo dominata d’una
curiosità d’erudito e di letterato che trova il suo pascolo nella ricerca
d'archivio e di biblioteca, in collaborazione con altra onesta e buona e mite
gente, uomini che non avevano l'abito del troppo pensare {Etica e Politica,
Bari), come s’esprime Croce stesso; ne taU stimoU al pensare venivano offerti a
Croce dai casi della vita e dalle influenze dei vari ambienti in cui tah casi
si verificavano sotto forma di problemi spirituali d'indole etico-rehgiosa, o
pratico-sociale, e simili (e son preziose per questo rispetto le confessioni
del Croce medesimo nel suo Contributo alla critica di me stesso, ripubbhcato in
appendice al volume Etica e Politica. Nato a Pescasseroh, paese montano
degl'Abruzzi, l’amhiente da una ricca famiglia di proprietari terrieri, trova
in questa esempi di severe virtii domestiche, austera laboriosità del padre
nell'amministrazione del suo patrimonio, cura attenta e amorosa della casa da
parte della madre, la quale serba altresì amore per i libri e soprattutto pella
letteratura romantica di costume medievale oltre che pell'arte e per gl’antichi
monumenti, amore che trasmise vivissimo fin dai primi anni d'infanzia al
figlio, il quale come scrive si trova ad avere in tutta la sua fanciullezza
come un cuore nel cuore, e questo cuore era la letteratura o piuttosto la
storia. Ma manca in quell'ambiente familiare qualunque risonanza di vita
pubblica e politica: il persistente segreto attaccamento ai Borboni, la sorda
diffidenza pelle idee e il costume del nuovo stato piemontese, vietavano ogni
partecipazione attiva al moto del risorgimento e all'opera di costruzione del
nuovo stato nazionale. E le relazioni della famigha con i due fratelli
SPAVENTA, cugini del padre, s’erano rotte: l'ex-prete Bertrando, allora
professore di filosofia a Roma, era oggetto di scandalo per la sua apostasia; e
Silvio, esponente autorevole del liberalismo trionfante, era sentito come
l'incarnazione di quel mondo a cui i Croce erano intimamente estranei o
avversi. Eguale sordità alle esigenze della nuova politica e del nuovo pensiero,
Croce trova nel collegio tenuto d’ecclesiastici a Napoli, dove egli entra a
circa io anni e dove compì i suoi studi secondari, che alimentarono le sue
inclinazioni letterario-erudite, specialmente sotto l'influenza di SANCTIS e
CARDUCCIC, da lui letti e riletti sui banchi del liceo, senza che tuttavia
riuscisse a sentire, se non in modo superficiale l'alta ispirazione morale
della loro opera critica. E si compì in quegli anni quella ch'egli chiama crisi
religiosa, determinata non da profondo travaglio o inquietudine interiore, ma
dal graduale spontaneo spegnersi dell'adesione a credenze da lui fino allora
passivamente accolte e dall'abbandono delle pratiche esteriori. Gli studi. Al
termine degli studi secondari, la sua vita fu sconvolta da una gravissima
sciagura familiare, la perdita d’entrambi / casi della vita i genitori e
dell'unica sorella nel terremoto di Casamicciola (nell'isola d'Ischia, dove la
famiglia era a villeggiare), ed egli stesso rimase per molte ore seppellito
sotto le macerie, uscendone colle ossa fracassate. Guarito daUe ferite, avendo
lo zio Silvio Spaventa assunto la tutela dei due orfani sopravvissuti, egli si
trasferi a Roma, in casa del tutore, e ci rimase tre anni. In questo periodo
fece due esperienze nuove, che lasciarono tracce durevoli nel suo spirito: casa
Spaventa era frequentata da gran numero di parlamentari e giornalisti ed
esponenti deUa cultura universitaria, tra i quali si accendevano vivacissime
discussioni sui fatti del giorno e sugh avvenimenti della vita politica,
discussioni dominate da passioni e contrasti così importanti e violenti da
turbare l'animo del giovanetto che vi assisteva, trasformando l'indifferenza
pella politica, propria degli ambienti in cui fino allora era vissuto, in vera
e propria avversione. D'altra parte, iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza,
per essere avviato alla diplomazia, non trovò in quegU studi nulla che lo
interessasse e valesse a placare le sue ansie per la vita avvenire, a sollevare
il suo spirito dalla nera depressione nella quale la sciagura famihare lo aveva
lasciato (fu pessimo scolaro, e non giunse mai alla laurea). Ma nella Facoltà
di Lettere insegna allora Filosofia Morale un uomo di grande ingegno e di forti
entusiasmi, Labriola, ch'egU aveva conosciuto e preso ad ammirare nelle
conversazioni serali di casa Spaventa. Croce si diede a frequentare le lezioni
universitarie del Labriola, e ne fu preso. Quelle lezioni scrive Croce nel suo
Contributo Labriola, vennero incontro inaspettatamente al mio angoscioso
bisogno di rifarmi in forma razionale una fede sulla vita e i suoi fini e
doveri, avendo perso la guida della dottrina rehgiosa e sentendomi nel tempo
stesso insidiato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche,
circa le quah non mi facevo illusioni, scorgendovi chiaramente la sostanziale
negazione della moraUtà stessa, risoluta in egoismo piìi o meno larvato.
L'etica herbartiana del Labriola valse a restaurare nel mio animo la maestà
dell'ideale, del L'idealismo storicistico di Croce dover essere contrapposto
all'essere, e misterioso in quel suo contrapporsi, ma perciò stesso assoluto e
intransigente. L'herbartismo del Labriola suscita in Croce reverenza per forme
ideali eterne, platonicamente scisse dal reale e collocate nell'empireo,
fornenti nella loro assolutezza un solido fondamento alla morale, e anda
incontro alla sua istintiva avversione al naturalism.o positivistico, che
sommerge nell'esperienza e abbassa a superstizione ogni culto dell'ideale.Piiì
tardi Croce tornerà sull'herbartismo, e porrà ogni suo sforzo nell'intento di
colmare quell'abisso tra ideale e reale, attribuendo alle idee calate
dall'empireo nel mondo dell'esperienza il valore di principii direttivi o forme
dell'operare umano, e riconoscendo le esigenze più profonde dell'aborrito positivismo.
Ma per il momento l'herbartismo suscita in lui un fermentare d'idee sul
rapporto tra dovere e piacere, sulla distinzione tra azioni ispirate al
rispetto della pura idea morale e quelle scaturite da impulsi passionali.
Indagini eruTomato a NapoH, dopo tre anni di soggiorno a Roma, lasciata la
pohticante società romana acre di passioni, entrò in una società tutta composta
di bibliotecari, archivisti, eruditi, curiosi e a quella società egli si adeguò
pienamente e fu com'egli dice tutto versato nell'esterno, cioè nelle ricerche
di erudizione. L'intensità e la foga di questo lavoro d'indagini nei campi
angusti degli aneddoti e curiosità, finì col produrre in lui sazietà e disgusto
per quelle esercitazioni esterne. E da questo scontento credette di poter uscire
allargando l'orizzonte delle sue ricerche dall'ambito di vicende locali a
quello della vita morale delle nazioni nei loro reciproci rapporti (ad esempio
i rapporti italo-spagnoH nel Rinascimento). Ma di quello scontento egli intuì
la più vera e profonda ragione nel fatto che, mentre da tanti anni fa o crede
di fare storia, non sa che cosa fosse la storia, quale ne fosse la natura: e
meditando su questo problema, con ampie letture (prendendo, tra l'altro, un
primo contatto con La scienza nuova del Vico) s'accorse che la dite / casi
della vita soluzione di esso impKca un radicale cangiamento di prospettiva, uno
spostamento d'interesse da quello che è l'oggetto del conoscere storico, dai
fatti costituenti il passato che s'intende ricostruire, alla mente dello
storico che è il soggetto di quell'opera di ricostruzione, per ricercare in
essa, nella coscienza dell'uomo, i tratti specifici di quella forma di
conoscenza che è la conoscenza storica nelle sue connessioni con le altre forme
di sapere di cui l'uomo è capace e con l'operare pratico costitutivo della vita
dell'uomo. Era, // problema quello, un problema di logica della storia,
concernente cioè '^*^il concetto della storia, era dunque un problema di
filosofia, di filosofia sulla storia. Da queste meditazioni nacque il saggio La
storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte, che fu come dice Croce
come una rivelazione di me a me stesso, come cosa che mi sta a cuore e mi usce
dal cuore, e non come una più o meno frivola e indifferente scrittura di erudizione.
Quel saggio suscita un gran fervore di polemiche che tennero impegnato Croce
per vari mesi, e lo indussero a chiarire e sviluppare il suo pensiero in vari
scritti, raccolti poi nel volume Saggi. Ma quando, gettata luce filosofica sul
lavoro storico, egH crede di poter tornare a questo riprendendo le sue ricerche
sui rapporti tra ItaUa e Spagna, una nuova spinta improvvisa e irresistibile lo
ricacciò con rinnovato fervore nelle riflessioni sul problema della storia e fu
un secondo incontro col suo maestro e amico Labriola, che, passato
dall'herbartismo al marxismo, mise il suo amico a parte dell'opera, a cui egli
si era accinto, di teorizzamento del socialismo e della dottrina del
materiahsmo storico che ne costituiva l'ideologia. Il contatto col marxismo
ingenerò nel Croce anche un 11 marxismo. appassionamento politico, la fede
sociaHstica nella pahngenesi del genere umano redento dal lavoro, e nel lavoro:
ma fu un appassionamento politico passeggero, che quella fede fu corrosa dalla
critica ch'egU venne facendo dei concetti del marxismo, in una serie di saggi,
da lui scritti, raccolti poi nel volume che porta il titolo Materialismo
storico ed economia marxistica. Ma del tumulto di quegli anni mi rimase come
buon frutto l'accresciuta esperienza dei problemi umani e il rinvigorito
spirito filosofico Saggi, Bari. Croce si sente ormai maturo per dare una
organica sistemazione alle idee sulla storia, scaturite primamente dalle
riflessioni sulla connessione della storia con l'arte e ampliatesi poi e approfonditesi
nell'esperienza marxistica. Quest'organica sistemazione costituirà quella che
Croce chiamerà Filosofia dello Spirito, che si apre con l'Estetica e si
conclude con la Teoria e storia della storiografia, occupando il quindicennio
che precede la guerra mondiale. Politica attiva. Dopo la fine della guerra
Croce, senatore, entrò a far parte del gabinetto Giolitti come ministro
dell'Istruzione, e progettò una riforma scolastica che, tuttavia, non ebbe il
tempo di far approvare dalle Camere, per la caduta del Ministero. Con l'avvento
del fascismo non volle pili accettare incarichi di governo, ma lui stesso
indica in Gentile l'uomo che avrebbe potuto portare a termine la riforma. Già
in questo momento, tuttavia, i rapporti tra i due filosofi si andavno raffreddando:
sia per ragioni teoriche (come vedremo), accentuate ancora dalle polemiche tra
i rispettivi discepoli, sia per ragioni politiche. Dopo il delitto Matteotti,
Croce, che aveva in un primo tempo accettato il fascismo come minor male, muta
il suo voto favorevole, prudente e patriottico, in una decisa opposizione.
Cessa quasi del tutto di frequentare il Senato, e pronunziò, e mise per
scritto, severe condanne del fascismo. Salvo, tuttavia, un'invasione della sua
casa napoletana da parte d’esagitati, che la moglie Adele contribuì a fermare,
fu sempre lasciato tranquillo, e alla rivista che Croce fonda, La critica, fu
lasciata una libertà, per quei tempi, eccezionale. Questa voce d'opposizione,
per un verso, serviva da aUbi culturale al regime, ma per un altro servì a
raccogliere intorno al crocianesimo tutto l'antifascismo rimasto nei / casi
della vita confini italiani. Caduto il fascismo, tuttavia, non riuscì a Croce
di trattenere se non in minima parte tale antifascismo nel quadro e nello
spirito del ricostituito partito liberale, di cui Croce fu presidente. Membro
della Costituente e ministro, Croce conclude definitivamente la sua vita
politica, per proseguire senza soste i suoi studi, fino alla morte. Lasciò
parte del suo palazzo napoletano e la ricchissima biblioteca all'Istituto per
gli studi storici, da lui fondato, con lo scopo soprattutto d’indirizzare i
filosofi verso quelle ricerche che più aveva amate. La storia come arte e come
scienza. Avendo l'occhio alla futura costruzione del sistema della Filosofia
dello Spirito, delineeremo brevemente come preparazione di essa le idee
principah contenute così nella memoria su La storia ridotta sotto il concetto
generale dell'arte e negh scritti ad essa collegati, come nella raccolta dei
saggi sul Materialismo stanco. Nell'attività intellettuale di Croce, la ricerca
La storia tra storico-erudita e quella storico-letteraria o critica della
poesia erano costantemente affiancate e spesso (come ad esempio nell'esame
della poesia popolare e delle leggende locali) s'intrecciavano tra loro,
guidate, se non dal concetto, dall'intravvedimento d'un'affinità spirituale e
d'una comune radice spirituale della storia e dell'arte. Si capisce quindi che,
quando nella Memoria con cui Croce inizia la sua attività filosofica, prese ad
esaminare di proposito nei suoi termini più generali il problema della natura
della storia, egH avesse presente quel ravvicinamento della storia all'arte, da
lui sperimentato negh anni precedenti. E partendo dal presupposto comunemente
accettato, anche se non criticamente fondato che vi siano due e non più di due
forme di conoscenza, quella sopraccennata dell'arte e quella della scienza, il
problema deUa natura della conoscenza storica assume la forma del problema se
la storia rientrasse nell'ambito dell'arte o in quello della scienza, e si
risolve arte e scienza. con la tesi che la storia non si identificasse
senz'altro con l'arte, ma fosse riducibile sotto il concetto generale
dell'arte, come suona il titolo della Memoria. Occorre dunque innanzi tutto
precisare i caratteri che differenziano l'arte dalla scienza. E in questa
precisazione si conclude che la scienza è elaborazione della realtà in forma
concettuale, per cui il particolare è inteso in quanto riportato
all'universale; l'arte invece è elaborazione della realtà in forma
rappresentativa, è conoscenza immediata o intuitiva dell'individuale. Vero è
che Croce, all'inizio della sua Memoria, esaminando le varie definizioni
dell'arte date dagli studiosi, ritiene come sola definizione accettabile quella
che gH storici dell'Estetica attribuiscono ad Hegel, secondo la quale l'arte è
manifestazione sensibile o ESPRESSIONE di qualcosa che per Hegel è l'idea.
Sembra che con ciò Croce enunci un concetto dell'arte, nuovo rispetto a quello
dell'arte come conoscenza dell'individuale. Ma in effetti Croce non dà al
concetto d’ESPRESSIONE alcun rilievo particolare in questo senso, e in ogni
caso non sarebbe pertinente al problema ch'egH discute, concernente la natura
artistica della storia: per questo problema il concetto di arte-espressione è
irrilevante, mentre s’accentua a questo scopo il concetto di arte come
conoscenza rappresentativa, non concettuale. La storia come Da quauto SÌ è
detto sui caratteri differenziali tra scienza e arte, risulta che la storia non
è scienza, appunto perchè non elabora concetti, ma espone fatti nella loro
concretezza individuale. Vero è che da varie parti si è tentato di considerare
la storia come elaborazione di concetti. Da parte del positivismo la storia è
presentata come scienza dello svolgimento degli uomini nella loro attività di
esseri sociali, identificandola colla sociologia, che convertiva l'idea della
vita storica nella monotona ripetizione di alcuni schemi poHtici, sociali e
variamente istituzionah, e nell'azione di alcune leggi generali, e con tale
conversione si menava vanto d' innalzare 1'ingenua storia degli storici a
scienza positiva e naturale. E d'altra parte, arte La storia come arte e come
scienza nel tempo stesso il positivismo abbassava l'arte a piacere dei sensi,
piacere di associazioni psichiche, piacere di abitudini e disposizioni
ereditarie non diverso da quello dell'utile e non mancavano coloro che la
riportano addirittura all'istinto sessuale o alla preistoria animalesca e la
descriveno come una sorta di Hbidine affinata e svaporata. Contro tali
deformazioni del concetto di storia, miranti Polemiche canai caratterizzare la
storia come scienza o elaborazione con^^0 le pseudostorte. cettuale, Croce
assume un atteggiamento risolutamente polemico. Per quel che riguarda il
positivismo, come contro il sensismo che considera l'arte torbida e oscura
vibrazione del piacere e dell'utile, Croce riafferma che l'arte è conoscenza,
così contro il sociologismo afferma che la storia non è conoscenza di ritmi
generali della vita sociale, ma è, al pari dell'arte, conoscenza di fatti
individuah; e agli evoluzionisti osserva che la storia non è scienza dello
svolgimento, non determina che cosa lo svolgimento è (compito, questo, della
filosofia indagatrice dei concetti che sono i principii dell'essere); la storia
espone i fatti dello svolgimento umano. E con argomenti analoghi critica la
filosofia della storia. Che la realtà storica sia attingibile all'esperienza e
sia specificamente realtà umana, è concetto che si collega a un ordine di
considerazioni con cui Croce fa un nuovo passo avanti sulla questione della
natura della storia. Si, la storia s'è visto è riducibile sotto il concetto
generale dell'arte, in quanto questa è conoscenza rappresentativa della realtà,
intuizione immediata e irriflessa dell'individuale nella sua concretezza. Ma
non per questo la storia s'identifica con l'arte: entro l'ambito della
produzione estetica la storia occupa un suo posto speciale che si tratta di
definire. La storia, rispetto alle altre produzioni dell'arte, si occupa non di
ciò ch'è possibile, ma di ciò ch'è realmente accaduto. E sta al complesso della
produzione dell'arte come la parte al tutto; Ora, nel senso corrente della
parola, si chiama arte solo quell'attività, ch'è diretta a rappresentare il
possibile (piìi propriamente l'arte in senso stretto è indifferente alla
distinzione tra possibile e reale. In fondo, anche la rappresentazione del
realmente accaduto la storia è processo essenzialmente artistico ed offre
interesse simile a quello dell'arte. Costruire la Prima Condizione per avere
una storia vera (e insieme narrazione. opera d'arte) è secondo Croce che sia
possibile costruire una narrazione, cioè appurare la materia da esporre con
lavori preparatore di ricerca critica e interpretazione dei documenti, i quali
tuttavia solo di rado consentono una narrazione completa, ostacolata dal
sorgere continuo di dubbi e riserve e discussioni. Ma a questo punto il
problema della natura della storia cambia radicalmente d'aspetto e presenta
gravi difficoltà: è conciliabile l'antico concetto di storia-arte col nuovo di
storia-narrazione? Si può ancora mantenere la tesi che la storia sia
rappresentazione immediata e irriflessa e intuitiva, escludente qualsiasi
elaborazione concettuale, quando si afferma che la storia-narrazione ha il
compito di ridurre i fatti alle loro cause, e questo compito implica un
complesso e faticoso lavoro di preparazione che, per giunta, solo di rado porta
allo scopo? Non occorre forse rinunziare a quella che era la tesi fondamentale
della Memoria, che la storia dovendo essere ricondotta sotto il concetto
dell'arte, resta esclusa dall'ambito della Scienza? Questi interrogativi si
fanno sempre piìi assillanti, via via che procediamo nell'esame di
considerazioni espHcative che Croce fa negli scrittarelli da lui pubblicati nei
due anni successivi, e particolarmente in quelli sulla filosofia della storia e
in quelli sulla classificazione dello scibile: considerazioni le quali, pur con
oscillazioni derivanti dall'attaccamento alla vecchia tesi della storia-arte,
accentuano il carattere scientifico del concetto di storia-narrazione.
Distinzione tra Del resto è Opportuno sottolineare Croce stesso possibile e
reale. ^Iq^^ìì anni dopo, quando aveva già percorso un lungo itinerario
speculativo fino al punto di giungere alla sua tesi La storia come arte e come
scienza fondamentale dell’identità della storia colla filosofia quale scienza
dei concetti puri, raccogliendo in saggi gli scritti sopra esaminati, scrive
nella prefazione ad esso, che quando compone quegli scritti, non scorge il
problema che la concezione della storia come rappresentazione estetica del
reale, gli pone innanzi: ossia, che una rappresentazione, nella quale il reale
è dialetticamente distinto dal possibile, è più che semplice rappresentazione
ed estetica intuizione, e s’attua proprio per virtù del concetto,
filosoficamente inteso come unità d’universale e individuale. Il problema della
storia negli studi marxistici. Dal travaglio di pensiero che s’esprime negli
scritti crociani afiìora sempre più chiaro il convincimento che la storia, pur
rimanendo saldata all'arte nelle sue radici, in quanto conoscenza
rappresentativa, a-concettuale del reale nella sua concreta individualità,
implichi altresì in quanto narrazione di fatti realmente accaduti
un'elaborazione dei dati pella quale i fatti siano ricondotti alle loro cause,
in una concezione generale della natura dell'uomo autore della storia tanto
come individuo quanto come essere sociale: e in questa elaborazione la storia
s’accosta alla scienza. Siffatto convincimento, che negli scritti sopra
accennati volti alla dimostrazione della riducibilità della storia sotto il
concetto generale dell'arte appare vacillante e marginale, si consolida e si
pone al centro della riflessione speculativa di Croce, quando, attraverso i
suoi rapporti con LABRIOLA, gli si venne scoprendo un mondo nuovo, a lui fino
allora del tutto ignoto, raffigurato nella dottrina marxistica del materialismo
storico, di cui LABRIOLA si rivela autorevolissimo interprete in saggi
pubblicati a cura dello stesso Croce. Intanto io scrive Croce molti anni più
tardi, Lo studio d’infiammato dalla lettura delle pagine di LABRIOLA, preso dal
sentimento d’una rivelazione che s’apre al mio spirito Marx. ansioso, mi
cacciai tutto nello studio di Marx e degl’economisti e dei comunisti moderni e
antichi, studio che dovevo proseguire intensamente, per oltre due anni -
Materialismo storico ed economia marxistica, Bari, Appendice. Frutto di questo
studio fu una serie di saggi, raccolti nel volume dal titolo Materialismo
storico ed economia marxistica. Ed è opportuno sottolineare subito il punto di
vista dal quale per esplicita dichiarazione egli si propone d’esaminare la
dottrina marxistica: questa gl’importa soprattutto al fine di quel che se ne
potesse o no trarre per concepire in modo piti vivo e pieno la filosofia e
intendere meglio la storia -- Appendice; il che significa che,
nell'interpretazione del marxismo, nello sforzo di liberarne il nocciolo sano
dalle sovrapposizioni accidentali introdottevi dallo stesso autore e dalle
incaute deduzioni della scuola, erano presenti al Croce gli stessi problemi
attorno a cui egli si travaglia fin dal periodo precedente, e cioè la natura
gnoseologica della storia e la determinazione del posto che essa occupa nel
quadro generale della vita spirituale, che è compito della filosofia delineare.
Era un allargamento d'orizzonte e un arricchimento di materiale idoneo
all'avviamento a soluzione, ma in una continuità di problematica. Il
materialismo storico presenta due aspetti, che Croce nettamente distingue pur
riconoscendo che nella dottrina sono strettamente connessi. Il materialismo Per
un lato, esso vuol essere una teoria scientifica, che storico. mette in luce la
struttura del divenire storico. Sostrato della storia è l'economia, cioè quel
sistema nei rapporti tra l'uomo e le cose della natura e tra l'uomo e l'uomo,
che si concreta nel LAVORO – GRICE ONTOLOGICAL MARXISM --, produttivo per un
lato di beni materiali, il cui valore, s'identifica e si commisura colla
quantità di lavoro necessario a produrli, e pell'altro lato di socialità e
divisione di classi in un giuoco d'interessi contrastanti. Di questa Il
problema della storia negli studi marxistici struttura reale della storia sono
eco o riflesso (sovrastrutture) quelle manifestazioni della vita umana che si
chiamano moralità e religione, diritto e politica, arte e scienza o filosofia,
sistemi d'idee (ideologie) attraverso i quaU l'uomo acquista coscienza del suo
proprio essere economico e del divenire d’esso nella storia. Pell'altro lato,
il materialismo storico è un programma Il programma pratico-politico, che,
appoggiandosi sulla previsione dell'avP^^o'^^arx. venire umano resa possibile
dalla teoria, assegna all'azione degll’uomini una direttiva rivoluzionaria,
tendente cioè non più a comprendere ma a cangiare la realtà storica, verso uno
sbocco finale nel quale il dramma della storia abbia il suo scioglimento
(rivoluzione comunista). La necessità immanente al divenire storico porta,
nell'età moderna, alla strutturazione della società sulla base dell'economia
capitalistica, caratterizzata dalla formazione di due classi in reciproca lotta
radicale: l'una è quella dei detentori di tutti gli strumenti di produzione,
minoranza privilegiata sempre pili ristretta, classe dominante; l'altra è la
massa di coloro, che, per vivere, dispongono soltanto del lavoro delle proprie
braccia che, in regime di sfrenata concorrenza, essi sono costretti a vendere
ai dominatori a condizioni sempre più esose. La ripartizione della ricchezza
prodotta si traduce in un sistema d’implacabile sfruttamento dei lavoratori da
parte dei datori di lavoro. Quando lo sfruttamento avrà raggiunto il suo
culmine, non potrà non determinarsi l'insorgere degli sfruttati contro gli
sfruttatori, non potrà non determinarsi l'urto violento fra le due classi, la
rivoluzione che spezzerà l'involucro capitalistico e porta all'espropriazione
degl’espropriatori. I capitalisti abbandoneranno allora alle masse gli
strumenti di produzione di cui si sono impossessati. Lo stato italiano diventa
così l'unico imprenditore e datore di lavoro. E coll'abolizione della proprietà
privata cessa anche la divisione della società in classi. A conclusione delle
lunghe ricerche e meditazioni su questo mondo di pensiero rivelatogli da
LABRIOLA, Croce L. storia della filosofia. ima espresse sul materialismo
storico il suo giudizio che ulteriormente sarà sviluppato e articolato, ma non
mutato nella sua sostanza in due saggi, uno intitolato Sulla forma scientifica
del materialismo storico, e l'altro intitolato Pell’interpretazione e la
critica d’alcuni concetti del marxismo, nel voi. cit. Materialismo storico.
Critica del conE innanzitutto affronta la tesi che è al centro della dottrina,
secondo la quale sostrato o struttura sottostante della Storia, sorreggente
tutto il resto e principio di spiegazione, è l'Economia. In questa tesi egli
rileva un'ambiguità fondamentale. Per un verso l'Economia è presentata come una
entità trascendente la storia, materia, in quanto negazione della spiritualità
o coscienza umana, dea ascosa della storia, quella che tira i fili dei
personaggi e delle loro azioni, con un disegno preordinato, implicante uno
stadio terminale e apocahttico, che segna il passaggio fatale dalla servitù al
regno della libertà; forma o nome nuovo dell'antico Dio dei teologi o
dell'Assoluto e dell'Idea dei metafisici. Ne deriva la conseguenza deUa
tendenza metodologica a costruire la storia secondo leggi a priori, mettendo a
tacere la voce genuina dei fatti; ne deriva altresì una scissione, nella vita
storica, tra realtà e apparenza, noumeno e fenomeno, tra essere originario
materiale non determinato dalla coscienza e coscienza determinata dell'essere,
tra struttura economica e soprastrutture ideologiche. Per l'altro verso: il
materialismo storico è una prospettiva di umanizzazione dell'economia, in
quanto questa non è che un momento o aspetto dell'operosità umana, unica
autrice della storia, inserita quindi in un processo immanente a un processo di
vita cosciente o spirituale, che la salda a tutte le altre manifestazioni
egualmente originarie, della coscienza. La dialettica dell'economia non è
l'astratta dialettica dell'Idea, ma la dialettica dei bisogni ossia
dell'effettiva operosità umana, quale si concreta e si svolge non in forme
meccanicamente preordinate e prevedibili a priori, ma in fatti empiricamente
accertabili; la storia è concepita come Il problema della storia negli studi
marxistici un unico tutto, in cui è indistinguibile il nocciolo dalla
corteccia; lo spirito, creatore della propria storia, non è lo spirito
economico, cioè in una forma particolare e astratta, ma è lo spirito nella sua
reale unità e totalità; si scioglie quindi il nesso arbitrario fra storia e
problema socialista e in genere economico, e si annoda quello tra storia e
vita, concependosi la vita nella totalità delle sue forme, a ogni momento
nuova, e perciò anche come economia, ma non solo come economia. Questi due
ordini di motivi sono frammisti e confusi. Filosofia delia cosi
nell'esposizione dei due fondatori della dottrina Marx ^smrcHHcoT^' e Engels
come nei seguaci della scuola. Per Croce si tratta di due orientamenti opposti,
termini d'un'alternativa che impone una scelta: o la via vecchia delle
filosofìe della storia, teologiche o metafìsiche che siano, o la via nuova d'un
umanismo critico e realistico. Abbiamo veduto che Croce, anche prima di prender
contatto col marxismo, aveva preso un atteggiamento di netta opposizione ad
ogni forma di filosofìa della storia; si comprende quindi come, di fronte al
materialismo storico, egli ribadisca il concetto che la reazione filosofica
dello spirito critico ha colpito a morte e gettato a teiTa quelle costruzioni
della storia, fantasiose e arbitrarie e anche tendenziose; e affermi
risolutamente, per far valere quegli elementi in esso contenuti che
costituiscono un contributo positivo e fecondo al rinnovamento della
storiografìa e della filosofìa, che il materialismo storico non è una filosofìa
della storia -- Materialismo storico ; e per la distinzione dei due opposti
orientamenti del materialismo, l'opera di Croce, Storia della storiografia
italiana, Bari, Laterza. Per quali ragioni il materialismo storico non ha
validità come filosofìa della storia? E per quali ragioni gli autori e
gl’interpreti d’esso gl’hanno dato questo orientamento fallace? Alla prima
domanda Croce risponde: la possibilità d'una filosofìa della storia presuppone
la possibilità d’una risoluzione concettuale del corso della storia, ossia, di
ritrovare il concetto al quale si riducono i complessi fatti storici, di
scoprire in una parola la legge della storia. Ora mentre è possibile ridurre
concettualmente gl’elementi di realtà che appaiono nella storia (moralità,
diritto, economia, arte, scienza) e anche le loro relazioni reciproche, non è
possibile elaborare concettualmente il complesso individuato di questi
elementi, ossia il fatto concreto, che è il corso storico Materialismo storico.
La società è un dato scrive LABRIOLA, e CROCE vi aderisce, e la storia non è
che storia della società. Il materialismo storico non è una teoria rigorosa. Li
conclusione, per Croce nel materialismo storico non bisogna cercare una teoria
da prendere in senso rigoroso e anzi esso non è punto quel che si dice
propriamente una teoria. Il che non significa disconoscimento del valore delle
feconde scoperte che sono dovute al materialismo storico per intendere la vita
e la storia, l'affermazione della reciproca dipendenza di tutte le parti della
vita, e della genesi d’esse dal sottosuolo economico: sicché è accettabile
l'affermazione d’'Engels che le condizioni economiche formano il filo rosso che
attraversa tutta la storia e ne guida l'intendimento. Rispetto alla
storiografia, il materialismo storico si risolve in un ammonimento a tener
presenti le osservazioni fatte da esso come nuovo sussidio a intendere la
storia, fornisce allo storico un buon paio di occhiali, che permette al miope
di vedere ben altrimenti e di dare contorni precisi a tante ombre incerte; ma
sono formule non assolute, che sottintendono sempre un presso a poco e un
all'incirca. Esso sorge dal bisogno di rendersi conto d’una determinata
configurazione sociale, quella scaturita dalla Rivoluzione francese, non già
dal proposito di ricercare i fattori della vita storica in generale, e si formò
nella testa di politici e di rivoluzionari e non già di freddi e compassati
scienziati di biblioteca. Per Croce, Marx era personalità di uomo pratico e
rivoluzionario, impaziente di ricerche schiettamente storiche, preoccupato
soprattutto di cercare nelle anahsi della società ti co. Il problema della
storia negli studi marxistici attuale capitalistica le premesse per una società
futura comunistica da realizzare con un'azione rivoluzionaria, a cui una
teleologia storica, determinata a priori, assicurasse con una infallibile
previsione dell'avvenire il pieno successo. Per lui tra la comprensione della
realtà storica e l'azione Prevalere deivolta, a cangiare questa realtà v'è
connessione, ma non «'•'^sse pf^nel senso che l'una costituisca il prius che
condiziona l'altra, bensì nel senso che sia l'azione a crearsi quella forma di
comprensione che si presti a fungere da strumento per lo scopo che essa
persegue. Un tal predominio dell'interesse pratico-politico su quello
teorico-scientifico Croce rileva anche in LABRIOLA, che pure, nella sua
interpretazione del marxismo, da un riUevo all'aspetto umanistico d’esso, tale
che alla sua posizione s’era inizialmente appoggiato Croce nella sua critica
del marxismo quale filosofìa della storia. Egli, che pure ha così alto il rispetto
della storia ed è così cauto di fronte ai fatti concreti, rimane impigliato
nelle formule teoriche del materialismo storico, non riesce a liberarsi del
tutto dal fardello delle teorie metafìsiche. In lui, che pure era uomo di
scienza, predomina la fede nell'immancabile avvento del comunismo, e questa
fede era sostenuta e illuminata dalla Weltanschauung metafìsica del
materialismo storico, ultima e definitiva filosofìa della storia. Sicché per
lui la posizione di Croce che, preso da tenace passione scientifica, accetta,
sia pure con limitazioni e riserve, 1'economismo marxistico, ma rifiuta
recisamente il socialismo significa rinuncia ad intendere sia l'uno che l'altro
dei due termini; era posizione d' intellettuale indifferente alle lotte della
vita, d’epicureo contemplante amatore solo dei dibattiti delle idee nei Hbri.
Contro una tale connessione o anzi identificazione, operata da LABRIOLA, tra
interpretazione materialistica della storia e sociaHsmo, Croce scrive:
Spogliato il materialismo storico di ogni sopravvivenza di finalità e di
disegni provvidenziali, esso non può dare appoggio né al socialismo né a
qualsiasi altro indirizzo pratico della vita. Solamente nelle sue
determinazioni storiche particolari, nell’osservazione che per mezzo d’esso
sarà possibile fare, si potrà eventualmente trovare un legame tra materiahsmo
storico e socialismo. L'osservazione sarà, per esempio, la seguente: la società
è ora così conformata che la più adatta soluzione, che contiene in sé, è il
socialismo. Osservazione la quale, per altro, non potrà diventare azione e
fatto senza una serie di complementi, che sono motivi d’interesse economico non
meno che etici e sentimentali, giudizi morali ed entusiasmi di fede. Per sé
stessa, è fredda e impotente. Il rapporto tra È qui adombrato il problema del
rapporto tra conoscere conoscere e agi^ agire, che sarà d'ora innanzi
costantemente presente alla speculazione crociana e avrà la sua più articolata
e ragionata formulazione nell'opera che porta appunto il titolo di La storia
come pensiero e come azione. La critica crociana del materialismo storico quale
teoria dell'interpretazione della storia ha mirato finora a liberare quella
dottrina d’ogni concetto aprioristico sia che si trattasse d’eredità hegeliana,
sia che si tratta di contagio di volgare evoluzionismo, sia che fosse richiesto
dalla preoccupazione di dare fondamento saldo alle previsioni dell'avvenire
contenute nel programma d'azione pratico politico proprio del socialismo.
Compiuta quest'opera negativa, si ripropone la questione da cui essa ha preso
le mosse: si salva dalla critica qualcosa per cui il materialismo storico possa
essere utilizzato dalla storiografia? Che cosa può farsi di esso per un
compiuto intendimento della storia? E si risponde: il materiahsmo storico è accettabile
solo come canone d'interpretazione storica, che consiglia di rivolgere
l'attenzione al cosiddetto sostrato economico delle società, per intendere
meglio le loro configurazioni e vicende: canone che non importa nessuna
anticipazione di risultati, ma solamente un aiuto a cercarli, e che é di uso
affatto em.pirico. Il materialismo storico non può essere che questo: una somma
di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico.
Il problema della storia negli studi marxistici In questa formula crociana
perchè se ne intenda il significato e la portata è da sottolineare il rilievo
che in essa è dato al carattere d'interiorità, alla coscienza dello storico,
del nuovo canone d'interpretazione. Non si tratta d’accrescimento quantitativo
del materiale elaborato dallo storico, di aggiunta di fatti nuovi a quelli già
considerati dall'antica storiografia nella loro esteriorità, e presunta
oggettività; si tratta invece di dare alla coscienza storiografica una
dimensione nuova, di arricchire con nuovi elementi l'interesse vivo dello
storico, per penetrare nel passato, e comprenderlo in una sempre più articolata
connessione dei fatti; opera quindi della mente dello storico. Ecco in che
senso Croce ha utihzzato il materialismo 11 posto dei penstorico ai fini della
soluzione dei problemi su cui la sua spe^o logico nei \ la storiografia.
culazione si travagliava anche prima di entrare a contatto con la nuova
dottrina. Ricordiamo che questi problemi si accentravano nello sforzo di
determinare la natura della storia e la sua riducibilità sotto il concetto
dell'arte. In questo sforzo si affermava sempre più chiara l'esigenza
d'integrare e conciliare, nella storia, con l'elaborazione intuitiva dei fatti
per la quale s'identifica con l'arte, un'elaborazione concettuale che la
ravvicina alla scienza. Ora l'esame critico del materialismo storico, che
scopriva nell'economismo della vita sociale un nuovo canone d'interpretazione
storica, rafforza la convinzione della necessità d’avvicinare la storia aUa scienza.
Il nuovo canone d'interpretazione, per un lato, apre un campo di nuove
esperienze, che sono interne alla coscienza dello storico, e quindi non hanno
consistenza che nell'attività spirituale esercitata dallo storico sui dati
grezzi, attività per la quale dalla materialità dei frammenti di realtà storica
offerta dai documenti nascono a poco a poco intuizioni di persone e situazioni
e avvenimenti sempre meglio definite, affini alle forme create dalla fantasia
dell'artista; ma, per l'altro verso, impone una connessione mentale dei fatti,
costituita dai rapporti concettuali che la scienza economica fissa nella
valore. realtà storica. E il socialismo marxistico ha la pretesa di essere
socialismo scientifico appunto perchè fondato sulle leggi dell'economia quale
scienza rigorosa. Valore e plus Ma era veramente giustificata la pretesa
dell'economia marxistica di essere assunta alla dignità di scienza autonoma? Ed
erano validi i concetti di VALORE e plus-valore – H. P. Grice, The conception
of mehrwert --, posti al centro dell'economia marxistica, come pernio della
teoria cosi del materialismo storico come della ideologia socialistica? È
questo il nuovo campo nel quale s’esercitò largamente la critica crociana della
dottrina di Marx. La critica del materialismo storico come teoria paneconomica
della storia si conclude con l'affermazione che essa non è affatto teoria, ma
in sostanza corollario d'un programma pratico-politico, il programma del
socialismo, e ai fini della storiografia non poteva essere utilizzato che come
un nuovo canone d'interpretazione dei fatti storici. Analogamente, l'economia
marxistica, che pretende essere la trattazione eminentemente scientifica dei
fatti economici e della nozione di VALORE INERENTE ai beni prodotti da una
società, non è affatto scienza economica, perchè non abbraccia tutta la regione
dell'attività economica quale si svolge in qualunque forma reale o possibile di
convivenza sociale né si eleva a un concetto di valore applicabile a tutti i
beni comunque prodotti. Essa costruisce astrattamente una società ipotetica,
che assume come società tipo, alla quale devono essere conguagliate altre forme
di società per coglierne i fattori anomali, in quanto divergenti dalla prima: e
questa società tipica è quella costituita esclusivamente di lavoratori, è
questa società proletaria, che rappresenta il termine ideale del programma
politico del socialismo. È l'intrusione di queste preoccupazioni
sociali-pohtiche nel campo economico ciò che vizia i concetti fondamentali di
esso valore e sopravalore MEHRWERT, e impone di contrapporre all'economia
marxistica un'economia pura, ossia un'economia come scienza generale. La tesi
centrale dell'economia marxistica è l'eguaglianza del valore dei beni che si
producono alla quantità del lavoro // problema della storia negli studi
marxistici necessario per produrli: ma essa ha il suo fondamento appunto
nell'ipotesi di una società fatta esclusivamente di lavoratori e
nell'assunzione di questa società a società tipica (e quindi del valore-lavoro
come misura di ogni valore). Ma nella realtà (ad es., nell'attuale società
capitalistica) i lavoratori rappresentano solo una frazione della società
produttiva che agisce tra altre categorie economiche, quelle appunto che
apportano alla produzione non il lavoro ma il capitale. Da queste
considerazioni, tuttavia, non risulta, secondo n valore-lavoro. Croce, che la
concezione marxistica manchi affatto di rispondenza ai fatti: la determinazione
del valore-lavoro avrà una certa rispondenza nei fatti, sempre che esisterà una
società che produca beni per mezzo del lavoro. E la storia ci mostra finora
soltanto società di tal fatta, e quindi l'eguaglianza affermata da Marx del
valore col lavoro è un fatto: ma, sottolinea Croce, è un fatto, che vive tra
altri fatti, ossia un fatto che empiricamente ci appare contrastato, sminuito,
svisato da altri fatti, quasi una forza tra le forze, la quale dia risultante
diversa da quella che darebbe se le altre forze cessassero di operare. Non è un
fatto dominante assoluto, ma non è nemmeno un fatto inesistente e semplicemente
immaginario. La critica di Croce all'economia marxistica si riassume in queste
due proposizioni, che essa non è la scienza economica generale, e che il
valore-lavoro non è il concetto generale di valore. Onde la conclusione che,
accanto alla ricerca marxistica può, anzi deve vivere e prosperare una scienza
economica generale, una economJa pura, che deduca il concetto di valore da
principii affatto diversi e più comprensivi di quelli particolari di Marx. E
ritiene che questa esigenza sia soddisfatta dalla scuola edonistica o
austriaca, allora fiorente, la quale, muovendo dalla natura economica
dell'uomo, ne deduce il concetto di utilità («ofelimità» del Pareto – OTTIMO --
GRICE), «e man mano tutte le leggi secondo le quali si governa l'uomo in quanto
astratto homo oeconomicus. r homo oeconomicus. Critiche all'eco Sembra dunque
che l'obiettivo cui mira Croce nella nomia pura. g^g^ critica dell'economia
marxistica sia la difesa della scienza economica pura quale la scuola edonistica
la veniva costruendo. Ma in essa era operante un motivo profondo, che nel corso
dei suoi studi marxistici emerge sempre più chiaro e netto, essenziale al
pensiero crociano, e valido in esso anche al di là dell'obiettivo della
costruzione della scienza economica. Questo motivo viene esplicitamente
enunciato in uno scritto in cui la sua adesione all'economia pura è limitata e
corretta con qualche riserva e cautela. Io credo egli scrive che ci sia ancora
d’elaborare filosoficamente il concetto di valore, e che bisogni percorrere
fino al fondo quella strada, che gl’economisti puri hanno percorso solo fino a
un certo punto. L'attività delElaborazione filosofica del concetto di valore
economico, ecco la nuova istanza posta da Croce; che significa esaminare quell'umana
attività che tende al conseguimento col minimo mezzo e il massimo risultato di
scopi individuali, non pili astratta considerazione àe l’homo œconomicus, ma
come inserita nella concreta totalità della vita dell'uomo, con un suo posto
specifico e una sua funzione ben definita rispetto alle altre attività
dell'uomo, con un suo principio autonomo, che potesse essere assunto come
fondamento e premessa della scienza economica pura. Risalire dalla scienza alla
filosofia per ridiscendere deduttivamente dalle conclusioni di questa a una
rinnovata e piìi salda costruzione di quella, significa poiTe in questione e
problematizzare quelle che pegl’economisti sono le premesse o i postulati dei
loro procedimenti. Quali sono queste premesse che gl’economisti accoglieno come
pacifiche, e che invece a un ulteriore esame, l’elaborazione filosofica,
risultano ambigue o false? Croce, che vede in Pareto un rappresentante tipico
dell'economia pura, gli prospetta in due lettere la questione, sforzandosi di
convincerlo della necessità del passaggio dalla pura scienza alla filosofia del
principio economico. Tre sono le erronee premesse del problema della storia
negli studi marxistici l'economia pura, ch'egli critica: quelle che riguardano
il fatto economico o come meccanico, o come edonistico, o come egoistico – H.
P. GRICE CONVERSATIONAL SELF-LOVE CONVERSATIONAL BENEVOLENCE – CONVERSATIONAL
HELPFULNESS. Per Croce, il principio economico non può avere natura meccanica.
Il fatto meccanico è un fatto bruto. Il fatto economico è un fatto di
valutazione – H. P. GRICE THE CONCEPTION OF VALUE --, è una scelta suscettibile
d’approvazione o disapprovazione, a seconda che la scelta cada o no su ciò che
è realmente conveniente a chi la compie. Quanto alla concezione edonistica –
GRICE DESIRABILITY GRICE KANTIAN HAPPINESS --, è fuori dubbio che ogni atto di
scelta economica ha come suo concomitante un fatto di sentimento piacevole se
la scelta è economicamente ben condotta. L’UTILE – GRICE MORALITY CASHES ON
DESIRE DUTY AND INTEREST -- è, insieme, piacevole. Ma non è vera la reciproca:
il piacevole non è l'utile -- che è la tesi dell'edonismo. Il piacere può
apparire scompagnato dall'attività umana o accompagnarsi a una forma d’umana
attività che non sia l'economica. Infine la concezione egoistica del fatto
economico è inficiata da questo errore: mentre pretende distinguere,
nell'ambito dell'attività pratica umana, l'economico dal morale (che sarebbe
qualificato come altruismo), in realtà assorbe il primo nel secondo, perchè la
qualifica d’egoistico attribuita a un atto è una qualifica di valutazione
morale, qualifica negativa, immoralità, pervertimento della stessa attività
morale. Il fatto economico non sta col fatto morale in antitesi, bensì è nel
rapporto pacifico di condizione a condizionato; come cioè la condizione
generale che rende possibile il sorgere dell'attività etica. Tanto il morale
quanto l'immorale sono azioni economiche: il che vuol dire che l'azione
economica, per sé presa, non è né morale né immorale: è amorale o pre-morale –
GRICE ON PRE-RATIONAL. E in conclusione, Croce dà del fatto economico questa
L'economìa in definizione: esso è l'attività pratica dell'uomo in quanto
'l'fZm'^ie si consideri per sé, indipendentemente d’ogni determinazione morale
o immorale. E pertanto il concetto d’utile o di valore o di ofelimo OTTIMO –
GRICE OPTIMALITY -- non è altro se non l'azione economica stessa in quanto ben
condotta, cioè in quanto è veramente economica. Riallacciare a queste
proposizioni generali le varie questioni che si dicono di scienza economica è
compito degl’economisti. Quella definizione FILOSOFICA del fatto economico,
dice Croce, a me piace vederla a capo dei trattati d’economia. Ma Croce non
dove tardare ad accorgersi che la sua era un'illusione. Già egli stesso non
scorge e non mostra per quali vie potessero essere derivate da quel concetto
filosofico l’operazioni di comparazione e calcolo delle diverse scelte
economiche e quali vantaggi ne derivassero alla scienza. Ed era naturale che
gl’economisti non accogliessero l'invito di Croce a riallacciare le questioni
di cui essi s’occupano alle proposizioni generali alle quali egli era
pervenuto: alla scienza non interessa la determinazione della natura filosofica
del fatto economico. Suo compito esclusivo è quello di trattare i fatti
dell'attività umana come fenomeni in nulla differenti da quelli fisici,
sottoporli cioè a comparazione e astrazione, per stabilirne e calcolarne
l’uniformità e le divergenze. La scienza economica era e intende rimanere per
poter progredire una scienza naturalistico-matematica, rinserrandosi nei
fenomeni e volgendo le spalle all'indagine filosofica dell'atto economico. E
qualche anno più tardi, Pareto dove illustrare e attuare questo proposito nel
suo manuale d’economia politica. D'altra parte, Croce stesso, affrontando nel
frattempo il problema logico, giunge alla conclusione della radicale
eterogeneità tra conoscenza o pseudo-conoscenza scientifica e la conoscenza
filosofica: poteva quindi abbandonare la scienza al suo destino, che la
condanna al procedimento empirico e astratto del naturalismo matematico, e
volgere la propria riflessione alla filosofia dell'economia come indagine
sull'atto economico, nelle sue relazioni cogl’altri atti spirituali, inserita
in una generale filosofia dello spirito. Uutiie. Alla fine dei suoi studi
economici, chiariti gl’equivoci che sono al fondo del suo dibattito
cogl’economisti puri, rimane fermo nel pensiero di Croce il risultato di cui
mena vanto: l'ufficio essenziale, nella // problema della storia negli studi
marxistici vita dello spirito, dell'utilità o dell’economicità, messe in luce
come non era stato fatto d’altri. L'utile è stato reputato iìnora dai filosofi
o un atto secondario e misto, o un semplice caso di deviazione dalla morale:
l’egoismo. Esso è invece, a mio parere, un momento distinto e autonomo della
vita dello spirito: il momento in cui la volontà è volontà, senza essersi
ancora determinata e dialettizzata in morale e immorale. La critica deve
consistere nel dimostrare che, affermandosi essere ogni azione dell'uomo
dominata dal criterio dell'utile, s’afferma cosa ir\dubitabile; ma che ciò non
toglie punto che essa debba essere, e sia insieme, determinata anche dal
criterio del dovere, il quale è sempre (e come potrebbe non essere?)
dovere-utile. Di questa, che è stata detta scoperta crociana dell'utile, Croce
si sente in gran parte debitore al marxismo, che vede nell'economia il sostrato
e la molla della storia. E se Croce incentra la definizione dell'utile nel
rapporto di questo colla morale, anche di questa impostazione egli cerca
traccia in Marx. Questi dichiara che la questione sociale non è questione
morale, e critica acerbamente quelle ideologie morali che ipocritamente
mascherano interessi di classe. Ma intende con questo sostenere che la
questione sociale non si risolve coi sermoni d’un astratto moralismo, che
s'illude di poter sanare i mali di cui una società soffre, senza tener conto
delle particolari situazioni storiche nelle quali è la radice di quei mah, e
alle quah devono essere commisurati i programmi d'azione morale perchè questa
possa avere efficacia risanatrice. In questo senso la morale è corrispettiva
alle condizioni sociali e in ultima anahsi alle condizioni economiche. Ma con
ciò, la questione del pregio intrinseco e assoluto dell'ideale morale, della
sua riducibihtà o irriducibilità alla verità intellettuale o al bisogno
utihtario, rimane intatta pel marxismo, il quale anzi, di fatto, considera
l'ideale morale come un presupposto necessario, come dimostra la costruzione
del concetto di SOPRA-VALORE – GRICE THE CONCEPTION OF MEHRWERT --, che in pura
economia non ha senso, ma è ispirato d’un interesse schiettamente morale.
L’asserzioni marxistiche che paiono negazione della modeiie condanne, j-g^jg^
hanno per Croce ben altro significato. Quella che Marx chiama impotenza della
morale sta a significare la vanità pratica delle condanne o delle
commiserazioni per uomini, che, dominatori o dominati, sono gl’uni e gl’altri
schiavi di situazioni storiche necessarie pel momento, e non potrebbero essere
diversi da quel che sono, né potrebbero compiere se non l'ufficio ad essi
assegnato dalla natura stessa delle cose. Ma le situazioni che la storia crea,
possono anzi debbono dalla storia essere disfatte. Per queste considerazioni, a
giudizio di Croce, Marx, pur colle sue proposizioni approssimative e
paradossali, insegna a penetrare in ciò che la società è nella sua realtà
effettuale, e potrebbe esser chiamato, a titolo d'onore, il Machiavelli del
proletariato – GRICE ONTOLOGICAL MARXISM. In questa sua fase di studi
marxistici, Croce amplia via via e varia il significato dell'utile o economico,
la cui scoperta egU riconduce alla potente suggestione di Marx (non appare
ancora nei suoi scritti quella definizione dell'utile come volizione
dell'individuale con cui poi caratterizza il grado economico della forma
pratica dell'attività spirituale). Che l'economicità o utilità fosse intesa
come una categoria autonoma d’aggiungere a quelle costituenti la triade
tradizionale di bello, vero, buono, sì che la triade s’allarghi in una tetrade;
o che essa fosse intesa come ciò che vi è di primario in ogni attività umana,
come la base comune di tutte l’attività, il primum della vita, non nel senso di
primo della serie delle quattro forme, ma appunto di primordiale indifferenziato
che emerge nelle forme e le connette tra loro, sì che l'economia finisca
coll'identificarsi umazione pucon 1'azione pura, principio di qualsiasi atto
spirituale e la forza, vuoto di ogni contenuto determinato; o che, infine,
l'economico o utile – GRICE FUTILITARIAN -- fosse identificato colla forza o
vigore del volere, come abilità calcolatrice e lucida tensione verso il fine,
per affermarsi nella lotta contro altre volontà. ra Il problema della storia
negli studi marxistici e che è la dura legge della vita politica d'onde
l'allacciamento, caro a Croce, del marxismo alle MIGLIORI TRADIZIONI DELLA
SCIENZA POLITICA ITALIANA – machiavellismo --, e l'esaltazione della politica
di potenza contro i sermoni dei profeti disarmati -- Materialismo storico, prefazione;
e rav\àcinamento di Marx a MACHIAVELLI, nota -- sempre, pur in questa varietà
d’accezioni, l'utile è per Croce il punto d'appoggio pili solido e
indispensabile pell'esplicazione dell'operosità umana nella costruzione della
storia, nel senso immanentistico e mondano proprio dello spirito moderno. Il
progresso è lotta continua e ha per motore l'uomo, l'uomo come passionalità
naturale resa lucida dalla disciplina intellettuale per andar dietro alla
verità effettuale delle cose; l'uomo come forma primordiale, nella quale anche
l’idealità più alte debbono tradursi e incarnarsi, per poter affermarsi
efficacemente in questo mondo che è la palestra della nostra operosità.
Nell'utile, rivelatogli dal marxismo, Croce scorge la chiave per svincolare
l'operare umano da qualsiasi piano storico trascendente religioso o metafìsico
che fosse, e risolvere positivamente i problemi che di continuo scaturiscono
dal divenire storico. L'anno stesso che racLa scienza dei coglieva in volume
gli studi sul materialismo storico Croce ^P''dava alla luce una memoria
accademica intitolata: Tesi fondamentali d'un' Estetica come scienza
dell'ESPRESSIONE e linguistica generale; ripubblicata da Attisani in La prima
forma dell'estetica e della logica, Messina. Queste tesi sono riesposte,
ampliate e inquadrate in una concezione generale della filosofia, nell’Estetica
che, originariamente concepita come opera a se, rimase lo scritto meritatamente
pii!i famoso di Croce. In seguito essa sarà ripubblicata come primo dei volumi
di cui si compone la crociana filosofia dello spirito. Il sistema. La
sistcmazionc che quest'opera dà del sapere filosofico è semplice. La realtà è
un prodotto dell'attività spirituale, la quale si specifica, secondo una
classica distinzione, in attività teoretica e attività pratica. Ciascuna di
queste due specificazioni ha due gradi, a seconda che lo spirito si rivolga al
particolare o all'universale. L'attività teoretica rivolta al particolare è
l'arte o pensiero intuitivo, e la scienza filosofica che la studia è l'estetica;
l'attività teoretica rivolta all'universale è il pensiero discorsivo, oggetto
della logica; l'attività pratica rivolta al particolare è l'economia, oggetto
dell'economica; e l'attività pratica rivolta all'universale è la morale,
oggetto dell'etica. L'universale, in ciascuno dei due campi, presuppone il
particolare. Il concetto, infatti, presuppone l'immagine prodotta dall'arte,
senza la quale non potrebbe esprimersi; e l'operare morale implica un agire
indirizzato all'utile, perchè non si potrebbe fare il bene – WITHOUT THAT BITE
GRICE -- senza giovare, in qualche modo, a qualcuno. Almeno in questa prima
sistemazione, al contrario, il particolare non esige l'universale: l'utile si
può perseguire prescindendo del tutto d’una moralità OGGETTIVA; e l'immagine
artistica prodotto aurorale dello spirito può presentarsi indipendentemente
d’ogni intenzione concettuale. Ciò non toglie, ovviamente, che l'attività
concreta dello spirito sia un continuo intrecciarsi e collaborare di queste
quattro forme, ciascuna delle quali, presa per se, apparirebbe astratta. Tutte
l'altre attività spirituali devono potersi ridurre in qualche modo a queste
quattro. Così, ad esempio, il diritto e la pohtica rientreranno integralmente
nell'attività economica; la scienza, nella misura in cui sia autenticamente
conoscitiva (ciò che significa, per Croce, filosofica) rientra nell'attività
logica. La religione non rientra propriamente da nessuna parte; ma, in quanto
abbia pretesa di conoscere il trascendente, è una forma, piìi o meno genuina,
di filosofia; in quanto si pone come atteggiamento morale, o Estetica: primo
schizzo del sistema espressione d’ideali pratici, trova la sua collocazione nel
quarto grado dello spirito; e, infine, in quanto mera ESPRESSIONE di sentimenti
può considerarsi sotto la rubrica dell'economia, che, nel sistema crociano,
assume la funzione di cestino in cui va a finire tutto ciò che non trova
collocazione altrove. H P GRICE BAR HILLEL WASTE PAPER BASKET PRAGMATIC –
IMPLICATURE HAPPENS -- All'efficacia sistematoria della sua filosofia, per un
verso. Le categorie Croce non da troppa importanza, convinto che il concreto ^P
^conoscere non possa se non portarsi sulla attività spirituale nella sua
interezza; ma, per un altro verso, egli non si riconobbe mai disposto a
lasciarla cadere, cioè ad assegnare un carattere semplicemente empirico alla
quadruplicità delle forme. Al contrario, essa ebbe sempre per lui un carattere
categoriale. Le quattro forme dell'attività spirituale sono tutte e sole le
categorie che si possano, e si debbano, ammettere come tali. Ciò significa che
vi è una radicale irriducibilità d’una forma all'altra, trascurare la quale
significa confondere e mescolare ciò che va tenuto filosoficamente distinto: la
concreta dialettica, che si instaura tra questi distinti, in tanto ha valore
filosofico in quanto essi conservino questa loro irriducibihtà. Tale principio,
strenuamente difeso da Croce, in particolare contro i gentiliani, suscita molte
difficoltà e, appunto perciò, anche molti spunti positivi. Peraltro, nella
comune cultura italiana, in cui il crocianesimo fu largamente accolto nel
periodo tra le due guerre, l'efficacia classificatoria delle quattro forme
prevalse nettamente sulla loro funzione categoriale. L'uomo mediamente colto in
fatto di filosofia, che abbraccia il sistema crociano, si sente spiritualmente
sorretto dalla possibiUtà, poniamo, di dichiarare che una opera d'arte mal
riuscita era un atto pratico, che il prodotto d’una ricerca psicologica era uno
pseudo-concetto, ecc.: dalla possibilità, insomma, d’assegnare ogni
manifestazione della vita alla sua giusta casella. Definizione dell'arte per
via negativa. Quando traccia lo schizzo sistematico con cui s’apre l'Estetica,
L.. storia della filosofia. VII. dell'attività artistica. Croce non pensa,
probabilmente, che esso avrebbe avuto tanta importanza nella ricezione del suo
pensiero. Il suo scopo era solo di sistemare nel modo migliore l'attività
spirituale in genere, per passare poi a considerarla in quella forma che, al
momento, gl’interessa: la forma artistica. Questa comprende in questa fase
della speculazione crociana anche l'istorica, dato che, come conoscenza
dell'individuale, la storia si riduce sotto il concetto generale dell'arte. La
distinzione La sistemazione, tuttavia, ha anche una diretta efficacia
sull'oggetto specifico della trattazione, l'arte. Infatti la specificità e
l'autonomia del valore estetico si definiscono attraverso una serie di
negazioni, che lo distinguono dagl’altri valori spirituali: Dimmi da che cosa
ti distingui e ti dirò chi sei è il motto, implicito, dell'estetica crociana,
fino al breviario. In questo senso l'identificazione dell'arte, vista nella sua
specificità, dipende dalla struttura sistematica dei distinti. L'arte non è
concetto, perchè le sue rappresentazioni non intendono l'universale: e con ciò
cade l'intellettualismo estetico. L'arte non è rivolta dovutile (sentito, in
ultima analisi, dal soggetto come piacere): e con ciò cade l'edonismo estetico
– LORD H P GRICE INSTRUMENTALISM PLEASURE MAXIMISATION. L'arte non persegue il
bene perchè, non si sviluppa come obbedienza all'universale dovere: e con ciò
cade il moralismo estetico. L’altre negazioni, attraverso cui Croce delimita e,
quindi, definisce il valore dell'arte, dipendono da queste: l'arte non ha uno
scopo didascahco; non si propone d’offrire il vero condito in molU versi; non
mira a fini d’edificazione, né a scopi pragmatici, ecc. Che potesse far pili
che tanto, e dire, anche positivamente, in che cosa l'arte consista, Croce, in
certo senso, esclude sempre; e questo non è strano: perchè un genere sommo come
lacategoria è per parlare in termini di filosofia classica un predicato da cui
ogni definizione muove, quindi non può essere il risultato di definizioni
antecedenti. Perciò, il breviario d’estetica si inizia con questa affermazione:
che Estetica: definizione dell'arte per via negativa l'arte è ciò che tutti
sanno che cosa sia; e riprende poi la determinazione per via negativa, che già
era stata propria noi giudichiamo ora buoni ora cattivi, ora importanti ora
insignificanti, trovano un posto. Tutti i fatti sono fatti storici aveva detto
la Logica, e ripete la Teoria della storiografia. E poiché la storia, nel
pensiero crociano, è ciò che comunemente si chiama Dio, codesta frase viene a
costituire l'esatto equivalente storicistico dell'affermazione che ARDIGÒ
enuncia in chiave naturalistica: Tutti i fatti sono divini. La UOvità più
importante 11 sentimento del breviario d’estetica, scritto pell'inaugurazione
del Rice Institute di Houston, nel Texas, è, come è noto, l'introduzione d’un
nuovo sinonimo del termine intuizione: il sentimento. Una novità già
annunciata, del resto, dalla conferenza tenuta al congresso di filosofia di
Heidelberg, sull’intuizione pura e il carattere lirico dell'arte, in Problemi
d’estetica, da cui forma e contenuto, nell'opera d'arte riuscita, vengono
identificati. Notando come ogni grande opera d'arte sia classica e romantica
insieme, il breviario fa risalire ciò alla necessaria fusione, nell'opera
d'arte riuscita, del momento lirico col momento immaginativo. Lo scopo
dichiarato di tale dottrina è dare un fondamento alla distinzione
(indispensabile pel critico) tra opera d'arte riuscita e non riuscita:
L'idealismo storicistico di Croce e, quindi, ancora di far posto al disvalore
che, come abbiamo visto, stenta a trovare una giustificazione nella filosofia
crociana. La coerenza. Come nella pratica così nell'estetica, il valore è
inteso come coerenza: ma, mentre nella pratica il segno di codesta coerenza era
piuttosto il successo d’una certa attività, nell'estetica il suo indizio si
presenta come uno stato d'animo che, fino allora, Croce considera sotto una
luce piuttosto negativa, come espressione di passività: il sentire. In realtà,
il sentire – GRICE FEELING BYZANTINE -- utilizzato dal breviario d’estetica è
molto diverso dal sentire – GRICE FEELING BYZANTINE RYLEAN AGITATION -- come
stato d'animo passivo materia non informata, o non perfettamente formata,
dall'attività spirituale che aveva dato luogo, nella Filosofia della pratica,
alla negazione della forma spirituale del sentimento. Là, l'intenzione era di
contestare l'esistenza d’una terza forma d’attività, accanto alla teoretica e
alla pratica; qui è di riconoscere, nel sentimento – GRICE FEELING BYZANTINE A
RYLEAN AGITATION, il modo d'essere incoativo in cui si presenta la stessa
attività spirituale che, nella sua esistenza piena, si sviluppa come immagine:
L'intuizione è veramente tale perchè rappresenta un sentimento, e solo d’esso e
sopra d’esso può sorgere -- Saggi d'estetica. Grazie alla sua globalità, alla
sua indivisibilità essenziale, il sentimento offre a Croce quel fondamento
d’unità che egli va ormai cercando: Ciò che dà coerenza e unità all'intuizione
è il sentimento. L'intuizione è veramente artistica, veramente intuizione,
quando sia, non caotico ammasso d'immagini, ma solo quando ha un principio
vitale che l'anima, facendo tutt'uno con lei. E questo principio è il
sentimento, che permette, cosi, di distinguere tra l'intuizione-immagine, che è
sempre nesso d'immagini, non esistendo immagini atomi e quella falsa intuizione
che è coacervo d'immagini: falsa e imperfetta pel contrasto non unificato di
piìi e diversi stati d'animo, la loro stratificazione o il loro miscuglio, o il
loro procedere traballante, che riceve una unità apparente dall'arbitrio
dell'autore. Allo stesso modo la filosofia della pra riuscita. L' intuizione
lirica tica aveva distinto tra esistenza unitariamente raccolta ed esistenza
dissoluta, lacerata dalla contraddizione. La distanza dall'estetica, dove si
considerano L'opera d'arte come opere d'arte alcune espressioni assai
complicate e diffìcili, è evidente. Per un verso, si tratta d’una ripresa del
motivo estetico, molto tradizionale, dell'opera d'arte come organismo vivente,
individuato d’un principio vitale. Infatti, ciò che ammiriamo nelle genuine
opere d'arte è la perfetta forma fantastica che riassume uno stato d'animo, e
codesto chiamiamo vita, unità, compattezza, pienezza dell'opera d'arte. Ma, nel
sistema crociano, questa distinzione e fusione tra un principio globale d'unità
e una forma articolata che l'esprime rappresenta una novità: essa non ha mai
avuto una espressione cosi esplicita, neppure nella teoria della coerenza
pratica propria del volume. La filosofia della pratica contene, peraltro, uno
spunto importante di questo sviluppo: nel capitolo stesso in cui nega
l'autonomia del sentimento. Qui infatti Croce, mentre contesta che al
sentimento si possa assegnare un posto a sé, dà tuttavia una interpretazione
eccezionalmente acuta delle teorie del sentimeno che erano fiorite nella storia
della filosofìa. Il sentimento, egli dice, è comparso nella storia della
filosofìa, colla funzione d’una escogitazione – GRICE FEELING BYZANTINE RYLEAN
AGITATION -- provvisoria, ogni qualvolta ci si è trovati innanzi a una forma o
sottoforma dell'attività spirituale che non si riusciva né a eliminare né ad
assorbire nelle forme già conosciute -- Pratica. Sicché il vedere una qualsiasi
attività spirituale specifica come sentimento è la prima forma che assume la
rivendicazione della sua autonomia. Così, infatti, era accaduto. L'estetica del
sentimento, nelle sue forme piìi disparate, da VICO a Rousseau, da Shaftesbury
ad Alison, dalla Scientia cognitionis sensitivae di Baumgarten all’osservazioni
sul sentimento del bello e del sublime di Kant, è, effettivamente, una
rivendicazione dell'autonomia dell'arte rispetto alla conoscenza L' idealismo
storicistico di Croce concettuale: perfino quando (come in Baumgarten) sembri
intellettualistica. Ma anche l'etica del poi i^ Filosofia perenne e personalità
filosofiche, Padova, Guzzo, Vita e scritti di Juvalta, Giorn. crit. d. filos.
It. SoLiNAS, L'autassia dei valori e le indagini etiche di Juvalta, Torino,
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generali d’etica, Milano, Elementi d’etica, Milano, Doveri sociali, Milano,
L'individualismo nelle dottrine morali, Milano, Elementi di pedagogia, Milano,
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Etica e pedagogia, Firenze, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo
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organizzatrici; Le civiltà liberatrici, Torino, Manzoni, Torino, Letteratura.
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L'esistenza e l'immortalità dell'anima. Lecce, Letteratura. E. Tozzi, Profili
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Bottai, Napoli, Calogero, R. Resta e la pedagogia della cultura, Catania,
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di R. Resta, Bari, Maresca Opere. Di due opposti atteggiamenti della filosofia
moderna rispetto alla religione, Napoli, Fatto etico e fatto pedagogico, Lucca,
Le antinomie dell'educazione, Torino, Saggi sul concetto della pedagogia come
filosofia applicata, Roma, Il problema della scienza e l'educazione, Roma, Il
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generale alla pedagogia, Roma, Moralità e conoscenza. Critica del razionalismo
morale, Roma, Aquino e la Scolastica, Milano, Letteratura. Cappiello, Il
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causale e l'autonomia morale. Saggio pedagogico, Napoli Saggi vari intorno ad
alcuni problemi di filosofia e pedagogia, Napoli, Brevi saggi di logica,
Napoli, Dualismo e religione, Roma, Boehme e il suo dualismo essenziale, Roma,
Il dualismo nella filosofia. Sua ragione eterna e sue storiche vicissitudini,
Napoli, I limiti del misticismo di Jakob Boehme, Napoli, Presupposti filosofici
per una storia delle religioni, Napoli, La morale e le altre forme dello
spirito, Roma, Napoli, La legge morale alla luce del dualismo filosofico,
Napoli, Panteismo e dualismo nel pensiero di Schelling, Napoli, s. a., ma La
pace come ideale della ragione, Napoli, L'idea dell'immortalità dell'anima e la
sua efficacia sulla civiltà e sull’educazione, Napoli, Panteismo e dualità nel
pensiero di Schelling e dei suoi oppugnatori, Napoli, Della Valle Opere. La
psicogenesi della coscienza. Saggio di una teoria generale dell'evoluzione,
Milano, Le leggi del lavoro mentale, Torino, La pedagogia realistica, Napoli,
Teoria generale e formale del valore come fondamento d’una pedagogia
filosofica. Le premesse dell'axiologia pura, Torino, Lucrezo Caro e
l'epicureismo campano, Napoli, Il concetto filosofico della pedagogia, Torino,
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alla metafisica. Teoria della conoscenza, Torino, Milano, Sul formalismo della
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discorsi, Torino, La libertà, Milano, Torino, Gesìi Cristo e il Cristianesimo,
Milano, Torino, Schopenhauer (con antologia), Milano, Ragione e fede. Saggi
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Varisco, Napoli, Librizzi, Il pensiero di Varisco, Padova, Alliney, Varisco,
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della filosofia da Kant ai nostri giorni. Kant, Palermo, Il problema della
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oggettiva riflessione pura. Lezioni, Roma, La realtà e l'attività spirituale
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nell'interpretazione di Carabellese, Kantstudien, Giornate di studio
carabellesiane, con scritti di autori vari, Genova, Croce Opere. Salvo le
Pagine sparse, e pochi altri scritti, le opere complete sono state raccolte
dall'editore Laterza di Bari. La storia ridotta sotto il concetto generale
dell'arte, Napoli, La critica letteraria, Roma, Primi saggi, Materialismo
storico ed economia marxista, Palermo, Bari, Tesi fondamentali d’un' estetica
come scienza dell'espressione e linguistica generale, Napoli, Estetica come
scienza dell'espressione e linguistica generale, Palermo, Logica come scienza
del concetto puro, Napoli, Bari, Ciò che è vivo e ciò che è morto della
filosofia di Hegel, Bari, Letteratura e critica della letteratura contemporanea
in Italia, Bari, Filosofia della pratica. Economica ed Etica, Bari, Problemi
d'estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana, Bari, La filosofia
di Vico, Bari, Saggi sulla letteratura italiana, Bari, La rivoluzione
napoletana, Bari, Breviario di Estetica. Quattro lezioni, Bari, Cultura e vita
morale. Intermezzi polemici, Bari. La letteratura della nuova Italia, Bari, La
Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari, Aneddoti e profili,
Palermo, I teatri di Napoli, Bari, Teoria e storia della storiografia, Bari,
Contributo alla critica di me stesso, Napoli, Conversazioni critiche, Bari,
Storie e leggende napoletane, Bari, Curiosità storiche, Napoli, Pagine sparse,
Napoli, Goethe. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, Bari, Primi
saggi, Bari, Nuovi saggi di estetica, Bari, Ariosto, Shakespeare, Corneille,
Bari, Storia della storiografia italiana, Bari, La poesia di Dante, Bari,
Poesia e non poesia. Nota sulla letteratura europea, Bari, Uomini e cose della
vecchia Italia, Bari, Poeti e scrittori d'Italia, Bari, Bari, Storia d'Italia
dal i8yi al Bari, Storia dell'età barocca in Italia. Pensiero, poesia e
letteratura. Vita morale, Bari, Aesthetica in nuce, Napoli, Manzoni. Saggi e
discussioni, Bari, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari,
Etica e politica, Bari, Storia d'Europa, Bari, Poesia popolare e poesia d'arte.
Studi sulla poesia italiana, Bari, Orientamenti. Piccoli saggi di filosofia
politica, Milano, Nuovi saggi sul Goethe, Bari, La critica e la storia delle
arti figurative, Bari, Sanctis. Pagine sparse (in collaborazione con Clone e
Muscetta, Bari, Ultimi saggi, Bari, La poesia. Introduzione alla critica e
storia della poesia e della letteratura, Bari, La storia come pensiero e come
azione, Bari, II carattere della filosofia moderna, Bari, Poesia antica e moderna.
Interpretazioni, Bari, Storia dell'estetica per saggi, Bari, Pagine sparse,
Napoli, Discorsi di varia filosofia, Bari, Pagine politiche, Bari, Poeti e
scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari, Pensiero politico e
politica attuale. Scritti e discorsi, Bari, Bibliografia vichiana (accresciuta
e rielaborata da Nicolini, Napoli, Quando l'Italia era tagliata in due.
Estratto di un diario, Bari, Due anni di vita politica italiana, Bari,
Filosofia e storiografia, Bari, Nuove pagine sparse, Napoli, La letteratura
italiana del Settecento, Bari, Ariosto, Bari, Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici, Bari, Intorno alla dialettica. Discussioni, Bari, Letteratura.
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Firenze, Olgiati, Croce e lo storicismo, Milano, Mautino, La formazione della
filosofia politica di Croce, Bari, Antoni, Commento a Croce, Venezia,
Caponigri, History and Liberty. The Historical Writings of Croce, Chicago,
Raggiunti, La conoscenza storica. Analisi della logica crociana, Firenze,
Abbate, La filosofia di Croce e la crisi della società italiana, Torino,
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e il pensiero contemporaneo, Milano, Franchini, Croce interprete di Hegel,
Napoli, Puppo, Il metodo e la critica di Croce, Milano, Capanna, La religione
in Croce, Bari, Bausola, Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano,
Bausola, Etica e politica nel pensiero di Croce, Milano, RoGGERONE, Croce e la
formazione del concetto di libertà, Milano, L., Introduzione alla lettura di
Croce, cur. Pesce, Firenze, Gentile Opere. La raccolta delle Opere complete ed
epistolario, Sansoni di Firenze, a cura della Fondazione Gentile per gli studi
filosofici. Rosmini e Gioberti, Pisa, Firenze, La filosofia di Marx. Studi
critici, Pisa, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, Napoli, Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Milano, Studi sullo
stoicismo romano, Trani, Bruno nella storia della cultura, Palermo, Il
modernismo e i rapporti tra la religione e la filosofia, Bari, Telesio, Bari,
Per il riordinamento dell'istruzione superiore. Studi e proposte, Palermo, I
problemi della scolastica e il pensiero italiano, Bari, La riforma della
dialettica hegeliana ed altri scritti, Messina, Sommario di pedagogia come
scienza filosofica: Pedagogia generale. Didattica, Bari, Studi vichiani,
Messina, Firenze, Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa, Bari,
Sistema di logica come teoria del conoscere, Pisa, Bari, Le origini della
filosofia contemporanea in Italia. I platonici. I positivisti. I kantiani e gli
hegeliani, Messina, Il tramonto della cultura siciliana, Bologna, Il problema
scolastico del dopoguerra, Napoli, Guerra e fede. Frammenti politici, Napoli,
Roma, Discorsi di religione, Firenze, Bruno e il pensiero del Rinascimento,
Firenze, La riforma dell'educazione. Discorsi ai maestri di Trieste, Bari, Dopo
la vittoria. Nuovi frammenti politici, Roma, Saggi critici, Napoli, Firenze,
Frammenti di estetica e di letteratura, Lanciano, Educazione e scuola laica,
Firenze, Capponi e la cultura toscana, Firenze, I fondamenti della filosofia
del diritto, Roma, Firenze, Dante e Manzoni. Con un saggio su arte e religione,
Firenze, Albori della nuova Italia, Lanciano, Studi sul Rinascimento, Firenze,
I profeti del Risorgimento italiano, Firenze, Difesa della filosofia. Lanciano,
Preliminari allo studio del fanciullo, Roma, Firenze, Spaventa, Firenze, La
riforma della scuola, Bari, Il fascismo al governo della scuola. Discorsi e
interviste, Palermo, La nuova scuola media, Firenze, Che cosa è il fascismo,
Firenze, L'eredità d’Alfieri, Venezia, Frammenti di storia della filosofia,
Lanciano, Cuoco. Studi e appunti, Venezia, Manzoni e Leopardi. Saggi critici,
Milano, Fascismo e cultura, Milano, Origini e dottrina del fascismo, Roma, La
filosofia dell'arte, Milano, Der aktuale Idealismus. Zwei Vortràge, Tiibingen,
La riforma della scuola in Italia, Milano, Introduzione alla filosofia, Milano,
La profezia di Dante, Roma, La filosofia dell'arte in compendio, Firenze, Memorie
italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze, Dottrina politica
del fascismo, Padova, Poesia e filosofia di Leopardi, Firenze, Il pensiero
italiano del Rinascimento, Firenze, Il pensiero di Leonardo, Firenze, La
filosofia italiana contemporanea. Due scritti, Firenze, Genesi e struttura
della società. Saggio di filosofia pratica, Firenze, Letteratura. Un vasto
insieme di studi sulla filosofia del Gentile è rappresentato dalla raccolta, di
vari autori, Gentile: La vita e il pensiero, Firenze. inoltre: Chiocchetti, La
filosofia di Gentile, Milano, La Via, L'idealismo attuale di Gentile, Trani,
Sarlo, Gentile e Croce, Firenze, D'Amato, Gentile, Milano, Spirito, L'idealismo
italiano e i suoi critici, Firenze, Thompson, The Educational Philosophy of
Gentile, Los Angeles, Hessen, Die Pàdagogik von Gentile, Die Erziehung. trad.
it., Roma, Baur, Gentiles Philosophie und Pàdagogik, Langensalza, Holmes, The
Idealism of Gentile, New York, RoMANELL, The Philosophy of Gentile, New York,
Collctti, Il problema religioso dal punto di vista dell'idealismo attuale,
Messina, Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, Guzzo, Croce e
Gentile, Lugano, Scarpelli, La filosofia di Gentile e le critiche di Solari,
Torino, Spirito, Note sul pensiero di Gentile, Firenze, Bellezza, L'
esistenzialismo positivo di Gentile, Firenze, Carlini, Studi gentiliani,
Firenze, Harris, The Social Philosophy of Gentile, Urbana, SciACCA,
Dall'attualismo allo spiritualismo, Milano, Bellezza, La problematica
attualistica della storia, Firenze. Nome compiuto: Eustachio Paolo Lamanna.
E[ustachio] P. Lamanna. E. Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna. Keywords: il
risorgimento fiorentino, Mussolini nella storia della filosofia. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library. Lamanna.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lami:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della ragione dei antichi
romani – la tradizione della polizia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Abstract. Grice: “Aristotle
and Kant – or Ariskant, as I prefer – succumb to the ‘homo intellectualis,’
where the ‘mind’ rules it all – hence the Wilde reader in mental philosophy. On
the other hand, there’s Dodds, an American, who revealed to us how much of
unreason guides Plato and compagnia!” While Grice does linguistic botany in his
Kant lectures on reasoning: rational versus reasonable, he little considers the
Latin, indeed, Roman, root of it all: ratio – Hobbes did, when he called HIS
thing ‘computatio’ – and provides the very first example in English-language
philosophy of a conversational impliature – where a rather carefree reference
to Julius Caesar is meant to retrieve in the addressee a full chain of
‘computationes’ or ‘rationes.’ As an Oxonian, Grice was well suited for the
task, even having been a scholar at Merton, the land of the calculatori ! Keywords. la ragione degl’antichi. Filosofo italiano.
Grice: “I like Lami; he has written interesting approaches to Plato and
Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Altri saggi: "La ragione degli antichi”
(Giuffrè, Roma); "La politica di Platone” (Rubettino, Cosenza); "Tra
utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora -- per una filosofia
dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il libro Manifesto – in
difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa, "Voegelin --
Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia della storia nuova
destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/
Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola.
E’ davvero difficile per me, ricordare L. In questi giorni, ho dovuto farlo più
volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare
da domenica quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e
sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la
presentazione di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come
relatore, anche lui. Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo
incontro, quando io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di
assistente di Noce. Fin da allora, non si trattò di un semplice rapporto
professionale, in quanto Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo
frequentavamo, l’amore per il sapere autentico, quello che si tramuta in
testimonianza, in vita. Mi coinvolse immediatamente in un progetto ambizioso:
quello di introdurre in un paese dominato culturalmente dalla Sinistra, il
filosofo della storia Voegelin, allora praticamente sconosciuto. Il risultato
di questa ricerca, alla quale ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima
persona, assieme a Borghi e pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di
una serie di antologie voegeliniane (qui è bene rinviare a Voegelin: un
interprete del totalitarismo, Astra), che fecero ampiamente discutere. Il
merito maggiore, conseguito da Lami, in questo ambito di studi, fu di
individuare nel filosofo austro-americano, un diagnosta della crisi della
modernità. In particolare, attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e
storia, opera monumentale, Egli presentò l’esperienza classica della ragione,
quale unica terapia possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si
veda, prefazione a VOEGELIN, Israele e rivelazione, Aracne, ma anche L.,
Introduzione a Voegelin, Giuffré). Fece propria, in modo critico e
originale, l’eredità di Noce, secondo modalità più profonde rispetto a chi, tra
i suoi presunti discepoli, scelse, come il Maestro, una via di fede. La cosa, è
facilmente deducibile dalla lettura dell’organica monografia che egli dedicò al
filosofo cattolico (Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani), da cui si
evincono tanto la gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti
ricevuti, sostanziati da un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze
speculative essenziali, dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami,
delle qualità virtuose dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa
scelta, che peraltro individua, nello specifico, il campo d’indagine della scuola
romana di filosofia politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento,
hanno fortemente contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del
novecento. Tra essi, TILGHER e EVOLA. Al primo dedica un volume significativo (TILGHER,
un pensatore liberale, Seam), nel quale evidenzia il tema della pluralità delle
morali, come caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo L., lo
avvicinava al filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individua effettive
vie realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del
santo, dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo da alle stampe la prima
monografia filosofica: Introduzione a Evola. Un passo per la vita e un passo
per il pensiero, Volpe. Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola, cura
diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è riuscito a
contestualizzare storicamente l’opera del filosofo romano e a coglierne il
valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla comparazione. E’
proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono dipanate, nel corso degli
anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che Egli leggesse EVOLA,
tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti della
tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a quest’ultimo,
interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di matrice cristiana
del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana. Stigmatizza sempre
negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della visione del mondo
ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla quale la civiltà
romana tanto insiste. La cosa, è particolarmente chiara nello studio dedicato a
questo specifico tema (Socrate Platone Aristotele, Rubbettino), nel quale tenta
di presentare il simbolo epocale del mondo antico, la “vita contemplativa”,
come realizzantesi pienamente nella dimensione della Città, a testimoniare
della contrapposizione tra tensione utopica tradizionale, e scacco utopistico,
tipicamente moderno. Tema questo, attorno al quale spese le sue energie
intellettuali nel recente volume Tra utopia e utopismo (Il Cerchio).
Corrispondere a quella che è stata la via da lui indicata, ad un tempo ideale
ed esistenziale, a quella che egli definiva una filosofia dei pochi, del divino
e dell’ordine, è compito complesso e gravoso, al quale comunque, chi come me,
gli è stato vicino, non può permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria
della Sua luce interiore, che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”,
o in chi lo ascoltava nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto
lavorava, dai Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua
assenza. Ma, più in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e
presente, che si realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti,
come Roma (ma non solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento
spirituale più prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia
dell’eterno presente, Il Cerchio. L’università di Roma, con Lui ha perso una
delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare Scuola. Personalmente,
non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo mondo, della Sua
amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto da Area. Grice: “Lami
touches some crucial points. For one, he criticizes Jowett for mistranslating
Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’ – Politeia --. Lami as a
Roman hates the Pope – who does he think he is? The Papal dynasty is take in
that they cannot reproduce. So we must go to the civil-political organization
of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’ of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione
una. Espressione varie e tradizione una.
With the birth of
Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to mean
‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the old
Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for
Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all
this – and more --. Nome compiuto: Gian Franco Lami. Lami. Keywords: la ragione degl’antichi, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Lampria: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
pugliese – scuola di Taranto – scuola tarantina – filosofia tarantina -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Abstract. Grice: “Most
Italian historians of philosophy are confused by Lambria. He was, no doubt
about it, Aristosenno’s tutor – the question is (and I often think of myself
and my own tutor at Corpus – whether Lambria taught Aristosseno philosophy – or
how to argue – or, rather, music!” -- Filosofo italiano. Taranto, Puglia. Tutor
of Aristosseno di Taranto, although he seems to have taught him music rather
than philosophy.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Landi:
la ragione conversazionale e la semiotica economica – prinzipio di economia
dello sforzo razionale – filosofia lombarda – scuola milanese – scuola di
Milano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Abstract. Grice: “I have often been criticized as
proposing a conversational variant of the homo oeconomicus, which indeed should
then read as homines oeconomici!” In his epilogue to his compilation, Grice
mediates on the very structure of his model of conversation as rational
co-operation. The economic basis is obvious. It is Grice’s view that the goal
of conversation is the maximally mutual ‘influencing’: no time or energy to
waste! Landi held a very similar view – which made him particularly unpopular
in Italy, the land where the lemon tree grows! Kewyords: Landi, Grice, homo
oeconomicus. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I would call Landi a
Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso
della dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze umane e antropologia, apportato
un notevole contributo agli sviluppi alla semantica (senso) e la pragmatica
(prassi, pratica – ragione pratica) -- crt, cercando di unificare la dialettica
romana e fiorentina con quella oxoniense.
Diplomato al Regio Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano.
Studia a Pavia. Insegna a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può
suddividere in tre fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica),
nonché l'analisi dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria
della “produzione” del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento
è l'omologia tra la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E.
R. E.). La terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e
teorizza l'”alienazione” dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica
communicativa (Bocca, Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione
e parlare comune,” – cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare,
implicARE, -- ‘common’ is Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to
extra-ordinario. Marsilio, Padova.
La semiotica e “Segnare” come lavoro e mercato,
-- cf. Grice against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational
effort – but remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with
‘rationality’ as being co-operative. And Grice’s remarks about the independence
of the two thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational.
Bompiani, Milano, Segno ed ideologia
(Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia” (Mondadori,
Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o teoria? – cf.
Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology – ceteris
paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology – “That’s why we call them
‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, -- psychological theory --. Theory Th. (Bompiani,
Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’
y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale
ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo,
Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio
su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as did
Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from
Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at
Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic
to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information
is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo,
l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria
formale del valore. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e
te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere:
i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone
di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore,
ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va
speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto,
intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa.
Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella
volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si
adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di
regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la
quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della
volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della
volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il
valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti
concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni
scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi
così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che
la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè
questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano
naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa,
o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-),ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due
forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per
esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad
arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si
può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un
fabbricante per . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il
valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di
un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto
quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche
ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai,
CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre
possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono
la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un
oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e
osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE
‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula.
Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante
u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento
accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio
proprio. Indicando il valore con “W”,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece
si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il
beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al
rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della
volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula
sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del
beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve
migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.
glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè
diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla
formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la
circostanza del MALE ALTRUI. Allora si
avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore
della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione
egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO
(plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si
avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta
il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò:
W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che
al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W
(rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con
una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u,
questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W
(u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge
nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi
l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in
un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r)
W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V)
W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze
concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con
segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà
risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti
concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il
valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera
secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora
non-modificando il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler
giudicare del valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto
lo scopo prende parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è
buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e
maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il senso in cui i tre
momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è completamente lo stesso La
validità della tavola dei valori, dianzi tracciata, ma pure prevista.
Allora il non-valore si ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza:
subisce variazioni, se cambia la qualità della volizione? Itendendo per qualità
la differenza tra appetizione e repulsione, che però non deve equipararsi a una
contra-posizione logica tra affermazione e negazione, i cui termini si
escludano a vicenda, ma considerarsi come una doppia possibilità psicologica,
di cui l'una abbia altret tanta realtà indipendente, quanto l'altra. Un'analisi
della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano egualmente come la volizione,
solo che si applicano di regola ai valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO
(IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni
con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo
stato subbiettivo di rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla
volizione è indicato con il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato
abbiamo supposta anche la cognizione delle circostanze concomitanti valutabili,
così al binomio della volizione o al polinomio della volizione corrisponde un
binomio o un polinomio del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli
stessi simboli *senza la parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in
rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti
concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono fare le seguenti
sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola
relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della
volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno,
a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze
dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si
avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è
risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa
volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma
positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale
negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra
loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s
duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL
CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione
che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde
alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi
tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose
dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal
semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due
bi-nomi comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati
in principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non
coooperazione) fra l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che
dalla grandezza di questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il
valore morale della valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella
negazione di “g” e “y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è
congiunto con “u”, “W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala,
ed ha segno negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”,
“W(ru)”, si trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la
funzione valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire
agevolmente con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse
proprio a un grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il
sacrificare a un piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra
parte chi non pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio
produce un non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità
propria rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo
abbozzo di una LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C”
e “C'” indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla
qualità delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule
all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori
“r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g
per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno
ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale
d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo
divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato
l'interesse proprio da sacrificare. È F, 1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = -
C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)= 0,
lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure evidente,
che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto
più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il
valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula.
Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si
contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui,
cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza
prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene
cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta
formula. Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè
NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si
debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla
realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere
aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W(gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può
riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso
valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà
un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E
se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare
quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL
CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere
le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande
dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno
così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A
questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra
correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del
binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y
gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00
lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune
conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l
a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno,
secondo la formula principale or ora ricavata, in un rapporto di
RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo
luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e MERITORIA
O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE,
così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL
DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto più il
valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o inferiore
della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece quei
numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di detta
linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui scopo
non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1).
UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la
caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE
O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o, come nella
guerra o il duello, negativi. Se il
progetto offre l'occasione di congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi
rappresenta un pericolo altrui nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione
corrispondente e espressa con (gr). V'è però anche la rappresentazione del
desiderio di un male altrui, cui si associa anche la previsione di un danno
proprio. La corrispondente volizione e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui
non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa
riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la formula principale del
primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >. Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di
binomi: gr g+1 1 T (go+ 1)r.
Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due
binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Nome compiuto. Ferruccio Rossi-Landi. Landi.
Keywords: implicature, homo oeconomicus. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Landi,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Luigi Speranza, “Grice e
Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza,
“Grice’s principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical
semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and
excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library. Landi.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Landino:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della sforziade
degl’italiani – filosofia toscana – filosofia fiorentina – scuola di Firenze –
scuola fiorentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice: “As the Italians say, if the Greeks
have the Illiad, and the Romans the Eneide, why can’t they have the Sforziade?
It’s different for us Anglo-Saxon types who have to deal with Berewolf, the
monster, and the critics!’ In his epilogue to his compilation, Grice confesses
the striking resemblances between the dialectic proposed by Aristotle – in
Topics, Nicomachean Ethics, and Posterior Analytics – in terms of this progress
from the many (the lay) to the few – the professional philosopher. Landino may
be thought of as promoting that type of dialectic in his native Firenze.
Firenze had to compete with Rome, and she did it successfully! Keywords:
Oxonian dialectic, Athenian dialectic, Florentine dialectic, Grice, Landino. Filosofo
italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I love the way a philosopher can be judged
by his fellow citizens and by furriners: Landino’s “De Anima” fascinates the
Germans, for example! While his poetry fascinates the Americans, as I Tatti
testifies!” Nacque da una famiglia originaria di
Pratovecchio, nel Casentino, e compì gli studi in materie letterarie e
giuridiche a Volterra. Gli venne affidata presso lo Studio fiorentino la
cattedra di oratoria e poetica che era stata del suo maestro Marsuppini: L., sostenuto
dai Medici, e stato avversato da non pochi personaggi in vista, come Rinuccini
e Acciaiuoli. Tra i suoi allievi ci furono Poliziano e FICINO (si veda). In
quel periodo ricopre anche incarichi pubblici, facendo parte della segreteria
di Parte guelfa e della prima Cancelleria. Tra i suoi viaggi, spicca quello a
Roma. La sua Xandra e una raccolta di componimenti dedicata inizialmente ad
Alberti e de' Medici. In campo filosofico scrisse III dialoghi: il De anima, le
Disputationes Camaldulenses e il De vera nobilitate. La maggiore fama nei
secoli di L. e però legata alla sua attività di commentatore dei classici.
Diede alle stampe il Comento sopra la Comedia di ALIGHIERI, su ORAZIO e su
VIRGILIO. Traduttore dal latino in fiorentino della Storia natural di PLINIO e
la Sforziade di Simonetta Il volgarizzamento pliniano e un vero e proprio
evento. Per la prima volta la plebe puo leggere la più importante e vasta
enciclopedia del mondo romano -- tra i suoi lettori Pulci, Colombo e Vinci. Per
i meriti acquisiti, la signoria fiorentina gli assegna una torre nel Casentino
e una pensione. Venne ritratto tra illustri fiorentini a lui contemporanei da
Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Altri saggi:
“Orazione alla Signoria fiorentina incipit della Historia naturale tradocta di
lingua latina in fiorentina”; Xandra, “De anima”; “Disputationes Camaldulenses;
“De vera nobilitated”; “Comento sopra la Comedia di Dante”; “Commento a
Orazio”; “Commento all’epopea eroica di Virgilio”; “Historia naturale di Caio
Plinio Secondo tradocta di lingua latina in fiorentina al serenissimo
Ferdinando re di Napoli”; “Orazione alla Signoria fiorentina quando presenta il
suo Commento di Dante, Firenze, Niccolò di Lorenzo, Formulario di epistole,
Firenze, Bartolomeo de' Libri. Il testo si può leggere in edizione critica.
Carmina omnia ex codicibus manuscriptis primum edidit A. Perosa (Firenze);
“Disputationes Camaldulenses” Lohe (Firenze, Sansoni); C “De vera nobilitate,
M. T. Liaci, (Firenze, Olschki); R. Cardini, La critica del Landino” (Firenze,
Sansoni). Dallo stesso studioso è stata allestita la raccolta: C. Landino,
Scritti critici e teorici, Cardini, Roma, Bulzoni, Comento sopra la Comedia,
I-IVProcaccioli, Roma, Salerno editrice, Questo commento è stato solo
parzialmente edito (la sezione relativa all'Ars poetica): Cristoforo Landino,
In Quinti Horatii Flacci Artem poeticam ad Pisones interpretationes, G. Bugada,
Firenze, Sismel, R. Fubini, Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia,
cultura, Pisa, R. M. Comanducci, Nota sulla versione landiniana della Sforziade
di Giovanni Simonetta, «Interpres» Uno studio complessivo, sia filologico sia
storico-culturale, dell'opera in A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano”
(Messina, Centro di Studi Umanistici). Questo testo proviene in parte dalla
relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo
Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Orazio, “Artem
poeticam ad Pisones interpretationes. G. Bugada, Firenze, Sismel-Società internazionale
per lo studio del Medioevo latino, Galluzzo, Enciclopedia Dantesca, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Dizionario Biografico degli
Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Antonazzo, Il
volgarizzamento pliniano Messina, di Studi Umanistici, Treccani Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Lee Sorensen. ALCUIN, Ratisbona. Liba secundus u
aut Eandetn otionanft in anibus denrchedas. Ars enim natnratn quoad ua Itt
feropq imitatur. Sed nefeio quo pado cum de eqmalo quod iti vita Kiriorio
iMispa natura nucttigadum nobis propofuannus:iam fecundo in naturam rela«
bor.lta^ bacomifla ad illud tademrueamusipcimunique omnibus PHILOSOPHIS omnibmi
cbtifiianis audoribus non in eo quod ab ad ione proueninfcdin fo» h ratione
coUocemus. Non enim quid fadum iinfed qua mente fadum animad uettunt.
Quapropter quatuor ueluti principia ponunt. Cum enim fe nobis ilu quid offert:
mouctuc ea te fic oblata uis quzdam animorum nofttorums ut illam cognoscat:
tandem p decernit aliud bonum efTc aliud contra maium. Quapto ptrrcumiam
feferes obtuleritrcum iam fecundo loco (it de ea iudicium fadumt adtamr tertio
loco uoluntast ut hoc quidem fequamur. Illud vero fugiamus. Qua quidem
uoluntate ita iubente motus poftremo in corpora infurgut : ut id tncmbræzc
quantur quod noiunusancea de creuerit.Ncffi igitur a duobus illis
ptimisprindpiisnetp ab boc poftremo uitiumfpedatur:led a voluntate qua in
ordine tertiam pofuimust. Non enim eo Verres pcccauit quod tabulz ftgnac ac
reliqua ftculorum preriofilTima fupeliez illi fefe of Ferreti Non rurfus quia
iudica ret forefibi ex ufu huiufccmodi ornatu abundaretfcd quia rapere uoluit
cu uf«p adeocz fola uoluntate res pendat: ut etiam ft non rapuerit :tamen quia
rapere uo luerit fitelus commifllim fitx Non enim interfecerit ne an non
interfecerit: fed uo lueiitne interficere in culpa eft:Defueruntuires. P.CIodio
quominus Annium Milonem oeddere pof Tetx. Qua quidem in re fi naturz uitium
quzras t pcccauit ea uis:quzmentis propofitum non implcuit:fi uero ad morem
teconuertas non aduscorpord motus fed uoluntatis adus crimen concipit: Dicetur
iure homi dda Clodius quia Milonem uoluit ocddere: Fac autem ocddifte cum
minime ta men uoluerit exddere ftarim crimine abfoluetur. Qui enim non ex
uoluntate: fed uel ex infirmitate uirium quas modo pofiii vel ex insdiia rem
quampiam c6 mittunnii non modo culpa carent: uCTum etiam cdmiseratione
fzpistime digni putanmr. Quis enim cum illud de Cephalo in procrin legit etiam
fi fabulosum putetmon iolum illum crimine liberat: Sed fumma
infupercomifetatione profe quituRcum animadvertat hominem ex infdria dum feram
uulnerarc putat: ca tifiimam fibi coniugem percu Eiffeteuius morte in summum
moerorem acludu paulo postcafuruseifett Vides igitur auolutatisadu ueluti a fua
origine uitium in monbus flum: Verum cum iam conftet imbedllitatem adionis
prouenire ex infirmitate primi agentis rem hanc planius exponendam cenfeo:
Videamus ita in quo defidatuoluntas ante commifllim fadnus. Qui quidem
defedusfibi a natura non erinfemperenimadbzrct/ femp pcccaret:ne rurfus eftcafu
bc for luna:eflet enim extra nos. Est igitur uOluurius.S'ed ut uideasundeifit
error boc ædpe. Visdus rd quz agit ab eo agente perficittu quod fupra fe eft:
Donec enim id quod fecundo loco agit perfeuerat in ordine primi agentis munus
fuum abfo lute peragit:Sinautemao illo declinet nullum iam remedium eflqn aut
fiatim aut paulo poftdefidattin gyrum uertitutdrculus qui manu humana torquef.
Hic idem fi nunu dedinet a mom ceflabit. Ergo igitur ut ad rem redeam nupa
dicebam duo cflic pdndpiarquæ uoluntatcm aateire ntt Res quz fefe nobis oSu a :
k [ t Oerumniobonp nttitt K uii gucdam ilfas oblatu fufdpiatt At cum qiiicgd
bnhi!!»ttb£ A Ut moueri poffifaliguidhabeat proprium a quo moucaturmoo omnis
pcrap et di uis omnem appetitum mouebit. Nim quz fmlibilia percipit cum
dutaiatape petitum qui a renfibus e(i mouere ualai Ratio autem proprie
uoluntatem mouc biti Rurfuscum latio varia bonorum genera percipere
poiritcuiuilibetautcm et proprius finist Etit uoluntatis quoque pprius nnis k
primum quo moueatiu n5 bonum quodlibetifed certum aliquod ac
pncfizum.Siigit" mensnofira acuolo tas perceptione eius rati6ismoueac7quz
tedum bonorum malotu iudiciui B teneat reda indeadio exorictur. Sinautem ab iis
ezorit" quz falfo fenfuum iudb do bona efle deæta Tunticum minime flnt
bona Ibtim peccat in uiu 6tmorib9 uoluntas. Peiueriio igit" ordinis qui est
ad rationem et ad proprium finem gignit peccatum in adione. Ad rationem quidem
cum ad fubium fec fiis perceptionem voluntas fertunin id quod fi rede pcrfpidas
bonum non efiifcd quia fuis ilicee brisrcnrusdemulfitia Dillis bonum iudicatat.
Efirurrus cum ratio ipfa minime decepta id bonum efle decemittquod uere bonum
dici potcft.Hcx tamen tepore aut hocmodo bonum efie negatur. Voluntas tamen in
id fertur nu llam ordinis tanonem babens.huiufccmodi igitut ordinis per uerfio
uoluntaria eih pptc reaqi uitio non carets Loquacior fortalTc fum q par cfi in
natura mali. Addam tamen ex iis argumentationibus quibus demonftracum efimalum
nullam efienda am eflesati ob eam tem per fe fubfifierenon polle: facile
animaduerti id aliquo in bono feroper efle oportere: Verum idem hac quoip ratione
probatur. Cum malum dicimus priuationem dicimus:hoc enim iam conuicnPnuatio
autem ipla K foima qua res priuatut in eodem funt.ld autem quod formz fubiidtur
huiuTce modi cil ut fua natius facultate formam fufeipere ualeat. Hoc autem
quis bona negabit cum eodem in genere et ipsa sive facultas sive potentia
Scadus qui inde cll omnino confilhnt. Prxterea malum ta folum ratione malum
didiT quia nev cct. At non ncKct malo. ElTc enim bonum fi malo pemitirm
afiFcrrct. Nocet igitur bono. Nonautefi de rei forma loquamur noceret nifi in
eoelTet. Quzenimcz citas polyphcmo nocebitinifi fit in polyphemo excitas. Verum
cum uulum boa no opponatur quo pado utn idem erit fubiedum.oppofiro 9 t enim
altc/alte tum pellinhoc fi dicas ita tibi refpondebo.Quicquid ens did poteft
idem 8C boa num dicitunNon autem abfurdum cll ut non ens in ente fit:quzlibct
enim ptia uatio in aliqua elTentia c(l:quz cll ens tamen non efi in ente fibi
oppofito. Si enim czeitatem dico hoc non eos comune quide minime eft ut uifum
ubi^ tola lat:Ergo non ell in uifu uelud in fuo fubicdo fcd in animaote. Q_ux
quide om nia eo teduntiut non pofliit iu fummum malum inueniri:ut inuenitur
fummn bonum.Quod enim fummum malum fututum fit id fine alicuius boni cofora tio
elTc oportet. At nullum malum a bono omnino feparatu efle inuehies. C^ua
doquidem ut paulo ante ofiendimus fuas in bono radices malu egit: et in eo luu
ut Ita loquar fundamentum iedt:Ptztctea fi mihi dabis aliquid fummum malis
fututum effe id ita fua eflentia malum futurum erit/ut fua eflenda fummum bo
num clfc uidemus. At malum eflentiam nullam babæ iam demonfiratu efi. Ita quod
ptiouUD pdndpiii eft eus cflcpo^too cogn ellet pti IaP.Vitg«M.AIl^o.Liba
tettius cipranificflct caura iitidepcadcrettt Dafiautcaurambotiucfre dirimus. A
4 de et boc^uTa enim qux per fe caufa diatunfcmpcr prior eft illa quz per
accidens caula dicitur. At malum non efi caufa niri per accidens.Non igitur
inuenimr (u Inum malum.Hatc funt quæ de plurimis longecp «ccllenrioribus quz
Leo Baptista memoriter diluride ac copiose in tantorum uirotum confriTu
difputauit t mcminil Te ualui.ln quibus cum abunde Laurentio fatilTadum
efletxfol^ ia me* ridiemalccndi(ret:nos omnes ita adbottante Mariotto hofpite
libeta Mimo to» Kzimusiillumf fecuti ad tefidenda corpora difi:ellimus. L. CAMALDVLENSLVM
DISPVTATIONVM AD ILLVSTREM FEDERICVM VRBINATVM PRINCIPEM IN P. VIRGILIO MARONIS
ALLEGORIAS. Um Satuissem cum fermonem illustrissime Federice litteris mandate
quem Leo BAPTISTA Albertus no sine summa oiumquia et erunt admirarione: at(^ftu
porede iis Homeris habuiflct inqbus. VIRGILIO j fundiflimam illam fcietiam i
occultatcqua fummu bois bonum diuinitus defcribit et quU uia ad id Hcircamur
mirificc exprimit: uercbar ne in nonui 1 holum reprehcnlionem incidcrem:qui
cunria ex fui ingenii imbecillitate tnericntcs et Maronem ipfum nihil przter
fabellas:quibus ociofas auditoru au icsdcledaret cdmctum ræ credant et nos pro
arbitrio nodro quz dicimus ottu uia finxilTe exifiimcnt. Qui quidetn fi quid
poctz fint: fi quam eorum origo ue tufia appareat fecum teputentifi q magna/q
uaria dodrina plurimi in eo artifii< rioflorucrint confidcTcnncogoofccnt
profedoid quod grauil Timorum PHILOSOPHORUM iudido comprobatum uidemus nullum
efie feriptorum genus : qui autmagnitudine cloquentiz.aut divinitate iapictiz poetis
pates fuerintr Qua quidem ce ARISTOTELE virum excellenti ingenio et doctrina
pofi PLATONE om nino singulari motum crediderimrut eofdem prifds temporibus
theologos poe tafi} fuine a£btmet;Et profedo fi poesis ipsa quid sit
diligentius inturamur: fad k erit nofle non cfle illam unam ex iis artibusrquas
noflri maiores quoniam reli quis excellentiores funt libctales appcllarunnin
quarum una altera ue fiqui 0 o lucrunttin maximo funt femper pretio habiti:fed
cfi res quzdam diuiniortquz universas illas compledcns certis quibufdam nu
meris aftridatcerris quibufdam pedibus ptogrcdienstuariifi luminibus ac
floribus diftinda quzcutp homines qjotnt quæcn norint: quzeu contemplati
fuerint: ea miris figmetis exoractr atip in alias quasdam spedes traducattut
cum aliud quippii multo inferiusimul (09 humilius narrare uideantur:aut cum
metas fabellas ad ceflantium aures ob kftmdas ludere credantur:tum maxime
cxcclla quzdatfic in ipfo diuinitaris fbn tctecondita pTonunt: Quo quidem
gratilTimo errore tandem animaduerfo au ditoc non Colum in fummam rerum
cognitionem deucniat: fed mira eriam uolu ptatccz figmento pctfundatuc. Quam
quidem temdiuinam potius s humani f iii fn. cfle cu! potius f Platoni
credidcrimnilr rnim in lonr dicit pot ffm non arte yana tradi;f<d divino
furore npftras tnentesirrepne.ln co aurem qui phxdrua infcnbitur/cum tria alia
diuini furoris genera expliraflet/quaitum furoretn quc poeticum elfe
uult/huiurcemodi([ni fallor^fentcntia exprimir. Rcfeit enim da
ibcxleftibusredibusucr farcntur animi no(lri/ et cius harmonix quxinxtema dei
mente confiftitiK eius quxcxlorum motibus conficitur/illos participes fuit fe.
Verum cum deinde monalium rerum cupiditate degrauati propterca ad ia feriora
iam deuoluti corporibus incluti tint:tunc terrenis artubus ac monbodia membris
impeditos uix eos concentus qui humano artiHno comparantur auribus padperc
poflerqui et Ii a cxledi harmonia longe abfintinihilominus quoni om ucluti
fimulacra quxdam ac imagines illius funt nos in tacitam quadam ex Icftium
recordationem inducuntiacardcntiifiroa cupiditate ad antiquam patrw am
reuolandi inflammanciut ueram ipfam muficam/cuius hxc adumbrata ima go lit
pnofcamus.interim uero quo ad pemiolcdilT mum corporis carcerem noa bis
licet/bac noftra illam imitari cdtedimus non uocum modulationibus ueluti
uulgares quidi et leviores mulici cofucueruntrquos aunu frufus demulcete posse
no negauerimtquicq aut prxterea prxihre posse no cocedor Sed grauiori quo« dam
iudicio diuinam harmonia imitati/ pfundos inrimof mentis fenfus elega ti arminc
exprimutsat divino furore concitati res frpe adeo mirabilesiadcoq fupra humanas
uires cofticutas gradi spiritu proferunt: ut cum paulo poft furoc ille iam
refedetitifeipfosadmirentVat obllupercant. Quapropter non folum auribus adulant
ifed fuaui nedarc et diuina ambrolia mentes demulcet hi igic diuini uates
funt/& faai mufarum facerdotesihi iure optimo fandti ab Ennio ap E
elbnt": his folum diuiniiuscocefl'umeft/ut carmine modo iocude
fuauiteripla entitmodo grauiter alteq; furgetitmodo uchemeti impetu ruerirmodo
in leda ti amnis morem fluetiinonunq copiofe exundantiinonunq breuiicr atqt
copref fef gredicnti quocui uelint auditorem rapiat.quiobrcm quonia diuimor
uche metior^ in iilis spiritus infurgitiab huiufmodi ueheroeria uates
appcllant. Grxa dautipfos poetasdixeruntteo quod apud illos facere figniriut.
At dices fonafle none 8C reliqui feriptores fuo libto poetx id eft effedores
iuie dici poiTunt ( poflunt illi quide. Veru quoniam hi foii et dicedo limul et
intelligedo ni reliquos oes longe fuperant/nomen id quod oibus feriptoribus
comune etie opottuitsucluti fuum ac pprium fibi uedicauerunt. Et piedo quicuqi
uates boc noie digni fueriitiii fupra humanamuim aliqd pofle uili funticuius
rei teftimoe DIO elTe poflunt prifei illi uiri:quos poetas fuifliecoflatinam
apud hebrxos Moy fes uir bello inuidus:qui 6C xgyptios ab xthiopibus SC ab xg 3
tptiis hebrxos lib^; rauitmdne cius ucrlibusiuerlibus enim uolume cofalplitiocm
diuinitate cofai plitiocm diuinitate coplexus cft.uir adeo prifeus/u t cum
odoginta iam natus an nos iudxos e leruitute educeretrCecrops athrnis r aret.
Nam qux ea fint qux Idumxus lob fuiscanninibus madauit:ormine ex iis
chriflianis qui paulo dudi ores babet latere puto. At hic ut ex libro fuo
coiedari licet tertia xtate poli iftæl tutPcftincc nuc {>fcqr quata qliaue
fint qux catminib^^Oauid regis:q d^iiJii Si Jonumis i qux dcutctonomiuquc Ibix
catico codnent" tEgregiu dno inudu cotitinuab dekiceps ferie r<rfiiper
rctetitum: ut iion modo poete: verum exteri 9uo(^ rcriptorcs quicutK remaliguam
maiorem litteris mandarent: eam ua tiis Hgmentis/uariisfigurarum integumentis
obfcurarent: putabant enim fo teii negodumdifibcilius ccdderent: ut fi: gux
rciip(i{rent: maiorcmeflent dignitatem audoritatemc^ habitura: 8C 9U1
percepiffent: guoniam non fine la^ borc at(^ induftria id afreguerenturtea
pluris elTe faduros.maiorem inde uoluptatem percepturos fi guz ipfi tenerent
minime fibi cum indodis commu ciaclfent.Hac igitur ratione a fandis facrifi^
rebus profanos arcebant non inuidiamoti sed ut aliquod inter follertem at mentem
diferimen appareret: cum non idem ociofusguod studiosus affeguetetur: sic enim
dC premia guz dodis debentur folis illis proponebantur exteri ut iifdem artibus
quando leKguis noD prohccrent niterentur fummopere accendebantur. Difficultate
enim inopia rei mortalium ingenia acuuntur: uindt onmia la bor impro bus: et du
ris um ens in rebus egeftas 2 Quam guiiguam feribendi ratione grxid
guoi^lccutimntfguortim et Orpheum thracem:& atheniefem museum et thebanum
Linum antiguiflimos fuiffe accepimus: Verum Lini Mufei^ uiz uciligia eztant:
Orphd autem poemata in quibus multa deui diuinainecpau ca dererumnatura
continentur 2 ad eam quam diaimus formam confcnptitaf fe/fadle efl cognofeere 2
de reliquis uero qui deinceps doruerunt/nihil dicam: Fabularum enim figtUenta
quibus aut deorum/aut rerum naturam /aut ea gu» ad uitam et mores pertinent
obfcuriusquidem sed maxima cum dignitate exprimunt: rem manifeffam reddunt. Qua
propter cui mirum uideatur: fi otnnisxtas:omnesnationes. Omnesguialigua
ufguamdodrinacxcelluerint: poc tasfemper maximi fecerint.Nam ut reliquos
adprzfens omittamq multos q maximos in philofophia locos Aristotele tanms uir
poetarum tcflimonio cot roboranquibus quidem nifi tatu tribuifletmunqua netpde
poetis duosme^ de arte poetica tres libros accuratiffime confaipfiflet. Quanti
autem hoc bomi num genus PLATONE fadat: ipfe in libro de re.p.fadle offendit: q
uoniam n ihil uei jbementius mentis intima penetrare/qua poefim affirma. At
dicet aliquis no ne in libro de legibus idem PLATONE poefim reiidendam
ccnfctmufquam ille hoc. Sed eam rdidenda dmonet: qux more tragico pturbatos
animos imitatur;qux uee to laudes canit deoru:patria inffituta defcribitimores
edocet: probosuiros extol ]it:iroprobos deprimit/ædpiendam iubet. Deni nonullis
in lods aliquod poe tarum genus uitupetari ab hoc philofopho inuenias. Poesim
autem ipfam qua donout diuina mex tollit quas quidem res cum diligentius fecu
reputauerint qui confilium noftrum damnantifentetiam illos fuam immutaturos
exiffimo: qui tamen si nos carpere uoluerint: potius temeritatis
arguantiquoniam ea qux fupranoftrasuires funt/aggreffi fuerimus: qua aliquid
quod Maro non uidc tit 2 nos uidif Te putent 2 Ego autem quauis non tantum mihi
arrogem: ut hu ius poetx diuinitatem fatis pro dignitate explicare pofIim:non
tamen inutile fii turum putauirH noff ra indufiria quantulacunc ea fit/dodiores
uicos ad tnaioif ra de ENEIDE demonftranda exdtar 02 qui cum nos non omnia
potuiffeintelli indigo oiK no otn&mq ioiufta aduerfus nos induti utbca ca
coi nim lutun erga Iiuiurcemodi dodris» cupidos adtadiS errata Uoftra conS gant
i ii qua detint addant t Qua quide in re non modo emendari me xquo animo fctam:
r<d ultro iam nunc omnes qui hoc polTunt ut id faciant uebemc ter oro. dam m
maxi me propriu m hominis p utem» 8t quod jpfe. uiderit U> ter aliis
oftendet er et qu od ne^t fiudipie adijj^ercum in hoc fibi Ipii in il lo
reliquis profuturus iitu o 6c uitam inftitui s ut fic quicquid in me efi
iiberalif fime effundamtfl Canullo mortalium quz mihi delint/fumere dedigner:ad
que autem nofha hrc potius qualiacun<p imt fcribamiquam ad te iUui^ime Fcde
tice:qui et Maronis pra; terca KeTos et udiofiirimusrem perfuetist et cum
reliqui iulue principes in eo omnem indufiriam ponannut quamaximos fibi
tbc£uitos comparent i auri^ at^ argenti aceruus magis magifi^ indies æfcatitu
maxu mam tuarum opum partem in mularum et eorum qui mulas colunt omsmen ta
liberalissime effuns: ut iam quemadmodum Homericus ille Agamenon coniidebat/fi
decem aliifibi Nefimesadeircntiforeut breui Troiam apturus eflett fienospro
comperto habeamus fi Itali populi non diam decem ut iliet fcd duos przteta
Federicos haberent t brevi futurum ut universa ITALIA alterz Athenz futun fitr
feddeczteris alio locoi Non enim in hunc fermonem hoc tempore uemmus t ut
quequam arpamus t fcd ut te fic dc litteratis hominibus meritum quamaiimispof
Tumus laudibus profequamuri qui quauisfolus ex omnibus qui in imperio
confiituti funt has parta tuearis : amen iu late patet tua in oes litteratos
liberalitas. Ut non pauciora ez a fiC poetæ BC ontorat et om niuffl rerum
feriptora prouenturi fintsqua ii fuerint t quos olim Nicolaus lUe quintus
pontifex mazimus:quem omnes uidimus fuis pulcherrimis muneris bus/ac maximis
pretniisprouoauittqui quidem tuo beneficioad ftudia czdta ti:8t fibi gloriam fua
dodrina fua eloquentia ucndiabunt.6: te ulem roufape E atronu etiam tuc cum
multorum principum qui et nuc uiuunt/& olim regna« ut fama fepulta iacebit
in xtema femper^ recenti memoria uiuum retinebut. Veru hæc quoniam omni luce
clariora fu Dt; longiusprofequenda non cenfeot Præfertim cu ipfa iam ra
postuletaut diuinum dodimmi uiti Baptiftz Termone ego quantum memoria repetere
poteto Tuo ordine referam.Ille enim cum bci> ne mane ad confuctum locum
ueniflemus : 8i min audiendi cupiditate inflam mati ab eius ore Tummo cum
filentio penderemus huiufccmodi principio dil/ putationem exorfus cfi|£)um eius
poctz mentem tibi Laurenti aperiri cupias r qui uel ex omnibus re^onibusaquarum
babiatorcshifioriacognofant suci cxotnnibus lzculis squkadnofhamur memoriam
acriptorum beneficio per uenerintsfi non primus primo tamen par æqualif (^
exifiatsno poflfum meo oea tionbingreflu tantzrei magnitudine non penitus
pctturbaii. Ncmo modome diocri fit dodrina imbutus hunc uirn ui ac copia
dicendi ipfnn ut ita loquar eloquentia fuperare unquam dubitauit.Nam
cumtraindidionefiue figuræ rrnt sive charaderasin quotum uno fiquis excelluerit
maximam fit glot L - am adeptus. Quis non uidetnon folum in lingulis fuis
uoluminibus fiivmlos adimplet Verum paucis liepe uctfibtis ita omnacofudific
æpennL: fcuific/ut miro quodam temperamento u clotifidiucifcuoc Bcoocctu Mluaf^
t«a Z iotl dk\ M aia uFdi £ IIBD mu DCMI mat vtik lia cnlK lioilfl olis a tpai
KSoa 10 ik lOa B oulip icbui> nft» none flbfr qSiQ 011 ipiB’ bSlfimu
cottfiaabt incredibilefli auribus voluptate pariat. Ex quatuor aut riie& di
generibus ita opus contcxitiut ne ocio copiame negocio brevitas defit. Vi dcbis
quxdarua sic dtatc at<j ariditate placerctquzdamuetoueluri flofculis ib
lufhau at diftint Sa deledare.Sunt deni^ eunda eo attifido confirudaiut un#
deoiaadoe elocutionis genus exempla potius qbincrumas/fcriptum DulIum invenias.
Adde ad hæc cognitionem hifioriatai Adde quadili gentissimus and» quitaristt
oonmodonofliaturctuifed &grzcaru &omm nationu inuelliga# torcxriterittqptil
conjmuaborumobretuatiinmus fueritiq elegata quxdain Boua ex fe fotmaucritiqua f
pric omniu uim tenuerit. Prxterco ius duile: omit loiuspontiridu nihil
dicodeiurcauguratqus; oiaita tenuitaitnonab aliis accepilTeifed ipfc
conftituiOie uideatue. Hzc igitur et cotum limilia fi a me tibi ex« pheanda
pctæstac ut fifiguk» in eo poeta locos diligeorius apetiiem contende tes: 8C
operofum fimul et difiidle mihi negociu imponetes. Quis enim illa pub chetrima
cxcdlentiiliinaf/ac fummo artifido tccondita non ludicct: fed funt ta nicri a
multis iifdcm^ dodisuitis patefada. Quod aute petis id et multo diviiuuscftt
Kmagisinobrcuro UtetiKanullo quod ego quide rdam/badenus fua ferie
patcfadum.quod ne gtimaricus nc tbetot nouerit.fed fi ex intimis FILOSOFI
arcanis eruendum. Vis enim nolTe quid per fua illa enigmata de Æ
ncæctrotibusidc dus hominis in italia profei^one fibi Maro uoluerit.Q^ua qua
(untnonulli/qui di ea quæ paulo ante dicebam promaximb admirentutt at^ in ipfis
fuma abfolutam^ poetx laudem contineri putent: nihil maius in eo uate fuicent.
Quos tamen fi roges quid fibi in ea te VIRGILIO perficere uolue riti
Hometumimitandu fibi propofum eafibtmabut: Addent^ ne^ ingeniu ne dodrinamtquo
minus id pilare pofTet fibi defuifreiQ^uod nobis cu dederint fuccubat penitus
necefle efl. Habemus enim ^ut gramaiicope iiinita pene tutba omitta multoseofde
grauifTimos PHILOSOPHOS tqu i Homerii ocm zgypriopi dodrina haufilTctca^ more
illote uariis hgmetis adubraffe cotcdat. Qua in fen tcnria nili ARISTOTELE
fuiiret nunqua homeriaru ambiguitatii libros fex scripfif fet. Na quid Balilius
Bi dodrinz magnitudie/K mo^ fanditate magnus coo minatus de homine
fentianfacileefi iudicare:qui tota Homeri pocfim laude/ uittutis continete
dixit /fccutus ut puto Anaxagoram Claxomeniiitqui quidem idem de hoc poeta a
Sirmauit t Arcbefiias ucto mediz academiz inudor tra OMERO tribuitiut nunqua fe
iniedu tecepcritiquin prius aliquid ex eo legerit: Sed et inlucem le ad amauum
ite dicebatiquo hin dus legendi maior copia daretur, yctum quid reliquos nunc colligamtcum
unius PLATONE testimonio nihil fit, quod probari non polTitlls igitur in eo
uolumine quod de summo bono scripsit omnes artes huc diuinz fiue humanz illz
fint in unum Homeri poema uciuti r in proprium receptaculum confluxifle
afHrmat. Quamobrem animaduettens Mato dodrinam huius hominis ex egyptiorum
sacerdotum fontibus bauftam fimillimamcum Platonicist quorum Qud iofifTimus
fuit rauonem babere eam uTadeo admiratus dl:ut idem in fuo ENEA efficere
uolucrit : quod ille antea in Vlyxc finxerat^ Q_uaproptet pulcherrimis
poeticif:^ figmentis eum nobis unw i^oiinai qui pluri, a^ aux^nis u itiis
pauwim expiatusue dckeps 'ir»v I f •*/ .«MI inr ; iRft. mitis uiituHbiu
Illuftratus id quod fummahotmnibdliæStquoiI^ tufi et pl ip6t/ tatnnlal^ equnec^
VcTdcu illud mrera diuinanunfpcca msnullusafTequii latione conlidcre a PLATONE
didioirctylimul SC illud didicit co antbt minime perueniripofle/q animi
nofhiuirtutibns illissquz deuiu K moribus funtex piati penitus reddantur. Cum
SOCRATE i pfe puru impuioiittiogetc fas c$/cfle neget. Quapropcet non
folumflnes bonoru nobis miririceezpreiritt Verum etiam qua uia qua ue ratione
eo cuadere tandem homini liceat demonftrauitt Ne qua pars eius philofophia; qui
gtxd ethicen/nos de vita et moribus nomp namus: prxtermitteretur:in ea enim nos
nihil aliud quammus nili primum bo notum malorum^ iincstdeindeof Scia
quibusueluti uia quadam ad eosdem ducamur. Laboriofum omnino negodum/at^ omni
difficultate plcnum: divinum tamen et quo uno foelix limul atip fapiens homo
effidaturtdeo^ iungaf Soli enim fapienti fas eft ufi adeo deo c6iungi:ut nihil
quod feparcr/intercink ce poflit. Deus enim ueritas eft .Q^uis aut nefdat qui
uerum mente non pettin gat/eum lapientem efle minime poiTet^os autem cum
quatuor lint qu 2 in feru ptoris mente aperienda inue(tigemus in rem nolfram
futurum puto: ut certos ia terminos drcufaibamus: quos in poeta interpretando
egredi non liceat. ES igitur cum id quod geffum Iit quxrimus: quam
hilforiamappelbnt/ut cum le gimus apud Matonem haud ptocul inde dtx Meda indiue^
qoadrigxdiSa lerant.C^uxrimus itidem non quid geSum litifed qua ratione geSum
nt:ut eS illud At tu didis albanemanetes. Nam eoloco dcmonfhat propter
eadifcerptu a quadrigis elTcalbanorum regem /quoniam illein fide non
manlilTet.hic gta&« dethimologiam dictuit. Quxrimus et tertio in loco an ea
qux dicantur pu^ gnantia inter fe lintr Alibi enim didt ChriSus patrem fe
maiorem efle:alibi ego &pater Idem fumus. Quapropter cum ita interpteumur/
bxc ut minime intec fediiridereo ()endamus. Analogiam sequimur. Interpretamur
postremo aliquod per allegoriam quod tunc sit cum non qux uaba SIGNIFICANT
INTELLIGIMUS sed quiddam ALIUD SUB FIGURA OBSCURATUM. Scribunt poetx Amphionis
lyra motos m lapides ut fua fponte in thebanorum moenium flruduram coirettper
quod figmentu quid aliud intelligimus:nili fapientillimi viri eloquentia esse
dum eifer ut BOEZIO populi qui hadenus ad omne rone ueluti lapides Supidi: K
aduetfus oem humanitate durilfimi czi(ferent:e fyluis ac luflris in duitatem
uenirentrac poSremo legibus qux ad comunem ufum latx cfTennultro fefe
rubiicerct. Nos igitur reliqua tria genera hoc tempore omittemus:at(^ in ipfa
fola allegoria uet fabimur:ut quid per Troia(n: quidpCTxneam:quid per ITALIA
reliqua^ huiu& modifibiuelituideamus. froixigit" oritur ENEA rperquautberedeut
puo to prima bois asutem intelligemus.in qua cu ro adhuc ois cofopita (lufolus
fen fusregnat: At ipli mottales/quia ea xtate fapientia ne furpicaot' quide ea
fola fibi proponut qux philofophi prima naturx appellat. Ni cu oe aial (ibi a
natura comendatu (it:in primis feipfum diligit:deinde o^s corporis partes ita
integras: ualidafip hne cupit ut ufui (imul fit pulchritudini fibi (int: maxime
autem uohi ptatibus demulcetur flc quauis animum fefimul corpur^efTe
intelligattat Utru faluum efb cupiautamen in iis qux in animo apetenda funt/
quoniam BOO dbm plane ilhcog Oolat minus laboratsea autem quz corpori
corporeilm uoiuptanBus conducunt/anxie expetit. Sunt enimflbi abipfoortu
iamnotissima. QuaptopteiT cum in hac zutcnaturxui potius trahamur/g nofharum
adionum domini efTeualeamusmel minimum uc omnino nullum uirtuduw do^ locum
relinguamus:cum que agimus eanccuoiuntariaflnt: neccum de ledu aliquo fiant.
Ita in puero virtutem e(1'e nemo dicet. Verum ubi iam pro gtcflu ztatis
rationis lumine aliquo illufirari indpit mens noftra s tum demum tanm in nobis
conlilii apparet:uta prauisreda difcerncrcualeamus. Eft enim iam ad illud
PITAGORICA litterxbiuium pcrucntum/fic iatnuitzne Tciuseiton utcil apud P um.
Deduxit trepidas ramofa in compita mentes. Vnde cum di fceflciimus nccefle
efitut uel reda pergamus : uel in finifira deiledamus. Nam quz deinceps
agimus/quoniam ceru quadi ratione agimus/fi reda fuerint uit tutitfin contra
uitioadlcribuntur. Troiz igitur 8t Æneas limul fit Parisa/un tur. Verum alter
quoniam Venerem Paladi ideft uirtuti f uoluptatem ante« poni neceife efitut una
cum Troia pereat. Alter autem ducematie Venere fe ab omni incendio explicat.
Quod quid aliud intelligamus/nifi cos/ qui magno amore inflammati ad uen
cognitionem impclluntur omnia facile confer qui pofle. Qua propter Venerem
diuinum amorem rede interpretabimur. Sed tu LAVRENTl ncfdo quid iam diu uclle
dicere uiderisiCupio quidem inquit LAVRENTIVS t Ni uerear perpetuum tux
disputationis filum intec nimpæ.lmmo potius iflo modo inquit BAPTISTA: Nam cum
uniuerfus hiefermo non ad oflentandum ingenium neq; ad gloriam comparandam a
nobis infticutus fit : fed ut honeflifiimx- uoluntati tux obtemperem: fit fi
quid in me dodrinx efi/id libenter cfiFundam : interroga : inter peilaiobiice:
confuta pro arbitrio tuo.Hac enim uia id quod quxrimus verum dilucidius
apparebit. Vtar quod mihi permittis arbitrio inquit LAVRENTIVS utrum id non tui
confutandi sed mei erudiendi caula. Miror igitur cur tu Venerem amorem
interpreteris eum prafertim amorem : qui non modo cadus verum etiam divinus
fit. Ego enim Venerem non folum apud poetas : fed etiam apud reliquos
feriptoresita fumptam uideo: ut per eam nonnifi maris foeminz^ coniundionem
fignificarc uelinr.hinc illud Terentianum, e Cerere fit Bac chouenæmfrigefceretEt
ipfc in bucolicis: Parta mez uenerifunt munera. Quapropter fi uenerem pro
huiufce modi'coniundioneponas:quxbadenua dixidi/ea omnia inter fe pugnate
uidebuntur. Sed eft fit aliud qu^ nifi tu mi< ili petfpicuum reddas ego
minime explicare ualeam. Qui enim fit ut cum duo fintuiri Æneas at^ Paris:
Alter quoniam Palladi Venerem prxponattnecefle fit ut una cum Troia pereat :
Alter ueto quoniam prxeipienti Veneri obtempe reriomne periculum incolumis
cuadat. Ego enim non uideo cur fi bona fit Ve nus Paridi noccat:fi mala prqfit
ENEA. Qux quidem dum cogito/in eorum potius Icntenciam labor:qui rem omnem ad
eam flellam qux hoc nomine ap pellet'':flt ad ipfam bidoria referut: Putat enim
qd* te no fugit/qua hora a Troia ITALIA versus jificifcerct Æneas:librz fignu
qd* domiciliu ucnetis 6ad nfm hoc hcaifpcpu afiacdifli^lpfam Y^ete in medio
czlo loui fuide roniundam. Quibus oibus poftendebat" foelidtas illi
tegtia^ per muliere peruentufoioJo' uem enim regnU ptzeflc non ra odo OMERO
SIGNIFICAT qui reges ; id enim eS a loue nutritos rcribit. Sed et mathematici
ide ditant. Salutareenini omnino Itduse Qsquonia inter Saturni frigus K Marcis
ardorem colloatu opti moeemperamento Iit: 8i propterea eundis euentibus
profpcrum. Nam cum ui tam noftram praxipue sol et luna gubernet: iccirco
lupitet omnium nobis fa luberrimus eihquia foli per omnes numeros/iunzautem per
plurimos coniuo dus eft. Refecunr etiam in initio mundanzfabricziouem in ariete
dotniciiio tuncafcendcnte fui/Te. Volunt illum inducere
leges/caliicatem/mirericordiam in egenos K calamitate opprelTos. Veridicos
homines fadt/& vere amicos fine fraude fine dolo: Saturni fzuitiam frangit
fiCquzcun^ ille mala infert:hicaut tollit aut minuit. Quapropterfcite Petii us
Satutnumip grauem nolito loue frihgimu s una: Oeni^ fi in alicuius ortu fe bene
habeaticum ille hominem for tunatumreddit.bfinimehzc dilpliccnt inquit
BAPTISTA. Sunt enim ex 15 ma dodtina eruta: 8C hifioriz uehementer accommodata.
Verum cum omnis nofira difputatio nullam hilloriz ratione habeat i Sed eam qui
totiens gtzco uabo allegoriam nomino/exprimete conetut/non uideo cur ea qua
adhibui in terpretatio iure amitti non pofiit : Si enim iis omilTis quz de ENEA
deqj cztctis troianis prifei faiptores tradidere/pro arbitrio licuifiet poetz
non modo finge te:fed SL peruertere et addere et fubtrahere.Si deni^ nulla
hifioriz ratione liabi ta id folum tentaret quo pado per ENEA cum nobis uirum
informaret: qui ta dem fapiens beatufqj citet futurus/nonueneremfortafiefed
cupidinem aliud ue numen pofuiflet. Sed cum ita poeticum figmentum profequi
inSituifiet: ut tamen ab hilloria non difccderet:cum Ænez matrem fuilTe et
exilii ducem naviganti filio fc przQitilTe Vennem Icgil Tenfuit cx iis quz
aderant res perficiedat non autem nomina fingenda. Hoc enim plus negocii poetz
cll qua reliquis qui alio figmento rem obfcurateuolunc. Illi enim ab omni
hiftoria foluti pro arbitrio ea cominifcuntunquz magis rei fuzjpromendz
quadrent. Quodut ! )lanius teneas/unum de multis excmplicaula proponendum
cenfeo. Placuitil I primo huius fabulz audori ollendcrc quz in tempore ex
materia gignuntur: ea omnia in interitum cadæ quatuor dutaxat clementis
exceptis: quz principia (unt oibus rebus generadis Duos igitut comentus ell
deos Saturnii at Opima et illum temporis fjmbolu obtinere uoluittquod gtzcu
nomen indicat. Chronos enim qui Saturnus ell ab eo fubtrada harpitatioe
deducifrquem ipfi chro non appellant. At quis ntfdat tempus grzce chronon dici.
Per Saturnum igitut teropus: per Opim fiuerhcamterram intelligit. Addit deinde
Saturnu pmnes quos de thearufccpilTct filios uoralTe prztcr loue lunonc
Neptunnu Plutonem. Qua fabula exprimit omnia quz ex materia funt prartctipla
quatuoc elementa tempore conteri: at in interitum deduci. Quorfum igitur hzc ne
reliquum fabulz profequar : nempe utintelligas licuilTe huic homini pro
arbitrio quzeum^ uolebat fingere: ut quod de rerum procreatione sentiebat:
commode exprimeret : cum nihil aliud prztcr phyfices particulam fibi
propofuiflc. Maroni autcih longe alia rado cfi: qui cum ENEA res io laudem' I
II Litxr tertius AngulH ezoritatidas t ft librum iprum omnibus
poeddsluminibasitluftrandum fibi fumpfiflet t non iis qux ipfe uio ingenio
digeret t (ed iis quz hiftoria porrigit banc fuprcmam ingemi fui laudem
comparat. Mirus profedo uir qui non ex op tads fed ex datis ha opus intexat :
ut cum hiftonam minime deferat :pet eam rame illædibili integumento humanam
fcelicitatem exprimatiHabcs^ut opinor^qua ratione uenæm pro diuino amore ponæ
coadus iit. Quod ita tamen rede pro cedit < ut ni£ ab iniquis reprehendi non
poiTit. Videmus enim Platonem in eo fa mone quem phatdtum nominat :
Aphr^iten/quaic nos uenæm nuncupamus: oqn lafouololum sed et diuino amori
ptaxiTci Verum quam uenerem piatonie cua poeta Ænez matrem eife uoluerit :
faale intelligemus ii quzdam paulo altu uscx ipso PLATONE repetamus.
PauCmiasigiturin fympofio duas ueneres comme morat/aketam czlcfiem vulgarem
alraam. prinum autem czio natam refert: cui nulla mater iit. Quod cum lingit
eam intelligentiam iignihcat/quz in angeli me te poiita amore ingenito ad dei
pulchntudinem intelligendam rapirur/quam quo numprocula bomnifflaterizcon
fortiolitiinc matre prodiidam dicit. Secudam uao uenæm mundi animz tribuitiita
ut patre loue : matre uero Dione eam na» tam feribat. Manat enim ab ea ui quz
in anima mundi eft : et uim creat quz infe« hora bzc omnia gignat et mundi
fyluam fubeat: Vtra igitur fibi ingenito amo ce rapitur czlefiia ilU ad dei
pulchritudinem intuendam : hzc uao ut eandem pul chritudinem e fylua conforma.
Sed hzc parum ad rem. Animus autem noda cum&ip Ge similes quafdamuires
habeat inteliigendi at y gignendi duas itidem ueiiera habædicitur/quas gemini
comitentur cupidines. Cum enim corporea puichnmdo oculis nodtis obiicitucrmcns
noftra^quz piima uenus eft}eam non quia corporea litillcd quia limulaaum divini
decori admiratunar diligitiea quz ueluu uia quadam ad czlos effenur: Gignendi
aurem uis: quz fecunda uenus ell formam gignæ huic limilem concupifcir
uapropter uterqi amor iure dicitur utaltcr contemplandz altergignendz
pulchficudinis defidcrium fit. Nemo igU tur nifi totius rationis expas fit duos
iflos amores damnare audebit t cum uta qj humanz naturz neceflariusfit: Nerp
enim diu efremortalium genus finefo bolis propagatione t neij ruifus beneefte
fmcueri inuefligatione potait. Prza ttantiuri igimr illa ucnæ duce in italiam
perucnire potuit zneasi Ac dices cui hzc fecunda fi bonacfl paridi nocuit: quia
illa male ufuscfl. Vir enimgignen di autdior quam reda ratio didatfitin ea re
plus quam oportet occupatus /in Ibiis corporas uoluputibus meretur. Quo fit ut
6i primam quz ad fummutn bonum dudt omninn deferat : et fecunda pcffime
abutatur : proptæarp in om nes animi petturbanones incidat: ueritater^
defpctata mifaq^ efifedusin omne indignitatem dcfccndat Efi ut dixi diuious
amor fi Platoni credimus dcfideti« um redeundi a corporea pulchritudine ad
diuinam contemplandam: Non ta uencum diuinam defidetamus eam quz oculis
pcrcipitur/contemnimus.Nam qui aliquid appetit hunc illius quom rei : quam
appetit imagine delcdari ne« ceffe cfi. Verum funt quidam ita hebeti ingenio:
ut mentem a fcnfibus nullo modo feuocate poffint: hi ueiam pulchritudinem non
norunt. Huiufccmodi igitui amot adultctinus cfl / et a uao degenoans: quem
lafduia ac pcocadtas frtnpff cotnit3tnr:quem diffiniunt cupidinem eius
uoluptatist que e cotpdo rea Forma percipitur rrede qux dicunt cum ardorem
animi in fuo cotporetnot tui in alieno uiuenns i quod fecums poeta quidam dixit
J, I Plato ucio ait illum natum ab humanis morbis follicitudineqi plenum. At quis non uideat illum nerp
confilium in fe nc modum ullum habere. InefTci^ in coiniurias/furpi# dones/ ac
reliquas illas omnes peftes : quas fidelis Feruus Terentiano phzdtix prudenter
oftcndit. Habes(urputn^dupliccm amorem verum illum fidiuino: de quo paulo ante
dicebam /& hunc falfum et adulterinum: et qui uetoamo ri talis fit qualem
aut amico adulatorem: aut medico coquum efifeuidemus: cui quidem cum fe totum
dedidiffet Paris uiia cum Troia periit. ENEA autem cz lelii illo duce paulatim
ex troiano incendio ideftex corporearum uoluputum ardore fe expediens li non
reda nauigatione id enim humanz condidoni : aut nunquam aut raro conceditur: ut
eodem rempore licfiulcitiam exuat. &rapiens efficiatur: tamen poft multos
errores in luliamad ueram fapieutiam pcrucnit. Quam quidem nauigationem cumfudorislabonfi^
plcniliima fit/nemouna quam nili fummoillius amore inccnfus difficultatem omnem
perferre paratus fit penitus perficiet. Amor enim uerus/ut apud eundem Platonem
offendit Eriximachi oratio omnium naturalium rerum creator effat feruator : eo
emn fimilia omnia ad eaquz fibi fimilia funt perhenni concordia
ttahuntur.Effitt dem omnium maximorum artium magiffer. Nemo enim aut artem
inuenitiaut ab alio inurntam addifcit : nili inueftigationis obiedatio/K
difeendi cupido ia dtet uam quidem rem fi non apette offendit : obfcudus tamen
ut poeta rummos efl SIGNIFICAT noffer VIRGILIO. Cum enim in georgicis fe uen
cognidonem reliquis rebus prxponere dicat difficultatem ipfamfumma amoris ui fu
peraturum his ueibis demonffrat. Me uero pnmum dulces ante omnia mulas Quarum
sacra fero ingenti pnculfus amore Accipiant. Ingenti ergoamotela« boies
fummos:quiin factis mufarum/ id eff in rerum cognitione fubeuodi funt fe
laturum affirmat |0 uinus enim amor/nii aliud meditatur: nil molicurmui Ia alia
in re laborat t nihil tentat: nihil nititur /nili utiam corporex pulcbritudinis
afpedu concitus addiuinam nos pulchritudinem rapiat. Dum enim cor/ porcis
tenebris demetfi funt animi noffti diuin i non recognofeunt : nifi umbris et
simulacris quibuf damtqux fefenoffris lentibus obiidunt. Q^uam quidem rem non
folum exprefferunt prifei ex grzcia pbilofophi : in quibus Pythagoram EMPEDOCLE
DI GIRGENTI Heraclitum sed longe ante alios Platonem enumerare poC fiim tSed Bi
chrifhani ab eadem fententia minime difcedunt: Nam et Paulus et qui Pauli
auditor fuit Dionysius areopagita cxleffuac diuina : qux in fetu fus non
cadunt/pet ea qux fenfibus percipiuntur /cerni uolunt. Inxc eff igu tur illa
uera uenus: qux mentem noffram ad diuina erigit: qua matre quisoc Idat natum
xneam nomen abeo quod effxneos id eff a laude dedudum. Vb rum enim ad omnia
magna dCexccIfa natum: quis non fummis laudibus proe fequaturf Verum &ipfea
uolunrate delinitusdrca Troiz defenfionem laborat Xioiamco impdiuatuturztin
quibus, voluptates corpotex plurimum uigent/ Liba totius intoprctari licet :
prima enim >tate’cum ipfa ratio non dum fe exdtare : ft fuas ui CCS
EXPLICARE poflit / etiam qui magni at^ admirandi uiri futuri funt uoluptate de
mulcentur: prima naturas ueluri fumma admirantur: di quoniam diuina qux fint
nem nouaunt : beatiflimam eam uitam putant: per quam uoluptate frui lice at *
Hi igitur quid fummurn bemum rit: nondum compei tum habent: Veni cum illius
acquirendi fummo ardore inflammentunpaulatim bxc omnia qux dixi pri ma tiaturx
aduca momentaneai efle animaduertunt. Habet enim hanc irim ue tus amor : ut
paulo ante dixi ut mentem ucbementn exacuat : magifterep illi re cum
inuenieodarum paulatim fit t ut nibil eam latæ poflit. Qua propta egre ei llud
qi £Ulete poifit atuanton : Deinde cum nihil dfficik puta / modo re amata
potiatur : omnes labores tolaat: omnes difficultates fupetat. Hxc eff uenus
illa non uulgaris ; qux materix admixta utm haba gnendi/fed illa cxicflis ab
omtii materia remota : qux a mente noflra eft : ipfamq; mentem excitat;&
Iu* cem illi liiam nobis badenus incognita in node id enim efl in nofita
infritia oflen dit t fc^ deam &taurfeenim indicans fua diuinitatem
demonftrat: admonet non peme feruari Troiam id eft originem corporis qux
necefle eft ut pneat. Hxc eadem oftendit uoluptates cotporeas non Tolum ab ipa
lacena id eft a feipfts/ut in beftema difputatione diximus cotrumpi: sed ab
lunone a Pallade at a exteris di is: Nam deos Troiam populati quis ignoret f
Divina enim omnia uoluptatibus aduafantuc. Sed in primis Pallas. Hxc enim
sapientix symbolum obtinet. Sapientia autem non folum uoluptates contemnit:
verum eriam (fummopæ exhore ret. eft quod de lunone quifquam dubita : qux
quamuis regnomm dea ha be Oiiriproptaca in hxc caduca ac mottalia magis
ptopenfa uideatur: tamen cumlidmmes imperandi aipiditate nullum labotem pafetre
recufent t omnibus uoluptatibus bellum indiaint: modo eo perueniant unde
poflint reliquis impe* ritare: Deos autem minime uida ENEA dum pronoluptate
pugnat. Nubium cni Biteilebtis cnnnis ei ptorpedus eripitur. Sunt enim animi
noftri ita a deo æa diutfuapte natura facile omnem utritatem confequantur. Sed
a materia corpo* ea quam philofopfaifyluam appellant: omnia nobis mala
proueniunt.llla enim tardat heb^t at^ pemirbat mentes noftras:: at tenebris
obfcutat. Sioiim ex in fritia omnia uitia ptoueniunt: Quaproptcr et Chty lippus
et reliqui ftoici perturintiones omnes a fallis opinionibus oriri dicunt
:(^uodtamai longe ante feoferat MERCURIO ille: quem grxciob ingenii diuinitatem
Trimaxinnimappeihnt. Siigitur omnia uitia ex infritia ptoueniunt. Infrit ia
autem ex corpotea calu ginecft/ut PLATONE putat /erunt omnia uitia a corpore.
Quam caufam prxeipu* am fuH&idixerini / ut is quem paulo ante nominaui
Meteutius fyluam malignita temappella: fedderylua commodiordifputandi locuspaulopoft
dabitur. Pugnat igitur xneas pro uita uoluptuofa: illat demerfus deos uidæ
nequit. Verum cuminhuiufcemodi miferia non delit amor neri inueftigandi valet
ipfe amot mentem excitare: ut feco Uigens tenebras difaitiat:flt uideat quibus
numinibus Trcria cuertatur. Ducetp eodem amore pa medias flammas at^ hoftes ita
tutum anipit. Et profedo uolenti ad tes arduas profleifri / hinc mira
quxdam'uoluptatum : qux defoendx funt cupiditas ucluti flamma quxdam illinc
laborum difiS* cultatutntp terror / qui aduerfus honeftatem afliduo pugnet fefe
opponfit. Quz omnia ducente Venere Aræx cedunt. Nam niii amor abfit : netp ram
blandas oo luptatescontcmnere>ne<^ tam duras difficultates fuperare
pofTemus. Venit igu tur domum
ut familiam omnem componat : at^ inde ex urbe proficifatur. Ridit enim in fe
ipfum animus t omnef^ fuas uires : at<p uirtutcs gux uariz funnad
profcAionem / id enim eif ad ueri cognitionem quam Troix nunquam afTeque^
retur: fuo ordine componit omnia^ (ibi ex uoto fuccederent: (1 pater filium fe
qui uelit.Verum negat ANCHISE fe ex Troia difcefTurum» Hoc ueroquid (ibi ue lit
: (i me roges ego (ic puto. ENEA huiufcemodi parentibus natus efi: ut Venus
dea: ANCHISE mortalis (it : homo enim ex animo qui immortalis diuinufip eftiK
ex corporemortali Kcito in interitum cafuroconftactMmsigitur originem fuam
femperfufpicit: ad eamcp redire cupiens Troiam auidiflime dcferit. Senfus au«
tcm qui a corpore funt corporea incorporeis pratponunt. Hinc igitur alTiduum
atrox<^ certamen illud exoritur rpiritusaduerfus carnem ut noftti dicunt t
cum mens totum hominem ad diuina trahæ conetur t BC fenfus in potefiatem
tedige« re 8 C fibi obtemperantes reddere cupiat. Contra uao fenfus feculcnto
elementa rum potu ebrii / 8 C lahea obliuione grauati nihil nili caducum et
tenenum cupi» unr ANCHISE igitur id efi tenenus pata i 8 i ea qux a chrilHanis
uabo parum tri» tofcnfualitas appellatur 2 Troiam fedeferturum negat .Mauult
enim perire fen» fus / quam uoluptate priuari. Mox tamen cum filium omnemq;
domum t id eft totum hominem periturum audiat 2 cump cxleftibus monihis meliora
moneatur 2 mutat fententiam/ab ENEA^ fublatus exportatur : molliltitna enim bxc
at« ^ eneruata animi pars ad fummum bonum nunquam fat t fed i pfa potius
inficr» tur. Hxc de ancbife j ENEA autem cum iam incendii 2 armorumcp pericula
eua» ftlVct ; atep incolumis urbem e(Tct egrelTus : ingentem comitum afduxilfc
nouo# rum inuenit ad miransnumaumtqui quidem undi^ conuenerant animis opi» buf^
parati in quafcunt^ uriit pelago deducere tereas.t et rede quidem. Nani ca tandcmcferuitio
incendioi uoluptatum fumus liberatit e(f<^ iam animus redi
uaiqtinueniendiauidus/tum plunmx animorum uires 2 quxhadenus ignauia torprbant
:ucbementa excitantur2 8 C bene in(fitutammentcra quocunt uocæ uerit /
fequuntur. Quo quidem tempore ne a redo itinere omnino aberraret xneas / Iam
iugis fummx Turgebat luciret idx t Ducebattp diem. Eff enim ludBtr
uenerisfydust quodurfolem lunamip omittam 2 omnium quinque fteliarum quas
nolfri aratiles grxei planctas uocitantt lucidiflimumlitizodiacum autem odo ac
quadraginta diebus fupra trecentos perficit / nunquam a fole longius fex et
quadraginta unius (igni partibus difcedens. Verum/quoniam modo pcxcedit/ modo
TubTequitur 2 folem non eandem (lellam fed duas eife prifei crcdidcrunttpti mum
autem Pytbagoram extitiffe ferunt :qui in eo apud grxeos unum depreben derit
.Cum igitur folem prxuenit lucifer dicitur : uefperus autem cum fubfequi» tur.
Rede autem lucifer prxuius foli eff. Stella enim uennis/is enim amor efi ue ri
inueniendi / ei exoritur 2 qui iam uiram uoluptari obnoxiam deferir 2 dudt^ di
em 2 nam rationem excitat talis amor / cuius luce illuSrati uetum noffe
ualeamus. Apparet autem a
idamonu id eft a pulchritudine.Idos eoimapudgntos formam figaificat. Amor autem
apud Platonem pulchittudioisdefideri um diffii S, Quapropter in ipfo pudor nos
a turpibus auoc^: cupiditas ucro czcellen quztj boneiia rapit. Fertur igitur
ENEA duce m are exui in alt um incertus quo fata ferant ubi iiftæ detur. Quz
omnia non fine fumma fapientia a poeta ponuntur: facile enim cognofeit Troiam
relinquendam : et fummi boni princi' panun uoluptati minime esse tradendum. In
qua autem re fummum bonum coii tiatnondum cognofcit.lureigitur exui appellatur.
Nam ab eoquod habuit cie dus eft : ne^ dum id quod ucluti proprium poflideat
inuenit. Mari autem fermt quia animi nofiri quocun^ moucantw nulla alia re niii
appetitu mouentur : qui quam fimilis mari iit paulo poft aperiam ii pauca prius
de appetitu dixeto^ft igi^ tur fenfus et uis quzdam in animis nofiris t quam
cogitandi nominant : cui bono tum malorum iudicium a natura demandatum efi, Non
nunquam autem ita iudicat buiufcemodi uis : ut nihil prarter fenfus refpiciens
: 8L ueluti illorum illc« cebris attrada et uoiuptatis oblato ptzmio corrupta
quod pecudis bonum eft i{v fa hominis bonum decernat. Si autem eadem cogitandi
uis falutari rationis lumi ne illuftretur et eius norma dirigatur : non id
bonum eife iudicat / quo fenfus de mulcentur ; fed quod reda didat ratio: quod
uemm (implexi^ bonum cui iit ne« ^interire ne^ corrumpi pofiit. Cum igitur
huiufcemodi uis bcx bonum illud ucro malum elfedeacuerit excitatur in nobis
alia quzdam uis quz ad bonum afei Icendum / malum^ declinandum infurgat.
Huncautem appetitum omnes ap« pellant. Sed &, eum duplicem efle
oportetialtrtum qui ab eo iudicio quod folus fenlus fcdt femper pendeat :
nibil^ cum ratione expetat: alterum qui nihil omni no sequitur t niii quod
ratio prius pra^epent : primum illum libidinem : hunc fe eundum uoluptatem
nuncupamus. uaptopter erit appetitus quo animi honii num ad bonum afdicendum
maium declinandum moucantur redus quU demiiaratione/contraii a fenfu.Quaptopter
pulcherrimo enygmate diuinus Elato cum animum noibum ueluti cunum pofuilTet :
aurigam ilii duofep equos adiungit. Nam ueluti equis currus trahitur : iic animus
ab appetitu duatur. Fe.< mnt autem equi non suo arbitrio: fed imperio aurigz
a quo reguntur eodem pa do appetitus nihil ex fe agendum decernit. Sed quod iam
ab aii a ui deætu m eli fequitur. Quarc autem equorum alterum album
pulchettimum^ i at^ hono« tis cupidum : Bi qui non minis ui<^ / sed
cohortatione ratione regatur. Alterum nigrum inglorium et contumacem hnzerit ex
iis quz paulo ante a me de duplici appetitu dicebantur perfpicuum eft.
ExprefVit enim per bonum rationalem : per B^um ucro irrationalem appetitum quo
animus fertur: at<^ hzc de appetitu : quem quidem mari limillimumelTe quis
negaueritr Videmus enim mareftnuL» lis uentis uetbcretur fedatum tranquiliumtp
perdurare. Sin autem diuerfistun datur uentis: in geauiflimas
turbulentiflimaftp tcmpeftates infurgir : Sed hzc eadem in appetitu
dcprzhendastFac illum uacarc a pcttutbationibust nihil ni fi rede appetet : Fac
rurfus iliis uehementer uezari : quos iam ftudus quasuc procellas intuebere:
Quapropter illud elegannflime u^tio^ irarum 6)s d^t (ftu. Illud autem tibi
fortalTc occurren/ quod non bene iis quz diximus cohzrere uideatur : Nam fi
radonali appethufertur zneas : fi iam uitam uoluptu g iiofatn damnault t unde
nunc illud quod patnx liHota lachrimajupotfutnij^KliQ quit. Q_uod enim odifle
iatn coeperimus: id non lachrimantes: fed Izti fugcR fo letnus t Sed uoluic
Virgilius primum a uolupcatc ad uirtutem difcelTum demoo' I firare. In quo cum
temperati non dum fed continentes fimus : agimus illud qui> I dem t fed cum
diu uoluptati aifueti illius illecebris demulceamur t non nili zgte, ab ea
diuellimur : imitemur^ fenes tioianos: qui cum ELENA ut grxconun tro>
ianorumtp certamen fpedarct mcenia confcendilTet admirabatur cum (hiporemu
lieris pulchritudinem t ea uehementer deledabantur : uetum tantorum maltv rum
illam caufam eflie animiduertentcs : abeat dicebant potius Helena: quamp pter
illam pereat Troia. Quod ut plaiuus intelligas. Qucmadmodnm tordnk do uirtus
eft qua dura omnis ar^ afpera inuido animo ferimus: lic tempcran» tia aduerfus
uoluptates armamur : in qua quoniam iam habitum contraximus li ne ulla
difficultate aut moleffia negocium conficimus. Quod li habitus nem dum
contratSus Iit: Si tamen illud idem efficere tentamus t tandem^ effiamusfi
nitimum quoddam 6C uiriuti proximum nancifeimur ut nondum temperantes effedi
tamen abftineamus quamuis xgre et non line luda: Quz contmenna di citur in qua
li diu exerceamur : paulatim temperantiam acquirimus: htij uirtus id quod
hadenus uirtus non erat: fed ingrelfus ad virtutem. Hoc igitut intcrcft intcttempcrantiamfii
contincntiam. Namquam uisutrai^ idem przdet:continens tamen eo detenor eft quia
cum dolore ablhnetmec ctt fatis Armus aduerfus uoluptates Tempuans uero bene
uolens Iztufk^ abffinet. quod li itidem de ineo Anente intemperantem
inuelliges: facile ell uidere quanto a temperantia condoe da fuperatur i tanto
incontinmte ipfum intemperantem pemitioliorem elfe: I na continens enim quia
non dum in uitii habitu ell rationem difeemit: prindpiui Knct:pugnatm aduerfus
malum: fed tadem magnitudine cupiditatis et fui animi imbecillitate
uidusucluticmtiuus in feruitutem rapitur. Vetum uc qua; uctbts adumbro ea
exemplo exprediora reddantur t dicimus continenum a pruicipiofii ilTc DIDONE
quz quamuis Acnez amore teneretur: tamen adeo lunliter repuagnat utmori malit:q
pudorem uiolare. Incontinens autem paulo polf redditui cum
fororis oratione uida pudorem foluit. Prius enim fortiufcula adhuc ita
puagnabat: ut uidrix cuaderet. Deinde eneruats omnino pugnando fuccumbit.pua
gnatenim incontinens/ fedfupaatur. Intemperans autem in habitu uitiiconftitutus
omnem rationem amiDti ne pugnat aduerfuscupiditates: quin illis uo» lens
gaudmfqi obtemperat: quippe in quo adeo deprauamm Iit iudidumtut qdf tnalum fit
bonum rlTe dicat. Sed ut iam ad inffitutum redeamus: non dum tem' perantia
munitus erat zneas: nuper enim ea ratio in homine uluxcrat: ut uolupts tum
fordes intueri poffet: nei^ rurfus tempeians : aut incontinensinon enim io de
fe expedilTet. Sed cum hincilleccbrx uoluptatum traherent: illinc honefti uui
pulchritudo ad omnia excclfa cum erigeret/demuiccbatur quidem a uoluptate cam
feolibusfuauilTtmam iudicabat: non potccatip non zgte ab ea diuelli.51i da enim
adulatrix voluptas efi.uehementcr fenlibus applaudit: ut etiam gcQ’tolioiit
animi qui funt illa capiantur .lu cnim fuauiter nos irrepit aut totos pau lanm
occupctt Smgjt igitm comn ucac ft guis lachiimaiu taincta littcin tioiaiu ti s
h P U Ii 9 si Q lu ia K a» 10 k liu tic adi li] tu »1I» bi » m inii tta ip DOi
tUU) aoi pqai V» 'Z tiO*iJuti idtai am i&:l» oap jiua riKil apoi at(p tdib
;iup» ib 0f Libettmiiu Klinquittquonii c6tines. Quod H unam tcpnitii adcptua
fuifTn no lacbrimSs fcd lema reliquidet : po<ta enim non ipfum a principio
sapientem fingit:£C una uircure ornatum t (icd cum qui a perturbationibus
animum uendica» K cupiens fe paulatim a uitiis redimat t k poft uarios errores
in italiam id eft aducram fapicatiam pnumiat» Nam quznos de continentia dc^
incontinen eia diximusan quibus fenfus pugnat U ratioiuidiTim^
uincuntacuincunmr. eadem de reliquis uitiis ac uirtunbusintelligas mtn quas
mediæ funtaffcdio nes nullo adhuc habitu latis Hrmxifcdquz modo ad has modo ad
illaimpel lantiquisfortadeinuiu ciuiiiin qua quz ad bonum tendunt incohau
potius quam pctfcda lepenas non nulli uittutes nominarent. Sed profici fcatur
iam no &r Acncastuerum quo tandem exui pn altum feretur: Nempe in
thraciamre^ gionem patrue fininmam/fiC terram Matd confcaatamnnquanupn Polynco
ftoc holpitem fuum POLIDORO ut auro potiretur interemerati Erit autem aua
titia; fjtnbolum thtada.Nam ipfe paulo poft: Fuge littus auarum. Vnum cum
duplex auaritix genus fit. Eft enim auarus 8C iis qui inde rapit unde minime
con ucnitideis qui cui dandum eft ei minime dat.primum illud genus perthraciam
cxpdmimroi enim in illa Mars colitur -quisncldt habendi cupi ditate plurima a
mortalibus bella geri. Sed ne Polyneftor borpitisintcrfedots6( Tuorum bo» Domm
raptor quicquam expreftius quam auaritiam rapinaft^ denoubit Cur igi tur prima
inthraciam ENEA nauigatioeftrQ^uiacuma uolupute difceftimus at<j non dum ueræ
uirtutis habitum contraximus facile ex ilia in aliam cupidita«
tcminadimusiinfurgitip habendi libidoibeatilTimam enim uitam multi feade<
ptos putantifi opibus maximifip diuitiis reliquos mortales fupecet:Qua cupidi
tace inflammati non dubitant non modo nefaria: uerum etiam laboribus pericu
lil^ refcitiftima bella fuTciper e. Ingens profedo ftultitia:6i ab coanimo
profeda: qui et fi uoluptates contempferitcnihil adhuc altum furapete
poiTit.Habet enim auaritia pccuniz ftudiumiquam nemo unquam fapiens optauit. Nihil
enim illa mobiliusinihil quod magis fottunz temeritati fubiiciatar. Quapropter
rede Sa luftius auahtiam ita malis uenenis imbutam dixittut animum cotpufij
uirilc cf< foemineuquando quidem Si ad omnem humilitatem infimaTqi fordes
dcTcende tccogic:& inomnem crudelita temproreuili(Iimainfurgete.lpra enim
perfidia am pctiuriumip edocet:cot fraudibus: linguam mendaciis:manum
uenenis/fer.» to in aliorum pemitiem inftruit. Apud eam quid fandum efle
poteft: cum ho.*tes quoip qu Polydori exemplo docet poeta minime incolumes
fint. Nemi nem tamen mirari oportet fi Ancas fapientiz quidem cupidus minime
tamen ad buc fapiens in huiurcemodiuitiumprolapTus fit. plurima enim inuiu
humana Uidemusiquzquauis caduca momcntaneaip finntamen morulcs pro maximis
admirantur: quz quidem omnia cum ucnalia efteuideantipecuniz prz czte^ ris
ftudent.Q_uotus enim quifi^ repetitur: qui non putet quod genus ficfoc mm
regina pecunia donat t quis non totus commouetur : cum auditi Si b^ ne numatum
decorat fuadela Venus. Verum qui duce Venere fertur Si tna gnarum rerum amore
incenius cfi/pauladm errorem recognoliit. uitiumip abominans Xfaradz
auariflimutn lictas fugit, At^ cum iam fecundo deceptus i deinceps turpi Timum
mirerrimumep iudicet Apollinem: cuius oracula ue riiTima e(Te audient confulendum
iudicac: Retur enim (i ex illius dei ptxut pris uitam inftituat futurum. ut
mifet ciTe non pofTit. Qua proptei naviga donem in delum fumit: per Apollinem
autem qui fol cft: quid aliud quam lapientiam intelligemusf^Nam ut id omittam
quod ut fole eunda qux in lien fum cadunt illuftrantur:(ic lapientia
illuftiatus animus eunda profpicete ua. leat uideamus reliquam eius plancta:
naturam. Sed illud in primis. Nam cum Heraclitus fontem cælefiis luds appellat.
CICERONE ueto ducem carterorum lu« minum ea ratione dixit: quoniam fui luminis
maiellate præcedit: dixh itidem ptindpem dixit moderatorem: Nam SC ita eminet/
ut ptopterea quod buiut> modi folus appareat fol uodtetur : curfus
reliquorum recurfuf^ipre mode ramr. Nam certa fptii diffinitio eS ad quod cum
quaim erratica ftdia recc' deos a fole peruenerit tanquam ultedus accedere
prohioeatur agitur retro. Rurfus autem cum certam partem recedendo attigerit :
ad diredi curfuscon fueta reuocatur.Q^uapropter non iniuria et mens mundi cor
czliapri« fcisdidus ell:Quz omnianon ne fapientiz quadrant Non ne fapien^ tia
reliquas animi uires przcedit : non ne illis moderatur C Quin etiam li uim
huius fyderis diligentius aduertas iurc datur fapientiz dicetur: Nam ut a
Saturno ratiodnandi a loue agendi uim : ut a Marte animorum uehe« mentiam at^
calorem ædpimus; uta Venere deliderii motum fumimus: et quod loquimur atqi
intcrptztamur a Mercurio cft: ut deni^ a luna quod grz ci phyticon idcll
gignendi augendic^ uim habemus; (ic ipfe fol quod friamus: quod^ opinemur nobis
prxllat : Sed hzc de Apolline. Deli autem nomen S ipfumnon nihil ad rem affert,
grzce enim manifeflum flgnificat. Loca enim quibus fapientia przfidet : clara
femper manifefta^ fuat.Q_uod autem tot»> us infulz Anius imperet: qui et rex
hominuni et deorum facerdos iittnonca ret ratione : Sapientia enim humanarum
rerum cognitionem continet. Qua ptopternihilnouum fapienti accidere poteft:
quippe qui omnia iam percepo> rit : quam quidem rem nomen regis oftendit.
Anius enim didtut quali id elf (inc nouo. Hic igitur hofpitio Æneam fufdpit: SC
pio* fedoipfa fapientia animi nolfti aluntur. Veneratur autem templa : at^ ea
retn pia quz faxo uetullo conftuida fint.Nam quid obfecro te: aut flabilius im*
mobiliufi^ : aut antiquius ipfa fapientia deprehenditur : quam fapientiflimus
ille omnium bebrzorum S^omon ab initio Si ante fzcula creatam fxcula æa ta effe
uerilfime didt.Sed tu quid me o LAVRENTI fubridens fpedas.Non polfum inquit
LAVRENTIVS dodillimorum uirotum ingenia non admirati lztuf(|:quz a principio de
hifioiia decp allegoria dixilli mecu repeto :Q_^uis enim non obfiupefcat huius
poetz confilium .Q_uicum apud Cioatiumueri umlegilTetinDelo aram elfc Apollinis
genitoris: in qua nullum animal facrifi atur: quam Pythagoram ueluti inuiolatam
adorauiffe fetunt : legiffct eti^ am Sc apud Epaphum : Delon ne antea nem
pofiea tettz motu uexatam: femper eodem manere luo legiifet: et apud Thucydidem
non mirum esse fi przlidio tebgionis tuta infula femper fit : cum teucreruia
locotumfibi acccficrit Liber tertius coBtltiuafax Ieiurdetn firmitate: Cum
igitur bacc legilTet itafcnblt/ ut eodem tempore ex antiquitate hifioriam
eruatiponit enim Æneam Tolis przcibui deum uenerari:K templa antiquo Taxo
confirudæfTe/ficbxc cum ponit fimul ea affert quz PER ALLEGORIAM Tapientiz
conueniant. Dices quid in cacteris : hoc idem. Sed nefdoquo pado hic me locus
in quo hifioria non minus qua allegoria latet:mul to magis mouinSed perge
obTcaomolo enim mea interpellatione mihi ipfi audi endi cupidiffimo moleftiam
ex mora afferre. Datur igitur ab Apolline oraculu inquit BAPTISTA z Dardanidx
duri quz uos a fiirpe parentumzPrima tulit tel^ Ius eadem uos ubere Izto
Accipiet reduces:antiquam exquirite matremz Hic do# mus znez eundis dominabitur
oris:Et nati natorum 8C qui nafeentur ab illis. Q_uo quidem oraculo quid
diuinius excogitari poffit non reperio:Q^uid enim faomini salutarius: quid
conducibiliusefi: qu3 originem Tuam noffexin quam cu redire potuerit /tum demum
fit futurus beatiffimus: Dixit igitur pluribus/ne a poeta difcederet Maroxquod
grzci duobus tm uerbis expediutx qui omnium ora# culorum quz Apollini
tribuuntur maximum effeuolunt i«r</7>> V nofceteipfumx Verum ut haxea
nobis planius explicenturx Omnesquicuh^un# quam de fummo bono ferip Terunt
philofophi in eo fi non uerbis re Taltem con Ira Teruntxutbenebeate^ uiuere fit
apte conuenienterq; naturz uiuere t Verum ubicoiamdeuenturn efl/ut fit hominis
natura diffinienda : tunc innumerabi# les pemitiofilTimi^ errores emanant: cum
animorum nofirorum ui ignorata plufquampar efi corpori attribuatur. Nam cum ex
animo corpore^ conflare bomo dicatur. et alterum brutum/caducumt^ at(^ facile
in interitum pronuma Alter mcorrufmbiiis immortalis diuinuft fitxpaud omnino
ita mentem a fcnfi# busfeuocat: ut feanimi nobilitate imniortales cogoofcant:
corpufcp in nulla pene parte habendum cenTeant.prædpitur ergo Troianis ut eo
reuertantur de originem ducunt. Duplex autem illis origo efi.Nam Teucer
Scamandri cu# iufdam filius profedus ex creta infula in Phrygiam uenit; 62 una
cum Dardano Kgnau:t ; Dardanus autem prius SCipfe in Phrygiam ueneratatnon ex
creta: ut ille fed ex italia: nec mortali patre natusxfed ex deo loue. Veniunt
igitur am# bo in Phrygiam id efl in uitam: et pnmam ztatem quam perTroiam
fignificari di ximusxfed hic a czlo ille a mortali. Ad huius enim animantis
quem hominem dicimus compofitionem animus a cziefii corpus a mortali patre
prouenit.Qua propter cum primam nofiram onginem inquirere nos Apollo
iubeticuius ora# culum efl Nqfce te ip Tum : non quid corpus fitxquid ue illi
conducat inuefiiga# re iubct.Sed quid animus fit 8C quo pado fecundum animi
natutam uiuere fodi ces effepoflimus inquirendum mandatxQ^uam quidem rem ut
ezpreflius fignifi caietannquam didtxEfi enim animus fi non tempore/ut Platonid
uolunt digni tate Tua at(^ excellentia prior: Optimum igitur oraculum: Sed quid
prodeft fi illud male interpretatur ANCHISE. Hic mortalis Ænez parens omnia ad
lenfns referens ibi (edes collocandas cenfet ubi prima corporis origo fit.
quafl prima naturz non animi fed corporis fpedanda fint t Quaraobrem non ia
Italiam fed in Cretam enauigandum proponit: qua in infula multa mala Tubi# bui
fint Ttoiani. Nam cum (ummum bonum non iis quæ animum: fed quaa In.P,Vtrg.
M.AlIego. corpus fpcdcnt natura noftra ignorata reponimus necefle eft/guoniaft
illa pati> io po(Hnpe(lem/ac demum in interitum cafuraiint/ut non
bearirredmiferi fiu turi (imus:TuIerunt ergo prxrium ob ftuitiriam Troiani:gui
in italiam nauiga» te iulTi actam ptticrint. Si enim in italiam.i.in originem
animi redeant Troiam percipiunt cognitionem rerum diuinarum in qua fola
flabiles et manfuras feda inueniuBt ; Hic enim domus Ænea; eundis dominabitur
oris:Et nati rutorum et qui nafeantur ab illis. In æta enim nullum e(l Ænex
imperium. Na corpus ne^ fe nerp aliud mouet:fed iners brutum: 8C line fenfu iacetrnec
quicquara Ii ne animi auxilio ualet.ln italia uero imperium latepatet.Corports
enim domina tor et redor eft animusrin nullam^ nin uolens fauitutem cadit.
Cunda autem fue cognitioni rabiiciu Se enim pafe uideticum autem deum
cognofccie tem/ ptat fuz menris acie ad fuperiora erigimr. Colidaado oia
fpedat: Rimatut occulta. Videt abfeiitia:breuicp temporis momento uniuerTas
mundi oras anv bit:Defcendit ad interiora: Afcendit cxlum. Adxret deo: in quo
efl patria fua:Et ? uoniam imorulis eft hxc femper facit : Quapropta eius
imperiu eft æterna: ixcaprincipioqua uisdiuiniscflentmomtiprxcepris cognoicere
no potuerat Troiani: Nunc uao calamitates eipaticognofamt. Epimetheo quidem
ferius: Sed uidete quxfo quam admirabili ingenio reliqua profequaturt. Cum
pefie labo rarent Troiani danmatfuam oraculi interpretationem Anchifes.Nam
poftqui diutius debaccliatus eft homo dum fenfibus obtemperans omnem fpem in
rebus caducis reponit/tandem ufu Si experientia dodior redditus animadueftit no
fua« fifle acta Apollincm.i.nunqua pofleefte homines beatos ex iis qux mortalia
fntt Cenfaigimr alibi quxrendamfoelicitatenuVenmi non dum tanta metiris arie
ualenut qua inrcconliftat discernerc poiritr Na humiproftratusanimus/St fieri
gi nitatur tamen corpote'obrutus qu x in/cxcclfo collocata funt non nili poft
mui tum tempus difeemit: At dii penates eadem dicent qux didurus efliet
ApolIotPu tabantenim antiqui deos penates elfe ex animisiuotummatoTumtqui clari
ilhi^ ftref(^ multis egregtiftp uirtutibus fuilTent quali deos domcfticos: Ergo
Si hos animoru noftro excellentiores uires intapretabimur:quales funt ratio
intelle# dus atqr intelligentia. Qux hadenus furentibus fenlibust Si omnia
tumultu co plentibus nihil fanuiudicare poterat: Nunc autcpoftquamfuograui
damnoeu pertus eft homo fenfuu iudicium falfum elfe illos a tribunali quod
tumultuo &oc cupaucrant deiicit:& luris dicundi potcftatem iisjuiribus
quas paulo ante nomii> nauipermittinillx autem cum iam fcnlibus
parentioribus ut atuc:quippequipu dorc confufi nihil amplius audeant/K cum eorum
iudicium diuturnus iam ufus at^ experientia confutauerinparaciam non amplius
prxeipne deæucrintrfc a tumulm colligunt:at (pfeipfascxdtant:fumma (
contentioeruftitix nebulis fua luce fugatis mentem ab iniquiffimo fenfuum
iudido prouocauit ita a ætenfi domicilio abfoluunt : ut tamen italicam
profedionem fuo dcacto 'edicant, ii dunt^ proptnea fux fententix ftandum:
quoniam eadem iubeant quxipfe Apollo a quo mittuntur didurus fit: Et
profcdomcns nostra multatum rerum usu iam dodior reddita multa, ex fe cognofdt:
qux fapientia ptxdpere con sueuitt Nec ucto quempiam moveatli deorum pcnatii
oratione pct fu ad catut Andrifas I t ( II P nudfi D B B< P> h Jrj-B
SNitn ubi ndo pneualerc iitn crprrit : appetitus Hli rubiicitun MuItS iatn
profeoe nintdii pcnatess quiquz obfcunus Apollo SIGNIFICAT prrfpicue enodaruntt
docent«piniuIuadrcrum diuinarum cognitionem enauigandum rfle: Beatus profedo
ENEA (i decretis ftarett (i quod bonum efTe cognouit:id ita mordicus arriperet
ut nulla re inde po(Tet auclli:Non enim totiens a redo curfu deiicere^ s Veru
non is adhuc uir eft qui conftanti habitu in hisobdurauerit:& per (uma
t& perantiam a rerum moruliu cupiditatibus sit penitus purgatustfed inter
contine tia; at(^ incontinentiz uarios frudus uacillans fzpe cum ad aliquod
Tparium fuo uento procelTerit: nauisfubito a redo curfu deiicitur. Non enim is
gubernator clauum tenet qui fummo nauigandi artiBdo arperrimam etiam
tempeftatetn fupcrarcualeattfed Palinurus t qui poftquam ceruleus fupra
caputaftiiit imber nodem hyememt^fercns.poftquam inhorruit unda tenebris :
poftquam conti» nuouenti uoluiit maretmagna^ rurguntzquora:& quz
fequuntur.ipfe diem nodemt^ negat difcernereczios nec ræminifTeuiz: Diximus a
ptindpio foloap petitu moueri aniraumtdiximus itidem duplicem e(Te appetitum
alterum qui a fblis feniibus ex dtetutitationi^ aduerfeturidicatnttp
libidotalterum qui ratione pareat:uoluntaf(^iure nuncupetur. Qui quidem
sinauiprzfuifTetiporerat ea am aduafantibus uentis iter redum tenere, oed
przFuit Palinurustis enim eft qui folisfeniibasob temperatiuirefij aduerfus
uentosinterprxtari poteft enimgrzce retro uentis didtur quali qui in contrarium
refetat. Hic igitur infurgcntibus pertutbationibus/uehementioriburi^
cupiditatibus uelutitcncbiis animuminuoluetibuscum ipfenulla rationis luce
illuRracus (it dicsano dibus ideft ucrumafairodifcerncrenrgat. Magna profedo
hominum ioldtiatmazima^ fenruum perturbatio qui ita rationi aduerfanturi ut
quauisil la fzpe infarg.it t ut animum ab illorum nefaria tyrannide feruituteq;
eripiattipfa uclutiiulbirima regina ueramuelit inducere libertatemitamen cum
nondum uiresfuasrecupetaueritm Dpercp a diuturno exilio reuerfa a paucis fuorum
ciuin cognofeatur fzpe antea qua dus regni quod (ibi iure dcbctur polfeinonem
recu» peret ab lilis repellitunquippe qui multos iam annos tyrannidum tenentes
omni largitionum genere appetitum corruperint : illum cp adeo demulfcrinttur
malit io feruitute uolaptuofc degere qua honorifice in libertate laborare.
uamob» temcum acbrainterillos przliac6mittantur:difcedic fzpeuida ratio,
lllicnim parere rccuCiDS Palinurus nihil sanum fentit : Eiufcp
ilultitiaatcptrmeiitate cd» mittirurtuc dedituto curfu t quem penates dii
prasceperantin (Itophadas infu» lasdeclinetur. Hunc autem locum nos ni fallor
auaritizuitium redeinterprzta bimur/non illud tamen quo inde rapimus tunde
minime conuenitiid enim nobis Thrada ddignauit. Verum aliud quod tunc patratur:
cum ex iis qux iam peperimus minime illis (ubuenimus : quibus tus naturacp ac
humanz fo detatis uinculum fubueniendum poftulat. Oodus enim'iam Fragilitate
rerum buroanarum Æneas ad diuina ratione id efflagitante ferebatur. Sed
appetitus aduerfus illam adhuc contumax ftaredeætis non potuit. Verum ad ea quæ
uulgus admiratur rurfus conuerfus diuitias cupit. At quoniam multum de pti*
fiuufcritateitniautufuctaUndui nc rapiaisilJafibicompatatecoBteodit: fcd
In.P.Vitg.M.AIIego. per (oBUS fordes plus qustn psr eft parto pacens nullo
libmlitatis munere fiigiei DC(p (ibi nc(^ Tuis beneficus eft.Q_ux quidem cum
facit fe parcum non auarutn prsdicatiprzfert enim fpeciem boni uiri cum
peflfimus Ar. Q_uaproptcrnon io« iuna harpyz ipfz uirginea facie
Angunturdimulanc enim pudorcmimodtfHaou robrietatem^iomneri^ uirtutesprzfe
ferunt. At earu ucntris ptoluuies fcedifli< tna eft.Q_uisenim
po(TetauaritizfordesexpIicare:quis qui turpis hominis di uitis eiufdemtp
tenacis uita fdt latis referrer Cum furor bau d dubius s cum ftene As manifefta
At egenus uiuereiut diues moriaris. Quid miru igitur A earum fu des
palidafcmperc fame et macilenta AtiNarahuiulizmodi homines iure tanta •
locomparamussqui inter aquas.interi^ uaria poma confbtutus Ati tamen at^
fameconAdturiNam ut cumulus diuitiarum acrcatiprcinterim ruum/utillete«.
centianus Gcta defraudans genium partis abfbnct ac timet uti: Quod autem ua ds
Angantur manibus ratione non aretiNihil enim remittunt quod femel ctpe>
nntauarii Q_uinfunt adeoperaino A auarinxundiut hominem ad dtuma qua dam natum
ab alnlTimis curis ad hzcinfenoratrahantifiC uelutide czioin terras K e lucidis
fjderibus in profudilTima tartara trudant. Auertit enim nos at^ feuo« cat
habendi cupiditas a cognitione carum reru quibus folis Axiiz animus ciTe po(
At. Sapienter igitur adiugit.TrilHus baudillis mdiltunec fzuior ulla
peAisidtjia deum ftygiis fefe extulit undis: Non autc Aulta rado poetas impulittut
ex Thau« inante patre: matre Helcdraoceani Alia natas harpyas
fabulentur.Thauroan« tem tede admiratione dicemus grzci enim admiran dicunt. Cu
cnimobfumma fiultitiam diuicias maxima bona putemus cum aut bona non Antaut
minima bonaiproptcreaq^ illas adrairamut:cuenit:utcx ca admiratione cupiditas
habendi nosinflamct.Ncmo enim cupit caquz negligit:at(j contenv nit.Suntautem
ex eamatrequzAt Oceani Aiia:Nam liquis maieriam diuinarn diligentius
conAderct:omnia mari Amillima in ea uidebit.Vt enim mare in afli' duo motu
cAicundac^ inco facilem ifcentunat^ pcnurbanturaAc diuitiis ai<jf opibus
nihil Auxibilius inuenias:multiq) tumultus ac fzui Aima bella inde ezota tur.
Hz igitur c£.'n paflim armenta gtegcfij pafcant : nihil inde Abi ad ncccAiu tem
fumunt. nihil aliis rumerepermittunqvcrumfiC ab hocquoq^ regenereaua tinz
quando^ explicat uir fummi boni acquiredi cupidus. Relin querat olim uo
luptates.indderat in rapinasiquibusquo^ damnatis otacuium confuliti A quo
accipitnofceteipfum:in quo errat Ancbifcscum ea ad corpus refcrctrquz de ani
tno przcipiebanturicauturqi ruo damno fadus errorem cognofat: con Alium
inutat:rclida(^ creta tendit in lauum. Verum rurfus perturbationibus uexatus
animus ad diuicias rutfus refluit: non tamen ad eas quas rapinis ut hadeoust
fed quas nimis fordida pat Amonia comparet: Sed et boc quo<^ uinum effc
cognofccns / proptetea^ damnans < ad Helenum per hoftcsproAafatui. bes
igitur quare in harpyarum infulam delatum mixcrit Æneam y?^uod ue^ IO ab ip As
uefd prohiberetur iam parariscpulis inde efliqnia eam uim habet auarina/ ut qui
etiam dinflimi Antfame penrequamuci minimam acerui par« Aculam imminuæ malint
JAcmis tamen eas pepulerunt Troiani: Nam di aua AAacxifflbcdllitateat^
builitate animi tuliaf':qiiz ci cAiut&fctia et tnulict«' i-% « % % t ik
tltl I- 1 II- 1- i j mii oa* iff Liber toriiu <aIcgux'tninori animo
runtauarioresTemp^e pncbeact/tunc Fadle pellitur fi foitemgcn ercfum^ fumamus
animum ^6Ilcedit e fitopbadibus a;neas t fed non prius quam cnfle a ccleno
oraculum ædpiat < mendax omnino uates Bc in E s fubdola } et quz uctborum
firepitu honorem inde incutere uelit unde ni timendum : bed profedo hoc morbo
laborant auari i Nam fi quando ho« ncOa quzdam SC una ratio lilos ad divina
exploranda erigat < propterea^ huma na bzcfiC mortalia negligendafuadeatrihtiminfuigit
ex auaritia metus si rem noftram familiarem negiigentius curemus fore ut (i
fame pereundum x Sed ne« fiauot fiuItilTimt homines quam paucis natura contenta
(it i quam facile t quam minimo fumptu eius diuitiz comparentur: Efi autem
fames iis timenda qui in anesqui infinitas cupiditates et quz ne^ neceifariz
ne<^ naturales lint fibi exple das propofuaint quorum uotago um lata tam
profunda efi : ut nulla auri ui t nullo gemmatum iapillorumtp cumulo repleri
queat. Qui autem ita uitam ia* fiituerunt > ut fola fe uirtute bntos putent
: animum^ non corpus ditandum ^ ponant : his omnia femper abunde adaunt t Q_uam
quidem rcm:quo tibi pia* nius exprimam : at^ adeo potius oculis
fubiiaam.ptopone tibi duos diuetlifii^ mz quidem fottunz/fedeiufdem pene ztatis
utros Alexadrum macedonumte gem/& Cynicum Liogenem utrum ditiorem
iuch'cabis:uide quid dicas. Maximi Alexandro thc Ciuri erant plurimi tobu
Riflimi^ exerdtus (ibi militabant : Imperium latilTimum poflidebat. Innumerz
pene nationes acpopuli ex Europa A(ia* ^uedigales huic erant.Diogene autem quid
potcftangu (liusexcogitari: qui prz tet rimofum illud uas e figulo acceptum :
quo l'e recipetet ut e frigore calorctp tuf tuselletnetuguriolum quidem haberet
: quem eodem panno in utroi^ folftirio obfitum confpiccrcs : cuius auda olera
etiam nullo file alperfa beati (limorum re gum dapes fuperarent. Vttum igitur
horum ditiorem Laurenti iudicabisr Ego q dem inquit LAVRENTlVS h a
deptauatilTima confuetudine : quz altera pene in nobis natura cfl dirce{l'eto/&
rem totam fenfiiu iudicio exclufo rationi cogno» lixndam tradam beablfimum
Diogenem:miferrimum Alexandrum proferre no dubitabo. Vehementer enim iis
aifentior : qui in diuitiis penfiiandis non quam tum tuii^ adiit : fed quam
abunde id quod adeft fibi futurum (it animaduerien» dum cenfent.Si emm is diues
eft cuius cupiditanbus adeo fatis fupercp fadum (it ut nihil pczterea defidcret
quis Diogene ditior :qui cum (lue pafiurem (iue arato rem quendam cauis manibus
aquam e fonte ad potum haurientem uidiifet : po culum quod ad eundem ufum hdile
gerebat ueluti fuperuacaneum abnædum putiuu. Q^uis rutfus Alexandro pauperior :
qui podquam a Democrito ut p\i to PHILOSOPHO plureselfe mundos audiuaat :
lamentari non crilauit tanquam nulla ratione diues effici poffet nili illos
prius imperio fuo adiecilfcif Rede o Lau tenti de utro^fentis inquit BAPTISTA.
Q^uamobtem cum idem rex motus animi tranquilliute quam in Cynico cognouerat ita
pronuciaiTcticupcrem Diogenes e(Te nifi cifem Alexander : magna ex parte fiultitiam
fuam indicauit : cum in fummis opibus zgere : quam in fumma inopia ditefeæ
mallet. Quamobte difeant homines quam paucis natura contenta fic s quod cum
didicennttoracu# ium a Cclcno zditum &cile tldcbunt:quamuis ipla ut otadoni
liiz fidem faciat diat fe ca pronunciare guz Phabo pater otnnipoteos flbi
Pbccbus Apollo pn« dixit. Natn rempn auari qui funt : uiriutn quo laborant
fallis uirtutum limula» cbtis tegere conantur. NatnquzmoEraauaritia eftream
patlimoniatn uocants et aut deorum t aut maximorum uirorum audoritate famem
timendam pctfua» dete conantur. Oolofa profedo cupiditas et quz cos etiam quos
prudendotes putamus fzpe decipiat. Aduerfus cuius fraudes illud unicum remedium
cft nof fe ea quz hominum ftultilfima cupido ad uitam degendam neceffaria
putabnoa modo nihil peodelTc i fed omnium noftrorum malorum caulam exiiiæ.
Deferens igitur Harpyarum infulam Æneas ad Helenum enauigatrEll au» tem Helenus
8C uates K conduis«|Q_uapropccr rede ilium dicemus ingeni» tam nobis rationem
et ueri lumen quod natura in nobis refulget,: quod nos fallis bonis decepti
confulhnus ut in redam uiam ab erroribus reducat» Ipfe autem uates uera
przdicere poteft : fed ditfidle eft ad illum petuenitei cum Iit itet pn medios
hoftes tenendum : Nam 8i fenfus omnes 8i apped» tus fenlibus obtempetans
uolentibus nobis in uetum iudidum delcendcrc (em» per aduerfantur:,At(p adeo
nobis confultantibus obfirepunt: ut uix radonem adire et uera bona a fallis
fecetnerc poflimus. Verum cum ad Helenum perucne rimus iuuat cualilfe tot urbes
argolicas medios fu^m ten uilfe pa hgges : Supe» rads emm perturbationibus
iratiquilla'quTdai^ r^nquitut mens: in qua lecxd tans lux radonis nobis ucrum
oftendit : Q^uo dodior fada mens agnofeit itali» am t quam propinquam elfe
putabat uia inuia longe diuidi: multum^ matis ef fedreueundumi et ad inferos
defeendendum antea quam quietas in Italia fedu collocet : uz quidem omnia
quanta ratione dicantur ; faulius cS mente coo pledi quam uerbis exprimeret
poliquam enim animus non dico profligatis /fed magna ex parte repreitis uitiis
per medios / ut diximus hoftes in lumen luz luca defeeudit Itum demum
aduertitfummum bonum: quod in propinquo coUo« catum habemus putabat
poculabclleioporterei^ nos amplo dreuitu Mariamo ftris obfelfa peraauigare :
Nam inter ipfam contemplationem: hanc quam ui uimus uiuminteriacet is quem iam
totiens appetitum nomino uelutiturbulcn liifimum mare: quod fcyllacharibdifcp
pernitiofiirima monlha infeftum red» dant: Si tamen eft pei hzc loca
enauigandum li IN ITALIAM VENIRE nolumus : Oi» ximus enim a principio (i rede
memini nulla alia ui nilT appetitu animum motuti .Sed quoniam de duobus iis
monftris dicitur a poeta : facile eft ex ipfis fabulis quid fibi uelit
coniedari. Nam cum eas foeminas rapaci fhmas fuilfe memorizf proditum Iit : non
ne per eas commode exprimi animi nimias cupiditates dice» mus : quarum prindpes
luxuriem at^ auaritiam eife nemo dubitat. Scjlla e^o s glauco adamata
ucneteasuoluptates exprimet: quz maxime rebus nofttis fio» rcndbus uigent: Nam
quod eius uniunia pubes m canes latrantes conuerlafu/? uantum ad negodum faciat
: fadle eft cognofccre. Chanbdim ueroipli quof Icrculiboucs quondam
fubripereaufam quis non intelligat limulai tum nobis auandz refene : 8I qnoniam
ab ca non ita in rebus fxliatei fuccedenubus ut gemur quemadmodum a libidine.
Sed tunc potius cumnimi sanguftiis diuida nun terminis incluli uidemur: ac ob
eam oufam minime nobis noUxa placent ii •p. a MI ia Bi itk iw “!f lab ipoK
imi». okib! abii l{DKd biW uocA \^2Dli .qmX (uitbi SUID* jniisi^uin®^ iCID#
aajb crlb< jola* OUfl^ 1^1^' amba* mfia eKccT^ eflcopinaiaut t iccirco
dextrum a fcylla : Icuum a cbarybdi latus obfi dcri Mato dixit (quoniam altera
in rebus quas aduetfas putamus t altaa in iis quibus uebcmenter dele Aamur :
nimis nos urget. Quz cum Baptifta dixiflct : at^ refumendi fpiritus caufa
aliquantulum obdcuiflet. Admiror inquit Laurendus tam magnx tam^ reconditx
dodrinz diuinitatem. Verum quanto me iffa tnagis deleant / tanto magis cupio :
ne minima quidc m in tota re mibi dubita» donem relinqui. (tai^ utar ea quam
mihi conceiTi^ libertate uel licentia potius: At^ ut iamioulligas quid illud
(it (quod nili tibi aliter uideamr/ planius heri cupio. Odenderas a principio
ea ratione politum ellc a Marone Troiam zneam cekquifle t quoniam lam uir ille
corporeas uoluptates contempriflet t per thraci» amuero at^ dropbadas utrun^
auaridx genus exprelTum cfTe uoluidi : Cur igi» tur (i buiufccmodi iam uitia
exuerat Æneas ( rurfusnunc ut illa uitet ab Heleno monetur C Dcle&at me tua
interrogado o Laurend inquit BAPTISTA t Oden» dit cnimmaion quodam iudicio quam
idbxc xtas gerere foleat te ea qux dixi c6 fideralTe: Veium quo omnia tibi
plane pateant: memineris non eum uinim a Virglio [VIRGILIO] produci ÆNEAM
Æneam: in quo uirtutum habitus conoboratus fit. fcdqui pro uirtuteaduetfus uida
ita pugnet tut non (inemulta difficultate per continen dam uincat : nonnunquam
etiam uelud incondnensuincatur.Q^ui ueroin Ita liam id enim ed ad diurnarum
retum inueibgarionem uentuius ed/ huic non fa dsed : ut continens fit. Nam
quamuis condnentia a cupiditatibus arceatitamen S uoniam in affiduo certamine
uerfatur:non przdat eam animis nodris tranquil
tatcm/quaadrestamexcclfascognofccndas opus ed Quimobrcm egenus ipfa temperantia
uirrute undi^abfoluta: et in ipfo pene cerdo uirtutum ordine corroborata qua
qui inlbudi fuirt/nonfolumonuies cupiditates Tupc Tantiue» lum edam illatum
penitus obiiuiftuntut. H oc autem habitu nemo mortalium fe corroboratum in
confidat : nili plurimis afliduif^ adionibus prius ad eum co fequendum fe
exercuerit : Q_^ux res line longioris temporis interuallo effici nem poted.
Huiufcemodi igitur temporis moram VIRGILIUS poetice quidem fed opd me tamc
exprelTic : cum dixit : Prxdat trinaaii moeras ludrare pachtnni. Ceffan tem
longos/ Sedteunfledere curfus. Quod autem moneat ut eo quem dixi ha» bieurn fe
con firmet xneas uerfus unus indicio elTe pet^d. Adiungit enim quam fcmel
informem uadouidilfefub antro rcy1lam. Quamobrem icdiflime uni» uerfum locum
concludemus neminem poffeipram dminitatem attingere : nili perlongum prius
intefuallumeuih: quem dixi habitum ita contraxerit: ut non modo non rapiatur a
fcjlla : fed ne femel quidem ipfam uideat. uod quid ali nd fibi nuit : nili ita
obiiuifeatut cupiditatum omnlumtut nunquam illx in con ipedum
fuxmentisredeantrperpulchrc per^ commode omnia ida inquit LAVRENTIVS. Verum
quid tibi paulo ante explicare libuerit: triplici illo ordine oir tutnm non
plane intclIigo.Res inquit BAPTISTA huiufcemodi ed : qux &: Iz pe alias
maximo tibi ufui et prxfcnti fermoni apprime neceffaria futura linOiui» nus
enim Plato cum uirtutes de uita Sl motibus eafdem quas exteri pofuilTet:ita sd
podremum illas diueilis Gue ordinibus Gue generibus didinguit :.ut alia qua dam
ratione ab iis illas coli odendat : qui ccetus ac duitates adamant t alia ab
iia h ii i I qui omnan mortalitatem dedifcnc cupimtes/ft humanatum rerum odio
taoii •d fula diurna rognofccnda eriguntur : alia poftrcmo ab iis qui ab omni
iamc6« tagionc expiati in folis diuinis ueriinturtprimas igitur ciuiles
dixir/fecundas pw gatorias/ac tertias animi iam puigati.Eft enim triplex
hominum rcÆ et ex ratitv oe uiuenbum ordo.Horum trium inferior eft eoru qui io
fudali acciuili uita dt gentes rerum publicarum adminiftrationem fufcipiut.His
{iximi fed m ercdioti gradu confiituti ii funtiqui a publicis adionibus ueluti
tepcftuoflsiac procellolis Kin qbus fortuna; temeritas oino dominet'' :fe in
portum tranqllitatis trafferuot et a turba io odum fe tecipietes/ quirta uitam
degutinon ita tn ut no aliqd adhne tefictaduerfus quod Iudadumlit. Supremo autIocoeoscerncsqui
penitusa re« rum humanatu concurfitionerac tumultu remoti nihil cuius panitcdum
sit /c& mittut.Eft autem oibus his ordinibus hoc c6munr/ut uirtute dure
ciida ad boni redi^ normam dirigati Verum qa in uita duili cupiditaribusiac
pturbationibus omnia tumultuant hifip non oiu xgre refifti^ rdicunt in ea hoium
genere uiitm tesi Dcohataspotiusqabfolutast Quaproptetidinill
bptadcntiac6tendit/utm bil agatuticuius non polTit ratio (^tem probabilis reddi
i Fortitudo uero animd fupra omne piculum at<p moetum affett : et nihil nifi
turpia timenda admonet. Tcm{watia autem oftedit fola honefta appeicdainulla in
re moderationis legnn excellcdamioea cupiditates iugo
ronisrubiidendasiluftitta; poftre moptesfuni: ut unicuimruumredd»’' iutx
quoiureoesuiuant .lnrccudoautilioh>iumgene tctqui ea it ronea negodo in odum
uendicat/ut liberius poflit rerum diuinaium conicplationi incubcrcifunget
munetefuoprudciiafifpretis oibus mortalibus rebus &cxleflium collatione pro
nihilo habitis omni cura omnim cogitatione ad diuina copuertat".
Temperitia autem cum ea folum nobis cdce(Utit/bne qui busferuari uita non
polTiticaitera omnia fcueriffimoiudidocontenendarf^upeii datp pronuciabit. Sed
necaberit fortiiudo qu* afliduo pridpiatiut nullum meo moduminullumlaboreminullu
periculum horrefeamus/quo minus redo 8£w petuo^uti**' - j 1 n- ». tuo^ut ita
loquar)curfu ad cxlcftia et ad origine fuam icdat animus.Diccs q d luIhtia.Hoc
jifcdo minus libi imponctiut reliquarum uinutu cofenfum in hu iulcemodi ppoAtum
firdatilfti quo^utrupiarcsaduafuspturbationcspugnit fcd fadiius fupcratsfei^
paulatim expi .tos reddunt. Quapropter uirtutes ipCrin illis purgatoriz
appellantur. Verum audi iam tertium illud eorum genus/quota animi ab omni
uitiorumlabe ^cul ab Ant. Hi igit' in eo prudentiam exered/non ut deledu quodam
habito diuma terrenb prxferantifed iit illa fola nofcantifuU J ueluti nibil
aliud At intueantur. Adhibent autem temperantura non ut cupitates coberceatifed
lilas penitus ignorent.Eadem ratio erit fortitudinis.llla eni pernitbariones non
uincicifed ignorati Quin opubic dura at^ horreuda Abi of ferrirnon ut
uidoriamaiTequacurired ut in eorum obliuione perpetua riimiuts
'ifidiligentetinfpides/ fadiecognofcesidabhelenoadmo petduret. Quxomniaf ^ neri
xneam non pofle illum fedes in Italia qetas ftabi colloare/niA priiis ad boc
tertium uirtutum genus peruenerit : (^uid ergo hadenus: nonne Troiam
deftrueiatjacthradam ftrophadefipteliquerat. Defenieiatquidemjred nondum $mca
uitia fugiflct illa dcdilutc poterat Jiunc autem non ut Moliirnt^iP Liber
tettiai «Birittaib^ deponatt^od tam feceratered ita de tnte deleat: ita
perpetue obK tuooi roaadntut nunquam eorum memoria illum rubeat:Cu autem prz
omni bus rcbua iterum at(p iterum 1 unonem pbcandam moneatsqua quidem adua
•imte Italiam nunqua podturua (itmdnc nobis documentum eftroaximum nui Ium ex
innumeris uahif^ uitus eflieta quo etiam ii qui ad quzip ezceifa eriguiu lur t
scgriiu liberetur quam ab bonorum imperii^ cupiditate.Fadle eft enim cd temnere
uoluptatesa qui iam maiora mente conccpit.Diuittasuero &li fpecie maximorum
bonorum a principio nobis oftendantipoftrcmo tamen ab excelle tianimo
negiiguotur.Atucrohooorcsmagiftratus& imperia quoniam exedi' lens quodda et
eminens in fe cotinere uidetuunfpecie decori at<p magnifici ztu* mum etiam
excclfum deripiuntiNamcum cupiat ille fefe qua proximii deo red
deretanimaduertac autem nulla alia te nos magis deo fimiles efle qua dandis bc
ncficiisiNt^ hzc przftari ab hominibus pofle nifi in fumma reru poteftate coo
flinitifintiaocenduuruebcmenti quadam cupnditate ut reliquos antecedat: Eft
enim natura nobis iditu/utfcnm (upiores in rebus oibus euadere cupiamusi Ce
dcrcauteautfuccumbeieturpimmumputemus.Q_uz quidem naturalis cupv» ditas nifi
reda ronc temperer in ambitione ac pofttcmo in tyrannide nos rapit: in qua muka
aduerius humanitatem audelia tetra nefariaip comitthnus : cu natura ipla nifi
deprauata fuerit ad magnanimitatem erigat nos ad fupetbiam ft dominatum omnia
rapimus.Hinc fraudes:hinc czdes : hinc reliqua imania
fiagitiainfurgunt.Q^uibustcbusipfam humanitatem exuri in truculcntilTima monfiu
conueitimur.Non igitur fine fiimma lapinia ad Cyclopum littora ht Dti dedudt
diuinus poctatut ofiendat qui magna quzdam et cxccifa petuntten nulla
certaratio anima reganfefe falli et pro animi magnitudine in imanitaicla bi.Scd
hzcquocp loca miferia ad fc fugientis uiri admonitus qua primu cifugit ENEA.
Quid enim aliud nobis cxprciTius cfiFmgerc:at^ipfis(^ucica loquar oculis
fubuccrc potcfi ambitio larofiC fumma efferitate deteflandam 1)^300103 uitam
quam cyciops Polipbemu$:qui procul ab omni hominum confortio hu manis carnibus
paicatur^^ inter luflra feraru fola uita agat. Nonne enim iure Andropophagos
tfic enim eos appellant grzci qui humanis arnibus uefeun' nmilloscl Te dicemus:
non qui carentia iam anima corpora id enim multo ma gnto Uerandumefiiinfuas
epulas conucTruntifed qui uiuentes omnibus ctu» oatibuscrudelil Timc
exeduntiqui ut aut tytannidem|fibi comparentiaut iam cd paratamtut
cnturioptimum queipuirum et iufhzqui ac libertatis amatoicm lzuifiiimemteTficiuat.
Qui utfcelerariirimi uori compotcsc £ Ficiantut:aonmo do fingulos homines
ttuddanttfed totam urbem:ne^ folum totam urbemifed integras nationes ferroigni
fameij populantuncun^ libidini militari fubiid imtt. Qui nc^ agris cultoribus
fpoliaietne hominum pecudum^ przdas abi gete uomturiqui pueros tcncraf uirgines
ex parentum complexu aut ad mor tcmautad libidinemrapiunnqui caftarum mationara
pudicitiam expugnat: qui publica acpriuata faaa ptofanacpzdificia funditus
cuertunt:S qui modo in florcnrifiinu re publica ampIifTimum dignitatis gradum
fumma cu gloria ob tincbantitot nunc oibux foituius lpoliatos mmiraritni
feruttutc abducunu V' I.4 In.P .Virg-M.AIIego. uos igitur cydo^quos leftrigonas
cum iftorum imani fcttida cofErcnaif Quimobrtm uir iummi boni cupidus qui antea
non bene infttcuta animi (oi magnitudine quacun^ uia ad honores imperia^
nitebaturmunc demum tam nefariam crudelitatem quam primum eam nouit
deteftatunnouit autem a ma dlenta rqualenci<| achemenide forma per quii
lapiens poeU omnes calatnittla quz ex tyrannide generi humano perueniunt s
latenter (ignilicauiticum dues paulo ante omnibus ampiifhmotum honorum gradibus
honefiati/ ad rern ino piam cxtremai^ famem cdpellunturicum illudiis mortis
moetu latere ct^un^t Rclida enim ariffmu patna ignobililfimis obfcurilbmirip
lods exulant: Qua: quidem miferia edam li in graium hominem et Ænex hodem
cadatitame non poted ipfequi uit bonusauc fu aut elTe dudat ad fummul
tyrannidis odium no impelli. Qudigitur Maronis fapiendam noniureadmiretun qui
uirumm ita liamuentutum maria at^adiaceda littora tam horrendis mondris obfefla
ita caute dreuire iubetiut illis omnibus euitads in Siciliam incolumis
perueniat un de breuidiffius curfus in italia dc.Fadle enim ed homni qui fe ab
omni ii auari» dxfpcde cxpediucntomnemip iniuditiaatipei Fentate exuedtiadreru
magnis rum cognitionem edgi iprxfctdm fi iam in Sidliam uenerit. Ed aut Sidlia
nue in(u Ia olim uero italix coiumdai Bt condnends parstfed uenit medio in
pontus K undis hefpenum (iculo latus abfddittarua^ Si utbes littore didudas
angudo interluit zdu.lta enim abimortali deoapnndpioæatæd diuinitas animoti
nodrorumiut una cademi^ dt pars infedot rdniside qua paulo pod ent didin dius
difputandum di parte rupertori.Scd quoniaipfa,in agendis rebua uerfaf drea ea
quz loco 6i tempore citcdfcnpta adiduam mutadonem redpiunt euenit ut
interucnientibus Uanis pettutbadonibusi quibus prudenda decepta (xpe pto bonis
mala cligitiratio ipfa inferior illis uelun uehemcdlTimit fludibus alfiduO
percu(riabitaliatandem diuellacur:6 (aruperiodradonead appedtum defid> at
Quz omnia quauis ita fint unde tamen breuiot ciufusad italiam.i.ad eo»
teplatiunciquz m ipfa ratione fupedod polita ediquaa ratione inferiod quz per
Siciliam lignidcatur nihil repedes przferdm humato patenteique nos mol bticm
quanda eneruata homini a fenfibus prouenienteinterprætati fumus.NS quam enim ad
ueram contemplationem deuenicmusinifi pdus ipafut ebddia notum uerbo
utar)fenfualitasnon modo earinda uerii eria penitus fepulta in nobis fuerit.
Q_uapropterli rede animaduerds de Anchife mocte meminit poeta de fepultura non
meminittno enim in iuliam ed uenturus.ln quinto ueto libto celebratur funusiut
demu fepuito Anchife in italiam cotenderc lice Apparatis itai^ rebus oibus
Æneas ex dciliafoluens paulo pod italix pot/ tus fubite fperat.Ne(p fuilfet a
fua fpe deceptus (i lunonem aduerdiTimam . bi dea ex Heleni przcepto antea
placauiffct.Odendimus paulo ante lunonoa honopi impcriiij cupiditate expnmeredn
qua quidc « fi Æneas ita fe geiatiut nihil iniude/nihil audeliter in reru
adminidtadone aduius fit.faocenima Po lyphemo fuga indicauit nihilominus cum in
confpedu Italix iam fiti& in li nunc pene fpeculandi conditurus:
Animadueitat^ non poife in rerum diuiu nuncognidonedcucnidsnifi humana hæc
omnia cotenat/nidtut ille quidf Liber tettiiu rem perficere. Std appetitus qui
nou dum ratione fubiedus fit omnino ro> pugaat: faKU 9 argumentationibus
perfuadet noncireaurneg]igendoihono« tes/autimpia relinquenda .Percomodeo
tnqiUate inquit LAVRENTfVS tC ad rem uehementer appofitx.Sed unum efl de quo SC
fi fortafTe confentanea fu fpicer > tamen fentendam tuam uehementer
cupiam.Na quid fibi obfecro uult ^fficilis ilia et apprime moiofa dea luno. Si
enim manentibus TroixTtoianis iiafcebaturscur deinceps iifdem illis in italiam
enauigatibus adeo boftili animo aductlatunan fortaiTequiautracp uiuambltiofoK
imperii cupido aduerfa Et. ifibne ipfum inquit BAPTISTA. Atnbitiois enim dea
olim Ænex irafeebatun quiuoluptatibus dclinitui nihil honorificum quacreretmunc
autem rurfus ira fdtnncum uideat illum ad altiora quxdam eredum ea qux exteri
mortales in admiratione habentsotnnino contemnere. Omittens enim illa que
primum gradum in uita duili tenent non motulia amplius ifed immortalia quxrin
mi rifice ictura poeta.Vix e confpedu SicuIx telluris in altum Veb dabant Ixd j
K fpumas falis xre ruebant. Cum luno xtemum feruaru fub pedore uulnus: quæ
deinceps fequuntur: Ratio enim uiuendiiqux honoribus inferuit cum
animadueitatfc ab Ænea deferiia quo olimquo cu ille uoluptatemtociu amaret
negleda fuaatyuehementadolet.Cognofcit enim fi ROMANUM IMPERIUM ed fhtuutur
foreiut fua Carthago ruituta Et: Quisenimnon intelligat E ad c6tcplationem:qui
ptxftanti ingenio funt uiti accefferint/ illos ciuiles actio.* nes
ccdercrturos. Oolet igitur St pfeotiiniutia admonita pteiitotutcminifdt. Manet
enim alta mente repoEum ludicium paridisfpretx^ iniuria formx. Et genus inuifum
et RATTO GANIMEDE ONORE. Qux quidem fabulx E diligentius conEderentur nihil
aliud nobis prader de* ditauoluptanbusuitam referct: Nam Paridis ludicium in quo
lunonl Venus prxferturiquid aliud cefeasniEuitx honorum cupide molle enetuata^
8 (uo luptatibusaddidam prxponi: Genus autc inuifum.i.louis Eledtxt^ adulteri'
um:acpoSremo RATTO GANIMEDE nemo modo mediocriter eruditus Et alia
traduccuHisigituraccenla luno naufragio Troianos perdere tentat. Verunx ne
noseaquxfubhuiufcemodi tempeftatis Egmento recondita funt ulla ex pattelateant:
neuequidluno: quidxolusiquid neptunnus Ebi uelit incogni' tum relinquatur:pauca
de animorum noEroruui at<^ natura repetenda funt. Illud tamen pmonebo
cuenireiut eadem ad multos locos enodandos adhiben da Ent t Q_u« E fcmel a’me
expteEa exteris deiceps in locis ueluti ia cognita file tioptacanc luideo me
qd* fumopete cupio breuitati inferulturu.Sed rurfus cu eodieteprKc/E Ecagamus/duplextibionusipo
Eturus Emieritenim eode tpe 8C memoria qd alibi didum Et repetendum: K quod
interim perpetuo orationis filo contexif' : Ene ulla inteccapedine:percipiendum
malo loquacior etk/q oomittere ne ingeniu eodem mometuo in plura diEradum:ucl minima
difpu lationis paidcula incogmta ptaucrmlttcre cogaturiCum igitur ad id quod
pro Ia.P. VIRGILIO M^IIfgo* tPrn/f <«•’<*• 'v'»^ prium noSnim^ tft:quod(^
a noftrz onginls diuimtate traximus t id eSsdt» tiocinandum/ad concemplandum/ad
intelligendum mgitDut:eam animi pai> tcmadhibcmus:quamgrzci nos mentem
nuncupamus. Verum hæ mutiifed przcipuc Platonici chriffiani FILOSOFI duplicem
elTe uolueruntt 4 alteracu inrctiorem quam rationem appcllant:diuiniorem
alteram et fuperioro TIfct. qu- i 4eIIedumnuncupant.QU3propterfapienter Auicena
animos noftroi ur t alterum lanu duplici ore inllgnitos e(Te dizitiut hoc
furfum uerTum ptia r .na altilTima per (apientiam rufpiciamus.lllo uero res
mortales et adioneshua manas per prudentiam adminifhemus. Diuiditur igitur mens
in duo rurfum in tapientiara/deorfum in prudendamrquz Ht reda rerum agendarum
ratio qua iiinuirumfiC mulieremrutuirrupcnor iit ®at:Mulier inferior 8l
regatUR Quapropteregregiei!lud:^lioieiliniquitas uiriiqui mulier bencfadensrnd
enim przponitur iniquitas uiriliszquitari muliebri: Sed commode exprimitut I
'tedius eum agereiquideiideriorerumczieftium raptus plurima corporis &fo
cialis uitz commoda negligat: quz res uideturiniquatquam eum : qui ut nuW Ium
uitæ ciuilis officium deferat:czlcftium rerum curam omittit : (^uz cura ita
(intiuideamus quz a Marone dicuntur: Nrmpe zoium lunonis przdbus
uentostquoslouis iulTu regere debet/in mare cmififTeiqua tempeflate obrui
poterant Troiani nili illis aNeptunno rubuentumfuilTct. Quo in loco fi ui tz
ciuilis cupiditas (it luno commode zoium inferiorem: neptunum uerofu« periorem
hominis rationem interprztabimur. Non igitur mirum liabhono» rumæ imperii
ardentilTima cupiditate ratio illa inferior (lediturrattp de fuo gradu
deiieiiur. Referunt fabulz zoium uentisprzpolitum aloueefleiut iuC>
TuAioillos BC intra carcerem cohiberet&indeemmcreceru quadam lege ualc4 at.
Quamobrem celfa fedet znius arce Seeprta unfDS mpHit^ apimos: K
teinperatiras:_8£,iilud N i faciat maria ac terra stcilumq: profundum. Quippc
fei^tfec^ rapidi : uertantep per auras. Et profrd Ot&infiituti funt animi
noflri ^etum omnium fumnioatcfiitcdotut cum Iit in nobis ea pars quz ad tes
afeifeendas fugiendaf^ inlurgit: przponatur libi ea rationis particula : quz
infenor cum(it:adres omnes agendas rede appetitum moueat. Ratio auum - Iplis
mortalibus indita non a corpore efttfcd aloue.Hzciguurdumfuo co ditori
obtemperat celfa arce fedet:quia nihil humile cogitat: fed quztp aigre^ gia:
attp excelfa meditatur : teneti^ fceptra.Nam totius uitzadminifttatianein
habet: mollit^ animos /& temperat itas: cum nimiis cupidiutibui appetii tum
cohercet : at^ inna modelliz fines continet : Sin autem ita lunonis blan>'
ditiis demulceaturiut fuz naturz propriz^ originis immemot rerum rettena rum
cupiditatibus irretiatur/ totum lilife przbet : eiult^ iuffu non autem lo
uisuentos/hi enim penuibationcsrunt/emittit.llli uao mare quem apped<>
tum cflic diximus paulo ante tranquillum ex diuafispartibus ferientes bor«
tendas tempeflatcs excitant: hebetant enim tadonis adem honorum cupidi tatesrquz
uelud nubibus obdudauerum bonum a falfo non difccrnitiip fumcp appedmm : qui a
fenfibus originem dudt: non modo non refhnguit ardæmractum ultro inflamat:
&gcntemiunonisinimicaseaautcft mens no / » Liba totius Itlbullu Qanitn
rnunicotit^tm:diuinatuin autftn cupida/mratiis perturbati poibusobtuæ
nititur.Scd rcæo ad lunonemillla enim cum tecencitiiuriaanti / MUm (H)i uulnus
refrkafictiira plena in zoiiatn tendit. Kimbofum in patriam loca fceta
furentibus auibis. Cidlidaomnino dea guz regionem ad ea quzcupiebatpaHcienda
fibi deligat nott'ignotauic:Cum enim raum humanarum amor nos ad diuinarum
cogniti onem abfttabæ nititurrin zoiiam patriam uento^rad enim eft in appeti
tum p tuibationibus expofitum ueniat necefle efi. Verum iouis iuflli hoc regnum
zoio commiffum cds Nam ri deo obtempæmus rationi fempa obtemperabit appeti
tU&Redifljme enim Platonicum illud bpnp uiro legem deum ellr : malo autem
bbidincm: Quaobrem huiulcemodi rarionemdeprauare aggreditur Iuno:& ue
iuriti qui caufz (iiz diflFiduntrfit fallis rationibus perfuadæ/&
largitionibus cor tumpæ iudices patanttita ipla zolum adoriturteonaturep
oftendere zquum elTc 4tillc gentem fibi INIMICAM ITALIAM attingne prohibeat.
Perfuade zolustfe^ cn da M iulTu lunonis fadurum redpit:Q_uin quicqd imperii
habet/id omne a iu BoUe tecognofcit.Nam nili inflametur appetitus cupiditate
rerum terrenaruiatrp illp uduti mare ucntls turbet rminime uideretur indigere
uita nofira impio ratio tus.Hocigi^ padotromnia lunoni debere ratio fatetur
ueluriquz(^nifi pturba lioæsaflint^aibil habeat in quo fuum impium exerceatrac
decepta cupiditate ea tum raum quas magnas putatmentis habenas remittit/ac mare
perturbattquoni •tUturbulemimis cupiditatibus appetitum codut.Quibuszneasqui ad
cxle^ Bium rerum contcplarioncm tedit/adeo labo paiculorut^ magnitudine infrio
giturtuta jppolitodciiciat" :Et ^fedo cum appetitus quo folo animus
moueturr ftquonosad fummum bonum duci oportet/aKonosrapiat/infurgit atrorilTima
iUa tempeftasrin qua eripiunt fubito nubes czlui^ diemt^ teucroru ex oculis. Na
qui paulo ante tranqllo appetitu
adrpeculationemfæbant"tinfurgentibuspaturi Mtionibus adeo illis
oixzcant" :ut quicqd luminis a rdnepueniebat/peniti» tollat tVnde fit ut
nox atra ponto incubet. Appetitus enim qui hadenus luce rationis illul habac
nuc illa amilTa in tenebris uetfatur. Adeot^ zfi uat hoc maretuc lii aqlone
fetuntur/hzc enim elatio quzdam elliquz a rebus fecundis profluit. Alii in fummo fludu pendentmam fupra fuas uires
difficilia ardua^ aggrediens tes amdi foliciti perpaua expedatione pendet. Alii
terram inter fludus tangens tcsabipfa fortuna dnedi mifetiarum cumulo
obruuntur.Sunt deniip qui in fas alatcntiacontorqurantur. Nam multi cum impetu
perturbationum ad huiuf^ cemodi cupiditates explendas ternæ ferunturiin uariatp
pericula fibi improuifa inddunt. Sunt poftremo quos auaricia ueluri in fyrtes
ttahat.Nam quis non uis dæfle aiam quorum nauis demergatur. Vnde utre omnino
apparent rari nan tes in gurgite uaftoiNam ex inumera mortalium turbaiquos
perturbationum p cclh]dcmagit: paud emagæ ualentiFado enim habitu pauci ad
portum enare pofluntiprzfertim cum ipfe gubernator a temone tcuulfus imo in
przceptls deie dus in profundum ruitiCum enim ea animi pars quz uitz regedz
przpolita eft fuaiicde deiidtur/adum iam de uniuafa te cite quis non putarHzc
autem otns Iliacum lunonis zoli^ culpa acddiftenttinterim Neptunnus commotus
graui* i In. P. VIRGILIO M. AIlego. tate t<tnpcfta^sf>Ia'd(]uin caput ex
fumma unda cxtuIk. N(ptaliutn mum macia deum cfTe finxerunt: Dico aut
fummumiguia alia quo^smaf^o» mina extann&ptofcdo plutea uires appetitui
prxfantimouet' enimilfe iudit» fcnfuumrmouct" tonis inferionsifummum tamen
impium fupioii ronirefenu tur. hæc igif r^tio quam nuc neptrai nomine (ignifiat
poeta cum oibuspturba« tionibus rapi uexariip uideat:caput e fumma unda ueiuti
ex fpecula rifetttVnde ipfius appetitus fludus jicellafip animaduertes aium
illius furore in pram pinum rapi cognofcitinei^ folum tcpe(htemfmtit:fed etiam
ipfam lunonisdolisexdta tam intucc :Nouit enim reda ratio aium ita afFedum:,ppterea
in hasmiferiasitw ddiffeiquonia falfa bonop: fpe decepta inferior ratio urntos
no modo non cohi buerit: fed ultro emiferinC^uamobre utfubitn tato malo remedi
uni affecat cuje zephyrui^iac reliquos uctos ad feconuocas grauirer
increpariqui impio titanum fanguineorti/deo^i regnum infeftareaudeanReferut
enim fabuix uctos Aftrd filios fuilTei Aftreum aut unum ex iis titanibus
eifedicunquiimani impietate ad« uerfus deos imortales temeratiu bellum fumere
lint aufi.Hxcigi^ in fabulis rcr periesi Non aut CICERONEM reliquofip
dodiflimos uirosaudiamusiquidoa ali ud cum diis bellum gerere qnaturxnolhx
repugnare interptabimur;Q_ua qui dem re quid magis temeratiu rflepolTit non
rcperio:nam queadmodutn cosUi demum fapietes Bi dicimus Sc frntimus:qui naturam
optimam ducem fequund ita illos (hiltos temerariofep putabimus:qui ab ea oino
dcfcifcut.lure igic' uentM c titanibus ortos iinxeruuquonia ptuibjtioncs a
temerario fempi&nalurc repu gnante iudicio pueniunt. Audax igitur facinus
comittunt perturbationes i qux flultitia 6i temeritate humana gente appetitum
diuinitatis nolhx id eft tonis itm perio fubiedum turbare audeant.Quaraobrcm
iufte a neptuno obiurganifues ti:fu(lcc^ impium pelagi fibi uedicat
ncptunus/cum in bene inftituto animo hw iufcrmodi illud e(fc oporteat ut folo
mentis iudicio moueatur. Ad huiufccmodi igitur fentemiam commode polfe
ttanffcrri xolum/at^ neptunum putaui. Qod (1 qua in parte fatis tibi fadum non
e(l:aut li quid in mentem urnitiquod aptius IcKo quadret:promas illud licet:
Nihil enim c(l quod uereatis:aut pudore impe< diaris:Nam neminem ex omnibus
qui uiuuntiuucnics/qui aut xquiori animo refutari patiatur:q ego fero/aut
auidiusqucxlnefcicntaddifcat: Necp eft etiam quod dicas huiufccmodi fenem ego
adolefcens. Vidi enim multos ex iis qui et ha bentur et funt dodiflimi nonnunq
admonitu etiam indodilTimi hominis in at rum rerum cognitionem ueni(Te:in quam
fuo ingenio tam diuturno nunquatD tempore hadenus uenerant.Ego inquit
Laurentius quid aliis euenerit ncfaoiiiu hi tamen nunq tantum arrogabo. Verum
quia accidere in tanta rerum copia at^ uirictatc dodilTimis quibufc^ folet/ut
cum plurima eodem tempore fefe med of ferant: nonnulla fint:qux fic fi non
explicent" :facile umen Sc reliquorum fimilitudine percipi pofiint.Sint
etiam et alia qux quamuis enucleate planecp ediflicræ turihcbetiori tamen
ingenio qui funt illa minime confequant":utar ea quam mi hi pamittis
licentia:& quoniam de confugio xoIi:at(^ deiopex nihil a te didum cftipetam
nifi id omnino inutile ducas:ut fi quid ea in fabella fitiquod ad rcno<
fisata confciat/nobis explices. At dices n unquid tibi m mentem uenit i ac edam
Liber tertiuf nthinu Horib^tne(!erat!ges« Vcnicqdetn. Kamaiffi nKo adiuiDis ad
humana abducenda cftinullum pene maius przmium proponi pote(l:g pulchrum cafiu
m coniugium:inde enim cupiditas ilia naturalis:quz eft coniundionis maris SC
fttminæezpIetur. Lndefoboliseft |> pagatio:quxquidem non fotum uoluptatiii
tuul ac ufui nobis cd;uetuffl etiam pofteritati confulit/ut etia morrui aliquo
mo do ih illis uiuamus.Ulbucipfum inquit BAPTI5TA nec modo |>po(itx quxlH
oni rationem habcas quicq eft prxterea defiderandum.Nam id hoc in loco aperi
amiquod alio paulo pofi foret aperiedum*Prifci igit" illi qui de deoni
natura fcii» pferunritria ibeologiz genera pofuerutiunum fabulofum/quod grzci
mithicon nomtnant:quo quidem populum ociofum in theatro oblec rent: Alterum
nata rale/idenimeft phy ficonrper quod comode uimnaturxexprimuntiut cum per
iatumumhlios omnes przter illos quatuoruorantem tempus nebis denotant: itodii
quatuor elementa ezcipias:omniafua edacitate confumit.Tertium uero iccirco
ciuiJeappcllant:quia inde ad benebeareqj uiuendum przcepta promatur Coofueuerc
igitur poetx quibus nihil dodius reperias/hzc omnia ita confundere:at<p m
unum comifcereiut optimo quodam temperameto eodem tempore et aures
fummauoluptacedemulceant:& mentem recondita dodrina alantiac nos adredum
at^ honeftum et ad ipfum fummum bonum deducant: Nos aur quo ciam A hzc omnia
exadius in Marone ^fequi uoIuiiremus:nimis operofum ne godum |poni uidebat"
duobus primis generibus obmiiTis intra ciuilis generis ca cellos difputationem
noAram mcluAmus.Q_uapropter illud paululumtqd mo* do de fabula
decerpferas/noftro operi conducet: Nam reliqua phy Acen fpedanr. Dicunt enim
Pbccbi Aurorzi^ Alias.xiiii.fuiiTe eafcp lunoni nymphas attributas exiliorum
enim intcrptatione luno ær cA* Æri autem feptem quzdam attributa fuiit.Septem
itidem in ære ignum''. Quz omnia ipAus folis tunc maxime cum in noftro
hcmifpcrio ueriat :opera proucniunt.Sed ut de primis priori loco dica tur eft
æris ut leuisAt:ut mobilis:utcalidus:ut humidus: utferenus: uttacitum P
Utlpirabilisxbasigic ueluti feptem nymphas finxerunt poctz:earutn autem quz in
ære gignunt pi imam ponunt quz Ins appellac'':Cui etiam attnbuut tres ueiu li
minittras pluuiam grandinem niuem.ln his enim contingit ut nubes fuli oppo Dat
:fcd eft id^ut ita loquar^nubiu corpus ut alia fui parte denfum/ut alia denii^
us/alu den Aflunum At.Q_^uapropter a prima fubrubeus/a fecuda ccruleus/a
ter<« tia niger color perucnitx Contra ucro partes quz in ca purz funt
croceumiquz ue ro puriores uindemxquz poftremo puriftimz album colorem
remittuntibzc igi tur piima ex alus feptem nympha eftxquam deinde fex fequutur
phy thon come.* ta fulmen ronitruumxcxhalatio ac tcrremotustdeqbusfuo ordine
difpacarc no grauereniuriniii ex tnbus illis quz dixi generibus ciuile folum
profequi conftitu il Temus: Vaum cum uoies bzc probe et quid qua ratione
gignantur: faci* ]ccognofccs.Sunteniminiisquzmeteora appellanturab Ariftotele
quidem pr acute:ab Aiberto uero cui magno cognomen eft etiam aperte petferipta.
Quod autem dciopeam omnium pulcherrimam fe daturam pollicetur luno ratione no
carenEft enim ca in ære facies quz ferenitas didtur.(^uz res autein magis io cu
pidiutem tcruin humanarum trahere zolumpotetauqDamfctena czii facies.
Perplacent ifiainquic LAVRENTlVSs at ita perplacentuit nihil in iis prxt» rea
deiideretn:perplacent quo^ quz tu de ratione appetitu^ diziftitfed uide at
pugnantia Ioquaris.Natn(ire^tnemini/tu paulo ante xoluminferioiemratu
netnelTcuoIuiditnuncncptunum fuperiorem ponis:redeutru^:Verumcn hic impetiutn
fibi non autrtn illi datum dicattnon uideo cur zolo quotp non conoe datur:ut
mare uel io mittendis uel coheteendis uentis:aut extollat aut fcdett No co
inficias inquit Baptifta pertinere ad hanc inferiorem rationrmiut cum deage dis
rebus iudicium habeat/ipfa appetitum et ad raquz afeifeenda funtimpellati et ab
iis quzfunt fugienda auocet.Vcrum quemadmodum in bene inlhtutare publica
fupremus quidam magifiratuscreaturicuiusatbitrio £d ii omnia getan^t alii tamen
aifunt minores magiQratusiquibus fingulis fmgula committantunili totius uitz
imperium in mente confi(ht:ita tamen ut infenor ratio appetitui ea Ic ge
propolita (itsut nihil niii rede iudicet.Q_^uod ii illecebris rerum humanatum
decepta non rede fentiat:fcd iint eius iudteta falfa/adeft fupremus ille
magifha* tus ad quem prouocare liceat:Q_uapropter rede faipcura eil zoium no
niii clau fo carcere regnare: quoniam in uita hac communi ac ciuili potius
cohibetur appe titus ui quadam rationistquam quietus tranquilluf^ tcddatur:non
enim in bo nas affcdionesconucrtuntur:red potius moderatione cohercenturjRatio
autm fuperior cum caput ex undis exculittemiiTamt^ a lunonc hiemem cognouitteun
da in tranquillitatem redigit. Emittit enim raput ex undis cum fe a corporea mo
letqua hadenus obruta opprimebatur ucndicans ipfa fe excitaUat^afeniibus fe
uocattquo tempore non folum cognofeit qua hieme opprimatur zneasne in Ita liam
tendat:uerum etiam tantorum malorum caufam lunonem id eft rerum bu manarum
cupiditatem ei1'einteliigit;(^uamobrem uentos qprimumanutire mouet : Nam
uacuuspertutbationibus appetitus rationi obtemperantior reddi tut lllofq) ut
deterreat maiores poenas fibi daturos minitatur: quam illi ab Ænea acceperint:
nec iniuria. Nam appetitus a perturbationibus inuafusad tempus uexatur «
Intelligentia autem illa fuprrma fi imperium fibi uendicæ tit/ quoniam fummo
lumine animus illufiratus nunquam deinceps nec ded pitut:nec labitur : neccfle
eft ut perturbationes: quarum genitrix falfa opinio fuerat in nobis penitus
fepultz reddantur. Quapropter non fimili pasnaco milTa uenti Neptuno luent. Sed
undz quz fequantur. Remotis uentis ou bes dirperfas in unum colligit Neptunnus:
at«^ colledas fugat: Efi enimboc intelligcntiz:ut a principio fingulas falfas
opiniones profequatur : in unum congerat : atq demum confutet: quibus
confutatis tum demum folis lUe ce: ea enim efi ueri cognitio eunda
iiluftrantur. Q^uio 81 dmothoe et totos naues a fcopulis abducunt. Cimothoe per
undas currens fi gtzcum uerbum aduertas faale interpretatur. Triton autem
neptunni tubicen babetur. Iftaigi tur duo numina afcopulis cupiditatum naues
reducuntr quia cum tedum DOuerimus/uana relinquimus. Scientiam autem autnofiro
ingenio al Tequimun cum id fua uclodtatc pet eunda difeunat t aut dodtina
aliunde accepta pd«' IIs I a :v t Ii* :lil i i M d nit ai fli iib idi &bi m
Ml ItM IS it alti nbi lii» IStl' uti «m 110 0» 1» ufl «I (i ‘i? iit tf
tnumilludd motlioesuelodtasciprimir hoc autem tnton signifiat. Mam ut Cubidæs
fuo przconio mandata prindpis manifcfti Qtidc dodrina quid ucriras
4ieIitaperit: quod autem prorpcrocurfu per pacatum mare utatur neptunus
fadleprobatur.Nam cum pacatus eftab omnibus perturbationibus appetitus ita per
eum labitur ratioiut nufquam ofFendat.Diximus de tempeftate.Nuc ad reliqua
pergamus: Neptuni beneficio ex tam manifefto peri culo erepti Troiani cum fefu
fradi(p Italiam utpote longinquam terram contingere pofTe
defperatent:extemporaneo ac^ minime przmeditato confiiio ad propinquum carebam
ginenfium littus uela dirigunt: puto uosmeminifTeitaliam fpecu!ationis:cartha
ginem adionis figuram habere. Quapropter id nunc exprimit poeta quod in humana
uita fxpe ufu ucnire uidemus sSunt enim multi:qui cum ne in uoi luptatcne^ in
diuitiisnet^ poftremo in honoribus fummum bonum inueni^ ant ad ueri cognitionem
fefe conferant; Verum cum fe humana omnia Facile poircconcemncrci& reorfum
ab hominum coctu contemplationi incumbere cxiftimenniamtp rem aggrediantur uix
illam reliquerunt cum tantum relidam tum rerum defiderium infurgitiadeo ex recordatione
tantarum illecebrarum cffeminanrur: utrurfusin fumma spcrruibationes incidant :
qux quauts tan« dem fumma ratione fedentur:adeo tamen defefTi defacigatit^
relinquuntur ant mi nodriteum non fine difficultate tam horrendam tcmpdiatem
euaferintiut latis fupert^egiffe putent fi focietatem humanam incolentes qux
immania 8i humano generi pernitiofa funtuitia effugiant. Virtutes autem fi non
exadas; ati^perfcdas/incohatas tamen retineantifi: cum difficultate dus uitzqux
in ucnfpeculatione pofitæfideccrreantut:animaduettantqux hutufccmodi ui^ tz
genus humanam pene imbecillitatem excedere cum Arifioteles maius aliV quid quam
hominem effe qui hzec poffir affirmet fecum fic ratiocinantur.Non- parum erit
uoluptatum incendia euafiffe : Thracenfium rapinas euicaffe : hac harpyarum
fordes et Cyclopum immanitatem refugiffe. Nunc ucro fi id non. pofiumus: quod
diuinitatis potiusiquam humanitatis effe uidetunillud quis reprehendet ut in
hominum locierate ad quam colend >m tucndamiaugendam ^ nati fumustuerfati prudenter
iufte fortiter deniqi ac temperate uiuamus/ pa rati pro pania ac parentibus
nullum laboreminullum periculum deuicemus.. In omnes qui nobis
fangumeconiundifunt pietatem obferuemus: Ciuibus nofiris aut egenis
liberaliterfubucniamus: aut errantibus redam uiam demo- firemusiaut
iniuriaoppreffos confiiio opera gratia audontate noffra fub«'
leuemus.Speculationem ucro magnarum rerum in maturiorem zratem anp inipfam
fenedutem: quz a multis perturbationibus i quibus huiufcemodf uita maxime
impeditur liberior effefolcC reiiciamusiquamquidem fententt am iis quz de
Hyfach magni Abraz filio dicuntur : tueri fe poffe confidunt: Nam quod de
patriarcha lilo legitur egreffum effe ad meditandum in agrum inclinata iam die
ita interpretantur exiffc illum a corporeis fenfibus adme ditandum in agrum
quafi feorfum ab humana frequentia inclinata iam die/ id enim efi circa
fenedutem iam femore fanguinis ceffante.Conanr prztereii Cuamcaufam
grauiffimotu uiioium teffimonio corroborareiqui ufutn potius lQ.
P.Virg.M.AIIcgo< triqaam aufamunde bonum (it confidcrantesadionem
contemplationi aiw teponunt. Pcxfcrtim in uiridiori ætate: in qua philofophum
agere, dicere rem publicam adminiftrare militare at^ imperare iubemtoftenduntip
Platon ip tum uakdioribus annis K nauigationes io (Iciliam : et (iudia in Dione
exerciM retSencfccotem autem in academia circa ueri inqai(itione quieuilTe: Xen
ophi» tem quorp adolefccntem in rebus agendis fummopere laudant:Srn:m ueto in
fpcculatione admirantur: et beatum propter odum putant: Q_ui n etiam mub tos ut
fapiendorex fierent plurimos populos paagrafle oftedunt : Q^iuproptct K Homerus
Vlyxem fapientem propterea dicit:quod multorum hominum ut bes ac mores
nouerit:Huiurcemodi igitur ac plura alia in unum collig^es/qux tu fummo
artificio ac prudentia nudius tertius cum hoc genus uiucdi laudibus efferes
enumerabas fpeculandi propofimm in feriorem ztatem rdiciunt i at^ ad res
ciuilcs agendas interim fe conuertunt:Q_uod quidem uitx genus qui ui
tuperabit/is profedo iuflam ut ab om nibus uituperetur caufam prxbebit.Sunt
enim fua (ibi qutxp muneraiSt plutima quidem at^ przclaraiquibus (i rede fu
gaturi&czteris utilitatem ficfibi gloriam tranquillitaremip quoad
imbedllitai bumana patitur (ine controuer(ia pariet:Q_uapropter non (ine fumma
ratione tutus tranquillnfip portus in caithaginen(i littore defcribituricuius
formam li< tum^quzfo diligentius infpidte.Eftenim in fece(fu longo
locus:quem infula portum ef&datiMortalium enim uita continentem: ea enim
terra eft quz marU nis fludibus minus e(f expolita nufquam hibct.lnfulam autem
habet zfiuinti busafliduofurentibafip undis undu^perculVam.Sed quz tamen ita
fua mole beteat: ut aduerfus omnem uentorum undarumip impetu immobilis fimpcr
obduret : Nam cum hzc quz momentanea funt: et tamen (f ultitia humana bo na
putantur fortunz temeritad fubieda (inticut^ amore fui mentes humanas in
Cendant conficerent profedo nos nili infula in medio mari (imus : quz quauis
unditp mari mndaturitamen uirtutibus (fabilita non mergitur.Eif autem in 16
gofccefTuiNam animus uirtutibus aduerfus fortunz impetus munitus procul a
perturbationibus feiunduscft.lllz enim obiedu laterum repelluntur. Cu hin:
fortitudo contra res aducrfasihinc temperantia aduerfus res fecundas opponar i
rede^ uafte rupes appellantur. Virtus enim in diffidli luco polita etf.Aode qtf
ita medium tenet:ut quocunt^ te inde araoueas:ad extrema peiuemi ndutn liu unde
tanquie piti rupe labatis gemini^ minamurinczlum fcopuli. Nam non folum noUra
prudentia freti res magnas aggredimur. Vei um multo magu
diuinoconfilioconfili.NcctemetedidumeQfubrcopulorumuettice zquota tuta li(ere.
Nam appetitus duplid lumine illuftratus ab omni feniper pemiiba tione liba
cfi.C^uod autem defupafczna corrufeis filuis6t atrum nemus horrenti umbra
imminettnon caret rationeiNullo enim in homine prudenti' am inueniasiqut earum
rerum quas fua temeritate fortuna uafat cuentus pem tus przuideaticum tortam^
diuerfis caiibus cxponamuriut pcrfzpe Si quz nocitura (int fummis uotis
expaamusi6C ea quzfieuenircnt falutiufui ef fcntiueluti noxia omni indufltna
fugiamus tOeni^ in aduafa fronteaquz dulces depizbcnduntur.Nam cum procul a
uatiaium cupiditatum fludilMis Liber totius botiSftifflunezur^ buiufcctnodi
uita:quz (ioo beata omntæ e quieta tamen 'tcanquiUa^ (it.H uiufcemodi igitur
pottum Tubcunt: qui fuprema diu fedati ac poRrrmo difficultate deteriti fe in
uitam focialc contccucnin qua ciuilibus uirtutibua exculticuinuerrentuc laudem
non medioæm reportanti longe ta« en ab ea diuinitate qua quairimus abfunt. Quod
aute feptem nauibus huc iubicritiquodi^ reliquos c (copulo profpiciens
requirerenquod detnu focioru inopiam raritu uinoij rublenaunic buc pertinent ut
intclligamus eu qui rc pu« bJicamadminiflrandam fumat oes labores omnia
incdmodafubire oportera ut illoru quz fuz fidei cdmifTi funt falutem
incolumitatcmi^ conrcruet. Qua riptopter fit Acate$(^ea enim principis cura
efl^ igneexcitabit/ id eft dcfides ad tes agendasaccendetiutquz ad
uidumncceffana funt minime defintifit fcopulos Buendens abrentes requiretiquos
(i tutari non poterit iis qui afTunt confulitiillo tnm^ inopiam cu fublcuauerit
etiam oratione confolabituc:optimif(^ pcepds ita in^oet/ut admoneat non effe
huiufcemodi hoc uitz genus ut m eo fedes et gere uelimusiSed effe omnes labores
ac difFiculutes fuperandas /ut in italia per ucniamusiubi demum fedes quietas
muenietiubi etiam Troia reforgetiNam cu uitauoluptuofaibiquzreretur eaaderat
uoluptas iquza fenfibusprofeda cor porca edet fit caduca: fit qua (latim
poenitentia fequebatur.In italia autem uolua ptasfuma prouenictadiuinaturaum
fpeculatione.quz uera fimplexcp fituo luptas quz perpetuaiquæ ztema qua nullus
moeror fubfequac. Hzc enim opti tni principis adminidratio eft:na cu u ideat
ciuile adione humanz indigencizt non aute ei quz io nobis efl diuinicati
inferuiteiita in illa uerfabic :utcu quz ad mottaliu inopiineceflaria funt
uidetinfuotutame animos ad diuina etigatt iubebit^ eos aduerfusfortunzcafus
durare: fit fe rebus fecundisquas in latio inucniet feruare.O diuinum ingeaiu.O
uitu inter ratidimos uitos omnino ex cellencemifit poetz nomine.uere dignumiqui
non chridianus omnia tamc chri dianopr ueridimz dodrinz fimi liima proKrat.lege
apodolu Paulu. libet enim unum hinc ex omnibus ucluti nodrz religionis caput
nominareiqui uitam hu manam ad huiufcemodi notmam dirigitiut ne corporis
necedatia fubtrahen da:flt uero inuedigando femper uacandu cenfeat.Q_uid enim
ille fufe late de Cmbinquod hic poeticis an gudiis non coardetiMiraprofedo
restut fingula pe ne uerba longidimas e platonicaiaridotelicac^ re
publica:fentetias ampledi ua IcantiSed nolo quod quidem hadenusnur
quainfeci:itæxade hunc IcKum profequi:ut reliqua deinceps aut omittenda:aut ea
celeritate przteruolanda fintiut idem nobis eueniatiquod longam piduram in
citatiiTimo curfu per« (piciennbus euenire folet.Ii enim in puado teraporisicum
id etiam magnope tecontendanticolorcs notare uix poffuntiliniamenta autemifit
corporu fimu Iæra fit quam grzci fjmettiam nominant ne uix quidem. Q_uapropter
relu quaadtnaiusocium differantun^Oratio autem Venerisad iouemrurfuftp lo«
uisad Venerem meram textus (criem continere placet.lnferuiut enim omnia poetico
f)gmento:ita tamen:ut non nihil de mathematicis decerpat Maro: fit unde luboyt
familiam in primis autem AGUSTUM (OTTAVIANO) Augudu laudet.Nam quz ad allegori
am tcfcitc uoluffius iude folu accetfenda cefeo unde duc^.fiu fpote fcquanf In.
P. Virg.M. AIItgo. Sin 3utc ui ingenii inuitamuntur/twtu de
grauitateruaamittunttatridtada pene reddaqtuttluc^ omittamus anxias
interprxtationes:ea(p folumaflim» tnus/quz non modo in abdico non latentsfed
ultro Tefe quxrehtibus offerant. Quod autem paulo ante ad mathematica pertinere
dixi pauds quidem fcd,uc temporu anguSiz ferebat no oino obfcurz in principio
expolitu clTe puto.Ita^ teuertor ad Acnea^lc enim per node plurima mete repeti
ftatuit ut prima illa ccfceret loco^t natura diUgctius exploraretSt hoics ne an
ferz teneit inucdigarc. Q_uibus untibus
qualem oporteat eife rei publicz adminiftratorem egregie, a {timit. At^ in
primis illud bomericd approbat. Q_uis enim cui tot mortalium cura c6mi£Qi Iit
uu' uerfam nodem fomno impendet. Id aurem fumma (apientia didum omnes
fatebuntunEft cnim’optimi principis uel præcipuum munus cum loca inculta
uideaciut homines ne an ferz inhabitent iibi exquirendum proponat. Na qui uitam ciuilem diligenter intueturmaria hominum
ingenia;uaria fiudia uario^ q motes inueniet. Sunt enim qui redo honefto^
r(mperincubant:ciuili con cordiz faueancsLibertatem (aluam eflecupiantmeroinc
plusqua leges intepui blia valete velint. Iniuria oppreflbs subleuent.
Superbiam seditiolorumciuid deiedam cupiant. Maieftatem publicam pro uiribus
augeant. Religionem de« ni^iac iufticia omnibus rebus przferat.Hi igitur iure
hoics appellari polTunt: quoniam humanz naturz officia non deferunt. Contra
autem plurimos repeti as/quotum pctulantifTima libido nihil fandum/nihil pudicum
relinquat: pluri mos qui fuma auaritia acccli/omnia uenalia habeat:& aut
ueluti uulpeculz do lisiinftdiif^p incautos decipiat:auc uiribus fuperiores cum
iTnt opibus quo fit honoribus eos anteite uelint:quibus fapientia ac uirtute
longe fintintetioress buiufccmodi igitur uitiis deprauati homines quauis
effigiem mebra:^ humana retineant/tamen quoniam mores ferinos induerunt/no
amplius hominesifed immaniffimz ferz putandi funt.Q^uapropter in humanis
coetibus longe plura funt illa;quz uitiorum uepretis at<^ fenticetis unq
inculu hortent: quam ea quz ingenuis artibus prxclarifd^ uirtutibus exculta
nitefeant: progreditur igif Æneas ut fingula diligenter exploretinon temere
tamen:fed Acacem tidiffima comitem fecum ducit:8( armis inffrudusincedit:Nam
quis unquam rede re publicam admini(lrauit:cuius animus aut cura ac diligentia
uacuus fit:aut for tiCudinecareat. Iliis enim quz agenda funt multo antea
przuidemus.bac au tem nequid ex iis quz magna ac przclara puidimus ob moetu
infedu relinqua turtcfiffimusiCum igitur rciedo in aliud tempus contemplationis
propoiito adeiuilem uitam digrediatur Æneas:Sit^& in ea multum
elaboridd/opus eft ut et duce matre ad illam perueniat.Nifi enim amote catum
reru quz age dz funt calefcat animus aduerfustantos:tam^uarios labores obtorpeatnc.>
ceffe eft.Fit ergo illi obuiam mater no tamen cofeffa dea/qualif(^ uideri
czlieo lis et quanta foletiEam enim fe tuc offendit cu filium a uoluptate eo
cdtilio ab ducebat/ut ad fumu tenderct:Q_uo tempore oportebat ed inflamari
amote di uinaru rerutqui et ipfe diuinus ab omni materia 8C corpore jicul
abfit. Hic adt catum reru amote incendit" : quz corpotez Bi magna ex parte
mataiademafz Liber lotiui li io “!• lA ab ife «pg bb aS sua tsb mt s'4U. utii
at». ia? r i*f a O liii ga< 'fb fihhQuapro{iter non deam confcf Taafed
humana fotma di RiffluTata fefe filio offcit:ftin (yiuaotueiiatriziIIi appartt.
Quem quidem locu planius uobis nf primamati pauca omnino necniu ea qux
nrcriTaria funt prius de fylua rxpofur^io. Omnium tetum qux funt redum quendam ordinem
eiiflere : Trifmegiftus Homerus ac PLATONE oftenderunt: Atm ut quot fentirent
dilucidius exprimeret au ream cathenama naturx fonte ad innmam ufep Fecem
demitti finxeruntiqua fa> is gradibus eunda connedanturteuius origo cifentia
dei cum (it eo ordiue proce ditut ut fecundo in loco potentiaztertio
fap'entia:at<p quarto uoluntas collocet t bxc fequitur fatum attp illud
anima munditdeinceps funt cxieltes demonest (iit xtbnriifunt æreisfunt
bumedeitfunt deni^ terreni. VItima autem omnium by le^quam nos fyluamdidmus^in
infimo refideti Poifem fingula non fine fum< mo ufu atip voluptate oratione
mea profequi. Sed quoniam difputatidi noftrx neceflarianon funt
brcuitaticonfuIam. Quamobrem exteris obmiffis deu prin apium lyluam extremum in
catbena ponemus.Nihil igitur deo fuperius. Nihil fjlua interius.nibil
hocprxftantius.nihil illa uilius. Media uero inferiora fupe« nntta
fupetioribusuincuntur. Eft igitur deus et fyluathxc autem niatetia efttex qua
omnia corpora funt. Vt enim lignarius faber materiam ex qua eunda fadat luam
habet. Continet enim illa rude adhuc lignum s K informe: Sed quo tamen innata
fibi facultate formas omnes redpere ualeatifaber autem in quafcun^ uult formas
illud tradudt tcadem ratione ad deum materia eft.Deus enim for
masomncsabxtcmitate complexuseft. Materia uero fi illius naturam infpicias
formam nullam certam expreffam habet. Verum innata fibi recipiendi faculta te t
et ut ita loquar confufe omnes continere uidetur. Materiam uero quia matet fit
didtur. Ceus autem pater: forma uero prole$.Deus enim dat.fylua redpit. *fotma
nafeitur. Q^uapropter rede Trifmegifhis patrem matremtp xtemos: pro lem uero
mortalem didt. Mater cfi materia quia finum prxfiat. Deus gignit : 8C oeat : ac
fua quidem ui. fila autem ex alterius immiztione condpit .Condpit au
teminfufione fpiritus diuinitquam animam mundi nominat Tnfmegiffus t Q_ux res
eum mouet: ut deo ofiidum patris tribuat : quoniam infundit: SyU ux uero mattis
t quia a deo condpiat: Animam denicp mundi uim feminis hsb> bere dicit :
quia a deo ipfa infpiretur in fylux gremium. Prxtereo plurima nomi aatquibus
uariasfyluxproprietatesexprimit:Illænim nihil ad hxcqux agi« mus: Sxpe umen
totam materiam appellat malignitatem :ne« iniuria.lpfa eni Iblacau
Qefitutresmintentumcadant. Namquod a materia feparatum efit id nunquam interit:
Nunquam enim quod fibi contrarium fit capiti fed illud fu« gitat femper at^
declinat: Quod vero fylux gremio continetur: iccirco in la^ teritumiabitur:
quoniam fylua/cum ad omnes quas qualitates appellant xque lebabeatcuenittutuelutialtera
Helenaintra teda uocet Menelaum:ac limina pandat. Num dum foimas illis quas
hadenus receperat contrarias admittit: fc« cile fit ut cxtemx irrumpentes
domefticasextinguant.Q^uapropter quis illam malignam non dixerit t qux
familiares fotmas prodatiignotas admittat: K uelu ti fufiepri iam in fuam fide
m clientis caufam deferens : aduerfariiqi fufcipies per timtnam perfidiam p
eaoiaticeruf i Tardat etiam et perturbat noftras mctesfyb k rn.P.Virg. M.AIIego
« Ui t omæ ab ea uiHum nunat. Viaa enim mfcitia igaotatioa [«St At ignorationem
ipfam cz craflitudine caligine^ corporis prouenire et Plato S plæri^ cz iis qui
grauiflimi habetur philofophi audorcs funt.Huiurcemedi igi tur rationcmotus
diuinus Maro cum rerum humaiurum:8;qua; corpore no a rent:proptrrca^ in uariis
erroribus uerrenmr:amore inflametui is qui in re pu> blica princeps effe
cupittuenerem Tub mortali forma inducit Sc in tpia lylua:guo niam eunda quz
agimus in materia demerla funt illam ponit.Nec temere umv tricis habitu ezomat
: Eas enim feras de quibus paulo ante dizimus fibi infedai das proponiuquifuis
cibus rcdcconrulturuseO.Acneas tamen non nihil diuir nitatisin ea etiam iic
diiTimulante cognofcit.nam Si (i populorum temperatocai circa humanas adiones
uerfenturuamen quoniam honelhim redum^ tuentor eodem illo amoroquo hzc caduca
appetimus originem nollram diuinam eflie fcntimus.cum enim reIigioncm:cum
luditiam: cum animi magnitudinem atb amamus : uerfantur hzc profedo circa
adiones .Sed tamen quis non uideat illa a diuinitate proiteifei C Eft tamen
oratio uenetis non ut dcz : fcd ut hominb: K tamen nefeio quam diuinitatem
redolens : Nam cum Carthaginem proficiid lii adeat:argumentationibusab humana
prudentia profedis utitur: Nam K quz de hilioria Didonis eruit : ea omnia
falutis fpem afferunt : Si cum aliquid funp rum przdicitmon ut deaifcd ut augut
ex cygnorum uolatu przdicit. Illud aute fumma fapientia czcogitauit poeta : ut
in orationis fine fe deam manifeftatet Ve nus : Nam cum in uita ciuili quz reda
Si honefta funt diu coluerimus ez illotn pulchritudine ad diuina quotum hzc
ueluti (imulaaa funt erigimur.His igitur rationibus a matre perfuafus
Carthaginem tendit oblitus tamen tenebris : ne illi us conatus aliquis
impediret. Et profedo fic fe res habet. Nam qui magna pru< dentia przditi
funt uiri cztnam multitudinem quam adminiftrandam fufeipi unt ita ad redum
honefl um^ trahunt : ut fua conlilia fzpilTime tegant:quz q dem fi palam
facerent autzmulor uminuidia: aut dulcorum infcicia impediti illa ad ezitum
minime perducerent: Vtenim prudentes medici zgrotos(^qucv tum libido nihil
falubre ezpetit])perrzpe fallunt : Sic optimi prinapes fimutan^ do aut
dilTimulando fua conlilia occulcant. Nam ut cztera obmittam nonne qui leges
tuleruntiquo maior ei audoritas inelfet/fua conlilia alicui deo actnbu^ erunt
fCunda enim ez Egerie nymphz przceptis Numa Pompilius facere finiu
labatilusciuile Spatthanorumez Apollinis fententia faiplifife iinzit Licurgust
Quicquid Zautrades apud Atimafpos conltituitid a bono numine accepilTedi
cwt.Zamolzis autem quzcuis Scythis tradiditiin Vedam reculitxNam q mul ta q
difBdlia inter tumultus militares rede ad ninidrauit.Q_. Sertorius cum fe ii la
a Diana per ceruam accepilfe diditarct tSed nimis multa dere przfertim ta tna
nifeda: Carthaginem ueto e loco fuperiore cernunt: quoniam ut nudius quo^
tertius difputatum ed nuquam optimis indituris Si legibus temperata erit res
pub.nili qui illi przfunt eunda qu aut przcipiunt aut prohibent ad eotu qax per
rerum magnatum speculation emuideritu regulam ac normam sapiennllb tne diligant.
Cum autem Carthaginen lium operam indudriam circa urbem difiandam
dclaibit/nonnc pauciflimis ueifibug onuiia colligit: quæ^iia9 c*\Ili «f m ii m
ta ai l U U Kl ii M ib gia \tt\ th ‘S ipn iii^ F! jpb (f ob 09 0* xb s 3 ib
<1 Liber'tertiui edam (apfari( Cine de re pub. latprerut)t:noa ni/i pluribus
libris exprimuntur tamum enim ea parant ibiis aduarus ho(tiles impetus tuti (t
nt: uibus V^^fe contra czliiniurias priuatisx difidisfedefenduntiHzcenim
duoprx^ fiant ut duitas efle pofiit.Poft bzc uero ad iura et magilhatus fe
conuertunt : ut nonmodoe/Te fed quod proprium hominis e/l i cede bonefte^
e/Teualeant: Quoniam autem ad magnificentiam et ad liberaliutem &ad uim
propulfan^dam publicz opes in primis utiles funtipottus optimi/efiiciundi ratio
habetur t Poftrcmo autem (icznz ac theatri cura non negligitunubi et corpora ad
ualitudi nem &robur exetceri:& animi publicis priuatifi^ negodis
defatigatiihonefii/Ti* mis ludis relaxati pofiint: Qua autem mente et quo
confilio illos apibus com« paraucrit : quzfo diligentius animaduertite t Si
enim huius inferti naturam con fideretis nihil illo aut induflria ac
folertiaacuriusraut a/Tiduo labore indefe/Tius (eperietis Ouccm in primis
habent quem fequanturt cuius impenum nuquam contemnannlabores inter fefumma
zquitatediftribuuntiSummaconcordia 8C opera fua fadunt et boftes arcent.
Quicquid quzrituriid omne in comune qux iituri Quz quidem omnia fi in rem
pu.aliquam tranfferasiplatonicam ciuitate cxmfiitues. Erat autem in media urbe
templum lunoni facrumiut ofiendatur ni bil oportere in re pub.antiquius
religione eife • Et quoniam primx in uita cluili przces funt/utimperium non
folum conferueturifcd etiam augeaturmo fuit ab re templum ipfum lunoniiqux
imperiorum dea habeturiomni cultu confcaare longior fim:at<p etiam minutior/q
tantz rei conueniat fi fingula quz in templo depida erantiquz a regina
adminiftrabantur : quz ab opificibus efiiciebanf idU
fiindiusrefetamiMultactiara in Ilionei at Didonis orationecontinentur:plu« ra
in congtefTu zneziplurima in conuiuio Si in coiimdione hofpitalitacis deprz
hendasiquibus uita fiatufi^ ciuilis expnmituriQ^uoniam uero nouerat fapictif
fimus uatrs primordia rerum pub.& imperiorum uirtutibus niti: Veriiep effe
Sa« lufiianum illud fi imperia iifdem artibus retineientur/quibus acquirunturind
ef fe tot mutationes habituras res humanastiedreo primum regis reginzq; congref
fum ateligione/a bberalitate/St abomni genere uirtutum profidfci uult.Srd ita
paulatim in deterius labantur/ut quz pudidflima fuerat mulier/K in re pub.ad«
minifiranda uigiIantiiTima:turpi amore uida in odum lafciuiamip labat ui« bus
omnibus oftenditur q fadle rebus fecundis humanz mentis a labore in libi« dinem
declinent.Quotiiam autem uirtutes tn uiu fodali potius inchoatz q ab Iblutz
funtiHic autem ita de uita duili agituriut uelit exprimere quod paulo an te
dicebam fundameta rerum.p.qux ex paruis æfeunt/habere meliora initia / q
exitus; iccirco reginam a prindpio in omni re temperatam pofuit:paulo uero po
fiea amote infutgente paulatim ex temperantia in continentiam labitur: pofire»
mouida amore incontinens iu redditur:ut demum in fummam intemperaiui» aminddat,
Moueturautemaprindpio Dido/ut znramamet/non solum uittute quam urum in uita
cotemplationi dedita intuemur:Sed iis qux humanis cm tibus non folum bona uerum
etiam fumma bona babentunC^uis enim in ge« neris nobiliutemiquis formx
dignitatemiat^ excellentiamrquis deni^ multo ornatu infignetn orationem inter
fumma non enumætiCurn in foro/cum in fe t lo P. Virg.M. Allego oituhzc BOB
fapieBtum ftatcmfed populari trutina pondereBtarfX^uofliia utro ta uica comuni
pmulti hitcreii quibus cofulroribus utaris. Muiti cnitn aut tnalo exrinplo
motiiaut rorum quos caros habrnt non res fuationibus impui n ad praua raoum^
snon fuit abfonum ut Didonrm fororis hortatu impudici fadam inducat. Mifere
enim amis mulier plurimu iam de eo animi robore rt* mittens: quod inteperata
hadenus apparueratcontinctem in primis uabis qux ad fotorem facit fefe
oftedit;Nam quis amore urgeaiT /atgre quidem fed tameilli reftftitiSororis
autem oratio ex uita comuni uniuerCi fumif i Non enim ex philo fophia fumptis
argumctationibusifrd aut uoluptate ppoiitasaut ihcetu earu te* rum
quxtantopeietimendxnon funtiniedoiaut fpc nec firma necfolidapror pofita in
fuam fentctiam adducere conaftut deniip fpem det dubiz meri: foluat qi pudorem.
Qua quidem re acciditi ut uidam in incotinentiam probbertt:ln ea uero cum
uerfaretunpaulatim impudica confuetudine eo redada eftsut nulla amplius
obflantr pudore furriuum amorem minime mediteturifed impudenUi ma tffeda turpem
libidinem honefto nomine appellet: In qbus omnibus quid aliud teneat/quid
conat' diuinius poeta/nill ut Didonem grauifTimum nobis ex cmplar ^ponat/quatum
detrimetum iis qui fub imperio luiit j>ueniat/cum prin cipum mentes pro
induftria ac labore luxuria at<pignauiairrepai:lila enim qua: paulo ante
extetnos at<j peregrinos non nili breuiter ac demilTo uultu alloqueba
tut:Cuius religio fumma in deos/liberalitas in hofpites/cofilium in urbis ex
*dv ficmone/iuftitia in fuos ad czlum ferebat ;qu* in publico nili aut diuiu*
aut pu blicz rei caufa cofpici nefariu facinus putabat. Cuius aius pudore
munitus aboi pturbatione liber pfcuerabatmuc eo furore agitat ut tota urbe ames
uaget :aut li domi fine amato fecorineat ucluti li fola fit/ar^ aboibusdeferta
fummomaro* letabefcat. Publica aut opa ita negligat/ut qu badenus fua
curatfuifip fupnbust quz fuoyt ciuium labore ac (ludio fumma cum celeritate
erigebant iniicimperfe da interruptatp pendeat; Æneas aut cuius cdfilium
italiam fibi propofuerat/ue* tum difficultate rerum defatigatus Canhaginem no
ut illic fcdes ponereufed ut claffem reficeret digtefliis fuerat illecebris
Didonis illedus fipofuum ^fiafcmdi abiiat:Nec deefl I uno.Qu ne res tomanz
oriantur/ Ænez Didonifi^ coniugi um Carthagine facicdum curet. Verum cum id
fine uenais opera pfia nonpop (et: Venus aut filium non Carthagine uerfari:(ed
in Italiam enauigare cupetihac deam dolis aggtedif lunoiut quz Catthaginen fiom
caula faceret: eaoia Ænez beneficio fieri uiderent. Quz cum dicit Maro diuina
pene lapientia uitam foa alrmdepingitiinquacumita quidam excelfoanimoucrfenfiut
humana cotem nentes ex hoc primo uirtutum genere paulo pofl in eas uenturi
fmtiquas purgatorias appellatiat^ inde ad illas tandem quz funt animi purgati
puenire conten dantitn illecebris rerum terrenaru ita molliunt"
lutczlefhum quas fibi folasppo fuetant/peneobliuifcanf. Libido enim imperadi
ENEA Didoni coniugete: id aut eft uiru excellete regno przficere cupit:Sed rem
pficere non ualct nifi alfeotv atur eius amor: Amor autem aiaduertit huiuiccmodi
coniudione no Ænez/ftd Didoni cofuli /no enim animis hotum ad maiota natistfed
ipfi impio condodt» ptzfiat Dobisad uctam fapicmiatn ^ ficild/quam in adioni^
uciDwfcd cetum sdtnitiiftratioa (apientibusii deferatur adum iit de rebus
hutnatirs opor trtifta quauis falia e(recogoofcat:quæ libido regnandi perfuadet
tjmen ailin titur; iiuc iam illa inetitusllt ifiueeorum quibus confulendum cft
mifaicordia motus sCcldiratur autem huiufcemodi matamonium in venatione: de qua
quid femiremptulo ante latis ut opinor uobisdiludde explicaui: Quodaute in
fpelunca loco fubtercaneo conuenerint:quidnam aliud indicare crediderim/ nifi
cos qui honores/qui opes/qui imperia quzrunt intra corporeas caducafc^
tesanimuminclufumgerererCuicdnubio prarter tellurem &lunonem;prxtet nemorum
bibitarrices nymphas uides numen nullum afiFuilTe: Q^uz omnia iis quz de
fpelunca diceba apte quadrare uideotunirrentus igitur Didonis amo K Æneas
abeundi propolitum abiidt:& hieme quam longa eft in fummo lu<» zu
conterere non pudet.Hoc uero quid libi aliud uult nili egregios quo<^ uiros
interdum a redo curfu ambitione aduerti:& honorum imperii^ uoluptate de«
linitos hiemis afperitatem& enauigandi in italiam dilhculcatcm
exhoirefcerc» Q^uapropter nili diuinitusfubuentum Iit excellentilfimzatc^
immortales bo^ mmumuirtutes tam pemiriofapefte pereunt; Id ingenii at<^
beneiiciiin Circe fuilTe fcruntxut Vlyxis fodos in uana monllra tranlFormaret:
Illam tamen ica in luam potclhtem ttaduxifle Vlyxem audimusiut Forma priftina
fociis fit relhtu*' ta.Neccgoid admiratus fuerim.Excello enim animo qui funt
corporeas Iibidi^ ties fadle contcnunt; Quin et cos qui illis dediti funt rede
monendo a tanra fer uitute in libertatem uendicant. At lu Donemfuperare ranOimi
mortales potuco tunt:Nam qui imperandi cupiditate non tangiturxeum omnem iam
humanitas tem ruperalfe &ad dioinitatem proxime accemfTe
crediderim:Q_^uapropter ena quos in fumma admiratione habemus: cos ita frangi
huiufcemodi cupiditate ui demusxutrelidauerauictuteinligniaulrtutisueJuti
umbram fedentut: Fadle enim ell Sardanapalli aut Heliogabali molliflimas
delitiasacluxum cotenere: At^ adeo odilTctCum uero nobisaut Alexandrum
macedonemtautlulmcz larem proponimus eorum res geftas:in quibus utrum a uero
cedo^ difcedcre fzpe uidemustra glonz cupiditate admiramur:ut illud ex Euryde
impium oma nmo& dignum eo rege a quo profertur interdum approbare non
dubitemus; putem uf^ homini conducere li regnandi caufa iu$ uiolet: Quz quide
res una mouit poctas/ut Herculem quem fapiente ferunt:&; rebus a fe
przclanl Time ge ftisczlumafile daircuoluntpriusomniamonllradomaire/ qua
lunouis fzuitu amfuperal Telingeceac.Illa enim non mater fed iniuftilTima
nouerca magnord uiioium rede dicitur. Non enim mortaliuroCut plzriq^ credunt }
fed czleftiu rerum cupiditas eas uirtutes parit quibus ad fummum bonum
peruenire licet: (^uor^uide nili placata prius iunone id autem intelligjmus aid
fedara ambi dooeallcqui no potuit HercuIes. Quis igitur hoc Ænz non
condonaueritxac potius quis illius no comifercanli Dondu in italiæxillensxtis
eoimeft fumaru uirtutu habitus.fcd in ipfo curriculo ut illhuc^Edfcai:’' adhuc
coftitutusiu luno nis dolis apiat"' :uc matnmoniu cu Didone initu fedibus
libi a fatis cocel&s ppch» nat;& colilio abeudi abiedo arces Carchag^s
fudaretac teda nouare iftituac t pur^ puea^ SC ento lapillis aon^umtquasqu
impetti Uignia funt gelbrc gaudeat: In. P.Virg.M.AlIego Non eft o LAVRENTI non
inqui eft hutnan* itnbedllitatls.red cmol damfacul»ti «qua tamen condmo no Ora
arduum-.tatntp «xcelfum tetum culmen ‘U»**®* BAPTl ST Ai K (imul fuo ordine de
reliqui* difpuututui uidætut Mani^ hofpes nofter fiuuilTimus tum ex diei fpatio
in iis qu* hai^u* dida effcni civ fum^oitum ex multitudine eorum qux adhuc
dicenda quum lucis effet in ea di fputatione abfuroptum in colligens non
pertmtam in 3uitruauifl'. miuiri:utcontrac6modumual. tudinem<jno
(bam^qu.b^^?uidiuapudmeeriris: mibiomnid.ligentu«nfuJ endi^!^ difputatio
longius ptoducaturi Atquiegoitidm. nqmtLAVK£NW^ idem cenfebaraifed ne tanti
uiti oratione moleftii« intapell«em/pudore i^ diebar prxfenim cu te o Manotte
tuas partes fuo tepore equide mquit MariottusiK fimul fua lolita feftiuitate
BAPTISTAM manuap prehendem/nos ad cellulas ubi menfx paratx erant reduxu. R
URISrOPHORI L. FLORENTINI CAMALDVLENSIa vM niivTASvM laVSTREMFEDERlCVM VRBINA-
jKSrJbER ^IaRIVS 1N.P. VIRGILIO MARONIS allegorias incipit feliciter, S
Eruenerat iam fuperior libet Inclyte ac Inuii Si^me Fedence in quotundaro
hominum manus 1 qui cum dofli linti dry aiffimi quocp et haberi 8£ dici uolunti
Qui quidem quauis 'de Maronis Æneide antehac longe aliter dC fenfiffent/8: pri*
'dicahenticouiai tamen ut puto iis argumentanonibus : qux I nobis in probamio
illius libri expofitx fuerantimulta in eo F li rnnfcrinta elTe necate non
audentiSed ea huiufcemodi el fe Jowmduntiut non ad ethicen ut nos longa
oratione difputauimus s fed a J IhvSferendafint:ptoferunt 5 ad id qued
defendere cupiunt probandum fcriptoresqui paulo antenoararoxtatcm fueiut minime
illiiteratosiqui non J L/indel Mos« acute et doæinmpretati naturam tetum il is
exponi conttn los inde locos K ac „fpondendum ctnfemus/ut multa in eam qua diA
SmriorisquoJdieifermonenosdixifl-ememiniyirgilm nlura deorum genera inueniffet
s confulto ita fcnpfifle fl£ A Fmmffeuteademilla et aduitammottfip: 8
Caduimnaturas:Kad wriuruoluputtm f eferantur.Verum cum confilium mettmij
tcstotafufceftacftnoircuolumusiidcenfco femper ipfo hn«qu3nf.bie.ration.
fcriptotpropomt: ^um fipttahuj omnuiniiri ludingttut» ipfcqcquid narrat iqcqd
tctninv 1 1 Ir £ I- 8- r K P B-t.-«. Libet ii iuiatnr referat. Hoc oun ita fit
quis non uideat ea quæ ille ttadiutamdegett» M damt& ad fununum bonum
acquirendum (^dantia fcripfit no iccirco fcripfiC' B Cuquo naturz uim
ezprimeret.Sed contra cum iugi:perpctua^ oratione ea pro (eqiutut m quibus et
uitia damnet<& uirtutis pulchritudinem eztoIlat.& ad ue I»
riinuefligationem perducat/ nonnullaadiunxifTe&omandi et deledandi cao Ia b
qua: fint ab ipfa phyfice repedta s Q_uz omnia cum non propter fe t fed eoru li
quæ dixi caula confaipfetit equis non uidet id fulcepti operis primum efle feu
^ malis ultimum dicere > quod nos hefiemo fermone perpetuo quodam filo ita
ia intezuimusrut nibilineointerruptumquzn poiTis. Nam ad idquodaptinci Sh pio
przpofituffi cfl omnia deducuntur Si fcquentia iis quz antecmerunt/uebe menta
cobzTcnt:Q_uapropta quz ab iis quorum audoiitate nituntur/ad pby fictnrclata
funtminime damno. Nam quauisca ne multa fmtine^intafc haaliud cz alio pendat
> ut non potius membra quzdam diuulfæquam integrn corpus uideantur t tamen
non incommode traducuntur : ne<j fententiz nofoz ccpognantiScd fac repugnare
an plus apud me reda rado qua iliorum audori^ tas ualebitrprzferdmcumfi
audoriute certandum fit eos proferte poifimus/ quorum fplendoteiiti uclud folis
luce noduz hebetentur : Nam ut omicta eos quos diligendilimus omnium grammadeorum
Seruius fingulos libros in fiogu los huius poctz locos commemorat: ut taceam
quzaMacrobio exceliend inta platonicos phiiofophotut nihil diam de
iisquz&adiuo Hieronymo et a di. uo Augufiino in hanc fententiam apud
Maronem interpretantur : nonne e noftris Oantbcm uirum omni dodnna excultum
grauilTimum audorem faabe« mus: qui eius idneris quo mundum omnem ab imis
tartaris ad fuprzmum ufi^ czhimpcragcatiine olibiillum ducem fingit/in
quofummum hominis bona paquitens/miro quodam ingenio uniam Æneida imitandam
proponiciut cu paua omnino inde excerpæ uideatur: nunquam tamen (i diligentius
infpicie . mus ab a difcedat : Nam nonne fiatim a principio ea quz de medio
ztatis tem ) 3ore:quz de fyluatquz de tribus ferisrquz de montis fublimiiam
folis radiis il uftntoconfa ipfit:binc omnia funt. Mitto cætera: quz ita abdita
in Oantfais poemate funt:ut non nili a paucis iifdem^ dodiffimis dcptzhendi
pofiint. przponit igitur libi ducem Maronem in u re quz ad fummum bonum.non au
tcmadpbyiiccrpedetifeduideo me nimis cunofum in eo fuilfe : quod paruo omnino
nodo confutari poterat. Quapropter ego inilitutum repetam. Tu autem indyte atip
inuidilTime Fedence ut cztera fuperiora fic Si ilh quz in ultima quaru diei
duputationc continentur/diligentillime leges. Multa enim illic inuenies propta
quz te cum dTc : qui Si nunc es Si fempet fuifti fummo» pæ lactahacict^norcef^
ex deo confilium tuum fuilfe : quos a primis annia bpientiz amore flagrans ita
te bonarum artium fludiisaddiafti: ut quanto ta dic tua ztas grauior fitttanto
ardentius illis incumbastnam quod reliqui prin» dpes apprime regium ducunt:ut
aut multo odo uanifip ludis mircelcit:aut au cupiis ucnarionibuf^ oe tempus
tcrant:tu ne libero quide homine nili relaxan dimtaduai aula dignu efle
duxiflitred oportac eum qui aliis imperaturus fit nWB omni dodrina excultu
itddaaquq no fibi folatfed et iis qui fuz fidei co} In. P.Virg.M.AIIegflu mifll
rantjK dum «fit agit «emplo: «dum fapienter inontt pncepto maplo limum prodifft
po(Tit. Qui rigis munus clTe ducat non alieno labore ueluri fu cus inter apes
alisfed pro aliorum falute laborare uiinnoaio sabiniuriupro
hibtrr/fceleftorura<j petulantiam compnmeretoibuafe «quum prxbere curcts Hrc
autem sola philofophia nobis pracftat. A FILOSOFIA enim habrmuatui pie uiuamus
tui pietatem ocmabhominemuft« ab omni fcelereabibneaniust b uapropter uere
iliud ufurpabat Ariftoteles fe id a FILOSOFIA afleculum efle/ Ut ea beneuolens/
cumuolupute ficerettquzmaliuinlegumatufaccrectv I gunrurtbonis enimCut piato
ait)lex deus eatmalis autsm libido.huiufcctnodi Igitur fludia teita
exculturo/ita omni ex parte expolitum reddiderunt/ut cum a inultis quod crimen
fortunx eft imperiis finibus fupereristiis tamen uirtutibiisi finequibus nemoun
quam iedeimperauit/ omnesexcedas. Sed cartera omoa quibus ex mortali humuculo
te immotulem ducem reddidifli ad prxfw omit to> Ptxcipuam autem in mnfaium
ac philofophix cultores benignitate tacinii prxterire nullo modo polTumtium
animaduertam te ea in reiure omnibus prx ferri poffe.Scimus in tata admiratione
apud antiquos fuifle Ptolomxu philadel phum ut ptxclariffimorum faiptorum
laudibus etiam poft tot fiecula florentit fima fama celebretur.Et profedo
fingulatis fuit in eo rege iuftina mitabilifip cie mentia.In te autem
militarimec uirtus illi/nec fortuna unquam drfuinSed nb bil in fuis omnibus
aaionibusmagisextolliturtqua quod regnum fuM libera liffimu oibus litteratis
hofpitiu efle uoluerit. Tantu autem iis qui aliquid fcripfif (ent debere
putauittut Demetrio phalereo no folum philofopbo grauiflimotfed oratori
copiofilTimo negocium dcdentsut fibi ad quin^ faltem milia librorum in fuam
bibliothecam congerenda curaret. Q_ua quidem io re quos furoptus fe cetitttunc
optime conieiSati poterimustcum uidetimus quantu in fola mofaya lege
elaboraueriti ut illam interpretadam ac in grxeam linguam conuenendam
abhebrxisinterprctatetur. Primo enimoesiudzos quifuperionbusbelliscapti in fuo
regno fetuirent diligmter inudligandosiat tingulos uicrnis drachmu
redimendos/& in patriam incolumes diraittedosmandauit: quorum numerus adeo
ingens fuinut foluta fint a rege fexcenta ulenu fupta fexaginta milia. Dtf inde
legatos ad Eleazatum iudxorum pontificem uitos sumx audori tatis mifit
Arifteaside quo paulo ante dixi et Andtea prxfcdumfuuiMifitptxterea men< hm
auteam/craterefej ac phialas donaria in hierofolymitano templo ponendi. Mateiia
uero hoium uaforum fuit auri quinquagintatargenti uetofeptuaginta
ulenuigemmatum autem atqj lapillotum quibus uafa omab dilUnctatp funt/ ad quinm
milia adhibuit/qui omnes mira elfentmagnitudine. Q_ux liberalit« adeo accepta
gratacp Eleazaro fuittut duos ac feptuaginu ftatim ad regem mi' fent i non
plxbeos illos quidem/fed ex principibus dodiflimis ita elrdos/ut ex fingulis
tribus fenos fumeret s qui legem dei in grxeam linguam Ptolotnxo converterent.
Quorfum igitur hxef Nempe ut intelligant qui diligennus rem confiderauennt
magnificentiam tuam erga dodrinas noOra tempelb' tt non minorem esse / quam oLm
Ptolomxi fuerit s Hoc enim folis luce cla/ liua apparebit; Si imperium Imperio
1 Si Sumptus Sumptibus conferantur. Libtt guattui nfeaumnonfdl amutiiuerrz
xgyptiopulentiitiimum regnum poHidebat/un^ dcaurt argenti^ inædibilisuis proue
Diretired Tyriz quo^ ac phcnictz tnaxi^ mam partem ucdigalem babcbat.Tuos autem
bnes nemo ignorat. Adde quod quo tempore Ptolomeus regnauit/plurimos A(ia at
Europa prineipes habuit • qui poetas t qui pbilofophos/qui oratores/qui
hiftoricos benore opibufi^ bone rent:ut et li fuo ingenito (hidio illa faceret
magna tamen cx parte emulatione quadam excitari uidereturme quos opibus
uinccoatxabiifdem huiufcemodi glo tix genere fuperaretur.Tua uero benignitas in
ea tempora ineidir/ur nili ardeUi* tilbmafittfacile czterorumprincipum auaritia
extinguaturxQ^uaproptcr nulla omnino eorum munerum quz in mulas con fers/gratia
noftro fzculo eft bahim' daxinquo neminem reperias ex iis qui nunc
imperat:cu*us exemplo excitari pof» lis.Sed quicqd estes autemres omnino
przcIarifTima/id omnetuo ingenio;'U3 innata humanitate cs.Nam ab aliorum
moribus procul dircedens/unieum te exemplar ofiFersrquem et ad fummam liberaliutem
czteraf<^ omnes redas adid æs/&ad ueri inueftigarionem reliqui
fcquantur.lta enim uirtuiem adamas: ut illam non glona dudus/fed eius amore
alledus ampledaris.Euenit rame ut qud admodum umbra corpus (emper fequitur:
etiam li id corpus non quzrarxHc < ua pie iuHe/clementeti^/ac fortiter fada
non adumbrata quzdam et inanisiTed foli da cxprclTa^ gloria fcquatutx Scd res
polhilatxutiam ad noftriim heroa rrutrra^ murxin cuius adionibus tu mores tuos
ac uitx inlliiutum facile recognofces. Co ucneramus igitur eodem in loco bene
mane quarta huius difputationis dic. AN ^ cum miro deliderio BaptiHz fermonem
expetere uultu gcftucp fignificarcm^ illexurquz explicaturus eilet iis
quziamdida fuerant commodius annedrrrt: buiuiinodi difputatiotii fux prindpium
adhibuit. Vidimus badenus dodilTimi uiri qua piudmiia ac animi magnitudine
omnibus iis fotdibusxqux a corpore^ ueniunt fc explicauerit zneasxNamne troiz
periret: 8C corporeis uoluptanbus pe nitusobruerctucmon dubitauit exui in altum
ferri quis incertus quo fata ferret: pod hzc thracenfes rapinas uc eas primum
cognouit mira celeritate effugit. Ar« mox in rebus dubiis a fapicnria conlilium
coepir : deceptufi]^ Anchife interprz tatione.Namquz a corpore funt facile
corporea fequunuir.uitam duilem in Oeta fibi propofuit Sed nec piguit errore
cognito uela uentis iam tertio dare .Delatu!^
mlhropbadasaducrfusharpyarumauaritiam inuidus pugnauit. Nec per medios hoftes
ad Helenum enauigare foimidauit: Prztereoqua prudentia qua animi przdantia iam
ab hcleno dodior reddirus immanitatem cyciopu de<< ciinauem : qua
indudria ac celeritate fcyllz charibdif^ mondra euirauenr : quo fiudio
atramentis ardore defundo iam in licilta parente nauigationem in lra.< liam
rufeeperit. Verum cum lunonis dolis :zoli<^ ac uentorumuiribus parcis fc non
pollet: celTicilIequidim conlilio ad ueri inucdigationemin aliud trm
pusreicdoinaphricam eo animo diuertit: ut quam primum per tnaris id edap>
petitus tempellarem liceret : in Italiam tenderet Verum in ditione aduerlilTimz
dezconditutus : et amore Didonis delinitus/Vide quid pTolfit ambitio: quantu ad
mentes maximorum etiam uirorum euertendas ual eat / regnandi i nquam cupiditate
dclmitus is qui reliquos iam perturbationes ac uirufupctauerant di<« In.P.
Virg.M.Allego. uinil Tifflumcoafiliatnio Italiam enauigandiomiiTtttotum^rein eo
dednatt ut regnum carthaginmfium coSabiliret : perrcueraflctcp in errore ni(i
acczpifb a Mercurio non placere loui ur pulchram urbem uxorius extruat. Regni
autem et rerum Tuarum obliuifcatur : Prxcipitur enim homini a fumrno deo ut ad
fu« am originem rcuertiuelitrQ^ux præcepta nobis dodrina quam litteratilTmKv
rum uirorum uel Termonibus uel libris accipimus i facile tradit. Rede igitur
ar« guitur arncM/quod uxods urbis t ea enim eft uita in adione polita
adminifbatio nem TuTcepeiit. Suiautem regni 8c totius contemplationis qua Tola
mentes hu> manz regnant Iit oblitus : Maximei^ hoc urgetur/ut Ii tantarum
rerum gloria ip fum non mouet i Afcanio Taltem tuerediTuccefloricp Tuo conTulat
< cui regnum lulia; t ac romana tellus debetur: quo in loco quidnam aliud
ATcanium intelligcmus nili futuram ztemami^ uitam: qua: huic breui
Atmomentanea; Tuccedit. Nam li dum intra bzccorpu Tculauer Tanturanimino
lhitantisrerum terrenarii illecebris demulcenturiut carleflium contemplationem
de Terant/ memineriot 11 in futuram uitam uitiotum labe inquinati et nulla
dodrina exculti migraærint foce ut nulla unquam ueritatis luce illuftren tur: Q
uapropter regnabit Aiani< us:nuIIuT<^Tuoimpecioiiniseritnilieoapatre
dmaudecur i futura enim uita ab hac quam uiuimus ea rationeiquam oftendi iure
gigni dicitur : ab eadem^ li focdida 6i uitiis tenebriTcj inuoluta Iit: tanto
bono denaudatur. Sin contra manebit fcelix at^ a:tcma : Nam Hic domus xnez
totis dominabitur oris. Et nati natorum et qui nafcentur ab illo: Q_uzquidem
mandata cum acczpilTetzneas: quid mirum li uehementercom< motus Iit : Erat
enim in eo animus qui excclTa Temper TuTpiceret. Ita^ Te tandem excitas cupit
qptimum abire: et terras quamuis dulces relinquere. Alluetusenim poteftatibus
at^ imperio uirfi£ dulcedine captus non line dificultate diTcedit. Sed cum
ucrum bonum ab eo quod falTa opinione bonum putat" diTcetneteptv
tueritiillud tamen anteponit: Cum uero poli diuturnam conTuItationem inla«
lutata inTcia^ Didone diTcederedecemat. Nouerat enim no efle pal Turam illum
diTcedete fi IdlTct/egregie admonet cum ab huiuTcemodi rebus animum abduce re
uolumus non efle molliores animi partes confulendas: Ted clam illis uela in Ita
Itam facienda: Talia enim bzc Tunttut quanto blandius ea appellemus : quato familiarius
Talutemus/tanto maiori contumacia aduerTcntur. Sentit tamen d(v los regina
:&iniquo animo fert uita ciuilis a uiro excellenti deTeritpradcrtitn li non
fit alius Tapiens/qui Icxro illius Tuccedat.binc illz quzrelz nulla libizx znca
robolcmfuperciTe. Quamobrem ratio inferior quam mulierem appellari diximus
huiuTcemodi argumentationibus uirum egregium in uita ciuili retinereitt a
speculandi propofito auertete nititur i Primum enim ita urget ut quzrat quo
modo eam deiicrete Tublbncatia qua tam ardenter ametur. Amat enim ucbementer
virum excellentem vita duilis. lllius enim cunfiliis imperia non modo paran
tur/& parta con Teruanfuriuetum etiam augentur. Sed nec illud retinet non
Tet' uate illumlidcm quam dederat. Suavitare enim imperandi iam totum Te
adminiHtarioni dederat zneasi Quio di Te moritiuam Tidc Teipture docet; Nccinub
1i I I I t t t P u 9 0 9 u n I» P“ ca nii da ttico: iKg da dd od R.! dia
b&' ht loj on IBU' «nI 1« tii AV u tua 8“ liii Ml LlOfi Odi ns ilii ntoi iU
IIlBl' lO* loli niii jA«< Dlli tffll*' yb BD^ a<? J»!*Libo gimttu to
alito eucf UKloIcb Namdcflituta a uimite agendi facultas pereat necefle cft:
Dctcnetezdif&cukate hiemalis navigationis. (^uare (Tgnifiantut labores ma^
jdmi t quos (i in Italiam uenite uolumus fubituri fumus.pofiremo in hoc
uche>< mentet mlifiit/li reuotetetur ad Ttinam Bl ad uitam uoluptuol^ t
non tamen illi efle concedendum: ut honores relinqueret t multo autem minus cum
loca fi bi incognita petat t nondum enim nouerat Ipeculandi uitam. Dcmum ad c6mi<
fetarionemconuer{alachriinaseffundit.connubium, incoeptum ad memoriam reducit.
Q^uicquid fuaue oUm a fe acczpiflict exprobat:& ne domum labent em
dcioatobuftatur. Pofluntenim uchementercommoueri mitiora ingcniaicuia
parcntes/cum liberi aattiif (anguine coniundi/cum amici/cum patM ne dcfci'
ratrogantrne incoeptam fcxictatem relinquat przfertim cum uer^umfitineim perium
a bonis uiris defiitutum/aut Pigmaleonis auaritiaiaut larbc tyram*de in« uadaf
.Q^uodtunemagu ucnoemur cum alius (apies qui (ibi fucceclat no telin quaf sQuz
quidem omnia cum rerum agedatum rado animis noSris obiidatr non pollumus non
uebemeto comoueriiSuccurnt enim platonicum illud quo quttum generi humano
debramus /grauifiimeadmonetiut humanitate eruere uideamur/fi humani
focietatedeferamusiucru cum aladuettatmagnus uir men tem fola eficiqua boies
fumus; ea no agendo fed cognoiicedo pcrhdrid^ louis pcaneptucfieimotusmanetiat
obnixus curas fub corde prraut.habet aut quo|> pofitu opnme tueri poiTittNon
enim inficiaf bene ^meriti ciTe reginam. Quis enim no uideat magna humanx
hnbecillitad adiumeta ab hcK uitx genere fue* nirc:(^um BC polliceffe illius
recordaturu dum fpintus hos reget attus: Nam eu derua abfoludflimu
appellabimus:qui iu in fpecmadone dum uiuit uetfef : ut uicifliW cum ccs
poftulat agat.Etgo no fugit a uita agedi < fed inde recedit: qa cu ea no
cotraxerat matriffioniu.Non enim nati fumus ut drea mortalia uerfemur: illif{^
coniugamur.Sed neceiCtatis caufa efi illis in(iftcdum:ut tanta opere impd
damus:quantnad fodctatcconfcruandam fat fit:quaptopter (i Dido Carthagine
deledac :hoc autem efifi in adione inferior rado libenter uerfaf liceat: fit
fuperi^ ori Italia dclcdan poflem mulca ciufdcm otadonis ad eadem fentendam
trilTa^ ce. Sed fit aliquid ex mera hiftoda didumiRcIiqua ueto qux ad plurimos
uerfus dicunmt:eam uhn babet/ut libidinofum K corruptum amorem detefienf :at^
tantxfceminx grauifiimocxcmplo nosadmooeat:ut tam mrpem/tam pctnitio.« (am
pefie fugiamus:comode aut eunda qux a PauEmia in platonis fympofio de tutpi
amore dida funtiad bde locum ttan(Feremus:ex quibus pauca qux a nobis cum de
Paride uerba fcdmus dida funt : memoria (i repeteris intelligeris umSu mum effe
Ptoperrianum illudi Durius in terris nihil efi quod uiuat amate .Q^d* autem
magno pedore curas pcrCmfcrit xneas: fit tamen mens immota man ferit/ oftendic
uirum qui deorum prxeepris parete deacuerittiam ab inconrinenria in quam
Didonis illecebris ptol^fus fuerat/ad continendam redi(rc:tt quis amore
urgetetuntamen hone&umuoIuptariprxpofui(re.Oidonis ueto interitus nobis pcrfpicue
oflendit perire ncceffe c& eas res publicas qux a fapientibua deferanf. Non
tamen aberrabimus fi amandum at^ amentium furorem cxtrcmainij de f^aarionem
huiulcemodi exde oilendi putemus. Æneas igitur deorum admi}« 1 ti In. P.Virg M.
Allego» nitu in Italiam enaiugat. Verum infurgente uentopt u! palinurus nauis
gubertia tor negat ea tcpeftate Italiam pe Q poiTc.anenticur zneasiut in
Sidliam in qua in fula extindus parens nondum debitis exequi is
oraatusiacebat/dcfledat. ^uo in loco quid fibi palinurusuelitline ncgocioex
iisquz de illo paulo fupra expt’ fi cogDolcerepotcttsicum enim huiufcemodi
appetitus facile pturbationib^ob tuar' inon modo a tedo cuifu auertic' :fed
znea( hæc aut excelleris uiri mens eft} pctixpc infuam femetiam trahiteut ad
patre» hanc autem imbecillitatem quama corpore cotrahit aius iam ciTe
diximustbeet intelligere ad patrem inq/quis iam de fundum redeat»(i uero ad
memoriam ea teuocaueris qua: de ficilia lam diximux non ab re
cftipfistroianisiut in eam infulam redeaaundebreuifiima (it in lulia
nauigatio»Poeta tamen cuius cofiliumefi no folii ut grauiffimas res
j>ferat:fedil Iaauatiaiocudiutciuafpergat:uttcdiumtrifiitia« pfundarum rerum
comites penitus amoueat/uaria ludopt genera interponit.Hzc igit' iu
adminiriobantut abznea ut paulo poft oibus ablolutisin Italiam elfct
foluturus.luno uerocui^in troianos o^um/nec ulla calamitas/ncc tpis diuturnitas
explere poterat : qa quo illosltaliz j>pinquiorcscerneret:eomagisaccenderet'
oblatam occafionem non 5 rztermittit:Cum enim feorfum a uiris imbecille
mulierum genus deliderio ta< em quiefcedi mcedius cofpicare^ pa irim illis
ut naucs incedat pfuaden Quz qdem (ic accipiteirerum terrenarum cupiditas no
uiros/nam pars fupior rationis non facile his rebus frangit':fed ipfam
inferiotenr tonem a fupiori dUluudam p fuadetiut rerum magnatum ^poficotcicdo
tedium longioris nauigationisrefii giaud^ubieficonfidcaCiMuUetcsigit quibus
inglorium odumlongccarius (iu q honelius labor prijtiio ambiguz miferuminter
amorem pizfenris tertz fatifq| uocatia regni malignis mare oculis
ifpiciut.Namcum ratio tnfmocquzafupe tiocipfuaU illam ad quxqj xgregij Tequit'
nuceaabfente paularimfenfuumiiiei cebris cncruac' idoncc tadtm uidi fc iliupi
potefiati pmittat.Naucs igi^ mulieres inwcn dioafrumei caduriunt.
Hoccumdicicportauolutatcquz ad res magnas, ferebatur incendiocupidiutum perire
o(lcdit:pen(rrtauttoticlanisnifi Eumci Ius piculum (fatim ad zn eam
reiuliffeciErat enim Eumelus uir ad mulierum cu fiodiam telidusiNam huic parti
inferioti metis acerrimus qdam cofeietiz remoc fus/cui bonaceda^ cuiz fimp funt
ftmp adcfiiHzcgtzce fynderelis didturuis (.nobis ingenita qua animus Sc ad
bonefta crigiturtK a turpibus tefugit»Hacau lem nomen ipfum uii i ajpertc
demondrat; enim boni cura facir leinterptabimr»Hicigit^Iapfaiam in facinus muKere
temaduitutefcrt: Quo nuncio percepto primus Afeanius ad iiaues eripiendas
aduolat: ASCANIO autem celer robuduli^ magno animo prxditus
Æn»iiliuscft:quemiuceiatetptc tari licet uigotem quendam ex ip(j mente natum:
Hic autem nullo tenore pto liibemr qum contra pericula pnmus feratur: Sequuntur
reliqui t fed io primis zncas: At mulieres uiris cogitis incoepti poenicet t A
uiro enim feiunda mulier adversus appetitum minime repugnat <Q_uod (i tutfus
uiro coniungattirt iam robufbor fada/ SC ueluti e tenebris erepta tum demum
acata iam cetatt/Sl a lunonedcIuCam e(fe dolet pudet^: Non tamen incendium
facile tolli^a Nam optusalunoæappeunuiacop^cueut ut uoluntatcmsquæ, nobis ad
(uo»; tti «di r S 5 1? S B jr 3 .te e Liber quarttu inutn bonum euehit/omnino
perdat: fir^ mifera in bomine diftradio t eu atio ratio dutat:aIio appetitus
rapiat i Q^uo in loco cum mms noRra fe tanto cer« tamini imparem
cognofcattnititur illa quidem fuis uinbus/fed limul etiam di uinum auxilium
implorat id autem impetrare meretur. Nam qui ita deu præ atur/utiaterimipfe
quoad ualeat libi non delinis adeo minime derenc. Nam
quodaSaluRiofcribiturnecprzcibusnec fuppliciis mulieribus auxilia deo« cum
pararitrededidumell. Non enim inerti
ac delidi/ K qui in fummam rr^ tum defperationem prolapfus nihil contra
pericula parat auxiliatur deus. At qui magno aduetfus difih^ltatea animo
infurgit:qui nihil inaufum: nihil in« tentatumrelinquitiquincc periculis
terreturmec laboribus torpelattis profodo fe dignum f^tcuius S dii d homines
commirereantur. Quapropter fapi« enter Æneas ciun nec uires beroumtnec aquarum
uis infufa prodelTrt: ad prx* cesconucrtiturtauxilio impetratotcum iam quatuor
naufsai Tumpræeirentt teliquz ab incendio feruantun Cum autem naurs ad totam
turbam tranfuehen dam deeflimt terat fenis nautz conliliumutimbeallior turba in
Sicilia reiin' quctctursutbfm illis habitanda conderctur:hoc confilium oraculum
paternum louis enim iulfu locutus cR patens/ex ancipiti ratum hrmumt^
rcddidit:Q_ue iocum nili uos aliter cenrcatis/itaintcrpreubimoi. Ad diuinarum
rerum fpecuo lationem fola mens omni uirtutum robore iam fuffulta
acceditiReliquzenim animi uires quz imbecilliores funt naues/illz enim fune
uoluntas/quibus illuc ucbantur incendio amifcrc: Q_uaproptcrreuocanda cR mens a
frafibusihocau tem confilium ab. eo uiroprohcifciturtcuimagi Rra Pallas
fueritteR enim a fapi entu dodus: Approbatur autem ab Anchife fed iam fcpulto;
Nam qui a ra« bonetamfubadiruntfcnrus/facilein eius dicionem conccdunr/ przfemm
lo> ue iu iubencct conuertutur^ in rationem hoc ordinc/ut ratio ipfa etiam
fupeno remlocumarcendensaf Ficiacurintellcdus: llleautem£(iprein altiorem gradu
cuadens intclligcntia redditur. AR intelligentia in deum comutatur.
Hmuic&> modi igitur cofilio at^ oraculo utimrÆnas.Non tamen prius e lidlia
foluict qua lacta pie tite faaatinorat enim qua laboriofitquiip periculis plena
lic h\u iuCccmodi nauigaboiNoueratquancz molis erat romanam condere gentetSed
nec Venus quicqui interea remittitiquinuehementer pro faluce hlii anxia oia
drcufpiciat.ln primis autem Neptunum rogattac mare tranquillum reddauNa amor
quo ad fummum bonum rapimur fupiemam in bomine rationem horta tur/ut appetitum
m fua poteRate cemtineat: N epcun us om nia benign illima pol bcctuciNihii enim
denegat ipfa mens amori ad redum eam excitanti : Neqi ell ptocula ratione/quod
oRendat Venerema fuo regnoottamtlTetEReaim Ne« ptuncu regnum marciquod quidem
ducn ab illo regitur/ctanquillu eR. In hoc czii uitilia lada dum
agitanturifpumam gignunt ex qua oritur Venus. Supte« ma ergo ratio appetitum
intra fe continens in quem uiriliaczliiiccirco decide», re didmus/quia in
appetit um a ratione adminiihatum uls quzdam cziitus ca dittquz in eo agitata
diuinarum rerum amorem proæat t uod autem oes prztcr unum Pahnuru incol umes in
italiam peruenturos promittit i no ne cz oxtdia^ut aiunt gtaxi^philofopbia
erutu cR: Nam clalli in Italiam tendenti In. P.Vtrg.M.AIl(go. flurimeaductbtut
appetitus /qiii a folofenAi profedustulul altum (iifpic^ Quapropter rquadiu
claiG prxfuitinunquam ttaliam tangere potuerunt Tnv unuSedundema Tomno
opptcfTus mari cztinguitur.Nam poftquam rado acarime ad contemplationem
conuettitur:& caducorum curam reliquit: Nt< hil ex iis qux fenTum
petmuicere pofltnt/appetiturt Vnde uniuetfus Uleappcdi» tuspaulatimiapituctac
fopmisezdnguitur: Cial Csautcmcnamline fuoguber tutore tuta fcrtuc Neptuni
promiiTis donec ad fyrenum fcopuJos deueniretrlbi autem fluitate ciuncarpiiTet
Æneas temonem capiens nauem in undis noAur« nistezitiNam animus nofler cum iam
fibiitaliam propofucrit fccurus fertur/ donec in uoluptatumfcopulos
incidattTuncetum temonem capiat oportet ap pedtus tationalis Tquiaduerfantibus
uoluptatibuscaiitra obflfism Eztmdoigw cur Palinuro Æneas tandem poli diuturnos
enores euboids allabitur oris .In iuliam enim ucntumcll ad quam gubernatore Palinuro
nunquam perueiuflet 1 ingrefli funt Jn quo non idem curnit quod in cartbagine
Æneasslam portum ingrefli funt :In quo non idem curnit quod in cartbagine a
portu euenifleoflcndit poeta. Ulic enimnaues'ficli procul a rabiat fluduum in
tranquillo efle uideremurmulla tamc nant anchora alligatx. Quapropter qua quam
non omnino ucxabantuRin aliquo tamen erant motu.1^ autem anebo ra fundabat
naucs: quo oflenditur eas ueluti fundamento nhex lint flabiles hx«
rcrcoportere.Summum enim illud bonum:quod in negociola et duiliuita a
philoiophis ponitur: 8t flinbuiufcemodireceflupofltumflt/utprocuia fotttu nx
procellis uirtutum benefido abflc:non tamen ita conflabilitum cfltquin la«
bcfadan poflit:Q_ui autem oi.'':} vum rerum libi contemplationem finem lU timum
propofuit/bic iu in tuto ac folido rationes fuascollocauit:ut nulla ui di
tnouere poirit.Nam aduentusin italiam oflendit habitum uirtutum um contradumiu:
utaptopoiitauita non fit difcefliirus Æneas/non tame earum uit
tutumtquxfuntanimiiampurgatit Namnihil fibi diffidle iam proponeretur/ fed
earum quas dicunt purgatorias. Quod quidem propolitum iam conflabis litum
fortitudo fit animi robur non deferitinec ipfe ardor rd aggrediendx. Q^uam
quidem rem tunc ezpnmit cum ait luuenum manus emicat ardens Lic tus in befpcrium:
Manus enim indicat omnes animi uires cocurreretqux e me« dio iam fublato
Palinuro fefe menti ultro fubieceranti quod autem ardens fit concurfus
uehemcntiamindicatiNe^ ab te efl quod fit manus iuucnum.Ofle dit enim animi
bene affedi uires nnllo fenio in quo tedium torpor^ ficigna«. uia efle (olet
unquam aflid: Quapropter non lento palTu rem agit/fed emican Verum quia dum in
corpore ezulat animus:quauis fe totum fpecuiatioai dc^ dati non potefl tamen
non curare neceflariat ea’ enumerat poeta quxnonuo luptatem fenfus: fed
incolumitatem uitx rcfpiciant. Nam quxnt parsfemi nafiamis
ObfttuIainuenisfilicupatsdela feratu Teda rapit filuasinucta^ flu mina
moftratiinferiorcs igitur animi uires bxcagut. ENEA aut quo nobis m&
exprimit" i Arces quibus altus Apollo prxfidctsHotridxip procul feæta
fybil» kc: Antru imane petitt(^uod cu fadtad rea diutnas cdtcpladas erigit t Na
qui aliquid figurarum inuolucris fcribuntibuiufce modi rpeculatioes per excelfu
loca aprimBt. yadc illud e p(almoi(^uis afccdct ia mdee duif A et illud = b Sj
K n n i» la Ap OL ttl d bt ttn lut % dt.QURI bii iO ni£ fid «w Ots sed| iæ N «I
K Liber quartus Nam cum in ui^tum in contemplatione pofitarum finis uerum fit/
quo fapi^ Clite efficimurtreiSe omnino folem huic rpeculationi
mopolicumeflediiitNa ut nox tenebrz infcitiam arguunt :ita lucis dator fol
ueriratcm fignificat: Cuius exemplum fecutus ciuis noder Damhes cum ab
ignorarione rerum ad ue- ri cognitionem progrefiiim ponit fe ez node
filua<]^egreflum montem cuius iu ga foleilluilrata fint/afcendere reflatur.
Addit pratterea antrum ibi efle Sybii« be magnam cui mentem animum^ Delius
infpitac uates aperitrp futura. (^u£ quidem locum ut diluddius-ezpritnamus
pauca prius de Sybilla percurr^mt mox ad rem de qua agitur redibo. Conflat
igimt Sybillasapud grzcoseas mu» iieres urxitati folitas t qtiz furore diuinb
afflatz futura prædicerent t Eft autem Sybilla quafi id enim efl dei
fentennatquoniam dei conlilium fitn tuitura et enim æoles deum dicunt : quem
reliqui græci nomnantt Quanquam (iimtquiuelint fatidicam muiiæm apud Ociphos
bocno mine appellatamta qua demdereliquz futurorum confcia: cognommatz linn
faas exuariis regionibus' decem fuifle colligit. M. Vano :Q_uas ego omnes fi
quid ad rem pertinacatbitearertfuo ordine proiequi non grauarenSed ut ui> ^.nihil
ad hoc de quo nunc agitur iQ^uamobccm fatis fuerit uidifle Sybil lam facile
rerum diuinarumdoi^inam interprztari.hzc autem nobis ca qux Apollini nota
fumifine mendacio przdicitt Nam fapientiam uericatcmtp ape» m.quodueto antium
ponitiexprimic ucritatem m obfcuto latete. Nrtpreme» tetriuiz lucos Apollini
templo adiungit: luna enim corpulenta uebementei cflifiC reliquis lyderibus
inferior. Q_uapropca rerum humanarum quz diuinis longe inferiores funt/figuram
iutc habdne : 1 lia enim lucis przpouitur: res au» tcmhumanzin fylua
obrutzfunt: non enim corpore carent:& utiuna afoie lumen recipit t ita Si
ipfz quiequid habent a diuinis habent. Collige ergo cu lapientia non modo
diuiturumterum/fcd etiam humanarum fæntialit re» de Apollinis templo Dianz lucum
adiungi. Templum dtumatum rerum lo»cus efl. fylua macenanotat.Templum laoius
zdiheium deo (aaumiin quo res fdlasdiuinasagimustab reliquis abftinemus t
quoniam cum illud mgrcdi» muria negoaisceflamustfiC foli contemplationi
incumbimus.Trmplum aute a Ozdalo conditum ponit t Q^uid igitui aliud efl
zdilicare templum Apollini nifi reddere fe idoneum ad fapientiam
capiendam.Q_uod quidem tunc dcnii^ fadmusicum ab omni corporea labe purum
animum ad contemplanda diuina tranfferimus.hocautem Ozdalusuiromnibus optimisaitibusinflrudus
fa» cuepotefliin quo tantum ingenium fucriciut Si DzdaIaCitce& tellus
dzdala a poetis tunc maxime dicatuticum maximum ingenium oflendercuolunt.Ve»
tutantem non mariinontetrainec ad meridiem infimam nobis mudi panemt fcd per
fublimem acrem ad reptetrionemiNibil enim humileinihil terrenum fit in
camente/quz ad fpecuUtionem fertur I fed ad fublimia czlefliai]p engaturt Efl
autem primus fpeculandi ingteiTus a uitiis. primam enim cogniuonem efie oportet
circa mali naturam /ut ualcamus ab eo abAinere. Nam nifi expiati a uitiis
fuerimus i nunquam diuina attingemus t Vt enim idem fiepu ut icfctam/ negat
Dauid quenquamalcendctepoflc in montem domini/nifi Ia.P. Virg-M.AlIfgo. cum qui
fit innoces ihanibus 8C mudo corde:(^uapp in foribus per qmt etat in templum
aditus homicidiu Androgei: Adulterium Pafipbzs& Icari faftus i|>onic
.Hzc ergo a principio fpeculatur Æneas.In uitiorutn autem cognitione 'non cft
diutius imoradu.Nam Si (latim ea noile oportet: et ftatim a noris dilco
dere.Rede igitur^ fjrbillaquaiamprarmilTus Acatesacceriieratadmonef Acne asine
in tali fpedaculo Idgius tepus cdterat:Nam excellentiores quoep uiri uad is
uoluptatu illecebris alledi labercnt :hi(i.eoru cura BC Ihidio eam elTent adrpd
dodrinamtqua monemur ut paululu illud uitæ ac temporis:quod humanz ra
dcoDccfrum eft non nili magnis et excellis rebus conterendii ducamus.Hocau tem
inter egregiu uiru ac ftuliumintere&.Nam alter li femel labatur/non facile
furiet Altet liquonia corpore uac animuspauluquandotpeuia deflexerit/ flattm adeft
ab Achate accerlita fjbillatquzad redudeducattledmira profedo poetz ingeniu:qui
fapientiamipGm Tua fapientia nos edocettprima ita<^ dodri na ea efl ut
purgati mundicp templum ingrediamur : Deinde oflenditquiuis mens nollra quzdam
Tua SC a fummo deo fibi indiU ui cognofeere poflit:eogai tionem tamen diuinarum
retum huiufcemodi eflexut nili diuino lumine extu
.tusillulVremur:illamcondperenonpoirimus:Hoccum fit/quis non uidetprz cibus et
ficrificus rem efle a deo petendam: Elegit autem feptem hoftiastquonii Teptenarium
numerum multi pnilofophorum perfediflimum putauenmttpro ptereatp fapientiz
attribuitur:8t uirgo ac pallas appellatur: Sacrificat igitur fepte
qmrapientiioptat: Ne(p temere didum efl quo late ducut aditus cctu:hoftiace
tum:per aditas enim multiplicem uariamt^ dodrinam expim!t:quaad fapien riam
ducamuriHoQiiueroquz quidem uenientibus:refe opponunt non pat uam in re
difficultatem oflenduntiHateautem non ante patebut : quam id prz dbus ab imo
pedore fufls impetrauerimus.Sumo enim animi ardore et mente illi penitus deuota
fapientia acquiritur: Vt aute Gpientiam aflequamuri promit tit le templu Pbcebo
et Dianz fadurum:fed de templo paulo fupra dixi:huc ue to quare illud de folido
mamiote Fadurum fe pollicetur / breuibus expediam: marmor res dura ell:ac mirus
in eo 6i candor et fplrndor apparet: Vnde ab eo quod gratei fplendere dicunt
nomen fumpflt: C^uz omnia in ea mente/quz ad Ipcculationem erigitur infint
nrcefle eft:Brit cn m folida ut quemadmodum inunis fludibus fua duririz ita
obfllHt feopu^ lusutipfe integer maneat/illi ucto
illidantur:difruprir<^/rclidant:ltcmens nui lis perturbation bus
frangaturifed illas frangat: dicimus przterea aliquid ez fo lido marmore
clTe.cumnon marmoreis cruftis externe exornatum fit ; fed tota cx tnaimore
conftet.O uapropter 8i buiurcemodi mentem efle oportetiut no figna quzdam
quibumpientiam exoptet przfeTat:rcd tota exardefcensilli fetn per incumbanErit
itidem fummo candore nitens: ut nulla fit corporea labe polluta.Q_uo enim
padofplendore carere poflit ea meos cum fapimtiam na qua perceptura fit:nifi
prius multis dodrinis illuflrec%Teplu uero Pbcebo Dia nzip ponir:qa^ut mo
diceba ^ et diuinayt et buanape reru cognitio cft rapictia Dies aut fcftosfoli
Apollini illituit:qauenis cultus foKs diuinis debctur.polfi ctt et S jbilJz
penetndia: in qbus fuz fortes 8C arcana codanf : Na nifi alta totte I^bct
giMrtus. rcpofita maneant ea qax per dodnnam acquirimus 'ueluti rianai puelfa;
alHduo labonbimus:ne<p unquam pcrforarum uas adimplere uaI(bimus:Quapr(v
pter 6C uiri ledi fortibus przponendi funt t Nam excellentes funt uires animi
ad bbendx : quibusiqux didicerimus optime mandentur : Curadum autem in pri Inis
ne refponla frondibus (dipta tradantur: Sed ore pronuntient ur:Non enim
JibcUisfiCcommcnUrioIi SCT edmdafuntquzaddircimus: fed menti: Ne^ ruro
(iuleuium flultilium^ rerum eQ quærenda dodrina ueluti qui in dialedicorum
fuperfluis apdunculis/ac uanis amphibologiis/autlnanibus fabellis omne pen e
tempusterunt: Vereautem illud didumeftfybillam circa principiuih nondum pbcebi
padentem eflie : Ea enim principium nondum pheebi patientem effe: Ea enim quz
cognitu difficillima funt/fuidpete non ualent noftra ingeniola donec Apollonis
enim eff neritas nos componat : ea enim inffrudis omnia Facilia redo •duntut :
Sed audi quid dicat Ijbilla. O tandem magnis pelagi defunde periclis: Sed toris
grauiora manent : Nihil grauius nihil uerius: Qui enim omiffa ciuili uitaad eam
peruenitiquz in contemplandis rebuspolitæffiille relido pelago^ io contipentem
fefe recepit: Vita enim quz in adionibus uerfatur: fluduati ma ti fimiliima eff
: Videmus enim omnia quz in ea aguntur : fottunz procellis ezo polita effe:
Contemplatio autem cum ad ea uertatup : quz eodem femper fe mo do habent: ne^
in intoitum cadunt in folido hzret: Magnis itacp pelagi pericuo lisiadatus eft
zneas prius quam longis erroribus circumadus diuerfa horrendao ^ maris monffra
uitare potuerit: Diffeile enim fuit ut troianum incendium ino columis ruaderet
: laborioTum ut audelitate atep auaritia deterritus e tbracia abi ret : In
commodum ut ambiguitate oraculi deceptus in trinacenfem pedem incio deret.
Q_uisautem barpyarum foedam illuuiem non abhomineturr Q_uamuis iter ad Helenum
per medios hofies non formidet. Quh cyclopum immanitao tenonconffematurr Maria
autemlicula ita caute obire: utneue Ttyllam neue •baiybdim conrpidati^^
tempeftati a lunone zolo^ ezeitatz ita refidere:ne nau &agium faciat non
hominis fed herois eff. prztereo quz in fodis in africano Kt« tore paffus eff :
quas ilh fraudes luno parauerit : quo amoris uinculo Dido illiga •erit :
prztereo quz in Sidlia ex incendio nauium damna acczperit: uz om« nia gtauia ac
tunc periculis plena cum perpeffus fuerit: quo nammodoin Italia duriora
paffurus eff : Non tamen procul a uero aberat fybilla : Cum enim a com
muniuitaac hominum coetu te in folitudinem ucndicaueris : tunc acriores quaf
dam uduti faces carum rcrum/quas rcliquiffi memoria admouet : et illarum de
Gdepo acenimi infurgunt morius : At^ cum obliuioni iam eam mandaffe puta tnus :
tum maxime illuum ingeminant curz : rurfufip refurgens fzuit amor':ut nili
firmiffimaancbotaiuuesfundauerit/uideatur in Afncamrenaaigaturuve Non enim 6C
li firmum fit propofitum minime inde difccderc: tamen ceffat ccr« tamen cum
aliud illecebrzolimadzuitz aliud przfens confiliumfuadeat. Ve» tutin Italiam
Æneas:uenim eo uimitumgcnerequipurgatoriz appellantur a quibus antea quam
penitus expiau fit mens necefle eff ut acerrimum beliu quc« adsetidum nofftt
aiunt fpiritus aduerfus carnem gerat : Nam quanto magis hzc l^ta humanam
imbedllitatem funt: tantnniainri pcriculoaggtcdimUC.Hu<i tn la. P.Virg.
M^Ahcg Of inaHani enim rodctitemcum deferimus/aut in ferinam lutam per tninian
U atram bilem degeneramuc/aut heroico robore fupra hominem erigiimjt. Qua
propter intenogatus quidam qui in littore folusuagabaturquicum loquerctot
rcrpondi(Tet<p mecuni loquor Atqui uide inquit ille ut cum bono homine 1»
quaris/& rede quidem t Non enhn facile SCIPIONE inueniaaqui nunquam mi nus
folua elTet quam cum folui • propter huiufccraodi igitur difficultates ah
Sj> bilJa fore/ut cum in Italiam uenerint dardanida;/ii enim uiri tegregii
funt / nolA uenilTc. Inuenientenimaliumin latio Achillem.inuenientK lunonemaquV
bus non mediocriter uezandi Hnt i Ambitio enim quz ut in lunone ita ia bello
cofo uiro etprimitur quemadmodum troia; et uoluptati aduerfabatui i fic et fpc
culationi quam fibi przfcrri egre patitur aduerfabitur : Eft autem ex dea natui
achillcs / quia diuiiu qux damgenerolitas in animis noftnsiolita eft t
qiuenctni ni parere i omnibus autem imperare uclit > Hzc ft reda ratione
excolatur/ueram fortitudinem parit i lin autem contra rationem elata omnia in
fuam libidinem coouertere tenet/ambitionein creat t et regnandi cupiditatem t
Quaproptet tt ft uehementer degenerer a dea tamen id eft adiuina animi ui
origiuem du.itsNd autem eatolum t quz ucnturanntptzdicitSfbilla : uerum
ftcaufain tantorum malorum profert: Ait cnimuttroiamcuertuntnuptiz mulieris
eatdnz: lic ft in Italia lauinz coniugium bellum acerrimum concitabit t
coniungitur cztemz mulieri animus nofter cum omilla uirtute rebus caducis
deledatur. Quapiopter uoluptas paridis troiam euertit. In Italia uero cum
nondum cupidiutem tc rum humanarum deponere ualeat animus bella excitantur
afpcta illa quidem / fed non in quibus ueluti apud troiam ruocumbatt fed unde
uidor triumphafiy parto regno redeat. Accommodate ut mihi uidentur omnia hzc
inquitAt illud quare didum fit : fed npn ueniiTc ualcnt non intelligo.NI (i eum
qui iam ad fpeculationem peruencrit firmo iam propolito ce oportet cur illum
peenitentia fequatur non uideo t Non enim infiaot uirum etiam grauem in
huiufermodi ftabili propoliro acri fzpe morfu affici : non tamen ita magnoaf
fici puto ut ad pmnitentiam redigatur i nifi fortalTe hoc didum fu : ut multa
per quandam hipctbolcm t (icenim grzci rupcriationcin appellant / dici
confueuere ut ex iis unbis quibus peenitentia (ignificatur non peenitentiam fed
fumma diC> ficultatemoftcndcreti Ifthuc ipfum inquit BAPTi&TA: uerum
uidramus qd rerpondeat zneas : nempe id quod qui uera dodrina imbuti fuot
femper obfer^ uant : Ait enim fe ita ptzmeditaium uenifle : ut antea fecum
animo omnia euoi uerit. uz enim ante a nobis ptouifa funt ea id fpatium
przbenr/ut antea qui ucniant uel cuitari poflint uel faltem ne tantum Izdant
prouideri : Cum animus ipfefuasuires colligens tobuftioraduerfus difficuitates
reddatur: Nam queme admodum ii boftes incautos ac nihil tale metuentes
inuadamus quamuis 81 Itv co et numero auperiores flnt facile illos fuperamus.
Contra uero uel exiguz eo* piz ii fpatium ad ea paranda affit: quz prziio
conducant lulidii Timo ezcrcitiB pares fzpe inueniunturific et nos finobifcum
cogitauerimus/ quamuis multa per corporis cogitationem accidere pofTint/ animos
tamen czleM femine oetoa atfi focotdi» ignauixy Ide dederint: aullis laboribus
t nullis difticultatibiill ul iJi M Stl eu P ffli «I IV.N a id ni ifi m M k d
Pf Liber quartus nuDa foitunz iniutia modo uelintimpediri pofle quo minus in
originem fuam redeant inui<3i ab omni perturbationum prxiio euademus. Ha»;
fecum cu iam diumcditatus effetarneasnonpetitnuncdemumiila doceri. Verum in
limine contemplandarum rerum poAtus ad inferos deduci orat. Quo in loco quid G*
bi ueiit amez ad infaos dcfcenfus conabor paucis abfoluere i Si pnus quid infer
bus fit : Si quot modis ad eum deficendatur breuiter demonfhaueto : Infemiim igitur
plurimis ante chriQianum nomen fzculis no folumhebrziuerum etiam cgyptii
pofuerunt. Q_uz autem poft chtiftum natu noftra religio fine ulla dubitatione
de inferis de^ peenis t quas apud inferos nocentutn animz luunt / af> firmat
ea omnia ab hebrzis ni fallor accaqrimus.Q^uz uero zgyptiorum monu mentis
mandata funt ea primus ad grzcos tranftulit Orpheus. Hzc deinde fu« is
figmentis auxerut plaui^ ez grzcorum poetis / quorum principes Homerum
H^odumtEurypidem t Arifiophanemm e(Tc uidemus. Q_uos deinde fecuti e
nofirisfuntptzter Maronem / Ouidius mlmonenfis/ biex bifpania Statius Pa»
piniusacLucanus : &quem plzri^ florenrinum fuilfe putant Claudianus: At ii
omnes inferomm ledes fubterraneas elTe et ad cctrum ufip : qui locus in fpe ta
infimus efi portendi ædidetunt: Q_uapropter fpeluncas quafdam ac terrx hiatus
przfemm fi ignem fumum ue euomant ingrmum ad inferos n5 line mu liercularum ac
rotius uulgi fummo afTenfu fabulati funt. Nam et in laconica re< gionc
Tenanis mons eft circa finem malei promontorii / e cuius profundiifimo antro
quoniam fpiritu id agente fhepitus auditur: facile fuit uulgo petfuadere inde
ad inferos defcendi.Acberufia autem palus in epiro no procul ab beraclea
abargiuo ut fauntHerculedidafpccum habet per quam cerberum tricipitem Plutonis
canem ab Hercule edudum crediderit antiquitas : Nam de auemo lz> cu nihil
efi quod referam: uulgatænimresefi&a pizrifi^ decantata. Ac de poe
tishadmus. Plato uero eadem difciplina : qua et Orpheus imbutus ita fingula
ptofequicur/ut nihil aliud inferorum locum animis noflris efle ueiit quam cor»
pus ipfiim quo ueluti carcere includuntur. Ipfe em'm animos a fummo deo æ* atos
ponit : Q^ui quidem fuapte natura dudi In deum parentem fuum conuer tuntur. Nec
mirum. Nihil enim eft quod in originem luam cum pollit non re uetutur. Videmus
enim(^ut loco exepli hoc ponam}ignem huc^ut ita loquar^ tenenum/quia fuperiotis
ui ac femine genitus efl fuz naturz impulfu ad fuperi ora erigi. Conuerfi autem
in deum animi eius radiis ita illuflrantur ut ubi hade nus eorum efientia per
fe ueluti informis fuerat : nunc ilb fulgore conformet' : fit 9 miro quodam
modo ut intra animi eifentiam receptus fulgor no ueluti ez^ terna quzclam Si
aduentitia res in ea refideat : fed ad illius capacitatem tradus ob foinor
quidem reddatur : 8C a fe ipfe degeneret : mend autem proprius ac nattis talis
efiiciatur.Q^uaptopter hoc duce in fui ipfius at^ omnium quz infra fe ezi
ftunt: ea enim corpora funt: cognitionem animus uenit: Deum uero Si aav> ra
quz fupra fe apparent: hoc lumine non cernit. Qui enim fi iamconnamra« le fibi
fadum efl ea quz fupra naturam fuam funt/illo continget : I d tamen men ti
noftrz przfiat : Nam per primam hanc ueluti fcintillam deo propinquior fz>
da aliud accipit lumen et clarius quidem/quo iam czlefiiumquo^ Si fuperna* m ii
~ f l Ia. P. Virg.M. Allego. nim remm cognitionem accipiat. Sed hxc te LAVRENTI
latere mmitne puto: Sunt enim non folum dode ac diftinde/fcd omnino dilucide a
Marfilio noftro in iis dialogis explicata : quos ille in Platonis rympolium
confaiptos fub tuo no mine zdidit : Quos quidem cum quia ad te funt t tum
maxime quoniam pluri mis acfeledilTimis rebus abundant familiariflimosribi elTe
cupio t Sunt illi quidem inquit Verum przcipue locus ifte menti noftrzhzretsin
quo geminum in nobis lumen elucere demofttat : naturale unum et ingenitum ut
dicebas : diuinum alterum et infufum/quibus limul iundis animi noftri uelu ti
geminis fulFulti alis/totum hunc ruperiorem mundum pcruoLue poiTunt: Ad dit^li
diuino illo femper utantur fore t ut frmpet diuinis bxreant. Infimus autem hic tctrz locus
animante in quo ratio fit canturus uideatur. Quod nefiat
efrediuinainflitutumprouidentiatutanimusfui omnino potens flt:ualeat<p pro
fiio arbitrio uel utro<p fimul lumine cum libuerit uti : uel altero
(bIo:propte rea<^ fieri ut natura duce ad natiuum lumen conuerfus fe s
uirefi^ fuas : quz ad fabricandum corpus fpedant/diuino lumine ad
przfensomiflblolum confide.' tet : illafcp in corpore conflruendo exercere
cupiat. Rede ac memoriter tenes inquit Baptifla s confifHt igitur in czio ut
Platoni quem poeta fequitur/placere ui.< demus animus noder ipfius diuinz
naturz contemplatione pcifiuens : Verum il la quam dicebas cupiditate infedus
et ipQi cogitationis mole degrauatus in infe» ra defeendere indpit .Verum
quoniam cum de inferni finibus ex fententia Plato nisquzritur non fimpicx apud
eius philofophi fedatores opinio cdtnoscam boc tempote fequemur :quam et
animorum rationi magis congruam putamust et dodiotibus magis placere cernimus.
Hi igitur bipartitum mundum ponunt. Nam fupremum czium quod Aplanes uocitatur
dellis^ut cd apud poeta^ardetibus aptum fuperorum regionem ede uolu erunt
:eofq) campos elyfios ac beato Tum infulas nominarunt : Saturni uero fpera ac
fex reliquz quz fub illa funtrrut fufep quicquid fpatii inter lunam terramc^interiacetripfami^
tenam inferis at^ tribuerunt : Altiffima igitur pars illa qua uel fubdentatur
diuina uel condant/ne dar uocatur i di deorum potus ede ctedimr. Inferiorem
uero Icthzum/ac horni num pomm dicunt r in hunc enim cum a fupetiori czIo per
cancrum ea enim ho minum porta diciturrprolapfa fuerit anima in ipfius hyles
quz elcmctorum ma^ terta ed tumultum incidit: quo in loco noui potus ebrietate
degrauata& ueluri temulenta effedadiuinorum obliuifcitur : terrenatum^
rerum cupiditate ilie« da ita per fubiedas fperas dclabitur : ut ex lingulis
czlotum ordinibus aliquem cotum motuumtquibusufuradeincepsfitin corporibus
acquirat:Nam ab ea quam faturniamdellam nominant ratioanandi& intelligendia
loue agendi a marte audendi uim abducit : fol uero ut fciat ut etiam opinetur
illi cocedittMox a Venere excepta defiderii motum mutuatur : Inde per mercurii
ac lunz czlos de fcendens ab illo pronunciandi interpretandii^ ab hac plantandi
et augendi uires acquirit : Ac podremo ad terram ueluti ad centrumtquo gtauia
omnia feruntur delata:6C corpus quafi carcerem uel potius fepulchmm ingreda
iurc apud inferos relegata didtur: Moritur enim in corpore anima uelut in
fepulchto demerfar non ita tamen t ut fauiufccmodi morte extinguatur : licd ut
ad tempus obtusturt Liber quartus quabdo quidem illius diuinitarem noxia
corpora tardatititertenishcbetaat artus moribunda^ metnbra.-habes^fed
breuiter^quid Platonidinf^um pu tcnt:& quem animatum ad ipfum defcenfum
ponant» Nam^ de tartaris fabii^ lanturpoetzea omnia animam in corpore pati
manifeftum eft. In materiam enim protrada nouam fyluz ebrietatem haurit cum
illam ueluti flumine dema gaturtFIumen autem ipfum non line
exadarationeinquatuor flumina ac flj giam paludem deducunt. Lethzu achaonta
ftygem cocytum ac phegechotu> tenitMateriz enim admixta anima eunda quz in
czlis uidaat obliuifcitur. Quaproptaiure lethzum nomen ab eo quod elt.
ficenimobbuifei grzd dicunt potare finxerunt. Ex hoc autem Achaon ma« nat:
quzrcs gaudii priuationem denotat: quafi Nam quod in dd contemplatione purus
exiflens animus gaudium ædpiebattidom ne ex obliuione amitdttquo quidem amiflbt
flyx quamfadletriflitiam intere pretaberis exonaturneccite
efttftygisdemumpoflrema zfluaria coitum e£fi.< dunb Quis enim ex triftitia
in ludum non cadat: te autem non fugit id grz cos dicere: quod latini lugæ
interpretantur. Ex diu tumo autem ludu in furoris infaniz^ ardorem inddere
roIemustquemphe. gethontem nominant. Ex hyle igitur unico flumine mala hzcomnja
eueniV unt: Quapropternon fine fummadodrina ex letham reliqua fluenta deriua ci
finxeruntrfed hzc in Phzdone a Soaate latius explicantur : N obis autem de
multis puea ad bunclocumtranffnenda fuerunt :at(^ ea fola quibus defeen fus ad
inferos ex Platonis fententia perfpicuus redderetur: Noflri autem qui ita a deo
animas æari redifljme fentiunt: ut eodem momento et creentur fi; fuis
corporibus infundanturrnon eas in hoc inferiori mundo uerfari uoluerut: ut
commifla purgarent: Quid enim fi ante corpus non fuerant : extra corpus peccare
potuaunnfedutfuisrcdis adionibus: quas omnino liberas habent cz« Io aliquando
frui mererentur. Conceflit enim nobis deus : ut noflro arbitrio Ii' bere
utæmur:non ut per nequitiam delinqueremus: fed ut per religionem fi; iuflitiam
nobis fummum bonum acquireremus: Verum cum perfummam fiultiriam illud
negligcntes corporeis tetrife^ uoluptatibus dciiniti maximis ua nilc fceleribus
coinquinemur oportuit efle locum ubi a corpore digreflx buiuf cemodi animz
fuorumfadnorumdebitiflimasposnaspcrderet.Himcautc lo cum arca terrz centru
maxime eflie uoluerut:Na cu fi; propheta eripuit deus ani ma mea de
iofernoinferiori dixerit fi; ipfc humani generis faluatorfe triduo in corde
terrxfuturuadmouerit facile couincitur centru eflctNihilenim eflcctro
infcrius:quin fi; ita in medio terrz confiflittut in medio animante cor efle
uide musiQ_ua in parte fi; tenebras exteriores/quonia a luce remotiflimz
fint:fi; de tiu flridorc quonia nulla folis uis illuc defeendat efle nemo
negauerit.Erit igitur in terrz cerro infernus:fed ita erit ut etia ex iis quz
fapietiflime a Gregorio colli gunc ad ære uflp huc ex terrz fi; aquz caligine
cralTioreptcdat^.Acrp deiferno hadenus ad illu aut aias defcedere oe fere
hominu genus dixit. Sed tn aliud alii fentiut.Na przdpitatio illaaioru
afuptcmoczloin hzc corpora ad inferos de fccofuscdea Platone acdicuit
Cbriflianiuaofczleflo^ animasc fuiscoipotL In. P. Vtrg. M. Allego. busad
inferos trahi admonent. Dicimus itidem uiuentes homines cuminid tialabuntur/ad
inferos rueret Sunt quoc^ qui credant magicis artibus 6: cat minibus fieri uelutidefcenfus
quidam/ut inde euocarianimx poflint. Verum præter bos quatuordefccfusqnrus
quicftnonuideir omittendus: Na £( ad in« feros tendimus/cum lumen rationis
noftrx ac induihiam in mali ac omnium oitiorum naturam fpeculandamdeiidmus. Ego
igitur libenter de te feifeitoro Laurenti cum hæc omnia perceperis quid putes
hoc Ænezdetcenfu Virgilu um exprimere uoIuifleTlamdudum quid agas uideo o
Baprifta inquit Laurcntius/ac pro eo maximas tibi gratias habeo: Quis enim non
uideatuni. Uetfamhanc difpuutionem nonfolum meisptzabusdatam/uerum etiam a me
fratremij meum erudiendum elaboratam : 'Nam fiCli cæteri t qui afTunt omnes
mirifice tua otatione deledcnturt tamen eft eorum ztas ac dodrina huiufcemodi t
ut etiam fine duceipfi per fe hzc omnia cognofeere ualeant. Hos igitur duos
erudiendos cum fuiceperis : propterea^ rede netan fecus quz hadenus difputafii
teneamus / nofie cupias fine ulla cundationequaxd. rogaueris / cerpondebo: fic
enim et errata facile emendare poteris : 8i fiqd rede teneo id tuoiudicio
confirmatum firmius hzrebit. Petit igitur afybilla quam tu iam dodrinam
interprztatus es/ut ad inferos K ad parentem dedo.> cat: Q_uod cum petit
oftendit mentem przmonfitante ipfa dodtina in fem fualitatem defcendece. Vult
enim nitia quz ab ea funt penitus cognofeere: fed uide quantum tibi ex hac
difputatione debeam : nam non folum effeciftt ut hzc a Marone diuinitusdida
tenerem: fed fimilitudine rerum admonitus ia quidfibi nofierquoi^
Oanthesuoluerit facile coniedor. fed de hoc alias: Tu ueto fi placet ad reliqua
perge: Rede tu quidem inquit Baptifiainterprztaris; Me autem tuum ifiud
ingenium ac iudicium fummopere deledant: Verum audiquidilli
auaterefpondeatut.ln primis enim defcenfum ad infetosnul'. lius negocii eiTc
demon(lrat:cum nodes diefc^ datis ianua pateat : Q^uod pro fedo nimis etiam q
utilem uerum efi: Naracum procliues ut fenexquo<^Te rentianus conquzritur a
labore ad libidinem fimus / facile in uitium labimur. RcdilTime^ illud ab Hefiodo Redifiime quo^ 6i illud
uel claufis oculis illuc defeendi: Nam fiue delinquendo in uitia labimur ?
[uoniam id per llultitiam fit: llultitia autem rariflimi carent; quid obfccrote
acilius inuenies : fiue:fed t^iquos defcenfus nunc mifibs facio : quorum pro
cliuitas pcrfpicue apparet : Id autem de quo nunc agitur : quis non uidet.
Mentem ipfam ac rationem facile in cognitionem sensuum defcendcre. Maximum
autem fit periculum ne dum cicca lingulas corporis uoluptates uersamur / ita
illarum illecebris demulceamur ut irretiti hzreamus: Facile igitur sensus
defeendit mens non autem facile a sensibus rcuocatur. Id enim eftab inferis
redite: pauci enim quos zquus amavit lupiter: aut ardens euexitad ztheca virtus
diis geniti pomere: Tria ut vides hominum gene<a ra ponit quibus liceat ad
fuperos reuerti: Sed nos prius de duobus pofirei> mis dicemus: cenfet
accademia quod paulo fupta explicatiur demonfirauimus animos nofitos rerum
terrenarum cupiditate degravatos incorpora dcfixt> Liber giiaituf Jcre :
(Quapropter qui prius imbroda nedare<p ueTccbantunid enim eft deo
'fiuebantur t atqi inde mirum gaudium Tumebat t nunc letheum rpoti in re» lum
omnium oblivione mnli Tunt.CQuod (i intra corpus conftitutus ani^ musillius
cogitatione ac fordibus inquineturttamdeoiis tenebris obducitur/ utnulla
deinceps fpes (it ad Tuperiorem lucem redeundi: Sin autem TcipTuni infccoIKgms
integre cafte^ degat: 6ecorporis quoad potedeonfotrium declinet ipauladmcz illa
obliuione qua ueluti crapubuino(p opprtlTus obdor» tniTccbat Teexatansualet
libi geminas illas quas iam totiens nomino alascom patate. Illis autem
fuffultus facile ex inferis reiilit: &ad Tuperos rediens iii re gionemfuam
reuolattper duas igitur alas totidem uittutum genera intclligi mus /& eas
quz uitx adiones emendant: quas uno nomine iuftitiam nun» cupatt&eas quibus
in ueri cognitionem ducimur: quas iure optimo religionem nominat. Illud igitur
pauci quos ardens cuexit ad æthera uinus:alam primam exprimit : et uittutes qux
de uita et motibus Tunt intelligit: cumde indeaddit diis geniti potuere
SIGNIFICAT alam secundam :at<pipfam rrligionem quamexuirtutious iisquxad
uerum ducunt conftare uul: Placo : Hxc itaip auntopbilofopho mutuatur Maro
cuius quidem dodrinx non nihil ex ma» thematicorum fcntentia ita addidit : ut
nei^ ius Tuum ac libertatem animis adi merctmeip cxleftia corpora fuaui
priuaret:Nam li animis nolitis uimnecef» Utatcmqi f/dera afferre dicamus/non
modo id in religione noflra impium eiitr fed 6t a Tummorum FILOSOFI dodrina
abhorrens : Verum ut intelli» gas ntip hoc a Platonico dogmate alienum elfe /
refert ille in Thimxo ratio» naiis animi effedionem nulli nili
deotribuendamiquoniam ipfe eiTentiam ac rationem animorum noftrorumcreat.Corpus
autem ac exteras animi par» tcstuteæffqux concupifeit flC qux irafdCur nos ab
animo mundi mutuarie Q_uapco{ær St li mens ipTa nolha nullo fyderum imperio
fubieda Iit : tamen quia nullam adionrm ex iis unde uirtutes uitiam manant nili
per fenTus ac ap» petitum exercet: Illis autem quoniam a corpore funt uacias
aut ad uirtutes affe» dionesiauc in uitfa prcKliuitates inferunt fydera
/permulti interelTe uidet ur quo fydere nati fimus:Nr<^ solum ad bxcqux ad
uicam et mores pertinere diximusr ucrum d ad ea qux fpeculationem K ueri
cognition cm refpiciunn Nam li on» nes omnium animi eadem natura funtiunde nili
a corpore eritrquod alii inge» nioiudicio ac memoria excellentilTimir
xillanttln aliis hxcnulla appareanc: cu autem omnis nofira cognitio ab iis qux
efficiuntur ad cfficientiatn:& ab iis qux loco 8C tempore nrcufcribu Dtur
ad infinira initium fumatrmulta obiicinir dif» licultas animis noftristut
intelligentiamut feientiam ut fapientiam alTequanturt cumuircsillx:qux paulo
ante dicebama membrotum : quibus ueluti inftru» mentis utuntur deprauatione
bebercant : nei^ fe explicare poflint: cura igi» lurapud Platonem ruumlegilfet
Maro nili geminas illas alas recuperemus ad Superos redite non poffe : Cum
itidem illarum recuperationem a fyderibus caquam oilendi ratione impediri
aniroaduerterctiut a loue xquoamarrmur opus ciTe ofiendit. Hoc autem nihil
aliud eft / nili ut benignitate fydaun»ffcdionca ad icdaa adiooa acdpctcmt^Natacum
plancutum uuia uiafit,1 In.P. Virg- M. Allego. Videmus iouis natura hulufcemodt
elTc: ut quos ille in fuo ortu benigfle a(^e dt illi ad iuftitiam ac religionem
proni reddinturrita ut ad eas quas diximus alas recuperandas impelbtr colligamusigiturnetnincmabinferis
rcmeate/nili al^s recuperet : id autem non clTe fadlc nili iis qui
benignitateiiderum adfupera eti guntur. Sed quid tu.L.Marfilium intuens
clanculum rubmurmuraftit Nempe id Tolum refpondit.L.quod paucis ante diebus cum
T imxum Platonis in maoi bus babetet:mibi de anima mundi dixerat Marlilius >
Cautius inquit.B. mihi progrediendum elTe uideorcum res nobis non modo cum dodo
: V erum etiam cum mcmoriolo litifed quod de mundi anima dicis/id 6L uerum huic
lo> co apprime quadrat : cenfet enim PLATONE rationis fementem a deo
fadamianitnof ^ nodros ab ipfo æatos/ac deinde mundi animz ueltiendos corpore
traditos: ut £2 corpore uedircntur:& eius pedilTequis uiribus
informarentur: Æquum enim fuit:ut quoniam concupiTcibilis irafcibilifi^ appetitus
(alutis corporis gra na func:ii ab eodem nobis darenturtqui nos corporibus
inclulilfct: Vetumquia faz partes lubricz funtipat fuit: ut qui nobis illasin
deterius facile labeutcs dedif fet idem ipfe aliqua ex parte
aberrotibustueretur: labenter<jfubdetatct.Q_u3' propter iuflit illi fummus
pater/ut quando ipfetccirco animis nodris caufaffl obiiuionisptzditiir<t:
quoniam luteo corpore circundederit hominibus fulgo, rcmueriutis infunderet.
Huiufcemodi ita^ przccpbs obtemperans mundi animus eos omnes quibus zquus
ell/aut fomniis oraculis et portentis autio. terao quodam motu Si ad futuri
prouirionrm:6t ad diuinz legis cognido. nem perducit : ut eo duce alas
recupctcmus.Huncautemmundianimumue tetes theologia qui illos fccuti funt
Platoiuci fzpe louem appellant. Hinc pbcus lupitet inquit pnmogenitus eft:
Iupiter nouiflimus; lupiter capui:Iupb ter mediu.Vniuctfa autem e loue nata
funtihinchinc illud lupitet eft quodeo. uides quodeun^ moueris i Q_uin Si ipfe
Maro A ioue principium mufz io. uis omnia plena. Sunt enim omnia plena animo
munducum ijle ita totus in to to mundo fl£ in qualibet parte totus : ubi
uigeantutnoftrianimiin fuison. pufculis : Hic deniip czlumueluti citharam
continens harmoniam cfificit ex di uerforum czlorum fanis: quas cum mufas
appcllentiute louisiiliz dicuntur eiremufz:Q_uantam igitur dodrinamMato tribus
uerfibusincluferit/ facili, tis mente concipio : quamuerbis exprimam. Rede
igitur pauci quos zquus amauitlupiter: aut ardens euexit adzthera uictus.
RedefiC illud tenent nia liluz: Ab hyle enim(^ ut fupra dcmolhauimus ) eS omnis
nodra duldtia et omnibus ahimisconugio: quibus impediantur ne ad fuperos
redeant. Ve tum de remeandi difficultatibus badenus: Deinceps nero eas exponit
rationa quibus ita tuto defeendamus ut pateat reditus: Aures autem lamusfapientiam
nobis indicat dne quanonedfpcculado eligendarum agendarum^ rerum iu dex. Ne
mireris aurum fapientiz fymbolum apud hunc poetam obtinere cum plzii^ idem
faiptotes fecerint: Vndeillud bpiens aurum et multitudo gfmmarum Si uas
pretiofum labia fdentiz: Aunim enim eft fapientiz uigor at(j fulgor. Ndium cx
metallis auro pretiofius eft. Nibl in rebus entia pluris facieadum. Fulget
maxime aunim. Nihil (apimciacll endi^ i (i 01 ik IXI BS XD u m uv mt Bd: od Nx
m HC pn ioqi iHgg imcttdi di dux BOC (jB) da. Bidi BUi liuBi Btit imt « D!
feuii Uni OlC Wl D« Lib«r guartui £iu. Nulla eni^oe exeditur aurum: Nulla rea
imminuit fapietitiam t Nullis lordibu saurum coinquinatur t Nullis maculis
Tapicntia deturpatur t Sed latet arbore opaca: mulus cnim ac uariisinfeitiz
tenebris ita obruitur uerumft luco ca cnimcorpons^uc ita ioquar^bebetudo eft
ita tegitur t ut difficile omnino (it illud erueretScite enim Si a Ocmocrito
ufurpabatur natur^n in profundo ueri^ tatem demer(i(fe: Non tamen prius in hanc
contemplationem defeendere uaW mus : quam aureum ramum deccrpfciimus.
Proferpina enim ad fe ire quempi^ am (ine huiuCcemodi munere uetat. Efi enim
profeipina ipfa animi pars quz ni bil przter lenfus contina : ad quam (i (ine
fapientia accederemus nullum przte» rearemediumdarcturiquomuiusdenobisadum ei
Tet.llla enim irretiti nulla unquam effet fpes redeundi. Rede Si illud piimo^
auulfo non deficit alter au« reus I fe ip(a enim alitur (apientu : at<p
cuenit inueffigando/ut aliud uerum ali< ud aperiat: nec quicquam percipiatur:
quod ubi perceptum (it ad aliud percipi* endum non diKat : Illud autem quis non
uideat de uero uenifime didum elTe. Nam alte inuefliganduse(l.diuina enim
&czleffia(^(i ueru inuenire uolumus^ non infima hzc at^ aduca infpicienda
funt : omnis enim dodrina a frientia ex iis efi: quz nullis terminis
circunictipta funt&in interitum non cadunt:lubet ptzterea iam repertum rite
a nobis carpi : et iure quidem ita iubet. Nam nili cer* so quodam otdine
pergamus/nibil unquam proficiemus; Addit enim poffremu illum facile te
fecututum i (i a fatis uoceris : fin autem non uoceris : nec uiribus tunc nec
duro ferro polfeconuelli.Virtutibus enim quz mores corrigunt Si quz tedum
zquumij relpiciunt ualct omnes ira animum a fordibus purgareiut mu di e
corporis migrent : Ad fupremam autem illam rerum cognitione uenire pau ds ommno
datur : at^ iis (blis qui a facis uocantur. (Quapropter rede (i te fata uocant
: Q^uod tamen ut planius exprimam /uolunt Platonici deum poft fe ipsum
cognoscere. Deinde omnes reliquas res: Tertio autem loco ea eunda effice lequz
cognouit : Poftrema ergo hzea fecunda : Secunda rurfus a prima dependet.
Namomnes res ptodudt quia illas nouit : Nouit autem nulla alia ratione : nili
quia fe iplum in quo omnia funt contemplatur. Huiufcemodi itaip ordine rria
illa in deo ponunt iu ut pdmam fapientiam: Secundam prouidentia: Tertium fatum
nominent. Chnffiam autem cum hæc eadem (nt fallor^fentiant:Fa ti tamen nomen
uiz ponere audent: non quia Platoni irafcanturifed cum uidif fent clfe quafdam
in pbilofophia familias : quz eam fato necelTitatem imponat: ut nullam io
adionibus nobis decernendi libertatem relinquant fati nome odif fe uidentur. At
nos eum quem paulo ante dixi philofophum fecuti dicamus deum retum caufas id
cft fe ipfum confiderare: Ddnde ortum ordinem : ac deni gubematiunem rerum quas
compleditur intueri t (Quz ddneeps ita omnia excquitut ut nullo mexio ualeat
impediri i (Quam quidem rem fatum dicunt: Quod fi ita eff uon abeiiant qui
dicunt rationem ac ordinem rerum : quam ita mente dd prouidentiam dicunt in
rebus mobilibus ac loco Si tempore dteuioi pds fatum did.Te itaip fi f^ta
concelTcriiu camus aureus uolens fadiifcp feque c Datur igitur pauos Si id
diuino quodam extra fortem munere ab ipfa dei proui dendatcuiusconfilium
ferutati nefas bomini efirReduscoim dotdnus et reda Jn.P. Virg. M.AIIfgO*
confiliacius t fed qux mortali ingenio cotnprzhendi non poirint.Quis rniffl
adeo temerarius: ut noiTe contendat cur loanni: cur Pauioapoftolu caapcruc« rit
dominus : quz multis fandifrimisuirts& multa dodrina illuftratis detegere
coluerit : Quod exemplum late patet et ad omnes qui in aliquo dodrinz gene te
laborauerint ttanffetri poteft t ut cum multa eodem (ludio dagrauerint t eatu
dem^ operam ac laborem impenderint alii fummum in eaatte attigerint: aliis autem
uix in poftiemis confidere licuerit. Habes quid aureus ramus meo iudb cio fibi
uelit : Quod autrm ad miferi funus pertinet (ic accipe. Mileri odiufa Ia us
rede interpietatur. Q^u ipropter erit eadem inanis quzdam gloria-Snt enim fummo
odio digm qui uiitutrm negligunt : unde folida exprrflai]^ manat glo> tia.
Honores ueto ac reliqua uirtutisiDfigniaredantur:Qu 'm qui in uita ct» Ulli res
egregias adoriuntur in primis captare cunfueueiunt. Hi cn<m non redi
honedii^ amote : fed gloriz cupiditate laborant: quam dum aSequi cupitmuS rem
publicam fzpc perdunt x&infummumouium odium incidunt: Egregie igitur
luuenalis. Tanto maior famz (itis ed quam uirtutts. Huiurccmodiigb' tur uiri
animi excellentiam (iue a natura fibi in litam/(iue indudna/atcp exetaca Cone
comparatam penitus corrumpunt. Non enim uirtutera ammt.^cd uita tutis infignia
i qua; fzpius malis quam bonis exhibentur. inanis igitur atip ad» umbrata
gloria in rerum publicarum adminidrationc exceliintioribus ferop ada hatret.
Quaproptet Hedoris quotj comitem mifernum fuille tingit. bi enim caritate
patriz magis quam cupidine gloriz moucretur huiufctmodi uiri beatifa (Ima;
omnino ciTent ciuitates : quibus illi przcfTcnti Qut igitur ad uitiorum fpe
culationrm ea gratia tendit: ut fe ab illis explicet: cum in primts hu.ufcimodi
gloriam abiiccre necciTe ed :Quaproptcr rede eo tempore roifcrnus extinguitut
quo zneas a fybilla prxeepta accipit. I nitium enim ueri inuedigandi a onlctni
m tcritu optime funiitiir : Ncc tamen fatis fuerat illum extingui :nift etiam
fepelu tur : ut nufq jam urdigium illius appareat : nec unquam reuiuifcat: Quud
au tem illum tubicine fuiiVc dicit : optime quadrat. Ed cnira huiufccmudi
hutni« num : ut rrs a fe gedas quam latilVimc diuulgmt : Si fuo przconio ommbus
ofle dant : Ed prztcrea zoii uentorum regis filius:Nam nibil uentoltus ed illi
qui ne gleda uirtute tc folida et cxprelfa adumbratam quandam et penitus inanem
glo riam aucupentur: unde et tumidi et inflati Si uentoli dicuntur. Rede Si
nlud quo non przdanrior alter ære ciere uiros martemtp accendere cantu.Quid eni
aut Ninum aut Cyrum aut Xerfem ut hos folos de innumeris aflaticis regibus te
feram : quid qua;fo aliud impulit : ut non contenti patriis Enibus multis popu/
lis ac nationibus beilum inferrent; Q_ uid apud grzcos fpartanos aut athenieo'
fescxcitauit ut magnam Aftx partem ruoimpetioadiungerent: QuidHvnni' bali
ruafit ut bifpaousgalliift^ fubadisromam orbis caput peteret: i^uidapud
njod(os.L. Syllam prius ac. C.Marium: Deinde luIiuro Czfartm.CD.^PompC'' ium ac
podrcmo Odauium K.M. Antonium eo furore accendit ut ciuiltfaogui occunt^
replerentur nili infanz quzdam famz cupiditas. Cum gloriam miis rebus
quzrerent: quz dolidil Timum uulgus dupefeere quidem cogant i fapicn Us autem
ad iuihfumam indignaiioncm fummum^ odium concuent t at Q C*1 Gi d DCt BIB I» '1
ip» a» K*», tUH cnu cpi)iii 100 ad siil itd id* ^1 afi \0 «? |lP< <«
Liber guartui mo tnodo ipfe malus non Ct huiufnmodi uiros bonos dixerit. Sed
quid (i o{v dtni que^ m hominum Ibcictatc uiti : ac pro re publica emoti ptomptiilimi
prz ter id quod patriz caritate in manifedifTimam mortem ruebant igloriz quoq;
cu piditate extremum cafum zquiore animo ferebant : uis enim ftbi perfuadeat
aut Thcmifiocicm athenicnrcm in nauali prziio apud Salamina gcflu t aut Epa«
minundamin ea uidoria qua de Lacedzmoniis potitus efiraut Spartanum Leo eidam
in tbctmopylisuirilitcr pugnantem nihil de gloria cogitaffe. Ego enim oet^
Brutum lingulari certamine aduerfus regis exulis filium concurrentem : ne a
Sczuolam tanti animi confiantia dexteram exurentem: ne Decios illos in co
jf^ifimos hoftes iiruentes : ne^ innumerabiles alios qui patnz libertatem fuz
nitz prztulerunt famam quam de fe pofieritati teliduri elTent nihil unquam fe*
dlTe arbitror. Sed nos in re omnibus manifefla nimium fortaffe moramur. Ita«
redeo ad mifemum qui cum tritonem deum prouocare audeat : iute demens appellari
pofTittQ^uid enim fiultius quam (i inanis hzc gloria a caducis ac cito
perituris tebus ptofeda audeat fe illi : quz uera eft et a diuinis rebus
proficifeitur E fumtnam temeritatem zquiperare.Q^uapropter facile ab ea
obruitur. Sed cad rem noftiamtReliqua autem quz circa funusdeferibuntur hidoriz
attp aurium uoluptati concedantur. Geminas autem columbas geminas illas alas qs d o fupra
diximus intellige. Illas enim ducibus ad contemplandas res tendit : t autem
uoluæs ucnetis: quia oportet illas elTe ab ardenti amore : Nec iniu tia matrem
inuocat : Nam tantam difficultatem nili rapiat amor facile fugiut ho mines <
Illz autem non femel aut uno impetu/fed paulatim uolando ad locu du eunt : Non
enim hominis ell omnia momento uidete : fed ratiocinando gtada« timacognitisad
incognita uenire:Seduidcquidfequatur:inde ubiuenere ad fauces graue olentis
aueroi. Tollunt fe celeres liquidum^ per æra lapfz: Sedibus oputis geminz fuper
arbore fidunt: Nam quz ad cantarum raum cognitionem duces fe przbent/eas rerum
terrena^ tum contagionem id enim ell auerni teter odor celerrimo uolatu
effugere opor« tet. Duplex igitur uirtutum genus nos ad ueritatem ducit: quam
fine mora ra.> pit zneas / ut eius luce ea quz per infernum obrcutiffima
funt cernere pofTit.De ioiprio ucro auerni naturalem lod litu demonftrat. Ne
efl quod faaa ab znea petada in feriem noflrz fentenriz digerere laboremus.
Inferuiens enim fuo ar.> gumento poeta eorum lacrorum quz ad ncaomantiam
adhibeant ueteres expli cat. Q_^um autem zneas nudo enfe Iter aifumere lubeat
6C fi hoc in Ilfdem facris obferuare confucuerint : tamen admonetur ipfe ut
robuflo animo rem arduam acediatur. Æneas ita^ ducem haud timidis uadentem
pafltbus zquat.Nam quis non uideat : quod dodrina aliqua nobis oftendit id quam
celerrime quam oiligentillime effe arripiendum. Erat autem iter per obfcura :
uel quia ut dixi ue ritatem in obfcuto ab&rufit natura : uel quia uitiorum
fedes procul a luce funt: Q_ui enim rationis lumine illuflratut : is et uerum
cognofeit /dc rede agit: illam autem qui amiferint fua natura ignorata in ultia
Incidunt • Appellat przterea do plutonis uacuas et inania regna. Q^uo quid
ucrius dici poteftfEfi enim u ii 1 1 I!’,! i;l I * i'i In. P.Vir g.M, Allego.
nudiuftertius manifeiHs rationibus ronuidum mala uitiatp nihil omnino ef fe;
quando quidem nihil afFcrant/fcd bonum pellant. Hoc cum prudens ue hemenf^
uates Perfius intelligeTctrgrauilTime in eam exclamationem proru/ pit/O curas
hominum /O quantum eft in rebus inane :Vt autem quale eflet ad uin'a initium
expreflius poneret oftendit in tantis tenebris non nihil tamen lucis
apparuilTe.Nam 6C Amentis carcitate in uitium labamur a tamen circa principia
non omne penitus lumen tollitur: Prius enim incontinentes cAicif mur quam
intemperantiam cadamns.Miro autem iudidoquz fequunturin inferorum ingreAii
ponit: Si enim exfententia eius quem fequitur Platonis deicenfum animorum in
fua corpora defaibit / manifcAum eA animum qui badenus omnium horum malorum
expers fuerat in ea nunc omnia corporis contagione incidere : Omnes enim
perturbationes inde fentit: Luduenimea riA^ angitur. Impendentia timet imotbos
laboreAp experitur : fame anp ege^ ftate urgetur : omnibus denitp quas ille
enumerat calamitatibus prxmitur : quas a corpore liber expertus unquam fuerat.
Sin autem prolapfum animor rum in uitia huiufcemodi defcenfu interpretari
uolumus non multum diuer fa ratio erit : Q_ua; enim res tanta ucloatate
commilTum facinus confequb tur quam fadi pernitentia. Q_u.r autem pernitet is
Ane ludu effe non po# teA. Adde quod confeientix Aim ulis affiduo purgatur
neceÆ eA : Vrgent enim illum a Aidux curx : qux ueluti ultrices furix poenas
Aagiriorum feueriAune extinguunt: uod quam dode quam eleganter quam expteÆ
pofuetit lu' urnalis quxfo recordamini. Exemplo enim inquit ille quocunip malo
cotn* mittitur ipA difplicct autori prima hxc eA ultio: quod feiudicenemo
nocens abfoluitur. Ac paulo poA; Nam fcoclus intra fc quicun^ cogitat ullum
fadt crimen habet. cedo A conata peregi perpetua anxietas nec menfx tempore cef
fat. lure igitur ultrices curx funt in ucAibulo poAtx : Nec mirabimur A paU
lentes habitent morbi oim Aoicorum acutiflimas argumentationes intelli^^ mus.
Aiunt enim quemadmodum temperantia fedeat appetitiones: &cmcit ut illx redx
rationi pareant iconfcruat^ conAderata iudida mentis : Ac huic inimicam
intemperantiam eiTcieamcp omnem animi Aatum inflammare cd turbare ac incitare :
eoq; pado omnes ex ea perturbationes gigni. Nam ue» luti cum fanguis in corpore
corruptus eA: aut pituitabilis uere redundat morbi xgrotationcr(p nafeuntur: Ac
prauarum perturbationum diAotunta animum fanitate fpoliat : uehementerep
petturbat : ex perturbationibus ue» ro morbi conAciuntur qux illi uocant :
deinde xgrotationes qux appellantur. Quapropter perturbatio quia inconAanter
turbide^ fe iadant opiniones in motu femper cA. Verum cum iam huiufcemodi furor
ac mentis concitatio inueterauerit : &tan quam in uenis medullif^ infederit
: tum exiAit motbus at^ xgrotatio.Na cum ex falfa quadam opinione qux plus
tribuat diuitiis quam tribuendum At pecuniarum cupiditate inflammemur : nec
adhibeatur continuo Socrati» a quxdam medicina : qux cupiditatem extinguat
manat illa in uenas efficit» ^ cum morbum at^ atgrotationem quam auaritiam
nuncupamus. Rede to Liber quartus ^detn demorbis ut mibi uideris inquit
Laurentius &|ad locum eiplicandum appoiitet Non enim philofophi folum / ut
tu probe demondraui: Sed et oratores BC poetx non corporis folum fed et animi
fcpiflime morbos di« eunt. Ergo ut morbos inquit Baptifta ad animum ita SC fene
Autem reÆ refe ternus. Nam cum ipfe adcmrobur<p mentis ueluti iuuentutem
admireritt& ignauia ac torpore quodam ueluti fenio tabefeit/ facile in
uitia: ha;c autem motsanimotum eS/ eum adere uidemus. Mala autem fuada fames
quidnam aliud quaauaritiadefignat: qua homines ad omne facinus impelluntur.
Qua; nam enim res alia nobis fuadet aut iniuftilfimts bellis innoxios populos
iacef (iere I aut caidesiK rapinas exercere: aut inlatroaniis grafTati:aut
uenena pa« rate: aut fidem fallne: aut patriam at^ dues prodete:ni(i auri facta
famesf Quod quidem fi ita cft eodem quo<^ in loco erit ponenda turpis
zgefias.Cii cnim homines paupertatem: quam nemo fapiens turpem exifiimauit
turpilTk mam putent :eam^ ueluti fummum malum exhorreant /nihil repugnat: nui
Ius pudor obftat quin quo illam fugiant/ omnia uenalia habeant /nec abfunt
tembile suifuformzletum^ labof^: Namquialuccexulcsinhistcncbrisuer fiintur:
nihil præter defidio fumooum quærunt: Nec meminerunt homines adagendum ati^
fpeculandum natos nullum laborem/qui quidem honefta^ dadiunAusfitelfe
fugiendum: De lato ucto fic accipe. Philosophi qui dt« ca prudentis
acquifitioncmuerfanturanimaduettunt corpus fi fociumad rem agendam afiumatut
maximo fibi eflie impedimento: Sensus cnim qui a.cor< pore funt nihil in
feueritatis: nihil fincen/utrcÆ dc his rebus iudiute uale« ant in fe continent
; Ex quo fit ut animus fi illis ad inueftigandum utatnrtfzpe dedpiatur:&
illorum illecebris ebrius nihil ptofpiciat. Quapropter mentem quam maxime pofliint
a fenfibus: BC a corpore feuocant. Aic cnim in eo qui phe don inferibitut Plato
nos tum denii^ beatos futuros fi a corporeis abfirahamur: ac deo fimiles
reddamur. Hoc autem quid aliud qua mori effe dicemusrQ^ua propter
fijhuiufcemodi uiri dum uiuunt mori medicantur: uenientem nemor tem illos
trepidaturos cenftbis.''Stulti autem qui nihil przter corpus nouerut:
iniquifiimo animo illud difiblui patientur.ReÆ igitur is quem totiens nomi no
Plato [PLATONE] ut illos philosophos sic istos philosomatos appellat. Quz omnia
ca probe nofiet Maro non illas terribiles formas elfeifed uideri terribiles
dixit.Re fiquaueroquz enumerantur &fopor& mala mentis gaudia ac
poftremo bcU luni/funz BC difeordia ad eandem rationem quicun^ uel mediocri
ingenio uir fuenc facile referet. Nam qui in uitio eft is tanquun fomnolentus
ad omnem honefiam rationem obtorpefeitrNe^ ullam uoluptatem nifide rebus
turpi.» bus capit. bellum autem ac difeordiam non modo cum aliis : fed fecum
geritt cum aliud libido aliud auatitia fibi uelit.Oefidia illum ad odum:
ambitio uero ad labores aduocet.Q_ua animi difira Aide ueluti furiis
exagitatur.in ultimi au tem deferiptione idem quod BC paulo fupra ofienderac
pulcherrimo nuc ac om nino poetico figmeco depigit. Ipfa enim in medio polita
magnu fpariu occupat: fhiAaautnulluprzbctifedfola umbra nosdeleAattfic turpe
facinus ea no« bisonditiquz nihil folidi habcatifiCquzcu magna uideant /nihil
finttut phip Ia.P.Virg.M.Mlego. gii zfopi ncmplo telido corpore umbram fedemur
> Q^uod eo quo^ ezprcC> fius notat ciun addat in Hngulis frondibus
(Togula inlidere fomnia: at^ ea quidem uana: Nihil leuius/nihil mutabilius eft
frondibus: Ea autem in quibus fummum bonum reponunt ftulti:& quorum gratia
rapinas fraudesmul taipalia flagitia patrant: ut honores diuitias ac reliqua
alTequantur: in qua fot tunastemeriute pofTta Ht/SCqua facile mutentur at^
defluant: nemo eft qui ignoret: Q_uz etiamuanisfomniis uerilTime comparantur.
Sunt eodem in loco plurima monflra non temere polita: Nam (i ca monflra dicimus
qux przternaturx legem eueniunt/ eunda flagitia ueio nomine monflra appellax
buntur / cum pmer rationis legem qua lola homines fumus exoriantur.Me fito
autem Ixionis filii putantur centauri : nam ille contempta iuftitia abm« pto^
humanitatis uinculo populos libetos iugo tyrannidis oppre(Tu:Qua^ propter eius
cogitationes apnneipio aliquid humanitatis przferentes inim« manitatemat^
eficriutemquandam tandem degenerant: Non infdte igitur Plutarchus dimonflrat /
huiufcemodi homines tanquam fimulachro uirtu» tis adhzrentes/ nihil
ITncerum/nihil tedum/fed mixta omnia at<p nota facere: Cum fuam quif^
uoluptatem fequatur/fummis petturbationibus ad fu* os impetus delatus:
Prolixior limqua rerum multitudo poflulat: 11 utran^ fcyllam profequar:in iift^
nimias cupiditates exprimi oftendam: nam Hy* dra ad dolos fraudefi^ referti
facile potcft.Fuit enim Hydra Platone tcllefo* phiflaalidillimus: nam cuueri
inuelligandi duplex modus fitpetuetas alter alter pa
fophiftiasrationeshydracauillofasatq} deceptricesargumentationes ponimus: Cuius
uno capite czfo plura renafeantur. Nam una confutata ratione ille fuis argutiis
plurimos fubiungit. Hanc autem Hercules igne idefl ingenii feruore
extinguit.Nei^ eft quod et hoc inter monftra enumerandum negesi Namut uera
dialedica ab omnibus dodiflimisfummoperefemperap probata eft t lic hanc
captiofam grauilTimi femper uiti abhominati fuot : Chi meram aut ad iracundiam
iGorgones ad uoluptatum illecebras/ quibus ftul* d in faxum conuati iccirco
dicuntur / quia nimis illas obftupefcunt.Prudca tes uero et Palladis zgide 8i
Mercurii gladio facile interimunt refetn quis no uideat : Briarei autem ac
reliquorum qui aduetfus deos bella gelferunt / fabu lamrcdilfime interpretatur
CICERONE (vedasi) /cum id nihil aliud lic qua bene monenti naturz repugnate:
Gerion uero 11 grzcum nomen interpreteris / terrz litem exprimet. Lis autem
zterna eft terrz id eft corporis aduerfus fpiritum.Ecitita ^ Gerion pars
elfccminatior animi a fenfibus ptofeda : quz in homine uitio fo uniuerfz animz
imperat. Q_uaproptet quoniam funt ttes animz par** tes / tribus illum infulis
impcralfe fabulantur : cuius canis iccirco biceps cfit quia cupidiute llmul et
timore laborat. His igitur monftris pettenefa* dus ENEA uim parabat. At Sybilla
hominem cotnmouefadens ea omnia fimulachrauanacfleoftendit: llIa^ non ui
fupcranda/fed radone cognolizn da: cognita^ fugienda iubet. Poft huiufcemodi
monftra ad Acherontem Si cocytum deuenitunde quibus fluminibus Si 11 paulo
fupta didum llt:ea tame alia quadi tone ptofequamut.A cdcupilcentia nfa uelud a
fonte manat aqua: que ttygnu palude cffidt.Ne a concupifeentia primu j>uenit
cogrtatio/drnide adioquapeccamus: Achcronpo(lhzccoDatatiorfluuiusc(l:nain per
cum tt* ptimirur motusad dagitiarhic autem poft cogitationem excitatunNrqt
prerer rationem cft quod illum ingenti tumultu ferri Seneca dicat: Non entm
poteft animus Itnefirepitu reludantis confeientiz in facinus ferti:Q^uoniam
autem fauiufccmodi peccandi deliberatione uoluntas in uitium traniitsiccirco in
hoc flumine nauiculamnautamipponunt.Poftuero buiufcemodi tranlltum id au tem
cft poli peccatum/fequitur mceror/quem refert ipfa flyx.pollrrmo maior ludus
qui eft cocytus. Vt igitur ponatur ante oculos illa ut ita loquar} gradatioi
primo loco eliconfcientiz motustfecundo deliberatio fu fapiendi flagitiit poft
hanc mæror ac demum maior ludus:primum ita^ ac tertium (lyx fignifi» cat/f
ecundum Acherontquattum cocytus. Sumopere me hzc deled.<nc inquit
LAVRENTlVS. nerpme offendit quod eofdem fluuios nonaduna/fed ad piares rationes
ttanfFeras. Videmus enim et grauiflimosin nollra theologia lo
cosuariismodisadodilTimisuiris intcrprctari. Habes igiturdrfluminibus in quit
BAPTlSTA:Nunc quid libi Charon uelit/confiderandu cenfeorNara portitor has
horrendas aquas: et flumina feruat terribili fqualote charonicui plunma mento
Canicies inculta iacet.uerum ut res fuo ordine progrediatur/ non nautam folum:
fed £Cniuem limul intcrprerabimurtSit igitur nauis uolu>
tas:licnautalibeteuoluntatisaibitriuni: Nauis lurfus cocoinfuum cu fumdi
ngitur.Hiceledionrm exprimittipra enim eiedionc libetum aibitrium uolun tatem
dirigit t Qoin U per uela eziefles incliuadones non erit abfurdum incel Iigere:
Nam quo czii inclinant/id libenter eligimusmili illis fefe ratio opponat: cuius
tanta uisell/ut etiam fyderibusdominetur.Pergrata hzc funt quz dicis inquit
LAVREntius. Video enim te chrillianorum dogma retinere: ut tamen mathematicos
oinonoirrideasiScdfequereobrecrotSenex cll chaio inquit bA PTlSTA tqmaiali no
tepore ut Platonici:quosfequic poeta/uolut dignitate faltem et origine prior
cil corpore. Adde qdzternacfl:zcemitate aut nthil ana tiquius:Q_uaproptcr Si,
arbitnu libetu in illis zternu:Sed auda deo uiridili^ fc
ncdustqanuquamdeficit.Ellaut terribili fqualore &ex humeris fordidustili
amidusdepcndet.Q_uz omnia ad corpus tediflime ni fallor referuncut : cor« pus
enim ucluti ueltimemum ellanimz: quod alfiduo mutatur ueterafeit: actz dem
tabefcit.Addit duplicem oculis flimmam:quia liberi cll arbitrii ad utmta
ucliiflcdi/dC ad rationis fulgotem/8t ad cupiditatum ardorem.non temere au
tcmncc tine exadilTima quadam ratione herebi nodifip flliusell Charon: Ce£
Iffcnim nox in nobis quz nihil aliud ell nili ipiz ten(brz/quz abinfeinapro
iieniut/nulla erit cofultatioe opus:mens enim fumu bonu perfpicue nofccrcta
&in illud line ulla dubitatione ferret .nuquam enim eligimus nccelTatia/ac
fub lata dubitatide ois confultatio celTat :Quapropter qui iam in tertio
uirtutu gea &erefunt:quas purgati animi appellani/ii prudentia in repe
deledu no utunc' t led przter ea quz lut uera bona nihil nouetutiea^ fola
mtuent. Herebus igi tur.quud uerbu grzce ab obfcuritate originem ducit:ita lefc
rationi opponit Utopuslit cofuitatioci (^uoniauao Cutmdd
Keba}acmodeacccllarii&cota la .P.Virg.M.AIlego» fuUc:opottuit bancuim ea
libertate donatam clTerut aut de plutibua unum/aut de uno <tt ne agendum pro
fuo arbitrio deccrtut. Hoc (i itæfta gratia didtuc Charon«Nibil enim iibaius
cft gratia cum fua fponteproueniattnon autem a cuiufquam merito
debcatur.Q_uaproptei cogi nullo pado uultsat(^ ea de au« fa cum Æneam pet
tacitum nemus ucnite uidetific prior alIoquitur:Q_uiiiquit cs armatus qui noiha
ad iimina tcdis/Fare age quid uenias idbinc et comprime grclTum>Nam cum
etiam rationem ad (c ucnire uideat liberum arbitri ums Non ante illam admiære
uult-quam difcutiat diligentius quid fibi agendu fit.Qua» ptopter addiuNcc uero
aladcm me Tum lætatus euntem accepilte lacu > quu ne ad uirtutem quidem
trahi uult liberum arbitrium. Verum antea confultat i Et pofi confultarionem
deledum adhibet. Quam quidem rem animaduettensff billa; (Luimrubiicin Nuilxbci
Dndiznccuimtelaferunt;&: ut appareat illum con cogi/fcd per confuitatiomm
peifuaderi aureum ramum oftcndittllleaute ad uifam fapientiam libenter
conuetticur: fiC de natura hadenus.Nauis uero a czruleo colore confiatilile
autem ex albo nigrocp conEcitur.Conteplator enim inter iofeitiam at^
cognitionem uerfatur.Non enim mouetur quifpiam ad in» ueftigandum luli aliquid
uideat: Rurfus cum omnia in ea re uidcrit definit fpe culari. Eadem fere ranone
futilis hngitunperceptis enim percipienda adneditt Si autem futilis &,
timofa.Nam antea quam habeatur perfeda rerum cognitio/ non ctit ita perpetua
rerum fenes/ ut nullum intermedium relinquat: Animas uao quas ut Æneam recipiat
e naui pellit:omnes animorum affedus qui ratio ni aduerlantur interpretandas
opinor. Sed uos fortafie nimis cutiofam nimir(^ ineptam huiurccmodi
interpretationem exifiimabitisicum ita minute etiam tni nmiaptofcquar. An tute
cutiofum aut ifia minuta appellas inquit LAVRENTlVS: quxetiamli nimis ingeniofe
elicienda el Tentidigna tamen funt io qui» buscJaboresi Nuncuerocum fe ultro
offerant/quis ea repudietr Q^uin igitur ptofequetetfiC qyz difputationi noftrx
quadrant ne przteri. At^ in pnmis quid libi Cerberus uclit/nobis apeiiiNam
&quod cymba gemuetitifiC quo drimofa inultam paludem acceperit : ego nifi
tu aliter fentias fic accipio/ut in altero fpeca lationis diificultatemiin
altero terrenarum uolupratum illecebras : qux furtim dum uitia fpeculamut
interfluunt/exprimere uolueritiPromptum pa immortalem deum ingenium/^ ad omnia
uerfanle in te elTe uideo LA VTENTi in» quit bAPTlSTAtnei^ commodius ifia
meintapretari potuiflie fateor: Ad cer betu autem de quo audire cupis /paulo
poftucniam:Interim pauca qux omi(< fafunt/percutramus: Ad nautam omnes
confluunt animxtomant^ pnmx tranl Huuiumpottariitelt dunt^ manus tipz
ulterioris amore: Hic iguur con» curfushocut puto fignificatomnes natura fdre.
cupimus: natura autem non omnes admittit: quia liberum menns arbitrium non
omnes ad.fpcculatiooe adtmttit : nam quod in humatorum animx cenmm annos uagentutt
de zgf* ptiorumconfuctudinc tradum: 6c Seruius et Seneca affirmant i Q^uam rem
deinde Orpheus^ad inferos tranfiulit: Vehementer uero quadrat Palinurum a
fybilla feuere calbgari: nefas enim efi cum appetitum ad ueriinuefligatio» bem
ttaduccre/qui aducHiis rationem contumax fit r Sed redeo ad Ænca;^ at at 0 jlU,
DI ii a a » 0 3 i i Liboguartuf tat) jcm charon ad ahetam lipam iocolumetn
traducit.Ipfd «tiim poft diutumu catamen rationis Kappetttus in fpeculationtm
tradudtur.Q_uo in loroaio^ uutn adunfus fc bellum cxdtari Tentit, Cerberus enim
ha;c ingens latratu regna tnfaud petfoiutaduerforecubans immanis in antro.Scd
animaduerte qua par» 1)0 negodo omnia a Sybilla pacata reddanturrOffam enim
latranri cani porngit Qua uorata ille in fomnum inndit.Q_uaptoptet occupat
zneas aditum cufto« de (iepultotCerberum igitur ea fortalTe ratione tridpitem
poetæ tradideruttguo* biam illum terram gux trifanam diuiditur /interpretantur.
dicuntcp grzce quali Omnia enim corpora uoratterra:quado quidem io ea omnia
reddunt.Si i^‘tut terra eft cerberus : quis non uideat porta noflrum per
cciberi latratus noftri corporis indigentiam exprimere uoIuifTe. Cu enim ad
rerum magnarum cognitionem eriginiunhoc profedo agimustut men tem quoad dus
fieri potefi a fenfibus reucKemusremoritp dircamustnon tamen ex buiulcemodi
mortis comentarione intereat corpus neerfle putestred cft illius ratio
babenda.Reclamat enim ne fibi neceflaria fubnahastlnmrgit^ trifaud lar
ttam.Tribus enim rebus indiget dbo potu ac fomnotin quibus nifi fatis illi a no
bis fiat adeo obflrepct/ut nihil egregium meditari (inat. Cuamobrem nullo par
donegligenda e(l cura corporisrlimplicitcr tamen modelle ac omnino fobrie/re
fidendumtut cum laboribus ruperetTepoflit: nimio tamen luxu contumax adr uerfus
animum non reddaturtpaucis enim natura contenta eft : at<p ea huiufcer modi
funt/ut fine labore: fine fumptu facile comparentur. Nam ne fortafte ad ea re
me te reuocare ardas quibus Ginicus cotctuscfti^oflincuicmdumolusnul 10 etiam
lalecoditum fuauilTimas epulas prxbere pofnttaudi ea quibus uolupta* tum
patronus Epicurus acquiefdt :Num ipfe minus uiliflimo panno:quam aut purpurea
aut ccKdna ucfte a frigore defendi rxiftimat.nu fitim nifi chio aut æte 11
uinoatinguitnum famem nifi exquiritiflimisregiin^ dapibus fedari pofte pu tat:
Epicurus inquam qui in corporis uoluptatefummum bonum ponit nullu aliud
pulmentum in coenaptzta famem ac fitim quzfiuit : quem etiam legimP ad panem
raro quicquam prztn cafeum addere folitum.Ficedulas autem ac par Uoncsreliqua(|
ilb flagitia quz et Maaobius in pontificalibus Tuorum tempope
ccenisdeteiiaturt&nosno ftratempeftatein romanorum przfulum dipibus fir
nefumma indignatione ac gemitu meminifte non poflumus ueluti pemitiofilTi
mamonftra exhorrebat: Qua quidem in te ego terni LAVRENTI ficut inc zr teris
temperantiz partibus iumma laude dignum puto;Nam przter id quod plu timos
iamannos utiunfiurarum articulorum dolores efFugias:uinum non bi bis nonne pro
miraculo haberi poteft/ut tu in tanta mum omnium affluentia: in tanto urbis
noftrz luxutin frequentibus lautiflimir^proptaalTiduashofpita liutcs BC æbra
fodalitia tuz domus conuiuiis nihil intuum uidum nifi fimplex ac populare
fumas: Q_uzdum cogito redeunt mihi ad memoriam ea quo quzdeFederico
Vrbinatumprindpcnon folum audiui:fed etiam propter antir quumhofpitiumfl
Cueteremamidtia fzpiflimeuidi:Inquoduce et fiplurimz aliz^ ea magnitudine
uirtutes elucefcant/ut ueluti folis radiis minora fydera Oiancfcunt t ita hzc
illatum fplendote obruatuntamen quis non obftupefcat ta Id.P. Virg.M.AlIego;
tiu Meorinaum acrobrirtitf modicamincaftrisubiuJrtrolrt Wtn f*t« inopia nullu
inter fumtnfi duce ac extremos lyxas et alones d.(c^«, elTe patn tfed domi
quocj ac in aulatin qua cu ota ornamenta pana fefe offerantmec uiq aut
liberalitas/autmagnificeoa defideret s tamc difcubent* illo nulli aut palalaSo
aut nometano/fed Bi philofopho et oraton ocw relin^ tur.lpfe enim a primis
annis uini prciflT.mus fuiticuius ufum paulatim inteitendo eo progtelTus eft/ut
iam diu illud omiferit/nemo eQ qm communioni epulis/nerao qui fimplidoribus
uefcatur/quibus dum corpons U.TO r fiaui(rimisinterimd
Wu«o™“‘l'fP»°"J'l?“perfipefii dum lingulis annis ualitudinis oaanduj raufa
romanos aumnmos Sfugiensadillum diuertor:uidearmihia Sardanapall.c«rn.sm
AIano.conu.- uium inddiffe/K ad aliquem foaaticum hofpitem deueniftim quo pnfc*
con. tinentix ueftigia tam uehementer me deledat/quamm notoojir hominum qui
rubris nigrifqj galeris:ac niueis riciniis totius fanditatis doannam phtent
luxm lafciuiam exaritat.Pudet enim pudet mi Uurenti pigetip noftroju «orumm m
totius rei publicx chriftianx curiam in qua integra religione maximaij dodnia
nonnullos optimos patres K tanto fenatu dignos elTe non negaueom/iis homu nibus
aditum quotidie patere uideamiquos ego tunc demum fenatorium ordi. nem romx
iure obtinere cenferem/li Heliogabalus ib inferis redudus rurfusim peraret. Verum cu hxcme alio in loco deploralTe meminenm
agamus quod iltat. AtcB naturam noftram minimis cotetam effe intelligamus.Q_uod
cu expnmere cupet Maro Sybillam quxueradodhinæft inducit offam in qua et andu
8Cb^ mefcens fimul alimetum fit/Cerbero porrigetem/qua faale et fihm? I*'
det:& in fomnu inddat.Aureu pfedo prxceptu.Nam qui aut Uutiflimis epulis
corpori indulgetiaut uaria uina exqrit ipfa crapula at(j ebrietate « c^us contu
max fibi reddit/8J animi aciem ita hcbetat/ut nihil altu fufpicere poflit. Upt^
quidem funt ifta qux dids inqt LAVRENTlVS. Verum de Cerberonon idem TOCtas
omnes fentire uideoiMaro enim eum canem ita latratem inducit/ut non egredi fed
ingredi cupientibus aduerfet":cuius qdem rei rationem optime a te ex
Mfitam effe intelligo. Nam huiufcemodi corporis indigentia non iis allatrat qui
corpus curadum redeutifed iis qui illo negUao ad ueri cognitione £0“«“^ ItacK
ut dixi ego qd Maro fibiuelit plane tenere uideot; Veru cum apud Heli» dum
poetam ut te non fugit nobiliflimum legerim Cerberum uenieti busauda auribufm
blandiriiExire ucro nemine patiiln infidiis enim delitefcesjqucmcua extra
ianuam offendatiftatim morfu laniat s no intelligo quo nam modo hxcoi no inter
fe diuctfa non fint nifi fortaffe alium ad inferos defccfum um Maro exprimere
uoluerit.Ingeniofe tu quidem inquit ® dit enim ad infaos xneasiqa in uitiopr
cognitione tcdit:Q_uod fi ita eu ingit™ enti aduerfabic Cerberusrodit enim hxc
corpusiFac aut aliu no ut imU nan^ cognofcat inferos petereifed in ipfa uitia
labi auribus 8i cauda bladiet Cnbe^ qppe qui illu ingredi cupiatiNam qd aliud
moliunt' iquid aliud conant perd» boies nifi ut tridpitisbelluac non folii
indigeti* fatiffadatifed oes uoluptates plcanuQ^uod fi ide ifti nonunq pdita
uita reliqua «id enim eft infaos egteoi* - >4^».Liba guam» tcnctit tuc
latrat tunr mordtt canis.Rrde igtt'’ addubitaftt.Rrdt us aut dubitatio orm
fuluifii.brd ut ad Maronis cci bttutn rrdcam facile ille (imp KnlTtnis rpuHs
arquieuits Acneasautnn celer ripam cuaditsNon enim lente K cum fegritie bacc
adtunda funcfcd omni contentione at<]t ardore captiTcnda. Qucniam autor do
in rebus huiufccmodi cft ut primo uitia cognolcanf. Cognita deinde effuga»
lunut pofirtmo illis purgati rerum diuinatum in quibus fummumbrnum con fidit
idonei contemplatores eifiriamur/erat illi totius bumanz uitz curfus mrn< te
repetendus/ut peripicuc intelligeret no folum quato fe fcelere adnngit qui no
biliore fui parte neglcda in uno corpore:& in iis qux a corpore fum
uoluptatib? fpem omnem reponunt. Veium etiam quata miferia opptimanf. Earo enim
uir tutum armis quibus folis uidenes euadne potuilTi nt penitus exuti
nudelilTimis fortunzidibus nudos fefe obticiunt/& ut ca»era aduerfa/qux
innumera quoti« die æddunt omittam /mortem ipfara qux lingulis borarum momentis
impedet uelub lummum omnium maloium rxlKHret.Q_ui quidem matus enam Ii nui la
alia ptutbanone adiaans ipfe unus nos nunq refpirare linit.Quaprnpter hac
iirpeipfosmfantesin pnmo uitz limine petere oftedit.Hac et in fontibus p uim
mferri edocet. Hac et libi iplis eos afferre demonfiratiqui adeo imbecillo
animo fimt/ut grauilTimis quibufdam ptutbationibus fe pares gerere nequeat. Qux
q dem omnia diUgenter intuens xneas decernit tadem hoc in primis fapienti prx«
fiandum elTe ut culpa uacet/mortem autem ipfam inter naturx munera eoumc
ret/cum cz ea no folum nihil mali nobis id eft animis noftris eueni» / fed
contra fummum bonum/quonia a tam tetro carcercfoluti in noftram nanira rcdeam5.
Qua qdem ratione faceti cogemur amice at<^ indulgentet cu illis efle adum
qui antea ad buUifcemodi miferiis erepti Itnt/quam in casinciderint diuind omni
nomunus illudincIcobim/ttbito Dcalunonecollatumtquipfofuma in ipfam deam arqi
in matrem pietate moetemcofecuti fint/Cxtenlt^ omnibus natienb bus ac populis
fapietiotescl Te traufosputabimus/ii enim populi in thracia funt qui fuorum
onum multis lachrimis ac lamentationibus excipiunttquot mala il« hsin uica
cucnmra line enumerares. Obitum uero omni genere lattitix fcquua tur.Cogitant
enim quot erunisq uariisgrauibufip fortunx cafibus morte libera ti
fint.Huiufcetoodi igitur rationibus paulanm xneas moetum mortis deponit: Quin
fi aur fe aut quempiam bonum uiium fupplicio morte ue per fummaiiv iuiiam peti
uidcbit non duliilHme ur Xanthippe illa de (bcrate falrc merenti hoc
cucnitetdicet.Scd quod uetumefferapientes norunt Ihilti uero negant a nrmi ne
nifi a fe ipfo quenq Izdi polTc affirmabitmetp quicq quod turpitudine careac in
malis cuumerabiti^uin Kfoaatica argumentatione couincctquicuipiniue fiecrudeliterip
in aiiuiu «gerit non illum fed fcipfum iniuria alficere.Eos autem omni odio
infcdandosducct/qui animum immortalem fiuptr natura itaro bulium/ut humana
omnia contencre polTit adeo fua ftulttria enenuuerittadeo £ taua confuetudinc
imbecillum reddittut famineo amore incefus in eum pau» tim furorem ptolapfus
fittut fibi ipfc manus atruleritiK morte q fummum tC> fetnalum putabatiid
quo urgebatur malum effugere tentauerit. Qua quidem in te pnmum ignauiam
ai<f incttiam cotum damnat:quia fua culp in eum Lbt o ii In.P.V;rg.MtAIkgo.
dinofum atnortin inciderint quem Plato ab humani» morbis natum affirmat:
quoniam illi eofoli afficiant qui uentri ac fomno dediti: et diuinitate fua
quam aroris denlis tenebris obrui pemuferut penitus obliti nihil præter caduca :
et aut morbo aut ætate cito perituram corporis fortnaih reTpidunn Quamobrem bis
pcccant. Nam 8C a principio Tuo deiidioro ocio ac libidinofa lafduia effedum
e(l ut in rem follidtudine plenam inciderint. Deinde cum morbum fua culpa cotn
dum diutius pati ncqueant:fumma fc impietate afttingunt qui a fummo deo in
coipus ueluti in cuftodiam mifii in iuflu ipiius illud deferunt.Specula^ poii
bax extremam eorum hominum inlaniam/qui cum perfummam iuffitiam intrati/ quillo
fccuro^ odo degere poflient/per fummara tame inturiam ac impietate pa cem
pcrturbare/ac omnia mifcere maluerut. Nam aut nulb iniuria affedi ipfi ul tto
auatitia ambitione ueimpulfi ferto igni fraude nihil tale merentes laceiletut/
aut ipii lacelTiti nihil de iure quod hominis pprium eft difeeptantes ad uim
qux faamm ed fe contulerunt: Hinc genus humanum cui pa edeordiam in fummo odo
uiuere licuaat affiduo mifccri uidcmusiHinc multarum regionum popula dones fiC
infinito;: mortalium catdes oriri aiaduertimusmt cum undi quzeu^ nobis
calamitates eueniut colligerimus:nulla homini q homo acerbior pedis in.>
ueniat : Vides igit q exada lapietia hasc oia poeticis ligmetis exponantur.
quidem quoniam huiufccmodi clVe animaduertit/ut et cum fcelæ dant/ fit po£ fint
etiam uido carere/placuit ut una ac limplid cdmunit^ uia irecur.Cum autea
Deipheebo iam difccirum fuerit/quonia eam iam fefc contcplanda offerut / quz
aut penitus flagitiofa (int/aut pcul ab omni fcelæ folam uittutem continet du
plicem iam efle uiam oportetrut altera in itnidram ad ui tia defledaturcAltera
uf to indutt^tnaduirmtesdcueniat^Hociglt inquit LAVRENTIVS fitPytba goram illum
exprimac uoluiife acdiderimtqui littaam yadinuenit. Quod no latuit
Perfiuspoeta/cuius cdillud.Et uitz nefeiusenor C5eduxit trepidas ramola
incompita mentes» Ifrhuc ipfum inquit BAPTlSTA.Sed uideamus quzfequa/tur. Æneas
fub rupe (inidra mcenia iata uidet triplid circudata muto, fetifica p/ fcdu
tartarotum defcriptio.Locus enim exprimendus iam edin quo uarialole/ ta
puniantut. Hzc grzci tartara ab eo quod ed tarattiiid enim cd pettutbatetex p
turbationibus enim uitia oriunc .‘cademi^ paturbatam femper peccatoris meo» tem
tencntilnduduntur autem triplici muroiquia non una ac fimplid uia fcd tri plia
peccamus.ptimo enim quodam folo animi motu ab deprauata uoldtatc fce Ius condpimus.Secundo
deinceps loco accedit adus.Qui podtetno iteeum at/ iterum muItoticnf(^
repetitus habitum obdudt.Q^uamobrcmhzctria in tat taris iure expreflit poaa quz
procul a uiro beato edic tedatur laaoruffl cartniiid uates.Ille enim fiatim a
principio dc ordif. Beatus uir/qui non abiit in condlio i piotum.Videsiammotum
primumanimi adrcclus.Ocindc fit in uia pacatora non dctit. Quid enim aliud uia
cd nid ipfa adioreitquz depius repaita nd am piius in motu ed:fed iam fedcmdbi
ponit fit redda in habitu iam coadabilito. Rcde igit fit in cathedra pedilentiz
non fcdit.Quod autem flammifluo phlege thontbis flumine tartara ambiant"
:minimc abfurde dixit. Odendit enim aidp/ cem itacundiz: fit arumotum zdus
quibus id hominum genus alGduo torretuta Tantum fnim tH uittoruu odium/ut et
qui illis delcdati lutif tandftn pcraitoi tiamdcdudi
uitaniprattcTitan]datnncnt:urhcinrntn(^ oderim i fibi uno ipfia ætnime
iraiiantur. Nam tu donum cblTes tranfifTc dies luretn palufttttn: Ca ptiui
tamen unico habitus dnnui inuiti trahuntur at(^ ira furore^ exeduntur.
Quapfciptcr tapidus flammis ambit torrentibus omnis t Tartareus phlegethon.
Nulla cnun fomax/nulb fabrorum oflirina magis exxfluat quam feeleratorum mens
Nam Taxa a flumine contorta oflendunt quam graues quam molefli flnt buiufccmodi
motus ati^ «agitationes. Addit ad ba;c portam munitifilma fit foli do adamante
columnas: quibus locum ita munitum redditiut net^uirorumne czluolarum ui
efitingi poflit. Quid ergo flbi uult dodiffimus uir: Nempe hoc ut puto uiros
flagitiofos ac permtos cum in tartara deuenerint. Id autem est cutn longo
habitu fcclaum mancipia cfFcdi fint/nullis uirorum monitisi nullis diuinis
ptxccptiss nulla deniipfyderum clemmtiainde eripi pofleiQ^uaprcs' pter iute
tales homines fit larini perditos it grxd afotos appellant.Erit igitur in quit
LAVRENTlVS amifliim in illis liberum mentis arbitrium ut fit fl uelint
aduirtutem redire nequeant. Video fit in hoc ingenii tui acumen inquit BAPTi
bTA. Nam breui interrogatiuncula illa omniaconcitafli: quz a grauiflimis phr
lofophis de uoluntario dem inuoluntario quzri folent. ua quidem in re no solum
ingenium laudo/ redconfilium quotp uehrmenter approbo .Nam cum multa liefe tibi
offerant tquzfloc cuiufquam auxilio ipfe tibi foluere polTis/ea tamen ab alio
dici mauis/ut fit raodeftizquod nihil tibi arroges: fit igmiiquod prudenter
interroges flmul laudem feras. Verum facile ita huic loco occurretur li dicemus
non uoluiife poetam ineuitabilem neceflitatrm/red eam difficultate quz
impoflibilitati proxima (it demonflrare.Sed fac etiam(^(T placet)omnrtn ex
cidendi facultatem adimere. Non tamen dicemus flagitia quz committunt in^
uoluntariacffe.quando illorum principium uoluntaiium ruit. Nouitenimin#
continens peccate curo adulterium committit: potefl^abflinerefi uult. Peccat igitur
uolcDS donecafliduishuiufcemodi deprauatis adionibiTs eo perueniat/ut contrada
iam intemperantia etiam fi uelit abfhnerc non poffit/non tamen inui.' tus
dicetur peccaffe/quamuis tunc nolit quoniam licuerat a principio/modo uo
luiffet in firmum illum intemperantiz habitum non deuenireK^ uaproprer no magis
inuituspeccaffe dicetur/q qui fua fponte in quempiam lapidem iaciat de^ inde
pOEnitcntiadudusteuocatetfipoffet lapidem : qui per ærem fertur quoni amnoUer
hominem ferire. Ferit igitur fi! bene uolens : quoniam initium a fua uoluntatc
fuit. Sed hzclatiusapud Ariflotelem in libro de moribus difputata inuenies.
Itatp redeo ad zneam : qui ut uides urbem ipfam non ihgredit. Nam qui
uitiafpeculanmrnon uniantur interuitia .lllorumuerouimat^ naturam a S)rbilla(^nam
eunda edocet dodrina^penitus intelligit. Procul tamen in limi ne Tyfiphonem
uidet.ponit igitur furias in limine tartari/de quib^plzra<]p quz a poetis
finguntur uelutinotiffima omittam. Plane aurem conflat placuiffe pri (as
foiptonbus quicuni^ maiori flagidofeobflrinxetint a furiis uexari t ut in
Horcfhs Alcmconifi^ matricidio uidemus. Quo in loco quidnam aliud expri tount
furiz : nifi inquietudinem æpotius uexationem quandam turbulentif
In.P.Virg.M.AUego. Narorima hxttd uluo quod fe ludia neroonoanaabfolmtur.
VtminU cts/ut mdida/ ut d«d<cus/ ut infamiam effugias ; nemo uident : nemo
a^ienfc Q uitcftisdtaripolTitadcfttamen Sp& confciennaiquxu “*8«* Sicium
rapit. |au.ff.mum tcftimonium dior i comnncjt ^am «jb cod,; U^uenaled.fc ilU
flacellai hi fcrpentum moifus quibus fun* nos «agitant. Habes de tun t S aurem
Ufcelera. at, V «auilf.ma«iftunt a principio enumexat. Impietatem in S in
homincs.Nam et tianiam prolem flurni naulo ante dicebam / confæntix cruciatum
dodioreinterpretantu^ ?e enm ueluti Ceuiffmus fcelcrum uindearqux flagitio
obnoxujU^ i^ na affiduo nmarur: et dum commilli in mentem dia corrodit /curafm
afliduo excitat /nec eefpirandi fpanum ueroK fxioncm tyrannidis exemplar effe
uuir/quo Upfura cadenti imminet affimiUs: Nunquam enim fine pe^ione uiuunt. (^uod
et Dionyfius ille iyracufanus Uamodi tamilun L illum beanffimum putanti probe
oftendit / cum illam ita int« ^s epulas ac pretiofa unguenta coliocaflct /ur
umen metu fupta caput equina feta pendentis nulla poffet uoluptate a la. mSlto
rnelius\ofcunt h^ines quam detur modo impeni acquirendi fa tasttuitate
fciant.Ncc ueto diffiale eft intelligne quid ftbi te ora paratx regifico luxu;
cur furiatum maxima luxta ptohil^t contmgæ menfas ; Neq, emm uerius neq,
«prelf.us Le potuittqux in eam homines dementiam protrabit/ut cumpluniM^
geffeS/tum maxime fame per, re malint quam congefta fe et pulchre Orarius
Tantalo illos comptat / qui apud in miiima aquarum pomotumtp copia fm fame^
torqueatur. Pulchre em am^ illud tCongefiis undiq, Ciccis indormis inhians et
tanq^uain SI coceti* j pidi» unquam gaudete ubellis. Magna ptofedo nutn da qw
non norunt harum rerum poffelTioncm non propter fe ntef illatum ufum.6
uapropttrbonailia nontede/uuliaautemtecteappmus. Sed nimis mulu quando multis
iamin locis de auanua diximus /i deliqua uidcamu* : Saxum enim ingens ii uoluum
i. Quotum uiu per Itm mam mftriamin eo uerfaturiutCcmpcr ea prtantitamohn “ir
««/qux aut nativam aut fortunam suam confbtuu efficere nequeant i o^el^ eoii«
conatus irtiti mefficacefij fint.Rourum uao udus dettndi pendere nmw‘
Kdicuntur.quinibilranonefiiconfilM) ptzuidcnteiinihil P‘“^, deo fe fortunx
conimittilnt/ut eius cafibusuelun inter eutyp fludibus ucw affiduo totentur.
ne« uittutem ullam habent in quatn ueluu in tutum ttanq him potturo
W^tteapoepofli Bu Huiufcemodiigitutu Ut tactchqnaquxpItt r- Liber guaitiu rimi
uaria^ fuot edocet Æneam Sybilla / dodum^ flattci ut feiUis «pii> ct
admonet: ut punis campos clyfios ingredi poflit. ms igitur Matontm a Platonis
dogmate difcedcrc diat. lllc enim cumfummum bonum in di' uinarumtetum
cognitione pofuiiretiproptetea^ ccnittctomniuuiuium gr^ nete excellere cum
opottæ : qui cum Iit futurus beatus / tamen ab iis in< dpiendum cITc
oftcndit qua: Ant in uiu et moribus poliiz. Cum enim dv uioa / quæ puriflima 6i
ab omni labe corporea impolluta lunt impurus nr-< mo attingere ualeatt
pcrhuiufccmodi uirtutes expiemur neccire cU/ illis ctjita tL uitia
cogDolicimust SC cognita abhominamunat puiilliau ndiu i.xlo^ fiia ac immortalia
egredi poAumusiHac igitur ratione iinpuilus Maio cum ad tummum bonum perducæ
honunem uelitt ira Acnram iiiflicuendum curati ut primo uitia omnia edoceat/
deinde illis cum opiaium ad campos clyAos perducat. Cognita enim uitiorum
turpitudine totum odium Boa inepuiquz quidem prima omnino lapientia cft. Audirus
cnim ad il« km/cA,ut fiulritia careamus. Sed tu nefcioquid mirabundus tecum
animo ooluisiifibuc ipfnm inquit LAVRENT1VS. Stduide.quantum tibi extua
diTputationc debeam. Dum cnim mihi planum icddeie Maronem ttnusi id^ efficis
eodem tempore in noAri duis diuinum poema induds. Nunc enim demum pcrfpido quid
Abi uclit Oanihcs qui piimum ad inferos descendattat^ inde emergens, nullam
aliam uiamniA pcrpurgato iialocaadca; Ium inucniat : Made uiitutis adolcfccns
inquit liAPTlSTAi qui non ea ib lumquz dicam Si A diffidlia Ant facile acapias.
Seu quadam Aaulitudiueou dusinde ad alia accedas/ut cum ilk maximam laudem ex
diiigcntiilin<a quadam ingenii atrihd^ plena imitatione alVccutus At : tu
quoqi uuuciedio acm laudem mcrcaris.qui bzc omnia/quanquam uebemcutcr
dilliuiuJata lint in illo poeta rccognofcas. Ego uero inquit.L. quantum cx huc
merear ipfciu« dicabis tqtianquam ueriorne nimio in me amureiaplus noAiutnlioc
ingcnk um longe pluru facias/ qua oportet.iliud tamen Si A alicnuni a ptopolito
fcf<t mone uideatur/non omittam .Tu autem quod dicam ea laiiunc amc dida
ædas ueliin / non ut meum ueluti decretum in tanta icponam / fed ut iudtci'
iitntuum quod ego onmium reliquorum ludicioaotcponomcu uerbis elici am • Ego a
prima pene puetma cx uiaufqi patentis m Aituio adeo famibate uni uctfum
opusAorentim poecz mihi reddidi / ut pauci omnino Ant in eu lod quos ego
Aquando illi huiufecmudi oblcdamcntt gciius rcquitcter.t/ non fa« cilc ad uubum
exprimerem. Sed quid poteram puer ex um dtumo uacc ptet maa uerba pcteipcre.Nunc
autem cum uniuetfum rci argurocniu mciice peu curro tumma admirauone cius uiii
ingenium ptofequor.Na oi lu upexe fuo te xendo pauca onuiino Ala de uirgiliaiu
teia mutuari uideac ttameii mde oia pe ne Ant.l uiobtcmnuncnd demum
inteiligo/quod nos cx Cict-roms peepto Izpenufflcco Lidinus admonete folct cc
in aliquo imitadu diligctcm oino u* dooe adhibcnda.Nci^ enim id agendum uri
idem funus qui fuut miquos imi tamut.Scd cotum ita iimilcs : ut ipla Amilitudo
uix illa quidem neq oiA a do dia iatcUigauit.Sed tu A uidetut ad inceptum tedi.
Cum igitut inquit. et la.P .Virg. M. Allcgo. omnibus iam uidis expiatum Æneam
ad eamm rerum cognitionem Mato deduAurus elTettqua; in casiis funt noncxlum fed
elyfios ampos nominat. Miro profedo ingenio u3tes/& qui eodem tempore et
figmento fu o Kuerita tiin(eruiat:Nam& (i apud inferos poetarum more heroas
relcgalTct i tamen nt hzc omnia de czio ilium fentire animaduertamus largiorem
ztherem: ac fuum folem fua^ fydera illis tribuit / ut cum a figmento nufquam
difcedat philofophizumen ucritatem profequatur. Nos autem (i quos uirosilleincz
ios reponat diligentius confiderabimusiea omnia quz primo difputationis die de
utroi^uitz genere a nobis erporiiafunt acubflime ilium elTe complexum
animaduertemus / ut K qui in rerum cognitione reIigiofe/8; qui in adionu bus ac
uitaduiliiufte uafati Hnt digni omnino exiftant: qui in czlumuelu« ti in
originem fuam redeant i Q_uapropter BC Orpheum Si Mufeum ac reliquos qui cafti
fuerunt facerdotes : qui phoebo digna locuti uerum reliquis ape rite potueruntsqui
uaharum aitiu inuentioneuitam cxcultiorem reddiderunt tanquam fpeculatores
cotnmemorat. Nei^ tamen eosobmittit qui aut piisar< mis aut confilio opera
induftriaat audoritate rem publicam dcfendcruntiK in duiliacfocialiuita ueifati
funt.Huiufcemodi ita animos ab omni corporea contagione expiatos cum
fimplidlfimz 8C omnino incorporez naturas fint: SC maximarum rerum capaces
exiftant mullis locorum anguftiis arcuferi ptos nullis regionum terminis
inclufos eum animaduettac sed liberrime per omnes mundi oras uagareuideat: ita
Mufeum loquentem indudt: ut often. dat nulli e(fe certam domum Quin et cum ita
fenoit quz gratia cunumiarmo rum^uiuis fuit quz cura nitentes pafcere equus
eadem fequitur tellure repo flos, demonfkat non clTe fcimroemoremeotu quz et
divinus Plato t placo, nicus CICERONE de animis noftrisfentit.Cenfent emm
adminift ratores terum.p. cum in czium recepti fuerint regendorum hominum curam
non deponere. Net^folumii quiiuflepieqt uixerunt eodem audore iifdcm (ludiis
detinen. tur corpore exuti t quibus dum uita manebat deledabantur: Verum
llagttio. forum quotp animi quoniam multum ex fordibus quibus intta corpora fe
fadauerunt/ fecum inde trahunt a prilhnis curis difcederc nequeunt. Vidt« ftis
ni fallor longum quidem iter ac difficultatibus erroribufi^ plenum: fed quo
tandem uir uirtutis amator finem diu concupitum attigent. Per uari. 05
enimcafus pertot diferimina rerum initaliam tendam s OC in quietas f&. des
deuenit Æneas. Quem quidem fi imitabimur nos corporeis pedibus liberati / SC
nitido uirtutum fonte irrigari eodem uitz genere SC dum intra hzc corpora
uerfabuntur animi nofiri gaudebimus /& cum inde uoiucrint innoftram
originem reuerfi zterno zuo fruemur. Q uz cum ita a BAPTi.STA dida fuilTcnt :
ut difputationi finem impofuiffe uideretur/nihil polfutn inquit LAVRENTIVS in
ram longo fetmone defiderare.Nam a principio ad hunc uf^ locum ita perpetuo
tenore difputatio perduda edtut nihil aut inter* niptu/aut diuulfum/aut
ptzcipicatu t in quu inter mediu aliquod rclidn omif fum ue fit qri poffu.Sut
eni oia mirabili fetie colligata/& eo ordiecotextaiut ni hil inde demi
pofTintiquin quz tcliquutur manca fmt futuraiK nihil addi qrf J M M S IJ i J
i-S rg.§S l-l 1 t-i t 1 1^4"S fi-lltt quidem 6 ab/it /multopere requlreudu
uideat. Ignoscens tamen nimiz cupidi tari no(trz/ri td nunc rcquiram:quod cu
uehementer mihi planum reddi cupii idne^badcnusateez porituintclligisnc
locuinquo deinceps exponi poflit teKdu uidei:Ezpefiabam enim non modo fufpenfo
uerum etiam anxio animo quid tu de iis fenrircsrquz furpiciens Anchifes fuo
ordine pandit. T u ueto dum rcbqua inter dirputandum fuis quz^ lods difiribuis/illa
no ueluti familiaria io iufteeiedarfcdtanqua aliena rine ulla iniuria czclufa
procul a tua difputatione amouifti. Qua propter incertus fum quid agam:Nam ne
audeo te longa ora rione defatigatum quicquaprztercarogareme is quz fcire cupio
zquo aiu^ mopoilu carere. Hic arridens BAPTISTA meminiife inquit te oportet o
Lau miri nos huiufcemodi terminis aniuetram quzfiionem drcurcripiifre : ut quz
ambagibus quibufdam/atip allegoriz figmentis obfcurata effent aperienda pro
poncremusim autem ea tequins quz fuis uerbis fine ullo figmento enarramr. Ego
tamen non ita exada ratione tecum agam/utquodexpado debetur/id fo Ium enumerem t
Sed prauerid gratis aliquid in ea hbcraliiatc accedere uolo : Id igitur quod
Maro ut Principio czlum ac tenasicampofcp liquentes. Lucentenv ^globum
lanzritania^a(ha:Spiritus intus alit : huiufcemodi eri utftoicora de diis
opinionem refetat:Longum effe fi nunc omnium antiquorum philosophorum de diis
immortalibus sententias referam. Q^uz quidem tam diuetfx ta^ inter fe aduerfz
funt/ut totidem pene reperiantur/quot funt eorum qui feri pfciuntcapita:
Nonenimfingulzfolumfamilizfingulas fmccrias excogitari. Sed fzpe inter fe
eiufdem fedz uiri uehementer de re ipfa diffentiunt. Verum ut reliqua ad
przfcnsmiffa faciam et ad ea quz przfenti inquifitioni confentanca funt
deucniam:plzri^ ffoicotum:fed przfertim eorum princeps Zeno universum mundi
globum mentem et ratione & fummafapientiaprzdita habere æ« didaunt /eam
esse ignem quendam purissimum ac tenuimmu. At ueluti ani mi noftri per fui
corporis particulas oes diffunduntur/ita illu per oia mundi me bta ueluti
geniule femen unde eunda procreantur penetrarciquippe qoi uigot fcmeni^ fit
omniu procreandorum. Virgilius igitur qua uis ui reliquis a Platone fuo nunqua
difcedat tamc cum uidiffet Chiylippu in eo quem de natura deope limpfic libro
Orphei mufd Hefiodi at^ Homeri fabellas ita interpretari ut ide prifcosolim poetas
fenliffeconeturoftendereiquod multis pofiea annis (loici
fenferuntifbtuithacinreneab iis poetis quorum fimilis effe cupiebat diftiml>
Iis putaretur ipse PORTICUM fulcire ac floicis adhauere.Na Platonis longe alia
fententia eff. Ponit enim deu penitus incorporeum:at^ extia omnem materia omnem
mundum inipfoczlidorfo exiflentem. Qua propteeillu hypcrcof mlon
appellatiquoniam eifentia sua supra cxli uerricem mancaticum tamen ui ac
providentia nufquam abfit.fed omnia circufpiciens etiam minima curet.In phzdro
enim ait. Magnus in czio lupiter citans alatum curtum inccditJ^mua
exoinanscunda.Eodem in libro demonftrat locum illum neminem adhuc laudaiTe
poetaiummec unquam pro dignitate laudaturum.Q^uaroobrem cum Platonici deum
eztta mundum ponantiquibus etiam Ariflotelici alfentiuntutt Stoici aut illu per
omne ut dixi mundum diffundat, qs no uiderit Virgilium /i in. P. VIRGILIO
(vedasi) W. AII fgo. cutn dcutn quctn in potticu uiderat dcfcriplii Tcnnimorip
noftros illius partica bs elfe a Chrjiippo acccpilTe.Cu autem prouidcntiam dci
multis in loas prafe quatutinufquara a Phtune difcedit. Non enim idem omnes
rendum.Quzras fottaUe quid de mundo sentiat PLATO [PLATONE]. Ccufet quidem
animam eu babcrc/a qua reliquorum animantium animz (int. bominum autem animos
abeo deo que paulo ante dixi creah:££ ratione exornari uultiCorpus autem atip
cacterasoes vires quas praner ratione mia bi seiTefamus bomiiaiabanimo mundi
elTe (ai bit.EQ enim lile dei uicatiusicuirjlua uniuetla ueluti fua prouinda
denudata Imltai illi uita moturai prxbet/non fuaui autfacultate
ledquicquidagitid uelun dei in(humentuagit.Oeclinat igitur paululum de uia
Matotat a Pia/ tonefuo discedit. Cum autem dei prouidentiaplunmis locis
profcquicuri illi totus adbzret.Non enim idem omnesfentiunt.Sunten:minfortunz
qui calt bus omnia ponantiK nullo credat mundum rectore moueti.Q^ua in
sententia Leucippum abdaitem/eiufe conduc Oemoctimm: Protagoram quo^S Theodorum
ac L’ORTO repenasi^unt itidem qui Andotelem fecuti non ita odofum deu ponauut
nibil omnino curare dicant. Illius tamen prouidentia Iu nz orbem
dclcenderenoæduntiSunt deni^K tettiiqui fitliuniucifumper tingere illam uelint
maxima tamen dutaxat curatr/mininu ucro omnino negli gere opinent. At Piato ut
eunda a deo fada putat/ ftc eunda illum curare exifti mau Atipbzcdedeo.Otbeucto
quo uiallim animos nodtos ab inferis ad coc pustat inde rurfus ad inferos
tranfirefaibit ab academia cftc non negamus: Verum si latius de re buiufccmodi
dilTcrendum propofuilTcmusiextant multo diuiniota quz a tato philosopho de aiope
corpore difcclTu pferre poiTimustSed difficile oino eff um breui tempore res
arduas longa diligende otadone explicandas bisanguftiis includere ltaij quod
roluminffat idagamus lnuenies igitur apud Platonicos cu mille annos apud
inferos fuciint animi bominn ad corpora illosredireiatijinde uidffim ad inferos
remeate.ldi^ totiens facere do nec duodedm anno^ milia tranliednt. Hunc enim
orbe perfedu extChmat.Na eo fpado penitus purgari aios CTcduti^ptcrea^ poffe
illos tu demu purgatos/in fuam origine et adezicifes fedes reduc: Q_uod iiquis
fuerit qui pbilofophiz fe dcdacibuic ta fadiis purgado obumit:ut aceat ei poft
tria annopt milia ad fupe ros euolate: Adduc ena fiqs teligiofc oino uixeritieu
ante mille annos H purga/ ti/S purgatu (fatim in fua origine redire: Eff
prztcrea quemagnu annu appcl/ ]at:quc cuc finiri aedunt cum fol una cu luna ac
quin^ reliquis enatilibusffel lis ad eade zodiaci parte rcdieiint. Exado igitur
boc tpis circmtu:quc et si vatta sit dodoru de illo uiro ru sententia rex tamen
ac triginta millibus annoruconfi ci plzrii^ acdidere.ccafec Plotinus omniu
bominu animas ad eunde uitz babi tu rcditutas.Hzcigif'& qualia (int/&
quid facicnda/fadleexco libro perapi cs/que nodu expolitu in manibus hic noffet
Matfilius habet: nec adhuc edidit. Vciu ego cum apud ipfum
inbgbinenffdiueniffcm/cafuin cu incides aperui locof quofdam fuma cum uoluptate
percurri. Res omnino magna eff LA V/ tcd/fl( magnis ingcniuinbus ttadata
Sprotfus digna in qua labores. Poterit nitn no tolum maxima ac pulcherrima et
homini fe ipfum noffc cupiend per quartus aeeelTariatedocercrcdmrummatn quo
admirationem rapere. Scnbit enim non phyticcCut plxri solent sed metaphyiicc de
animoru noftroru immorta litate/utplane poffit de ea re omnem dubitationem
amouere. Quem librum cu Icges/&ha;c quz deMaronereqiuris:&plzra^ alia
quz nos paulo antediuinif fima cfle non rumusmentiti/facilec^nofces. Qux quidem
res facit ut in iis quzpo (hilafiibre uiorquelles /forta(»fuerim.l^hil tamen
eft quod breuitad ^cenfeas. Nam cum ea requireres/quz nullis eius difputationis
quam pepige camus cancellis includerentur/poteram illa meo iurefilentio
przterire. Itacpid facile fi forte obiidatur diluam. Apud vos vero dodif Timi
viri quomodome purgem non invenio.Video enim dum pofiulanti LAVRENTIO nihil
d&> ncgo/duplids errati culpam inddifle.Nam quid me aut loquadus fingi
poteft/ qui quarto iam die ea eruditifiimis aunbus uefiris inculcare non
delinam: quæ quadodrina efiis/uobisqua mihi notiora fint: aut aud adusex
cogitari quiim praemeditatus ad differendum de iis rebus accelferim quzado
dilfiinis iifdci diuprz meditads uids uix faris eleganter pro sua dignitate
explicari folcant. Im mo quid humanius/quid tua fadiitate dignius refpondit
Alamanus effid potu Itqua meanobisodofis dilferere quz tamen magnis vehementer
cp urgentia bus occupationibus przponere non dubitaremus.Nos autem inquit
Petrus ac daiolus uolo enim et pro fratre meo refpondecc ne optare quidem id
aulielfe tnuss quod ultro nobis arridens fortuna attulitiut tu tali
przditusfapientia at ELOQUENTIA VIR ea deduplid quzftione primis duobus diebus
breuiter per. Ipicueiabfoluteip in unum congereresrquz non nili per fummum
laborem: (i> mam indufiriamex multis ac uariis fcnptoribus cruipolfunt. Nam
Maro nis diligentifiima at^ multiplid dodrina referta interpretatio in qua
tertio ac quarto iam die uetfarisitum quia pulcherrima tum quia inaudita
accidit no mi nori Ihiporetqua deledationc nos alfecit. Non polfut fatis pro
fua dignitate lau dariquzatedidafunt inquit Antonius: Sed utinam Baptifia
quoniam reli quamztatem Romzcon fumpfilb hanc tandem fenedutem patriz uel optao
ticodonare uei illa tanquaafuociue exigenti corpore uelisutfzpius te de magnis
rebus difputantem audientes ciues tui dodiores indies meliorefc reddantur.
Verum has ego huius Marci partes ee ducoiTe enim pro ea quz illi tecu
intercedit nec clfitudine modo nitat facile in sua sententia tradudurum
confido. Quin ifihuc ia diu ago inquit Marcusinec prius defina qua aut ronibus
impc' travero aut praecibus ezotnaueto aut defatigando extorfero. Sed ut confido
muItum meineateiuuabit LAVRENTll acluliani ingeniu acftudiu. NI cu inultu iam
in litteris uter pfeccrit: fitr multatu tetu addifceda^ ardentiffima
cupiditasrcu cztera illis et a natura 8C a fortuna adiumeta ad re perficiendam
abunde aifintind pariet'' ille diu adolescentibus quos cariflimos habet operam
sua desiderari. At q liceat md iqt BAPTIfta ego talib5’adolescentibus ounq
deerot Sed furgamus ii/SC qm primo mane uobis e in urbe redeudu.intellexifti
cni pau lo an uurcriu publicis Ifis accctfiri quod reliquu diei eft ualimdini
ipedamus. Quzftionu Canuldulefiu Cbrifiophori Landini [LANDINO] florentini
QuaitifiC ultimi libri Finis. Cum Priuilegio. -Z.sisqfc "Moibc scof.
Questo lavoro porta nuovi elementi allo studio delle complesse vicende inerenti
i RERVM GESTARVM FRANCISCI SPHORTIAE commentarii di Giovanni Simonetta e il
relativo volgarizzamento, la sforziada di L. Nel saggio introduttivo si
indagano gli aspetti biografici, storici e filologici riguardanti le due opere,
partendo proprio da SIMONETTA, attivo nella cancelleria di SFORZA assieme al
piú noto fratello Cicco Simonetta, e ricostruendo la storia testuale dei
Commentarii dalle loro origini agli emendamenti eseguiti dall’umanista POZZO in
vista dell’editio princeps, senza trascurare le vicende editoriali e le prime
reazioni all’opera. Punto di forza dell’analisi è l’aver ritrovato e studiato
nel dettaglio il manoscritto originale, nonché esemplare di dedica, dei
Commentarii, già noto a SORANZO il secolo scorso quale codice Castelbarco.
L’attenzione si sposta quindi da Milano a Firenze, entrando nell’officina testuale
di L. per sondare la sforziada dal punto di vista metodologico e
contenutistico, con un conseguente particolare riguardo per le vicende
successive all’invio del manoscritto di dedica (copiato da Baldinotti) a
Milano, dove il testo viene sottoposto dal Simonetta a numerosi interventi
visibili ancora oggi. Chiude la parte introduttiva un capitolo che vuole
delineare la storia dello sviluppo dei commentarii come genere nel quadro
storiografico dalle origini alla fine del Quattrocento. A seguire il lettore troverà
l’edizione critica della sforziada in veste integrale, corredata di un
approfondito apparato comprensivo degli interventi che ne testimoniano la
ricezione a Milano. Grice: “Perhaps
more interesting than the fact that he loved the Achilleid, and commented on
the Eneide, is that he sold the sforzeide – sull’eroe Milanese, l’invitto
Francesco Sforza! Howell in I Medici. Cristoforo Landino. Cristoforo Landino.
Grice: “I love Landino; for one he wrote the first Italian philosophical
dialogue, “Disputationes” – for another, I love the setting!” Nome compiuto Cristoforo Landino. Landino. Keywords:
dialettica fiorentina – implicatura fiorentina – la Sforziada di Simonetta.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landino” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Landucci:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- i misteri del
delitto Gentile e le bestie senza stato di Vespucci – la scuola di Sarzana -- filosofia
ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sarzana). Abstract. Grice: “Every Italian knows of the ‘delitto’
Gentile – but does every Italian – or Oxonian, for that matter – know whence ‘delitto’
comes?” Grice: “The Italian word ‘delitto’ is rooted in Latin and refers to a
crime or offense. Etymological explanation. “Delitto” comes from the Latin word
‘DELICTVM”. “DELICTVM” is he neuter singular past participle of the verb ‘DELINQUERE,’
meaning ‘to fail, tbe wanting, fall short, offend.’ The Latin verb ‘delinquere’
combines ‘de,’ an intensive or completive prefix meaning ‘completely,’ with ‘linquere,’
meaning ‘to leave.’ Cognate verbs and lexemes. Several words in both Latin and
English share this common root. Latin: delinquo: to transgress, err. Delictum:
fault, offense, misdeed, crime, transgression. English: delict: a transgression
or offense, particularly in civil law. It can also refer to the branch of law
dealing with such offenses. DELINQUENT: one who fails to perform a duty or
discharge an obligation; an offender against the law. RELINQUISH: to leave
behind, give up, abandon. This word shares the ‘linquere’ root. DERELICT:
neglectful of duty, abandoned. This word also shares the ‘linquere’ root. In
summary, the Italian ‘delitto’ stems from the Latin ‘delictum, which signifies
a failing, offense, or crime. This lineage connects it to English terms like ‘delict,’
and ‘delinquent,’ all stemming from the core idea of failng short or committing
a transgression!” Grice came from a milieu where political violence was rare.
He had of course fought the Hun with the Royal Navy, but few philosophers were
assassinated, as they were in Italy. If many consider Gentile as the ‘greatest
living Italian philosopher’ – when he was alive – the ‘misteri del delitto
Gentile’ should fascinate any student of philosophy. Keywords: i mistderi del delitto Gentile. Filosofo
italiano. Sarzana, La Spezia, Liguria. Grice:
“If I had in Hardie a wonderful mentor to Aristotle, I missed Landucci’s
mentoring me into Kant!” – Si laurea a Pisa con Luporini. Insegna a Firenze. Altri
saggi: “Cultura e ideologia in Sanctis” (Milano, Feltrinelli); “I filosofi e i
selvaggi” (Bari, Laterza); “L’origine della scienza sociale” (Firenze,
Sansoni); “La co-scienza e la storia” (Firenze, Nuova Italia); “La
contraddizione” (Firenze, Nuova Italia); “Teodicea” (Napoli, Bibliopolis); “La
Critica della ragion pratica” (Roma, NIS), Sull'etica di Kant, Milano, Guerini, La mente
in Cartesio, Milano, F. Angeli, I
filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, La doppia verità: conflitti di ragione e
fede tra Medioevo e prima modernità, Milano, Feltrinelli, A. Gnoli, Intervista,
"Repubblica", Scheda biografica su Einaudi. Sergio Landucci. Grice:
“Basically, Landucci covers all the topics of my interests, including that of
the alleged ambiguity in Kant’s idea of a ‘reason’!” UCCI, UCCI SENTO ODOR DI L. – I MISTERI DEL DELITTO
GENTILE, IL LEGAME CON LUPORINI, IL '68 IN CATTEDRA ("FUMMO INVASI DAGLI
ANALFABETI") IL GRANDE FILOSOFO SI RACCONTA: “MI PIACEREBBE SCRIVERE UN saggio
SULLA DEMENZA SENILE CHE STA ATTANAGLIANDO L' OCCIDENTE. RICORDO UNA FRASE CHE
DICE: "GRANDEZZA È CIÒ CHE NOI NON SIAMO". HO LA SENSAZIONE CHE
L'ABBIAMO DIMENTICATA…” Gnoli per Robinson-la Repubblica landucci
LANDUCCI Per molto tempo il suo nome è rimasto associato a un grande
libro che quando apparve nei primi anni Settanta fu come una meteora, tanto
sembrò strano nel panorama delle cose che allora si pubblicavano. Sto parlando
de I filosofi e i selvaggi (uscì allora per l' editore Laterza ed è stato
ripubblicato, e aggiornato, qualche mese fa da Einaudi). La sua lettura mi
colpì allora e mi rimanda all' oggi con i "selvaggi", sempre meno
variopinti ed esotici, spinti dalla disperazione ad abbandonare le loro terre
martoriate. Il paragone turba L.. Seduto nello studiolo mi guarda con la sua
faccia triste. Sono venuto a Firenze per incontrarlo. Si stupisce e quasi si
scusa per il fastidio che mi avrebbe arrecato: è un uomo timido, deluso,
gentile ma altresì con un retrogusto di indefinita rabbia. Landucci è
stato allievo di Luporini, ha insegnato all' università di Firenze, subendone,
dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni ordinario. Quasi immediatamente
percepii un generale clima di ostilità e rassegnazione. Con una rapidità
incredibile la facoltà di filosofia adottò una selezione alla rovescia: vennero
avanti a passo di carica gli analfabeti, i carichi didattici furono
alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto tremendamente male gli anni dell'
insegnamento e decisi per la pensione anticipate. È stato così frustrante il
lavoro universitario? «Lo è stato certamente per uno come me. Mi
consideravo, come si diceva allora, un "cane sciolto". Mi stupì
constatare che la facoltà si era ridotta a una grande cellula del Pci, su cui
si incistò dopo il '68 la contestazione studentesca». I punti di
riferimento furono però due grandi personalità di sinistra: Garin e
Luporini. «Maestri indiscussi. Mi chiedo tuttavia quanto sia stata
acuta la loro vista politica. Garin fu il grande interprete di una filosofia
come sapere storico, il suo storicismo era totalmente in sintonia con le
posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c' era un inquietudine ben
maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con le ragioni degli
studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo moltissimo,
sostengo semplicemente che furono anni in cui la politica prese il sopravvento.
Era lo spirito del tempo. Ne facevo parte anch' io, ma senza tessere o
bandiere. Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi all' Università
di Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da Luporini. Quali
erano i vostri rapporti? E mio professore a Pisa e con lui mi laureai. Mi
affascinava quest' uomo che andò in Germania a occuparsi di esistenzialismo e
seguì i corsi di Heidegger». Credo sia stato uno dei pochi italiani a
frequentarne i seminari. C' è un episodio rivelatore del rapporto con HEIDEGGER
Quando il filosofo tedesco pronuncial il famigerato discorso con cui si
insediava da Rettore a Friburgo, Luporini restò sconcertato da quell' adesione
al regime. Qualche giorno dopo incontrandolo gli comunicò che lascia Friburgo
per Berlino. Heidegger gli chiese perché. Lui rispose che era interessato ai
corsi di Hartmann. Il maestro lo liquida con un ironico "tanti auguri"».A
proposito di filosofi si è spesso detto che il vecchio lupo, così era
soprannominato Luporini, fosse rimasto l' ultimo a sapere i dettagli dell'
omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche particolare? « C' è
innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe con Gentile, il quale lo
chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione di Oscar Kristeller,
ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi razziali. GENTILE aiuta
Kristeller, come pure tanti antifascisti che si rifugiarono alla Treccani e
all' Università, fornendogli soldi e assistenza. Poi chiama Luporini alle due
di notte dicendogli di decidere in fretta perché altrimenti sarebbe venuto
qualcuno dalla Germania, quasi certamente un insegnante di fede nazista».Questo
è lo sfondo. Poi cosa accadde? Quando la situazione precipita. Luporini va
a casa di Gentile e lo scongiura di non entrare nella Repubblica Sociale. Gli
dice. Professore c' è gente che non aspetta altro per ucciderla. GENTILE
aderisce alla Rsi e viene ucciso in un attentato. Si è detto che Luporini conosce
i mandanti e gl’esecutori dell' omicidio. Credo che il vecchio lupo non sa
nulla, o almeno nulla di diretto. Ci e una sua dichiarazione radiofonica in tal
senso, ma credo e il frutto di un fraintendimento. La frase di L. e
questa: Cose che forse non si possono ancora dire. Cosa le fa supporre che e
frutto di equivoco EQUIVOCO GRICE? Il fatto che accreditasse la versione
offerta da Mattei, che sull' argomento cambia più volte opinione. Fino a
sostenere che dietro quell' omicidio ci e BANDINELLI. Mai uno straccio di
prova. Credo si sia perfino inventata che fu lei a indicare al commando
gappista la figura di GENTILE, che non ha mai conosciuto. Poi c' è la
testimonianza della moglie di LUPORINI Maria Bianca Gallinaro, la quale mi
disse sconsolata che la storia che Luporini sapesse era solo una leggenda, del
tutto infondata». Possibile che non ci fosse un grano di verità? «
La sola cosa che riesco a pensare è che LUPORINI e emotivamente coinvolto. Dopo
l' attentato, GENTILE e trasportato moribondo all' ospedale. Il fratello della
signora, medico al Careggi, chiama LUPORINI dicendogli se vuole vedere per l'
ultima volta GENTILE. E lui anda e vede il filosofo in fin di vita. Non credo
sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo quella dichiarazione
radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non pronunciare più quella
frase».E lui? « Non so se fu una mia impressione ma gli lessi negli occhi
un certo imbarazzo». Negli anni di Pisa chi frequentava? «Tra le
persone che hanno avuto un peso: CANTIMORI e TIMPANARO. Di quest' ultimo
divenni grande amico». So che Cantimori incuteva una certa paura per il
modo di fare lezione e interrogare. «A me, che non sono stato suo
scolaro, suscitava tenerezza». Cosa pensa della sua vita ideologica
piuttosto travagliata? « Se allude al passaggio dal fascismo al comunismo
non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato il pensiero
liberale. Era dominato dai fatti e dall' idea che la storia sia guidata dal
potere. Usce dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma perché non ne
poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso. Cosa
intende? Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del
Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia
diceva: "Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per
essere intelligenti?". Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare
a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton
per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: "Le ha fatto bene stare
lontano da Firenze". Sì, rispose, ho evitato la noia». Poi c' è TIMPANARO.
«Era stato allievo di PASQUALI, ma invece di inseguire la carriera
universitaria, divenne un outsider della cultura. Motiva la sua scelta con una
certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della
professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con
le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli
ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non
seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va
dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il
rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la
riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella
lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi
chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per
lo più senza rendersene conto». Per lei il caso è stato così
incisivo? Direi che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un
ambiente che non scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati». La sua
famiglia com' era? « Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un
impiego modesto. Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre
anziano e la mamma che gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio
fratello, per paura che lo scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di
altri tempi. Anche nel lessico ricordava la belle époque. Invece di autista
dice chauffeur, vis à vis a posto di specchio e quando chiedeva l'asciugamano
dice passami il Amava il melodramma italiano. Invece, melodrammatica di suo e
mia madre. Risultato: ho sempre detestato la musica lirica! Forse perfino più
di quanto non abbia detestato che mi chiamassero Sergio». ROUSSEAU
Dà l' impressione di un uomo provato dalla vita. Sono molto amareggiato
dalla mia vita professionale e privata. Non ho né la forza né la voglia di
entrare nei dettagli, ma ho l' impressione di essere stato irriso e torturato
dalla vita. Il lavoro nelle biblioteche di mezza Europa e negli archivi è stata
la mia droga, la mia unica grazia. Non ho avuto nessun successo ma almeno mi ha
consentito di vivere». Non è vero, il suo libro sui "
Filosofi e i selvaggi" è un grande libro. «Non diciamo sciocchezze,
troppo carico di note, di troppe citazioni in originale e, in fondo, di inutile
erudizione. La sola cosa che ricordo è una stroncatura di Diaz. Scriverlo, fu
un' idea casuale. Un libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi
appassionava Montaigne». È il primo ad accorgersi della figura del
selvaggio e a prenderne le difese. « Non è il primo, ma in qualche modo
rovescia la posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle
bestie. Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon
selvaggio. Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni,
non ha religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che
soffocano la civiltà occidentale».È la scena che prevarrà? «È solo una
tesi che a Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la
violenza, il terrore che scuotono l' Europa delle guerre di religione e che
culminano nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la
mitezza del selvaggio ». È una tesi che riprenderà Rousseau. «Fino a
un certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non
conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è
sostanzialmente un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze
questa impostazione è Hobbes che rovescia la costruzione di Montaigne Hobbes
parla di uno "stato di natura". firenze FIRENZE Dove tutti si fanno la guerra e dove
la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L' immagine di questa
condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che vengono fatte dei
selvaggi di America. Si può dire che l' Occidente fin dall' antichità si sia
servito di questo mito con le peggiori intenzioni? « È passata l' idea,
con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per ogni ipotetica
assimilazione». Al punto che ancora oggi questa diversità è vissuta come
una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha perfino
parlato di "uomo bianco" in pericolo di estinzione. «Nelle fasi
di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su ogni aspetto
della vita politica, il delirio - come strumento patologico - rischia di
trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che contribuisce
ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia nessuna
giustificazione al male né all' imbecillità. Ho scritto un libro contro la
teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta
attanagliando l' Occidente. Ma non credo di averne più la forza. Mi
resta questa infelicità che è come un che sovrasta le mie parole che non so più
maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal
vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: "Grandezza è ciò che noi non
siamo". Ho la sensazione che l' abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio
ancora, dimenticata». Grice: “Landucci has aptly explored the concept of the ‘barbarian’. It
all starts with Montaigne, an anarchist – he assumes a fake philosophical
position just to justify his anarchisms: savages are fun, happy, and they have
no state! Vespucci moe or less thought the same, but for different reasons.
Just like an ape doesn’t have a state, Vespucci says, so a savage!” – Nome compiuto:
Landucci. Keywords: i misteri del delitto Gentile.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landucci” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lalla: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella selezione
sessuale di Nerone, il musicista – filosofia friuliana – la scuola di Trieste
-- filosofia triestina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Abstract. Grice: “Use ‘God as exegetical device,’ I
wrote to myself. I would not utter these things in public, seeing that Oxford –
and Bologna, before her – was so LAICA, as the Italians put it!” “But note that
if I had written ‘use ‘Nature’ as exegetical device, Darwin would have been
amused – even if Quen Victoria would not!” -- Grice’s pirotological project may
be deemed ‘evolutionary’ in that it’s aimed at identifying those features in a
pirot’s behaviour that promote the survival of the members of the pirot’s
species. Simillarly with Lalla. Keywords:
evolution. FIlosofo italiano. Trieste, Friulia Venezia Giulia -- Grice: “I have
been called a Darwinist, which offended de Lalla!” -- Figlio unico di Achille
de Lalla e Anna Millul. Il padre, nato a Napoli da famiglia
originaria di Tolve, aveva intrapreso la carrriera militare, giungendo a
ricoprire il grado di Tenente colonnello dell'esercito e congedandosi con il
grado di Generale dell'esercito. Prese parte alla Prima guerra mondiale nonché
alla Seconda guerra mondiale, dove rimase ferito alla spalla destra in Russia.
Fu in seguito Dirigente dell'Istituto per la Ricostruzione Industrial. Achille
de Lalla era figlio di Ludovico e di Maria Buonomo, figlia a sua volta di
Alfonso Buonomo, compositore e musicista napoletano di fama. La madre Anna Millul era nata a Roma in una
famiglia ebrea originaria di Livorno. Si laurea, allievo di Kalinowski di cui
traduce in italiano il saggio "Interpretazione giuridica e logica delle
proposizioni normative". Scappa a
Parigi, prendendo parte al Maggio. Tuttavia, fu tra i primi ad intuire che il
Partito Comunista francese non aveva alcuna seria intenzione politica di
sostenere la Contestazione e, in anticipo sul fallimento dell'iniziativa
giovanile, lascia la Francia rientrando in Italia deluso. Studioso di
Evoluzionismo e Politologia, e è proprio sulle sue teorie sull'Evoluzione umana
e sul pensiero di Darwin che scrive l'opera “La selezione sessuale”. Insegna a
Siena e Napoli. A testimonianza del grande successo che riscuotevano i suoi
corsi universitari, rimane la petizione indetta dagli studenti affinché il
Senato Accademico li prorogasse per un biennio.
Gl’ultimi anni Ritiratosi a vita privata, muore a Napoli nella tarda
serata del 25 settembre d'infarto mentre
attende alla redazione della sua ultima opera. Est Deus in nobis Contributo
alla Nuova Evangelizzazione e, nelle intenzioni dell'autore, avrebbe dovuto
costituire il completamento della trilogia iniziata con Evoluzione e proseguita
con La Comunità Democratica.Convinto assertore della superiorità del Diritto
pubblico rispetto a quello privato, si è sempre posto a tutela delle
prerogative statuali. Convinto assertore
dei rischi della dilagante esterofilia in campo politico e fondamentalmente
euroscettico negli ultimi anni di riavvicinamento al cattolicesimo, ideò un
progetto di edificazione di un nuovo partito politico che, nelle sue
teorizzazioni avrebbe assunto il nome di PARTITO CRISTIANO COMUNITARIO
(DEMOCRATICO) ITALIANO PCC(D)I. Saggi:
“Il concetto legislativo di azione penale” (Jovene, Napoli); “La scelta del
rito istruttorio” ( Jovene, Napoli); “Logica della prove penale” (Jovene
Napoli); “La pena militare” (Jovene, Napoli); “Topografia politica della
repubblica” (Scientifiche, Napoli); “Il completamento istruttorio del giudice
nelle indagini preliminari in "Riv. it. dir. e proc. pen.");
“Evoluzione,” “Darwin e la selezione sessuale” (Salerno, Roma); “ Selezione
sessuale” (Scientifiche, Napoli); “La comunità democratica: idee per una
politica nuova” (Guida, Napoli) – concetto di KRATOS --“Comunitarismo” (Guida,
Napoli); “Nerone, o Musica nella antica Roma”
(Guida, Napoli); “Composizioni musicali Per pianoforte Sonata n.° 1
Suite "italiana" Sonata n.° 2 Sonata n.° 3 "napoletana"
Musica da camera Sonata per violino e violoncello Sonata per violino e
pianoforte Sonata per violini, viola e violoncello Note de Lalla F., Una famiglia borghese, Ed.
Ibiskos de Lalla F., in "Il foro penale"
ilcambiamento,// ilcambiamento/ articoli/ evoluzione_2_ darwin_de_
lalla_millul. ateneapoli,// ateneapoli/news/ archivio-storico/
reintegro-del-prof-de-lalla-il-consiglio- di-facolta--si-esprime-
negativamente. petizioni.com/ petizione
_pro_prof_paolo de_lalla. Grice: “When I hear that a philosopher has written
yet another trattarello on the filosofia della musica, I always thought not of
Orpheus and his lute, but of NERO and his lyre!” – Nome compiuto: Paolo de
Lalla Millul. Paolo de Lalla. Lalla. Keywords:
evolutionary, sexual selection, Nerone, filosofia della musica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Lalla” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Latini: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- l’implicatura rettorica di Publio e Cicerone -- implicatura
– filosofia toscana – la scuola di firenze – filosofia fiorentina – scuola
fiorentina -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze). Abstract. Grice: “Italian phonology,
Italians tell me, seems to be easier – or more complex (according to what
source you are consulting) than English. Take Lat-, this gives Latin, and Latin-i,
the name of the philosopher – but the natural development would involve the
disappearance of the ‘t’ sound or rather its transformation into the ‘z’ sound
as in Lazio!” The distinction in pronunciation of the ‘t’ sound in Italian,
where it is retained in names like Brunetto Latini, but appears as /ts/ or /dz/
in other words, is rooted in the evolution of the Italian language from Latin.
Here’s why. Palatalisation of Latin /t/ before /i/. The most significant factor
in the development of the /z/ sound in Italian – as in ‘Speranza’ – is the
palatalization of the Latin sequence /ti/ -- sperantia --, where /i/ is a glide
sound like the /y/ in ‘yes’. In words where this sequence occurred, such as ‘sperantia’
(hope), the /t/ sound, when followed by the /i/, shifted its articulation point
towards the palate, eventually evolving into the affricate /ts/ (or /dz/
depending on the voicing of the preceding consonant). Thus ‘sperantia’ becomes ‘speranza.’
Latin loandwords with /dz/. Latin itself had a /dz/ sound in words borrowed
from Greek, and this sound was initially represented by the letter /z/. As
Italian developed, the existing ‘z’ sound (derived from Latin /ti/ and this
borrowed ‘dz’ were both represented by the letter ‘z’, creating a situation
where ‘z’ could represent both sounds depending on the word’s origin. Retention
of /t/ in other cases. The simple /t/ sound in Latin, not followed by a palatalizing
environment like the /i/ in the above example, generally remained as /t/ in
Italian. This is the csea in surnames like Brunetto Latini, where the /t/ was
not part of a cluster that underwent palatalization. In essence, the Italian
language underwent sound changes where certain Latin consonant clusters and
sequences evolved into the affricates /ts/ and /dz/, while other consonnts
remained unchanged, leading to the co-existence of the /t/ and /z/
(representing /ts/ or /dz/) sounds in the language.” Some of us were gladly disposed
when Leech started to refer to Grice’s oeuvre as falling within what Leech
called the ‘conversational rhetoric.’ The tag of ‘rhetoric’ is exactly what
Grice is APPLYING to the philosophical discourse of his time – notably Austin,
but also his early self. When in his Prolegomena to Logic and Conversation he
sets suspect examples of his manoeuvre he lists his own “Causal Theory of
Perception.” Latini was similarly concerned with those aspects of the
‘significato’ that included either the dictive content itself, or what Latini
calls the ‘insinuazione,’ which is none other than the implicature. Rhetoric
was a mandatory topic at Oxford, springing from Bologna. Kewyords: Grice,
Latini, rettorica conversazionale. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice:
“Latini reminds me of Hardie; he was Aligheri’s mentor; Hardie mine!” -- Grice:
“People say it all starts with Alighieri; but the real ‘filosofo’ behind
Alighieri surely is Burnetto – he has chapters on ‘Platone,’ ‘Aristotele,’ and the
rest of them.” «Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli
che vince, non colui che perde» (Divina Commedia). Figlio di Buonaccorso e
nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia. Le fonti storiche
e una serie di documenti autografi testimoniano la sua attiva partecipazione
alla vita politica di Firenze. Come egli stesso narra nel Tesoretto, fu inviato
dai suoi concittadini alla corte di Alfonso X per richiedere il suo aiuto in
favore dei guelfi. Tuttavia, la notizia della vittoria dei ghibellini a
Montaperti lo costrinse all'esilio in Francia. I cambiamenti politici
conseguenti alla vittoria di Carlo I da Benevento sconsentirono il suo ritorno
in Italia. Fu risarcito del torto subito, con il titolo di Segretario del
Consiglio della repubblica, stimato ed onorato dai suoi concittadini. La sua
influenza divenne tale che a partire si trova a malapena nella storia di
Firenze un avvenimento pubblico importante al quale non abbia preso parte.
Contribuì notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini
detta "pace di Latino". PPresiedette il congresso dei sindaci in cui
fu decisa la rovina di Pisa. Elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati,
in numero di dodici, erano stati previsti nella costituzione. La sua parola si
fa frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli
arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Nel Canto XV
dell'Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella
natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano
su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono.
Alighieri, che era stato allievo di Latini, è profondamente scosso, e non
nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Latini è il primo nella
Commedia a toccare fisicamente Alighieri, tirandolo per la veste. Altre
opera:“Il Tesoretto,” poema (incompiuto o mutilo) scritto in volgare
fiorentino, in settenari a rima baciata, narrato in prima persona. L'autore
definisce l'opera Tesoro, ma il nome “Tesoretto” è presente già nei manoscritti
più antichi, presumibilmente per distinguerla dalle traduzioni italiane del
“Tresor”. Il protagonista, sconfortato dalla notizia della disfatta di
Montaperti, si perde in una "selva diversa". Nella sua peregrinazione
si imbatte nelle personificazioni della Natura e delle Virtù, che gli
illustrano la composizione del Mondo e i modelli di comportamento cortesi. Il
“Tesoretto” si interrompe nel momento in cui il protagonista incontra Tolomeo,
che sta per spiegargli i fondamenti dell'astronomia. Influenzato da un lato dal
romanzo cortese, dall'altro dai poemi allegorici, realizza un'opera che da una
parte della critica è ritenuta tra i precursori diretti della Commedia
(Venezia, Melchiorre Sessa il Vecchio); “Li livres dou Tresor” e la più
celebre, scritta durante l'esilio in Francia, in lingua vernaculare, perche
"è la parlata più dilettevole e più comune tra tutte le lingue.” Consta di
tre libri e risulta la prima enciclopedia volgare in senso proprio. Altri
testimoni sono stati segnalati in seguito da Squillacioti, Divizia e Giola. Il
primo libro tratta dell’origine di tutto. Tra gl’argomenti affrontati vi sono
un'ampia storia universale, dalle vicende dell'Antico e del Nuovo Testamento
alla battaglia di Montaperti, elementi di medicina, fisica, astronomia,
geografia, e architettura, e un bestiario. Si trova, in questo primo libro, una
delle menzioni più antiche che conosciamo di una bussola e l'indicazione della
sfericità della terra. Nel secondo libro si tratta dei vizi e delle virtù,
attingendo sostanzialmente dall'Etica Nicomachea. Il terzo libro riguarda
principalmente la retorica. Utilizza come fonti Platone, Aristotele, Senofane,
il romano Publio Vegezio e Cicerone. Altre opera: è inoltre autore di un altro
breve poemetto, “il Favolello”, di una “Rettorica” volgarizzamento e commento
del De inventione di Cicerone, nonché dei volgarizzamenti di tre orazioni
ciceroniane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiòtaro). Jauss, Alterità e
modernità della letteratura medievale, Boringhieri S. Sarteschi, Dal
"Tesoretto" alla "Commedia": considerazioni su alcune
riprese dantesche dal testo di Latini, in "Rassegna di letteratura
italiana", B. Latini, Tresor; G. Beltrami Squillacioti Torri e S.
Vatteroni” (Torino, Einaudi); A. D'Agostino, Itinerari e forme della prosa, in
Storia della letteratura italiana” (Roma, Salerno); Tresor. Beltrami,
Squillacioti, Torri, Plinio, Torino). Aggiunte (e una sottrazione) al
censimento dei codici delle versioni italiane del "Tresor”, Medioevo
romanzo, La tradizione dei volgarizzamenti toscani del Tresor con un'edizione
critica della redazione alfa. Verona. Edizione del volgarizzamento toscano. La
colonna posta dove è stata riscoperta la sua tomba, Santa Maria Maggiore;
“Livres dou Tresor” (Vineggia, per Gioan Antonio et fratelli da Sabbio, ad
instanza di N. Garanta et Francesco da Salo); Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tesoretto. In G. Contini,
Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano. A scuola con ser Brunetto. Indagini
sulla ricezione dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di studi,
Basilea, I. Maffia Scariati, Firenze, Galluzzo, D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi
di delizia pieni, Ricciardi, Milano, A. Carrannante, "Implicazioni
dantesche: Brunetto Latini (Inf. XV)", "L'Alighieri",
Enciclopedia dantesca, ad vocem, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani,
Roma, P. Fornari, Dante e Brunetto, Co-Op, Varese, Poi in: Pro Dantis virtute
et honore, Co-Op Varese, L. Frati, Brunetto Latini speziale, "Il giornale
dantesco", F. Maggini, La «Rettorica» Latini, Firenze, Galletti e Cocci,
U. Marchesini, Due studi biografici, Atti dell'Istituto Veneto", "La
posizione del Latini nel canto XV dell'Inferno dantesco"). Merlo, E se
Dante avesse collocato Brunetto Latini tra gli uomini irreligiosi e non tra i
sodomiti?, "La cultura", Poi in: Saggi glottologici e letterari,
Hoepli, Milano, Fausto Montanari, "Cultura e scuola", Antonio Padula,
Il Pataffio, Dante Alighieri, Milano, Roma e Napoli, Manlio Pastore Stocchi,
Delusione e giustizia nel canto XV dell'Inferno, "Lettere
italiane"(poi in: Letture classensi, Longo, Ravenna;
"Representations", R. Santangelo, "Tutti cherci e litterati
grandi e di gran fama": "Il sogno della farfalla. Rivista di
psicoanalisi", M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di Dante,
Loescher, Torino Thor Sundby, Della vita e delle opera (Monnier, Firenze);
Alighieri Storia di Firenze Divina Commedia, Il Favolello Il Tesoretto. Treccan
Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, sRegesta Imperii, su
opac.regesta-imperii.de. Portal, su florin.ms. G. Orto, L.. Tommaso Giartosio,
Dante e Brunetto Latini. Tratto da: Perché non possiamo non dirci. Letteratura,
omosessualità, mondo, Feltrinelli, Milano, Concordanze del libro del Tesoretto,
su classicis tranieri, Li livres dou trésor, ed. par Polycarpe Chabaille, Paris
M. Giacomelli. La rettorica. Qui comincia lo 'usegnamento di rettorica, lo
quale è ritratto in vulgare de' libri di Tullio e di molti filosofi per ser
Burnetto Latino da Firenze. Là dove è la lettera grossa si è il testo di
Tullio, e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore. Incomincia il
prologo. Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se la copia del DICERE e
lo sommo studio dell’ELOQUENZA àe fatto più bene o più male agl’uomini et alle
città. Però che quando considero li dannaggii del nostro comune e raccolgo nell'
animo l’antiche aversitadi delle grandissime città, veggio che non picciola
parte di danni v’è messa per uomini molto parlanti sanza sapienza. Qui parla lo
sponitore. RETTORICA èe SCIENZA di due manière. Una la quale insegna dire, e di
questa tratta Tulio nel suo saggio. L’altra insegna dittare, e di questa,
perciò che esso non ne trattò cosi del tutto apertamente, si nne tratterà lo
sponitore nel processo del saggio, in suo luogo e tempo come si converrà.
Rettorica s' insegna in due modi, altressì come l’altre scienzie, cioè di fuori
e dentro.Verbigrazia: Di fuori s'insegna dimostrando che è rettorica e di che
generazione, e quale sua materia e lo suo officio e le sue parti e lo suo
propio strumento e la fine e lo suo artifice. Ed in questo modo tratta BOEZIO
nel quarto della Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si dimostra che
sia da fare sopra LA MATERIA DEL DIRE e del dittare, ciò viene a dire come si
debbia fare lo exordio e la narrazione e L’ALTRE PARTI DELLA DICIERIA o della
pistola, cioè d'una lettera dittata. Ed in ciascuno di questi due modi ne
tratta Tulio in questo suo saggio. Ma in perciò che Tulio non dimostra che sia
rettorica né quale è '1 suo artefice, sì vuole lo sponitore per più chiarire
l'opera dicere l'uno e l'altro. Ed èe rettorica una scienzia DI BENE DIRE, ciò
è rettorica quella scienzia per la quale noi saperne ORNATAMENTE dire e
dittare. Inn altra guisa è così diffinita. Rettorica è scienzia di ben dire
sopra la causa proposta, cioè per la quale noi sapemo ornatamente dire sopra la
quistione aposta. Anco àe una più piena difiìnizione in questo modo. Rettorica
è scienza d'usare piena e PERFETTA ELOQUENZA nelle publiche cause e nelle
private. Ciò viene a dire scienzia per la quale noi sapemo parlare pienamente e
perfettamente nelle publiche e nelle private questioni. E certo quelli parla
pienamente e perfettamente che nella sua diceria mette parole adorne, piene di
buone sentenzie. Publiche questioni son quelle nelle quali si tratta il
convenentre d'alcuna città o comunanza di genti. Private sono quelle nelle
quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale persona. E ttutta volta è lo
'ntendimento dello sponitore che queste parole sopra '1 dittare altressì come
sopra '1 dire siano, advegna che tal puote sapere bene dittare che non àe
ardimento o scienzia di profiferere le sue parole davanti alle genti; ma chi
bene sa dire puote bene sapere dittare. Avemo detto che è rettorica, or diremo
chi è lo suo artifice. Dico che è doppio, uno è rector e l'altro è orator.
Verbigi-azia. Rector è quelli che 'nsegna questa scienzia SECONDO LE REGOLE e
comandamenti dell'arte. Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte,
sì l’usa in dire ed in dittare sopra le questione apposte, sì come sono li
buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale
perciò fue agozetto di Federigo II imperadore di Roma e tutto sire di lui e
dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo buono
e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenza nelle cause
publiche e private. Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo
artifice, cioè di colui che la mette in opera, l'uno insegnando l'altro
dicendo. Ornai vuole dicere chi è l'autore, cioè il trovatore di questo saggui,
e che fue LA SUA INTENZIONE in questo saggio, e di che tratta, e la cagione per
che lo saggio è composto e che utilitade e che tittolo à questo saggio. L'
autore di questa opera è doppio. Uno che di tutti i detti de' filosofi che
fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di
rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicerone, il più sapientissimo de' romani. Il
secondo è Brunetto de’ Latini, cittadino di Firenze, il quale mise tutto suo
studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio dice. Ed esso è
quella persona cui questo saggio appella sponitore, cioè ched ispone e fae
intendere, per lo suo propio detto e de' filosofi e maestri che sono passati,
il saggio di Tulio, e tanto più quanto all'arte bisogna di quel che fue
intralasciato nel saggio di Tulio, sì come il buono intenditore potràe
intendere avanti. La sua intenzione fue in questa opera dare insegnamento a
colui per cui amore e' si mette a fare questo trattato de parlare ornatamente
sopra ciascuna questione proposta. Et e' tratta secondo la forma del saggio di
CICERONE di tutte le parti generali di rettorica. Verbigrazia. L’invenzione,
cioè, il trovamento di ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e
dell'altre iiij° secondo che sono nel secondo saggio che CICERONE fa ad Erennio
suo amico, sopra le quali il conto dirà ciò che ssi converrà. La cagione per
che questo saggio è fatto si è cotale, che Latini, per cagione della guerra la
quale fue traile parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua
parte guelfa, la quale si tenea col papa e colla chiesa di Roma, fue cacciata e
sbandita della terra. E poi si n'anda in Francia per procurare le sue vicende,
e là trova uno suo amico della sua città e della sua parte, molto ricco
d'avere, ben costumato e pieno de grande senno, che Ili fece molto onore e
grande utilitade, e perciò l'apella suo porto, sì come in molte parti di questo
saggio pare apertamente; et era parlatore molto buono naturalmente, e molto
disidera di sapere ciò che' savi aveano detto intorno alla rettorica; e per lo
suo amore Latini, lo quale era l)uono intenditore di lettera et era molto
intento allo studio di rettorica, si mette a fare questo saggio, nella quale
mette innanzi il testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di
sua scienzia e dell'altrui quello che fa mistieri. L' utilitade di questo
saggio è grandissima, però che ciascuno che sa bene ciò che comanda lo libro e
l'arte, sì sa dire interamente sopra la questione apposta. E in questo punto si
parte elli da questa materia e ritorna al propio intendimento del testo. In
questa parte dice lo sponitore che CICERONE, vogliendo che rettorica fosse
amata e tenuta cara, la quale al suo tempo e avuta per neente, mise davanti suo
prolago in guisa di bene savi, nel quale purga quelle cose che pareano a lui
gravose. Che si come dice BOEZIO nel commento sopra la Topica, chiunque scrive
d'alcuna materia dee prima purgare ciò che pare a lui che sia grave; e così fa
CICERONE, che purga tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per
copia di dire. Apresso la sentenza di Platone, e poi la sentenza d'Aristotele.
La sentenza di Platone e che rettorica non è arte, ma è NATURA per ciò che vede
MOLTI BUONI DICITORI PER NATURA e non per insegnamento d'arte. La sentenza
d'Aristotile fa cotale, che rettorica è ARTE, ma REA, per ciò che per eloquenza
parca che fosse a venuto più male che bene a' comuni e a' divisi. Onde CICERONE
purgando questi tre gravi articoli procede in questo modo. Che in prima dice
che sovente e molto ae pensato che effetto proviene d'eloquenza. Nella seconda
parte pruova lo bene e '1 male chende venia e qual più. Nella terza parte dice
tre cose. In prima, dice che pare a lui di sapienzia; apresso dice che pare a
lui d' eloquenzia. E poi dice che pare a lui di sapienza ed eloquenzia congiunte
insieme. Nella quarta parte sì mette le pruove sopra questi tre articoli che
sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recando a ciò
molti argomenti, li quali muovono d' onesto e d' utile e lo possibile e
necessario. Nella quinta parte mostra di che e come egli tratta in questo
saggio. E poi che nel suo cuminciamento dice come molte fiate e lungo tempo
pensa del bene e del male che fosse advenuto, immantenente dice del male per
accordarsi a' pensamenti delli uomini che si ricordano più d'uno nuovo male che
di molti beni antichi; e cosi Tulio, mostrando di non ricordarsi delli antichi
beni, s' infigne di biasraare questa scienzia per potere più di sicuro lodare e
difendere. E per le sue propie parole che sono scritte nel testo di sopra potemo
intendere apertamente che in queste medesime parole ove dice che i mali che per
eloquenza sono advenuti e che non si possono celare, in quelle medesime la
difende abassando e menimando la malizia. Che là dove dice dannaggi si suona
che siano lievi danni de' quali poco cura la gente. E là dove dice del nostro
comune altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che
del comune; e dicendo NOSTRO comune intendo ROMA, però che Cicerone e cittadino
di Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì alto stato
che TUTTA ROMA si tenea alla sua parola, e fue al tempo di Catellina, di
Pompeio e di Giulio Cesare, e per lo bene della terra fue al tutto contrario a
Catellina. Et poi nella guerra di Pompeio e di Giulio Cesare si tenne con
Pompeio, sicome tutti ' savi eh' amano lo stato di Roma. E forse l'appella
nostro comune però che ROMA èe capo del mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove
dice l'antiche adversitadi altressì abassa il male, acciò che delli antichi
danni poco curiamo. Et là dove dice grandissime cittadi altressì abassa '1
male, però che, sì come dice il buono poeta LUCANO, non è conceduto alle
grandissime cose durare lungamente; e l'altro dice che le grandissime cose
rovinano. E così non pare che eloquenza sia la cagione (iel male che viene alle
grandissime città. E là dove dice che danni sono advenuti per nomini molto
parlanti 'sanza sapienza, manifestamente abassa '1 male e difende rettorica,
dicendo che '1 male è per cagione di molti parlanti ne' quali non regna senno.
E non dice che il male sia per eloquenza, che dice Vittorino. Questa parola
eloquenza suona bene. E del bene non puote male nascere. Questo è bello colore
rettorico, difendere quando mostra di biasmare ed accusax'e quando pare che
dica lode. E questo modo di parlare àe nome INSINUAZIONE, O IMPLICATURA, del
quale dice il saggio in suo luogo. Et qui si parte il conto da quella prima
parte del prologo nella quale CICERONE dice il suo pensamento ed dice li mali
avenuti, e ritorna alla seconda parte nella quale dimostra de' beni che sono
pervenuti per eloquenza. Sì come quando ordino di ritrarre dell'anticiie
scritte le cose che sono fatte lontane dalla nostra ricordanza per loro
antichezza, intendo che eloquenza congiunta con ragione d'animo, cioè con sapienza,
piìie agevolemente àe potuto conquistare e mettere inn opera ad edifficare
cittadi, a stutare molte battaglie, fare fermissime compagnie et anovare
santissime amicizie. Poi che Cicerone divisa li mali che sono per eloquenza, sì
divisa in questa parte li beni, e CONTA PIU BENI CHE MALI perciò che più
intende alle lode. E nota che dice son messe ordinatamente acciò che prima si
raunaro gli uomini insieme a vivere ad una ragione et a buoni costumi et a
multiplicare d' avere ; e poi che furo divenuti ricchi montò tra lloro invidia
e per la 'nvidia le guerre e le battaglie. Poi li savi parladori astutaro le
battaglie, et apresso gl’uomini fecero compagnie usando e mercatando insieme; e
di queste compagnie cuminciaro a ffare ferme amicizie per eloquenzia e per
sapienzia. 3. Ma ssi come dice e signifficano queste parole, per più chiarire
l'opera è bene convenevole di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e
che è 15. amico e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che Ilo sponitore
non vuole lasciare un solo motto donde non dica tutto lo 'ntendimento. Che è
cittade. Cittade èe uno raunamento di gente fatto per vivere a ragione; onde
non sono detti cittadini 20. d'uno medesimo comune perchè siano insieme accolti
dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a vivere ad una ragione.
Che è compagno. Compagno è quelli che per alcuno patto si congiugne con un
altro ad alcuna cosa fare; e di questi dice Vittorino che se sono fermi, per
eloquenzia poi divegnono fermissimi. Che è amico. Amico è quelli che per uso di
simile vita si congiugne con un altro per amore insto e fedele. Verbigrazia:
Acciò che alcuni siano amici conviene che siano d'una vita e d'una costumanza,
e però dice «per uso di simile vita » ; e dice « giusto amore » perchè non sia
a cagione di luxuria o d' altre laide opere ; e dice « fedele i'-in compimento
dell'altre parole ecc. Jf' cioè hediDcar .»/ aslroppiarc, m a storpiare
caunano, corretto poi in raunarono Af ad avere una ragione, m "al avere
una medesima ragione M l'uno, -If' fuor {cfr. Tesor., vii, 54) il' montò loro
M-m parlando anno attutato - le guerre il.' M forme amicitio, »» forme d'amie
i^:mdichono i^.- m dimostrare quello io.- Af' 7 che sapientla 7 che eloq. .»/'
volle intralasciare de genti V-m raccolti - SI: m rachollì 25: M son S7 : M-m
che è coiiipannia M' si i> 28 : .V ad un altro 3U' porciò 31 . .tf ' conduco
insto am. fcerlo per scambio dell'abbreviatura di et con quella di con) U ad
altre amore » perchè non sia per gnadagneria o solo per utilitade, ma sia per
constante vertude. Et cosi pare manifemente che quella amistade eh' è per
utilitade e per dilettamento nonn è verace, ma partesi da che '1 diletto e
l'uttilitade menoma. Che è sajoiemia. Sapienzia è comprendere la verità delle
cose si come elle sono. Che è eloquenzia. Eloquenzia è sapere dire addome
parole guernite di buone sentenzie. 10. TnUio. Et così me lungamente pensante
la ragione stessa mi mena in questa fermissima sentenza, che sapienzia sanza
eloquenzia sia poco utile a le cittadi, et eloquenzia sanza sapienza è
spessamente molto dampnosa e nulla fiata utile. Per la qual cosa, se alcuno in
l.ó. tralascia li dirittissimi et onestissimi studii di ragione e d'officio e
consuma tutta sua opera in usare sola parladura, cert' elli èe cittadino
inutile al sé e periglioso alla sua cittade et al paese. Ma quelli il quale s'
arma sie d'eloquenzia che non possa guerriere contra il bene del paese, ma
possa per esso pugnare, questo mi pare uomo e 20. cittadino utilissimo et
amicissimo alle sue (>) et alle publiche ragioni. Lo sponitore. Poi che
CICERONE ha dette le prime due parti del suo prologo, si comincia la III parte,
nella quale dice tre cose. Imprima dico che pare a llui di sapienzia, infino là
dove 25. dice : « Per la qual cosa ». Et quivi comincia la seconda, nella quale
dice che pare a llui d'eloquenzia, infino là ove dice : « Ma quello il quale s'
arma ». Et quivi comincia la terza, ne la quale dice che pare a llui dell'una e
dell'altra giunte insieme. 3: M' om. e 4: M- pdesi m diloclamento 7 l'util.,
.tf' l'utilitade 1 diloclo 8-9: .»/ ad ongno parole, m ogni paroleM-m om.
sia.... sapienza i-J : M' om. molto ^ i5: M-m lassa indireotissimi (m
idireuissimi) IG: M-m sola la parlatura 18: 3l-m sama .)/ giuriare, m
ingiuriare Ì9-20.- .1/ luiomo cittadino, »i mi pare cittadino .V-»i a' suoi .?3
• .1/ conincìa S4 : M insini, .)/' inlìn là ove (cfr. Tcsnr.. xi, 1074) So:
yr-ìii dice jiarla M-m qui - 26: M insino m là dove M-m la (|ual dice. (1)
Questa lezione è oonfennata dal § 5 del coniuiento: « utile a ssè et al suo
paese. Onde dice Vittorino: Se noi volemo mettere avacciamente in opera alcuna
cosa nelle cittadi, sì ne conviene avere sapienzia giunta con eloquenzia, però
che sai)ienzia sempre è tarda. Et questo appare manifestamente in alcuno V 5.
savio che non sia parlatore, dal quale se noi domandassimo uno consiglio certe
noUo darebbe tosto cosìe come se fosse bene parlante. Ma se fosse savio e
parlante inmantenente ne farebbe credibile di quel che volesse. 3. Et in ciò
che dice Tulio di coloro che 'ntralasciano li studii di ragione e d' officio,
intendo là dove dice « ragione » la sapienzia, e là dove dice « officio »
intendo le vertudi, ciò sono prodezza, giustizia e l'altre vertudi le quali
anno officio di mettere in opera che noi siamo discreti e giusti e bene
costumati. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le vertudi e studia 15. pure
in dire le parole, di lui adviene cotale frutto che, però che non sente quel
medesimo che dice, conviene che di lui avegna male e danno a ssè et al paese,
però che non sa trattare le propie utilitadi uè Ile (i) comuni in questo tempo
e luogo et ordine che conviene. 5. Adunque colui che ssi mette 1' arme d'
eloquenzia è utile a ssè et al suo paese. Per questa arme intendo la
eloquenzia, e per sapienzia intendo la forza; che sì come coli' arme ci
difendiamo da' nemici e colla forza sostenemo 1' arme, tutto altressì per
eloquenzia difendemo noi la nostra causa dall'aversario 2.5. e per sapienzia ne
sostenemo (2) di dire quello che a noi potesse tenere danno. Et in questa parte
è detta la terzia parte del prologo di Tulio. 6. Dunque vae il conto alla
quarta parte del prologo, per provare ciò eh' è detto davanti et a conducere
che noi dovemo studiare in rettorica i : M Lande M' avacciatamente, ma L
avacciamente S: m si cci conv. 0; m ODI. cosio, M e' noi darebb»; cos'i tosto
M' credibile quello, m di quello .)/' disse 10: .Vi om. il 2' et 12: .»/' et
altro 13: .»f' che non siano i4.- .V-m dall'altre vertufli 15:m adiviene 16 :
jn a lini : solo L nelle ; (jli altri mss. e S nelli (.)/' nel!) -19: M Adunque
che colui 22: M-m torma M ne dil'ondono, m noi ci difendiamo 23: il l'armi -
23-24: Af difendo m così altresì la eloquenzia difendo noi dal nostro aversario
la nostra cliausa 25: m om. ne; S non sostenemo 26: m a noi potesse avejjire (li
danno, .V che noi potessimo tenere danno 28-29: m dinanzi e; Jfi om. et. (1)
Cos'i richiede il senso; la lezione nelli ò nata certamente dall'aver preso
l'aggettivo comuni per un sostantivo. (2) Intendo ne sostenemo = « ci
tratteniamo, ci asteniamo », coni' è richiesto dal senso e secondo gli esempii
citati dal Vocabolario della Crusca. per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra
ciò reca Tulio molti argomenti, li quali debbono e possono così essere, e tali
che conviene che sia pur così, e di tali eh' è onesta cosa pur di cosi essere ;
e sopra ciò ecco il testo di Tulio CICERONE in lettera grossa, e poi seguisce
la disposta in lettera sottile secondo la forma del libro. Tullio CICERONE.
Dunque se noi volemo considerare il principio d'eloquenzia la quale sia pervenuta
in uomo per arte o per studio o per usanza lo. per forza dì natura, noi
troveremo che sia nato d'onestissime cagioni e che ssia mosso d'ottima ragione,
(e. li) Acciò che fue un tempo che in tutte parti isvagavano gli uomini per li
campi in guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di fiere, e facea
ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per ragione l.j. d'animo; et
ancora in quello tempo la divina religione né umano officio non erano avuti in
reverenzia. Neuno uomo avea veduto legittimo managio, nessuno avea connosciuti
certi figliuoli, né aveano pensato che utilitade fosse mantenere ragione et
agguallianza. E così per errore e per nescìtade la cieca e folle ardita
signorìa dell'animo, cioè la cupìditade, per mettere in opera sé medesima
misusava le forze del corpo con aiuto dì pessimi seguitatori. Lo sponitore. In
questa parte del prologo vogliendo Tulio CICERONE dimostrare che ELOQUENZA
nasce e muove jper cagione e 2.5. per ragione ottima et onestissima, sì dice
come in alcuno tempo erano gli uomini rozzi e nessci come bestie; e del 3: ìl-m
tale .1/' jdii' che cosi sia - 4 : m pure ili dovere così essere-, .1/' de pur
essere .5 J/ ' la spositione 9-tO: .»/' o per l'orca di natura o per usanca H:
m d'ottime chagioni 7 ragione 12: il-m in tempo 13: it^ lor vita per li campi
in modo de bestie 7 de fiere 14: i/' om. e [non p. r.| M maritaggio M
iihylosofi, m lilosafi 18: M j gualianoa - 19: il^-L ignoranza, m necessitade
.»A' la cieca la folle 7 ardita 20: M-m per mette M-m (fuivi susavano, l.
masusavano 21:31' seguitori 23: M-1U nm. quarta 24: m om. e per ragione 26: il'
nefa, m noscii. l'uomo dicono li filosofi, e la santa scrittura il conferma,
che egli è fermamento di corpo e d' anima razionale, la quale anima per la
ragione eh' è in lei àe intero conoscimento delle cose. 2. Onde dice Vittorino:
Sì come menoma la forza 5. del vino per la propietade del vasello nel quale è
messo, cosie r anima muta la sua forza per la propietade di quello corpo a cui
ella si congiunge. Et però, se quel corpo è mal disposto e compressionato di
mali homori, la anima per gravezza del corpo perde la conoscenza delle cose, sì
che appena puote discernere bene da male, sì come in tempo passato neir anime
di molti le W quali erano agravate de' pesi de' corpi, e però quelli uomini
erano sì falsi et indiscreti che non conosceano Dio né lloro medesimi. Onde
misusavano le forze del corpo uccidendo l'uno l'altro, tol 15. liendo le cose
per forza e per furto, luxuriando malamente, non connoscendo i loi'o proprii
figliuoli né avendo legittime mogli. Ma tuttavolta la natura, cioè la divina
disposizione, non avea sparta quella bestialitade in tutti gli uomini
igualmente; ma fue alcuno savio e molto bello dici 20. tore il quale, vedendo
che gli uomini erano acconci a ragionare, usò di parlare a lloro per recarli a
divina connoscenza, cioè ad amare Idio e '1 proximo, sì come lo sponitore
dicerà per innanzi in suo luogo; e perciò dice Tulio nel testo di sopra che
eloquenzia ebbe cominciamento per 25. onestissime cagioni e dirittissime
ragioni, cioè per amare Idio e '1 proximo, che sanza ciò l' umana gente non
arebbe durato. 4. Et là dove dice il testo che gli uomini isvagavano per li
campi intendo che non aveano case né luogo, 1: M' i figluoli (corretto poi
lilosofi) M' sucra S : M' eh ehi ì\ l'ormato 3: intero è in M'-L; il lùlo
(incerto?), m inerito 4: M Ondee 7 : m al (|uale 8: M-m mali hiiomini 9: m per
la gravezza .«' de corpo iO: M bone dal mali', hi il bone dal male il: M'-L
animo .V-m i quali erano agravate, M'-L li quali orano aggravati i2: W del peso
de corpi, L de' pesi del corpo V in lor medesimo 14: lU-m Ivi susavano 18: M-m
nonn ào M bestilitade 10: M' oiii. savio o SI: W tralloro 23: M' qa\ dinanzi -
S4: W e cornine, >S ha cornine. 26-27: »l' non averla durata, L non avrìa
durato i« K colà. (1) È lezione congetìurale, ma l'unica possìbile : le quali
si cambiò facilmente in li quali (o i quali) per effetto del molti che
precedeva, e da li quali, naturalmente, venne in M'-L anche il maschile
angraoati invece di aggravate. Che si tratti solo delle animo risulta da tutto
il periodo, e in particolare dallo parole - la anima per gravezza del corpo ».
ma andavano qua e là come bestie. 5. Et là dove dice che viveano come fiere
intendo che mangiavano carne cruda, erbe crude et altri cibi come le fiere. 6.
Et là dove dice « tutte cose quasi faceauo per forza e non per ragione » 5.
intendo che dice « quasi » che non faceano però tutte cose per forza, ma
alquante ne faceano per ragione e per senno, cioè favellare, disidejare et altre
cose che ssi muovono dall' animo. Et là dove dice che divina religione non era
reverita intendo che non sapeano che Dio (D fosse. Et là dove dice dell' umano
ofiìcio intendo che non sapeano vivere a buoni costumi e non conosceano
prudenzia né giustizia né l'altre virtudi. Et là dove dice che non mauteneano
ragione intendo « ragione » cioè giustizia, della quale dicono i libri della
legge che giustizia è perpetua e 15. ferma volontade d'animo che dae a ciascuno
sua ragione. Et là dove dice « aguaglianza » intendo quella ragione che dae
igual i)ena al grande et al piccolo sopra li eguali fatti. Et là doye dice «
cupiditade » intendo quel vizio eh' è contrario di temperanza; e questo vizio
ne -conduce 20. a disidei-are alcuna cosa la quale noi non dovemo volere, et
inforza nel nostro animo un mal signoraggio, il quale noi permette rifrenare
da' rei movimenti. 12. Et là dove dice « nescitade » intendo eh' è nnone
connoscere utile et inutile; e però dice eh' è cupidità cieca per lo non
sapere, 25. e che non conosce il prode e '1 danno. 13. Et là dove dice « folle
ardita » intendo che folli arditi sono uomini matti e ratti a ffare cose che
non sono da ffare. 14. Et là dove dice « misusava le forze del corpo » intendo
misusare cioè i-2: M-m om. Et là.... come licre 3 : M erbi ciiiili, .1/' 7 erbe
crude 4-6: m l'aceano quasi per forza; poi, saltando al 2° forza, continua: ma
al([uanle ecc. 7: .i/'-L dice quasi perciò ke ne faciano | tutte cose per forza
7 non per ragione intendo Ice dice quasi, ma alquante ne faceano M' che muovono
9: M-m chi idio 11: .1/' ne prudenza 14: m' de legge 14-15: m' ferma 7 perpetua
voluntà /": .1/ egual 18: M' mìsfacti M lae .V quello e poi rasura su cui
altra mano scrisse apetito, t quello che contrario, S quello appetite V om. noi
- 22: M-m non permette M-m necessilade, .V ignoranza che non conosce il prode
ol danno ~ m intendo che non è m dal danno 27: .M-m e tratti, L orati 2é?: J/
emusavano, jiiemisusavano .u misusere, .V' misure, L misusare m che misusare è
usare. Cioè « che Dio esistesse ». Così mi par preferibile per il senso; e la
lezione di M-m è facilmente spiegabile da un che Mio diventato eh' idio, chi
dio; è vero però che le ragioni paleografiche varrebbero anche per il caso
inverso. usare in mala parte ; che dice Vittorino che forza di corpo ci è data
da Dio per usarla in fare cose utili et oneste, ma coloro faceano tutto il
contrario. Ora à detto lo sponitore sopra '1 testo di Tulio le cagioni per le
quali eloquenzia cominciò a parere. Omai dicerae in che modo appario e come si
trasse innanzi. Nel quale tempo lue uno uomo grande e savio, il quale cognobbe
che materia e quanto aconciamento avea nelli animi delli uomini a grandissime
cose chi Ili potesse dirizzare e megliorare per comandamenti. Donde costrinse e
raunò in uno luogo quelli uomini che allora erano sparti per le campora e
partiti per le nascosaglie silvestre ; et inducendo loro a ssapere le cose
utili et oneste, tutto che alla prima paresse loro gravi per loro disusanza,
poi T udirò 15. studiosamente per la ragione e per bel dire; e ssì Ili arecò
umili e mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà che aveano. Lo sjaonitore. 1.
In questa i)arte vuole Tulio dimostrare da cui e come cominciò eloquenzia et in
che cose ; et è la tema cotale 20. In quel tempo che Ila gente vivea così
malamente, fue un uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il quale
cognobbe che materia, cioè la ragione che l' uomo àe in sé naturalmente per la
quale puote l' uomo intendere e ragio nare, e l'acconciamento a fare
grandissime cose, cioè a ttenere i)ace et amare Idio e '1 proximo, a ffai-e
cittadi, castella e magioni e bel costume, et a ttenere iustitia et a vivere
ordinatamente se fosse chi Ili potesse dirizzare, cioè ritrarre da bestiale
vita, e mellioi-are per comandamenti, cioè per insegnamenti e per leggi e
statuti che Ili 2: M' om. ci 3-4: M-iii Or o della la sposilione 5: M-m
loninciò (hi coro). 7 pare M' oggimai 6: M-m apparve 8: il' uno buono iO: 31'
adrinure 12: M-m per campora 12-13: M-w le nascose selve 13: M-m et facciendo
loro assapere 14: M' grave - L'i: M' si Hi recò 16: M' crudelilà 23: M-m nm.
l'uomo 24 : M-m el lo ncomincianiento, L el chominciamenlo 25: M'el ad amare ~
26: M' 7datener 27: M' chi le polesse adrifrure - m om. potesse 28: M' enirare
da b. v. afrenasse (1). 2. Et qui cade una quistione, che potrebbe alcuno
dicere: « Come si potieno melliorare, da che non erano buoni? >. A cciò
rispondo che naturalmente era la ragione dell'anima buona; adunque si potea
migliorare nel 5. modo eh' è detto. 3. Donde questo savio costrinse - e dice
che i « costrinse » però che non si voleano raunare - e raunò - e dice « raunò
» poi che elli vollero. Che '1 savio uomo fece tanto per senno e per
eloquenzia, mostrando belle ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in
10. dare mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri, che ssi
raunaro e patiero d'udire le sue parole. Et elli insegnava loro le cose utili
dicendo: « State bene insieme, aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e forti;
fate cittadi e ville *. Et insegnava loro le cose oneste dicendo : « Il pic 15.
colo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre » etc. Et tutto che, dalla
prima, a questi che viveano bestialmente paresser gravi amonimenti di vivere a
ragione et ad ordine, acciò eh' elli erano liberi e franchi naturalmente e non
si voleano mettere a signoraggio, poi, udendo il bel dire 20. del savio uomo e
considerando per ragione che larga e libera licenzia di mal fare ritornava in
lor gi"ave destruzione et in periglio de l'umana generazione, udirò e miser
cura a intendere lui. Et in questa maniera il savio uomo li ritrasse di loro
fierezza e di loro crudeltade - e dice « fierezza » perciò che viveano come
fiere; e dice « crudeltade » perciò che '1 padre e '1 figliuolo non si
conosceano, anzi uccidea l'uno l'altro - e feceli umili e mansueti, cioè
volontarosi di ragioni e di virtudi e partitori (2) dal male. 1 : m rafrenasse,
S affrenassono J/ " Et acade, L e ecci una (\. 2 : il poneno (cerio per
falsa lettura di potieno; cfr. Wiese in Zeilsch. f. Rom. Pini., VII, 330, g
i33), m il' poteano 4: m dunque 6: it-iii om. che i 9: W l'utilitade i^l'
metendo '1 suo 10: m mangiare cene e desinari 19: il sottomettere 20-23: it-m
om. e considerando.... il savio uomo 23-24: m si ritrassono 24: il lore fier.,
M' lor fior, me dalloro crud. 24-25: H-m om. e dice.... crudeltade 26: il' e li
figluoli (ma L el figliuolo) - 28: il' partito, l. e'dipirtironsi, s partiti.
(1) Parrebbe preferibile la lezióne di &'; ma è significativo il fatto che
tutti i mss. abbiano il singolare. Invece di condannarlo come corruzione
comune, basta pensare che sostantivi astratti come « insegnamenti, leggi e
statuti » siano considerati formanti un complesso unico, sì da farli equivalere
al singolare (p.es. «ciò»); e quest'uso del verbo è attestato da un altro passo
di Brunetto, IO, 3, e dal Varchi, Ercolano, ediz. Bottari (Firenze Senza
ricorrere ai facili accomodamenti, conservo la lezione di M intendendo «
partitore » in senso riflessivo : « colui che si parte, che si allontana ».
Cfr. Manuzzi. Or à detto CICERONE chi cominciò eloquenzia et intra cui e come;
or dicerà per che ragione, eanza la quale non potea ciò fare. Tullio. Per la
qual cosa pare a me che Ha sapienzia tacita e povera di parole non arebbe
potuto fare tanto, che così subitamente fossero quelli uomini dipartiti
dall'antica e lunga usanza et informati in diverse ragioni di vita. Lo
sponitore. In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale non si potea
fare ciò che fece '1 savio uomo; e dice sapienzia tacita quella di coloro che
non danno insegnamento per parole ma per opera, come fanno ' romiti. Et dice «
povera di parole » per coloro che '1 lor senno non sanno addornar di parole
belle e piene di sentenze a ffar credere ad altri il suo parere. Et per questo
potemo intendere che picciola forza è quella di sapienzia s'ella nonn è
congiunta con eloquenzia, e potemo connoscere che sopra tutte cose è grande
sapienzia congiunta con eloquenzia. Et là dove dice « così subitamente »
intendo che quello savio uomo arebbe bene potuto fare queste cose per
sapienzia, ma non cosi avaccio né così subitamente come fece abiendo eloquenzia
e sapienzia. Et là dove dice « in diverse ragioni di vita » intendo che uno
fece cavalieri, un 25. altro fece cherico, e così fece d'altri mistieri.
Tullio. 7. Et così, poi che Ile cittadi e le ville fuoron fatte, impreser gli
uomini aver fede, tener giustizia et usarsi ad obedire l'uno l'altro per propia
volontarie et a sofferire pena et affanno non solamente 2 : M-m om. e come
sanza (luale 5: M-m Per ((ualcosa - 7 : M' luioniiiii quelli 13: M' i romiti, m
li romiti 14: M-m alloro senno, L in loro senno i7: M-m om. che i9: M' giunta
22: Af' si avaccio 23: M-m om. e sapienzia 28: m ad avere lede 7 tenere....
adusarsi M l'uno a l'altro. A qualcuno e sapienzia potrà sembrare un'aggiunta
arbitraria; ma siccome non è inutile, preferisco mantenerlo. per la comune
utilitade, ma voler morire per essa mantenere. La qual cosa non s'arebbe potuta
fare d) se gli uomini non avessor potuto dimostrare e fare credere per parole,
cioè per eloquenzia, ciò che trovavano e pensavano per sapienzia. 8. Et certo
chi avea forza e 5. podere sopra altri molti non averla patito divenire pare di
coloro ch'elli potea segnoreggiare, se non l'avesse mosso sennata e soave
parladura; tanto era loro allegra la primiera usanza, la quale era tanto durata
lungamente che parea et era in loro convertita in natura. Donde pare a me che
così anticamente e da prima nasceo e mosse eloquenzia, e poi s'innalzò in
altissime utilitadi delli uomini nelle vicende di pace e di guerra. Lo
sponitore. I. In questa parte dice Tulio che cciò che sapienzia non avrebbe
messo in compimento per sé sola, ella fece 15. avendo in compagnia eloquenzia;
e però la tema èe cotale: Si come detto è davanti, fuoro gli uomini raunati et
insegnati di ben fare e d'amarsi insieme, e però fecero cittadi e ville; poi
che Ile cittadi fuor fatte impresero ad avere fede. Di questa parola intendo
che coloro anno fede che 20. non ingannano altrui e che non vogliono che lite
né discordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la mettono in pace. Et fede,
sì come dice un savio, è Ila speranza della cosa promessa; e dice la legge che
fede è quella che promette l'uno e l'altro l'attende. Ma Tulio medesimo dice in
un altro libro delli offici che fede è fondamento di giiistizia, veritade in
parlare e fermezza delle promesse; e questa ée quella virtude eh' é appellata
lealtade. E così sommatamente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta,
che 2: ilf'-£ potuto - M' om. non 4: Jlf> Certo 5: M-m vinavea charebbono
potuto divenire paii 6: M-m chelli poteano, M^-L cui potea M-m santa 7: M^-L
allegrezza 8-9 : M era converita la loro natura, m era convertila in loro
natura 9 : m onde 14-15: M^ il fece in compagnia d'eloquentia.... si ò cotale
M-m detto oe dinanci 19: 3/' fede, 7 di q. p. PO : M^ om. e o discordia 21-22:
M-m in pace et in fede m om. è - 23: M^ quello, ma L quella 26: M-m et
intermezza M' delenpromesse 27: M legheltade (?«a cfr. Texor., XVII, 15) M
somatamente, m asommatam. congiunta con sapienzia. (1) Sarà certo da legger
così, e non sarebbe si sarebbe, poiché di quest'uso dell' ausiliare avere
presso gli antichi non mancano esempli sicuri : cfr. la nota di M. Barbi nella
sua ediz. della Vita Nuova, 2, e ciò che aggiunse il Parodi in Bullett. della
Soc. Bant. Lo stesso si dica per s'arebhono del commento, sanza ciò le
grandissime cose non s'arebbono potute mettere in compimento, e dice che poi àe
molto de ben fatto in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti
i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per due stati o di
pace o di guerra, e nell' uno e nell'altro bisogna la nostra rettorica sì al
postutto, che sanza lei non si potrebbono mantenere. Tullio. Ma poi che Ili
uomini, malamente seguendo la vìrtude sanza 10. ragione d'officio, apresero
copia di parlare, usaro et inforzaro tutto loro ingegno in malizia, per che
convenne che ile cittadi sine guastassero e li uomini si comprendessero di
quella ruggine, (e. Ili) Et poi che detto avemo la cumincianza del bene, contiamo
come cuminciò questo male. Poi che CICERONE avea detto davanti i beni che sono
advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i mali che sono advenuti per lei
sola sanza sapienzia; ma perciò che Ila sua intentione è più in laudarla, sì
appone elli il male a coloro che Ila misusano e non a Ilei. 2. Et sopra ciò la
tema è cotale: Furono uomini folli sanza discrezione, li quali, vegga ndo che
alquanti erano in grande onoranza e montati in alto stato per lo bell.o parlare
ch'usavano secondo li comandamenti di questa arte, sì studiaroO solo in parlare
e tralasciare lo studio di sapienzia, e divennero sì copiosi in dire che, per
l'abondanza del molto parlare sanza condimento di senno, che (2) cumìnciaro a
mettere cioè 2: M-in che poi {ni, om. poi) a molli a Dio ben facto -J: M om.
duri stali i 1 : M conviene, M' conveiiia IS: M-m om. e li uomini si
comprendessero 13: M \a cunincianza (e cluininciò)3/' il cuminciamento 16: m
ave... dinanzi 18: M^ dopo advenuti ripete per eloquenlia in quesUi parte (ma
ri son trticiie di etpunzione) 19: m om. elli 20: M El perciii 24: M' il
comandamento.... studiavano 25 : ilf intralassai-o, m e lasciaro - 20: M' de
molto m om. elio. (1) Invece di si studiavo credo preferibile studiavo in senso
assoluto, come già si è trovato, 3, § e studia puro in dire le parole.
Sintatticamente questo che ò pleonastico; ma ò attestato da ambedue le famiglie
di codici e non costituisce una rarità per il nostro volgare antico (anzi, per
Brunetto stesso, cfr. IO, 1: avegna che ma tutta volta). sedizione e distruggi
mento nelle cittadi e ne' comuni et a corrompere la vita degli uomini; e questo
divenia però ch'ellino aveano sembianza e vista di sapienzia, della quale erano
tutti nudi e vani. 3. Et dice Vittorino che eloquenzia 5. sola èe appellata «
la vista », perciò che ella fae parere che sapienzia sia in coloro ne' quali
ella non fae dimoro. Et queste sono quelle persone che per avere li onori e F
uttilitadi delle comunanze parlano sanza sentimento di bene; così turbano le
cittadi et usano la gente a perversi costumi. Et poi dice Tulio: Da che noi
avemo contato '1 principio del bene, cioè de' beni che avenuti erano per
eloquenzia, si è convenevole di mettere in conto la 'ncumincianza del male
chende seguitò. Et dice in questo modo nel testo: Tullio tratta della
comincianza del male 15. adveniito per eloquenzia. Et certo molto mi pare
verisimile: in alcuno tempo gli uomini che non erano parlatori et uomini meno
che savi non usavano tramettersi delle publiche vicende, e che W gli uomini
grandi e savi parlieri non si trametteano delle cause private. E con ciò 20.
fosse cosa che sovrani uomini regessero le grandissime cose, io mi penso che
furo altri uomini callidi e vezzati i quali avennero a trattare le picciole
controversie delle private persone; nelle quali controversie adusandosi gli
uomini spessamente a stare fermi nella bugia incontra la verità,
imperseveramento di parlare nutricò arditanza 25. 11. Sì che per le 'ngiurie
de' cittadini convenne per necessitade che' maggiori si contraparassono agli
arditi e che ciascuno atoriasse le sue bisogne; e così, parendo molte fiate che
quello eh' avea impresa sola eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora più
innanzi che quello che avea eloquenzia congiunta con sapienzia, i-2: m nelle
loro ciltadi M' om. et a corr.... uomini 2: m avenia 3 kelli aveano sombianca
de giusta sap. 4: m om. Et 6: M' li quali 7: M' questi 10: m om. Et 11: M' bone
kavenuto era - 12: 1/' il cominciamento i3: Jlf chende seguita, j/i che ne
seguita - 16: M et certo mo, la Certo modo M meno di savi, m ch'erano meno che
savi 17-18: M-m non sapeano, L non osavano M-m om. e 19: Jlf sintrametteano
dele cose 21: M-m om. uomini M verrali 3f' vennero 22: M' om. delle pr....
controversie 23: M-m om. spessamente 24: M' il persev. - 26: M' aiutasse m
adornasse 29: M' giunta. Un costrutto più regolare si avrebbe sopprimendo il
che o inserendone un altro dopo verisimile; appunto. per questo conservo' il
che, non sembrando probabile che un copista volesse complicare di suo. Questa
maggiore libertà sintattica non è nuova. aveni'a che, per giudicio di
moltitudine di gente e di sé medesimo paresse essere degno di reggiere le
publiche cose. E certo non ingiustamente, poi che' folli arditi impronti
pervennero ad avere reggimenti delle comunanze, grandissime e miserissime
tempestanze adveniano molto sovente; per la qual cosa cadde eloquenzia in tanto
odio et invidia che gli uomini d'altissimo ingegno, quasi per scampare di
torbida tempestade in sicuro porto, così fuggiendo la discordiosa e tumultuosa
vita si ritrassero ad alcuno altro queto studio. Per la qual cosa pare che per
la loro posa li altri dritti et onesti studii molto perseverati vennero in
onore. Ma questo studio di rettorica fue abandonato quasi da tutti loro, e
perciò tornò a neente, in tal tempo quando più inforzatamente si dovea
mantenere e più studiosamente crescere; perciò che quando più indegnamente la
presumptione e l'ardire de' folli impronti manimettea e guastava la cosa
onestissima e dirittissima con troppo gravoso danno dei comune, allora era più
degna cosa contrastare e consigliare la cosa publica. Della qual cosa non fugìo
il nostro Catone né Lelius né, al ver dire, il loro discepolo Àffricano, né i
Gracchi nepoti d' Àffricano, ne' quali uomini era sovrana virtude et altoritade
acresciuta per la loro sovrana virtude; sì che la loro eloquenzia era grande
adornamento di loro et aiuto e mantenimento della comunanza. Lo sponitore. In
questa parte divisa Tulio come divennero quelli due mali, cioè turbare il buono
stato delle cittadi e corrompere la buona vita e costumanza delli uomini; et
avegna che '1 suo testo sia recato in sie piane parole che molto fae da
intendere tutti, ma tutta volta lo sponitore dirae alcune parole per più
chiarezza. 2. Et è la tema cotale: La elo 1 : M-m avogiia 2: M per essoi-o
degno d'essere 7 di reggiere, M' paresse degno de reggere 3: M' poi ke fuor
iaiditi in pronti, m enpronti 4-5 : M' pervennero i reggìm. 7 de miserissime
tempeste spessamente 7 : M' lempcstande * : M-m la discordia (m echontumulosa)
9 : Tutti i mss. questo, S posato - M-m possa i i : itf ' do tutto loro "
i4: M dì [olii 18-19: M ne nelilio - M-m om. nò i G. n. d'AII'ricano Jlf' erano
sovrane vertudi 26: M' la vita 7 la buona costumanca - 27: M< suo stato m in
se 28: itf' om. tutti, ma M' alcuna parola S9: Af' Et la tema 6 cotale. De la
el. ecc. È possibile tanto la lezione di Af quanto quella di m; ma proferisco
questa perchè corrisponde alle parole del commento, § 6: « pareano essere
degni». Il testo latino ha studium aliquod quieUtm. Lo scambio di queto por
questo era facilissimo, e forse risalo r.llo iirimo copio. quenzia mise in sì
alto stato i parladori savi e guerniti di senno, che per loro si reggeano le
cittadi e le comunanze e le cose publiche, avendo le signorie e li officii e li
onori e le grandi cose, e non si trametteano delle cause private, cioè 5. delle
vicende delli uomini speciali, né di fare lavoriere né altre picciole cose. Ma
erano altri uomini di due maniere: l'una che non erano parlatori, l'autra che
non aveano sapienzia, ma erano gridatori e favellatori molto grandi; e questi
non si trametteano delle cose publiche, cioè delle signorie e delli officii e
delle grandi cose del comune, ma impigliavansi a trattare le picciole cose
delle private persone, cioè delli speciali uomini. 3. Intra' quali furono
alcuni calidi e vezzati - cioè per la fraude e per la malizia che in loro
regnava parea ch'avesse in loro sapienzia-; e questi s' ausarono tanto a
parlare che, per molta usanza di dire parole e di gridare sopra le vicende
delle speciali persone, montare in ardimento e presero audacia di favellare in
guisa d'eloquenzia tanto e sì malamente che teneano la menzogna e la fallacia
ferma contra la veritade. Onde, per li grandi mali che di ciò adveniano,
convenne che' grandi, ciò sono i savi parladori che reggeano le grandi cose,
venissero et abassassero a trattare le picciole vicende di speciali persone,
per difendere i loro amici e per contastare a quelli arditi. Et nota che arditi
sono di due ma 25. niere : l' una che pigliano a fifare di grandi cose con
provedimento di ragione, e questi sono savi; li altri che pigliano a ffare le
grandi cose sanza provedenza di ragione, e questi sono folli arditi. 5. Donde
in questo contrastare i buoni e savi parlavano giustamente, ma i folli arditi,
che non aveano 30. studiato in sapienzia ma pure in eloquenzia, gridavano e
garriano a grandi boci e non si vergognavano di mentire e di dire torto palese;
sicché spessamente pareano pari di senno e di parlare e talvolta migliori. Sì
che per sentenza 4 : M' om. e non s. t. d. cause 5: M-m ont.aò 6: m odaltre p.
o. 7 M< parliei-i iO: M' de comuni dele piccole cose cioè che jier la lYaude
ecc. parean (/^ parea) cavassero sapienlia lo.- 3f< pei' la molta 17: M^
presero baldanza 19: M' contro alla verità 20: A/' ohi. che d. e. adveniano m
avenia savi e parladori m le cittadi 23: M' appilgliano a taro le g. e. 26: M^
om. di ragione L l'altra 27: L provedimento 31-32: Me dire,moHi. mentire e di
33:M' talocta m. visi che p.s Cosi leggo con M, piuttosto che lavogarie di ilf'
o lavorìi di m: oltre a lavareria, il Manuzzi registra esempii di lavoriera.
del popolo, la quale è sentenzia vana perciò che non muove da ragione, e per
sentenza di sé medesimo, la quale è per neente, pareano essere degni di
covernare le publiche e le grandi cose, e così furo messi a reggere le cittadi
et alli 5. officii et onori delle comunanze. Et poi che cciò avenne, non fue
meraviglia se nelle cittadi veniano grandissime e miserissime tempestadi. Et
nota che dice « grandissime » per la quantità e che duraro lungamente, e dice «
miserissime » per la qualitade, ch'erano aspre e perilliose chende 10. moriano
le persone ; e dice « tempestanza » per similitudine, che sì come la nave
dimora in fortuna di mare e talvolta crescono (i) in tanto che perisce, così
dimora la cittade per le discordie, et alla fiata montano sicché periscono in
sé medesime e patono distruzione. « Per la qual cosa eloquenzia cadde in tanto
odio et invidia »... Et nota che odio non é altro se nno ira invecchiata; e
così i buoni savi erano stati lungamente irosi, veggiendo i folli arditi
segnoreggiare le cittadi. Et invidia è aflizione che omo àe per altrui bene;
donde i buoni savi aveano molta aflizione per coloro ch'erano segnori delle
grandi cose et erano in onore. 8. Et perciò li buoni d'altissimo ingegno si
ritrassero di quelle cose ad altri queti studii per scampare della tumultuosa
vita in sicuro porto. Et nota: là dove dice « altissimo ingegno » dimostra bene
eh' arebboro potuto e saputo contrastare a' folli arditi, e perciò che no '1
fecero furo bene da riprendere. Et in ciò che dice « queti studi » intendo l'
altre scienze di filosofia, sì come trattare le nature delle divine cose e
delle terrene, e sì come l'etica, che tratta le virtudi e le costumanze; et
appellali « queti studii » che non trattano di parlare in comune, e perciò che
ssi stavano partiti dal remore delle genti. Et appella « vita tumultuosa » che
2: Jl/i per ragione ~ 4: M furoro, M^ fuoro 7 : M-m ismisuratissime ~ 8: SI
durano, m duravano quantitade.... s\ elione moriano - 10: M' tempestade 14: M'
medesimo ~ 15: m om. Et 16: m buoni e savi 18: m om. Et m i'uomo... l'altrui
SO: M> et in lionore erano m ad altre M-m questi, M' certi om. Et noia la
dove 25 : M-m non fecero 26 : Tutti i mss questi 27 : M de trattare 28: M-m
sicome dice che l. 29: M^ appellasi, L appellansi mss. questi Cosi hanno tutti
i codici; ma forse dopo crescono è andato perduto un soggetto, richiesto dal
senso o dalla sintassi, come i venti o l'onde (abbiamo anche altrove la prova
che le due famiglie di codici risalgono a un capostipite già corrotto). Pure
non sarebbe impossibile sottintendere dal precedente fortuna un soggetto le
fortune. spessamente l'iiuo uomo assaliva l'altro in cittade coll'arme e
talvolta l'uccideva. 9. Et poi che' savi intralassar lo studio d'eloquenzia,
ella tornò ad neente e non fue curata uè pregiata. Ma l'altre scienzie di
filosofia, nelle quali studiaro, montaro in grande onore. Et ora riprende Tulio
questi savi e dice che fecior questo a quel tempo che eloquenzia avea più
grande bisogno per lo male che faceano i folli arditi nelle cittadi, e perchè
guastavano la cosa onestissima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi pertiene
alle cose oneste e diritte. U. Dalla qual cosa non fugio il nostro Catone né
quelli altri savi ch'amavano drittamente il comune et aveano senno e parlatura;
ma dimoraro fermi a consigliare et a difendere il comune da'garritori folli
arditi; e però montaro in onore et in istato sì grande che le loro dicerie
erano tenute sentenze, e perciò dice che in loro era autoritade, che autoritade
èe una dignitade degna d' onore e di temenza. Ma da questo si muove il conto e
ritorna a conchiudere per ragioni utili et oneste e possibili e necessare che
dovemo studiare in eloquenzia, lodala in molte guise. CICERONE conclude che sia
da studiare in rettorica. Per la qual cosa, al mio animo, non perciò meno è da
mettere studio in eloquenzia s' alquanti la misusano in publiclie et in private
cose; ma tanto più clie ' malvagi non abbiano troppo di podere con grave danno
de' buoni e con generale distruzione di tutti. Maximamente cun ciò sia la
verità che rettorica è una cosa la quale molto s'appartiene a tutte cose, è
publiche e private, e per essa diviene la vita sicura, onesta, inlustre e
iocunda; e per essa medesima molte utilitadi avengono in comune se fia presta
la modonatrice di tutte cose, cioè sapienzia; e per lei medesima abonda a
coloro che H'acquistano lode, onore, dignitade; e per essa medesima anno li
amici certissimo e sicurissimo aiutorio. 1: M-m spesse volte 2: m tralassaro 8:
m le chose honestissime 10: M (Iride, m diritte 3f' Dela q. e. 11: M'
dirittamente, m om. 12: M' dimorato y f.: M 7 folli arditi, £ e da f. a. 14: M^
J montaro perciò 18: m e torna, M 7 condoura tornerà per ragioni, L e mosterrà
per rag. Jlf-;» honesti ~ 19: M -m necessarie 20: m lodarla ^3: M* misuna,
corretto poi misusa 27: M' molto pertièno devegna 28: M> y hon. 7 illustra 7
gioconia, m illustra 29: M sia 31: M^-m 7 honore 7 dignitade. La tema di questo
testo è cotale, (H che dice Tulio: Se alquanti di mala maniera usano malamente
eloquenzia, non rimane pertanto che 11' uomo non debbia studiare in 5.
eloquenzia, al mio animo (cioè per mia sentenza), acciò che ' rei uomini non
abbiano podere di malfare a' buoni né di fare generale distruzione di tutti. Et
nota che distrutti sono coloro che soleano essere in alto stato et in ricchezza
e poi divennero in tanta miseria che vanno men 10. dicando. 2. Et poi dice le
lode di rettorica, come tocca al comune et al diviso, e come per lei diviene
l'uomo sicuro, cioè che sicuramente puote gire a trattare le cause, et appena
troverai (2) chi '1 sappia contradiare ; e dice chende diviene la vita « onesta
», cioè laudato intra coloro che '1 15. cognoscono; e dice «illustre», cioè
laudato intra li strani; e dice « ioconda », cioè vita piacevole, però che '
savi parlieri molto piacciono ad sé et altrui. 3. Et altressi molto bene
n'aviene alle comunanze jier eloquenzia, a questa condizione : se sapienzia sia
presta, cioè se ella sia adiunta con eloquenzia. Et dice che sapienzia è
amodenatrice di tutte cose però che ella sae antivedere e porre a tutte cose
certo modo e certo fine. 4. Et poi dice che questi che anno eloquenzia giunta
con sapienzia sono laudati, temuti et amati; e dice che Ili amici loro possono
di loro avere aiutorio sicurissimo, però che appena fie chi Ili sappia
contrastare, poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice « certissimo »
però che '1 buono e '1 savio uomo non si lascia M-m Lo testo èe cotale, M'-L La
tema de questo è cotale 3: M' aliijuanti 6: M' de fare male 7: m om. nota 9:
il' divegnono 11: M huomo siguro 13: M' troverà 14: M-m laudata.... che
cognoscono 15: M' illustra, L illustro 17: A/' ad altri M-m nm. Et altressi e n
19: Hin presta M' giunta 21 :M siae ad intivedere, m a ad antivedere 22: m om.
Et 23: M^ 7 temuti 25: m Tia chelli sappia, M' fie chelli il sappia 37: M non
so lascia. Anche la lezione di ilf è possibile, ma forse nacque da un
accomodamento arbitrario del testo già corrotto. Invece quella di M' è spiegabilissima
collomissione della parola testo (la somiglianza con questo rese più facile l'
errore) e riceve conforma dal principio del capitolo seguente, con
quell'uniformità di espressione che è caratteristica di tutto il commento. (2)
Troverai è preferibile come « lectio difflcillor ». Del resto anche in M'
potrebbe trattarsi non di troverà, ma troverà'. corrompere per amore ne per
prezzo né per altra simile cosa. Et qui si parte il conto e fae nn' ultima
conclusione in questo modo: Tullio conclude in somma. Et però pare a me che gli
uomini, i quali in molte cose sono minori e più fievoli che Ile bestie, in
questa una cosa l'avanzano, che possono parlare ; e donque pare che colui
conquista cosa nobile et altissima il quale sormonta li altri uomini in quella
medesima cosa per la quale gli uomini avanzano le bestie. La tema in questo
testo è cotale : La veritade è che gli uomini in molte cose sono minori che Ile
bestie e più fievoli, acciò che sanza fallo il leofante e molti altri animali
sono più grandi del corpo che nonn è l'uomo; e certo il leone e molte altre
bestie sono più forti della persona che ir uomo; e più ancora che in tutti e
cinque ' sensi sono certi animali che avanzano lo senso dell'uomo. Che sanza
fallo lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e '1 lupo cerviere del vedere e
la scimmia del saporare, e l'avóltore 20. dell' anasare ad odorare, e '1 ragnol
del toccare. Ma in questa una cosa avanza 1' uomo tutte le bestie et animali,
che elli sa parlare. Donque quello uomo acquista bene la sovrana cosa di tutte
le buone, che di ben parlare soprastae alli altri uomini. 25. Tullio dice di
che elli tratterà 16. Et questa altissima cosa, cioè eloquenzia, non si
acquista solamente per natura né solamente per usanza, ma per insegnamento
d'arte altressi. Donque non è disavenante di vedere ciò che dicono coloro i
quali sopra ciò ne lasciaro alquanti comandamenti. Ma anzi S: il-m un'altra
condictione 7 : M' costui il-m conquesta 8: M-m la quale; om. li 9 : )» om.
cosa e gli uomini 11: il' de questo t. M' molti huomini.... minori 7 più
fievoli chelle bestie 15: U-m om. altre 16: M' che tucti 19-20: M-m 7
l'avóltore dell'odore, M']j lavoltoio delanasare adodorare, L del savorare e
odorare, S et l'avoltoio del nasare et d'odorare M-M' 7 rangnol, m il rangnolo
(ohi. tulli gli e), L a ragnolo M'-L ne! toccare 22: M' chelli sanno - 25: M
dico che {ma cfr. ^ \) 27 : M' per la natura 2S: M-m nm. d'arte 29: m certi.
che noi diciamo ciò che ssi comanda in rettorica, pare che sia a trattare del
genere d' essa arte e del suo officio e della fine e della materia e delle sue
parti; imperochè sapute e cognosciute queste cose, più di legieri e più
isbrigatamente potrà l'animo di ciascuno 5. considerare la ragione e ia via
dell'arte. Lo sponitore. 1. Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era
soprastato alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia nel suo testo
per dire di che cose elli tratterà nel suo libro. 10. Ma prima dice alcuni
belli dimostramenti, perchè l'animo di ciascuno sia più intendente di quello
che seguirà, e così pone fine al suo prolago e viene al fatto in questo modo:
Tullio ae fiìiito il prolago, e comincia a dire di eloquenzia. Una ragione è
delle cittadi la quale richiede et è 15. di molte cose e di grandi, intra Ile
quali è una grande et ampia parte l' artificiosa eloquenzia, la quale è
appellata Rettorica. Che al ver dire né cci acordiamo con quelli che non
credono che Ila scienzia delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne
discordiamo da coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in
arte del 20. parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in
quel genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia, cioè della
scienzia delle cittadi. Lo sponitore. I. In questa parte del testo procede
Tulio a dimosti-are ordinatamente ciò che elli avea promesso nella fine del
prolago. Et primamente comincia a dicere il genere di questa arte. Ma anzi che
Ho sponitore vada innanzi sì vuole fare intendere che è genere, perchè l' altre
parole siano meglio intese. Ogne cosa quasi o è generale, sicché comprende
molte altre cose, o è parte di quella generale. Onde questa 1-2: M' (la tratto,
poi corr. da trattar.; 3: M-m generalmente della decta- arte 3: m però che - 4:
M-m più diligente, M' nm. più 8: M A rinconincia 11 : M' (luelle, ma L quello
14-13: M'-L richiede molte cose grandi 16: M-m cai ver diro 18: M-m abbiano 30:
M-m [lorromo quel genero SG: m quella S8: M-m y perchè 29: M ìì quasi generale,
m è quasi geu. 30: M onde jvirte quella gen. parola, cioè « uomo », è generale,
per ciò che comprende molti, cioè Piero e Joanni etc, ma questa parola, cioè «
Piero, » è una parte- A questa somiglianza, per dire più in volgare, si puote
intendere genere cioè la schiatta; che 5. chi dice « i Tosinghi » comprende
tutti coloro di quella schiatta, ma chi dice « Davizzo » non comprende se no
una parte, cioè un uomo di quella schiatta. 3. Onde Tulio dice di rettorica
sotto quale genere si comprende, per meglio mostrare il fondamento e Ila natura
sua. Et dice così che Ila 10. ragione delle cittadi, cioè il reggimento e Ila
vita del comune e delle speciali persone, richiede molte e grandi cose, in
questo modo: che è in fatti e 'n detti. 4. In fatti è la ragione delle cittadi
sì come l'arte W de' fabbri, de' sartori, de' pannar! e l' altre arti che si
fanno con mani e con piedi. In detti è la rettorica e l'altre scienze che sono
in parlare. Adonque la scienza del governamento delle cittadi è cosa generale
sotto la quale si comprende rettorica, cioè l'arte del bene parlare. Ma anzi
che Ilo sponitore vada più innanzi, pensando che Ha scienza delle cittadi è
parte d' un altro generale che muove di filosofia, sì vuole elli dire un poco
che è filosofia, per provare la nobilitade e l'altezza della scienzia di
covernare le cittadi. Et provedendo ciò ssi pruova l'altezza di rettorica.
Filosofia è quella sovrana cosa la quale comprende sotto sé tutte le scienze;
et è questo uno nome composto di due nomi greci : il primo nome si è phylos, e
vale tanto a dire quanto « amore », il secondo nome è sophya, e vale - tanto a
dire quanto « sapienzia ». Onde FILOSOFIA tanto vale a dire come « amore della
sapienzia » ; per la qual cosa neuno 30. puote essere filosofo se non ama la
sapienzia tanto eh' elli intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera
ad avere intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale difiì / M-m cioè che
comprende 2: Af' nm. o J cioè Piero 5: M' ovi. chi 4-6: m om. tutto il passo da
che « quella schiatla 8: m om. per 9: M^ demostrare 10: jU' i reggimenti 12:
M-m om. che b 13: Af ' l'arti (ma anche L l'arto) m e de'pannali, .)/ 7 de
sartori de panni 16-17: m o parte d'un altro generale 1M' de ben p. 20: M in
podio 22: m om. della scienzia, 3/' niii. della scienzia l'altezza 25: M sotto
di sé 26: m fue fdos, .W filis 27 : m om. nome 29: M^ de la scienza 31: M-m
tuote l'altre J/' 7 da ~ 32: M-m. ad amare ' M' Donde. (1) Anche arte potrebbe
essere qui un plurale, come in Tesar., X, 39-40; però lo ronde poco probabile
la forma arti che subito segue. La lezione amare di M-m fu certo suggerita dai
precedenti amore e ama, e basterebbe a farla rifiutare la ripetizione di
concetto a cui si riduce. nizione di filosofia : ch'ella è inquisizione delle
naturali cose e connoscimento delle divine et umane cose, quanto a uomo è
possibile d' interpetrare. Un altro savio dice che filosofia è onestade di
vita, studio di ben vivere, rimembranza della morte e spregio del secolo. Et
sappie che diflfinizione d'una cosa è dicere ciò che quella cosa è, per tali
parole che non si convegnano ad un' altra cosa, e che se tu le rivolvi tuttavia
signiffichino quella cosa. Per bene chiarire sia questo l'exemplo nella
diffinizione dell'uomo, la quale 10. è questa: « L'uomo è animale razionale
mortale ». Certo queste parole si convegnono sì all'uomo che non si puote
intendere d'altro, né di bestia, né d'uccello, né di pescie, però che in essi
nonn à ragione; onde se tue rivolvi le parole e di' cosi : « (/he è animale
razionale e mortale ? certo non si puote d' altro intendere se non dell' uomo.
Or è vero che anticamente per nescietà delli uomini furon mosse tre quistioni
delle quali dubitavano, e uon senza cagione, però che sopr'esse tre questioni
si girano tutte le scienzie. La p-rima quistione era che dovesse l'uomo 20.
fare e che lasciare. La seconda quistione era per che ragione dovesse quel fare
e quell'altro lasciare. La terza quistione era di sapere le nature di tutte
cose che sono. Et perciò che le questioni fuoro tre, sì convenne che' savi
filosofi (2) partissero filosofia in tre scienzie, cioè Teorica, 25. Pratica e
Logica, si come dimostra questo arbore. i: M inquistione, m inquestione, L
inqulslione 2: M^ quando 3: M enpossib'ile (5: Mss. quella cosa 7 per t. p. 8:
if-M' le rivuoli, L le rivolgi il' el per bene .9-/0: if' lo quale questo, L la
i[ualo questo 16: m necessità, M' neccssiladc 16-17: .¥' luiomini in esse (L
messe) 18: sospeso, cnrr. sopresse 19: .1/' liuomo 20: m la seconda che
lasciare 20-21: lU-m om. la 2" quistione 22.: M-m om. quistione M-iii la
natura m tutte le oliose - 23: M-m Et però quelle quistioni furono tre 23-24 :
M si convenne i savi phylosoi)hy che partissero jf > si conviene -^ 23: M
mn. e. (1) Si potrebbe anche leggere (con una costruzione più regolare ma con
una coordinazione poco opportuna) ciò eh' è quella cosa, e per tali parole ecc.
(2) Questa lezione ò comune a codici di ambedue le famiglie, e perciò la
preferisco a quella di M, che pure si può difendere facendo transitivo
conreìtne e intendendo i -savi filosofi come complem. oggetto. Et la prima di
queste scienze, cioè pratica, è per dimostrare la prima questione, cioè che
debbia uomo fare e che lasciai'e. La seconda scienzia, cioè logica, è per
dimostrare la seconda quistione, cioè per che ragione dovesse quel fare e
quello altro lasciare. 10. Et questa scienza, cioè logica, sì ae tre parti,
cioè dialetica, efidica, soffistica. La prima tratta di questionare e disputare
l'uno coli' altro, e questa è dialetica; la seconda insegna provare il detto
dell' uno (1) dell' altro per veraci argomenti, e questa èe efidica; la terza
insegna provare il detto dell'uno e dell'altro per argomenti frodosi o per
infinte provanze, e questa è sofistica. Et questa divisione pare in questo
arbore. La tex'za scienzia, cioè teorica, si è per dimostrare le nature di
tutte cose che sono, le quali nature sono tre; 15. e però conviene che questa
una scienza, cioè teorica, sia pai'tita in tre scienzie, ciò sono Teologia,
Fisica e Matematica, sì come dimostra questo arbore. 4: m cioè la ragione 6: m
sollislicha, epidicha, M' eflidica (un'altra mano aggiunse sotìslicha) 7: i/'
tractare.... contra l'altro - 9:m, ìt', l e dell'altro i 1 : if infinite M'
argomenti frodolenti 7 jier infinita pruova 12: m apare. (1) Conservo invece di
e, comune a quasi tutti i codici, appunto per la sua singolarità e perchè
sembra indicare una differenza tra l'efldica e la sofisticala prima dimostra la
verità di una delle due parti, la seconda pretende dimostrare l'una e l'altra
parte. Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia, la quale è appellata
divinitade, si tratta la natura delle cose incorporali le quali non conversano
in traile corpora, sì come Dio e le divine cose. La seconda scienzia, cioè 5.
fisica, sì tratta le nature delle cose corporali, si come sono animali e He
cose che anno corpo; e di questa scienzia fue ritratta l'.arte di medicina,
che, poi che fue connosciuta la natura dell'uomo e delli animali e de' loro
cibi e dell'erbe e delle cose, assai bene poteano li savi argomentare la saio,
nezza e curare la malizia. La terza scienzia, cioè matematica, sì tratta le
nature de le cose incorporali le quali sono intorno le corpora; e queste nature
sono quattro, e perciò conviene che matematica sia partita in quattro scienze,
ciò sono arismetrica, musica, geometria et astronomia, sì come 15. appare in
questo arbore: La prima scienzia, cioè arismetrica, tratta de' conti e
de'nomeri, sì come l'abaco e più fondatamente. La seconda scienza, cioè musica,
tratta di concordare voci e suoni. La terza, cioè geometria, tratta delle
misure e delle proporzioni. La IV scienza, cioè astronomia, tratta della
disposizione del cielo e delle stelle. Or si torna il conto dello sponitore di
questo libro alla prima parte di filosofia, della quale è lungamente taciuto, e
dicerà tanto d'essa prima parte, cioè di pratica, 25. che pervegna a dire della
gloriosa Rettorica. E sì come fue detto già indietro, questa pratica è quella
scienza che dimostra che ssia da ffare e che da lasciare, e questo è di 3:m
traile corpora 7: #' dela mudicina 9: M' assai poteo bone argomentare isani
10-13 : M-m mltnno da matematica di l. 10 a l. 13 sia partita (m si e) 16: m
om. scien7.ia 17: M' noveri 18: M [a musica SO: M astorlomia M' tracta Io
sponilore 22: Af' si ritorna (L ritorna), m Ora torna lo spoiiiloro alla prima
p. 33: m ae, Jtf' oo 24: m della prima parte 25: m perverrà. tre maniere:
i>erciò conviene che di questa una siano tre scienze, cioè sono Etica,
Iconoiiiica e Politica, sì come mostra la figura di questo arbore : La prima di
queste, cioè etica, sì è insegnamento di 5. bene vivere e costumatamente, e dà
connoscimento delle cose oneste e dell'utili e del lor contrario; e questo fa
per assennamento di quatro vertudi, ciò sono prndenzia, iustizia, fortitudo e
temperanza, e per divieto de' vizi, ciò sono superbia, invidia, ira, avarizia,
gula e luxuria; e così dimoio, stra etica clie sia da tenere e che da lasciai-e
jier vivere virtuosamente. 16. La seconda scienza, cioè iconomica, sì 'nsegna
che ssia da ffare e che da lasciare per covernare e reggere il propio avere e
la propia famiglia. La terza scienza, cioè politica, sì 'nsegna fare e
mantenere e reggere 15. le cittadi e le comunanze, e questa, sì come davanti è
provato, è in due guise, cioè in fatti et in detti, sì come si vede in questo
arbore: 18. Quella maniera eh' è in fatti sì sono l'arti e' magisterii che in
cittadi si fanno, (i) come fabbri e drappieri e li 1 : M-m però clic convion(3
3.m am. la ligura ;>: Af' accostumatamente M' om. ira 10: M^ da necnto 1 1:
m virtmliosamonte 13: m avere, la patria e la famiglia 14: m fare, mantenere 7
r. 16: M-M' 7 in due guise M' in detti. 18: m om. tutto il g 18 M' 7 mestieri
19 : M che cittadini fanno (lì Si rimane incerti fra le due lezioni, perchè il
senso è il medesimo e anclie paleograficamente la differenza è lieve: forse ì
citladisi oxìgìno (i) cittadini'! Adottiamo la lezione un po' più diffìcile.
altri artieri, sanza i quali la cittade non potrebbe durare. Quella eh' è in
detti è quella scien^ia che ss' adopera colla lingua solamente; et in questa si
contiene tre scienze, ciò sono Grramatica, Dialettica, Rettorica, si come
dimostra 5. questo altro albore: Et che ciò sia la verità dice lo sponitore che
gramatica è intrata e fondamento di tutte le liberali arti et insegna
drittamente parlare e drittamente scrivere, cioè per parole propie sanza
barbarismo e sanza sologismo. Adunque sanza gramatica non potrebbe alcuno bene
dire né bene dittare. La seconda scienza, cioè dialetica, sì pruova le sue
parole per argomenti che danno fede alle sue parole; e certo chi vuole bene
dire e bene dittare conviene che mostri ragioni per che, sicché le sue parole
abbiano provanza Ib. in tal guisa che Ili uditori le credano e diano fede a
cciò che dice. La terza S(!Ìenza ciò è Rettorica, la quale truova et adorna le
parole avenanti alla materia, per le quali l'uditore s'accheta e crede e sta
contento e muovesi a volere ciò eh' è detto. Adonque le tre scienze sono
bisogno a 20. parlare et al dittare, che sanza loro sarebbe neente, acciò che
'1 buono dicitore e dittatore de' sì dire e scrivere a diritto e per sì propie
parole che sia inteso, e questo fae gramatica; e dee le sue parole provare e
mostrare ragioni (2), 1 : Af ' artefici sanza quali le cittadi non potrebbero
durare 3: M^ ] questa si contiene 6: m Et choncio sia la v., L Et cliome ciò
sia 7: M' l'arti liberali 9: Mm om. e sanza sologismo; t-S silogismo 10: M' om.
alcuno I-i: M ragione si che le s. p. pruova i7 : M-m advoncnti 18-19 : M' per
bisogno al parliere et al dictatore S3: M-m mostrare con ragiono, L mostrare
por ragione Non credo necessario, data l' impossibilità di distinguer la grafia
dei copisti da quella dell' autore, ristabilire la forma esatta solecismo; la
stranezza della parola spiega pure l'omissione di M-m e lo sproposito di L-S.
(2) Che questa sia la giusta lezione è confermato dal § precedente, 1.16
(«ragioni per che ») ; e si noti che mostrare con ragione o per ragione
equivarrebbe a provare. e questo fae dialetica; e dee sì mettere et addornare
il suo dire che, i)oi che 11' uditore crede, che stia contento e faccia quello
eh' e' vuole, e questo fa Rettorica. Or dice lo sponitore che Ha civile
scienza, cioè la covernatrice delle cit5. tadi, la quale èe in detti si divide
in due: che ll'una è co llite e l'altra sanza lite. Quella co llite si è quella
che sisi fa domandando e rispondendo, si come dialetica, rettoi'ica e lege;
quella eh' è sanza lite si fa domandando e rispondendo, ma non per lite, ma per
dare alla gente insegnamento e via di 10; ben fare, sì come sono i detti de'
poeti che anno messo inii iscritta l'antiche storie, le grandi battaglie e
l'altre vicende che muovono li animi a ben fare. Altressì quella civile
scienzia eh' è con lite è di due maniere, eh' è ll'una artificiosa, l'altra non
artificiosa. Artificiosa è quella nella quale il parliere che connosce bene la
natura e Ilo stato della materia, vi reca suso argomenti secondo che ssi
conviene, e questo è in dialetica et in rettorica. Quella che non è artificiale
è quella nella quale si recano argomenti pur per altoritade, si come legge,
sopra la quale non si reca neuna 2'^ pruova né ragione per che, se non tanto l'
altoritade dello 'mperadore che Ila fece. Et di questa che non è artificiale
dice BOEZIO nella Topica eh' è sanza arte e sanza parte di ragione. Alla fine
conclude Tulio e dice che Rettorica è parte della civile scienzia. Ma Vittorino
sponendo quella 25. parola dice che rettorica è la maggiore parte della civile
scienzia; e dice « maggiore » per lo grande effetto di lei, che certo per
rettorica potemo noi muovere tutto '1 popolo, tutto '1 consiglio, il padre
contra '1 figliuolo, l'amico centra l'amico, e poi li rega(i) in pace e a
benevoglienza. Or è detto 30. del genere; omai dicerà Tulio dello oflfizio di
rettorica e del fine. 1: M ordinare, m e iliraeltero e ordinare lo siidire 3:
M^ cliolll stea 5: M-m si vede in due 7: M' y reclorica 9: M' a. lo genti i 1 :
m-M in iscripto M' 7 le g. b. 7 altro vicende IS : M-m alla (certo da ((Ila),
M' (|UOSta civ. 13-14: mchS l'ima e art. 7 l'altro non art., 3f' l'unaarl.
l'altra none art. (X non art.) 16: m su argomenti che crede ohe si chenvieno, S
secóndo la cosa 19: M sopralla quale 21 : J/' di questa non artificiosa S6: m e
M' alFecto, ma L el'ctto S8 : m M' contro al f. wchontro all'amico, M' contra
amico. 29: m li reca, Af' recalgli a pace 7 benev., L-S recarli a p. Q n h. 80
: m M' oggimai. (1) Con libertà non nuova alla nostra ling'.ia antica, si può
sottintendere il soggetto, « rettorica », dalle parole « per rettorica » che
precedono. La lezione ? ecarli, appunto perchè piii semplice e chiara, mi par
da scartare : non si vedrebbe CICERONE dice che è l'ufficio di questa arte. 18.
Officio di questa arte pare che sia dicere appostatamente per fare credere,
fine è far credere per lo dire. Intra 11' ufficio e Ila fine èe cotale
divisamente : che nell'officio si considera quello che 5. conviene alla fine e
nella fine si considera quello che conviene all'officio. Come noi dicemo
l'ufficio del medico curare apostatamente per sanare, il suo fine dicemo sanare
per le medicine, e così quello che noi dicemo officio di rettorica e quello che
noi dicemo fine intenderemo dicendo che officio sia quello che dee fare il
parliere, e dicendo che Ila fine sia quello per cui cagione eili dice. In
questa parte àe detto Tulio che è l'officio di questa arte e che è lo suo fine;
e perciò che '1 testo è molto aperto, sì sine passerà lo spouitore brevemente.
Et dice 15. cotale diffinizione : officio è dicere appostatamente per fare
credere. Et nota che dice « appostatamente », cioè ornare parole di buone
sentenze dette secondo che comanda quest'arte; e questo dice per divisare il
parlare di questo dicitore dal parlare de' gramatici, che non curanq d'ornare
20. parole. E dice « per far credere », cioè dicere sì compostamente che ir
uditore creda ciò che ssi dice. Et questo dice per divisare il detto de' poeti,
che curano più di dire belle pai-ole che di fare credere. 2. L' altra
diffinizione è del fine. Et dice che fine è far credere per lo dire. Et certo
chi 25. considera la verità In questa arte e' troverà che tutto lo 'ntendimento
del parliere è di far credere le sue parole all'uditore. Donque questo è la
fine, cioè far credere; che 2: M* om. ilk'Oi'O 3: M-M' 7 lar M-m per 1 udire -
3-4: M' om. Inlra 11' udicio e ripete è cotale ilivisumento che no l'ollicio M
7 è colalo 0: m il' e curare 9: t intenderemo cli6 olicio è quello ecc. m om. e
JO: il ella, mi e la i3 : .tf' et che il lino 15: il apostamonle M-m saltano
dal l'ai ^ apposlatanicnto. 10: .tf-m-.l/' ornate 20: m diro si ornatamente et
cliom))ost. 21 : M-m mn. Kl c|uesto dice - 23: M-m che farle credere - 24: M-m
per 1 udire 23: M 7 troverà - 26: M' del parlare la ragione per cui fu mutata
negli altri codici, mentre ò facile ammettere che sia derivata da recahjli di M
'. Quoista poi, a sua volta, non è che una variante di ìi reca, con una
estensione del pronome enclitico a cui contraddice la cosiddetta legge del
Mussafla (cfr., anche per Dante, in Bull. d. Soc. Dani., N. S., XIV, 90-91)
'mmantenenle che l'uomo crede ciò eli' è detto si rivolve (1) lo suo animo a
volere et a ffare ciò che '1 dicitore intende. 3. Ma dice Boezio nel quarto
della Topica che '1 fine di questa arte è doppio, uno nel parladore et un altro
nell'uditore. 5. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica bene
e che sia tenuto d' aver bene detto. Neil' uditore è questo fine: che '1
dicitore a questo intende, che nell'uditore sia cotale fine che creda quello
che dice; e questo fine non desidera sempre IL PARLATORE sì come quello di
sopra. 10. 4. Et per mostrare bene che è l' officio e che è il fine e che
divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che officio è quello che '1
parliere de' fare nel suo parlamento secondo lo 'nsegnamento di questa arte. Ma
fine è quello per cui cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa
cagione e questo fine nonn è altro se non fare credere ciò che dice. Et di ciò
pone exemplo del medico, e dice che Ilo officio del medico è medicare
compostamente per guerire r amalato; la fine del medico èe sanare lo 'nfermo
per lo suo medicare. Già è detto sofficientemente dell' officio e della fine di
rettorica; omai procederàe il conto a dire della materia. Materia di questa
arte dicemo che ssia quella nella quale tutta l'arte e Ilo savere che dell'arte
s'apprende dimora. Come se noi dicemo che Ile malizie e le fedite sono materia
del medico, perciò che 'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che
quelle cose sopra le quali s'adopera questa arte et il savere eh' è appreso
dell'arte sono materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro che 1 : M
sinvolve, m si involve, M^-L si muove S : M' quello olio. 9 : M-m considera 10:
M' om. l)ene 15: M-m non ae altro m se none a faro 16: Af ' in ciò 17-18 : M
Olii, è medicare.... del medico 19: M-m Già ae d. s. (mi s. d.) 20: M' del fine
ogimai procederà Tulio a dire S,4: m e tutta l'arte Jlf ' e sapere S3: M-m le
malizie, cioè le malattie (glossa) 87: M e savere tulli i inss, apresso Questa
è senza dubbio la lezione richiesta dal senso e giustificabile con ragioni
paleografiche: un siriuolue in cui ri è parso un n ha originato il sinvolve di
M; da questo, per correzione arbitraria, è nato si muore di Mi L. Invece di si
rivolve lo suo animo (soggetto) si può anche intendere « (l'uomo) si rivolve lo
suo animo », ma forse l'espressione riesce meno naturale. La correzione è
suggerita dalle parole precedenti : « lo savere che dell'arte s'apprende». Il
testo latino ha facuUas oratoria. fossero piusori et altri meno. Che GORGIA DI
LEONZIO, che fue quasi il più antichissimo rettorico, e in oppinione che IL
PARLATORE puo molto bene dire di tutte cose. Et questi pare che dea a questa
arte grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile, il quale diede a questa 5.
arte molti aiuti et adornamenti, extimò che II' officio del PARLATORE sia sopra
tre generazioni di cose, ciò sono dimostrativo, diliberativo e giudiciale. Lo
sponitore. 1. In questa parte dice Tulio che materia di rettorica 10. è quella
cosa per cui cagione furo pensati e trovati li comandamenti di questa arte, e
per cui cagione s'adoperala scienzia clie 11' uomo apprende per quelli
comandamenti. Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e gli adoperamenti
per le infertadi e per le ferute; et insomma 15. quella è Ila materia sopr'
alla quale conviene dicere. Et sopra ciò fue trovata questa arte per dare
insegnamento di ben dire secondo che Ila materia richiede e per fare che ir
uditore creda. Et di questo è stata diiferenzia tra' savi : che molti furo che
diceano che materia puote 20. essere ogne cosa sopr' alla quale convenisse
parlare. Et se questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine, che
non puote essere; e di questi fue uno savio, GORGIA DI LEONZIO, antichissimo
rettorico; et in ciò che Tulio l'appella antichissimo sì dimostra che non sia
da credere. Ma Aristotile, a cui è molto da credere, perciò che diede molti
aiuti et adornamenti a questa arte in perciò che fece uno libro d' invenzione
et un altro della parladura, dice che rettorica èe sopra tre maniere di cose, e
catuua maniera èe genei'ale delle sue parti; e queste sono dimo 30. strativo,
diliberativo e iudiciale, come in questi cercoletti apiiare : 2: m cliel
parlaro 3: M-m che (loggia (w dohbia) aiiiiistare 6: M' generi 7: M-m
giiulicalivo - IS: M-m et per (incili comamlamenti. Af' aiiiirondo per qua
com., S per qiialnni|ue com. (t bene) -- 13-14: M-m et por lo adoperamenlo et por lo
inf. M' fedito 15: m. M'-L sopra la quale
19: M' dissero ?0: m sopra la ipiale l'uomo chonviene parlare, M' sopra la
(pialo SS: M-m di questo S3-S4: M' 1 aix.'llava S6: M-m (lice molti aiuti M' in
ciò che, m però che S7: Mdinvctione, hi d'invotione - S8: M-m materie M' de
cosa {ma L S di cose) M^ ciasouna 30-31: M-m om. come ecc. e la figura. Et a
questa sentenzia s'accorda Tulio, e sopra queste tre maniere è tutta l'arte di
rettorica. 4. Ma ben puote essere oh' e' maestri in questo punto fanno
divisamente intra dire e dittare; che pare che Ila materia di dittare sia si
generale che quasi sopra ogne cosa si possa fare pistola, cioè mandare lettera.
Ma dire non si puote per modo di rettorica se non delle dette tre maniere,
perciò che Tulio CICERONE reca tutta la rettorica in quistione di parole. Et
intendo che quistione è una diceria nella quale àe molte parole sie impigliate
che ssine puote sostenere l'una parte e l'altra, cioè provare si e no' per
atrebuti, cioè per propietadi del fatto o della persona. Et ecco l' exemplo in
questa diceria che fie proposta in questo modo: È da sbandire in exilio Marco
Tulio Cicero no, che davanti (i) al popolo di ROMA fece anegare molti ROMANI a
tempo che '1 comune era in dubbio? In questa proposta à due parti, una del sì
et un'altra del no. Quella del sì è cotale : « Cicero è da sbandire, perciò che
à fatta la cotale cosa *. Quella del no è cotale: « Non è da sbandire, che
ricordando pure lo nome signififica buona cosa 20. et isbandire et exìlio (2)
sìgnifBca mala cosa, e non è da credere che buono uomo faccia quello che ssia
da sbandire degno né de exìlio ». 6. Grià è detto che è la materia di
quest'arte, et afferma Tulio la sentenza d'Aristotile. Et però che elli l' àe
confermata, sì dicerà di catuna dì quelle 25. tre maniere sì compiutamente che
per lui e per lo sponì 1 : m sachosta 2: Mi tucta 3:m tra dire od. 4:mL del
dittare ~ 5 : M' si puote 6: M' lectoro 7 : 3f ' se non le docte om. perciò m
tutta rettorica 9: M' ov'a il: M-m et por atrebuti, M' per ai trebuti m cioè
i)roiiietadi 12: M sie o fie, m Ila, M'-L fu - 14: m om. Cicero M^ Cicerone che
davanti il p. 15: M' al tempo 16: M imposta 19: M' il suo nome ò buona cosa 20:
M' in exilio 21-22: m dongno da sb., M' dengno di sbandire in oxilio 24: J/' la
conferma Non e' è dubbio sul testo, in cui la tradizione manoscritta è
concorde; quanto all'interpretazione cfr. Maggini, La Rettorica italiana di B.
L. Che et e non in sia la lezione originaria è comprovato dal seguente né de
exilio (cambiato da M< in exilio per analogia colla prima alterazione). tore
potrà quelli per cui è fatto questo libro intendere la materia, lo movimento e
la natura di rettorica. Ma ben guardi d'intendere ciò che dice questo trattato
e di Connoscere ciò che in esso si contiene, che altrimenti non potrebbe intendere
quello che viene innanzi; e dicerà prima del dimostrativo. Del dimostr amento.
Dimostrativo è quello che ssi reca in laude o in vituperio d'una certa
personale. In questa parte dice CICERONE che, con ciò sia cosa che Ile cause e
Ile quistioni sopr' alcuna vicenda indella quale l'uno afferma e l'altro niega
siano di tre maniere, sì insegna Tulio avanti quale causa è dimostrativa. Ma lo
sponi 15. tore non lascerà intanto che non dica la natura e Ila radice di tutte
e tre, oltx'e che dice il testo di Tulio; et in ciò dicerà chi è la persona del
parliere che dice sopra la causa, e dicerà che è il fatto della causa. La
persona del parliere è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo 20.
suo fatto: et intendo « suo detto » quello ch'elli disse o che ssi crede
ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto noll'abbia; altressì
intendo «fatto» quello che fece o che ssi crede ragionevolemente che elli abbia
fatto, avegna che fatto non sia. 3. Il fatto della causa è quel detto o quel
fatto per lo quale alcuno viene in causa e questione; et in ciò sia cotale
exemplo: Dice Pompeio a Catellina: « Tu fai tra 1: in poUà collii è: M' c\
inovini. ~ 5: .W Jioooia, L ilice ora 6: i/del dimoslratio, m (Iella
dimostrationo 8: S si moslra 13-14: il' sia in ti-o maniero.... tulio avanti, m
Tulio inprima M-m cosa il' sia doni. 13: m oni. e la radice - lS-19: il-m
Persona del ]). 7 quella 19-20: il' per lo suo facto o per lo suo dello, m per
lo s. d. e per lo s. f. intondo suo detto e latto (pielli (nni-he il (iiielli)
- SS: il-m e così intondo quello S4 : il' ijucl detto SS- il' et in ipiest., m.
ohi. L siae dimento nel comune di Roma». Et Catellina risponde: « Non fo ». In
questo convenente Pompeio e Catellina sono le persone de'parlieri; e la causa è
questa: «Tu fai tradimento » « Non fo »; e chiamasi causa però che 11' uno ap5.
pone e dice parole contra l'altro e mettelo in lite. 4. Et per maggiore
chiarezza dicerà lo sponitore che èe dimostramento e che deliberazione e che
iudicamento, e così sopra che è ciascuna maniera di rettorica. Dimostramento.
Dimostramento è una maniera di cause tale che per sua propietade il parliere
dimostra ch'alcuna cosa sia onesta o disonèsta, e per questo mostra che è da
laudare e che da vituperare; e questa causa dimostrativa è doppia: una speciale
et un'altra che non si puote partire. La speciale dimostrativa è quella nella
quale i parlieri si sforzano di provare una cosa essere onesta o disonesta, non
nominando alcuna certa persona; et intendo certa persona a dire delli uomini e
delle cittadi e delle battaglie e di cotali certe cose e determinate tra Ile
genti, non intendo dell'altezza del cielo né della grandezza del sole o della
20. luna, che questa quistione non pertiene a rettorica. Et di questa causa
speciale dimostrativa sia cotale exemplo : « Il forte uomo è da laudare Dice
l'altro: Non è, anzi è da vituperare. E di questo nasce quistione, se '1 forte
è degno di lode o di vituperio, e perciò èe dimostrativa, ma 25. non nomina
certa persona, e perciò è speciale. 8. La causa dimostrativa che non si puote
partire è quella nella quale i parlieri vogliono mostrare alcuna cosa sia
onesta o disonesta nominando certa persona, in questo modo. CICERONE è degno di
lode. Dice l’altro. Non è. E di questo nasce quistione, se sia da lodare o da
vituperare. Et questa quistione comprende due tempi : presente e preterito. Che
al ver dire di ciò che 11' uomo fae presentemente è lodato biasmato, et
altressì di ciò che fece ne' tempi passati. 9. Et sopra ciò dicono 1' antiche
storie di Roma che 35. questa causa dimostrativa si solca trattare in Campo
Marzio, 5: 3/' perciò maggioro 7 : ìlt' cheo... cheo (ma L clie... che) - saprà
che è 10: M' per sue propietadi il parladore 14: M' i parladori m spellale o
dimostrativa 16: M' nm. et intendo certa persona, vi om. et 17: M' et dele
ciltadi 18: m cliase diterminate 19: M-m et della gr. 20: m non apartiene ^i
:?» om. speciale M-m dimostrata M k cotale lessemplo - So: M-m om. è 27: M'
alcuna persona essere M-m di tre tempi m pres., preter. e luturo 32: M-m Et al
ver dire 33 : M-m om. di - 42 nel quale s'asemblava la comunanza a llodare
alcuna persona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a biasmare quella
che non era degna. E già è ben detto della causa dimostrativa; sì dicerà il
maestro della causa deli5. berativa. Del diliber amento. 21. Diiiberativo è
quello il quale, messo (^' a contendere et a dimandare tra' cittadini, riceve
detto per sentenzia. In questa parte dice Tulio che causa diliberativa è quella
eh' è messa e detta a' cittadini a contendere il lor pareri et a domandare a
lloro quello che nne sentono; e sopra ciò si dicono molte et isvai'iate
sentenze, perchè alla fine si possa prendere la migliore (2). 2. Et questo modo
di 15. causare è quello che fanno tutto die i signori e le podestà delle genti,
che raunano li consillieri per diliberare che ssia da fFare sopra alcuna
vicenda e che da non fare; e quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla
fine si prende quella che pare migliore. 3. Et in ciò sia questo 20. exemplo
che propone il senatore: « E da mandare oste in Macedonia? » Dice l'uno sì e
l'altro no. Et così diliberano qual sia lo meglio, e prendesi 1' una sentenza.
Et questa quistione si considera pure nel tempo futuro, che al ver dire sopra
le cose future prende l'uomo consiglio e dili 25. bera che ssia da fare e che
noe. 4. Et questa causa diliberativa è doppia: una speciale et un'altra che non
si puote partire. 5. Speciale è quella nella quale si considera d'ai cuna cosa
s' ella è utile o s' eli' è dannosa, non nominando 1-3: M alcuno cli'era dengno
om. e signoria.... degna 6: Tutti i mss. omesso, S è messo H : M-m che in essa
- m M' i loro pareri, L illoro pareri 12: M' da loro - 13: M-m dicono 14: M-m
lo migliore 15: M-m cassare (M 7 quello) 16: M-m raunavano 17: M-m non daffare
20: M' ressom])ro M-m che pone -22: M' il migliore 24: m nel tempo futuro ilf '
iirendo huomo(»nn L S l'uomo) M-m Questa ì; causa, cioè cosa, diliberativa 7
doppia,. L e delib. e doppia m una e spetiale M-m om. che 27: M-m alcuna cosa
28: M-m om. sellò (1) Il testo latino non lascia alcun dubbio. La stessa
corruzione, comune a tutti i codici, è nel successivo § 22 (e posto), e il
costrutto insolito la rendeva facile. (2) Anche la lezione lo migliore è buona,
ma preferisco quella di M' perchè corrisponde esattamente alla fino del § 2.
alcuna certa persona. Et ecco l'essempio: Dice uno: “Pace è da tenere intra
cristiani.”. Dice l'altro: « Non è ». Et di ciò nasce causa diliberativa
speciale, se Ila pace è da tenere o no. L'altra che non si può partire è quella
nella quale 5. i dicitori studiano di provare e' alcuna cosa sia utile o
dannosa, nominando certe persone, in questo modo: Dice l'uno: « Pace è da
tenere intra Melanesi e Cremonesi. Dice l'altro: «Non è». Et già è detto della
causa diliberativa; omai dicerae il maestro del iudiciale. Ma questo sia conto
a ciascuno, che Ila propietade della diliberazione èe mostrare che ssia utile e
che dannoso in alcuno convenentre. Et questa diliberativa si solca trattare nel
senato, e prima diliberavano li savi privatamente che era utile e che no e poi
si recava il loro consiglio in parlamento e quivi si fermava la loro sentenza,
e talvolta si ne prendea un'altra migliore. Judiciale è quello il quale, posto
In iudicio, à in sé accusazione e difensione o petizione e recusazione. La
natura di iudicamento si è una forma la quale si conviene al parladore per
cagione di mostrare la iustizia e la 'niustizia d'alcuna cosa, cioè per
mostrare d'una cosa s' ella è insta o centra iustizia, in cotal modo : che uno
ac-cusa un altro e l’accusato si difende elli medesimo o un altro per lui;
overo che uno fa sua petizione e domanda guidardone per alcuna cosa eh' elli
abbia ben fatta, et un altro recusa e dice che non è da guidardonare, e
talvolta dice. Anzi è degno di pena. Et questa causa si pone in iudicio, cioè
in corte davante a' indici, acciò eh' elli indichino tra Ile parti quale àe
iustizia; e questo si fae in corte palese in saputa delle genti, acciò che Ila
pena del S. in Iva 3: M-m e so la p. 4: M' L'altra la quale 7 : Ai da melanesi,
m tra mei. - Af ' e li crem. M-m l'altro dice *: J/ E già detto U-m cosa 9 : M
' oggimai dicera del giudioiale - 10: ;»/' om. a ciascuno m e damostrare 12: m
ohe prima 14: m om. e m M' in loro consiglio (ma L illoro cons.) 14-15: A/' in
loro sententia si fermava 18: Tuttiimss. e [tosto i9: m accnsatione,
difensione, pctitiono Tutta mas. recusatione {ma cfr. testo latino) 24: m
chontro a iust. m om. che V e medesimo, L elli med. 27: m fatta bene 28: m om.
e dice 32: m traile genti. malfattore dia exemplo di non malfare, e '1
guidardone de' benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et sopra questa
materia dice uno savio: « I buoni si guardano di peccare per amore della
vertude, i malvagi si guardano 5. per paura della pena ». 3. Et è questa causa
iudiciale doppia: una speciale et un' altra che non si puote partire. Speciale
è quella nella quale il pai'lierc si sforza di mostrare alcuna cosa che ssia
insta o iniusta, non nominando certa persona; in questo modo: « Il ladro èe da
'mpendere, 10. perchè commette furto ». Dice l'altro: « Non è ». 4. Quella che
non si puote partire è quella nella quale il parliere si sforza di mostrare una
cosa essere iusta o no, nominando certa persona; in questo modo: « È da
impendere Guido eh' à fatto furto, o no? » Od « E da guidardonare GIULIO Cesare
eh' à conquistata Francia, o no? Et tutte que ste cause iudiciali si
considerano sopra'1 tempo preterito perciò che di ciò che l’uomo à fatto in
arrietro è guidardonato o punito. CICERONE dice la sua sentenzia della materia
di rettorica riprende quella d' Ermagoras. Et sì come porta la nostra
oppinione, l'arte del parliere (0 e la sua sctenzia è di questa materia partita
in tre. (cai). VI) Che certo non pare che Ermagoras attenda quello che dice ne
attenda C^) ciò che promette, acciò che dovide la materia di questa arte in
causa 25. et in questione. 1 : VI exempro allo genti -V far malo M il
guidardone S: M' tini benfacloro m om. VA 4: M' o li malvagi seno guardano 6:
U' et una che 7: il' il dicitore - 9: M-m om. modo m è da mpichare 10: M' un
altro 12-15: M-m om. ila nominando alla fine del paragrafo i6: il-m om. si i7:
m per adietro i8:m pulito SI : M-m parlare, M' parladore, L parlatore M
Amagoras Che sia da legger cosi dimostra non tanto la variante di M' quanto,
specialmente, il trovare nel § 1 del commento lo stesso errore di Mm di fronte
a parliere di M'. Conservo, coi codici, i due attenda, quantunque il tosto
latino abbia nel primo caso attendere e nel secondo intellUjere: qui ci
aspetteremmo dunque intenda, e l'alterazione, per analogia col primo verbo, sarebbe
spiegabilissima. Ma anello con attenda il senso va bene; e forse una prova
della somiglianza sostanziale per l'autore fra attendere e intendere si ha nel
§ 7 del commento, dove, riferendosi a questo passo, i due verbi sono invertiti
di posto: «non pare che Ermagoras intendesse quello che dicea, nò che
considerasse (= attendesse) quello che promettea. Poi elle Tulio àe detto
davanti le tre partite della materia di rettorica sì come fue oppiuione
d'Aristotile, in questa parte conferma Tulio la sentej^izia d'Aristotile; e 5.
dice che pare a llui quel medesimo, e riprende la sentenzia d'Ermagoras, il
quale diceva che Ila materia del parliere è di due partite, cioè causa e
quistione. Ma certo e' dovea così riprendere coloro che giungeano alla materia
di quest'arte confortameuto e disconfortamento e consolalo, mento; e lui
riprende Tulio nominatamente perciò ch'elli era più novello e però dovea elli
essere più sottile, e riprendelo ancora però che ssi traea più innanzi
dell'arte; e riprendendo lui pare che riprenda li altri. Ma però che Tulio
CICERONE non disfina (D lo riprendimento delli altri, si vuole lo sponitore
chiarire il loro fallimento, e dice così: 3. Vero è che, si come mostrato è qua
in adietro, l' officio del parliere si è parlare appostatamente per fare
credere, e questo far credere è sopra quelle cose che sono in lite, e' ancora
non sono pervenute all' anima ; ma chi vuole considerai e il vero, e' troverà
che confortameuto e disconfortamento sono solamente sopra quelle cose che già
sono pervenute all' anima. Verbigrazia: Lo sponitore avea propensato di fare
questo libro, ma per negligenzia lo intralasciava; onde da questa negligenzia
il potea bene alcuno ritrattare per confortameuto, e questo conforto viene
sopra cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la negligenzia.Et se
alcuno disconforta un altro che avea proposto di malfare, tanto che ssinde
rimane, altressi viene lo sconforto in cosa la quale era già pervenuta all'
anima. Adunque è provato che conforto né disconforto non pos 1 : m dinanzi 3: L
dico e conferma 4: M-m la sciencia 6-7 : M-m parlaro 10: M'-L non mattamente
li: M-m om. elli 14: m diffina (o anche disfina), ilf'-/y non examina delli
altri m om. si 16: M^ in qua dietro m del parlare 17: M-m om. si 18: M' et che
ancora, m e anchora SO: M' et trovare 21: m om. già - S3 : L pensato, S per
pensato 23: M lo tralassava, m lo lasciava 24: M' bene ritrarre alcuno, w lo
potea alchuno ritrarre - 27 : vi sconforta 30: M-m sconforto Manuzzi registra
disfinire per « compiere » e anclie por « dichiarare », che mi sembra qui il
senso piìi adatto. (2) Non mancano esempii (cfr. Manuzzi, s. v.) che permettono
di mantenm-e questa parola in senso di «ritrarre», come appunto sostituirono gh
altri mss. altìsono essere materia di questa arte. 5. Ma consolamento puote
anzi essere materia del parliere, perciò che puote venire sopra cosa e' ancora
non sia pervenuta all' anima. Verbigrazia: Uno uomo ferma nel suo cuore di
menare dolorosa vita per la morte d' una persona cui elli ama sopra tutte cose.
Ma un savio lo consola, tanto elle propone d'avere allegrezza, la quale non era
ancora pervenuta all'anima. Ma perciò che in questo consolamento non ha lite,
perciò che '1 consolato non si difende né non allega ragioni contra il
consolatore, non puote essere materia di questa arte. 6. Or è ben vero che
altri dissen che dimostrazione non era materia di questa arte, anzi era materia
di poete, però eh' a' poete s' apartiene di lodare e di vituperare altrui. Et
avegna che CICERONE no Ili riprenda nominatamente, assai si puote intendere la
riprensione di loro in ciò eh' e' conferma la sentenza d'Aristotile che disse
che dimostrazione e deliberazione e iudicazione sono materia di questa arte. Et
sopra ciò nota che dimostrazione pertiene a' poeti et a' parlieri, ma in diversi
modi : che ' poeti lodano e biasmano sanza lite, che non è chi dica contra, e
'1 parlieri loda e vitupera con lite, che è chi dice contra il suo dire. Et
perciò dice Tulio che non pare che Ermagoras intendesse quello che dicea, né
che considerasse quello che prometea, dicendo che tutte cause e questioni 25.
proverebbe per rettorica. Or dicerà Tulio le rii)rensioni d' Ermagora sopra
causa e sopra questione. Tullio seguita Ermagoras della causa, etc. Causa dice
che ssìa quella cosa nella quale abbia controversia posta in dicere con
interposizione di certe persone; le quali 30. noi medesimo dicemo che è materia
dell' arte e, sì come detto avemo dinanzi, che sono tre parti : iudiciale,
dimostrativo e deliberativo. 2: M' innanzi del parlatore 3: m non 6 jiervenuta
5-6: M ellamava 6-7 : III lo chonsolò, M' il consola tutto sì clid iiropone 8:
M-m che questo cons. .9: in e non allega i3: m di poota.... a poeti, M' de
poeti... ali poeti M' o di vit. i-i: M nelle, m non le, M' non gli i6: M'
elicgli conferma 17: m dim., dilib. et iiivochationo 19: M' ali poeti et ali
pailadori 5i : M II parlieri, »i 11 parlieri?, 3/« E! parladore m pero che è
chi dicha chontro al suo dire S-1: A/' chelgli prom. 26: m e questione, M'
sopra questioni 30: m nm. medesimo itf' nm. o Sponitore. 1. Poi che Tulio avea
detto che Ei-magoras non intese se stesso dicendo che causa e questione sono
materia di questa scienzia, sì dice in questa parte che Ermagoras 5. dicea che
fosse causa. 2. Et causa appella una cosa della quale molti sono in controversia,
perciò che 11' uno ne sente uno intendimento e l'altro ne trae un'altra diversa
intenzione; sicché sopr' a cciò contendono di parole mettendo e nominando
alcuna certa persona, che non si possa 10. partire e che propiamente e
determinatamente si partenga alle civili questioni. 3. Et di questo dice Tulio
che ss' accorda co llui, che ciò àe elli detto davanti per sé e per Aristotile;
ma dicerà omai com' elli errò in questione. Qtd rijivende Tullio Ermagoì
asQuestione apella quella che àe in se controversia posta in dicere sanza
interposizione di certe persone, a questo modo: Che èe bene fuori d'onestade?
Sono li senni (i) veri? Chente è la forma del mondo? Chente è la grandezza del
sole? Le quali questioni intendemo tutti leggiermente essere lontane dall'officio
del parliere; 20. che molto n' è grande mattezza e forseneria somettere al
parliere in guisa di picciole cose quelle nelle quali noi troviamo essere
consumata la somma dello 'ngegno de' filosofi con grandissima fatica.
Sponitore. 1. Ora dice Tulio che Ermagoras appellava questione 25. quella cosa
sopra la quale era controversia intra molti, sicché contendeano di parole l'uno
contra l'altro non no 5 M diceva - m ch'era chausa 7: M^ e un altro ne trae
altra d. i., M na {sic) trae, m ne atrae 8: M-m contendemo 10: M' nominatamente
m sautenga 13: Jf' oggimai 15: M' la quale ae 16-17: M' che ben M-iii li senni
vari M' om. h M-m la l'ama 19: M-m del parlare 20: M-m oiii. raaltozza, ilf '
om. e forseneria JZ-w parlare, M' parladore SI: l/Tiusta,//i in vista 24 ^/-w
appellalo: M' era questione m tra molti 26: M ne contendeano (1) Traduce il
latino sensus con una forma che ritorna anche nel commento; è la stessa
fusione, o confusione, cho troviamo nel francese. minando certa persona la
quale propiamente s'apartenesse alle civili questioni. 2. Et in ciò pone cotale
exemplo: «Che è bene fuori d'onestade?» Grande contraversia fue intra' filosofi
qual fosse il sovrano bene in vita: et erano molti 5. che diceano d'onestade, e
questi fuoro i parepatetici; altri erano che diceano di volontade, e questi
sono epicurii. 3. Altressì fue questione se ' senni sono veri, perciò che
alcuna fiata s'ingannano, che se noi credemo che ricalco sia oro sanza fallo s'
inganna il nostro senno. Altressì fue questione della forma del mondo, però eh'
alcuni filosofi provavano che '1 mondo è tondo, altri dicono eh' è lungo, o
otangolo(l\ o quadrato. 5. Altressì era questione della grandezza del sole, che
alcuni dicono che’l sole è otto tanti che Ila terra, altri più et altri meno. Et
questa misura si sforzalo, vano di cogliere i maestri di geometria misurando la
terra, e per essa misura ritraeano quella del sole. Et perciò mostra Tulio che
Ermagora non intese quello che dicea, ch'assai legiei'mente s'intende che
queste cotali questioni non toccano l'ufficio del parliere. Et nota che dice
officio però che ben potrebbe essere che '1 parliere fosse FILOSOFO, e così
toccherebbe bene a lini trattare di quelle questioni, ma ciò non arebbe per
officio di rettorica ma di FILOSOFIAf. Donque ben è fuori della mente e vano di
senno quelli che dice che'1 parliere possa o debbia trattare di queste
questioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano I FILOSOFI. Or à
provato Tulio che Ermagoras non intese quello che disse. Ornai proverà come non
attese quello che promise, in ciò che promettea di trattare per rettorica ogne
causa et ogne questione. 8. Et ciò fae a guisa de' savi, i 1 : 3/' sì plenesse
- 3: M-m fuori con lioneslade, M'-l di l'iiuri 7 lioii. 4' ili l'uori d'hon. .W
grande (juostione mi traili lilosali -I : m «m. et 5 : .V diceano hon. M-m OHI.
questi fuoro il pai'ei)atoiici, .W parclieiialetici 6: il' diceano volontade (S
ugg. cioè piacere) 7: M-m se songni - 8: M' chel ricalco 9: S il nostro
sentimento iO: il perciò id: il' diceano IS: il Hangolo ('/), "i
troangholo, .W'-i triangolo, S otangolo m quadro i3: il' cotanti che terra, i
cotanti chella terj-a 16: m ritraevano la misura d. s. 17: il' che elgli
diceva. Kt assai ecc. S3: M' Dunque ben M' chi dice 24: M' debbia parlare 25:
M' et faticano S7: il-m non inteso 28: M-m perche (> rectorica 29: M-m di
savi (1) La lezione di M ò incerta, ma sembra spiegata e confermata da quella
di S che risalo all'altra famiglia di codici ; un segno male interpretato come
abbreviatura di ri può aver suggerito la lezione triangolo. Il commento di
Vittorino a questo passo non parla nò di triangolo né di ottangolo. (2) Il
latino Ila in ca. - 49 quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì 11'
apongono ad alcuna arte per la quale non si puote provare; come s' alcuno
volesse trattare d' una questione di dialetica et aponessela a gramatica, per
la quale non si pruova né ssi 5. potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando per
argomenti la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco '1 testo di Tulio. Tullio dice in
somma ciò ch'elli avea detto davanti. Che se Ermagoras avesse in queste cose
avuto gran savere acquistato per istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli,
usando la sua scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere,
e non avesse sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli. Ma ora è
quella forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto rettorica che no-lli
concedesse filosofia. Ma perciò l' arte che fece non mi pare del tutto
malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essad) locate cose elette
ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti, et alcuna v'àe
messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire dell'arte sì come fece elli, e
molto è grandissima parlare per l'arte, la qual cosa noi vedemo ch'esso non
poteo fare. Per la qual cosa pare a noi che materia di rettorica è quella che
disse Aristotile, della 20. quale noi avemo detto qua indietro. In questa parte
dice CICERONE che se Ermagoras fosse stato bene savio, sicché potesse trattare
le quistioni e le cause, parrebbe eh' avesse detto falso, cioè che avesse dato
al parliere quello officio che nonn é suo; e così non avrebbe mostrata la forza
dell'arte, ma averebbe mostrata la sua. Ma ora è quella forza nell'uomo, cioè
tal fue questo Ermagoras, che neuno che dicesse eh' e' non sappia rettorica
nolli concederae che sia FILOSOFO. Ma perciò l'arte 1 : 3f siila pongono 3: m
trattare una q. 4-5: M' per la quale non si porla provare M' om. per argomenti
9: M^ o \)ev insegnamento parendo 10: »i ordinato M-m del parlare 11 : M-m non
avesse posto (»m in et n.) M' ([nello puote 13: M' che fece nolli cono. 14-15:
M-m messe, A/' in esse M-m ^ locate le cose («4 nm. le cose) 7 lecte 17: M
dell'arti, in delle urti itf' grandissimo 18: Jl/ potea, M' ]jotero 19: ni sia
quella. M' qua in adietro S4: M-m ciò M' cavesse detto 25: Af a parliere 28: M'
ch'olii 28-29: S che non lu veruno che dicesse ch'elli non sappia retorica non
dirà giù che egli sia philosopho (1) Il testo latino ha in ea. che fece non
pare in tutto rea ». In questa parola il cuopre (1) Tulio e dimostra eh' elli
avrebbe bene ijotuto dire X^egio. Et dice « non è del tutto rea » perciò eh'
elli àe messo nel suo libro con molta diligenzia e con ingegno li 5.
comandamenti delli altri maestri di questa arte, et alcuna cosa nuova v'
agiunse. Et qui pare che Tulio lo lodi là ove il vitupera, dicendo che fosse
furo in perciò che delle scritte d' altri maestri fece il suo libro. Ma molto è
picciola cosa dire dell' arte, ciò viene a dire eh' al parliere non s'apartiene
dare insegnamenti dell'arte, sì come fece Ermagora, ma apartiensi a llui in
tutte guise parlare secondo li 'nsegnamenti e comandamenti dell" arte, la
qual cosa non seppe fare esso. 5. Adonque è da tenere la sentenzia
d'Aristotile, che dice che materia di questa arte è dimostrativo, deliberativo
e iudiciale. Et ornai è detto sofficientemente e diligentemente del genere,
cioè generalmente, dell' officio e della fine di rettorica; or sì dicerà il
conto delle sue parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua indietro.Tullio
CICERONE dice le parti di rettorica. 20. 27. Le parti sono queste, sì come i
più dicono: Inventio, di spositio, elocutio, memoria e pronuntiatio. Lo
sponitore. Cinque parti dice Tulio che sono et assegna ragione per che, e
quella ragione metterà lo sponitore in suo luogo. 25. Ma prima dicerà le
ragioni che nne mostra BOEZIO nel quarto della Topica, che dice che se alcuna
di queste cin 1-2: S scuopre 4: M' con non molto.... ingegni i com. 6: J/' vi
giiingnesse i>f-»i la dove 7:M* fosse ladro m poro che dello dette scritte -
8-9: M' delli altri om. Ma... arte m cosa a dire 10: M-m a dire 12 : m egli noi
seppe fare 14 : m dice materia 15-17 : M' Et oggimai ae solTicientemento detto
del genere, dell' officio et del (ine dì rectorica. Si dicerà l'autore déle sue
parti M sulficientemcnte dilig. m ora dirà 20;mLLQ parti di rettoriclia M'
inveutione, dispositione, ccc 24: S questa M-m che dico se alcuna Cioè «lo
difonde». La lezione scuopre di S sarà nata da un ilcuopre letto iscuopre; come
senso si ridurrebbe a una ripetizione di dimostra. que ijarti falla nella
diceria, non è mai compiuta; e se queste parti sono in una diceria o inn una
lettera, certo l'arte di rettorica vi fie altressì. 2. Un'altra ragione
n'asegiia BOEZIO: che però sono sue parti perchè esse la 'INFORMANO E ORDINANO
e la fanno tutta essere, altressì come '1 fondamento, la i)ai'ete e '1 tetto
sono parti d'una casa sì che la fanno essere, e s' alcuna ne fallisse non
sarebbe la casa compiuta. Et dice Tulio che queste sono le parti di rettorica
sì come i più dicono, i)erò che furo alcuni che diceano che memoria non è parte
di rettorica perciò che non è scienzia, et altri diceano che dispositio non è
parte d' essa arte. Et così va oltre Cicerone e dicerà di ciascuna parte perse,
e primieramente dicerà della 'uvenzione, sì come di piti degna; e veramente è
più degna, però 15. ch'ella puote essere e stare sanza l'altre, ma l'altre non
possono essere sanza lei. Tullio dice della invenzione. Inventio è apensamento
a trovare cose vere o verisimili le quali facciano la causa acconcia a provare.
Dice CICERONE che invenzione è quella scienzia per la quale noi sapemo trovare
cose vere, cioè argomenti necessarii e nota « necessarii », cioè a dire che
conviene che pure cosi sia - e sapemo trovare cose VERISIMILI, cioè argomenti
ac 25. conci a provare che così sia, per li quali argomenti veri e verisimili
si possa provare e fare credere il detto o '1 fatto d'alcuna persona, la quale
si difenda o che dica incontro ad un' altra. 2. E questo puote così intendere
il porto dello sponitore. Verbigrazia: Aviene una materia 30. sopra la quale
conviene dire parole, o difendendo 1' una i: .W manca 3: m vi (ia, M' vi l'u -
3-4: M' dice Boelius, che poroiù 5: m fannola tutta essere, Af' li fanno essere
tutto alti-essi ecc. 6: M' son parte 8 : m om. Et 10: m non era ~ 11: M^
dispositlone 12: M-m dell'arte 13: m primamente 16: m essere o stare 18: M'
invontione (e coù semiire) m pensamento il' overo simili 19: il-m la cosa S3:
SI' om. a dire 23-24: m pure che cos'i sia. E sappiano M' nm. acconci ~ 26: M-m
el facto - 27-28: m chontro ad un altra - 52 parte o dicendo centra l'altra; o
per aventura sia materia sopra la quale si conviene dittare in lettera. Non sia
donque la lingua pronta a parlare né la mano presta alla penna, ma consideri
che '1 savio mette alla bilancia le sue parole 5. tutto avanti clie Ile metta
in dire né inn iscritta. 3. Consideri ancora che '1 buono difficiatore e
maestro poi che propone di fare una casa, primieramente et anzi che metta le
mani a farla, sì pensa nella sua mente il modo della casa e truova nel suo
extimare come la casa sia migliore; e poi 10. eh' elli àe tutto questo trovato
per lo suo pensamento, sì comincia lo suo lavorio. Tutto altressi dee fare il
buono rettorico: pensare diligentemente la natura della sua materia, e sopra
essa trovare argomenti veri o verisimili sì che possa provare e fare credere
ciò che dice. 4. Et già 15. é detto quello che è inventio. Ora procederà il
conto a dire quello che è dispositio. Dice Tullio de dispositio. Dispositio èe assettamento
delle cose trovate per ordine. Perciò che trovare argomenti per provare e FAR
CREDERE il suo dire non vale neente chi no Ili sae asettare per ordine, cioè
mettere ciascuno argomento in quella parte e luogo che ssi conviene, per più
affermamento della sua parte, sì dice Tulio che è dispositio. 2. E dice eh' è
quella 25. scienzia per la quale noi sapemo ordinare li argomenti trovati in
luogo convenevole, cioè i fermi argomenti nel principio, i deboli nel mezzo, i
fermissimi, co' quali non si possa contrastare lievemente, nella fine. Cosi fae
il difficatore della casa, che poi eh' elli àe trovato il modo 1 : m chontro
all'altra - 2 .• M sopralla ([ualo - M' oiii. don(|uo - 3: in o la mano alla
penna - 5: m tutto prima, S tutto - m o in iscritta, M' o in iscriptura 6-S:.il
diliciatore prima che metta lo mani a lare mr=.)/, ma o maestro - 9: m Poi -
10: M' U suo lavoro i3: M-m si veri che possa - 14-16: M E già liecto, mi Ora e
detto - M' omquello - M-m Ora procederà il conto quello che è spositio, .«' Si
procederà il conto a dire che k dispositione - SO: m diro il suo criMloro -
Sfì: M trovai -,W-»i ohi. i, m om. argopienti 27: M' ali (piali nella sua
mente, elli ordina il fondamento in quel luogo che ssi conviene, e ila parete e
'1 tetto, e poi 1' uscia e camere e caminate, et a ciascuna dà il suo luogo. 4.
Già è detto che è dispositio; or diceva il conto che è elocutio. 5. Tullio dice
della locuzione. 30. Elocutio è aconciamento di parole e di sentenzie avenanti
alla invenzione. Sponitore. I. Perciò che neente vale trovare od ordinare chi
non sae ornare lo suo dire e mettere parole piacevoli e piene di buone sentenze
secondo che ssi conviene alla materia trovata, sì dice Tulio che è elocutio. Et
dice che è quella scienzia per la quale noi sapemo giungere ornamento di parole
e di sentenze a quello che noi avemo trovato et ordinato. E nota che ornamento
di parole èe una dignitade la quale proviene per alcuna delle parole della
diceria, per la quale tutta la diceria risplende. Verbigrazia. Il grande valore
che in voi regna mi dà grande SPERANZA del vostro aiuto. Certo questa parola,
cioè “regna”, fa tutte risplendere l'altre parole che ivi sono. Altressì nota
che ornamento di sentenze è una dignitade la quale proviene di ciò che in una
diceria si giugne una sentenza con un'altra con piacevole dilettamente.
Verbigrazia. In queste parole di Salamene. Melliori sono le ferite dell'amico
che frodosi basci del nemico. Et già è detto che è elocutio, cioè
apparecchiamento di parole e di sentenzie che facciano la diceria piacevole et
ordinata di parole e di sentenzie. Omai procederà il conto alla quarta parte di
rettorica, cioè memoria. i-2: m in quello che si chonvienc et il luogo....
l'ascia, charaere3: M^ camminate, ciascuna in suo luogo. Et già ecc. 0-7: M-m
avenonti alla ntentione (anche S intenliono) 9: M om. od 10: M' sa adornare il
suo dire 15: m om. E 16: M dignità della quale, m M' dignità la quale
pervieneSO: M' vi sono SI m,»f' perviene 22 .- M-m om. Ai M un'altra seutenfa
con un altro, m in un'altra diceria si giungne un'altra sententia chon un altro
piacevole dil. 23: M-m dice Salamene 25: M' li frodolenli basci m om. Et 26-27:
M om. e di sentenzie, m om. piacevole el; M om. che.... parole Ambedue le
lezioni sono possibili; ma con quella di M si spiega meglio una pretesa
correzione in dice (chi avrebbe pensato, invece, a cambiare dice indi?), mentre
poi il verbo dice renderebbe superflua l'espressione in queste parole. Dice
Tulio della memoria. Memoria è fermo ricevimento nell'animo delle cose e delle parole
e dell'ordinamento d'esse. Et perciò che neente vale trovare, ordinare o acon
ciare le parole, se noi nolle ritenemo nella memoria sicché ci'nde ricordi
quando volemo dire o dittare, sì dice Tulio che è memoria. Onde nota che
memoria èe di due maniere: una naturale et un'altra artificiale. La naturale è
quella forza dell'anima per la quale noi sapemo ritenere a memoria QUELLO CHE
NO APRENDEMO PER ALCUNO SENNO SEL CORPO. Artificiale è quella scienzia la quale
s'acquista per insegnamenti delli FILOSOFI, per li quali bene impresi noi
possiamo ritenere a memoria le cose che avemo udite o trovate o APRESE PER
ALCUNO DE’ SENNI DEL CORPO e di questa memoria artificiale dice Tulio eh' è
parte di rettorica. Et dice che memoria è quella scienzia per la quale noi fermiamo
nell'animo le cose e le parole eh' avemo trovate et ordinate, sicché noi ci
'nde ricordiamo quando siemo a dire. Et già é detto che è memoria; si dicerà il
conto la quinta et ultima parte di rettorica, cioè pronuntiatio. Dice CICERONE
della pronunziagione. Pronuntiatio è avenimento della persona e della voce
secondo la dignitade delle cose e delle parole. Et al ver dire poco vale
trovare, ordinare, ornare parole et avere memoria chi non sae profFerere e
dicere le sue parole con avenimento. Et perciò alla fine dice Tulio Però che
niente ot acconciai-e 7: w» cene, Af' cine M volere 9:mom, et il: M' senso IS:
M' quella memoria i-i: J»/' udito i5: 4f' sensi 16-, m nnu Et i8 : m olle
parole i9: M' noi vegnamo a dire SO- « ultra parte, hi ora dirà il conto la
quinta jiarte, .W" il maestro - S6 : m o ornare 27: in a chi non sae
prollbrere o diro -òsche è pronuntiatio; e dice eh' è quella scienzia per la
quale noi sapemo profferere le nostre parole et amisurare et accordare la voce
e '1 portamento della persona e delle membra secondo la qualitade del fatto e
secondo la condizione della diceria. Che chi vuole considerare il vero, altro
modo vuole nelle voci e nel corpo parlando di dolore che di letizia, et altro
di pace che di guerra, ('he '1 parliere che vuole somuovere il populo a guerra
dee parlare ad alta voce per franche parole e vittoriose, et avere argoglioso
advenimento di persona e niquitosa ciera contra ' nemici. Et se Ila condizione
richiede che debbia parlamentare a cavallo, si dee elli avere cavallo di grande
rigoglio, sì che quando il segnore parla il suo cavallo gridi et anatrisca e
razzi la terra col piede e levi la polvere e soffi per e nari e faccia tutta
romire la piazza, sicché paia che coninci lo stormo e sia nella battaglia. Et
in questo punto non pare che ssi disvegna a la fiata levare la mano o per
mostrare abondante animo o quasi per minaccia de' nemici. Tutto altrimenti dee
in fatto di pace avere umile advenimento del corpo, la ciera amorevole, LA VOCE
SOAVE, la parola paceffica, le mani chete; e’1 suo cavallo dee essere
chetissimo e pieno di tanta posa e' sì guernito di soavitade che sopr'a llui
NON SI UMOVA UN SOL PELO, ma elli medesimo paia factore della pace. Et così in
letizia de' 1 parlatore tenere LA TESTA LEVATA, il viso allegro e tutte sue
parole e viste SIGNIFICHINO allegrezza. Ma parlando in dolore sia LA TESTA
INCHINATA, il viso triste e li occhi pieni di lagrime e tutte sue parole e
viste dolorose, sicché ciascuno sembiante per sé e ciascuno motto per sé muova
l'animo dell’uditore a piangere et a dolore. Et già é detto delle V parti
sustanziali di rettorica interamente secondo l'oppinione di Tulio, e sì come lo
sponitore le puote fare meglio intendere al suo porto; sì ritorna Tulio a
scusare sé medesimo di ciò che non àe mostrato ragione perché 2: m e misurare ~
5: M' che a chi vuole 0: M' noia boce 7 : M' parlare, m Il parliere 8: m
smuovere i/' om. il populo 11 : M parlantare, m p-are 12: m mn. elli 14-15: M'
delle nari, vi sozzi le anari 16: il' incominci 17: M-m om. per 19-20: M'
humili avenimenti m nel chorpo 21 : M' le parole pacefiche 22 : L di tanta
jwssa 24 : M' om. Et mss. del parlatore 25 : M-m levata in suso il' le sue
parole 26: il-m e signilichino 27: m chinata, il' inchina, L inchinata 28 : M-m
parole iuste e dolorose 29: il' muove 30: m piangerò a dolore. Ora è detto 31 :
il' sustanziali parti 32: M' il puote 56 quello sia genere et ofifìcio e fine
di rettorica sì com' elli àe fatto della materia e delle parti, e dice in
questo modo. Tullio dice che tratterà della materia e delle parti. Oramai dette
brievemente queste cose, atermineremo in 5 altro tempo le ragioni per le quali
noi potessimo dimostrare il genere e IPofficio e Ila fine di quest'arte, però
che bisognano di molte parole e non sono di tanta opera a mostrare la
propietade e Ile comandamenta dell'arte. Ma colui che scrive l'arte rettorica
pare a noi che 'I convenga scrivere dell'altre due, cioè della maio teria e
delle parti. E io perciò voglio trattare della materia e delle parti
congiuntamente. Adunque si dee considerare più intentivamente chente in tutti
generi delle cause debbia essere inventio, la quale è principessa di tutte le
parti. In questa parte dice Tulio che non vuole ora provare perchè quello sia
genere di rettorica che detto è davante, né Ilo officio né Ila fine, però che
vorrebbe lunglie parole e non sono di molto frutto, e però l' atermina nelr
altro libro nel quale tratta sopr' a cciò; et in questo presente libro tratta
della materia, cioè dimostrazione, deliberazione e iudicazione, et altressì
tratta delle pai'ti, cioè inventio, dispositio, elocutio, memoria e
pronuntiatio. Et di tutte queste tratterà insieme e comunemente. Ma però che
inventio è la più degna parte, sì dicerà CICERONE chente ella dee essere in
ciascuno genere di rettorica, cioè come noi dovemo trovare quando la materia
sia di causa dimostrativa, e quando sia deliberativa, e quando sia iudiciale; e
tratterà si comunemente che mosterrà come sia da trovare in catuna di queste
cause, e come 30. ordinare e come ornare la diceria, e come tenere a memoria e
come profferere le sue parole. 1 : M-m quella 4 : M' Ogimai 7 : M admostrare,
ni a dimostrare M' le propicladi 9: M-m che convenga - iO-H : M-m om. K io....
congiuntamente IS: M-m chente e i3: Af' do tutte l'arti 16: M-m quella, M -L
quel M' detto davanti 18: M' lo termina 20: M-m dimostrative 23: M'
congiuntamente; m om. e 24: M-m om. SI dicerà Tulio i'S : M' om. sia
congiuntamente S9: Af' come iu e. d. q. e. sa da trovare 30: iii nm. e come
ornare Lo sponitore parla all' amico suo. Perciò lo sponitore priega '1 suo
porto, poi ch'elli àe impresa altezza di tanta opera come questa èe, che a llui
piaccia di si dare l'animo a cciò eh' è detto davanti, spezialmente in
connoscere il dimostrativo e '1 deliberativo e '1 iudiciale che sono il
fondamento di tutta l'arte, e poi a quel che siegue per innanzi, eh' elli
intenda tutto '1 libro di tal guisa che, per lo buono aprendimento e per lo bel
dire che farà secondo lo 'nsegnamento dell' arte, il libro e lo sponitore ne
riceveJO. ranno perpetua laude. Della constitnzione e delle quattro sue parti.
34. (e. Vili) Ogne cosa la quale àe alcuna controversia in diceria o in
questione contiene in se questione di fatto o di nome di genere o d'azione; e
noi quella questione delia quale nasce la causa apelliamo constituzione. E
constitnzione è quella eh' è prima pugna delle cause, la quale muove dal
contastamento della intenzione in questo modo. Facesti. Non feci, o Feci per
ragione. Poi che CICERONE àe detto di mostrare e trattare della invenzione e della
materia insieme, sì mostra lo sponitore in che ordine trattò de l'inventio; ma
per maggiore chiarezza dicerà tutto avanti in che significazione si prendono
queste parole, cioè causa, controversia, constituzione e stato. Causa vale
tanto a dire quanto il detto o '1 fatto d' alcuno, per lo quale è messo in
lite, ed è appellato causa tutto '1 processo dell' una e dell' altra parte. Et
appellasi causa tutta la diceria e la contenzione cominciando al prolago e
tìniendo alla conclusione; donde dice uomo: 3: M-m di darli l'animo 7-10: M^
chel baono ben dire per tua laude, M-m dello sponitore, M ne rlcevemo, m ne
riceva - 13: m o questione, ilf ' om. contiene in se questione 14 : M-m di
quella 15: M^ constitutione ò la prima pugna 21 : M' om. insieme M' mosterra, ma
L mostra SS : M delinventia, m della inventia, M^ della inventione 23: m tutto
innanzi Af' mi. si prendono S7 : M' dell'una parte 7 dell'altra 28: M-m la
'nlentione M' dal prol. La mia causa è giusta, cioè, la mia parte è giusta.
Controversia vale a dire tanto come causa, e viene a dire “controversare” cioè
usare l'uno coli' altro di diverse ragioni e contrarie. Questione tant' è a
dire come '1primo detto di colui che comincia contra un altro e '1 secondo
detto di colui che ssi difende. Et appellasi quistione una diceria nella quale
àe due parti messe in guisa di dubitazione, et appellasi questione per l'una e
per l'altra parte della questione. Constituzione si prende et intende in quelle
medesime significazioni che sono dette davanti. Stato è appellato il detto e '1
fatto'l) dell'aversario, però che' parliere stanno a provare quel detto o quel
fatto; e questo medesimo è appellato constituzione perciò che '1 parliere
constituisce et ordina la sua ragione e la sua parte di quel detto o di quel
fatto. Et per ciò è appellato “CONTRO-VERSIA” che diversi diversamente sentono
di quel detto o di quel fatto. Qui dice lo sponitore come Tullio tratterà della
Invenzione. Et poi che Ilo sponitore àe dette le significazioni di queste
parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della 'nvenzione. Et certo
primieramente insegna invenire e trovare quelle questioni le quale trattano i
parlieri, et appellale constituzioni e dice la proprietade di constituzione e
dividela in parti. Nel secondo luogo mostra qual causa sia simpla, cioè di due
divisioni, e qual sia composta, cioè di quattro o di più. Nel terzo luogo
mostra qual contraversia sia in scritta e quale in dicere. Nel quarto luogo
mostra quelle cose che nascono di constituzione, cioè la diceria nella quale àe
due divisioni e ragioni, e Ila giudicazione e '1 fermamento. Nel quinto luogo
mostra in che guisa si debbono trattare le parti della diceria secondo
rettorica. Nel VI luogo mostra quante sono esse parti e quali e che sia da
ffare in ciascuna. Et disponesi cosi 2 : Af' vale quasi tanto 3: M'
controversia centra l'altro diverse ragioni 4:M' k tanto a dire M-m come primo
5: m e secondo 7: M-m parti in essere M dnbitatione sanfa dubitatione 9: M' i
s'intende 10: m dinanzi J8: m om. VAIO: M' sì dicerà oggimai 20: L a trovare
23: m In quattro parti M-m dimostra - M qual cosa, m ciualo luogho 26 : M-m sia
scripta - 28 : M'-L e la ragiono el iudicamento el fermamente 29: m dimostra
31: M luorao (tic) . 32: M' ciascuno M Kt diponesi, m ('dispensi, M'-L Et
dispone Ci aspetteremmo o 'l fatto, anche per uniformità colle frasi seguenti ;
ma la concordia dei codici per e lascia incerti sulla conesiione, che non è
neppure indispensabile per il senso. 59 il testo di Tulio per fare intendere
onde procedono le quistioni che toccano al parliere di questa ai'te. Ogne cosa
la quale àe in sé CONTRO-VERSIA, cioè della quale i diversi diversamente
sentono sicché alcuna cosa dicono sopr' a cciò con inquisizione, cioè per
sapere se alcuna delle parti è vera o falsa, sì à' in sé questione di fatto,
cioè questione la quale muove di ciò che alcun fatto è apposto altrui.
Verbigrazia : Dice l'uno contra l'altro. Tu mettesti fuoco nel Campidoglio. Et
esso risponde. Non misi. Di questo nasce una cotale questione, se elli fece
questo fatto o no, et è appellata questione di fatto per quello fatto che a
llui è apposto, etc. Od è questione di nome, cioè che l’una parte appone un
nome a un fatto (D e l'altra parte n'appone un altro. Verbigrazia: Alcuno à
furato d'una chiesa uno cavallo o altra cosa che non sia sagrata. Dice l’una
parte contra lui. Tu ài commesso sacrilegio. Dice l'altro. Non sacrilegio, ma
furto. Et nota che sacrilegio è molto peggiore che furto, perciò che colui
commette sacrilegio che fura cosa sacrata di luogo sacrato. Donde di questo
nasce una questione del nome di quel fatto, cioè se dee avere nome furto
sacrilegio, e però è appellata QUESTIONE DEL NOME. Od è questione del genere,
cioè della qualitade d'alcuno fatto, in ciò che l’una parte appone a quel fatto
una qualitade e l' altra un' altra. Verbigrazia : Dice F uno. Questi uccise la
madre iustamente perciò ch'ella avea morto il suo padre. Dice l'altro. Non è
vero, ma iniustamente l'à fatt; e di ciò nasce cotal questione di questa
qualitade. Se l'à fatto iustamente o iniustamente, e perciò è appellata
questione di genere, cioè della qualità d'un fatto e di che maniera sia. Od è
questione d'azione, cioè viene a dire che contiene questione la quale procede
di ciò, e' alcuna azione si muta d' un luogo ad altro e d'un tempo ad altro.
Verbigrazia : Dice uno contra un altro. Tu m' ài M' diversi 6: M' se l'una
parte 8: 3f' un facto 8-9: M' uno contra un altro M' Elgli, mie 12-13: m che 6
allui aposto, il/' perche il facto che allui e e apposto da questione ecc. M-m
Onde questione i4 : M-m in nome o in facto, M' ialla dal 1° al 2° appone 18: m
M' oin. Et M' peggio 20: m Onde 21: M' del nome del facto 22: m di nome 23: M-m
Onde m di genere 25: M-m l'altro 28: iW' OHI. e 29: M-m om. se l'à fatto 30: M'
o di che m. - 31 : M-m Onde mcioò che viene 32-34: M' dico calcuna ad un altro
om. e.... ad altro uno a un altro È lezione congetturale, ma sicura, come
dimostra l'espressione analoga del § 16. furato un cavallo »; et esso risponde:
« Vero è, ma non tine rispondo in questo tempo, perciò che ttu se' mio servo, o
perciò eh' è tempo feriato, o perciò eh' io non debbo risponderti in questa
corte, ma in quella della mia terra. Onde di questo procede una questione, la
quale Tulio dice che è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. Et dice
Tulio che tutte le quistioni che sono dette davanti sono appellate
constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice che constituzione è la prima
pugna delle cause, cioè quello sopra che da prima contendono i parlieri, cioè
il detto dell'uno e '1 detto dell'altro, e questo sopra che de prima contendono
i parlieri si è il nascimento, cioè che muove del contrastamento della
intenzione, cioè del detto di colui che ssi difende contra le parole
dell'accusatore. Onde contastamento è appellato el primo detto del difensore e
intentione è appellata il primo detto dello accusatore. Et pare che il
nascimento della constituzione vegna della difensione ch'è della accusa, non
che nasca della difensione, ma perciò che del detto del difenditore si puote
cognoscere se Ila causa o Ila questione è di fatto o di genere o di nome o
d'azione, sì come appare nelli exempli che sono messi davanti. Et omai dicerà
Tulio le nomora e Ile divisioni e Ile proprietadi e He cagioni di tutte le
dette questioni. Del fatto, et è detto congettìirale. Quando la controversia è
di fatto, perciò che Ila causa si ferma per congetture, sì à nome constituzione
congetturale. In questa parte dice Tulio che quando la contenzione è per alcuno
fatto che sia apposto ad altrui, sì come davanti si dice, sì conviene eh' ella
sia provata per con 1 : M' 0(1 cigli, VI et e 3: m e però ch'io M' rispondere 6
: M' se quelli m OHI. Et 10: M i parliero, vi quello dello quale contendono da
prima 14: M difontu 15: m M' il primo 16: M' appellato - 17: M-m che nascimento
19: M' owi. del 23-24: M' om. e Ilo cagioni, mn scrive le detto | cagioni I
(piestioni SS: Moni. è 26-27: M-vi om. è per cometlere 30: M' apposto altrui
gettare, cioè per suspezioni e per presunzioni. Verbigrazia: Dice uno contra un
altro. Veramente tu uccidesti Aiaces, ch'io ti trovai e VIDI TRAIERE IL
COLTELLO DEL SUO CORPO. Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino,
perciò 5. che a provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'altressì ferme
ragioni si possono inducere per l’una parte come per 1' altra. E poi eh' è
detto della constituzione di fatto, sì dicerà Tulio di quella eh' è di nome.
Del nome, et è appellata ilifjìnitiva. Quando è la controversia del nome,
perciò che Ila forza della parola si conviene diffinire per parole, sì è
nominata diffinitiva. In questa parte dice Tulio che quando la conten 15 zione
è del nome del fatto, cioè come quel fatto eh' è apposto altrui abbia nome,
quella questione si è diffinitiva perciò che Ila forza, cioè la significazione
di quella parola e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e rispianare
che viene a dire e che significa, non per exempli ma per parole brevi e chiare
et intendevole.Verbigrazia. Un uomo è accusato che tolse uno calice d' uno
luogo sacrato et è Ili apposto che sia sacrilegio, et esso si difende dicendo
che non è sacrilegio ma furto. Or sopra questa controversia si è tutta la
questione per lo nome di questo fatto: è sacrilegio o furto? Onde per sapere la
veritade si conviene diffinire l'uno nome e l’altro, cioè dire la
signifficazione e Ilo 'ntendimento di ciascuno nome, e poi che fie chiarito per
le parole quello che '1 nome significa, assai bene si potrà intendere e provai
e qual nome si XJonga a 30. quel fatto. Et poi eh' è detto del nome, sì dicerà
Tulio del genere. 3: m e viJili trarre, M' ol ti vidi trarre 5-6: M'-L acciò
che altress'i (L altre si) f. r. se ne possono 7: in ora. E *: m om. sì W: M'
la controversia è ii: M'-L appellata 13: M-m om. è 3f ' 7 ilei facto 16: M' om
sì 17:M' che ella airorca M-m a quella parola - 21-22: M' del luogo sacro 23:
M' ma e furto 24-25: AT» se questo facto è sacrilegio furto 26: m l'altro M-m
dare - 28: M-m che nome 30: m om. Ei e si Dice Tullio del genere, et è
appellato generale. Quando è quistione della cosa qual sia, perciò clie Ila.
controversia è della forza e del genere del fatto, sì è vocata constituzione
generale. In questa parte dice Tulio che quando è questione della cosa quale
ella sia, perciò che Ila controversia è della forza del fatto, cioè della
quantitade, e della comparazione et altressì del genere, cioè della qualitade
d'esso fatto, si è 10. vocata constituzione generale. Verbigrazia. La
quantitade del fatto si è cotale questione : se uno à fatto tanto quanto un
altro, si come fue questione SE CICERONE AVEA TANTO SERVITO AL COMUNE ROMA
QUANTO CATONE. La comparazione del fatbo si è cotale: di due partiti qual sia
migliore, si come fue questione quando i ROMANI presono Cartagine QUAL ERA
MEGLIO TRA DISFARLA O LASCIARLA. Il genere del fatto si è questione della
qualità del fatto sì come davanti fue messo F exemplo, cioè se colui che fece
il fatto fece iustamente o iniustamente. Dice Tullio dell'azione, et è
appellata translativa. Ma quando la causa pende di ciò che non pare che quella
persona che ssi conviene muova la questione, o non la muove contra cui si
conviene, o non appo coloro che ssi conviene.d) o non in tempo che ssi
conviene, o non di quella lege o di quel peccato o di quella pena che ssi
conviene, quella constituzione à nome translativa, però che ir azione bisogna
d' avere translazione e tramutamento. 8: M-m o decta forfa 9: M-m sia M'
aiiiiellala H : M-m senno - 14. m do fatto i7: M-m qualità 2'1: A/' l'accusa
24: M convenne, M-m nm. o non (1) La frase o non appo coloro che ssi conviene
manca in tutti i codici, ma si ricava dal latino aid non apud qiios e dal § 4
dol commento. In questa parte dice CICERONE della controversia dell'azione, che
quando sopr'acciò è Ila questione e' si conviene che l’azione si tramuti in
tutto o in parte, e perciò à nome translativa, cioè trarautativa. Et questo è o
puote essere Ijer sette maniere, le quali sono nominate nel testo, cioè: 2.
Quando non muove la questione quella persona a cui la conviene di muovere.
Verbigrazia: Dice uno scoiaio contra ad un altro. Tu se' venuto troppo tardi a
scuola. Et esso dice. A te no'nde rispondo, che non ti si conviene muovermi
questione di ciò, ma conviensi al nostro maestro. O non muove la questione
contra quella persona che ssi conviene. Verbigrazia. Fue trovato che in ROMA si
trattava tradimento e fue alcuno che ll'aponea contra GIULIO Cesare, et esso
dicea. Contra me non si conviene muovere di ciò questione, ma contra CATELLINA
CATILLINA che l’ àe fatto e fa tutta fiata ». non muove la questione appo
coloro che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone che dee. Verbigrazia :
Fue accusato il vescovo di simonia davanti al re di Navarra. Il vescovo dice.
Tu non m'accusi davante a giudice eh' io debbia rispondere, ma io son bene
tenuto di ciò e d'altro davante l'appostolico. O non muove la quistione in quel
tempo che ssi conviene. Verbigrazia. Uno fue accusato il giorno di Pasqua. Esso
dicea. Non rispondo ora di questo, perciò che oggi non è tempo d' attendere a
cotali convenenti» non muove questione a quella lege che ssi conviene.
Verbigrazia : Uno cittadino di ROMA era in Parigi e volea piatire contra uno
francesco secondo la legge di Roma; ma quel francesco dice 3: Jtf -HI 7 si
conviene, 3/' om. 5: Af 7 puote, m e questo puole essere M' in sette m. 7-8: m
si conviene M' in contro a un altro 9-iO: M' Ed elgli, m et elli M-m om. ti 12:
M-m muovere, M' muove questione i4: Af alcuna 16: m questione di ciò, M' di ciò
non si conv. m. q. ' 17: m tuttavia M-m contra coloro 18-19: M' che si dee....
Il vescovo fu acc. 21: M davante a giudici, m /> davanti a giudici, M'
davanti giudice - 24: m della Pasqua egli 25: M' non ti rispondo ora di ciò 26:
m M' da rispondere 29: M' la legge romana m il Francesco (1) Questa è la
lezione miglioro per il senso, né si trova una valida ragione per considerarla
arbitraria, quantunque dalle due famiglie di codici sembri risultare un da
rispondere: sarà stato determinato dal rispondo con cui comincia la frase che
non dee rispondere a quella legge ma a quella di Francia. O non muove la
questione di quel peccato che ssi conviene. Verbigrazia. Fue accusato uno, che
non avea il membro masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso dice. Io non
risponderò di questo peccato -- non muove questione di quella pena che ssi
conviene. Verbigrazia. Fue uno accusato ch'avea morto uno gallo et erali
apposto che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: Non rispondo a questa
pena, perciò che non tocca a questo peccato. Donde tutte queste questioni sono
translative, cioè che ssi tramutano in altro fatto e stato, tal fiata in tutto
e tal fiata in parte, si come appare nelli exempli di sopra. Dice Tullio se
l'una delle dette quattro cose non fosse non sarebbe causa. E così conviene che
ssia l' una di queste inn ogne maniera di cause, perciò che in qual causa no
'nde fosse alcuna, certo in quella non porrebbe avere contraversia, e perciò
conviene che non sia tenuta causa. Poi che CICERONE àe divisate le parti della
constituzione et àe detto che e come è ciascuna di quelle parti e le loro
nomerà, sì vuole Tulio provare che quando l'una di queste questioni, che sono
del fatto o del nome o della qualità del tramutare l'azione, non è intra
parlieri, certo intra loro non puote essere controversia ; e poi che 'ntra loro
non à controversia, certo il fatto sopra il quale dicessero parole non sarebbe
causa, e così non sarebbe materia di questa arte, cioè che non sarebbe
dimostrativo né diliberativo né iudiciale. 2. Et provando questo sì dimostra
Tulio i: i non si dee 4-5: m M' Klgli dico -- 7: M' Fue accusalo uno 8: M' nm_
perciò - m egli dice M' non li lispondo 9: M' non tocclia (piosto peccato ti:
M' in altro slato, m om. e stalo - J2:M' paro 16: M' luna de ipicste sia - 17:
M tn i|ualcosa, m in quale chosa - SS : M-M^ 7 ciascuna - S3: m provare Tulio -
S3-S6: M-m om. ^ m tralloro - 30: m quando ([U'-sto che Ile predette cose in questa
arte sono si congiunte insieme che qualuuiiue causa è dimostrativa o
deliberativa o iudiciale sì conviene che sia constituzione o del fatto o del
nome o della qualitade o dell' azione, et e converso che 5. qualunque
constituzione è del fatto o del nome o della qualità o dell'azione sì conviene
che sia dimostrativa o deliberativa o iudiciale. Et omai perseverra Tulio sua
materia per dicere di ciascuna parte per sé. Del fatto. La contraversia del
fatto si puote distribuire in tutti tempi: che ssi puote fare quistione che è
essuto fatto, in questo modo. Ulisse uccise Aiace o no ? Et puotesi fare
questione che ssi fa ora, in questo modo Sono i Fregelliani in buono animo
verso lo comune o no ? Et puotesi fare questione che ssi farà, in questo 15.
modo : Se noi lasciamo Cartagine intera, everranne bene al comune no? In questa
pai'te dice CICERONE che Ila CONTRO-VERSIA la quale è di fatto che ssia apposto
ad altrui, la quale àe nome constituzione congetturale sì come fue detto in
adietro e messo in exempli, sì puote essere in tutti tempi, cioè preterito,
presente e futuro. Nel PRETERITO pone Tulio r exemplo della MORTE D’AIACE, che
fue cotale. Stando l'assedio di Troia sì fue morto il buon Achille, et apresso
la sua morte fue grande questione delle sue armi intra Ulisse et Aiace. Et
certo Ulisse fue, secondo che contano le storie, il più savio uomo de' Greci e
'1 milìor parliere, sicché per lo grande senno che i-llui regnava e per lo bene
dire niettea in compimento le grandi vicende, alle quali altre non sapea pervenire,
e perciò adoperò e' più di male contra' Troiani per lo suo senno che non fecero
M dimoslraliva 3: M' constitutione del facto 4-6: M-m om. ot e conweiso....
dell'azione 7 : M' Et oggimai perseguita 10: M' in dui tempi 11: m clie exututo
13: M* de buono animo 14: m om. che ssi farà 15: M-m, L in terra ikf'
averranne, m e veramente bene S3 : M' Tulio la morto 24: M* a Troia 26-27: M'
secondo che recitano le storie, fue M-m et niilior 29: M* per .ben dire 30: Mie
quali, m le quali oltre non sapeano M adopio 7, m adoppio più, M' adopero elgli
M' in contro a la non fé, L non fece quasi tutta l'oste per arme, et alla fine
si parve uianifestameute, eh' elli fue trovatore del cavallo per lo quale fue
Troia perduta e tradita; ma veramente in guerra non si 5. fatigava molto con
arme e non era di gran prodezza, ma tuttavolta dimandava che Ili fossono
CONCEDUTTE L’ARMI D'ACHILLE, e dicea che nn'era degno e ch'avea in quella
guerra ben fatta l'opera perchè etc Et dall' altra parte Aiaces era uno
cavaliere franco e prode all'arme, di gran guisa, ma non era pieno di grande
senno e sanza molto** (D francamente avea portate l'armi in quella guerra, e
perciò domandava l'armi d'Achille e dicea che non si conveniano ad ULISSE. Onde
alla fine l'armi furono concedute ad Ulisse, per la qual cosa montò tra lloro
TANTA INVIDIA che divennero nemici mortali ; et in questo mezzo tempo e morto
Aiaces e fue della sua morte ACCUSATO Ulixes, et esso si difendea e negava ; e
di questo sì era QUESTIONE DI FATTO in preterito, cioè che già era fatto in
tempo passato. Inol presente tempo mette Tulio l' exemplo de' Fragellani, che
furo una gente i quali fui'ono accusati in ROMA eh' elli aveano male animo
contra il comune. Et elli si difendeano e diceano che 11' aveano buono e dritto
; e di ciò si era QUESTIONE DI FATTO PRESENTE, cioè se sono ora presentemente
di buono animo o no. Nel FUTURO mette CICERONE l’exemplo di CARTAGINE, la quale
fue una delle più nobili cittadi e delle più poderose del mondo, e tenne guerra
contro a ROMA, sì eh' alla fine I ROMANI vinsero e presero la terra ; e furo
alcuni che voleano che Ila cittade si disfacesse per lo bene di Roma, ET ALTRI
CONSIGLIARO DEL NO perciò che '1 meglio ne potrebbe advenire s' ella rimanesse
intera, e di ciò è QUESTIONE DEL TEMPO FUTURO, cioè se bene o male n'averrà se
Cartagine rimanesse intera o s'ella si disfacesse. Ma poi che Tulio à detto
della controversia del fatto, sì dicerà di quella del nome in questo modo. i:
M' ne non era. 6: M' ben dengno 7 : M' ben l'opera perchè, L bene adoperato
perchè 9: m orti, e sanza molto 10: M-m provale 14: m iim. mezzo 15 : m 7 dela
sua morte fue aco. 16-17 : M-m onde di questo era già (piestione... in perciò
che già ecc. (vi om. in perciò) 18: M' Fregiani 19: M' che fuoro accusati SO:
SI' comune de Roma 22 : m om. si S6: M incontra S7 : m om. e M' vollero (ma L
voleano) 28: m om. et M' di no m pero che meglo ne potrebbe loro intervenire
M-m, L in terra Af' e questo nel tempo futuro M-m che bene 31: M, L'in terra
(1) Così hanno i mss. e perfino la stampa, ma evidentemente manca qualche
parola (anzi itf " dopo molto lascia uno spazio bianco), come dire o
parlare. Basti averlo notato, senza pretendere d' indovinare. Del nome.
Controversia del nome è quando lo fatto è conceduto, ma è questione di quello
eh' è fatto in che nome sia appellato; et in questo conviene che sia
controversia del nome, perciò che non s'accordano della cosa; non che del fatto
non sia bene certo, ma che quello ch'è fatto non pare all'uno quello eh' all'
altro, e perciò l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un altro. Per la qual
cosa in questa maniera la cosa dee essere diffinita per parole e brevemente
discritta, come se alcuno à tolta una cosa sacrata d'uno luogo privato, se dee
essere giudicato furo o sacrilego, che certo in essa questione conviene
difinire l'uno e l'altro, che sia furo e che sacrilego, e mostrare per sua
discrezione che Ila cosa conviene avere altro nome che quello che dicono li
aversarii. In questa parte dice CICERONE della controversia del nome ; e perciò
che di questo è molto detto davanti, sì siue trapassa lo sponitore brevemente,
dicendo solamente la tema del testo, sopra '1 quale il caso è cotale: Roberto
accusa Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa sacrata, si come UNO
CALICE o altra simile cosa la quale sia diputata a' divini mistieri, e dice che
Ila tolse d'uno luogo privato, cioè d'una casa o d'altro luogo non sacrato.
Viene l'accusato e confessa il fatto. Dice l'accusatore. Tu ài fatto
sacrilegio. Dice l'accusato. Non ò fatto sacrilegio, ma furto. Et così sono in
concordia del fatto, ma non della cosa, cioè della proprietade per la quale si
possa sapere che nome abbia questo fatto, perciò eh' all' accusatore pare una,
che dice ch'è SACRILEGIO, et all'accusato pare un' altra, che dice eh' è FURTO.
Onde in questa maniera di CONTROVERSIA si conviene che '1 PARLIERE che dice
sopra questa materia dififinisca e faccia conto IN BREVI PAROLE 3 : it 7 (li
questo 9 : M-m distrecta 10: M- sacrato M-m per furto o per sacrilegio, L furto
sacrilegio 11: M-m con l'altro m furto 12: M-m che sacrilegio, A/' che sia
sacrilego il/' scriptione 16:Mom. detto M' nm. si 18: m sopralla quale - J/'
Uberto : M' tolto 19 : m cosa simile SI: M-m ad veruno mistieri (m mistiere)
23-24: M il l'atto. Et dice laccusato m Non o, ma furto 27-28: m però
chellachusatorc... una diosa 2H-29: M-m om. sacrilegio.... cli'ò 30: jV'
jjarladore 3t: M' didinita - G8 che cosa è SACRILEGIO e che è FURTO; e così dee
mostrare come questo fatto non à quel nome che dice l'aversario. Ed è detto
della CONTROVERSIA del nome; omai dicerà Tulio CICERONE di quella del genere,
in questo modo : 5. Del genere. ^Z. (e. IX) Controversia del genere è quando il
fatto è conceduto e sono certi del nome d' esso fatto, ma è questione della
quantitade del fatto o del modo o della qualitade, in questo modo : giusto
ingiusto - utile o inutile - e tutte cose nelle quali è questione chente sia
quel fatto. In questa parte dice Tulio CICERONE della questione del genere, e
di questa è tanto detto dinanzi che 'n poche parole dimorerà lo sponitore ; e
dice che quella controversia è del genere nella quale Y accusato confessa il
fatto et è in concordia coir accusatore del nome d' esso fatto, ma sono in
discordia della quantitade del fatto, cioè se grande o piccolo o molto o poco.
Verbigrazia. Un gran romano quando dovea cacciare i nemici del suo comune si
fuge. E accusato eh' ha fatto danno e male alla inaestà di Roma; l'accusato
confessa il fatto e '1 nome del facto. Dice l'accusatore. Questo è grande
DANNO. Dice l'accusato : « Non è grande, ma PICCOLO. Ed è la discordia tra loro
della quantità, cioè se quel male è grande o piccolo. O sono in discordia del
modo, cioè della comparazione del fatto, sì come fue detto qua indietro
nell'exemplo di Cartagine, qual fosse la migliore parte tra disfare o lasciare.
O sono in discordia della qualitade del fatto, sì comepare in exemplo d'ORESTE
che uccide la sua madre, ed e accusato che l’ha morta ingiustamente. Ed ORESTE
si difende e dice che l'à morta giustamente, ma bene con OM, 8: M'in modo della
qualitndo 9: m o non giusto 12: M' tracia i3: M-m detto VI di questo M die
poclie p. m dimora, Af' <limorra - 16-17: M' ohi. ma sono.... del fatto 20:
M-m t>m. e male S3: M-m nm. Ed So: >/' Or sono, M-m OHI. - 26: M' nm. si
- 27 : M' o disfare - 2S : M-m quantitade - 29 : M' nelexemplo di ((uestl, M-vi
dotesles 30-.il : m nm. ot esso... GIUSTAMENTE giustamente, M' nm. si - M-m
cliellavea fessa il fatto e 1 nome del fatto; ma sono in discordia della
qualità, cioè se 11' àe fatto GIUSTAMENTE O INGIUSTAMENTE. Ben è vero che Tulio
CICERONE non mette in exemplo della quàntitade nel testo, né della
comparazione, se non solamente della 5. qualitade ; e questo fae perciò che più
sovente ne vien tra Ile mani che non fanno l'altre, e perciò dice che tutte
cose nelle quali si confessa il fatto e '1 nome del fatto, ma è questione della
qualità d'esso fatto, sì è controversia del genere. E poi che Tullio CICERONE à
detto di questa questione del genere secondo il suo parimento, sì procede
immantenente a riprendere Ermagoras dell'errore suo in questa controversia del
genere. A questo genere Ermagoras sottopuose IV parti, ciò sono DELIBERATIVO,
DEMONSTRATIVO, IUDICIALE, E NEGOZIALE. Il quale suo fallimento non mezanamente
pare che ssia da riprendere, ma in breve, perciò che sse noi ci ne passiamo
così tacendo fosse pensato che noi lo seguissimo sanza cagione; o se lungamente
soprastessimo in ciò, paia che noi facessimo dimoro et impedimento agli altri
insegnamenti. Se deliberamento e dimostramento sono generi delle cause, non possono
essere diritte parti d'alcuno genere di causa, perciò che una medesima cosa
puote bene essere genere d'una e parte d'un' altra, ma non puote essere parte e
genere d'una medesima. Et certo deliberamento e dimostramento sono genera delle
cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur iudiciale solamente, è
iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere che non sia alcun genere di
cause, con ciò sia cosa eh' e' medesimo dice che Ile cause sono molte e sopra
esse dà insegnamento, è grande forseneria. Un genere, cioè pur iudiciale
solamente, non puote essere, acciò che diliberamento e dimostramento non sono
simili intra lloro e molto si discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo
fine al quale si dee ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son generi
delle cause, e così deliberamento e dimostramento non possono 4: M> nel
testo exemiilo - 5: M' in tra le mani iO: m om. secondo il suo parimente M
mantenente 13: M-m II (juale lue i7 : 3/' nm. i)erciò cene passassimo 18: m
stessomo - 19: M' dimora, m imped. 7 dimoro 20: M-m dim. 22 : m M' causa M-m
genere 7 parte d' una medesima - 23 : M' Ma none, vi Ma anno ale. 26: M-m om. e
deliberativo 27: M' ch'elli - 28: M' essi... inseffnamenti 28-29 : M 7 grandi;
fors (?), m 7 grande forma, M' 7 grandi mattezze. Genere ere. .12 : M 7 certo
3:i : M' de cause... dimost. 7 del. essere a diritto tenute parti d'alcuno
genere dì causa. Dunque malamente disse ch'elli fossero parte della
constituzione del genere. 46. (e. X) Et s'elle non possono essere tenute diritte
parti della causa del genere, molto meno fien tenute parti della diritta parte
della causa; e parte della causa è ogne constituzione; donde no la causa alla
constituzione, ma la constituzione s'acconcia alla causa. Ma dimostramento e
diliberamento non possono essere tenute diritte parti della causa del genere,
perciò che sono generi: donque molto meno debbono essere tenuti parte di quello
ch'esso dice. Appresso ciò, se Ila constituzione et essa e ciascuna parte della
constituzione è difensione contra quello eh' è apposto, conviene che quella che
no è difensione non sia constituzione ne parte di constituzione. Et certo
deliberamento e dimostramento non sono constituzione. Dunque se constituzione
et ella e la sua parte è difensione contra quello eh' è apposto, il
dimostramento e '1 diliberamento non è constituzione ne parte di constituzione.
Ma piace a Itui che ssia difensione. Dunque conviene che Ili piaccia che non
sia constituzione, né parte di constituzione. Et in altrettale isconvenevile
fie condotto, se esso dica che constituzione sia la prima confermazione dell'
accusatore o Ila prima preghiera del difenditore ; e così seguiranno lui tutti
questi sconvenevoli. Appresso ciò, la causa congetturale, cioè di fatto, non
puote d'una medesima parte inn un medesimo genere essere congetturale e
diffinitiva ; et altressì la diffinitiva causa non puote essere d'una medesima
parte inn uno medesimo genere diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna
constituzione ne parte di constituzione puote avere e tenere la sua forza et
altrui; perciò che ciascuna è considerata semplicemente per sua natura ; se
l'altra si prende, il nomerò delle constituzioni si radoppia, non si cresce la
forza della constituzione. Veramente la causa deliberativa insieme d'una
medesima parte in un medesimo genere suole avere la constituzione congetturale
e generale e diffinitiva e translativa, et alla fiata una e talvolta piusori.
Adunque, essa non è constituzione né parte di constituzione. Et questo medesimo
suole usatamente advenire della causa dimostrativa. Adunque sì come noi avemo
detto 3,5. davanti, questi, cioè deliberamento e dimostramento, sono generi
delle cause e non parti d'alcuna constituzione. 1 : M' a diricto essere tenute
parte 5: M-tn om. parto delln causa ìvi om. no 7: JV' tenuti 9 : m tenute
parti, il/' im. tenuti M-m cliossi dice iO: M-m chella const. 11: M-m ?
difensione M' (piella - IS: M-m non sia la constitutione 13: m om. Et 14: M 1
dunque le const., m Dunque la const. 15: M' nm. e '1 diliberamento 16-18: m om.
i due periodi ^0 : m seguiteranno - l' 1 : M-m si convenevoli 23: M'^
diffinitiva, m chon dilf. 25 : M-m om. e translativa - 26: M-m om. nk - M' ne
tenere 2S: m il novero il/ sic radoppia 31: m coniotturalc generale 32: i wim.
illusori (i Lo sponitore. I. In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea che
Ila controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò sono deliberativo,
demostrativo, iudiciale e negoziale; della 5. qual cosa Tulio lo riprende in
tutte guise, e mostra molte ragioni come Ermagoras errava malamente, e questo
pruova manifestamente per argomenti dialetici: che dimostramento e
deliberamento sono generi delle cause si che Ile cause sono parti di loro; e
poiché sono generi, cioè il tutto delle 10. cause, non possono essere parte
delle cause, acciò ch'una cosa non puote essere tutto d'una cosa e parte di
quella medesima. 2. Et così per molte ragioni o vuoli argomenti conclude Tulio
che Ermagoras avea mal detto, e poi seguentemente dice la sua sentenza : quali
sono le parti della constituzione del genere, cioè della quantitade e del modo
e della qualitade del fatto, sì come qui dinanzi fue detto. Et in ciò
incomincia la sentenzia di Tullio in questo modo : Le parti della constituzione
generale. 20. ^S. (e. XI) Questa constituzione del genere pare a noi ch'ab bia
due parti : Iudiciale e negoziale. Lo sponitore. 1. Poi che Tullio àe ripresa
l' oppinione d' Ermagoras delle quattro parti, si dice la sua sentenza e dice
che sono 25. pur due parti, cioè quelle altre due che dicea Ermagoras:
iudiciale e negoziale ; et immantenente detta la sua sentenza, la quale vince
quella d' Ermagoras e d'ogn' altro, sì dice e dimostra che è iudiciale e che è
negoziale, in questo modo 4: M' dimostrativo, deliberativo ecc. 6: M-m provava
9: m genero 10: M el acciò 11 : M-m tiicta 13:M^ conchiude Tulio Ermagoras
avere 17 : il/' comincia 23 : m ripreso 28: M' che e iuridiciale {e cosi
sempre), M-m che iudiciale 7 che {ni om. che) negotiale ludiciale è quella
nella quale si questiona la natura dì dritto e d' iguaglianza e la ragione di
guiderdone o di pena. Sponitore. La iudiciale coustituzioue è quella nella
quale per diritto, cioè per ragione provenuta per usanza e per iguallianza,
cioè per ragione naturale o per ragione scritta, si questiona sopra la
quantitade o sopra la comparazione o sopra la qualitade d'un fatto, per sapere
se quel fatto è giusto o ingiusto o buono o reo. Altressì è iudiciale quella
nella quale è questione d'alcuno per sapere s'egli è degno di pena o di merito.
Verbigrazia. Alobroges è degno d'avere merito di ciò che manifestò la
congiurazione di Catenina? e questionasi del sì o del no. Et anche questo
exemplo. È Giraldo degno di pena di ciò che commise furto ? e questionasi del
si o del no. Et poi che à detto Tulio del iudiciale, si dicerà dell'altra parte,
cioè della negoziale. Negoziale è quella nella quale si considera chente
ragione sìa per usanza civile o per equitade, sopra alla quale diligenzia sono
messi i savi di ragione. Dice CICERONE che quella constituzione è appellata
negoziale nella quale si considera per usanza civile, cioè per quella ragione
la quale i cittadini o paesani sono usati di tenere i-lloro uso o in loi'o
costuduti, o per equitade, cioè per legi scritte, chente ragioni debbiano
essere sopra quella 2: m quello nel (juale 3: M'-L ella ragione di diritlo, S
di merito 6: m pervenuta 8.me sopra la comp. 9: m se questo giusto il: M^ si
questiona d'alcuno selglie ecc. 12-14: m o di morte M-m o alabroges di Catenina
et questionisi del si et del no (m di si o di no), L e questo exemplo 16: m quistionìsi...
om. Et A/ 7 del no 16-17: M' Tulio a detto dela giuridicialo 20: M' Di
negotiale 26: M' om. paesani 27 : M' i loro costuduti m illoro chostuduli, M'
in loro constituti M-m equalitade S8 : M' cliente ragione debbia constituzione.
2. Et intra la iudiciale e la negoziale àe cotale differenzia : che Ila
iudiciale tratta sopra le cose passate et intorno le leggi scritte e trovate ;
ma la negoziale intende intorno le presenti e future (1) et intorno le legi et
5. usanze che saranno scritte e trovate.Et questa è di molta fatica, perciò
che' parlieri s'affaticano di grande guisa a provarla et a formare nuove
ragioni et usanze allegando in ciò ragioni da simile o da contrario. Et questa
questione si tratta davante a' savi di legge e di ragione, ma in provare la
iudiciale basta dicere pur quello che Ila ragione ne dice. 4. Et poi che Tulio
à detto che è la iudiciale e che è la negoziale, sì dicerà delle parti della
iudiciale per meglio dimostrare lo 'ntendimento di ciascuno capitolo dell'
Arte. Di due parti di Iudiciale. La iudiciale dividesi in due parti, ciò sono
assoluta et assuntiva. In questa parte dice Tulio che quella questione la quale
è iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due parti. Una eh' è appellata
assoluta e l'altra la quale è appellata assuntiva ; e dicerà di catuna per sé.
: M interno 4: i mss. futuro M' il presente 8 : m in se ragioni 9 : M assaivi,
m si tratta da savi 10: M pur di quello 16: M' si divido 21 : M' luna la quale
è appellata - M-m e assunptiva Per quanto la lezione di -Jf' (il presente e
futuro) sembri ottima, preferisco ricorrere alla lieve correzione di futuro in
future.: M* ha tendenza a cambiare, e quindi non è improbabile che, trovando
già l'errato futuro, abbia voluto accordare con esso l'aggettivo precedente, le
presenti. Non saprei invece come spiegare un cambiamento inutile in M-m.
Assoluta è quella che in sé stessa contiene questione o di ragione o d'
ingiuria. Dice CICERONE che quella questione iudiciale del genere èe appellata
assoluta la quale in sé medesima è disciolta e dilibera, sì che sanza niuna
giunta di fuori contiene in sé questione sopra la qualitade o sopra la
quantitade o sopra la comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce s'egli
é di ragione o d'ingiuria, cioè se quel fatto é giusto o ingiusto o buono o'
reo, sì come in questo exemplo donde fue cotale questione. Verbigrazia : Fecero
quelli da Teba giusto o ingiusto quando per segnale della loro vittoria fecero
un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè fare un trofeo di metallo per
segnale di vittoria, piace per sé sanza neuna giunta et in sé contiene forza
della pruova, perciò ch'era cotale usanza. Assuntiva è quella che per sé non dà
alcuna ferma cosa a difendere, ma di fuori prende alcuna difensione ; e le sue
parti sono quattro : concedere, rimuovere lo peccato, riferire lo peccato e
comparazione. S:M-m slesso 7: M-m nm. ai fi: M-m «m. o sopra la (luantilude 7
invece ili 09: M' in f|uel facto 12: M-m Ino - »« di Teba 14-13: m et cerio
questo trofeo fatto faro per sengnale della loro Victoria jiiuce per so
medesimo 16: M' la forfa 1 9 : M-m ohi. olio per sé non dà alcuna CICERONE dice
che quella constituzione è appellata assuntiva della quale nasce questione, la
quale in sé non à fermezza per difendersi da quello peccato eli' è allui appo5.
sto, ma d'un altro fatto di fuori da quello prende argomento da difendersi; si
come nella questione d'Orestes, che fue accusato eh' avea morta la sua madre,
et elli dicea che ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire parca crudel
fatto, sì che queste parole per sé non anno difensione com'elli l'abbia fatto
giustamente, ma prende sua difensione d'un altro fatto di fuori e dice: « Io
l'uccisi giustamente, perciò ch'ella uccise il mio padre ». Et così pare che
con questa giunta piaccia la sua ragione. Efc questa cotale questione assuntìva
à quattro parti, delle quali il testo 15. dicerà di catuna perfettamente per
sé. Concedere e concessione è quando l'accusato non difende quello eh' è fatto
ma addomanda che ssia perdonato ; e questa si divide in due parti, ciò sono
purgazione e preghiera. 20. Sponitore. I. Poi che Tulio avea detto che è e
quale la questione assuntìva e com' ella si divide in quattro parti, sì vuole
dicere di ciascuna per sé divisatamente perchè '1 convenentre sia più aperto.
2. Et primieramente dice che é concedere, e dice che quella constituzione é
appellata concessione quando l'accusato concede il peccato e confessa d'averlo
fatto, ma domanda che ssia perdonato ; e questo puote essere in due maniere: o
per purgazione o jjer preghiera, e di ciascuna di queste dirà Tulio
partitamente, e prima 30. della purgazione. 3: M> non àe in se 5: M' di
quello 7 : M' Pt elli rispondea 8-iO: M-m om. Kt certo.... giustamente i4: M'
nm. assuntìva 15: M' per se perfectamente 17: M' o concessione - 18 : 3f '
domanda chelgli sia p. m. 7 questo 21 : m che e quale, M' che 7 quale 6 23: m
di chatuna 24: M-m concede 26: m confessa il pechato d'averlo facto Purgazione
è quando il fatto si concede ma la colpa si rimuove, e questa sì à tre parti :
imprudenzia, caso e necessitade. Dice CICERONE che quella maniera di concedere
la quale è per purgazione sì è et aviene quando l'accusato confessa, ma lievasi
la colpa e dice che quel fatto non fue sua colpa ; e questo puote fare in tre
maniere, delle quali è prima Imprudenzia, cioè non sapere. 2. Verbigrazia :
Mercatanti 10. fiorentini passavano in nave per andare oltramare. Sorvenne loro
crudel fortuna di tempo che Ili mise in pericolosa paura, per la quale si
botaro che s' elli scampassero e pervenissero a porto che elli offerrebboro
delle loro cose a quello deo che là fosse, et e' medesimi F adorrebbero. Alla
fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato Malcometto ed era tenuto deo.
Questi mercatanti l' adoraro come idio e feciorli grande offerta. Or furono accusati
ch'aveano fatto contra la legge ; la qual cosa bene confessavano, ma allegavano
imprudenzia, cioè che non sapeano, e perciò 20. diceano che fosse perdonato. Et
di ciò era questione, se doveano essere puniti o no. 3. La seconda maniera è
caso, cioè impedimento eh' adiviene, sì che non si puote fare quello che ssi
dee fare. Verbigrazia : Un mercatante caursino avea inprontato da uno francesco
una quantità di pe 25. cunia a pagare in Parigi a certo termine et a certa
pena. 6: M-m om. b 7 : M-m imi. non 8: M' Kl puotesi l'art! o In prima tO: M
per mare oltramare, di passavano per maro in nave Jf sopravenne li: mi miseli,
JV/' om. che 14: M' edelgli medesimi 15: M' Macliometlo, m Maometto 17: M'
fecero grande oHerta. Fiioro ecc., m mii. Or 19: M' noi sapeano 21: m puliti S4
: m inprontato moneta da uno franeesclio Avenne che '1 debitore, portando la
moneta, trovò il fiume di Rodano si malamente cresciuto che non poteo passare
né essere al termine che era ordinato. Colui che dovea avere domandava la pena,
l' altro confessava bene eh' avea 5. fallito del termine, ma non per sua colpa,
se non che '1 caso era advenuto ch'avea impedimentitotU la sua venuta, e però
dicea che Ila pena non dovea pagare; e di ciò è questione, se Ila dovea pagare
o no. La III maniera è necessitade, cioè che conviene che ssia così et altro
non potea fare. Verbigrazia : Statuto era in Costantinopoli che qualunque nave
viniziana arrivasse nel porto loro, la nave e ciò che entro vi fosse si
publicasse al segnore. Avenne che mercatanti genovesi allogare una nave di
Vinegia e passaro con grande carico d'avere. Convenne che per impeto di tempo
per forza di venti, centra' quali non si poteano parare, pervennero nel porto e
fue presa la nave e le cose per lo segnore. Ben confessavano li mercatanti che
Ila nave era veniziana, ma per necessitade erano venuti in esso porto, e però
diceano che non doveano perdere le cose ; e di ciò era questione, se Ile
doveano perdere o no. Tutto altressì i Veniziani, cui fue la nave,
raddomandavano la nave o la valenza; i mercatanti diceano che l'amenda non
dovea essere domandata, perciò che per necessitade e non per volontade erano
iti in quel porto. Et poi' che Tullio àe detto della purgazione e delle sue
parti, si dicerà della preghiera. Preghiera è quando l'accusato confessa
ch'elli àe commesso quel peccato e confessa che 11' àe fatto pensatamente, ma
sì domanda che Ili sia perdonato, la qual cosa molte rade fiate puote advenire.
1 : M-m avieno S : M-m polea 3: M' a. termine ordinato 5 : M' al termine 5-6: M
impedimento, M* ma nel caso era avennlo 7 avea impedimentita il: M' nel loro
porto 13: m una nave viniziana, 3/' una nave de Viniziani 7 passavano 14-15: M
per un tempo per impetto 7 per f., if ' per impedimento, m di vento 18: M^ in
quel porlo SO: M' ora la questione m dovea 22: M' che por lamenda 24 :m om. Et
28-29: m domandasi M' om. molto (1) Questa lezione di w è confermata da
impedimentita di Jf*, cioè dall'altra famiglia di codici. Lo scambio, avvenuto
in M, con impedimento era facilissimo e lo favoriva il fatto che il senso
restava quasi il medesimo : « la sua venuta avea avuto impedimento ^>. Così
leggo con w, poiché in if e ilf ' il passo è manifestamente guasto (impedimento
è correzione arbitraria), mentre l'espressione impeto di tempo, analoga, a
quella del § 2 fortuna di tempo, può bene corrispondere alla magna tempestas di
cui parla l'esempio ciceroniano {De Inv., II, 98) sul quale è modellato il
nostro CICERONE dimostra in questa picciola parte del testo che cosa è
appellata preghiera in questa arte. Et dice che allotta è questione di
preghiera quando l'accusato confessa 5. e dice che fece quel peccato che gli è
aposto e ricognosce che ir à fatto pensatamente, ma tutta volta domanda
perdono. 2. Onde nota che questa preghiera puote essere in due maniere, o
aperta o ascosa. Verbigrazia : In questo modo è la preghiera aperta : Dice l'
accusato. Io confesso bene ch'io feci questo fatto, ma prego vi per amore e per
reverenza di Dio che voi mi perdoniate ». La preghiera ascosa è in questo modo
: « Io confesso eh' io feci questo fatto e non domando che voi mi perdoniate ;
ma se voi ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe fatto al comune, ben
sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato ». 3. Ma ssì dice Tullio che queste
preghiere possono advenire rade volte, (l) spezialmente davante a' giudici che
sono giurati a lege sie che non anno podere di perdonare. Ben puote alcuna
fiata lo’mperadore e’1 sanato avere prove 20. denza in perdonare gravi
misfatti, sì come poteano li anziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di
gravare e di disgravale secondo lo loro parimento. Et poi che Tullio àe detto
della prima parte della constituzione assuntiva, cioè della concessione e che
cosa è concedere, et à delle due maniere di concedere detto, cioè di purgazione
e di preghiera, sì dicerà della seconda parte, cioè rimuovere lo peccato.
Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si sforza di rimuovere quel peccato da
se e da sua colpa e metterlo sopra un S : M' mostra 5 : M' elicigli lece 6' :
M' nppensatainentc 8 : M' nascosa 14: M' om. bene 17 : M^ fiato (ma L volte) li
([uali sono 18: M noniianno 19: m prudenzia SS: m eclisgravare, M> 7
disgravare ni lo loro parere, L illoro parere, S il loro piacimento m om. Et
So: M' m e a detto delle duo maniere ecc. : M' mettelo (ma L metterlo) Conservo
volte appunto perchè questa parola in itf è meno frequente di fiate Q non si
può considerare correzione arbitraria; invece fiate sarà stato sostituito per
uniformità col testo tradotto (v. pag. preced., 1. 29). altro per forza e per podestà
di lui ; la qual cosa si puote fare in due guise: o mettere la colpa o mettere
lo fatto sopr'altrui. Et certo la colpa e la cagione si mette sopra altrui
dicendo che quel sia fatto per sua forza e per sua podestade. Il fatto si mette
sopr'altrui 5. dicendo che dovea un altro e potea fare quel fatto. In questo
luogo dice CICERONE eh' è rimuovere lo peccato e come si puote fare, et è
cotale il caso : Uno è accusato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua
defensione si leva da ssè quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice bene
che 11' à fatto, ma un altro cli'avea in lui forza e signoria il costrinse a
ffare quel male ; e questo rimovimento del peccato dice Tullio che ssi puote
fare in due guise : l'una si mette la colpa e la cagione sopra un altro,
l'altra 15. si mette il fatto sopra altrui. Et certo la colpa e la cagione si
mette sopì'' altrui quando l'accusato dice che elli à fatto quel male per colpa
d'alcuno il quale à sopra lui forza e signoria. Verbigrazia. Il comune di
Firenze elesse ambasciadori e fue loro comandato che prendessero la paga 20.
dal camarlingo per loro dispensa et immantenente andassero alla presenzia di
messer lo papa per contradiare il passamento de' cavalieri che veniano di
Cicilia in Toscana contra Firenze. Questi ambasciadori domandare il pagamento e
'1 signore no '1 fece dare, e'I camarlingo medesimo negò la pecunia, sicché li
ambasciadori non andaro e' cavalieri vennero. Della qual cosa questi
ambasciadori fuorono accusati, ma elli si levaro la colpa e la cagione e 3: m
la chosa 7: Af' die e rimuovere 9: M' do malilicio - i4 : m luna mette, M'
l'una si e mettere ^5: M' si e mettere m om. Kt - 20: Af inmanlenenente, it/'
incontanente 21 : m cliontradire - 23: M-m domandano 24: M m il segnore m e il
chamarlengo 25: m il nego di dare la pecliunia 26:m li anbasciadori 27 :M' si
levano miseria sopra '1 signore e sopra '1 camarlingo, i quali aveano la forza
e la seguoria e non fecero lo pagamento. 3. Mettere il fatto sopr' altrui è
quando l'accusato dice ch'egli quel fatto non fece e non ebbe colpa né cagione
5. del fare, ma dice che alcuno altro l'à fatto et ebbevi colpa e cagione,
mostrando che quell'altro sopra cui elli il mette dovea e potea fare quel male.
Verbigrazia : Catone e Catenina andavano da ROMA a Kieti, et incontrarono uno
parente di Catone, a cui Catellina portava grande maialo, voglienza per cagione
della coniurazione di Roma, e perciò in mezzo della via l'uccise. Né Catone non
avea podere di difenderlo, perciò eh' era malato di suo corpo, ma rimase
intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si n'andò inn altra
parte molto avaccio e celatamente. In questo mezzo genti che passavano [per la
via] per lo camino trovaro il morto di novello, e Catone intorno lui, sì
PENSARO CERTAMENTE CHE CATONE AVESSE FATTO IL MALIFICIO, e perciò fue esso
ACCUSATO di quella morte; ond'elli in sua defensione levava da ssè quel fatto
dicendo che fatto noll'avea e che no'l dovea fare, perciò ch'ERA SUO PARENTE, e
dicea che noU'arebbe potuto fare, perciò eh' elli era malato di sua persona. Et
così recava il fatto e LA COLPA SOPRA CATELLINA, perciò che '1 dovea fare come
di suo nemico e poteal fare, eh' era sano e forte e di reo animo. Et poi che
Tulio àe insegnato rimuovere lo peccato, sì insegnerà in questa altra partita
riferire il peccato. Ttillio dice che è riferire il peccato. 58. Riferire il
peccato è quando si dice che ssia fatto per ragione, in perciò che alcuno avea
tutto avanti fatto a liuì 30. ingiuria. i : m 7 al chamai-lingo 4-ò: M om.
ch'egli... ma dice m nel fare 5 : Af ' che un altro 9: VI om. grande 12 : m di
suo corpo malato 15: M^ gente J/' m om. per la via - 16: m il novello morto 18
: M' tn fu elgli - 1!) : M' chelgli facto 20-Sl : m avea nel dovea fare o?n. e
dicea che Jlf ' ohe noi potea fare ~ ohi. elli 23: m pero chelli dovea fare 25:
M-m om. si M' insegna 26: M' jxirte M-m refrenare (sempre) : vi pero che
da\anti Le parole per la via sono con tutta probabilità una glossa o una
variante di per lo camino; infatti mancano in codici delle due famiglie. Lo sponitore.
Dice Tullio che riferire il peccato è allora quando l'accusato dice ch'elli àe
fatto a ragione quello di che elli é accusato, perciò e' a Uui fue prima fatta
tale ingiuria che dovea a rragione prendere tale vengianza, sì come apare neir
exemplo d' Orestes, che fue accusato della morte di sua madre, et esso dicea
che ll'avea morta a ragione, perciò che primieramente avea ella fatta a llui
ingiuria, cioè ch'avea morto il padre d' Oreste; e di questo nasce cotale
questione se Oreste fece quel fatto a ragione o no. Et poi che Tullio àe
insegnato riferire lo peccato, sì insegnerà ornai che è comparazione. CICERONE
dice che è comparazione. Comparazione è quando alcuno altro fatto si contende
cfie fue diritto et utile, e dicesi che quello del quale è fatta la riprensione
fue commesso perchè quell'altro si potesse fare. In questo luogo dice CICERONE
che quella questione è appellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à
fatto quello eh' è a llui apposto, i^er cagione di poter fare un altro fatto
utile e diritto. Verbigrazia : Marco Tullio, stando nel più alto officio di
ROMA, sentìo che coniurazione si facea per lo male del comune, ma non potea
sapere chi né come. Alla fine diede dell'avere del comune in grande quantitade
25. ad una donna la qiiale avea nome Fulvia, et era amica per amore di Quinto
Curio, il quale era sapitore del tradimento ; e per lei trovò e seppe dinanzi
tutte le cose in tale maniera eh' elli difese la cittade e '1 comune della
molt'alta tradigione. Ma alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo ma 2 : M'
allocta 4 : M' facla prima 5 : M' prenderne (ma L prendere) tale vendctla pare
6: M' dela sua madre 8: m prima J/' facto, m aliai fatto - iO: m om. El 14: M-m
quanto un altro 16: M' per quell'altro - 18: JW in questa parte 19: M-m che facto
26: M^ ora parteDce 28: M' dela mortalo lamente dispeso l'avere di Roma. Et
elli in defensione di sé dicea che quelle spese avea fatte per fare un altro
fatto utile e diritto, cioè per scampare la terra di tanta distruzione, e
quello scampamento non potea fare sanza 5. quella dispesa; e cosi mostra che '1
fatto del quale elli è ripreso fue fatto per bene. Et poi che Tullio àe detto
delle quattro parti della constituzione assùntiva, la quale è parte della
iudiciale sì come pare davanti nel trattato della constituzione del genere, sì
ridicerà elli brevemente sopra la questione traslativa, della quale fue assai
detto in adietro, per dire alcuna cosa che là fue intralasciata. Come Ermagoras
fue trovatore della questione translativa. Nella IV questione, la quale noi
appelliamo translativa, certo la controversia d'essa questione è quando si
tenciona a cui convegna fare la questione, o con cui od in che modo, o davante
a cui, per quale ragione, o in che tempo ; e sanza fallo tuttora è controversia
o per mutare o per indebolire l'azione. Et credesi che Ermagoras fue trovatore
di questa constituzione; non che molti antichi parlieri non l' usassero
spessamente, ma perciò che Ili scrittori 20. dell'arte non pensaro che fosse
delle capitane e non la misero in conto delle constituzioni. Ma poi che da llui
fue trovata, molti l'anno biasimata, i quali noi pensamo e' anno fallito non
pur in prudenzia;(i) che certo manifesta cosa è che sono impediti per invidia e
per maltrattamento. Questo testo di Tullio è assai aperto in sé medesimo, e
spezialmente perciò che della questione o constituzione translativa è assai
sufficientemente trattato indietro in i : M' l'avere del comune 3:3/' diiicto 7
utile - 4: M' non si pelea fare 7: M< om. assiintiva - 8: M' iuridiciale //:
M-m che ella l'uo translassala lS:M-m emargonis 13: M Uela quarta q. (e punto
ilnpn translativa) 15-1 (!: M' davanti cui M-m sanfa follia 19: M' parladori
23: M' cambiano - S4 : M' per mal. (1) La traduzione non è esatta, poicliè il
testo latino dice: quos non tamimprudentia falli indamus (res enim perspìcua
est) quam invidia atque óbtrectatione quadam inipediri. Si potrebbe proporre
per congettura non per imprudenzia ; ma non sembra contraddirvi il 8 -3 del
commento parlando di '' alquanti che non erano bene savi,, ? altra parte di
questo libro, e là sono divisati molti exempli per dimostrare come si tramuta
1' azione quando non muove la questione quelli che dee, o centra cui dee, o
innanzi cui dee, o per la ragione che dee, o nel tempo che . 5. dee. Z.Sicchè al
postutto in(i) questa translativa conviene che sempre sia : o per tramutare l'
azione in tutto, come appare indietro nell'exemplo di colui che risponde
all'aversario suo: « Io non ti risponderò di questo fatto né ora né giamai »; e
così in tutto tramuta l'azione dell'aversario etc. O é per indebolire l'azione
in parte ma non del tutto, si come appare nell' exemplo di colui che risponde
all' aversario suo : « Io ti risponderò di questo fatto, ma non in questo
tempo» o «non davante a queste persone». Et dice Tullio che Ermagora fue
trovatore della translativa constituzione, cioè che Ha mise nel conto delle
quatro constituzioni sì come detto fue inn adietro. Et di ciò fue ripreso da
alquanti che non erano bene savi e che aveano invidia e maltrattamento contra lui.
Nota che invidia è dolore dell'altrui bene, e maltrattamento è dicere male
d'altrui. Tullio dice che davanti diceva exempli in ciascuna maniera di
constituzioni. Già avemo disposte le constituzioni e le loro parti; ma li
axempli di ciascuna maniera parrà che noi possiamo meglio divisare quando noi
daremo copia di ciascuno de' loro argomenti; perciò 25. ch'allotta sarà più
chiara la ragione d'argomentare, quando l'exemplo si potrà a mano a mano
aconciare al genere della causa. Vogliendo Tullio passare al processo del suo
libro, brievemente ripete ciò eh' à detto avanti, dicendo che dimo2: M-m si
traclava 3: M^ che dee conLra cui dee ~ 6: M come pare 8: M' non ti rispondo
iO: M-m Oo, M' Onde M imparte m non in tutto H : M' pare 13 : Mi dinanzi a ([.
14: M translatore, m traslatotore 15: M^ìa conto 17: 3f dalquanti 18 : M-m male
tractamento con altrui 21: M-m construclioni 22: M exposte le e. 7 loro parti
24: Mi di loro argomenti 25: M' de l'argomentare 26:m della cosa 29: M ke
detto, m che detto Jlf ' dinanzi (1) L'essere attestato in da tutti i codici
rende esitanti a toglierlo, come la sintassi e il senso sembrano richiedere.
Forse si può sottintendere dal periodo precedente la parola questione : "
conviene che sia questione in questa translativa „ ecc. strato à che sono le
constituzioni e le loro parti, ma in altra parte porrà certi exempli in
ciascuno genere delle cause, cioè nel deliberativo e nel dimostrativo e nel
iudiciale, quando ti'atterà il libro di ciascuno in suo stato. E da cciò si
parte il conto e torna a trattare secondo che ssi conviene all' ordine del
libro per insegnamento dell' arte. Qual cai/sa sia simpla e quale congitmta.
Poi eh' è trovata la constituzìone della causa, ìmmantenente ne piace di
considerare se Ila causa è simpla o congiunta. Et s'ella è congiunta, si
conviene considerare se ella è congiunta di piusori questioni o d'alcuna
comparazione. Apresso al trattato nel quale Tullio àe insegnato trovare le
constituzioni e le sue parti, si vuole insegnare qual causa sia simpla, cioè pur
d'uno fatto e qiiale sia congiunta, cioè di due o di più fatti, e quale sia
congiunta d'alcuna comparazione, e di ciascuna dice exemplo in questo modo :
Della causa simpla. Simpla è quella la quale contiene In sé una questione
assoluta in questo modo: « Stanzieremo noi battaglia contra coloro di Corinto o
non ? ». Dice CICERONE che quella causa è simpla la quale è pur d'uno fatto e
che non è se non d'una questione solamente. Verbigrazia : La città di Corinto
non stava ubidiente a Roma, onde i consoli di Roma misero a consiglio se
paresse 2 : M-m om. parte m delle cose 4-5 : J/' Et di ciò si diparte l'autore,
m 7 accio 8: M mantenente, m inmantanento 9: m simplice (sempre cos'i) M'
sedella li: M-m compi^ratione 13: M' il tractato 15: M (|ualcosa, «i quale chosa
/*: M< l'exeniplo 21: M' m (pielli 25 : vi iliinn chosa SO : M-m <m.
stava A/' ali Romani loi-o di mandare oste a fai"e la battaglia centra
loro, o no. Et così vedi che causa simpla è pur d'una questione del sì o del
no. Della causa congiunta. 5. 64. Congiunta di piusori questioni è quella nella
quale sì dimanda di piusori cose in questo modo: « È Cartagine da disfare da
renderla a' Cartagiartesi, o è da menare inn altra parte loro abitamento ? Poi
che Tullio à detto della causa simpla, sì dice della congiunta, dicendo che
quella causa è congiunta nella quale àe due o tre o quattro o più questioni.
Verbigrazia : I Romani vinsero a forza d'arme la città di CARTAGINE, et erano
alcuni che diceano che al postutto si disfacesse; altri diceano che Ila cittade
fosse renduta agli uomini della terra, altri diceano che Ila cittade si dovesse
mutare di quel luogo et abitare in altra parte. E così vedi che questa causa è
congiunta di tre questioni che sono dette. Della causa congiunta di
comparazione. Dì comparazione è quella nella quale contendendo si que stiona
qual sia il meglio o qual sia finissimo, in questo modo : « È da mandare oste
in Macedonia contra Filippo inn aiuto a' compagni, è da tenere in Italia per
avere grandissima copia di genti contra Anibal ? Poi che Tullio avea detto
della causa la quale è congiunta di piusori questioni, sì dice di quella causa
eh' è congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o i : M-m o fare 2
: M^ om. Et Jlf om. b 5 : M' om. questioni 6 : m di più sore 7 : M' da. rendere
a Cartaginesi 12 : m due tre o quattro questioni J3: m per forza om. la cittade
di J4: M' elio a! postutto diceano cliella si disfacesse 17: M-m om. che 18: m
essere coniunta di tre (luestioni dette 21: 3/' o quale finissimo 22: M'
incontro a Filippo 28: M-m di due, di tre m om. o di quattro (1) Certamente il
traduttore ha frainteso il latino an eo colonia deducatur. di più cose, nella
quale si considera qual partito sia il migliore de' due o di tre o di più, e se
tutti sono buoni e l'uno migliore che 11' altro, per sape];e qual sia
finissimo, cioè il sovrano di tutti. Verbigrazia : I Romani aveano mandata oste
in Macedonia contrà Filippo re di quello paese, et in quello medesimo tempo
attendeano alla guerra d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni
savi di Roma diceano che '1 migliore consiglio era mandare gente in Macedonia,
per attare l'altra loro oste la quale 10. era in questa contrada; altri diceano
che maggior senno era di ritenere la gente in Italia, per adunare grandissima
oste contra Anibal ; e così contendeano qual fosse il migliore o '1 finissimo
partito : o tenere o mandare la gente. Della contraversia inn iscritto et in
ragionamento. 15. 66. Poi è da pensare se Ila controversia è in scritta o è in
ragionamento. Lo sponitore. 1. Apresso ciò che Tulio à dimostrato qual causa è
simpla e quale è congiunta e quale di comf)arazione, sì vuole 20. fare
intendere quale contraversia nasce et aviene di cose e di parole scritte, e
qual nasce pur di ragionamento, cioè di dire parole e di cose che non sono
scritte ; e cosi vuole CICERONE aj)ertamente insegnare per rettorica ciò e'
altre de' dire a ciascun ponto di tutte le cause che possano inter 25, venire ;
e perciò dicerà della scritta per sé e del ragionamento per sé, e di ciascuno
partitamente in questo modo : Della contraversia che nasce di cose scritte. 67.
Contraversia inn iscritta è quella che nasce d'alcuna qua litade di scrittura
Ce. XIII). Et certo le maniere di questa che 30. sono partite delle
constituzioni sono cinque : Che talvolta pare che Ile i-2: m sia ihigloru ili
lUie ecc. il/' o Ire o iiifi •/: iV/' ohi. cion il sovrano 5: M'-L (li i|iielli
del paoso, S di c|iielli paesi 7: m om. ad oste * : hi elio mogio iO: m J/i in
ipiella contrada il : M' om. di m a rilenore gente 12 : M contra nibal, i»
contro ad Anibal 15: M-m e scripla, If' e in scriplo o in ragionamento: M-m
i|ual cosa 19: m quale e 22: M-m om. dire e che non sono scritte 23: M'
mostrare - 24: m possono 25: M'E cosi 29: M da. questa 30:M' dale constilutioni
parole medesimo iU siano discordanti dalla sentenzia dello scrittore ; e
talvolta pare che due legi o più discordino intra sé stesse; e talvolta pare
che quello eh' è scritto signiffichi due cose o più ; e talvolta pare che di
quello ch'è scritto si truovi altro che non è 5. scritto ; e talvolta pare che
ssi questioni in che sia la forza della parola, quasi come in diffinitiva
constituzione. Per la qual cosa noi nominiamo la prima di queste maniere di
scritto e di sentenzia; il secondo appelliamo di legi contrarie, la terza
apelliamo dubiosa, la quarta appelliamo dì ragionevole, la quinta apelliamo
diffinitiva. Poi che CICERONE à dimostrato qual causa sia pur d' un fatto o di
più, immantenente vuole dimostrare qual contraversia è in scritta e quale in
ragionamento; et in questo dice primieramente di quella ch'è inn iscritto, cioè
che 15. nasce d'alcuna scrittura. Et questo puote essere in cinque modi. Il
primo modo è appellato di scritto e di sentenza, pei'ciò che Ile parole che
sono scritte non pare che suonino come fue lo 'ntendimento di colui che Ile
scrisse. Verbigrazia: Una lege era nella cittade di Lucca, nella quale erano
scritte queste parole: « Chiunque aprirà la porta della cittade di notte, in
tempo di guerra, sia punito nella testa ». Avenne che uno cavaliere l'aperse
per mettere dentro cavalieri e genti che veniano inn aiuto a Lucca, e perciò
fue accusato che dovea perdere la testa secondo la legge scritta. L'accusato si
difendea dicendo che Ila sentenzia e lo 'ntendimento di colui che scrisse e
fece la legge fue che chi aprisse la porta per male fosse punito ; e cosi pare
che Ile parole scritte non siano accordanti alla sentenzia dello scrittore, e
di ciò nasce controversia intra loro, se si debbia tenere la scritta o la
sentenza. La seconda maniera è apiiellata di contrarie leggi, perciò che 1 : M'
m medesime m dalle sententie 2: me téilora -- M' si discordino 3: M' significa
4: M-m o talvolta M' che nono che scripto 6: M-m nm. in A/' mdilTìnitiva
([uestione 11: M-m qual cosa 13: M-m e Sbripta - m e in ragionamento 14 : m
primamente 18 : M om. fue 20: M ai)iira, m apira 21 : M-m om. in tempo di
guerra M' si sia punito della testa 23: M' si difende 30: m se si dee M' lo
scritto 31 : M' om. maniera (1) Cfr. p. 46, 1. 30: nai medesimo. pare che due
leggi o più discordino intra sé stesse. Verbigrazia : Una legge era cotale, che
chiunque uccidesse il tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse. Et
nota che tiranno è detto quelli che per forza di suo 5. corpo o d'avere o di
gente sottomette altrui al suo podere. Un'altra legge dice che, morto il
tiranno, dovessero essere uccisi cinque de' pili prossimani parenti. Or avenne
che una femina uccide il suo marito, il quale era tiranno, e domanda al senato
per guidardone e per nierito un suo figlio. LA PRIMA LEGGE concede che ssia
dato, l'altra comanda CHE SIA MORTO. E così sono due leggi contrarie, e perciò
nasce questione se alla femina debbia essere renduto il suo figliuolo o se
debbia essere morto. La terza maniera è apellata DUBBIOSA, perciò che pare che
quel eh' è scritto SIGNIFICHI DUE COSE O PIU. Verbigrazia. Alessandro fa
testamento nel quale fa scrivere così. Io comando che colui eh' è mia reda dia
a Cassandro C vaselli d'oro e quali esso vorrà. Api^esso la morte d'Alessandro
venne Cassandro e domanda C vaselli al suo volere e che a llui piacessero. Dice
la reda. Io ti debbo dare que'ch'io vorrò. Et cosi di quella parola scritta nel
testamento, cioè, i quali esso vorrà, si è dubbiosa a intendere del cui volere
ALESSANDRO DICE; e di ciò nasce questione intra loro. La quarta maniera è
appellata RAGIONEVOLE, perciò che di quello eh' è discritto si truova e se ne
ritrae altro CHE NON E SCRITTO O DETTO. Verbigrazia : Marcello entra nella
chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe il crocifixo, e taglia le imagini di là
entro. E accusato, ma non si truova neuna legge scritta sopra così fatto
malificio, né convenevole non era che nne scampasse sanza pena. E perciò il suo
adversario ritraeva d'altre leggi scritte quella pena che ssi convenia a
Marcello ragionevolemente. La quinta maniera é appellata DIFFINITIVA, perciò
che pare che ssi questioni LA FORZA D’UNA PAROLA scritta, sicché conviene i :
M' si discordino - M stesso m tralloro - 5 : M^ di genti - 6-7: m L essere
morti - Jl/' om. de' 7 : M'-L una femina il suo marito.... uccise 9 : m e
merito 10: M' che le sia dato, l'altra leggie iS: m nasce controversia Mm sella
femina 13: m se dee 14-15: M' che lo scritto i6: Jtf' cos'i scrivere 1 7 : M-m
om. coUii eh' è 18: M' i quali 19: M' cento vaselli d'oro 20: J/' la rede. [o ti
voglio dare - m om. dare - S3: M' 7 cosi - S5: M' che scripto - S6 : M-m
Martello - S7 : M' San Piero 38 : M-m om. Fue accusato - /. trovava 29-30 : m
alcuna legge.... colalo maliflcio, e convenevole non era che scampasse 32 :M'
che si conviene Mm Martello che quella parola sia diffinita e dicasi il proprio
intendimento di quella parola. Verbigrazia : Dice una legge. Se '1 signore
della nave n'abandona per fortuna di tempo ed un altro va a governarla e scampa
la nave, sia sua. Avenne che una nave di Pisa venne in Tunisi e presso al porto
sorvenne sì forte tempesta nel mare, che '1 signore usce della nave et entra inn
una picciola barca. Un altro ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto là
entro che '1 mare torna in bonaccia, e la nave campa in terra. E perciò dicea
che la nave e sua secondo la legge, perciò che '1 segnore l'abandona et esso
l'avea difesa. Il segnore dicea che perch'elli entra nella picciola barca non
abandona perciò la nave ; e cosi era questione intra loro sopra questa PAROLA
dell'ABBANDONO della nave ; e per 15. sapere LA FORZA d'essa parola conviene
che ssi difinisca e dicasi il proprio intendimento. 6. Già à detto Tullio di
quella contraversia la quale è in iscritta e delle sue cinque parti. Omai
dicerà di quella contraversia eh' è in ragionamento. 20. Della contraversia la
quale nasce di ragionamento. Ragionamento è quando tutta la questione è inn
alcuno argomento e non inn ìscrittura. Quella è contraversia in ragionamento
nella quale non si considera alcuna cosa che ssia per scrittura, ma prendesi
argomento e pruova per parole FUORI DI SCRITTA a dimostrare che dee essere
sopra quella questione. Verbigrazia : Dice Anibaldo che Italia è migliore paese
che Frància. Dice Lodoigo che no. E di ciò era questione ti'a lloro, e perciò
conviene recare argomenti in ragionando per mostrare che nne dee essere, e
questo senza scritta acciò che sopra questo no è legge né scrittura. 3: m om.
della nave M' labandona S : M' de Pisani M-m di Tunisi 6 : M sovenne, m venne,
L sopravenne M^ di mare 7-8 : M' usci di fuori un altro corse a governare la
nave 9: m campo intera 11: m et egli 12: m pichola nave 13: 3f' non avoa
abbandonata perciò 1. n., m non pero elli abandonava la grande 14: M' di questa
parola, m sopra questo abandono 15: M-m la forma m ripete conviene 16: m dicha
22: m e none 24 : M' Qurlla controversia 6 in rag. 28: M' Anibal 29 : m
lodovico, M'-L loodico, S dice l'altro, dico che no 31 : m 7 questo e senza
scritta Delle IV parti della causa. Adunque, poi che considerato è il genere
della causa e cognosciuta la constituzione et inteso quale è simpla e quale è
congiunta, e veduto quale contraversia è di scritto e di ragionamento, 5. ornai
fie da vedere quale è la quistione e quale è la ragione e quale è il
giudicamento e quale è il fermamento della causa ; le quali cose tutte
convengono muovere della constituzione. In questa parte dice CICERONE che poi ch'elli
à insalo, gnato che è lo genere delle cause, cioè dimostrativo e diliberativo e
giudiciale, et à fatto cognoscere che è la constituzione, cioè e qual sia
congetturale e quale diffinitiva e quale translativa e quale negoziale, et à
fatto intendere quale è simpla e quale congiunta, cioè qual contiene in sé una
questione o più, et à fatto vedere qual contraversia è inn iscritto e quale in
ragionamento, sì come tutti questi insegnamenti paionsi adietro là dove lo
sponitore l'à messo inn iscritto e trattato di ciascuno sufficientemente, ornai
vuole CICERONE procedere e dimostrare apertamente qual sia 20. la questione e
la ragione e '1 giudicamento e '1 fermamento della causa ; le quali cose tutte
muovono e nascono della constituzione, ciò viene a dire che la constituzione è
il cominciamento di queste cose. Questione è quella contraversia la quale
s'ingenera del contastamento delle cause in questo modo : « Non facesti a
ragione Io feci a ragione». Questo è contastamento delle cause nella quaied) 2:
m om. 63: m om. cognosciuta M intesto Af' qual congiunta 4: M-m quale
conti'aversia <ii scripto m o di ragionamento 5: A/' oggimai sarà 5-6: M' ha
sulo il primn b M-m il confermamento 6-7: M-m 7 tucte i|UOSte cose le quali
conv. 9: M chelle, m chebbe asengnato, M' che elgli 10: M' diliberativo,
ilimostrativo i2: in cioè qual sia 13: M-m a facto cognoscere 14: m quale
simplice - 17: M' amaeslramenti M paio sàdietro, Mi-L jiaiono in adiotro 18: M
7 tracio 22: M-m um. ciò V. a d. e. la constituzione 25 : M -L Di (|uistione m
si genera 26-27 : M' de cause M-m om. a M' il contrastamento ~ L nele quali, S
nel quale (1) Evidentemente dovrebbe dire nel quale; ma appunto per questo non
saprei spiegare come alterazione volontaria né come svista il nella quale (dato
tanto da M quanto da ikf'), e lo crederei piuttosto dovuto a una distratta
traduzione del latino Causarum haec est conflictio, in qua constitiUio constai.
è la constituzìone, e di questa nasce contraversia la quale noi appelliamo
questione, in questo modo: se fatto l'à a ragione o no. Lo sponitore. 1. Nel
testo il quale è detto davanti insegna Tullio 5. cognoscere e sapere che è la
questione; et in ciò dice che questione è quella che ssi conviene considerare
sopr' a cciò di che le parti tencionano, e così s'ingenera del contastamento
delle parti, cioè di quello che 11' uno appone e l'altro difende. Verbigrazia :
Dice la parte che appone all'altra . 10. « Tu non ài fatta i-agione, che tu
prendesti il mio cavallo »; e la parte che ssi difende risponde e dice : « Si,
feci ragione Or è la causa ordinata, cioè che ciascuna parte à detto, l'una
accusando e l'altra difendendo, e questa è appellata constituzione. Sopra
questo si conviene sapere se 15. n'accusato à fatta ragione o no. Questo è
quello che Tullio appella questione. Dunque potemo intendere che quando le
parti anno detto e quando l'accusatore àe apposto in. contra l'aversario suo e
l'accusato àe risposto o negando o confessando, sì è la causa cominciata et
ordinata ; e però 20. infine a questo punto èe appellata constituzione, cioè
viene a dire che Ila causa è cominciata et ordinata ; da quinci innanzi, se
l'accusato niega e diféndesi, si conviene che ssi connosca se Ila sua
defensione è dritta o no, cioè quando dice : « Io feci ragione » conviensi
trovare s' elli à fatto 25. ragione o no, e questa è appellata questione. 3. Et
perciò che la scusa dell'accusato, a dire pur così semplicemente: « Io feci
ragione », non vale neente se non ne mostra ragione per che e come, insegnerà
Tullio immantenente che ragione sia. 30. Di ragione. 71. Ragione è quella che
contiene la causa, la quale se ne fosse tolta non rimarrebbe alcuna cosa in
contraversia. In questo modo mo sterremo, per cagione d'insegnare, un leggieri
e manifesto 4: M-m nel quale - 6: M' 6 quella m sopra quello 10: M' facto
ragione i5: M dopo ragione ripete che tu prendesti il mio cavallo 13: m luna
luna M' {(uesto 15: M^ m facto 15-16: M' Et questo.... comune questione 17: M-m
posto 19: M S l'accusa - SO: M' m ciò viene a dire SS: M-m om. sì S4: M' facta
S5: M' e facta questione S6: M-m om. Et - l'accusa S7 : M' m se non mostra S8 :
M' si insegnerà 31 : m se non fosse 3S : M' non vi rim. 33: M-m d'insegnare
leggere manifesto exemplo exemplo. Se Orestres fosse accusato di matricidio et
elli non dicesse: « Io il feci a ragione, perciò eli' ella avea morto il mio
padre », non avrebbe difensione; e se non l'avesse non sarebbe contraversia.
Dunque la ragione dì questa causa è eh' ella uccise Agamenon. Lo sponitore. Si
come appare nel testo di Tulio, ragione è quella clie sostiene la causa in tal
modo che, chi non assegna e mostra la ragione della sua causa, certo non sarà
controversia, cioè non à difensione; e cosi la causa dell'aversario IO. rimane
ferma e non à contastamento. 2. Verbigrazia: Vero fue che Ila madre d'Orestres
uccise Agamenon suo marito e padre d'Orestres ; per la qual cosa Orestres, per
movimento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre. Fue accusato di
matricidio, et elli confessa, ma dice che '1 15. fece a ragione; se non dice
perchè e come, la sua difensione non vale neente, e se la difensione non vale
neente non è contraversia né questione. 3. Ma se dice cosi : « Io lo feci a
ragione perciò ch'ella uccise il mio padre », sì mantiene la sua causa e vale
la sua difensa, mostrando la 20. ragione e la cagione perch'elli fece il
matricidio. Et poi che CICERONE à dimostrato che è questione e che ragione, sì
dimosterrà che è giudicamento. Giudicamento è quella contraversia la quale
nasce de lo 'nde25. bolire e del confirmare la ragione. Et in ciò sia quel
medesimo exemplo della ragione che noi aven detta poco davanti : « Ella avea
morto il mio padre ». Dice il savio: « Sanza te figliuolo convenia eh' essa
madre fosse uccisa ; perciò che 'I suo fatto si potea bene punire sanza tuo
perverso adoperamento ». (e. XIV) Di questo 30. mostramento della ragione nasce
quella somma controversia la quale noi appelliamo giudicamento, la quale è
cotale: se fosse diritta cosa che Orestres uccidesse la madre, perciò ch'ella
avea morto il suo padre. i : m di martecidio 2 : M-m om. ella 4 : M-ni
chelluccise a ragione 7-8 : M' mostra 7 assegna ragione 10: M' m 0111. Vero 13:
M' om. cioè.... di matricidio 16: M-m om. e so la difensione non vale neente
(A/' ef))unge neente) 19: m difesa 20: m om. El 22: M-m dimostra 24: M' om.
quella M-m ohi. nasce 25: M-m in ciò a quel med. 26: M' aveino dello 27 : M'
Dice l'avversario 2S: M-m si potrà 29 : M' sanila il tuo p. 31 : M' se fu
Cicerone dice e insegna che è ragione; et perciò che della ragione nasce il
giudicamento, sì tratta egli del giudicamento per dimostrare come e quando et
in che 5. luogo sia. Verbigrazia : L'accusato assegna ragione perchè fece quel
fatto e conferma la sua difensa per quella ragione. L'accusatore dice contra
questa difensa et indebolisce la ragione dell'accusato, linde di ciò che
conferma l'uno et inforza la sua difensione e l'altro la infievolisce 10. e
falla debole, sì ne nasce una questione la quale è appellata giudicamento,
perciò che quando ella è provata si puote giudicare. 2. Et in ciò sia quel medesimo
exemplo di sopra : Orestres assegna la ragione per la quale elli uccise
Clitemesta sua madre: perciò ch'ella avea morto 15. Agamenon ; e così conferma
la sua defensione. Ma contra lui dice l'aversario. Tu non la dovei punire né
non convenia ad te punirla di ciò, ma altre la dovea e potea punire sanza tua
perversità, e sanza tua così crudele opera, come del figliuolo uccidere sua
madre. Et così indebolia la ragione d' ORESTE e mettealo in vituperoso
abominio, e sopra questo, cioè sopra '1 confermamento e sopra lo 'ndebolimento
della ragione, nasce questione la quale è appellata giudicamento perciò che ssi
puote giudicare. 3. Et omai à detto Tullio che è questione e che è ragione e
che è 25. giudicamento ; sì dicerà che è fermamento. Del fermamento. 73. Fermamento
è il firmissimo et appostissimo argomento al giudicamento, come se Orestres
volesse dire che ll'animo il quale la madre avea contra il suo padre, quel
medesimo avea contra lui 30. e contra le sue sorelle e contra il reame e contra
l'alto pregio della sua ingenerazione e della sua familia, sicché in tutte
guise doveano i suoi figliuoli prendere in lei la pena. 2: M-m om. è 3-4: M-m
che deliboragione nasce del iuilicamento por dimostrare ecc. 5: M' om. sia M'
assegno 7:3/' quella 3/ difesa 8-10: M' che rimo conferma 7 inforfa la sua
ragione.... fa debole M-m isforca m la indebolisce IS : m a quello med. 13: M'
assegna ragione 16: M 7 non convenia, m e non si convenia 17: m 7 convenia
punirla 18-19: M' om. tua e del m la sua madre 21-22: M< sopra confermamento
dela ragione 23: m om. Et 24: M i ohe ragione, m nm. 27: M-m om. è 30: M' \n
serocchie.... l'altro pregio Poi che Tullio aè dimostrato che è questione e
ragione e giudicamento, sì dice in questa parte che è fermamento. E certo lo
'nsegnamento suo è molto ordinata 5., mente : che primieramente è questione
intra Ile parti sopr'alcuna cosa la qual'è aposta ad uno e detto sopra lui che
non à fatto bene o ragione, et elli in sua difesa dice ch'à fatto bene o
ragione, e di questo nasce la questione, cioè se esso à fatto ragione o no.
Apresso dice l'accusato 10. la cagione per la quale elli avea ragione di fare
ciò, e questa è appellata ragione. Et quando l'accusato à detta la ragione, il
suo adversario dice contra quella ragione et indebolisce quello dove l'accusato
ferma la ragione, e questa è appellata giudicamento. 15 Fermamento. Poi che Ila
questione del giudicamento è nata, si conviene che ll'accusato tragga innanzi i
fermissimi argomenti bene apposti contra il giudicamento. Verbigrazia :
Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella avea morto il padre, e così
assegna la ragione perch'elli l'uccise; il suo adversario mettendolo in
questione di giudicamento dice c'a llui non si convenia ma ad altrui, e così
indebolisce la sua ragione. 3. Or conviene che Orestres dica manifesti
argomenti, e dice così. Tutto altressì coni' ella 25. uccise il suo marito mio
padre, così avea ella conceputo d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea
ingenerate di suo corpo, e mettere il nostro regno a distruzione et abassare
l'altezza del nostro sangue, e mettere in periglio la nostra famiglia ». Ed in
questi argomenti accoglie fermissima defensione della sua ragione contra il
giudicamento, e dice: « Perciò ch'ella fece così disperato maleficio et 2: M-m
ragione 7 ((iiestione (m nm. 7) 3: M' s\ dicerà (mn S dico) 5: M-m questioni 6:
M' sopralcuna causa la qua'.e appella ad uno 7 detto contra lui 8: Mhii om.
ch'à fatto bene ragione 9: M' se elgli, m selli M' a l'acto a ragione H : M\ m*
detto i3;Jf fermava i4: m questo e apellato - 17:,AV nelaccusalo trarre 18: M»
appostati - i9: M' clielgli uccise.... chella uccise SI: A/ niente dolo - S3:
M' om. sua JW i fermissimi argomenti 29: M 7 dinquesti, »i 7 in <juesti, 3/'
7 di questi La rubrica di M (clie di regola seguo) ha qui ludicamento, certo
per effetto della parola precedente. avea pensato di fare cotanta crudelitade,
sì fue al postutto convenevole che Ili suoi propii figliuoli ne le dessero pena
e non altri >. Et questi sono fermissimi argomenti ne' quali dice che '1
fatto della madre fue crudele, superbo e mali5. zioso. 4. Et nota che quel
fatto è appellato superbo il quale alcuno adopera centra' maggiori, sì come
quella fece uccidendo il re Agamenon. Et quello è crudele fatto il quale alcuno
adopera contra' suoi, sì come quella fece contra la sua famiglia. Et quello è
malizioso fatto il quale è molto 10. fuori d'uso, sì com'è contra naturale
usanza ch'alcuna femina uccida il suo marito e figliuoli e distrugga un alto
reame. 5. Onde questi fermissimi argomenti e' quali l'accusato mette davanti
per confermare le sue ragioni et incontra lo 'ndebolimento che facea
l'aversario, sì è ap 15. pellato fei'mamento. In quale constiti izione non à
gindicamento. Et certo neil'altre constituzioni si truovano giudicamenti a
questo medesimo modo ; ma nella congetturale constituzione, perciò che in essa
non s'asegna ragione (acciò che '1 fatto non si concede) 20. non puote
giudicamento nascere per dimostranza di ragione; e però conviene che questione
sia quel medesimo che giudicamento: « fatto è, nonn è fatto, sé fatto o no ».
Che al vero dire, quante constituzioni lor parti sono nella causa, conviene che
vi si truovino altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e fermamenti. 25.
Lo sponitore. 1. In questa parte del testo dice Tullio che, sì come per lui è
stato detto davanti, così si possono trovare giudicamenti inn ogne
constituzione; salvo che nella constituzione congetturale, della quale è molto
trattato inn 30. adietro, perciò che in essa l'accusato nonn asegna (i) neuna 1
: Af' avea pensala cotanta crudeltade 2: M nelle, ÌU-L lene dessero 3 : Mi
lorlissimi argomenti 5: m nel quale 7 : M Tde agnzenò {sic), m i ro Agamenon m
ohi. è 8: M' luomo adopera 9: m om. è ambedue le volte il : A/ un altro
IS-i^-.M' om. et, 7» e contro allo i7 : M' ì giudicamenti 22: Mi se facto e. no
~ quante questioni 26 : m om. che 28 : vi nella questione (1) Si potrebbe anche
leggere non n' asegna; ma in M' è scritto qui e qualche riga più sotto non
assegna, mentre la grafia col doppio n 6 frequente in M (cfr. pag. seg., 1. 6,
nonn abisogna). ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere
giudicamento. 2. Verbigrazia : Uno accusò Ulixes ch'elli avea morto Aiaces.
Dice Ulixes : « Non feci » et cosi nega quel fatto che gli è apposto. Et perciò
non conviene che sopra '1 5. suo negare assegni alcuna ragione. Et poi che nonn
asegna ragione, il suo adversario nonn abisogna d' indebolire la ragione
dell'accusato. Dunque nonde puote nascere giudicamento ; e perciò conviene che
in queste constituzioni congetturali la questione e lo giudicamento siano ad
una 10. cosa: che là ove dice l'accusatore « Tu uccidesti » et Ulixes dice «
Non uccisi », la questione e '1 giudicamento fie sopi-a questo, cioè se
ll'uccise o no. 3, Poi dice CICERONE che quante constituzioni à una causa,
altrettante v'à questioni e ragioni e giudicamenti e fermamenti. Dell'altre
parti della causa. 75. Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da
considerare ciascuna parte della causa ; eh' al ver dire non si dee pur pensare
prima ciò che ssi dee dicere in prima ; perciò che se le parole che sono da
dire in prima tu vuoli inforzatamente congiungere 20. et adunare colla causa,
conviene che d'esse medesime traghe quelle che sono da dire poi. Sponitore. 1.
Or dice Tullio : Dacché '1 parliere connosce la causa et àe inteso ciò eh' elli
n' àe insegnato per tutto il libro 25. insine a questo luogo, quando alcuna
causa viene sopra la quale convegna che dica, sì dee il buono parliere pensare
con molta diligenzia e considerare nella sua mente, anzi che cominci a dire,
tutte le parti della sua causa insieme e non divise. Che s'elli pensasse in
prima pur quella che 4: m chelli fu aposto - 6: M' non a bisogno, m non a
ragione 8: M-m om. e 9: M-m la constituzione i 1 : M' sie sopra q., m fla i3:
M-m otn. v'à 17: M-m e al ver dire 18: M' in prima quello M-m om. dicere S che
è da dire inprlma 19: M-m om. in prima M' tu le vuoigli M isforcatamonte, m
sforfatamenie congiungnerle 20: M' i raunaro M-m elio esse medesime S4: M'-L
tutto il titolo, i' tutto il telo (tic) S8: i/' causa sua S9: M' pur quello che
sia da dire (Z. aggiunge in prima) prima sia da dire e non pensasse ch'elli
dovesse dire poi, senza fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo
et il mezzo dalla fine. 2. Ma chi accorda bene le sue parole colla natura della
causa et in innanzi pensa che ssi convenga dire davanti e che poi, certo la
comincianza fie tale che nne nascerà ordinatamente il mezzo e la fine. Tutto
altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima pur della lana, ma considera
tutto il drappo insieme anzi che Ilo cominci, e de' aver (D la lana e '1
coloi*e e la grandezza del drappo, e provedesi di tutte cose che sono mistieri,
e poi comincia e fae il drappo. Di VI parti della diceria. Per la qual cosa,
quando il giudicamento e quelli argomenti che bisognano di trovare al
giudicamento saranno diligente15. mente trovati secondo l'arte e trattati con
cura e con cogitatione, ancora sono da ordinare l'altre parti della diceria, le
quali pare a nnoi ai tutto che siano sei : Exordio, narrazione, partigione,
confermamento, riprensione e conclusione. Sjtoììitore. 20 _ I. Poi che Tullio
sufficientemente à dimostrato la chiarezza delle cause et àe comandato che '1
buono parliere innanzi pensi tutte le parti della causa per accordare il mezzo
e la fine colla comincianza del suo dire, si che sia l'una parola nata
dell'altra, sì dice esso medesimo che poi 25. che tutto questo eh' è fatto,(3)
e trovato il giudicamento della 1 : M' che sia da dire poi 4: M' m om. in 5 :
M' la incomincianca, m il cominciamento 6: M' che nostera (corr. moslera), L
mosterra, S mostra 7: if ' in prima 9-10: M' anzi che cominci.... accio
mestieri m sono mestiere 11: M^ i\ suo drappo ordinatamente, L affare il s. d.
ordinatamente 14 : M^ che si bisognano -17: M' che sono sei.... petitione
invece di partigione 20 : M^ a sofficientemente dem. S3: M' el Dne con la
incomincianpa M-m om. sì 24: M om. nata 25: M^-L questo e facto (1) Tutti i
codici hanno 7 daver 7 davere, che può esser nato facilmente dall'aver preso il
de' per la preposizione di. Tanto il senso quanto la sintassi sarebbero poco
chiari leggendo e d'aver. (2) Preferisco la lezione di M perchè non è probabile
che la parola ordinatamente, che si trovava in evidenza in fine al discorso,
sia sfuggita al copista. Forse l'aggiunta If' (L) fu determinata AaW
ordinatamente di poche righe prima. (3) Cioè " dopo che tutto questo è
fatto „ . Per il che pleonastico cfr. p. 20, n. 2, p. 21, n. 1 e qui dopo p.
99, 1. 18. Le lezioni di M^ e di L si spiegano con quelle di M-m, ma non
viceversa. causa e ciò che vi bisogna secondo i comandamenti di rettorica (i
quali si convengono trattare con molto studio e con grande deliberazione) ;
anco sopra tutto questo si convengojio pensare l'altre parti della diceria,
delle quali non 5. è detto neente, e sono sei ; e di ciascuna per sé tratterà
il libro interamente. Lo sponitore chiarisce tutto ciò eh' è detto inn adietro.
Et sopra questo punto, anzi che '1 conto vada più innanzi, piace allo sponitore
di pregare il suo porto, per cui amere è composto il presente libro non sanza
grande afanno di spirito, che '1 suo intendimento sia chiaro e lo 'ngegno
aprenditore, e la memoria ritenente a intendere le parole che son dette inn
adietro e quelle che seguitano per innanzi, sì che sia, come desidera,
dittatore perfetto e 15. nobile parladore, della quale scienzia questo libro è
lumiera e fontana. 3. Et avegna che '1 libro tratti pur sopra controversie et
insegni parlare sopra le cose che sono in tendone, et insegna cognoscere le
cause e Ile questioni, e per mettere exempli dice sovente dell'accusato e dell'
ac 20. cusatore, penserebbe per aventura un grosso intenditore che Tullio
parlasse delle piatora che sono in corte, e non d'altro. 4. Ma ben conosce lo
sponitore che '1 suo amico è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e
vede la propria intenzione del libro, e che Ile piatora s'aparten 25. gono a
trattare ai segnori legisti ; e che rettorica insegna dire appostatamente sopra
la causa proposta, la qual causa no è pur di piatora né pur tra accusato et
accusatore, ma é sopra l'altre vicende, sì coinè di sapere dire inn ambasciarie
et in consigli de' signori e delle comunanze et in 30. sapere componere una
lettera bene dittata. 5. Et se Tullio dice che nelle dicerie intra le parti
sono le constituzioni e questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben si
dee pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le 1: M' Olii, vi S: vi
làlluro 3: M liberalione - M ancora, m aiicir 4 : m le IKirli 5: M-m oiii. per
sé 8-9: Mi cliel maestro.... più avanti iO: m questo libro i3: m mii. clie son
M' seguiranno i4: in per lo innanzi i8: vi insegni o»n. o dinanzi a per i9:m
exenpro 20: M-vi 7 penserebbe .?;: if' trattasse S2:m ha bene 24-2.^: Af si
pertegnono - m 7 a singnorì M-m le giustitio 26- M' appostamento M' in sapere
2M 7 nele comunanze, (L e dello), mi delle comunanze 31 : m trailo parti - 32:
M-m im. e ragioni, e l'ermamento m ohi. si genti insieme di diverse materie,
nelle quali adiviene sovente che ir uno ne dice il suo parere e dicelo in un
suo modo e l'altro dice il contrario, sì che sono in tencione ; e r uno appone
e l'altro difende, e perciò quelli che appone 5. contra l'alti-o è appellato
accusatore e quelli che difende èe appellato accusato, e quello sopra che
contendono è appellata causa. Onde se l’uno appone e l'altro niega, al postutto
di questo non puote nascere questione se non di sapere se quella cosa che niega
elli l'à fatta o detta o no. Ma quando l'uno appone e l'altro difende, sì è la
causa incominciata et ordinata tra lloro. Et questo è la constituzione della
quale nasce la questione, cioè se Ila sua difesa è a ragione o no; e poi
ciascuno contende come pare a llui per confermare le sue parole e per
indebolire quelle del'altro, sì come appare per adietro nel trattato della questione
e della ragione e del giudicamento e del fermamento. Onde non sia credenza
d'alcuno che, sì come dicono li exempli messi inn adietro, che ORESTE e
accusato in corte della morte di sua madre ; ma le genti ne contendeano intra
loro, che 11' uno dicea che non avea fatto né bene né ragione, e questo è
appellato accusatore, un altro dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto
bene e ragione, e questo è appellato nel libro accusato. De consiglieri. Così
aviene intra' consiglieiù de' signori e delle comunanze, che poi che sono
aserablati per consigliare sopra alcuna vicenda, cioè sopra alcuna causa la
quale è messa e proposta davanti loro, all'uno pare una cosa et all'altro pare
un'altra; e cosi è già fatta la constituzione della causa, 30. cioè eh' è
cominciata la tencione tra lloro, e di ciò nasce questione s' elli à ben
consigliato o no. Et questo è quello che Tullio appella questione. 9. Et perciò
l' uno, poi ch'elli àe detto e consigliato quello che llui ne pare, immante 2 :
M ndicc M' di.cela m in suo modo ~ 3 : M' in contentione ~ 4: M n lalti-o
appone, m laltio appone M-m quel 6: M quello che, m quello di che 7-9: m om. al
postutto.... che nioga M che quella cosa M' selgli la facta il : m cominciata
M' intra loro 7 questa 13: M-m è ragione - 16: M om. il 1" e 3° e, hì il
1" e S° 20 : m tralloro dicea chelli 21 : m o ragione 22: m ave fatto 25:
M' adiviene - mi tra cons. 27: M-m. e in essa 28: m davanti a loro M-m om. cosa
et 30: M' lantentione 31 : M-m selli alta consigliato m che allui nente assegna
la ragione per la quale il suo consiglio èe buono e diritto. Et questo è quello
che Tullio appella ragione. 10. Et poi ch'elli àe assegnata la cagione e la
ragione per che, si sforza di mostrare perchè s'alcuno consigliasse o facesse
il contrario come sarebbe male e non diritto ; e così infievolisce la partita
che è contra il suo consiglio; e questo è quello che CICERONE lappella
GIUDICAMENTO. Et poi ch'elli àe indebolita la contraria parte, sì raccoglie
tutti i fermissimi argomenti e le forti ragioni 10. che puote trovare per più
indebolire l'altra parte e per confermare la sua ragione ; e questo è quello
che Tullio appella fermamente. 12. Et certo queste quattro parti, cioè
questione, ragione, giudicamento e fermamento, possono essere tutte nella diceria
dell'uno de' parlatori, sì come appare in ciò eh' è detto di sopra. Et puote
bene essere la sua diceria pur dell'una, cioè pur infine alla questione,
dicendo il suo parere e non assegnando sopra ciò altra ragione. Et puote bene
essere pur di due, cioè dicendo il suo parere et assegnando ragione per che. Et
puote bene essere pur di tre, cioè dicendo il suo parere et assegnando ragione
per che et indebolendo la contraria parte. Et puote essere di tutte e quattro
sì come fue dimostrato di sopra. 13. Quest' è la diceria del primo parliere. E
poi ch'elli à consigliato e posto fine al suo dire, immantenente si leva 25. un
altro consigliere e dice tutto il contrario che àe detto colui davanti ; e così
è fatta la constituzione, cioè la causa ordinata, e cominciata la tenciouB ; e
sopra i loro detti, che sono varii e diversi, nasce questione, se colui avea
bene consigliato o no. Poi dimostra la ragione perchè il suo 30. consiglio è
migliore. Apresso indebolisce il detto e '1 consiglio di colui ch'avea detto
dinanzi da llui ; e poi riconferma il consiglio suo per tutti i più fermi
argomenti che può trovare. Adunque le predette quattro cose o parti possono
essere nel detto del primo parliere e nel detto 35. del secondo e di ciascuno
parlamentare. 14. Cosie usata 3-4: M' la ragione 7 la cagione.... clie s'olciin
6: M' a diriclo m la parie 8:m om Et - i5: M-m cagione, ragione ecc. i4: 3f'
d'uno y5:3f'pare i 6 : 3f-m om. cioè pur 17: m pero M' altre ragioni 18-19: M-m
ohi. pur ~ M-m in suo parere assengnanJo perche SO: M' il suo pare 21 : M^ la
contraria partita - SS: m di tulli e q. 25-26: Jlf' tutto il contrario di colui
ca detto davanti 27 : M' lunlcntione m la tencionc sopra S8: M' om. sono -- M 7
se colui 31-32: in rilennu 3/' il suo consiglio 33: M' ([uattro jiarti 33: M'
ciascuno che vuole parlamentare mente adviene che due persone si tramettono
lettere l' uno all'altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o inn
altro, nelle quali contendono d'alcuna cosa, e così fanno tencione. Altressi
uno amante chiamando merzè alla sua donna dice parole e ragioni molte, et ella
si difende in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce quelle del
pregatore. In questi et in molti altri exempli si puote assai bene intendere
che Ha rettorica di Tullio non è pure ad insegnare piategiare alle corti di
ragione, avegna che neuno possa buono advocato essere né perfetto (2) se non
favella secondo l'arte di rettorica. 15. Et ben è vero ohe Ilo 'nsegnamento
ch'è scritto inn adietro pare che ssia molto intorno quelle vicende che sono in
tencione et in contraversia tra alcune persone, le 15. quali contendano insieme
1' uno incontra l'altro; e potrebbe alcuno dicere che molte fiate uno manda
lettera ad altro nela quale non pare che tendoni centra lui (altressi come uno
ama per amore e fa canzoni e versi della sua donna, nella quale non à tencione
alcuna intra llui e la donna), é di ciò riprenderebbe il libro e biasmerebbe
Tullio e lo sponitore medesimo di ciò che non dessero insegnamento sopra ciò,
maximamente a dittare lettere, le quali si costumano e bisognano più sovente et
a più genti, che non fanno l'aringhiere e parlare intra genti. 16. Ma chi
volesse bene considerare la propietà d'una lettera o d'una canzone, ben
potrebbe apertamente vedere che colui che Ila fa o che Ila manda intende ad
alcuna cosa che vuole che 1: m adiviene - 3: M^ om. o inn altro ~ 6: m slorza 7
: m i molti 9: m in insegnare - M' piatire 10: M-m neuno buono advocato possa
essere perfetto 11: M della rectorica 13 : «i intorno a (pielle 15 : m
chontendono M' conlra.... 7 parebbo 16: Mi molte volte manda Inno lectere
alaltro, m molto volte uno manda lettere a un altro (ma ambedue nela (piale) 17
: M che contenda tencioni 18: 1/' per amore, fa e, L uno che ama per amore fa
e. 19: m tra lui 23: M-m om. et 24: m traile genti (1) Le parole inn altro, che
sembrano inutili, non possono essere un'aggiunta di copisti, ai quali invece
doveva venir fatto di ometterle, come in M* e in i.Dando a volgare il senso
limitato di volgare italico, si intende l'altro per gli altri linguaggi,
specialmente il provenzale e il francese. Brunetto vuol dire che la rettorica
di CICERONE non serve solo ai legisti, quantunque nessuno possa divenire
valente avvocato, e tanto meno perfetto, senza averla studiata. Questa è l'idea
espressa dalla lezione di ilf • ; con quella di M-m, più semplice a prima
vista, non si spiega la relazione fra buono e perfetto sia fatta per colui a
cui e' la manda. Et questo i)uote essere o pregando o domandando o comandando o
minacciando o confortando o consigliando ; e in ciascuno di questi modi puote
quelli a cui vae la lettera o la canzone 5. o negare o difendersi per alcuna
scusa. Ma quelli che manda la sua lettera guernisce di parole ornate e piene di
sentenzia e di fermi argomenti, sì come crede poter muovere l'animo di colui a
non negare, e, s'elli avesse alcuna scusa, come la possa indebolire o
instornare in tutto. Dunque è una tendone tacita intra loro, e così sono quasi
tutte le lettere e canzoni d'amore in modo di tendone o tacita o espressa ; e
se cosi no è, Tullio dice manifestamente, intorno '1 principio di questo libro,
che non sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o tencione o no tencione che sia,
CICERONE medesimo, luogo innanzi, isforza i suoi insegnamenti in parlare et in
dittare secondo la rettorica ; e là dove Tullio sine pasasse o paresse che dica
pur insegnamenti sopra dire tencionando, lo sponitore isforzerà lo suo poco
ingegno in dire tanto e sì intende 20. volemente che '1 suo amico potrà bene
intendere l' una materia e l'altra. 18. Et ecco Tullio che incomincia a dire di
quelle partite della diceria o d'una lettera dittata, delle quali non avea
detto neente in adietro: e queste parti sono sei, sì come apare in questo
arbore. I e. 2 ^'Olii' /^M/ Queste sono le sei parti che Tullio mostra certamente
che sono nella diceria o nella pistola, specialmente in i: m per cholui che la
manda 2: M' essere pregando 3: M-m o in 6: Jf' manda guernisce la sua lederà
d'ornati^ parole il : M tucto lelcrre, m tutte lettere o clianzoni, M' o lo
cannoni - iS: M-m o e tacita (mi o e sjirexa) - 13: m inloruo al pr. 14-15: M'
o di tenciono o di non tencione da quello luogo innanci inforfa 16: M' IH
secondo rothorica ~ 18: M^ insegnauiento - 19: M' islbiva - intendevole - 21:
M' m comincia 22 : M' ohi. o duna lettera dittala - 23: M indietro - 24: il'
pare in ipiesto albero - Nello gchetna M' ha l" l>roomio, 3» Divisione,
ó" Uisjwnsionc - SO: M-m 7 nella pistola (ma c/r. l. 22) quelle che sono
tencionando, sì come appare nel detto dello sponitore qui adietro ; e, sì come
detto fue in altra parte di questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle
cause le quali sono in contraversia et in tencione. Et ben . dice tutto a certo
che Ile parole che non si dicono per tencione d'una parte incontra un'altra non
sono per forma né per arte di rettorica. 19. Ma perciò che Ila pistola, cioè la
lettera dettata, spessamente non è per modo di tencionare né di contendere,
anzi è uno presente che uno manda ad un altro, nel quale la mente favella et é
udito colui che tace e di lontana terra dimanda et acquista la grazia, la
grazia ne 'nforza e l'amore ne fiorisce, e molte cose mette inn iscritta le
quali si temerebbe e non saprebbe dire a lingua in presenzia; sì dirae lo
sponitore un poco dell'oppinione de' savi e della sua medesima in quella parte
di rettorica ch'apartene a dittare, si come promise al cominciamento di questo
libro. 20. Et dice che dittare é un dritto et ornato trattamento di ciascuna
cosa, convene volemente aconcio a quella cosa. Questa è la diffinizione del
dittare, e perciò conviene intendere ciascuna parola d'essa diffinizione. Unde
nota che dice « dritto trattamento » perciò che Ile parole che ssi mettono inn
una lettera dittata debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il nome col
verbo, e '1 MASCUNINO [sic MASCHILE -- MASCULINO] e '1 feminino, e lo singulare
e '1 plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e l'altre cose che
ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo sponitore dirà un poco in quella
parte del libro che fie i)iù avenente; e questo dritto trattamento si richiede
in tutte le parti di rettorica dicendo e dittando. 21. Et dice « ornato trat
30. tamento » perciò che tutta la pistola dee essere guernita di parole
avenanti e piacevoli e piene di buone sentenze; et anche questo ornato si
richiede in tutte le i)arti di rettorica, sì come fue detto inn adietro sopra
'1 testo di Tullio. E dice trattamento di ciascuna cosa perciò che, 35. si come
dice BOEZIO (vedasi), ogne cosa proposta a dire puote 1:M' pare 4:M oin. sono m
le quali e In contr. e tencione. Et dico 5-6: M' non sodono m om. per te.ncione
a un altro 8 : M'de tencione iO : M' 7 ae udito il: M' om. la grazia 12-13: M
la gra M' sinlorca m/ molte cose M' m in iscriptura Mi non, ma L e non 14: m lo
sponitore dira uno pocho 16: M' om. di reltorica 19: M-m aconcia a quella cosa,
!/'-/> a quella cosa aconcia 23: M-m adietro, M' a diricto 24-25: M' m el
mascolino (m il maschulino)col leminino 3/' el plurale el singulare M-m pulare
27 : m fia M' in tutte parti 33 : M-m nel lesto 34 : m om. Et 35 : m si puote
essere materia del dittatore ; et in questo si divisa dalla sentenzia di
CICERONE, che dice che Ila materia del parliere non è se non in tre cose, ciò
sono dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et dice « convenevolemente aconcio
a quella cosa » perciò che conviene al dittatore asettare le parole sue alla
sua materia. Et ben potrebbe il dittatore dicere parole diritte et ornate, ma
non varrebbero neente s'elle non fossero aconcie alla materia. 23. Così è
divisato il dittatore da cciò che dice Tullio; e perciò di queste due 10.
materie, cioè del dire e del dittare, e dello 'nsegnamento dell'uno e
dell'altro potrà l'amico dello sponitore prendere la dritta via. Et per questo
divisamento conviene che Ile parti della pistola si divisino da queste della diceria
che Tullio à detto che sono sei, ciò sono : exordio, narrazione, partizione,
conferm amento, riprensione e conclusione. 24. 1. E oppinione di Tullio che
exordio sia la prima parte della diceria, il quale apparecchia l'animo dell'
uditore a l'altre parole che rimagnono a dire, e questo è appellato prologo
della gente. //. Et dice che narrazione è quella 20. parte della diceria nella
quale si dicono le cose che sono essute o che non sono essute, come se essute
fossoro ; e questo è quando uomo dice il fatto sopra '1 quale esso ferma la
forma della sua diceria. E dice che è partigione quando IL PARILERE à narrato e
contato il fatto et 25. e' si viene partiendo la sua, ragione e quella
dell'aversario e dice : « Questo fue cosi, e quest'altro così » ; et in questo
modo acoglie quelle partite che sono a lini più utili e pivi contrarie
all'aversario, et afficcale all'animo dell' uditore ; et allora pare ch'ai
tutto abbia detto tutto '1 fatto. IV. Et 30. dice che confermamento è quella
parte della diceria nella quale il parlieri reca argomenti et assegna ragioni
per le quali agiugne fede et altoritade alla sua causa. F. Et dice che
riprensione (1) è quella parte della diceria nella quale il 5: Mi agoisare 6: m
om. Et 7 : M' non varrebbe 8: M' j cosi e divisato da ciò 10: Jf maniere i3: M^
da quelle i6: M' Et oppinione di Tulio e, m Oppinione di Tulio e M exordìa 18:
M rimagnono udite, m om. a dire 21 : M issate 22: M 1 quando M^ m l'uomo om.
esso 23 M' forma la sua diceria 25 : M' edesso viene partendo, m e viene
ripetendo.... del chonpagno 28 -. M7 nfììcale (?), m e ficliale, M' 7
afficcalle 29: M' paro cabbia detto m detto il fatto - 30 : M' confermagione
33: i mss. responsione M-m 7 quella (1) Non esito a scostarmi dai codici per la
concorde lezione degli altri luoghi, che corrisponde al latino reprehensio. Il
passaggio da reprensione a responsione è facilissimo attraverso un repensione.
I)arliere reca cagioni e ragioni et argomenti per li quali attuta e menoma et
indebolisce il confermamento dell'aversario. VI. Et dice che conclusione è Ila
fine e '1 termine di tutta la diceria. 25. Queste sono le sei parti che dice 5.
Tullio che sono e debbono essere nella diceria; e di ciascuna tratterà qua
innanzi il libro sofficientemente. Ma in questo eh' è detto puote uomo bene
intendere che queste sei medesime possono convenire inn una pistola, di tal
materia puote ella essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia 10. sia, nelle
tre di queste sei parti s'accorda bene la pistola colla diceria, cioè nello
exordio, narrazione e nella conclusione; ma ll'altre tre, cioè partigione,
confermamento e reprensione, possono più lievemente rimanere e non avere luogo
nella pistola. Tutto altressì la pistola àe V parti, delle quali l'una può bene
rimanere e non avere luogo nella diceria, cioè «salutatio»; l'autra, cioè
«petitio», avegnachè Tulio no Ila nominasse in tra Ile parti della diceria, sì
vi puote e dee avere luogo in tal maniera ch'appena pare che diceria possa
essere sanza petizione. Dunque 20. le parti della pistola sono cinque, ciò sono
salutazione, exordio, narrazione, petizione e conclusione, sì come appare in
questo arbore : 26. Et se alcuno domandasse per qual cagione Tullio intralasciò
la salutazione e non ne trattò nel suo libro, certo 25. lo sponitore ne renderà
bene ragione in questo modo. Certa cosa è che Tullio nel suo libro tratta delle
dicerie che ssi l-S: m ragioni 7 cagioni Jlf' l'aiingatore wn. cagioni e per li
ifiiali allassa M-m il fermamente 3 : 3/' il line 4-5 : m Questo.... che Tulio
dico che debbono essere 6 : M' m illibro qua innanzi 7 : jn luomo -- Af ' om.
bone m che tutte 7 queste sei 8-9 : M tal maniera M-m da qualunque, M^ de
([ualunque li : 3f' in exordio M' m 7 conclusione 12: M' om. tre e soitiiuisce
di\hione rt partigione M salta dal lo al 2" aver luogo 22: M' pare 'in
questo albero 24: ilf intrallassò, m lasciò 25: Af' ne renda, L ne rende - 26:
M^ cliellibro di Tulio tracia fanno in presenzia, nelle quali non bisogna di
contare'!) il nome del parlieri né dell' uditore. Ma nella pistola bisogna di
mettere le nomora del mandante e del ricevente, c'altrimente non si puote
sapere a certo né l'uno né l'altro. Apresso ciò, la salutazione pare che sia
dell'exordio ; che sanza fallo chi saluta altrui 'per lettera già pare che
cominci suo exordio. Et Tullio trattòe dello exordio compiutamente, non curò di
divisare della salutazione né distendere il suo conto intorno le saluti,
maximamente perciò che pare che rechi tutta la rettorica a parlare et in
controversia tencionando. Et in perciò furo alcuni che diceano che Ila
salutazione non era parte della pistolaj ma era un titolo fuor del fatto. Et io
dico che la salutazione è porta della pistola, la quale ordinatamente chiarisce
le nomora e' meriti delle persone e l'affezione del mandante. Et nota che dice
« porta, cioè entrata della pistola, e che chiarisce le nomora, cioè del
mandante e del ricevente; e dice i meriti delle persone, cioè il grado e
l'ordine suo, sì come a dire: Innocenzio papa, Federigo Imperadore, Acchilles
cavaliere, Oddofredi Judice, e cosi dell'altre gradora. Et dice « ordinatamente
», cioè che mette il nome e '1 grado di ciascuno come s'a viene; e dice
«l'affezione del mandante», cioè com'elli manda al ricevente salute o altra
parola di bene, o per 25. aventura di male, secondo la sua affezione, cioè
secondo la sua volontade. 28. Adunque pare manifestamente che Ila salutazione è
così parte della pistola come l' occhio dell' uomo. Et se l'occhio è nobile
membro del corpo dell'uomo, dunque la salutazione é nobile parte della pistola,
c'altressi 30. allumina tutta la lettera come l'occhio allumina l'uomo. Et al
ver dire, la pistola nella quale non à salutazione è altrettale come la casa
che non à porta né entrata e come '1 1 : M-m bisogna contare S-3 : M' nome del
dicitore M-m bisogna mettere M 7 dell' uditore 7 del ricevente, m om. 7 del
ricevente M-m 7 altrimente 4: M' non si porrebbe 7-9: M-m om. dello exordio non
curo divisare salutalione 7 distemdere ìli intorno alle salutationi 10: M' om.
et 11-12: M' Et jìerciò funro ciie salutalione 15: m e mèli 16: m om. Et -17:
M-m om. 1° e, hi 01». cioè S3 : M' om. di 24 : M' 7 altra 2,5 : M eirectione m
om. secondo la sua afTezione cioè 26: M' parte (ma t espunto) 28 : M 3/' om.
dell'uomo, m om. del corpo (A completo) 29: iW' e la salutatione n. p. m e altres'i
32 : il/' ne jiorta (1) La lezione bisogna contare darebbe piuttosto il senso
di « conviene dire », mentre qui si richiede un «c'è bisogno di dire». - Itì7
corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla chi dice che salutazione è un
titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s' inchiude W e sugella dentro ; ma '1
titolo della pistola è la soprascritta di fuori, la quale dice a cui sia data
la lettera. Ben dico c'alcuna volta il mandante non scrive la salutazione, o
per celare le persone se Ila lettera pervenisse ad altrui o per alcun' altra
cosa o cagione. (2) Né non dico che tutta fiata convenga salutare, ma o per
desiderio d'amore, o per solazzo, talora (3) si mandano altre parole che 10.
portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire pur salute. Et a' maggiori
non dee uomo mandare salute, ma altre parole che significhino reverenzia e
devozione; e talvolta no scrivemo a' nemici altro che Ile nomora e tacemo la
salute, o per aventura mettemo alcuna altra parola che 15. significa
indegnamento o conforto di ben fare o altra cosa; sì come fa il papa che
scrivendo a' giudei o ad altri uomini che non sono della nostra catholica fede
o a' nemici della Santa Chiesa tace la salute, e talvolta mette in quel luogo
spirito di più sano consiglio o connoscere la via della veritade o ahundare inn
opera di pietade et altre simili cose. Adunque provedere dee il buono dittatore
che, similemente come saluta l'uno uomo l'antro trovandolo in persona, così il
dee salutare in lettera mettendo et adornando parole secondo che la condizione
del ricevente richiede. Che quando uomo va davante a messer lo papa o davante
ad imperadore o a alti-o segnore ecclesiastico o seculare, certo elli va con
molta reverenzia et inchina la testa, et alla fiata si mette in terra
ginocchioni per basciare M' anche M-ìn si richiude M' ma titolo M 7 \a. s. 5 •m
iscrive salutatione 6-7: M' venisse ilata altrui per alcuna cagione Mo per
cagione dalcunaltra cosa cagione ; m id., ma oiii. cagione 8-9 : M^-L ma ora
per d. d'a. or (ina L 0) per s. si mandano, M-m per solazzo di loro si mandano
il: M' a maggiore M-m non debbono - 12: M* che significanza abbiano di
revercntia 7 dev. 13-14: M' a nomici non scrivemo M-m 7 per aventura 16: M-m il
papa scrivendo... om. altri 19: M-m di chonnoscere M' conoscere via de veritade
20: M' opere (mai opera) om. altre 21 il/' dee prevedere 22 M' un huomo un
altro ^ó:ni Quando luomo 26:M' davanti imperadore od altro, >« davante a
lomj)eradore 27 : Jf certo e va - ^S: in M una macchia cunpre in M' ginocohione
in terra S'inchiude è più esatto di si richiude. Lo scambio fra n e l'i occorre
altre volte: cfr. p. 37, n. 1.In 3f e' è qualcosa di troppo. Non importa dire
che m ha accomodato di suo, perchè la parola cagione come finale è confermata
da M'; forse 1' errore nacque dall'avere scritto subito pei- cagione e voler
poi rimediare. (3) Scrivo così per avere un senso, ma non presumo davvero di
avere indovinato; potrebbe anche mancare qualche parola. il piede al papa o
allo 'mperadore. Tutto altressì dee lo dettatore nominare lo ricevente e la sua
dignitade coij parole di sua onoranza e metterlo dinanzi ; apresso dee nominare
sé medesimo e la sua dignitade, e poi dee scri5. vere la sua affezione, cioè
quello che desidera che venga a colui che riceve la lettera, sì come salute o altro
che sia avenante, tuttavolta guardando che questa affezione sia di quella guisa
e di quelle parole che ssi convegnono al mandante et al ricevente. 31. Che
quando noi scrivemo a' magio, giori di noi o di nostro paraggio o di minore
grado, noi dovemo mandare tali parole che ssiano accordanti alle persone et
allo stato loro. Et non pertanto eh' io abbia detto che '1 nome del maggiore si
de' mettere dinanzi e del pare altressì, io oe ben veduto alcuna fiata che
grandi 15. principi e signori scrivendo a mercatanti o ad altri minori, mettono
dinanzi il nome di colui a cui mandano, e questo è contra l'arte ; ma fannolo
per conseguire alcuna utilitade. Perciò sia il dittatore accorto et adveduto in
fare la salutazione avenante e convenevole d'ogne canto, sicché in essa me20.
desima conquisti la grazia e la benivoglienza del ricevente, sì come noi
dimostramo avanti secondo la rettorica di CICERONE. Et bene è questa materia
sopr'alla quale lo sponitore potrebbe lungamente dire e non sanza grande
utilitade. Ma considerando che Ila subtilitade perché '1 verbo non si mette 25.
nella salutazione, e che "1 nome del mandante si mette in terza persona
per significamento di maggiore umilitade, e che tal fiata si scrive pur la
primiera lettera del nome, par che tocchi più a' dittatori IN LATINO che’n
VOLGARE, sene passex'à lo sponitore brevemente e seguirà la materia di Tullio
per dicere dell'altre parti della diceria e di quelle della pistola, sì come
porta l'ordine. Et in questo luogo si parte il conto della salutazione, e dirà
dell' exordio in due guise. L’una secondo ciò che nne dice Tullio e che i : M'
y allomperudoi'o S-3: M-m dignilailo corporale di m aggiunge di reverenza 7 ^
4: M^ nm. S" e 3: M-m oirectione ([nella 7 : m tuttavia M' guani ino clic
l'airectione 9-10: M' ali maggiori M-m ili nostro .grado i2: M' alloro slato
M-m om. ch'io abbia dolio i3: in il nome M' si debbia 13-16: m sengnori M-m
scrivono -- m e mellone M' elgli mandano 17: Af-w por sognile 18: mom. et
adveduto 19: M' dongiii jìarle 20: M-mnm.ìa grazia e 21-SS: il/' dimoslorremo,
m dimostraiiio davanti Af' m Et bene cpiesta 24: JZ-m uhella subtitade, A/' che
sotti! itude 23: M<- in salutalione 7 perche! nome 26: M-m utilitade 27: M'
7 perche.... pur una lederà m la prima 28: m om. in Ialino 31-32: L Et in
questa parte ilf' dala salutalione 33: M' om. ci6 pare che ss'apartegna a
diceria, l'altra secondo che ssi conviene ad una lettera dittata et ad una
medesima diceria, oltre quello che porta il testo di Tullio. Exordio. 5. 77. Et
perciò che exordio dee essere principe di tutti, e noi primieramente daremo
insegnamenti in fare exordio. Vogliendo CICERONE trattare dell' exordio prima
che dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe dell'altre 10. parti
tutte ; e certo è de ragione (i) : l' una perciò che ssi mette e si dice
tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che nel exordio pare che noi
aconciamo et apparecchiamo r animo dell' uditore ad intendere tutto ciò che noi
volemo dire di poi. 15. Dell' exordio. 78. (e. XV) Exordio è un detto el quale
acquista convenevolemente 1' animo dell' uditore all' altre parole che sono a
dire ; la qual cosa averrà se farà l' uditore benivolo, intento e docile. Per
la qual cosa chi vorrà bene exordire la sua causa, ad lui 20. conviene
diligentemente procedere e conoscere davanti la qualitade della causa. Lo
sponitore. 1. Poi che Tullio avea contate le parti della diceria, sì vuole in
questa parte trattare di ciascuna per se divi 25. satamente, e prima dello
exordio, del quale tratta in questo 2 : Af' e la diceria medesima 3: m oltre a
quello 5 : M-mom.e 6: M' oxordii iO: m nm. tutte M-m certo e (m a) ragione, L e
certo eglie ragione 10-li M' luna pei che, m luna che M-m 7 davanti si dice
13-14 : m quello die noi poi volerne diro M' dire poi 18: m dolce (cosi sempre
in seguito) M' converrà om. procedere e 24 : M' divisamente, ma L divisatamente
Questa lezione è quella che spiega meglio le altre: soppresso il de, nacque è
ragione di M, che m, colla pretesa di accomodare,' peggiorò in a ragione; la
variante di L deriva certo dal non aver inteso il significato di de ragione (=
secondo ragione). - no modo: Primieramente dice che è exordio, mostrando che
tre cose dovemo noi lare nell'exordio, cioè fare che 11' uditore davanti cui
noi dicemo sia inver noi benivolente et intento e docile a cciò che noi volemo
dire. Et perciò ne 5. conviene connoscere la qualitade del convenente sopra '1
quale noi dovemo dire o dittare. 2. Nel secondo luogo divide l'exordio in due
parti, cioè principio et « insinuatio », e mostrane in qual convenentre noi
dovemo usare principio et in quale « insinuatio ». 3. Nel terzo luogo ne fa
intendere 10. donde noi potemo trarre le ragioni per acquistare benivoglienza
et intenzione e docilitade, e come noi dovemo queste tre usare in quello
exordio eh' è appellato principio e come in quello eh' è appellato « insinuatio
». 4. Nel quarto luogo pone le virtù e' vizi dell'exordio. Et perciò dice 15.
che exordio è uno adornamento di parole le quali il parlieri e '1 dittatore
propone davanti nel cominciamento del suo dire in maniera di prolago, per lo
quale si sforza di dire e di fare sì che l'uditore sia benivolo verso lui, cioè
che Ili piaccia esso e '1 suo parlamento, e procacciasi di dire e di fare sì
che l'uditore sia intento a llui et al suo detto; similemente si studia di dire
e di fai'e sì che l’uditore sia docile, cioè che pi'enda et intenda la forza
delle parole. 6. Et perciò dico che immantenente che 11' uditore è docile
sicché voglia intendere e connoscere la natura 25. del fatto e la forza delle
parole, sì è elli intento ; ma perchè l' uditore sia intento a udire, puote
bene essere che non sia docile ad intendere. Et di ciascuno di questi tre dirà
il conto quando verrà il suo luogo. 7. Ma perciò che '1 parliere che non
conosce dinanzi di che maniera e di cliente 30. ingenerazione sia la sua causa
non puote bene advenire alle tre cose che sono dette inn adietro, cioè che 11'
uditore sia benivolo, intento e docile, si dicei'à Tullio quante e quali sono
le generazioni delle cause, in questo modo: 1 : m Prima MM' nm. è 2-3 : m
liiditore sia inverso noi benivolo intonlo 7 dolco a quello ecc. 4-5: m ci
conviene 7-8: m nm. et e mostra 9: M' nensegna, L insegna dove JO: M' potremo
ii: M',allenlione - 13: M nm. in 15: m i parlieri, M' il parladore 17: M' perla
(piai cosa 19: ni jiiaoci il suo p. procliaccisi 20 : M-m 7 fare sicché m
attento 21 : M' 7 fare 22 : il/' ciò che imprenda «1 le parole ^.5: hi nm. e la
l'orza delle i>arole - 26: m che non 027: M' ohi. tre 28-29: M' vorrà suo
luogo chel dicitore 7 di che ìnjj. - Ili Qualitadi delle cause. 79. Le
qualitadi delle cause sono cinque: onesto, mirabile vile, dubitoso et oscuro.
Sponitore. 5. I. In questa picciola parte nomina Tullio le qualitadi delle
cause, cioè di quante generazioni sono le dicerie. Et s' alcuno m' aponesse che
Tullio dice contra ciò che esso medesimo avea detto in adietro, cioè che le
generazioni e le qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale,
10. et or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, dubitoso et
oscuro, io risponderei che Ile primiere tre sono qualitadi substanziali sie
incarnate alhi causa che non si possono variare. Onde quella causa eh' è
deliberativa non puote essere non deliberativa, e quella eh' è dimostrativa 15.
non puote essere non dimostrativa ; altressì dico della iudiciale. 2. Ma quella
causa eh' è onesta puote bene essere non onesta, e quella eh' è mirabile puote
essere non mirabile, e così dico della vile e della dubbiosa e della oscura.
Adunque sono queste qualitadi accidentali che possono 20. essere e non essere;
ma le prime tre sono substanziali che non si possono mutare. Dell'onesta.
Onesta qualitade di causa è quella la quale incontanente, sanza nostro exordio,
piace all'animo dell'uditore. 25. Lo sponitore. I. Quella causa è onesta
sopr'alla quale dicendo parole, immantenente, sanza fare prolago, l' animo
dell' uditore si muove a credere et a piacere le parole che '1 parliere dice
sopra '1 convenente ; et in questo non fa bisogno usare pa 3: M' dubbioso 7 :
M' m cholgli medesimo 8: M-m om. elio - M^ li generi 10: M' dubbioso 1 1: m io
rispondo che le prime tre 13 -.M' puole 13-14: M-m mllann dal lo al S°
deliberativa 15 : M-m essere dimostrativa 17 : L bone essere bene non mir. 19:
M-m om. queste 23: M incontenenlo 27: M-m mantenente iole per acquistare la
benivoglienza dell'uditore, perciò che ll'onestade della causa l'à già
acquistata per sua dignitade, sì come nella causa di colui che accusa il furo o
che difende il padre o l'orfano o le vedove o le chiese. Mirabile è quello dal
quale è straniato l'animo di colui che de' audìre. Quella causa è appellata
mirabile la quale è di tale 10. convenente che dispiace all'uditore, perciò eh'
è di sozza e di crudele operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è centra noi
et è straniato dalla nostra parte; et in questo abisogna d'acquistare
benivolenzia sì che l'uditore intenda, sì come nella causa di colui c'avesse
morto il suo padre 15. o fatto furto o incendio. 2. Dunque potemo intendere che
una medesima causa puote essere onesta e mirabile : onesta dall'una parte, cioè
di colui che difende il suo padre, mirabile dall'altra parte, cioè di colui
medesimo che è coutra la sua madre propia. E di questo uno exemplo si puote 20.
intendere tutti i somiglianti. Vile è quello del quale non cura l'uditore e non
pare che sia da mettere grande opera a intendere. Lo sponitore. 25. 1. Quella
causa è appellata vile la quale è di picciolo convenente, sì che non pare che
ne sia molto da curare e l'uditore non sine travaglia molto ad intendere, sì
come la causa d' una gallina o d'altra cosa che sia di poco valere. Et in
questa causa dovemo noi procacciare di fare sì che 30. ir uditore sia intento
alle nostre parole. 1: M' om. la id: M' o l'uiiiino - i2: vi e straniato i3: M'
bisogna 14: M-m om. nella oanaa di colui c'avcsso morto 15: M a facto, m a
l'atto 19: M\a sua iiropria madre 26: M-m om. ne 27 : M' non si maraviglia 28:
hi di jioclio valoro, Jt/' de piccolo valoro 89: Mi nm. di l'are si Dubitoso è
quello nel quale o la sentenzia è dubia o la causa è In parte onesta et In parte
è sozza e disonesta, sicché Ingenera benlvolenzla e offenslone. Quella causa è
appellata dubitosa nella quale l'uditore non è certo a che la cosa debbia
pervenire o a che sentenzia alla fine torni, sì come nella causa d'Orestes che
dicea ch'avea morta la sua madi e giustamente per due 10. ragioni : 1' una
perciò ch'ella avea morto il suo padre, l'altra perciò che '1 deo APOLLO glile
comandò. Onde l'uditore non è certo la quale di queste due cagioni cagia in
sentenzia. Altressì è dubitosa quella causa nella quale àe parte d'onestade e
perciò piace all'uditore, et àe parte di diso 15 nestade e perciò dispiace all'
uditore, si come nella causa de filio: O d'un furo che fue accusato d'un furto
e '1 suo figliuolo si sforzava (ii difenderlo in tutte guise. Certo la causa
era onesta quanto in difender lo padre, ma era disonesta quanto in difendere lo
furo. 20. Dell'oscuro. 84. Oscuro è quello nel quale l' uditore è tardo, o per
aventura la causa è Iv^plgllata di convenentl troppo malagevoli a conoscere. Dice
CICERONE che quella causa è appellata oscura nella quale l'uditore è tardo,
cioè che non intende ciò che portano le parole del dicitore sì bene ne sì tosto
come si conviene, perciò che non è forse ben savio o forse eh' è fatigato per
2: M-m eia sentenzia 3: M' in parte socca 4: M-m o offensione 7-8: M' o in clie
sententia torni ala fino 10: m il suo marito li: M chel deo apellollil, m
chello lio appello il, M^-L che dio appello glile comando 13: M' quella parte
dove parte 16: M do fili?, *i demi?, Mi-L dun figluolo dun ladro - do furto, el
figUiolo ~ 17 : m s\ sforza 19: M' lo furto 24: ino oschura apellata 23-26:
3f-»i portava del dictatore - M' om. nò, L e si tosto, m o si tosto ~ 27:M' om.
il 1" forse M-m 7 forse - faligata (1) L'abbreviatura insolita ài M e m
porta a supporre una formula giuridica latina, quantunque tale abbreviatura non
sembri equivalere proprio a un de filio (la lezione di M'-L è certamente
secondaria). forse nella sigla si nasconde qualche nome proprio? li detti
d'altri parlieri che aveano detto innanzi; o per aventura la causa è impigliata
di cose e di ragioni che sono oscure e malagevoli ad intendere. Della divisione
dell' exordio. 5. 85. Et perciò che Ile qualitadi delle cause sono tanto
diverse, sì convene che li exordii siano diversi e dispari e non simili in
ciascuna qualitade di cause; per la qua! cosa exordio si divide in due parti,
ciò sono principio et « insinuatio ». Lo sponitore. 10. I. Perciò - dice Tullio
- che le generazioni e le quali tadi delle cause sono tanto diverse, cioè che
sono in cinque modi sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è accordante
all'altro, sì conviene che in ciascuna qualità di cause et in catuno de' detti
cinque modi abbia suo modo 15. di fare exordio, tale che ssi convegna alla
qualitade sopr'alla quale noi dovemo parlamentare o dittare. 2, Et vogliendo
Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice che exordio è di due maniere : una
eh' è appellata principio et un'altra ch'jè appellata « insinuatio » ; e di
ciascuna dirà elli 20. interamente. E così dovemo e potemo sapere che le cause
sopra le quali dice alcuno parlieri o sopra le quali scrive alcuno dittatore
sono cinque, cioè sono: onesto, mirabile, vile, dubitoso et oscuro, sì come
apare in adietro. Et sopra tutte qualitadi sono due modi de exordio e non più,
cioè 25. principio et « insinuatio ». Principio è un detto il quale apertamente
et in poche parole fa l'uditore benivolo o docile o intento. Quella maniera de
exordio è appellata principio quando il parlieri o '1 dittatore quasi incontanente
alla 1 : M^ parladori 3: M' mn. oscuro o fi: m diversi, dispari 7:m di cose
8:M' cioè principio 7 insiniiatione (sempre) / i : m dolio cose M' dele
qualitadi sono tante divei-se -Melo che sono 13: M' coU'altro i4-i5: M' si
abbia s. m. in fare A/' «hi.cìò 18-19: m una che apjinllala ins. 7 una che
ajiiiollata pr., M' uno che sajiplla pr. 7 un altro che apellnlo ins.,7 di
ciascuno 21 : vi .ilchimo parlinre dice M-m 7 sopra M' dice alcuno dictalon»
22: M-m honesta - 23: M* jiare 31 : M' il dicitore ol dictatore M-m
incontenonte comincianza del suo dire, sanza molte parole e sanza neuno
infingimento ma parlando tutto fuori et apertamente, fa l'animo dell'uditore
benvolente a llui et alla sua causa, o talora il fa docile o intento, si come
fece Pompeio par5. landò a' Romani sopra '1 convenente della guerra con Julio
Cesare, che fece tale exordio : « Perciò che noi avemo il diritto dalla ifostra
parte e combattemo per difendere la nostra ragione e del nostro comune, si
dovemo noi avere sicura spei'anza che li dii saranno in nostro adiuto ». Dell'
insinuatio. Insinuatio è un detto il quale, con infingimento parlando dintorno,
covertamente entra nell’animo dell'uditore. CICERONE dice che quella maniera de
exordio è apellata « insinuatio » quando il parlieri o '1 dittatore fa dinanzi
un lungo prolago di parole coverte, infingendo di volere ciò che non vuole, o
di non volere quello che dee volere, e così va dintorno con molte parole per
sorprendere l'animo dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento; sì
come disse Sino parlando a coloro che riteneano la sua persona in gravosi
tormenti: « Insin a oi"a v'ò io pregato che mi traeste di tante pene ;
oimai non dimando se non la morte, ma grandissimi tesauri avrei dato a chi m'
avesse scampato ». Et in questo modo covertamente s'infingea di non 25. volere
quello che volea, per venire in animo di loro che Ilo scampassero per avere, da
che mercè non valea. 2. Et cosie à divisato il conto che è principio e che è
«insinuatio»; omai dicerà quale di questi due modi de exordio dovemo usare in
ciascuno de' cinque modi delle cause, cioè nell'onesto, 30. nel vile, nel
mirabile, nel dubitoso e nell' oscuro. i: M' alancomincianza m sanza alcliuno -
2-- M' om. et 3: M' benivolente, m benivolo M^ o ala sua causa : m come fé 5-6:
M' a Romani parlando del convenente, cotale 9: M diede saranno IS: m intorno
15: M-m i parlieri, M' il parliere M o dictatore 17 : m quello che non vuole
iW' in (juello che vuole : L Sitio m teneano... gravi tormenti 2S: M' oggimai
non domando io 23: M' dati wi dato chi 26: m merco domandare 27: M' a
divisatoli maestro 28 : M-m (|uali M' noi dovemo 29: M' de cause, M in ciascuno
di delle causo, m in ciascheduna delle chause (1) Per tutte le citazioni di
autori classici, che da questo punto alla fine son molto frequenti, rimando al
mio studio su La rettorica italiana di L. ; ivi son ricercate e discusse le
fonti di questi esempii, e così riesce anche piti facile rendersi conto della
costituzione del testo. Della mirabile. 88. Nella mirabile generazione di causa,
se il'uditore non fosse al tutto turbato contra noi, ben potemo acquistare
benivoglienza per principio. Ma s'ei troppo malamente fosse straniato ver noi,
allora 5. ne conviene rifuggire a « insinuatio », in però che volere così
isbrigatamente pace e benivoglienza dalle persone adirate non solamente non si
truova, ma cresce et infiamasi l'odio. Lo sponitore. 1. Inn adietro è bene
detto che quella causa è appello, lata mirabile la quale è di rea operazione,
sicché pare che dispiaccia all'uditore. Et perciò dice Tullio CICERONE che
quando la nostra causa è mirabile puote bene essere alcuna fiata che Il'uditore
non sia del tutto coruccioso contra noi. Et allora potemo noi acquistare la sua
benivolenza per quel modo 15. de exordio eh' è appellato principio, cioè
dicendo un breve prologo in parole aperte e poche. 2. Ma se 11' uditore fosse
adiroso e curicciato contra noi malamente, certo in quel caso ne conviene
ritornare ad altro modo de exordio, cioè « insinuatio », e fare un bel prologo
di parole infinte e coverte, 20. sicché noi possiamo mitigare l' animo suo et
acquistare la sua benivolenza e ritornare in suo piacere. Ch'ai ver dire,
quando l' uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse acquistare da llui pace
così subitamente per poche et aperte parole dicendo il fatto tutto fuori, certo
non la troverebbe, 25. ma crescerebbe l' ira et infiamerebbe l' odio ; e perciò
dee andare dintorno et entrarli sotto covertamente. Della causa vile. 89. Nella
causa la quale è di vile convenente, per cagione di trarrela di vilanza e di
dispetto, ne conviene fare l'uditore intento. S : M-m Della mirabile ?» e
solluditoro 3 : M^ del tutto 4 : 3/' se m se troppo fosse crucciato 5: Mi
fuggire m ci conviene.... chosi di presente - 7: m crescesi 9: M-m ubiamo detto
i2: M^ alcuna volta 13: m crucciato 14: M' potremo (ma L lìotemo) 15: M-m in
breve 17 : M' iroso 7 crucciato verso noi, m adirato contra noi molto, 18: m
tornarne M alaltro modo 19: M-m nni. fare converte M iulìnito 20: M' otii. la
SS: M^ cruccioso, m crucciato S3: in per i)Oclie )iaroIo 7 aperte S6: M-m darò
dintorno M entrali, M' intrarli, wi rilrarlo sottilmente sotto coverta S8 : M e
diviene convenente m udiviene e. S9 : M' trarla de viltanca 7 de dispregio
Quando la nostra causa ella è vile, cioè di piccolo convenente sicché l'
uditore poco cura d' intendere, allora ne conviene usare principio et in esso
fare che 11' uditore 5. sia intento alle nostre parole; e questo potenio ben
fare traendola di viltanza e facciendola grande et innalzandola, sì come fece
Virgilio volendo trattare de l'api: «Io dicerò cose molto meravigliose e grandi
delle picciole api ». Della dubbiosa qualità. Nella dubbiosa qualità di causa,
se Ila sentenza è dubbia si conviene incominciare l'exordio dalla sentenzia
medesima. Ma se Ila causa è in parte onesta e in parte disonesta si conviene
acquistare benivolenzia, sicché paia che tutta la causa ritorni in onesta
qualitade. La causa dubitosa, si come fue detto in adietro, èe in due maniere:
1' una che Ila sentenzia è dubbia, sì come apare nelF exemplo d' Orestes, che
per due ragioni e cagioni dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in
quel caso 20. dovea elli incuninciare il suo exordio da quella ragione dalla
quale (0 elli più ferma nel suo animo di voler provare, e per la quale crede
avere la sentenzia inn aiuto. 2. Ma se '1 convenente è dubitoso perciò che sia
in parte onesto et in parte disonesto, in quello caso dee il buono parlieri
neir exordio acquistare la benivolenzia dell' uditore per principio, sicché
tutta la causa paia che sia onesta. 2: M' m om. ella m cioè di vile convenente
7 di picciolo ,9: 3f' -Ldelontendere 4-5 : M 7 mezzo, m e mezzo a fare...
atento 6: m vilanza, >/' vllezza 7 inalr. et f. g. 7 : m tràre 8: M' om.
molto iO: M' Dela dubitosa li: m cominciare i2 : M-in om. è in parte onesta M'
parte lionesla 7 parlo dis. i7 : M-m cliella causa hi dubbiosa i8: M> om.
apare cagioni 7 ragioni m om. 7 cagioni 19-20 : m in questo dovea elli com. 21
: M' la (juale 22: M-m 7 per qua! (?;i om. 7) M' sigli crede davere 23: m om.
sia M'-L honesta.... disonesta 25: M' acquistare nelexordio benivolenca
daluditore M libenivolentia 26 : M-m om. che sia (1) Cioè « fondandof3i sulla
quale egli si propone di dimostrare la sua causa. L'oscurità della frase ha
determinato la falsa correzione in ilf'. La causa onesta. Quando la causa fie
onesta, o potemo intralasciare lo principio, 0, se ne pare convenevole,
comincieremo alla narrazione o dalla legge, o d' alcuna fermissima ragione
della nostra diceria. 5. A\a se ne piace usare principio, dovemo usare le parti
di benivoglienza per accrescere quella che è. Quando il conveniente sopra '1
quale ne conviene dire è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi
la benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di parole. Perciò quando
noi venimo a dire noi potemo bene intralasciare lo principio e non fare neuno
exordio né prolago di parole, e cominciare la nostra diceria alla narrazione,
cioè pur dire lo fatto; e bene potemo cominciare da quella legge che tocca alla
nostra materia o da quella ragione che sia più fermo argomento e più certo. Ma
se nne piace usare ijrincipio e fare alcuno prologo, certo noi lo potemo bene,
non per acquistare benivolenza ma per crescere quella che v' è. Et perciò in
detto caso il nostro 20. principio dee essere in parole apropiate a
benivolenza. Della causa ohscura. (e. XVI) Nella causa la quale è oscura
conviene che nel nostro principio noi facciamo che ir uditore sia docile. Lo
sponitore. 25. 1. In adietro fue dimostrato qual causa e quando sia oscura. Et
perciò dice Tullio che nella causa la quale sia 2 : M' m tia 3 : i« / Se ci
paro -i : M-m o alla legge, J/' o data leggo M o alcuna, )/i adalcluina, Mi o
dalcuna 5: Miw paro, m non paro 6 : il/i om. che h - 9: M-m nm. certo - facto
pro])io iO: M-m sanja molto ailorn. i i : Mi j perciò M noi doviamo a dire, m
noi doviamo diro i2: m alchuno oxordio 13-15: M-m no cominciare ~ M' 1
cominciare do quella legge - M-m o a ([uolla ragione 16: M' la (jualo sia 18:
M' ben faro 19: M-m il docto, M' in (juesto caso 25: M' mostrato (|ualo causa e
7 (juando sia (ma L ([uando sia) 26: M' la quale e (Cioè «quando cominciamo a
parlare». L'accordo di Jlf e JVf ' ronde sicuro a dire, e con questo si escludo
la lezione, buona in apparenza, di m {doviamo dire) come evidente accomodamento
di M. oscura all' uditore a intendere noi dovemo usare quella parte de exoi'dio
la quale è appellata principio, et in quello dovemo noi si dire che 11' uditore
sia docile, cioè ch'elli intenda e ch'elli senta la natura del fatto, in que5.
sto modo: che noi diremo in poche parole sommatamente la sustanzia del fatto
dell' una parte e dell' altra. Et poi che noi vedremo che U' uditore sia
apparecchiato in via d' intendere (1) il fatto, noi andremo innanzi a dire la
nostra ragione sì come si conviene al fatto. 10. Le ragioni delle cose. 93. Et
perciò che infìn ad ora noi avemo detto che ssi conviene fare nell' exordio,
oimai rimane a dimostrare per quali ragioni ciascuna cosa si possa fare.
Sponito7-e. Infino a questo luogo à insegnato Tullio tutto ciò che ssi conviene
dire o fare nello exordio; e perciò ch'elli àe detto in quale exordio ed in
qual causa ne conviene usare parole per acquistare benivolenza, sì vuole elli
da qui innanzi mostrare le ragioni come si puote ciò fare ; e questo 20.
insegnamento fa bene di sapere. De' quattro luoghi della temperanza.
Benivolenza s' acquista di quatro luogora : dalla nostra persona, da quella de'
nostri adversarii, da quella dell! giudici e dalla causa. Lo sponitore. In
questa parte insegna CICERONE acquistare benivolenza, e perciò ch'ella non si
puote avere se non per quello che ss' apartiene alle persone et al fatto, sì
dice che quattro luogora sono dalle quali muove benivolenza. Il primo luogp i:
if-»» om. all'uditore a intendere 2.M^As lexordio 4: Af' chela intenda et senta
5: m dopo diremo r(pe(e in ([uesto modo 6:m la natura om. Et 7-8: 3f'
apparecchiato intendere, m-L appareccliiato a intendere 12: m a mostrare 15:
M-m In ipiosto luogo om. tutto - 17: M-m 7 di qual causa, M' iu quale causa, i
e in quale causa M-m luoghi, della nostra p. 27-28: M' da quello... alla
persona (1) L' espressione certamente è ridondante {in via sembra quasi una
variante di apparecchiato), e perciò quasi tutti i testi l' hanno ridotta alla
forma pili semplice e comune. Il segno 7 di M' deriva da una errata lettura di
a, che anche in quel codice ha una forma simile alla nota tironiana. si è la
nostra persona e di coloro per cui noi dicemo. Il secondo luogo si è la persona
de' nostri adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la
persona de' giudici, cioè la persona (l) di coloro davanti da cui noi 5.
dicemo. Il quarto luogo si è la causa e '1 fatto e '1 convenente sopra '1 quale
noi dicemo. E di ciascuno di questi dicerà il conto ordinatamente e
sofficientemente. Tallio sopra lo lìvolago. Dalla nostra persona se noi dicemo
sanza superbia de' 10. nostri fatti e de' nostri officii; e se noi ne leviamo
le colpe che nne sono apposte e le disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i
mali che nne sono advenuti et li 'ncrescimenti che nne sono presenti; e se noi
usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino. Sponitore. 1. Conquistare
benivolenza dalla nostra persona si è dicere della persona nostra, o di coloro
per cui noi dicemo, quelle pertenenze perle quali l' uditore sia benivolo verso
noi. Et sappie che certe cose s' apartengono alle persone e certe alla causa; e
di queste pertinenze tratterà il conto 20. sofficientemente, e fie molto bella
et utile materia ad imprendere. Et qui pone Tullio quattro modi d'acquistare
benivolenza dalla nostra persona. 2. Il i)rimo modo si è se noi dicemo sanza
soperbia, dolcemente e cortesemente, de' nostri fatti e de' nostri officii. Et
intendi (2) che dice « fatti » 25 quelli che noi facemo non per distretta di
leggo o per forza, ma per movimento di natura. Et così dicendo Dido 1 : m Olii,
si 2: M-m om. luogo m ohi. si 5 : m om. si J : M-in om. la jiersoiia Afiia
coloro m davanti a chui, il/' davanti cui 5: M^ il facto m om. ól convonento
6-7 : M' om. di questi dioera lautore m om. e soBìcientemento 9-10: M-m Alla
nostra p. di nostri faoti Ai' lo nostre colpo 12: il/' che sono presenti M' i
scongiuramento M^ dola nostra persona 7 di coloro 17: m aparlenentle 20: m om.
suflicientementc M-mom. materia 22: m om. moiio 2-i:M-m intende, L intendo 25:
m diciamo per distretta 26: M-m dicendo didio (1) Le parole la persona sono
superflue, e perciò a prima vista si preferirebbe la lozione di M-m; ma è molto
più probabile l'omissione di parole inutili che la loro aggiunta in Af'.Scrivo
cosi per analogia col § 4; ma anche la lezione di Mm, intende, potrebbe
conservarsi come una forma di 2" persona dell' imperativo (per la
desinenza e non mancano esempii). d' Eneas acquistò la benivolenza degli
uditori: « Io » dice ella, « accolsi e ricevetti in sicura magione colui eh'
era cacciato iu periglio di mare, et quasi anzi eh' io udisse il nome suo li
diedi il mio reame ». Et cosi dice che ella 5. si mosse a pietade sopra Eneas
quando elli fugia dalla distruzione di Troia. 3. Et al ver dire noi avemo merzè
e pietade delle strane genti per natura, non per distretta. Ma offici sono
quelle cose le quali noi facemo per distretta, non per movimento di natura.
Onde dice Tullio che dell'uno 10. e dell'altro dovemo dire temperatamente sanza
superbia. 4. Il secondo modo si è se noi ne leviamo da dosso a noi et a' nostri
le colpe e le disoneste sospeccioni che cci sono messe et apposte sopra; et
intendi che colpe sono appellati que' peccati che sono apposti altrui
apertamente davanti al viso, sì come fue apposto a Boezio eh' elli avea
composte lettere del tradimento dello 'mperadore. Il quale peccato removeo elli
per una pertenenza di sua persona, cioè per sapienza, dicendo cosi. Delle
lettere composte falsamente che convien dire ? la froda delle quali sarebbe
mani 20. festamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione dell'
accusatore ». 5. Le disoneste sospeccioni sono le colpe eh' altre pensa in
centra ad un altro, ma nolle pone davante al viso, sì come molti pensavano che
Boezio adorasse i domoni per desiderio d'avere le dignitadi; e questa
sospeccione 25. si levò elli parlando alla Filosofìa, che disse: « Mentirò che
pensaro ch'io sozzasse la mia coscienza per sacrilegio (o per parlamento de'
mali spiriti). Ma tu, filosofìa, commessa in me cacciavi del mio animo ogne desiderio
delle mortali cose ».• Et così parve che volesse dire: « Poi che in me avea
sapien 30. zìa, non era da credere che in me fosse così laido fallimento ».
Tutto altressì Elena, voglìendosi levare la sospeccione che '1 suo marito avea
dì lei, disse: «Elli che ssi fida in me della vita, dubita per la mia biltade;
ma cui assicura prodezza non dovrebbe impaurire l'altrui bellezza ». 6. Il
terzo 1 : M' deluditore 2: S m sicuro porto 4: M' il suo nomo Mìi dica m il
roame mio 5: A/' dela 7: m M' 7 non 0: m L ^ non por m. 13-14: m ci sono aposto
(om. sopra) M' appellate.... apjioste 16: M \e lectoro 17: M' elgli rimovca ciò
fu 18: M' falsamente composte 20-21 : M-m jiartita ....stati.... dellaccusato
22: m centra un altro ^f' appone 25: m parlando olii 25-27: M-m Mentita chi
solcasse om. per sacrilegio.... spiriti 28: cacciavi (il latino ha pellebas) è
solo in L; M-m chaccia, Jf' cacciava con un i aggiunto tra v e a, s caccia via
29: M-m paro 31 : m schusare 7 levare 33: m della biltade mia modo è se noi
contiamo i mali elie sono advenuti e li 'ncrescimenti che sono presenti. Così
Boezio, contando ciò ch'avenuto era, acquistò la benivolenza dell'uditore
dicendo: « Per guidardone della verace vertude sofferò pene di falso incol5.
pamento ». Et Dido, dicendo i suoi mali dopo il dipartimento d'Eneas, acquistò
la benivolenza per la sua misa ventura, e disse : « Io sono cacciata et
abandono il mio paese e Ila casa del mio marito e vo fuggendo i)er gravosi
cammini in caccia de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di
10. guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare i suoi a
battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Cesare, guardate le catene e
pensate che questa testa è presta a' ferri e' membri a spezzamento». Altro modo
è se noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino, 15. cioè
devotamente e con reverenza chiamare merzede con grande umilitade. Et intendi
che preghiera è appellata sanza congiuramento. Verbigrazia : Pompeio,
vegiendosi alla pugna della mortai guerra di Cesare, confortando i suoi di
battaglia disse: «Io vi priego de' miei ultimi fatti 20. e delli anni della mia
fine, perchè non mi convenga essere servo in vecchiezza, il quale sono usato di
segnoreggiare in giovane etade » (0. Et queste pi'eghiere talfiata sono aperte,
sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì come quelle di Dido in
queste parole ch'ella mandò ad 25. Eneas: «Io » disse ella « non dico queste
parole perch'io ti creda potere muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon 4 :
M-m fossero peno 5 : M-m Et dicio dicondo 6-7: m dicendo M-m chaccialo 8: M el
mio marito, m om. - 9: M Tullio Cosarn, m Tulio corr. in .Tulio 12-13 : itf'
epresso li membri M 7 membri, m 7 i membri La sprezzamento 14: M-m 7
scongiuramento Mi panclino, m e parlino, M'-L o incliino - 13: m om. cioè
chiamando 19: m abattagla — 20: M delli anni ilelli amici lino, m delli anni
/siche 21: M servo in vilezza la (piale, m servo 7 in vilczza il quale 22-23:
M-m om. sono aperte, m anlhe il 2° talfiata 24: M di diedi 26: M' o perduto, m
chio perduto (l) Il testo di Lucano (Fars., VII, 380), da cui è tradotto questo
esempio, ha ultima fata deprecar, tutti i codici della Eettorica portano ultimi
fatti. Non credo che si possa pensare a uno sbaglio dei copisti, perchè un
latinismo come fati (che del resto qui non sarebbe traduzione esatta) manca di
ogni probabilità in quel tempo; sarà dunque da risalire a un'alterazione
facilissima del latino, ultima facta, che certo riusciva più intelligibile
della frase poetica originale. Quanto al servo in vecchiezza (che corrisponde a
ne discam servire senex), se potesse supporsi una forma vegliezza {eelUczza) si
spiegherebbe meglio come sia nato l'erroneo vilezza; ma è chiaro che la parola
servo risvegliò l'idea di «condizione vile, meschina». pregio e la castitade
del corpo e dell' animo, non è gran cosa a perdere le parole e le cose vili ».
8. Ma scongiuramento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio o per anima
o per avere o per parenti o per altro modo di 5. scongiurare, sì come DIDONE
fece ad Eneas: Io ti priego, dice ella, per tuo padre, per le lance e per le
saette de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco fuggirò, per li dei o per
l'altezza di Troia, etc. Or à detto il conto del primo luogo donde muove la
BENEVOLENZA, cioè 10. della nostra persona e di coloro che sono a noi ; ornai
dirà il secondo luogo, cioè della persona delli adversarii e di coloro contra
cui noi dicemo. Dalla persona delli aversarìi se no! li mettemo inn odio 15.
invidia o in dispetto. Lo sponitore. 1. Acquistai'e benivolenza dalla persona
de' nostri adversarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per le
quali l' uditore sia a noi benivolo et contra 1' aversario 20. malivolo; et a
cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo modo è dicere le pertenenze delle loro
persone per le quali siano inn odio dell'uditori; il secondo che siano in loro
invidia; il terzo che siano in loro dispetto; e di ciascuno di questi tre modi
dirà il testo bene et interamente. Tullio. Inn odio saranno messi dicendo com'
ellino anno fatta alcuna cosa isnaturatamente o superbiamente o crudelmente o
maliziosamente. M om. a 711 lo chose vili 7 le i»arole 4: M' o per parenti por
avere m oin. rli scongiurare 6-7 : M' per lo tuo padre 7 per le 1. 7 [jor le s.
de tuoi f., per li compagniper saette di tuoi I"., m per le saette de tuoi
parianti 7 per li compagni - 8-0 : M' om. etc. Ed ora a detto il maestro om. la
Ì0:m dalla nostra parte YS: 3i' odindispregio 19: M-m om. a noi M'
deluditore.... in invidia. Et il ter^^o che sia m loro in invidia.... loro in
dispetto : M' comelgli anno alcuna cosa facta vi 0»». isnatur. e o
maliziosamente Noi potemo i nostri adversarii mettere ina odio dell' uditore se
noi dicemo eh' elli anno alcuna cosa fatta isnaturalmeute, contra l'ordine di
natura, si come mangiare 5. .calane umana et altre simili cose delle quali lo
sponitore si tace presentemente. O se noi dicemo eh' elli abian fatto
superbiamente, cioè non temendo né curando de' signori né de' maggiori,
avendoli per neente. O se noi dicemo ch'elli abbiano fatto crudelmente, cioè
non avendo pietà né mise 10. ricordia de' suoi minori né di persone povere,
inferme o misere. se noi dicemo ch'elli abbiano fatto maliziosamente, cioè cosa
falsa e rea, disleale, disusata e contra buono uso. 2. Et di tutto questo avemo
exemplo nelle parole che BOEZIO dice contra NERONE imperadore. Ben sapemo
quante ruine fece ARDENDO ROMA, tagliando i parenti et uccidendo il fratello e
sparando la madre. Altressì fue malizioso fatto il qual racconta Euripide di
Medea, che sta scapigliata tra' monimenti e ricogliea ossa di morti. 3. Omai à
detto lo sponitore sopra '1 testo di Tullio come noi potemo met 20. tere il
nostro adversario in odio et in malavoglienza dell' uditore. Da quinci innanzi
dicerà come noi li potemo mettere in loro invidia. Tullio. In invidia dicendo
la loro forza, la potenza, le ricchezze, 2.5. il parentado e le pecunie, e la
loro fiera maniera da non sofferire, e come più si confidano in queste cose che
nella loro causa. Sponitore. 1. Noi potemo conducere i nostri adversarii in
invidia et in disdegno dell' uditore se noi contiamo la foi'za del 3-4: M'
chaWi ahh'ia. {poi aggiunto no dalla stessa maria) isnaluratamente contra
online M' tace ora presentemente m al ])rosonte M-m 7 se noi dicemo che labian
7-8: M tenendo M^ 7 non venerando de sig,... 7 avendoli, m curando.... do
maggiori M-m 3/' chelabbiano 9-10: m misericordia.... di persone M' 7 misero
M-m Et se dicemo cliollabbiano 12: Af' cosa rea falsa et disleale 7 disusata
contra b. u., m om. cosa o disleale 7 contro a b. u. 13: M' exemplo avemo lo :
M' uccidendo i parenti, talgllaiido il fratello M-m i fratelli 17 : S Euripide
M-m di medici IS: M corresse monimenti in moUimenti 20: m om. in odio et - Af'
in malavoglienca 21-22: M Da ipii 3f' diceremo.... li potremo mettere loro in
invidia 24 : M-m om. M' si lidano: Af' i nostri avorsari conducere degliuditori
Magoini, La rettorica italiana di B. L. corpo e dell' animo loro ad arme e
senza arme, e la potenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le ricchezze, cioè
servi, ancille e posessioni, e'1 parentado, cioè schiatta, lignaggio e parenti
e seguito di genti, e le pecunie, cioè 5. denari, auro et argento, in cotal
modo che noi diremo come ' nostri adversarii usano queste cose malamente et
increscevolemente con male e con superbia, tanto che sofferire non si puote. 2.
Cosi disse Salustio a' Romani: Ben dico che Catenina è estratto d'alto
lignaggio et à grande IO. forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa in
tradimenti e distruzioni di terre e di genti ». Così disse Catenina centra '
Romani: Appo loro sono li onori e le potenzie, ma a nnoi anno lasciati i
pericoli e le povertadi. Ed ora è detto della invidia contra i nostri
adversarii; sì dicerà il conto come noi li potemo mettere in dispetto. Tullio.
In dispetto degli uditori saranno messi dicendo che siano sanza arte,
neghettosì, lenti, e clie studiano in cose disusate e sono oziosi in iuxuria.
20. Sponitore. I. Noi potemo mettere i nostri adversarii in dispetto degli
uditori, cioè farli tenei'e a vile et a neente, se noi diremo che sono uomini
nescii sanza arte e sanza senno, da neuno uopo e da neuna cosa; o che sono
neghettosì, che tuttora si stanno e dormono e non sì muovono se non come per
sonno; o diremo che sono lenti e tardi a tutte cose; o diremo che studiano in
cose che non sono da neuno uso né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi
in Iuxuria dando forza et opera in troppo mangiare, in nebriare, 30. in
meretrici, in giuoco et in taverne. 2. Et ora à detto il Af' om. e le signorie,
poi continua: E le pecunie, ciò sono i danari e seni 7 ancelle 7 possessioni.
¥A parentado di genti, in cotal modo ecc. 6: M' come i nostri aversarii 11 : M^
in tradimento 7 distructione de terra 7 <le gente, m in tradimenti
distructioni: M-in a Romani : m lasciato 14: M iì detta L'i : M' o»i noi in
dispregio (l. 17 idem) 17: M' om. degli uditori M disulate M octosi, m ottosi
22: M' om. degli uditori 23: 3f' siano, m sieno M' sanza sonno? sanza arte di
neuno huopo - 24: m om. da neuno uopo e 25 : m si stanno, dormono - 26: M' per
sonno/ 7 diceremo, L per sogno 27-28 : m alclumo uso M ' 7 dicoremo 29-30: M'
de troppo mangiare .T ebriare. in puttane m 7 in bere M in cliaverne M' a decto
luditore come )?t om. E conto come noi potemo acqnistare la benivolienza
dell'uditore dalla persona de' nostri adversarii mettendoli inn odio et in
invidia et in dispetto, et à insegnato come si puote ciò fare. Ornai tornerà
alla materia per dire come s' acqui5. sta benivolenzia dalla persona dell'
uditore, e questo è il terzo luogo. La benivolenza dell'uditore. Dalla persona
dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo che tutte cose sono usati di fare
fortemente e saviamente e man10. suetamente, e dicendo quanto sia di coloro
onesta credenza e quanto sia attesa la sentenza e l'autoritade loro. Lo sponitore
Noi potemo acquistare la benivolenza delli uditori dicendo le buone pertenenze
delle loro persone e lodando 15. le loro opere per fortezza e per franchezza e
per prodezza, per senno e per mansuetudine, cioè per misurata umilitade, é
dicendo come la gente crede di loro tutto bene et onestade, e come la gente
aspetta la loro sentenza sopra questo fatto, credendo fermamente che fie si
giusta e di tanta 20. autoritade che in perpetuo si debbia così oservare nei
simili convenenti. Di forte fatto Tulio lodò Cesare dicendo: « Tu ài domate le
genti barbare e vinte molte terre e sottoposti ricchi paesi per tua fortezza».
3. Di senno il lodò e' medesimo parlando di Marco Marcello: Tu nell'ira, la
quale è molto nemica di consellio, ti ritenesti a consellio. Di mansueto fatto
il lodò Tulio dicendo: Tu nella vittoria, la quale naturalmente adduce
superbia, ritenesti mansuetudine ». 5. D' onesta credenza il lodò Tallio in M'
in odio deluditore, M innodio 7 invidia, m in odio, in invidia M-m om. si 8:
Jf' m delludilore {ma il testo auditorum) ~ 9: M' sono usi M-m 7 suavomento {m
nm. 7) : i mss., ambedue le volte, quando M' di loro li: M-m intesa 13: M-m om.
delli uditori M^ deluditore M' dicendo che buone M-m om. e per franchezza M' 7
per senno 17: m M' om. e 19: Jtf' credendo che la loro sententia sia si giusta
m che sia SO: M-m ne in simili, M'-L ne simili 23-84: m e lodo, M' il lodano 7
medesimo parlano m marche metcllo M-m om. molto Af tu ritenesti a consellio, m
tu ritenesti consiglio 26: M ilio Tullio tu ecc., m di mansueto fatto /7 nella
vittoria M adato, m adato, L odduce 28: m om. credenza il lodò Tullio In tutti
1 codici l'interpunzione di questo passo è variamente errata, né metterebbe
conto darne notizia. questo modo: Cesare volle alcuna fiata male a Tullio, ma
tutta volta lo ritenne in sua corte; e non pertanto Tullio CICERONE era sì
turbato in sé medesimo che non potea intendere a rettorica si come solea, insin
a tanto che GIULIO CESARE non li 5. rendeo sua grazia. Et in ciò disse Tullio.
Tu ài renduto a me et alla mia primiera vita l’usanza che tolta m' era, ma in
tutto ciò m'avevi lasciata alcuna insegna per bene sperare »; e questo dicea
perchè l'avea ritenuto in corte, sicché tuttora avea buona credenza. 6. D'
attendere la sua buona sentenza lodò Tullio Cesare parlando di Marco Marcello:
«La sentenza eh' é ora attesa da te sopra questo convenente non tocca pure ad
una cosa, ma à ad convenire (D a tutte le somiglianti, perciò che quello che
voi giudicarete di lui atterranno tutti li altri per loro ». 7. Or é detto come
15. s'acquista benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà Tullio coni'
ella s'acquista dalle cose. La benivolenza delle cose. Da esse cose se noi per
lode innalzeremo la nostra causa, per dispetto abasseretno quella delii
adversarii. Sponitore. Noi potemo avere la benivolenza dell'uditori da esse
cose, cioè da quelle sopra le quali sono le dicerie, dicendo le pertenenze di
quelle cose in loda della nostra parte et in dispetto et in abassamento dell'
altra; sì come disse 25. Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare
: « La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò eh' ella è migliore
che quella de' nemici, ne dà ferma spe 4 : M' om. non 6: M-m la causa dm t. i a
me la mia primiera vila e liisanza 7: tutti, eccetto L, m'avea M-m la sua
insegna 8 : M' 7 in questo (?«re i et ((uesto) M' buona speranna M-m lodo
Cesare di Tullio - IS: M-m ma ad {m a) convenire, M-L ma dee convenire Mt per
lui i5: 3f' dele persone i8:M-mom. so L sar|uista bonivoglienza se noi ecc. (ma
nel latino manca) M' m 7 per disp. 21 : M' deluditofo, m delli uditori 24 : m
nm. in dispetto M-m om. idi 25: M confermando la sua gente 26: m M'-L e piena
Lo pero chella 27 : m forma speranza (1) Aggiungo un' a, che nella scrittura
del codice può considerarsi fusa (come avviene nella pronunzia) con quella
precedente di ma con quella seguente di ad. Bel resto basterebbe anche «
convenire, quasi come un futuro (« converrà ») scomposto nei suoi elementi.
-ranza d'avere Dio in nostro adiuto(i)». 2, Et ornai à divisato il conto le
quattro luogora delle quali si coglie et acquista la benivoglienza, molto
apertamente et a compimento; sì ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore
intento. Di fare V uditore intento. Intenti li faremo dimostrando che in ciò
che noi diremo siano cose grandi o nuove o non credevoli, o che quelle cose
toccano a tutti a coloro che 11' odono o ad alquanti uomini illustri, ai dei
immortali, a grandissimo stato del comune, o se noi prof10. terremo di contare
brevemente la nostra causa, o se noi proporremo la giudicazione, o le
giudicazioni se sono piusori. Avendo Tullio dato intero insegnamento
d'acquistare la benivolenza di quelle persone davante cui noi 15. proponemo le
nostre parole, sì che l' animo s' adirizzi et invìi in piacere di noi e della
nostra causa e che siano contrarii e malevoglienti a'nostri adversarìi, sì
vuole Tullio medesimo in questa parte del suo testo insegnare come noi I)otemo
del nostro exordio, cioè nel prologo e nel cominciamento del nostro dire, fare
intenti coloro che noi odono, sì che vogliano achetare i loro animi e stare a
udire la nostra diceria; e di questo potemo noi fare in molti modi de' quali
sono specificati nel testo dinanti, et in altri simili casi. 2. Et posso ben
dire manifestamente che ciascuna per 25. sona sarà intenta e starà ad intendere
se io nel mio comin1: m nm. Et 3 : 3f' nm. la hi odi. molto 4: m alento 8-9:
A/' o aliquanlì.... o ali iilii imm. o a M |)iQrRremo, vi protreremo {lat.
pollicebimur) iO: M-m owi. brevemente VI proiroromo la giuil. i3 •M-m Quamlo
Tullio a dato 14: J/tlavento 7/1 (lavante a cimi 13-16: 3/' loro siiivii 7
dlrirvi 17: vi malagevoli 19: M' nel nostro exorilio vi nm. nel coniiiiciamento
21 : 3f' si che noi vogliamo 32-23: 3f ' Et questoi (jua'.i.... davanti vi om.
el 25: M-m sono noi mio com. Lucano, Phars., VII, 349: " Causa iubet
melior superos sperare secundos „. Solo la lezione di M corrisponde anche per
la forma sintattica. Si rimano alquanto in dubbio sulla lezione da preferire,
perchè tra un Avendo e un Quando la differenza grafica ò lieve, data la
somiglianza di una forma di A con Q. Ma il gerundio Avendo, con una costruzione
meno comune, più difficilmente può esser dovuto a un copista; d'altra parte il
quando in senso di " dopo che „ non è dell'uso di Brunetto, clie adopra
continuamente la formula " Poi che Tullio ha detto ha insegnato (S’intende
clie l'inserzione di a davanti a dato diveniva necessaria leggendo Quando).
-ciamento dico eli' io voglia trattare di cose grandi e d'alta materia, sì come
fece il buono autore recitando la storia d'Alexandro, che disse nel suo
cominciamento : « Io diviserò e conterò così alto convenente come di colui che
conquistò ó. il mondo tutto e miselo in sua signoria ». 3. Altressì fie inteso
s' io dico eh' io voglia trattare di cose nuove e contare novelle e dire eh' è
avenuto o puote advenire per le novitadi che fatte sono, sì come disse
Catellina : « Poi che Ila forza del comune è divenuta alle mani della minuta
10. gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi potenti a cui si
convengono li onori, siemo divenuti vile populo sanza onore e sanza grazia e
sanza autoritade. Altressì fie intento s' io dico eh' io voglia trattare di
cose non credevoli, sì come '1 santo che disse : « Il mio 15. dire sarà della
benedetta donna la quale ingenerò e parturio figliuolo essendo tuttavolta
intera vergine davanti e poi »; la quale è cosa non credevole, i^erciò che pare
essere centra natura. Et si come diceano i Greci: « Non era cosa da credere che
Paris avesse tanto folle ardimento che venisse 'n essa terra a rapire Elena.
Altressì fie intento s'io dico che '1 convenente sopra '1 quale dee essere il
mio parlamento a tutti tocca od a coloro che 11' odono, sì come disse Gate
parlando della congiurazione di Catellina: « Congiurato anno i nobilissimi
cittadini incendere e distruggere 1 : M traclai-e cose, m cliio voglia di
trattare chosa grande 2 : M actoro, m attor.j M' recontcro conquise7 mise 5-6:
M' fia inlento sic dica.... 7 contrario novelle - 7: M' 7 puote 9: M storca m e
venuta.... gente minuta 10: m M'-L non potenti iy : J>f' noi a cui 13: M
Altre si 14-15: M'-L sicome disse il santo che disse - i II mio dotto 16: M'
partorie il figluplo M^ -j di. poi M-m om. la quale.... natura 19: M-m oni.
folle m om. che venisse SO: M nessa terra, m in essa terra, M'-L nela nostra
terra M arape 22: M' tocclia a tutti coloro anno nob. citt. dincendore
[Nonostante l'accordo di tutti gli altri codici, mi attengo a M, la cui lezione
è confermata dal testo di Sallustio: " omnes, strenui, boni, nobiles atque
ignobiles „ ecc. Brunetto non traduce esattamente, ma vuol mettere in rilievo
la dignità delle persone, e perciò ripete il noi; forse questa parola in
qualcuno dei primi apografi fu scritta no (no') e quindi scambiata colla
negazione: non potenti. Favoriva l'errore anche il tono insolito della frase
" noi nobili, noi potenti,., mentre le parole " in podere del populo
grasso „ inducevano a considerare " non potenti „ i nobili. Intendo in
essa terra (come scrive m), cioè " nella patria stessa „, in ipsa terra. Leggendo
con 21f » nella nostra terra si avrebbe lo stesso senso in forma più chiara; ma
non saprei allora spiegare la variante di M-m. È possibile che, omesso il
nostra, un nella sia stato letto nessa, che a prima vista non dà senso ? Invece
nulla di più facile del caso inverso, e.ssendo l's di forma allungata cosi
simile a l. isola patria nostra, e '1 lor capitano ne sta sopra capo. Adunque
dovete compensare clie voi dovete sentenziare de' crudelissimi cittadini che
sono presi dentro nella cittade » Altressì fie intento s' io dico clie Ila mia
diceria tocca 5. ad alquanti uomini illustri, cioè uomini di grande pregio e
d'alta nominanza in traile genti sì come disse Pompeio parlando della battaglia
civile: « Sappiate che l'arme de' nemici sono appostate per abbattere l'alto e
glorioso sanato ». Altressì fie inteso s'io dico che Ile mie parole toccano
a'dei, 10. si come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo di fare
cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di sopra potrebbero ornai trarre
il populo delle sue mani. Altressì fie intento s' io dico nel principio di dire
la mia causa brevemente et in poche parole, sì come disse il poeta 15. per
contare la storia di Troia: «Io dirò la somma, come Elena fue rapita per solo
inganno e come Troia per solo inganno fue presa et abattuta. Altressì fie
intento s'io nel mio exordio propongo la giudicazione una o più, cioè quella
sopra che io voglio fondare il mio dire e fermerò 20. la mia provanza, sì come
fece Orestes dicendo: « Io proverò che giustamente uccisi la mia madre,
imperciò che dio Apollo il mi à comandato, perciò che uccise il mio padre». IO.
Et di tutti modi per fare l'uditore intento potemo noi coUiere exempli in
queste parole che disse Tullio a Cesare parlando per Marco Marcello: « Tanta 1
: M-m 7 lor M' ne sopra capo 2-3 : m dovete pensare, Mi pensale M-m esmarn {m
esimare) de nobilissimi citi. M' ohe sono dentro ala cittade (anche m dentro
alla) M fue, m (la 5-6: M' cioè de gr. M-m 7 da tale nominanca 7 : M-m che
latine M-m sano, M' senato M' fia intonto O-ll: M-m poi chelll anno conceputo
di faie tanti iniipii mali gridava (m om. gridava) M apena ornai 3f' nel
cominciamento 14: Jf' o in jioclie parole M' om. Io dirò.... e come Troia, M
om. Troia [spazio bianco) m diclio 7 propongo nel mio exordio Mi sopra che
infomliiro il mio dire e fondata m sopralla quale M-m che io ajmllo il mio
comandato, 3f' chol dio Appello lo ma com. (/.. lo mavea), 7 perciò cliella m
atento M' exemiilo M-m om. a M' parlando a lui Questo periodo è d'incerta lezione,
male varianti registrate in nota sono palesi accomodamenti, specialmente il
pensate di Jtf ' per evitare la ripetizione di dovete; co.si esmare esimare può
esser nato da una sigla di sentenziare (0 si tratterà di fmare, fermare?). Glie
sia poi da leggere crudelissimi cittadini ò confermato, oltre che dal senso,
dalla parola hostibiis che vi corrisponde i\el tosto di Sallustio ; nobilissimi
ò derivato dalla frase del periodo precedente. La lezione di M., che è tutta
accettabile, dà ragione degli errori di Mm: il primo elli parve plurale, e
quindi si fece elli anno; il ma unito con Mi divenne mali e portò con sé altri
cambiamenti. Ma non giurerei che tutto sia genuino" mansuetudine e cosi
inaudita e non usata pietade e cosi incredebile e quasi divina sapienzia in
nessuno modo mi posso io(l) tacere nò sofferire ch'io non dica». Et poi che
Tullio à pienamente insegnato come per le nostre parole 5. noi potemo fare
intento l'uditore, si dirà come noi il poterne fare docile. Come l'uditore sia
docile. Docili faremo li uditori se noi proporremo apertamente e brevemente la
somma della causa, cioè in che sia la contraversia. E certo quando tu il vuoti
fare docile conviene che tu insieme lo facci attento, in però che quelli è di
grande guisa docile il quale è intentissimamente apparecchiato d'udire. Quelle
persone davanti cui io debbo parlare posso io fare docili, cioè intenditori, da
tal fatto: se io nel mio exordio, alla 'ncviminciata della mia aringhiera,
tocco un poco d^l fatto sopra '1 quale io dicerò, cioè brevemente et
apertamente dicendo la somma della causa, cioè quel punto nel quale è la forza
della contenzione e della controversia. Cosi fece Saiustio docile Tulio
dicendo: « Con ciò sia cosa ch'io in te non truovi modo né misura, brevemente
risponderò, che se tu ài presa alcuna volontade in mal dire, che tu la perda in
mal udire ». 2. Questo et altri molti exempli potrei io mettere per fare
l'uditore docile, si come buono intenditore puote vedere e sapere in ciò eh' è
detto davanti. E perciò che '1 conto à trattato inn adietro di due maniere
exordii, cioè di principio e d'insinuazione, et àe divisato M consuetudine, m
sollicituiline, L inmansuetudine L nm. lo e cosi. M mandila. M-m mi possono,
M-L io posso m om. Et. M' luditore intento, M nm. l'uditore. 8: M' Docile
l'aremo luditore M-m proi)onemo iO: Af' Et credo quando tu vuoli. m nm. è
attentissimamente. m davanti a chui docile cioè intenditori de tutto il facto
M-m sarò nel mio ex. M' incomincianza. M arrincliiera, M' aringheria m
cominciamo 7 toccho Af' om. dicendo nel quale e la contentione. M' om. cosa (ma
non L). m o misura. M' ti lispondo M' om. Io. m om. e sapere. M' doxordio [È
chiaro che posso io fu dall'archetipo di M-m trasformato in possono perchè
tutti i sostantivi che precedono parvero soggetti e non complementi oggetti ; e
vi dovè contribuire una falsa lettura (cfr. un caso simile in 128, 23, seno per
se io). La lezione di M'-L è solo un facile accomodamento. ciò che ssi conviene
fare e dire nel principio per fare l'uditore benivolo, docile et intento, sì
dirà lo 'nsegnamento della INSINUAZIONE in questo modo. Oramai pare che sia a
dire come si conviene trattare le insinuazioni. INSINUAZIONE è da usare quando
la qualitade della causa è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro,
quando l'animo dell'uditore è contrario a noi. E questo adiviene massimamente
per tre cagioni: o che nella causa è alcuna ladiezza, o coloro 10. e' anno
detto davanti pare ch'abbiano alcuna cosa fatta credere all'uditore, se in quel
tempo si dà luogo alle parole, perciò che quelli cui conviene udire sono già
udendo fatigati; acciò che di questa una cosa, non meno che per le due
primiere, sovente s'offende l'animo dell'uditore. In adietro è detto
sofficientemente come noi potemo acquistare la benivolenza dell" uditore e
farlo docile et intento in quella maniera de exordio la quale è appellata
principio. Oramai è convenevole d' insegnare queste mede 20. sime cose
nell'autra maniera de exordio la quale è appellata « insinuatio ». 2. Et ben è
detto qua indietro che « insinuatio » è uno modo di dicere parole coverte e
infinte in luogo di prologo. Et perciò dice Tullio che questo tal prologo
indaurato dovemo noi usare quando la nostra causa è laida e disonesta inn
alcuna guisa, la qual causa è appellata mirabile, sì come pare in adietro là
dove fue detto che sono cinque qualità U) di cause, cioè onesta, mirabile,
vile, dubiosa et oscura. 3. E buonamente nelle quattro ne potemo noi passare
per principio; ma in questa una, cioè mirabile, 1 : M cioè M' om. fare e S :
M-m om. s\ 6: 3f ' della ìnsinualiono 7: m ohi. s'i M-m 7 di questo diviene iS:
L Kt di questa Iti: M-m a detto 20: W nella maniera 2i : m Bono dotto S3: M-m
cai prologo (m prolago danrato), 3/' cotale prolagoS6: M-m nm. in adiotro M
modi ([ualità (hi qui è corroso, vin lo spazio fa supporre lo slesso), M'-L
qualitadi dolio cause M' cioè nollamirabile Conservo la parola qualità
attestata da ambedue le tradizioni, tanto più Clio anche prima Brunetto usa lo
stesso vocabolo. In M abbiamo modi qualità. Probabilmente si tratta di una
sostituziono o variante, che venne poi introdotta nel testo (a mono clie non si
voglia supporre un modi o qualità). ne conviene usare INSINUAZIONE [IMPLICATURA
– “He hasn’t been to prison yet” – “He has beautiful handwriting”] per sotrarre
l’animo dell’uditore e tornare in piacere di lui ed in grazia quel che pare
essere in suo odio. Adunque ne conviene vedere in quanti e quali casi la nostra
causa puote essere mirabile, e poi vedere come noi potemo contraparare a
ciascuno. E sono tre casi. Primo caso si è quando sie nella causa alcuna
ladiezza per cagione di mala persona o di mala cosa. Che al vero dire molto si
turba l'animo dell'uditore contra il reo uomo e per una malvagia cosa. Il
secondo caso è quando il parlieri ch'à detto davanti à sie et in tal guisa
proposta la sua causa, eh' è INTRATA NELL’ANIMO dell'uditore e pare già che Ha
creda sì come cosa vera; per la quale cosa r uditore, poi che comincia a
credere alle parole che ir una parte propone et extima che Ila sua causa sia
vera, apena si puote riducere a credere la causa dell'altra parte, anzi sine
strana et allunga. Il terzo caso è d'altra maniera che sovente aviene che
quelle persone davanti cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire i nostri
convenenti anno lungamente udito e stati A INTENDERE ALTRI e' anno detto assai
e molto, prima di noi, DONDE L’ANIMO dell' uditore è fatigato sì che non vuole
né agrada lui d'intendere le nostre parole; e questa è una cagione che offende
l'animo dell'uditore non meno che 11' altre due Et perciò conviene a buon
parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno caso contrario, secondo lo
'nsegnamento di Tulio. Della laidezza della causa. Se la laidezza della causa
mette l'offensione, conviene mettere per colui da cui nasce l'offensione un
altro uomo che sia amato, o per la cosa nella quale s'offende un'altra cosa che
sia provata, o per la cosa uomo o per l'uomo cosa, sicché L'ANIMO dell'uditore
si ritragga da quello che 'nnodia in quello ch'elli ama. Et infingerti di non
difendere quello che pensano che tu voglie difendere, e così, poi che l’uditore
sie più allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose,
le quali indegnano L’AVERSARII, a noi medesimi paiono non degne. Et poi che tu
avrai allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non pertiene atte
neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell' aversarii, ne questo ne
quello, sì eh' apertamente tu non danneggi coloro che sono amati, ma
oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da lloro la volontade dell'uditore;
e proferere la sentenzia d'altri in somiglianti cose, o altoritade che sia
degna d'essere seguita; et apresso dimostrare che presentemente si tratta
simile cosa, o maggiore minore. In questa parte dice Tullio CICERONE che, SE
l’uditore è turbato contra noi per cagione della causa nostra che sia o che
paia laida per cagione di mala persona o di mala cosa, ALLORA DOVEMO NOI USARE
INSINUAZIONE NELLE NOSTRE PAROLE in tal maniera che in luogo della persona
contra cui pare CORUCCIATO L’ANIMO dell'uditore noi dovemo recare un'altra
persona amata e piacevole all'uditore, sì che per cagione e per coverta della
persona amata e buona noi appaghiamo L’ANIMO dell'uditore e ritraiallo del
coruccio ch'avea contra la persona che lui semblava rea. Si come fece AIACE
nella causa della tendone che fue intra lui et ULISSE per l'arme eh' erano
state d'Achille. Et tutto fosse AIACE un valente uomo dell'arme, non era molto
amato dalla gente né tenuto di buona maniera. Ma ULISSE, per lo grande senno
che in lui regna, e molto amato. Onde AIACE, volendosi contraparare, nel suo
dicere ricorda com' elli era NATO DI TELAMONE, il quale altra fiata prese Troia
al tempo del forte ERCOLE. E così mette la persona avanti amata e graziosa in
luogo di sé ed in suo aiuto, per piacerne alla gente e per avere buona causa. E
quando la causa è laida per cagione di mala cosa, si dovemo noi recare NEL
NOSTRO PARLAMENTO un’altra cosa buona e piacevole. Si come fa CATILLINA
scusandosi della congiurazione che fa in ROMA, che mise una giusta cosa per coprire
quella rea, dicendo. Elli è stata mia usanza di prendere ad atare li miseri
nelle loro cause. Nome compiuto. Brunetto Latini. Latini. Keywords: rettorica,
le fonte della retorica di Latini: Cicerone e Publio Vegezio, insinuazione,
parlari, parlatore, controversia, auditore, o destinatario, animo
dell’auditore, modo, essempio di Roma antica, Giulio Cesare – rettorica
oratoria togata – sacrilegio o furto --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Latini” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Laurino:
la ragione conversazionale, l’homo oeconomicus, e l’implicatura conversazionale
dei longobardi – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Laurino). Abstract. Grice: “Oxford was an oasis for me. Had I
grown up in Germany, it would never have been easy for me to invoke a principle
of conversational helpfulness without STATING clearly what my grounds for it
were! Horkheimer, and others, were talking of INSTRUMENTAL means-end rationality
– but my approach involved the rational response on the co-conversationalist –
so it’s more the type of ‘inter-subjective’ rationality that one finds in
economic models. As a classicist, I was not ready to invoke ‘economy’ like
that, seeing that Aristotle’s aeconomica is apocryphal anyway. But the Italians
have a motto for it – with a long history: that of homo œconomicus”! The
expression ‘homo oeconomicus,” Latin for ‘economic man,’ describes a
theoretical abstraction used in some economic models to represent a human
being., This theoretical human is characterized by rationality, self-interest,
anda drive to maximise utility (as a consumer) and profit (as a producer). Here’s
a breakdown of its history and the evolution of the concept. Origins and early
development. Adam Smith, the Scottish philosopher, laid the groundwork,
describing humans as motivated by economic self-interest and the maximinatio of
pleasure. John Stuart Mill is credited with formally defining the ‘economic man’
in his essay ‘On the definition ofp political economy and the method dof
investigation proper to it.’ Mill envisioned the economic actor as one who
strives to acquire the greatest amount of necessities, conveniences, and luxuries
with the least amount of labour and physical self-denial. Mill argues that
political economy focuses on human desires related to wealth accumulation, excluding
other motivations that do not directly contribute to that end. The term ‘homo
oeconomicus’ was introduced by WALKER and subsequently adopted by the French
philosopher JANNET. Dominance in classical and neo-classical economies. The
concept of the economic man heavily influenced classical and neo-classical
economic thought, particulary in MICRO-economics. Economists like EDGEWORTH,
JEVONS, Leon WALFRAS, and PARETO (an Italian émigré) built mathematical models
based on these assumptions of RATIONALITY and self-interest. In the 20th
century, rational-choice theory, with its core assumptions and individual
preferences – completeness, transitivity, stability – and utility maximization,
became a cornerstone of mainstream economics. Criticism and the rise of behavioural
economics. 20th century. Over time, the homo oeconomicus model faced
significant critiques from various fields, including economic anthropology, and
other social sciences. Critics argued that it provided an overly SIMPLISTIC –
cfr. Grice on models – and UNREALISTIC depiction of human behaviour, neglecting
the complex ETHICAL and behaviourlal dimensions of decision-making. KEYNES – that
Grice cites in connection with metaphysics and probability theory –, among others,
questioned the RATIONALITY assumption, asserting that human often behave
IRRATIONALLY and are ot always fully informed when making economic choices.
This was taken up by one of Grice’s colleagues: D. F. Pears, in his “Motivated
irrationality,” where he borrows from Grice’s larger philosophical picture – and
the implicatural versus entailment-based analysis of concepts – arguing with
Grice that a purely implicatural approach may be ‘too social to be true’. Behavioural
economics and neuro-economics. The emergence of behavioural economics, pioneered
by figures like Kahneman and Tversky, challenged the core tenets of homo oeconomcus.
Behavioural economists demonstrate that human decisions ae often influenced by
cognitive biases, emotions, and other irrational factors – cfr. Grice, The
power structure of the soul, and his criticism of Kantotle’s succumbing to the
mind or intellect over other parts of the soul, notably the pre-rational --,
making the homo oeconomicus model inadequate for accurely PREDICTING real-world
behaviour. Research in neuro-economics further supports this, showing that
emotions and neural processes play a crucial role in economic decision-making.
Impact and continued relevance. While widely debated and recognized as an
ABSTRACTION, rather than a fully accurate representation of human behaviour,
homo oeconomicus remains an influential concept in economic theory, serving as
a baseline model for understanding and analysing certain economic phenomena.
However, modern economic research increasingly incorporates insights from behavioural
economics, aiming for more realistic models of human decision-making that
acknowledge the complexities of human psychology and the influence of social
context. Filosofo italiano. Laurino,
Salerno, Campania. Duca di Aquara e di Laurino, appartenente alla nobile
famiglia napoletana degli Spinelli. Allievo di VICO, si forma al
Clementino a Roma e poi all'Accademia di Loreto. Ritornato a Napoli, divenne
amico di vari illuministi napoletani, quali FILANGIERI (si veda) e
Galiani. Autore di vari saggi di stampo illuministico. Le “Riflessioni filosfiche”
rappresenta un tentativo di metodo geometrico. Si oppone alle teorie di
Broggia. Fa attivamente parte della massoneria napoletana, all'epoca diretta
dal principe di Sansevero, Raimondo di Sangro. Cavalerie del Real Ordine
di San Gennaro. A Napoli, fa ristrutturare il palazzo di famiglia, il
palazzo Spinelli di Laurino, trasformandolo in una suggestiva realizzazione. Muore
a Napoli e venne sepolto nella cappella di famiglia nella chiesa di Santa
Caterina a Formiello. Altri saggi: “Degl’affetti degl’uomini”, Napoli, Muzio;
“Della moneta” (Napoli); “Cronologia dei re di Napoli,” Napoli, Bisogni; “Del
nobile”, Porsile; “Lettera nella quale si dimostra non esser nota di falsità,
che nel diploma di fondazione della chiesa di Bagnara si ritrovi l'anno 1085
segnato coll'indizione sesta correndo l'ottava del computo volgare; Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. -- ria che forma la materia
del presente saggio: E metodo col quale questa siè composto. I tutte le città e
popoli dell'Italia ciascuno ha la sua particular forma di governo prima che sussestato
vinto da’ ROMANI. Ed anche dopo ciò, molte delle città medesime, quantunque al
popolo di ROMA veramente ubbedissero. Pure così fatti nomi, e tale forma aveano
di domestica polizia, che libere in certo modo facevanle apparire. Ma essendo
stata dalla legge giulia a ciascuna di quelle LA ROMANA CITTADINANZA conceduta che
non da tutte senza con Trans 1 AN 1x IN line ill SAGGIO TAVOLA CRONOLOGICA
compongono DI NAPOLI. Dalla venuta de LONGOBARDI in Italia fino che quelle terre
sono da NORMANNI della Puglia conquistate. PROΟEMIO trasto è accettata, e la quale
da Marco Aurelio ANTONINO Antonino Caracalla è all'intiero orbe romano distesa,
col vanto di esser parte del capo, a Roma, ed a coloro, che la ressero, sono
tutte senza alcuna dubitazione, anche nell'aspetto, sottoposte. [tem Civitati
ante ferret CICERONE pro Bal CICERONE PRO BALBAM, Edit.Ve. bon. Edit.Venet. L. inorbeff.
de Stat. hom. L., Roma. Sigon. de Antiquo Jur. Ital. Ad bomnib. Rutil. Numan. itinerar.
In quo magna contention Heracliensium, Aloja Ins: DE’ PRINCIPI E PIÙ RAGUARDEVO
LI UFFICIALI, che anno signoreggiato, e retto le PROVINCIE, ch’ora: Ι Mich. Fiaschino
Inven. e C.I. REGNO DI, Strabon. Geograph. Edit. Parifienf. Parsin Civitatibus fæderisfui
liberta e Neapolitanorum fuit, cum magna I LL ]. Transferita però la sede del ROMANO IMPERATORE in Costantinopoli, varie BARBARE
NAZIONI con più fortuna di quello, che aveano fattosotto LA ROMANA REPUBLICA, invadero
l'Italia molte volte, e distrusfero. Radagasio Re de’ GOTI con MM armati,
cagiona danni gravissimi all'Italia. Ma in Toscana da Stilicone resta con tutto
il suo esercito vinto e sconfitto. Alarico ed Ataulfo re di que' medesimi BARBARI
che ove Alarico dimora circa II anni, ed ove muore, avidamente sacchegiarono. Attila
re degl’UNNI in così fatta maniera quella parte dell'Italia av'egliera entrato,
devasta, che IL FLAGELLO DI DIO è nominato. Genserico re de’ vandali chiamato
dall'Africa d’Eudossia moglie di Valentiniano III imperatore, per vendicarsi di
Massimo, che avea costui ucciso, e lei ignara in prima dell'infame
assassinamento, sposata, ed occupato d’Occidente l'Impero; viene in Italia, ne
scorre molte provincie, DEVASTA LA NOSTRA CAMPANIA e molte città di essa avendo
distrutte, in Cartagine carico di preda se ne ritorna. E finalmente Odoacre co’suoi
Eruli, e Turcilingi, INVADE TUTTA L’ITALIA e Re de Goti, che nella PANNONIA,
ove egli no dimora, aveano cominciato a tumultuare, gli concede l'Italia,
acciocchè ne avesse Odoacre discacciato. Ovvero, come altri vogliono, lo stesso
TEODORICO senza la concessione dell'imperadore
in vase quella provincia, ne discaccia Odoacre, che poscia uccise, e re se ne fa
nominare -- Histor, Miscell. est cod. Ambrosiin. in Philostorg, hist.
Ecclesiast. Ma Prosper. Aquitan. Chron.; Augut. De Civit. Dei, Marcellin. Chron.
In Sirmond. Philostorg. hist. Eccl. In Vauclid. Chron. Idatius in Chron. Isidor. Chron.
Goth. in rebo Got., Langobard. Jornand. de reb. Get. Agnel. Pontific. Raven. in
S. Joan . Evagr. Schol. hist., Valef Ital. Murat, Cassiod. in Conf. Boet. Conf.] per essersi fermati poi nell'Occidente
si dillero VESTRO-GOTI. A modo di locuste Roma II volte, ed una gran parte delle
nostre Provincie -- Histor. Miscell. ex cod. Ambro. Olympiod. In Photii Biblioth. Jian, in Murat. Rer.
Ital., Sigebert. Chrona Jornand. de reb.Goth. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. Axon.Valesian. Sigebert, Procop.
De bella Gotb. -- Re, e circa anni pacificamente la possiede. quista, se ne
titola colle proprie forze da quella l'imperatore Zenone vedendo di non poterlo
Teodorico. Perchè discacciare, evolendosi render benevolo bella parie del suo impero
la con Regi non. -- Chron. Histor. Miscell. Paul, Disc, de Gest. Langob. ex
cod. Ambrosian., i Reginou. Chron. Socrat. hist. Ecclesiasi., Jornand.de
reb.Goth. de re- Anon. Cuspiniana Eusippiusin vita S. Severini. znor. success.
Anon Valesian. rer. Ital. Munic. Marcellin. Chron. in Sirmond. L. de Tironib.
C. Theodos. Z fimus Jornand. de reb. Goth. e Idat. Chron .in Du-chesn. de
regnur, success., Prosper. Aquitan. Chron. Procop.de belio Goth. Marcellin. Coron. in Sirmonds. Casiodor.
Chron. Edit. Spicil. Ravenn. histor.Ven., Isidor, Chron. Goth. Aimon. de Gest.
Francor. Sozomen. histor. Ecclesiast. Sigebert. Chron.in an.Vales. la to Marii
Aventic. Chron. in Duchesne, Evagr. Scholast. hist. Eccl. Histor. Miscell. ex cod.
Ambros. in Valef. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. In rer. Sigebert. Chron. Prosper.
Aquit. Chron, in Du-Chefne Marii Aventicenf. Chron.in Du-Chesne, pa I Anon. Cuspin. --. Ma dopo di avere e codesto principe,
ed alcuni suoi successori in tal regno per molti anni signoreggiato; circa
l'anno della salutifera divina incarnazione l'imperadore GIUSTINIANO delibera
di toglierlo a codėsti barbari, col pretesto, che Teodato re di essi non avea
vendicata la morte daia ad Amalasunta già loro Reina; perchè vi manda
Belisario, che in breve tempo occupa conquistato. n cosi fatia espedizione
furono in ajuto de' Greci i Longobardi nazione che nella Pannonia dimorava: i
quali dopo, che fu l'Italia pacificata, ivi, e d in casa degli Amici più
difordini commettevano, che contro gl'inimici farenon avrebbono potuto, perchè
Narsete caricandoli di doni, contenti nel loro paese oltre a ciòavea
discacciato dall'Italia i francesi, che sotto il lur Duca Bucelino tutta, o quasi
tutta, presa, e devasiata l'aveano; perchè egli era rimastoin nome
dell'Iinperadore, Supremo Governadore di quella Provincia, che avea all' Impero
restituita: quando perque'nembi, che da'più vili, e fecciəsiluoghi alzandosi
nelle Corri, oscurano gli astri più luminosi, e più chiari, ad istanza de’
Romani fu datal Governo da Giustino che è succeduto a Giustiniano Imperatore, rimosso:
e dall'ingiuria unendo il disprezzo perchè egli era Eu. le se vissuto, non
avrebbe potuto distrigare. Ed alla minaccia segue l'effetto, dappoichè
ritiratosi in Napoli, stimola co’ [Melli Comorimurtom Marcellini Chronic. Aimon, de Gest.
Francor. Joan. Diac. Chron. Jornand. de regnor.
Success. Landul. Sagac.
additam. Ad Miscell. Procop. DE BELL. GOTH. De bell. Goth. Aimon. de Gestis Franccr.
Agath. de bell. Goth. Gregor. Mag. Dial. Excerpt. ex Agat. hist. Aiuion. De Gesti Francor.
Anast. Biblioth. Invita Joan. III.
Paul. Disco de Gest. Langobard.] eunuco
l'imperatrice Sofia gli scrive che fosse andato in Costantinopoli a dispensar
la lana alle fanciulle; alla qual cosa si dice, che Narfete sdegnato risposto
avesse, che tal tela egli lo avrebbe ordita, ch’ella mentre avesse vis i longobardi a conquistare l'Italia copiosa di
tutte le naturali ricchezze, la sterile Pannonia abbandonando. Il quale in vito
allegri que’ BARBARI sotto il loro re Albuino vennero abbracciando in Italia. Nello
spazio di VII anni la maggior parte colla [ut citm puellis in Gynaceo. Gregor. Turon.
histor. lanarum faceret pensa dividere. Anast. Biblioth. in Benedict. I.
Landul. Sagac. additam. ad Miscellap. Aimon. de Gest. Francor.] delle armi ne conquistarono.
Forza è fama Ed indi sì inanzi estesero leloro, che Autariuno de loro Re fino
conquiste, che in Regio fusse pervenuto, e che avendo e dindi parte dell'Italia,
éd iessa il rimanente dall'Eunuco Narsete, che a Belisario succede, dopo xvini,
anni di asprissima guerra è interamente [Aimon. de Gest. Francorum] la Sicilia
rimandolli. Avea Narsete vinto i Goti, ed eziandio gl’unni [Histor. Miscell. Aimon . de Gest.
Francor. Isidor. Hispal. Marius Aventic. Aimon. de Gestis Franc. Procop. de bell. Gotb. Paul. Diac.
Paul. Diac. Gregor. Turon. hist. Histor. Miscell. Paul. Diac. Joan. Diac.
Chron. excerpt. Cron. per Fredeg. Scholaft. Landul. Sagac. additam. ad Miscell.
pa hist. Miscell. Aimon.de Gest. Franc.
Paul. Diac. Sigebertus, alii. Joan. Diaz. Chron.] ivi ivi tra le onde del mare una
colonna ritrovato l'avesse collasta per cossa, ed avesse detto, fin qui saranno
de’ Longobardi i confini. Delle terre occupate da Longobardi in Italia se ne
forma un Regno il quale poscia ha alcuni re francesi, e dopo essi altri di
diverse nazioni. È l'Italia in tempo de’ Re Longobardi in II Principati
solamente divisa, in quello dei longobardi, ed in quello de Greci. Ma passato il
Regno a Carlo Magno, surse in quella bella parte del mondo il principato di
Benevento, da cui non molti anni dopo nacque quello di Salerno, e finalmente
quello di Capua. Nel tempo de’ quali Principati per le guerre, che arsero fra
di loro furono in trodotti nelle nostre parti i saraceni, i quali non però,
comeche molte terre avessero conquistate, a varii capitani ubbedirono, almeno
pressodi noi non mai e uno stato formarono. Ed i medesimi Principati di
Benevento e di Salerno e di Capua durarono finchè sono da Normanni che nella
Puglia sonsi stabiliti, interamente conquistati. Imperochè alcuni pellegrini di
codesta nazione ritornando dopo da terra Santa ov'erano andati per la fede a
guerreggiare, ajutarono il Principe di Salerno da’ saraceni assediato; e
rimandati da costui a casa con grandissimi doni, allettarono a venire nelle
nostre Parti i Paesani loro, i quali discesivi, ed ora al soldo del uno de’ nostri
Principi, ora a quello dell'altro rimanendo, alla fine s’istabilirono nel luogo
che diceasi in Octaba, e la Città d'Aversa ivi edificarono. Uno di loro,
chiamato Rainolfo per capo, conte, o sia console stabilendovi. Impresero i
Greci in quel tempo di liberare la Sicilia da saraceni che la tenea no per
quasi II secoli sottoposta, ed è capo dell'esercito greco Maniaco, il quale
chiama a’ suoi soldi una parte de Normanni, che sono in Aversa fermati, e
costorovi andarono. Mi dopo qualche tempo disgustati della sua avarizia, abbandonandolo
se ne ritornarono a casa. La qual cosa avendo conosciuto un certo Auduino a’ Gieci
ribelle, propose a Rainulfo di mandare una parte della sua gente in Puglia a
torla al Greco Imperatore, che vi signoreggiava ed a cosi fattari chiesta Rainulfo
acconsentendo, un buon numero de’ suoi capitani e i mandovvi, i quali avendo di
repente occupata Melfi città di quella provincia, ed indi altre terre; fissarono
in Melfi la sede loro e diedero principi o ad un altro Principato, che
continuoffi sotto i figliuoli di Tancredi, Conte d’Altavilla, Gentil-uomo anche
egli Normanno -- i quali in varii tempi nelle no il suo Principato. Ma I Normanni,
ch'eransi stabiliti in Melfiforto i Figliuoli di Tancredi, di ben altre
conquiste saziarono la loro ambizione. Conquistarono tutte le terre, che i Greci
aveano in quele nostre Parti. Tolsero a’Saraceni la Sicilia ed a’ longobardi il
Principato di Benevento e di Salerno, e fino a'lo ro medesimi nazionali il
Principato di Capua, siccome finalmente da una gran parte del ducato di Spoleti
i Re d'Italia discacciarono e di tutti così fatti principati un regno essendosi
formato in sul principio Regno di Sicilia del Ducato di Puglia in didi Sicilia,
e l'altro di Napoli è nominato. Di tutte le cose qui sopra sommariamente esposte,
la parte più intrigata ed oscura è quella che vien compresa dalla SECONDA
VENUTA de’ Longobardi in ltalia, finchèle nostre Provincie da’ Normanni,
stabiliti nella Puglia, inun solcor po forono ridotte .xii )1 e stre parti poi
vennero . In tanto I Successori di Rainulfo aveano tolto a’Longobardi la Città di
Capua, ed Puglia, e di Calabria, e del Principato di Capua fi diske, ed in di in
II Regni diviso, uno fu detto di Trinacria alcuna volta ed pl, è detto, ed il
quale per anni è de LONGOBARDI, o fia d'Italia discese Carlo Signoreggiato. Ma
verso da re di quella nazione il re Desiderio ultimo re Longo in quella
Provincia, ed avendo preso Magno, senza mutarne la natura il Regno bardo,
trasfere nella sua persona sopradetto che Regno I va. [Paul. Diac. Paul Diacon. Supplem. Longobar. varj
Principati, i quali in così fatto spazio di tempo, siccome si è veduto, te la
natural forma diesse fide e a gran fatica, e molto dubbio sa mente indovinare.
De’ Principati che sursero nelle Provincie le quali ora compongono il Regno di Napoli,
in tempi così dubbiosi ed oscuri, io ho deliberato di scrivere in una Tavola
Cronologica i Principi, ed i più ragguardevoli Officiali, gl’anni de loro Regni
ed ufficii, e delle loro morti, i loro matrimonii; e sommariamente i fatti, che
quelli o sovrani od in alcuna maniera dipendenti o tributarii posso dimostrare
ei diritti delle loro signorie anno stabilito. Ed oltre a 7 ciò dellistesi Principati
una, per quanto io ho potuto esatta e particolare Geografia. E nella Tavola Cronologica
io hor accolto tutto ciò che da' varii filosofi, o Sincroni, o quasi Sincroni,
o molto antichi nella proposta materia si legge scritto, e narrato, come che
discordie gli no siano tra loro ramente appariscano. Senza volerli corregere, ove
avesli potuto, o concordare; di esaminare ne’ loro cetti il vero, o a me
medesimo in altro tempo, o a d’altrui, che mi voglia in ciò precedere,
riserbando. Contentandomi per orà di fornire solamente secondi semi di un’esatta
e diffusa storia delle nostra li cose me Geografia non va ancora sotto il
Torchio, in un foglio quella parte di essa ch'è necessaria alla presente opera,
esponere, e dimostrare ho voluto e dalla Tavola dame scritta il titolo di SAGGIO
ho apposto, conoscendo che in essa moltissime altre cose essere potrebbono a
diritta ragione, o d’altri, o da me stesso pervenisse a' principi l'Impero in
ciaseuno de' detti Principati; e quale fuffe la natura degl’ufficii, a cui in
essi il reggimento di Terre cra affidato, presso il Popolo, o presso una parte
di esso, o presso un solo uomo. Dice Cicerone. “Respublica res est populi.” Cum
bene, ac juste geritur, sive ab uno rege. La seconda perchè suole essere degl’optimati:
ARISTOCRAZIA. E l'ultima si chiama “MONARCHIA,” osia REGNO, il qual nome non perde
quantunque eomi, due, o tre. Principi regnino in essa collegati, com'è avvenuta
sovente tra Romani Imperadori e quasi sempre tra Principi Longobardi, de quali noi
descriviamo la Serie; imperocchè una tal forma di stato essendo molto più
distante dall'aristocrazia che dalla monarchia dalla più vicina piuttosto che
dalla più lontana, dee prender esenza alcun fallo il suo nome. Ed oltre aciò
quello ch'è stra-ordinario non dee caggionar nell’arti divisione regolare. Nè
codesti pochi principi costituiscono un collegio legittimo, in cui ciascuno la
sentenza della maggior parte dee seguitare. Ma ognuno riguardo alla sua amministrazione
libero senza alcun fallo rimane. Scrive Ubero. Monarchiam esse Io note, e più
oscure. Ed acciocchè il tutto con chiarezza si abbia ad intendere, dappoichè la
promessa. Quali siano le varie forme di governo, ed i varj modi di acquistare i
regni -- fursero in quella felice parte del mondo, ora si aggrandirono, ora si
diminuiropo, ora dalle potenze maggiori furono interamente absorti, e quasi
distrutti. Tal volta in essi si viddero eliggersi i principi, tal volta si
viddero in essi succedere a’ padri i figliuoli nella signoria. Quei, che vi
regnavano, furono soventi sia te uccisi, ed i privati il loro luogo occupando,
trasmisero a’ loro Posteri l'iniquamente acquistato Impero. I BARBARI chiamati per
difesa di alcuni sistabilirono per ruina di tutti -- e desolazione. In fine la
faccia dell'Italia divenne in que tempi assai diversa da quello ch'è prima, e che
è poi, e la sua Geografia non mai stabile osservossi, e costante. Nè di tutti
così varii, e moltiplici accidenti vi fu chi la storia distintamente scrivesse.
Ma da pochi e quali a frammenti quelli, e BARBARAMENTE sono esposti, o piuttosto
accennati. E le opere de’ filosofi di quei tempi da sin egli genti Copistifurono traseritte, che
spesse fia, > ) 9 > no . in un'altra Edizione, che sene facesse, aggiunte.
Ma prima di ogni altra cosa io ho reputato di far manifesto per quali ragioni di
codeste forme di regimenti con voci greche. La prima si dice “DEMO-CRAZIA”,
feve a paucis optimatibes, sive ab universo populo CICERONE, DE REPUBBLICA. Edit.
Venoye. Se unius imperium solo satis vocabuli argumento constat. Qicod tamen
ita præci Je captari nolim, rat quasi escumque plures in uno regno romini esostitere,
toties Reipublicæ formam mutaris tatuamus. Neque enim recte existimaturus videtur
qui in Romano imperia si quando plures OTTAVIANO fuere, PRINCIPATVM defiisse
contenderet. Cum enim longius ila societas imperantium ab ARISTO-CRATIA, quam a
monarchia distet, confentaneum est, ut ab ea specie, cui proxima est,
appellatio petatur. Ita Lacedemoniis II Reges fuerunt – DIA-ARCHIA --, id que
Regnum vocabatur nec non verum fuisset Regnum,fi potestas vere summa fuisset. Præter
quod extra ordinarius, atque ut ita loquar, accidentalis ile plurium concursus plerumque
habetur. Unde formas peculiares DYARCHIAS out TRI-ARCHIAS in Artem introducere nec congrueret,
neque expediret; tamet si fatendum monarchiæ vocabulum tunc elleminus commodum.
Accedit, quod isti Condomini, ut hivelbis similes a Germanis Jurisconfultis
appellantur, non constituant collegium, adeoque nec mus plurium sententiam
sequi compellatur. Nam ut hocjuris fit, opus est. parto, Condomini autem
Imperium Civitatis habent eodem jure, quo plures eandem remi fine tractatus Societatis
pro indiviso tenent. Quo casu notum est; quemque liberum Juc partis arbitrium,
nec reliqucrum consensui obnoxium, retinere la 28. ff. c o m m .divid. Altri
poi vi aggiungono IV altre forti d’imperi, cioè i III sopra-detti, quando sono corrotii,
ovvero ingiusti, ed il IV da’ due oda III già esposti insieme uniti. Ma
CICERONE stesso con diritta ragione afferma che ne’corrotti imperi la repubblica
non più esiste. Onde di ella non possono essere così fatti imperi. Cum vero in iustus
est Rex, quem tyrannum voca:aut injufti optimates, quorum consensus factio est.
Aut in justus ipse Populus cui nomen usitatum mullum reperio nisi ut etiam ipsum
“tyrannum” appellem. Non jam vitiosa, rola, dappoiche essa nulla alla mia
intenzione può giovare. Or, nella monarchia, o sia nel regno, abbia avuto egli
il suo principio dalla FORZA, o dal volere de cittadini, o dall'utile, o dalla paura
stimolari, abbiano questi la facoltà di stabilire solamente i regnanti, o di conferirle
anche l'impero. Aliter, dice Ubero, ediam etro instituunt, qui imperium
immediate a deo esse volunt. Hi negant, imperium ullo modo a voluntate populi
perdere, nec a civibus quicquam juris ad imperantes manare nec adeo causam monarchie,
aut ullius in civitate potestatis esse populum, quos inter Ziegle rus ad Grotium
Ethidictum P. Apostoliano bisali quoties adduetum, quod imperium sit humanæ
creationis, interpretantur, quod sit hominibus proprium, vel ratione cause
instrumentalis, quia per homines exercetur utuntur argumentis e sacris, de potestate
solvendi ligandi sacramenta administrandi, quce ministro ecclefice competit. Quem
ad modum igirur populus eligen dopaftorem non confert potestate millam nec conferre
potest, quia non habet eam ipse, nihil que agit, quamut personam eleectam potestatia
deo immediati proficiscenti applicet. Sic etiam populu, quando eligit regem, non confert
pote [Huber. de Jur. Civit. Gudling. De Jur. Nat. ac Gent.] omnino nulla respublica
est, quoniam non est res populi sed cum tyrannus eam factiove capesat. Nec ipse
populus iam opulus est, si sit in justus, quoniam nonest multitude juris consensu
et utilitatis communione sociata. E
Bodino egregiamente dimostra che il composto di alcuno o di tutte le suddette III
forme d'impero non può una città, o sia republica che tale sia secondo il fine che
si è proposto, cio è la pace ed il giusto, costituire. Onde Gudlingio ebbea
dire. Talem rei publice speciem qui appellant “mixtam”, ferendi quadantenus sunt.
Si mixtum idem fonet atque irregulare, della qual cosa io non faccio più pa. [Edit. Ven. C. edit.
Francf. an. Hobbes de CICERONE fragm. DE REPUBLICA. Bodino de Republ.] fta Cive. Bodino de
Republ. Hobbes de Civ. Huber. Edit. Francf.] statem imperandi, sed personam
electam producit eamque abhibet exercitio potestatis illia deo immediate conferendse
ego qualis, quanta in ordinee juse fe debeat. Necquo minus populus imperium
retineat, si id expedire judicet, deus intercesit. Multo minus quo parte mali quam
imperii reservaret, umquam prohibuit; quodde ministerio ecclesiæ institutoque
matrimonii nullo moda affirmare licet. Nel regno dico, a sia nella monarchia i principi anno II sorti di
diritti. L’una, che ne costituisce l'impero in mezzo a' Popoli loro. L’altra,
che determina il modo di averlo -- o sia per la quale il principe regna, o l’impero
pofliede che modo di acquistarlo si può anche direttamente chiamare. Altera
cautio est, dice Grozio, aliud efede requærere aliud ese modo habendi, quod non
in corporalibus tantum sed et in in corporalibus procedit Ed. Ubero:Poft Species Monarchie fequuntur modi,quibus.
Regna acquiruntur. Hi funt velordi narii, vel extra-ordinarii. Priores duo sunt
electio, do successio Extra-ordinarii per inde duo, matrimonium O jus belli. De
jure belli o matrimonio dié tum quod satis sit, in superioribus. De forte nihil
quidem, sed nec rarisime i nu fu est, aut pro electione fungitur; ut olim apud
Per fasin Dario H. Staspide. E Gudlingio. Id queri dignum, an per duret vita O
anima civitatis una, etiam fi vel electio obtineat, vel successio. Et putem id contingentibus ad numerandum
que unitatem nec efficient pror sus, nec tollunt. Scilicet electio et successio
per Jonas tangit, non autem modum regnandi definit, nec illum impedit imperanti
dominica in subjectos, tamquam in servos proprios potestas competit. Appellatur etiam Dominatus. La qual forma di Regno
se giudico, che mai si possa ritrovare fra gl’uonini, salvo la teo-crazia, bene
del suo popolo, e non già di lui, dee ordinare le cose. Scrive Bodino. Rex est,
qui summa potestate constitutus naturæ legibus non minus obsequentem se præbet,
quam sibi subditos, quorum libertatem, ac rerum domini ac eque ac fucetuctur,
fore confilit. Subditorum libertatem, ac rerum dominationem. adjecimus -- ut
Jus Soc., Gent. Huber. De Jur. Civit. Gudling. de Jur. Nat. ac. Gent. Guiling, pergo
Nat. Ac Gent. c. vel collate. Nec sequitur, cedunt e populi elientis voluntate.
Primeva succedere videntur. Riguardando la prima di codeile II sorti di diritti
ne procedono III forme di reggimento, osiano: di monarchie una in cui il regnante
de’ Corpi, Beni de’ Cittadini dispoticamente dispone, e che perciò Erile o, o
lia “barbarica” vien nominata, scrivendo Ubero. Dominatus finitur, quod sit imperium,
quo princeps sibi subjectis ut pater familias servis imperat, omnium quetam
quod ad o civilium naturam maxime ab effectibus vesti mandammo, rerum moralium,
cuius limites excedere non licet imperii formam, et tenorem Si Deuscertam, electionem
persone fatemur ejus juris vim in fringerenon populis, præscripserit potest auferre
jus ligandi e Solvendi suispa pole, quam cætus fidelium invito adimere potest.
Sed hoc de magis uxor viro principatum domus storibus aut non legimus esse determinatum.
Hatenus quidem de imperio civitatis a deo, cui omnis anima debeat bere aliquem
ese ordinem imperandi, atque parendi ef ita ex cestise subiecto non tamen res quam
corpora dominus existens, actiones publicas ad suam præcipue utilitatem dirigit.
Ed Arrigo Koehlero: Imperium dominicum seu despoticum dicitur osia governo di dio.
E l’altra delle suddette forme di monarchia è quella, nella quale il Principe
pel [Grot. De
Jur. bell. Ac pac. Huber. de Jur. Civit.] tum promover. Imo successi opere nec
mul ab antecedente electione pendet. Unde qui luc o de' in quo nec sequitur,
ita pergit Zieglerus, homines ab initio Sponte adanéti in s ocietatem civilem
coierunt ex hoc ortum habet potestas civilis. Ergo talis potestas origine est humana.
Sic enim per indeliceret argumentari. Adam et Evas ponte adducticcierunt in matrimonium.
Ergo matrimonium institutione NON est divinum. Huber. De Jur. Civit. Heinr. Toebl. Jus Soc., ut Regis,
ac Domini distinctionem certam adhiberemus. Ed essa dicesi civile – leggendosi in Ubero. Nobis igitur plures monarchie species
non sunt considerande, quam hee duce, Regnum, et Dominatus, five Imperium, ut
ARISTOTELE DAL LIZIO loquitier, außacidendo, aut Baplaponèv. Regnum verum et
plenum est, ubi princeps habet summam, liberam potestatem faciendi in civitate quod
ere a petita., qui ed appresso. Ex his
tertia resultat differentia, a fine diverso ristabiliti, est utilitas regnantis.
Quae nec ipsa tamen absque commodo subjectorum potest custodiri. Ex his relique
differentie, inter dominum, &. Reczorem, servos ac cives, de quibus
Claudius ad Meherdatem apud Tacitum [TACITO (si veda) Annal. quæque similia per
se intelliguntur. Ed anche comune; Scrive Kochlero: Imperium civile est jus præscribendi
ea, quæ ad commune civitatis bonum promovendum faciunt. Eiusmodi imperium civile
dicitur commune ad amplificationem boni civitatis communis tendat. E la terza
delle II sopra-dette forme composta che mista vien detta. Scrivendo Grozio. Quisibi
singulos subjicere potest servitute personali, nihil mirum est f li i d o
universos sive ili Civitas fuerunt, sive Civitatis pars, subjicere sibi potest
subjectione sive mere civili, sive mere herili, suve MIXTA. Riguardando poi la
seconda forte degl’esposti diritti sorgono III altre forme di nellaquale il principe
regna per elezione del suo popolo forma dicesi ELETTIVA. La II, in cui il principe
riceve l’impero per legge generale dello stesso suo popolo o per CONSUETUDINE da
questo ricevuta, per trasmetterlo poi a colui, che dalla medesima legge, viene
stabilito; sia egli il primogenito del preterito regnante, o calui, che
glinacque nel regno. Sia egli il FIGLIUOLO LEGITTIMO del PRINCIPE; ossia, il
NATURALE, maschio, della stessa sua famiglia o dell'altrui; favorisca
finalmente quella legge ipiù vecchi della Prosapia, o la linea del primo nato,
la qual forma di regno da tutti sichia ma SUCCESSIVA, ed a molti una specie
della prima, cio è una diversa sorte d’ELEZIONE essere si crede. Dappoichè scrive
Ubero: Plane, origine cujufqueci vitatis inspecta, nullum non regnum ex voluntate
populiortum, fuit electivum. Sed diversitas est in Regno Civili ordinaliter
utilitas subjectorum. Quamquam illa fine commodo imperantium obtineri non potest.
In Dominatu originalis Scopus Impe una parte di esso ma pel tempo della sua vita
solamente. Venga co tale ELEZIONE, fatta o espressamente, o per via di sorte, o
di deputati. E codesta electionis et successionis deincep sorta est, cum quædam
ex imperiis ita funt delata principibus, ut identidem fedes vacua per electionem
repleretur. Quædam it aut successio secundum ordinem certum propinqui sanguinis
ab uno in alium devolveretur, ex prescripto Legis. Hanc quidem vocant electionis
speciem. Quo modo Althusius in Polit. qui negant, ullum dari imperiumjure
familie hereditarium, sed totum a populo dependens, quod G' in Anglia multi
opinantur. Si dicerent, successione mele nihil, quamele &tionis primevæ continuationem,
nihil errarent. Atfijus Imperiinum quam a populis alienari velint, resreditad STATUM
[STATO] disputationis supra aliquotie speractze. Qua per electionem, ipsum jus Imperii
independenter alienari posse probavimus, ad vitam, vel etiam pro heredi bus. Quie
tunc est successio, non amplius a primis eligentibus dependens, sed familie
propria, per actum alienationis. Gudlingio: Id quæri dignum, an perduret vita
in anima civitatis una, etiam sive lelečžic obtineat, vel successio. Bodin. De Republ. Grot. De jur. bell. ac. pac. Regni. La prima,
3 Huber. De jur. Civit., Koehler, de Jur. Soc. Gent.Spe-o sia di princ: de jur.
Nat. ac Gent. Huber. de jur. Civit. Gudlingio, communi videbitur, Salva tamen civium
libertate, proprietate rerum cim.V. de Imp. Civ. cum Et xvii et putem id
contingentibus ad numerandunt, quæ unitatem nec efficiunt prorsus, nectollunt. Scilicet eleftin, o luccelio personas tangit
non autem modum regnandi definit, nec illum impedit, nec multum promovet ; imo
fuccessio pene ab suo. Antecessore, ed ha l’arbitrio di lasciarlo a chi più gli
piaccia, come della sua eredità privata fare ei potrebbe. E così fatti Regni
diconfi EREDITARII. In tutte codeste cinque forme di regni sono comprese, siccome
sarebbe agevole il dimostrare, tutte le differenze, che de' supremi Imperi
delle monarchie si sogliono fare. Ele quali Ubero per modo di quistioni
propone: Junt qui ex alisquo querebus differentiam fu m m e potestatis
colligunt. Primo enim sotto posti. Ma quando vennero in Italia vi fondarono il regno,
che è detto de Longobardi, osia dell'ITALIA e dil quale, e sotto i re loro, e sotto
i re francesi, edi altre nazioni finchè dura è sempre ELETTIVO. Che EREDITARIO è il Principato
di Benevento. Che fimile a lui è il Principato di Salerno. Che non diverso da essi
in tal cosa il Principato di Capua esser si vidde. Ma da poichè il più delle volte
difficil cosa è il determinare daloro principii espo fie forme de sopradetti principati.
Quindi è, che ne conviene sovente immitare
i più saggi investigatori del vero nelle produzioni della natura: iquali non
potendo vedere le occulte caggioni di essa, da’ continui, e costanti effetti
loro, quando esterna violenza non li disturbi, sicuramente le deducono. Scrive Newton
tra quelli filosofi senza alcunfallo il più famoso. Ideo que EFFECTUUM NATURALIUM EIUSDEM
GENERIS E ÆDEM SUNT CAUSÆ. Uti
respirationis in homine doo in bestia. Descensus Lapidum in Europa in qualitates
corporum, que intendi o remitti o nequeunt, queque corporibus omnibres
competunt, in quibus experimenta instituere Ticet nun, a sibi semper consona.
Extensio corporum non nisi per sensus innotescit, nec in omnibus sentitur. Sed quia
sensibilibus omnibus competit, de universis affirmatur. Corpora plura dura este
experimur; Oritur autem durities totius a duritie par tium, et in de non horum tantum
corporum quæ fentiuntur, sed aliorum etiam omnium particulas indivisas es se
duras merito concludimus. Corpora omnia impe netrabilia es se non ratione; sed sensu
colligimus. Que tractamus impenetrabilia; Lucis in igne culinari do in sole;
reflexionis lucis in ter America ra in Planetis inveniuntur, in deo oncliedimus
IMPENETRABILITATEM efe proprietatem corporum universorum. Corpora omniam obilia
efle et viribus quibusdam, quas viresiner tiæ vocamus, perseverare inmotu, velquiete,
ex hifce corporum visorum proprietatibus colligimus. Extenso, Durities, IMPENETRABILITAS,
Mobilitas,& Vis [Gudling., de jur.Nat., ac Gent.; Huber. De jur. Civit. antecedente electione pendet; unde qui succedunt,
e populi eligentis voluntatepri meva succedere videntur. E finalmente la terza
nella quale il principe possiede il regno per volere del git [Or dichiarari nella
maniera sopradetta l'esposte cose io dico che i lombardi sono inprima nella Pannonia
ad un Regno EREDITARIO vel plu, pro qualitatibus corporum universorum habende sunt
TES CORPORUM NONNISI. Nam QUALIT A PER EXPERIMENT AINNOTESCUNT OQUE GENERALES
STATUENDÆ, IDE MENTIS GENERALITER SUNT QUOTQUOT CUMEXPERI. possunt QUADRANT. De
quemimi non possunt auferri. Certe contra experimentorum tenorem fomnia non
funt, nec a Nature analogia recedendum temere confingendo est, cum ea simplex esse
soleato, qua forma Reipublice Civitas gubernetur, Monarchia tant plurium
dispoticum, an Civile regnum Patrimorium imperio. Et in Monarchia, sit ne Populo
volente an invitofit conftitutum . Eligantur, niale, anquasi fructuarium, an
perpetua sit potestas. Non an successionegaudeant imperantes.Temporalis Imperii
variarivi parvitate vel magnitudine civitatum jus jummi nullis quoque Species
hominum judicia sæpe perstrin fum. Denique, nominum titulorumque interesse pu
iner inertie totius, oritur ab extensione, duritie, impenetrabilitate viribus inertice
partium: inde concludimus omnes omnium corporumpartes minimas extendi, et
durasele, o impenetrabiles et mobiles viribus inertice præditas. E nella festa maniera
scrive Ubero, che s'abbiada giudicare nelle cose morali, e civili. Sed ego ita existi
morerum moralinm, civilium NATURAM maxime ab effectibus cefti mandam. Perchè
quando non ne è conceduto di avere documento dell'istituzione delle repubbliche,
osia de'Principati, di cui ragioniamo. Da quello, che si è veduto sempre
accadere in essi, quando estraneecaggioni l'ordine naturale non abbiano
sconvolto, l'istituzioni suddette possiamo dirittamente argomentare. Egli è
vero non però, che non di leggieri gl' Imperi Ereditari da Successori con
regola cosi fatta si possono distinguere, imperocchè io alcuna forte di regni successivi
all' ultimo Regnante succedono i figliuoli, od i più stretti Congionti ; E lo
stesso avvienene Regni Ereditarjquandocoluisenza Testamento, o senza nomina real.
cuno Estraneo Erede lascia di vivere la vita. Più folto bujo quellume fidee prendere,
che si può, comechè picciolo, ed incerto egli e. Il Regno de’ Longobardi fu
prima Successivo, a Ereditario, ed che, usciti dalla Scandinavia, provincia detta
VAGINA GENTIUM, abitarono di qua dal Danubio ed I quali WINILI erano chiamati furono
poscia detti LOMBARDI, o dalle finte o dalle vere LUNGHE loro BARBE, ovvero,
secondo scrive Guntero, che altri affermino da’ popoli della Sassonia detti
Bardi. Furono costoro inprimada Duchi eposcia da Refignoreggiati; ed il regno
loro finchè rimasero nel loro paese, e sempre ereditario, ovvero successivo. Newton, Philus. Natur.princ.Ma Gregor.
Turon. Excerp. Chron. ex Reg Fredeg. Schol. hist. Miscell. Paul. Diac. de Gefie Langob.. Gunt. mobilitate, 9 appreso elettivo non potendosi
che LA NATURALE INCHINAZIONE DEL SANGUE a figliuoli ed a Cogionti, gli Estran gli
abbia permesso diante porre. Scrivendo GROZIO: Succeflio ab intefiato, de qua agimus,
nihil aliud est, quam tacitum testamentum ex voluntatis conjectura. Quintilianus
pater in declamatione: Proximum locum a testamentis habent propinqui: et ita, si
intestatus qui sacfine liberis decefferit. Non quoniam utique jufium fit, ad hos
per venire bona de functorum. Sed quoniam reliéta et velutin medio posita nulli
propius videntur contingere. Quod de bonis noviter quæsitis diximusex NATURALITER
proximis deferri, idem locum habebit in bonis paternis avitisque, finecipsiaquibusvenerunt,
nec eorum liberi extent ita ut gratie Philuf. edit. Ami. Paulo Diac. De Gest. Langob.,
istelod. Huber., de jur. Civ., Reginon. Chron. inprinc. de RegnoWi., Grot. De jur.
bell. Ac pac. nilorum. Constant. Porphyrog. De Themat. Gregor.Turon.Excerp.Chron.exc
Otto Frifingens. De Geft. Friderici
Impe credere De Popoli Q. Agle
relatiólocum noninveniat. Ondeda Equali essettinonsi possono argomentare diverse
cagioni. Ma nel. Grice: “This conceptual analysis of the noble is complicated –
noble is the male who merits recognition from his community.” Nome compiuto. Nono duca di Laurino. Troiano Spinelli, duca di
Aquara e di Laurino. Troiano Spinelli di Laurino. Spinelli di Laurino. Laurino.
Keywords: implicatura, analisi geometrico della’economia razionale, Broggio,
lombardia, lombarda, lunga barba. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Laurino” – The Swimming-Pool Library. Laurino.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e
Lavagnini: il deutero-esperanto – la scuola di Siena – filosofia toscana --
filosofia italiana –Luigi Speranza (Siena). Abstract. “Protthetic (why?),
Breathe (why?), Monario (why?)” – Grice. Grice: “It appears that the specific
reasons behind Lavagnini’s choosing the name ‘Monario’ for his artificial
language are not explicitly stated in the readily available information. However,
some clues can be gleaned from the context. Italian origin: Lavagnini was Italian,
and the name itself might have some connection to Italian words or concepts,
although the exact link is not immediately clear from the search results. Focus
on a ‘universal’ and ‘logical grammar’. In the preface to “Monario,” it is
mentioned that the need for a nuniversal language requires a universal grammar
that is “logic ad nature sekum gles arti imitanti” (logic and naturally
imitating rules of art. This suggests a focus on clarity, simplicity, and a
structural approach, which could be reflected in the name. Aric-Semitic
influences. Some soruces mention that Monario shows influences of Aric-semitic
languages. However, it is also noted that the author’s reasons for introducing
non-international roots from Greek, Arabic, Sanskrit, Russian, and even what
seem to be Somali and Tamil words are unclear. While a definitive answer to ‘why
Monario?’ remains elusive, the name likely relates to Lavagnini’s broader
philosophical goals for an easily accessible and logical constructed
international auxiliary language!” At a conference in Brighton, Grice jokes
about convention, if nt arbitrariness, having no bearing on ‘signfication’ of
the type in which he was interested. As a proof, he claimed that he could very
easily go and invent a new language – call it Deutero-Esperanto – and set
what’s proper, making him the authority. Keywords: artificiale. Filosofo italiano. Siena, Toscana. L. progetta
una lingua inter-nazionale su base latina che chiama “neo-latino” e ci
prova con l'uni-lingue (o inter-lingue) pubblicato nel Corso pro Corrispondenza
d'inte-rlingue od uni-lingue, Roma, e con il Monario, dato alle stampe nel
Corso de Monario prima e in “Interlexico Monario: Italiano français English
deutsch kum introduxion rammatal appendo, fonetal regios, Casa Editrice
Elettica (Casella Postale 331), Roma.. Persona informo Naskiĝo en provinco
Sieno Morto en Meksiko Lingvojitala ŜtatanecoItalio Reĝlando Italio Redakti la
valoron en Wikidata Okupo Okupoverkisto Redakti la valoron en Wikidata v • d •
r Okultisto, naskiĝis en Italio, mortis en Meksikurbo, Magistro de
framasonismo, ano de ACADEMIA PRO INTERLINGUA, fondinto de la Asociación
Biosófica Universal kreinto de la planlingvoj "Monario" kaj
"Mondi Lingua", esperantidoj kaj "Unilingue", modifita
latina. La projektoj de L., laŭ oni pensas, estis tre influita de ideoj de
aŭtoro pri la "perfekteco" de sanskrito kaj kelta lingvo, ĉefe laŭ
verba aspekto. Pro tio, la verbaj formoj estas tre malsimplaj, kiel en Volapuko. Li estis
framasonisto ano de la Martinismo en Italio. En lia tekstoj framasonaj oni
vidas influojn de Teozofio, astrologio kaj jogo, ankaŭ rimarkindaj en la
teorioj de la Asociación Biosófica, kion li fondis en Ameriko. Verkoj
Colección de manuales masónicos Grammatica dell' Unilingue od Interlingue, Rom.
Corso di Monario, Rom. Interlexiko
Monario: italiano, francais, english, deutsche, Rom. Kurso astrologis, Short
lessons on Mondi Linguo, Mexiko. Hacia una lengua internacional, Mexiko. Origin
astronomic del Alfabeto (s.j.). Bibliotekoj PeEnEo: Kategorioj: Mortintoj
en MeksikoNaskiĝintoj Mortintoj VirojNaskiĝintoj Mortintoj
InterlingvaoLingvokreinto. j. Interlingue Con questo nome si conoscono una
serie di progetti di lingua internazionale (- AUSILIARIA INTER-NAZIONALE,
LINGUA) fra cui: l'I. di Triola (- TRIOLA), più conosciuto con il nome di
«Italico» (ITALICO): l'I. di L. (- L.) sinonimo del progetto denominato
Uni-lingue elaborato nel corso pro Corrispondenza d'inter-lingue od unilingue,
pubblicato a Roma (Drezen), di cui ecco un esempio: L’uni-lingue deve esser ante omnicos un
lingue vivent, germinat ex principies fundamental, nascent naturalmen del leyes
general, vegetant quam un plante, segun li lineas, in queles es cultivac,
absorpente circum se e assimilance li materies de su vive. (Duticenko)
Infine esiste l'I. di Wahl (WAHL) che, per motivi politici. ribattezza
il suo precedente progetto chiamato «Occidental» (OCCIDENTAL) con il nome di I.
(Monneror-Dumaine; Silfer). Nome compiuto: Aldo Lavagnini. Lavagnini Keywords: monario,
il deuteuro-esperanto di Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lavagnini.” Lavagnini.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lazzarelli:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- ermetico-esoterica
– filosofia marchese – la scuola di San Severino Marche -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (San Severino
Marche). Abstract.
Grice: “When I was asked during my lectures on conversation to provide an
example of a blatant tautology which would be at the same time
implicature-laden, I came up with ‘War is war.’ It seemed obvious to me that I
had no need to specify the implicatum – and I did not. However, upon later
reflection on old Roman mythology, I came up with a detail that does matter.
The Romans worshipped a ‘god’ of ‘war’ – Marte – hence ‘martial,’ – Apparently,
the Anglo-Saxons found this convenient, and soon adopted Tues, as in Tuesday,
as the god of war. Note that while ‘War is war’ is a patent tautology, ‘The god
of war is the god of war’ is more of a Kripkean stupididy!” -- Filosofo
italiano. San Severino Marche, Marche. Grice: “I would call Lazzarelli a
Pythagorean; most Italian philosophers are, as most English philosophers are
Lockean!” -- Grice: “I would call Lazzarelli what Italians call ‘un filosofo
ermetico.’ He certainly flouts all
my desiderata for conversational clarity!” Il documento più importante per
ricostruire la vita di L. è “Vita L.” scritta da Filippo L. e indirizzato
all'umanista Colocci. L. e educato e vive a Campli, in Abruzzo, dove frequenta
la biblioteca del Convento di San Bernardino da Siena, che egli cita nella sua
opera i Fasti Christianae Religionis. Riceve da Sforza un premio per un poema sulla
battaglia di San Flaviano. Ha contatti con i più importanti filosofi dell'epoca
ed e seguace dell'ermetismo. Raccolse il Pimander di FICINO, l'Asclepio e tre
trattati sull'ermetismo realizzando una versione che amplia il corpus testi ermetici.
Autore di saggi a carattere ermetico come il “Crater Hermetis,” in sintonia con
il sincretismo religioso dei suoi tempi e in anticipo sulla filosofia di PICO
(si veda), con la fusione del cabalistico e il cristiano, ma anche di poemetti
a carattere allegorico come l'”Inno a Prometeo” o didascalico-allegorici come
il “Bombyx”. Altri saggi: “De apparatu Patavini hastiludii, Padova; “De
gentilium deorum imaginibus”, dedicato a Borso d'Este e a Federico da
Montefeltro; “Fasti christianae religionis” dedicato a Sisto IV, Ferdinando I d'Aragona e Carlo VIII, Bertolini,
Napoli; Epistola Enoch, Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma; “Diffinitiones
Asclepii”; De bombyce, Lancellotti,
Aesii; “Crater Hermetis edito in Pimander Mercurii Trismegisti liber de
sapientia et potestate Dei; “Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate
divina”; “ Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano” (Parigi); Vademecum ( Brini,
in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma); “Un carme per la morte della
duchessa d'Atri, Biblioteca del Seminario di Padova; “Carmen bucolicum” (Biblioteca
universitaria di Breslavia, Milich Collection); carmi di occasione -- tra cui i
versi che gli valsero l'incoronazione) (Biblioteca nazionale di Napoli);
epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita. Il testo dell'opera può essere
letto in M. Meloni,"Lodovico Lazzarelli umanista settempedano e il “De
Gentilium deorum imaginibus”, in Studia picena, pubblicato in appendice a C.
Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in S. Champier, in Umanesimo e
esoterismo, l’esoterico E. Castelli, Padova, pG. Roellenbleck, Opusculum de
Bombyce, anche in edizione moderna integrale in C. Moreschini,
Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis" -- studi
sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Filosofia ermetica, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, L.. rivista
Campli Nostra Notizie. L. Nacque di nobile famiglia di Campli. La tradizionale
data di nascita è stata recentemente corretta da Tenerelli sulla base di
un'annotazione manoscritta che si legge nella biografia del L. composta dal
fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni) e della notizia d'archivio
riferita da Aleandri, secondo cui il padre risulta già morto. L. stesso ama definirsi
"Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei
pressi dell'odierna San Severino Marche. Alla morte del padre, L. si
trasfere a Campli, presso Teramo, dove riceve la prima educazione e - stando
alla citata biografia, non immune da toni agiografici, scritta subito dopo la
morte - egli dimostra precocemente inclinazioni filosofiche, tanto da comporre un
carme sulla battaglia di San Flaviano che gli merita le lodi di Sforza, signore
di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum
simia". L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che
permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dalla cronologia, della vita
fitta di spostamenti condotta dal L. E dapprima ad Atri, con l'ufficio di
istitutore del figlio del signore della città, Capuano, dove compose un carme
esametrico per la morte della duchessa Balzo, indirizzato con un'epistola
accompagnatoria al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che,
nella sua biografia, la define "sententiis quidem refertam quam optimis
ultra eius aetatem". E a Teramo presso Campano, "ut eiusdem Campani
fratrem amoenioribus artibus inficeret simulque ut ipse viri familiaritate doctior
fieret" (Lancellotti), dove si applica allo studio della filosofia. Il
fratello riferisce di essere stato testimone a Teramo di una sua disputa con un
tal Vitale ebreo, che nega la Trinità, e che sarebbe stato vinto anche grazie
all'allegazione da parte del L. di autorità talmudiche. Di qui passa a Venezia,
dove perfeziona lo studio del latino alla scuola di Merula. Il componimento
esametrico De apparatu Patavini hastiludii, scritto in occasione dei giochi e
nel quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi sono comparati a
personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente accademico
patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen bucolicum,
costituito da X egloghe dedicate ai principali misteri della vita di Cristo:
l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della Vergine, l'incarnazione
del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la discesa agli inferi, la
resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello Spirito Santo, l'assunzione
di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre legato il più importante
riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L., l'incoronazione per mano
dell'imperatore Federico III, nella chiesa di S. Marco a Pordenone.
Secondo il racconto del fratello, L. si reca presso l'imperatore, di passaggio
nel suo viaggio verso Roma, e, colta un'occasione propizia, gli avrebbe
declamato un suo carme esametrico, accolto con plauso dall'imperatore che
spontaneamente gli avrebbe conferito l'alloro poetico. L. stesso celebra poco
più tardi l'evento nell'egloga Laurea. Una serie di stampe, del tipo dei
tarocchi del Mantegna, acquistata in una bottega di Venezia, fornì al L. lo
stimolo per la composizione dei due libri De gentilium deorum imaginibus,
poemetto di carattere mitologico-astrologico. I più rilevanti testimoni
dell'opera sono due manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana (Urb.
lat.), entrambi di elegante fattura e corredati da una serie di sontuose
miniature (che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca dei tarocchi). I due
codici sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica del ms. 716 è
vergata in modo evidente su una dedica precedente abrasa, che Campana è
riuscito a leggere parzialmente, quanto basta però per riconoscervi il nome di
Borso d'Este. È così possibile datare il manufatto, e quindi l'ultimazione
dell'opera, al lasso di tempo dall’assunzione del titolo ducale di Ferrara da
parte di Borso alla sua morte. Anche all'interno del testo il nome di Borso
è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i passi relativi
sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. è portatore di una seconda
redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo ducale
di Urbino, quindi posteriore. Meloni ipotizza che si possa riconoscere in
quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. vi sia
giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche corredato
di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di Federico
da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente occorso al
duca. L'originaria dedica a Borso d'Este è perfettamente congruente con
la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non estranea neppure alla corte
urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di "appropriare", nel
gioco praticato a corte, dei versi alle carte, secondo il modello dei tarocchi
boiardeschi. Ma iL. intende riscattare dall'uso ludico le antiche immagini
delle carte, diffuse anche presso il volgo, che "triumphos / appellat tactu
commaculatque rudi / priscorum formas et simulachra deorum", per
restituirle alla loro funzione astrologica e sapienziale di rivelare il vero
"obliquis figuris", poiché "invenere suis corrispondentia rebus
/ signa olim vates et simulachra deum, / quae nunc pro nihilo reputant, gens
indiga sensus, / sacrilegi et ludis asseruere suis.. Nel primo libro sono
presentate e descritte, in successione, le sfere celesti, dalla Prima causa
alla Luna, con l'aggiunta di un carme conclusivo dedicato alla Musica come
prodotto delle sfere celesti. Dei pianeti, identificati con gli dei antichi,
sono descritte le immagini, indicate le rispettive domus (i segni zodiacali),
sinteticamente narrati i principali miti che hanno come protagonista il dio
eponimo, fornite essenziali notizie astronomiche e illustrati gli influssi
astrologici. Il secondo libro presenta le immagini della Poesia, di Apollo e
delle nove Muse, di Pallade, Giunone, Nettuno, Plutone e, infine, della
Vittoria (alla quale è dedicato un carme in versi eroici, mentre tutti gli altri
sono in distici elegiaci). Nei due codici urbinati, come si è detto, la
descrizione verbale trova riscontro e integrazione nel ricco apparato
iconografico che, a sua volta, può aver ispirato elementi decorativi del
palazzo ducale di Urbino. La vicenda compositiva del poemetto
probabilmente si compì durante il soggiorno di L. a Camerino, dove era stato
chiamato da Giulio Cesare da Varano per attendere all'educazione del nipote
Fabrizio. L. intraprese quindi la stesura di un nuovo ambizioso poema, i Fasti
Christianae religionis, che portò a compimento in una prima redazione a Roma,
dove si recò al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di Antiochia, presso il
quale approfondì gli studi astronomici e astrologici. La composizione del
poema è dai biografi (e, in primis, dal fratello) addotta a documento
dell'ortodossia religiosa del L., contro i sospetti di esercitare arti magiche:
"Quidam, livore atque invidia perfusi, et palam et in occulto Lodovicum
criminari coeperunt, dicentes ipsum negromanticis magicisque artibus, sive
praecantationibus, operari" (Vita Lodovici). L. avrebbe, in effetti,
compiuti alcuni esorcismi, vaticini e guarigioni, ma sempre attraverso il segno
della Croce e la mediazione dell'assistenza divina. Bertolini ha
ricostruito la complessa vicenda compositiva dei Fasti sulla base delle
testimonianze manoscritte superstiti (tra cui il ms. Vat. lat., autografo, nel
quale si depositano varie fasi redazionali) e delle indicazioni cronologiche
interne, che permettono di riconoscere tre redazioni: una prima, dedicata al
pontefice Sisto IV, compiuta entro il 1480; una seconda dedicata al re di
Napoli Ferdinando d'Aragona e a suo figlio Alfonso duca di Calabria, compiuta
immediatamente dopo, entro il 1482; una terza più tarda, dedicata al re di
Francia Carlo VIII, probabilmente abbandonata dopo il fallimento dell'impresa
italiana del sovrano. Si tratta di un vasto poema in sedici libri, costruito
secondo il modello del Fastiovidiani. Sono descritte e celebrate le ricorrenze
liturgiche cristiane secondo la loro successione nel calendario; vengono
inoltre introdotte osservazioni di carattere astronomico e saltuarie
indicazioni relative alle attività agricole. I primi tre libri celebrano le
feste mobili del calendario liturgico, i dodici successivi sono dedicati ai
singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta del Giudizio finale.
Il poema ricevette onorata accoglienza da parte dell'ambiente romano,
come dimostrano i due epigrammi del Platina e di Paolo Marsi riferiti dal
fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti, nei quali il poeta è celebrato
come una sorta di OVIDIO (si veda) reincarnato. Al Platina sono anche
indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei quali in morte.
Secondo Foà, al 1481 daterebbe la conoscenza con Correggio, alla quale lo
stesso L. attribuisce un ruolo fondamentale per la propria conversione alle
dottrine ermetiche. L'episodio più noto relativo al rapporto fra i due e al
quale il L. stesso fa emblematicamente riferimento risale però all'11 apr.
1484, domenica delle palme, sotto il pontificato di Sisto IV, quando assistette
all'apparizione romana di Giovanni da Correggio che, a cavallo e coronato di
spine, attraversò la città e, pur privo di qualsiasi istruzione grammaticale e
retorica, predicò al popolo compiendo atti e riti simbolici e manifestando una
sapienza teologica dovuta a una sorta di mistica ispirazione che gli valse
anche incontri con il pontefice e vari prelati. Gli studi di Kristeller
hanno infatti dimostrato l'appartenenza al L. dell'Epistola Enoch de admiranda
ac portendenti apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus,
dove è diffusamente narrato il viaggio romano di Giovanni da Correggio seguito
da una dichiarazione dell'autore di piena adesione e di conversione: "quod
novae ac tantae rei sacramentale mysterium ego attonitis aspiciens oculis,
mecumque ipse attente et ex totis animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior
obesset mora, relictis Parnasi collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon
primus eum sum protinus insequutus" (ed. Brini). Con lo stesso
pseudonimo di Enoch il L. firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti
dello Pseudo Dionigi l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi
contenuti nel ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, una
raccolta completa del corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino,
integrato dall'Asclepius attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii
(ignote a Ficino perché mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta
dallo stesso Lazzarelli. Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L.
indirizza la sua opera di raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio,
nel tono solenne e sacrale dell'iniziato, affermando il sincretismo tra
teologia cristiana e teologia ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore
antichità di Ermete Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria
conversione dalla poesia agli studi sacri come una vera e propria
rigenerazione: "quondam poeta nunc autem per novam regenerationem verae
sapientiae filius" (Kristeller). L. entra quindi in rapporto
con Colocci quando questi, avendo con sé
il nipote Angelo, si trovava nel Regno di Napoli come governatore di Ascoli
Satriano. Secondo Fanelli, i Colocci passarono nel Regno di Napoli: poco prima
andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De
bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis
puerum". La datazione dell'opera è controversa e il più recente
editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si concilia
con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di Colocci, che
pare dovesse avere un'età idonea a essere prescelto come lettore esemplare
("lege sollicito mea carmina visu"), vero e proprio filius da
rigenerare (l'appellativo di puer può avere un'estensione molto ampia). Il
Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto didascalico dedicato
all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne, sulla traccia di analogie
già suggerite da s. Basilio, la simbologia cristologica e a farne il simbolo di
una rigenerazione alla quale tutti gli esseri umani sono chiamati, compiuta la
quale potranno a loro volta generare una prole divina: "Surgite,
terrigenae, bombycum exempla sequuti. Linquite corporeos sensus, mens candida
regnet Sancta palingenesis vos complectatur et orti / rursus humo coelum
penitus penetrate relicta Gignite divinam repetito semine prolem. Quo pacto id
fieri possit, mox forte docebo, hic
gradus aethereo primus statuatur Olympo. L'ulteriore opera dedicata al tema
della generazione divina, annunciata in chiusura del Bombyx, può forse essere
riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus qui inscribitur Crater
Hermetis. Si tratta di un dialogo nel quale sono inseriti alcuni componimenti
poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore intensità d'ispirazione e di
proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori sono lo stesso L., che ha
ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando d'Aragona, dopo che, ormai
vecchio, ha ceduto il governo dello stato al primogenito Alfonso II. Queste
indicazioni permettono di collocare l'azione, e anche la composizione, tra il
1492 e la morte del re. Il recente editore, Moreschini, ha anche
riconosciuto due redazioni dell'opera, la più antica testimoniata dal ms. della
Biblioteca nazionale di Napoli, la seriore dalla stampa procurata da Lefèvre d'Étaples a Parigi. La differenza
più evidente tra le due redazioni consiste nella presenza, nella prima, di un
terzo interlocutore, PONTANO, con il ruolo, secondario ma non indifferente, di
affiancare il re, discepolo entusiasta e convinto, come poeta desideroso di
approfondire anche verità filosofiche e teologiche. L'origine del titolo è in
un passo del Corpus Hermeticum in cui si parla di un crater inviato d’Ermete
sulla terra affinché in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere così
l'intelletto che li rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione
dell'opera il L. si autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che
lo rende capace di rivelare il mistero della generazione di anime divine da
parte del vero uomo, che ha raggiunto la pienezza della conoscenza e che si
rende così simile a un dio. Moreschini osserva come nella seconda redazione il
L. eviti di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo
(lo stesso titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via
Christi et crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che
tendevano ad attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica)
nei confronti di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie
conoscenze cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano
patrimonio, in quegli anni, del solo PICO (vedasi). Ultima opera del L.
sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati da LANCELLOTTI, che
invano ne cerca copia presso gl’eredi del filosofo. Brini ne propone, ma senza
indizi veramente probanti, l'identificazione con un trattato di alchimia,
conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di Firenze: una raccolta di
preparazioni alchimistiche tratte daLullo e da altri, presentate da L. con un
breve testo introduttivo che si apre con un epigramma di sei distici. Il L.
stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica il contenuto:
"agemus in hoc libro Vade mecum de alchimia que est naturalis magia et vocatur
astrologia terrestris. In questa scienza dichiara di essere stato istruito
"a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia […] qui in hoc fuit
magister meus currente ab incarnatione verbi" (ed. Brini). Nella sua
biografia il fratello attribuisce al L. capacità divinatorie attraverso il
sogno -- habebat somnia, quae potius visiones, sive oracula dici
potuissent" (Vita Lodovici) - e in sogno il L. avrebbe anche antiveduta la
propria morte, intervenuta a San Severino a pochi giorni di distanza da quella
del fratello Girolamo. Delle opere del L. sono a stampa: De apparatu
Patavini hastiludii, Patavii; De gentilium deorum imaginibus, a cura di O'Neal,
Lewiston, NY; Fasti Christianae religionis, a cura di M. Bertolini, Napoli;
Epistola Enoch, Venezia, cfr. Indice generale degli incunaboli [IGI]), ora a
cura di Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo, Roma; la traduzione delle
Diffinitiones Asclepii in appendice a Vasoli, Temi e fonti della tradizione
ermetica in uno scritto di Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a
cura di E. Castelli, Padova; le prefazioni del ms. II.D.I.4 della Biblioteca
comunale degli Ardenti di Viterbo in appendice a P.O. Kristeller, Ficino e L..
Contributo alla diffusione delle idee ermetiche nel Rinascimento, Annali della
R. Scuola superiore di Pisa, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and
letters, Roma; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI) quindi in
Bombix. Accesserunt ipsius aliorumque poetarum carmina, a cura di Lancellotti,
Aesii, e ora in G. Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce, in
Literatur und Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura
di Rheinfelder, Christophorov, Müller-Bochat, München; Crater Hermetis nel
corpus di testi ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii
Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii
liber de voluntate divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano,
Parisiis, in officina Henrici Stephani, quindi, in edizione moderna,
parzialmente, a cura di Brini in Testi umanistici sull'ermetismo, e,
integralmente, in C. Moreschini, Il Crater Hermetis di L., in Id.,
Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis". Studi sull'ermetismo
latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Vademecum, a cura di Brini, in
Testi umanistici sull'ermetismo. Ampie sillogi di scritti del L., frutto di
compilazioni sette-sono contenute nei mss. della Biblioteca comunale di San
Severino Marche; il carme per la morte della duchessa d'Atri è conservato nel
ms. della Biblioteca del Seminario di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno
sconosciuto testimone delle egloghe di Calpurnio e Nemesiano, in ITALIA
medioevale e umanistica. Il codice unico del Carmenbucolicum si trova nella
Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection; una silloge di carmi
di occasione (tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E.
della Biblioteca nazionale di Napoli. Gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi
l'Areopagita si leggono nel ms. della Walters Art Gallery di Baltimora.
Fonti e Bibl.: San Severino Marche, Biblioteca comunale, Mss.; due copie di
Lazzarelli, Vita L. Septempedani poetae laureati per Philippum fratrem ad
Angelum Colotium, da cui deriva in gran parte la biografia premessa da
Lancellotti al poemetto del L. Bombix…, cit., Aesii; Vecchietti - Moro,
Biblioteca picena, V, Osimo, Lancetti, Memorie intorno ai poeti laureati d'ogni
tempo e d'ogni nazione, Milano, Aleandri, La famiglia L. di Sanseverino
(Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico italiano, Ohly, Ioannes
Mercurius Corrigiensis, in Beiträge zur Inkunabelkunde, Thorndike, A history of
magic and experimental science, V, New York, Donati, Le fonti iconografiche di
alcuni manoscritti urbinati della Biblioteca Vaticana, in La Bibliofilia, vi è
riferita la lettura di Campana della dedica del ms. Urb. lat. Kristeller,
Lodovico L. e Giovanni da Correggio, due ermetici del Quattrocento, e il
manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, in
Biblioteca degli Ardenti della città di Viterbo. Studi e ricerche, a cura di
Pepponi, Viterbo, Delz, Ein unbekannter Brief von Pomponius Laetus, in Italia
medioevale e umanistica, Ubaldini, Vita di Colocci, a cura di Fanelli, Città
del Vaticano, Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Res publica
litterarum, Sosti, Il "Crater Hermetis" di L. L., in Quaderni
dell'Istituto sul Rinascimento meridionale, Tenerelli, L. ed il rinascimento
filosofico italiano, Bari, Saci, L. L. da Elicona a Sion, Roma; Foà, Giovanni
da Correggio, in Diz. biogr. degli Italiani, LV, Roma, Walker, Magia spirituale
e magia demoniaca da Ficino a Campanella, Torino, Meloni, L. L. umanista
settempedano e il "De gentilium deorum imaginibus", in Studia picena;
Kristeller, Iter Italicum, ad indices; Rep. fontium hist. Medii Aevi. Nome
compiuto: Luigi Lazzarelli. Lodovico Lazzarelli. Ludovico Lazzarelli. Lazarelli.
Keyword: implicatura ermetica, mascolinita romana, religione officiale romana,
campo marzio, marte, dio della guerra, marte come pianeta, il simbolismo di
marte nell’arte e la filosofia, marte e apollo, marte e Nietzsche --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Lazzarelli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lazzarini: il deutero-esperanto – filosofia ialiana --
Luigi Speranza (Roma). Abstracct. Grice: “It’s amazing
that while everbody – including Trudgill in his Language Myths – seem to agree
that Italian is the most beautiful language in the world, the number of Italian
philosophers who tried to invent a DIFFERENT lingo by far exceeds that of any
other nation!” -- At a conference at Brighton, Grice joked that convention – if
not arbitrariness – has nothing to do with signification, and claimed that he
could invent a new language – “call it Deutero-Esperanto” – that nobody speaks,
and set what it’s proper, which would make him the master. Keyword: artificiale. Filosofo italiano. Roma, Lazio.
A differenza del deutero-esperanto di Grice, non usato mai da Grice, il latino
sine flexione è utilizzato anche da altri filosofi come VACCA (si veda), in
Sphoera es solo corpore, qui nos pote vide ut circulo ab omne puncto externo,
LAZZARINI (si veda), in Mensura de circulo iuxta Leonardo [VINCI (vedasi)
Pisano, e PANEBIANCO (vedasi) che discute proprio della lingua internazionale
nell'opuscolo “Adoptione de lingua internationale es signo que evanesce
contentione de classe et bello” (Padova, Boscardini). Vedasi ALBANI,
BUONARROTI. PANEBIANCO (vedasi) è anche un grande appassionato di Esperanto,
tanto che è solito firmarsi "esperantista socialista". Quest'ultimo,
come si evince anche dal titolo della sua opera, vede nella lingua
internazionale un modo per mettere la parola fine ai contrasti internazionali,
e in particolare al capitalismo spietato. Inter-linguista, quale que es suo
opinione politico aut religioso es certo precursore de novo systema sociale.
Isto novo systema, in que homines loque uno solo lingua magis facile, commune
ad illos non pote es actuale systema de "homo homini lupus", sed es
systema sociale in que toto homines fi socio. Per ben adempiere a un tale
compito, la lingua perfetta di PANEBIANCO (si veda) deve seguire gli stessi
principi di quella di P. Es evidente que essendo id sine grammatica, id es de
maximo facilitate et simplicitate. Ergo, es per illo quasi impossibile ad fac
ambiguitate, excepto ad praeposito [“As when the conversational maxim, ‘avoid
ambiguity’ is FLOUTED for the purpose of bringining in a conversational
implicature”]. Etiam es multo plus rapido compone et
scribe in isto lingua que in proprio lingua nationale. Si capisce allora che
egli auspica che il latino sine flexione assurga a lingua di comunicazione non
solo internazionale, ma anche quotidiana, e forse i suoi auspici si spingono sì
avanti che lo vorrebbe elevato a lingua naturale, lingua madre di tutti i
popoli. Si potrebbe continuare a lungo, ma a questo punto è già ben
chiaro al lettore da dove provenga quel testo riprodotto nel riquadro di
qualche paragrafo fa: da un saggio presente nel volumen ritrovato. Riportarne
il titolo integrale equivale anche a dare le risposte alle due domande proposte
(del refuso non vale la pena parlare). Infatti, troneggia il titolo "Il latino
sine flexione" di PEANO (si veda), memora a firma di L.. Che PEANO
(vedasi), che quasi con certezza è il maggiore matematico prodotto dall'Italia
negli ultimi due secoli, ha profuso gran parte del suo tempo nel tentativo di
creare una lingua che è a un tempo precisa e semplice, insomma perfetta sia per
la matematica che per tutti gli altri scopi a cui una lingua è deputata, è cosa
che si ritrova anche nelle note biografiche più frettolose sul genio cuneese. È
però assai più raro, a meno che lo si ricerchi esplicitamente, imbattersi in
qualche esempio scritto nel suo latino sine flexione L. invece ne riporta un
lungo brano, dopo aver ricordato, tra le altre cose, che quello di PEANO
(vedasi), recentissimo ai tempi della pubblicazione del volume del periodico, non
è stato un tentativo particolarmente originale, visto che di lingue universali
precedenti al latino sine flexione ne sono già comparse almeno altre sette, tra
cui l'Esperanto. Spiega poi come il problema di una lingua universale ben
strutturata se lo fosse posto già Leibniz, il quale elencava dei principi da
seguire per chi si fosse voluto impegnare nell'impresa di crearla; e si vede
che Peano a quei principi leibniziani si attiene diligentemente: applica
l'eliminazione delle desinenze nei casi e impiega in sostituzione delle
particelle specifiche. Elimina le coniugazioni dei verbi, usando solo
l'infinito del verbo senza il "-re" finale (dicere→dice→dire;
mensurare→mensura→misurare; scire-sci→sapere, etc.), e attua
l'eliminazione della specificazione del genere nei nomi. In questo modo, armati
di un vocabolarietto di latino in grado di ricordarci il significato di alcune
parole dimenticate (oporte→ occorre; igitur→ allora, etc.) il saggio dove
diventare ragionevolmente leggibile, una volta appreso che nella Pisa l'unità
di lunghezza è la pertica e quella di superficie il panoro, e che un panoro
equivale a 5,5 pertiche quadrate, come ricorda PEANO (vedasi). PEANO (vedasi) dimostra
con pochi calcoli elementari che il fatto che FIBONACCI (vedasi) asserisca che
per trovare l'area di un cerchio basta dividere per 7 il quadrato del diametro implica
che per il pisano valeva l'uguaglianza n = 2. È divertente vedere PEANO
(vedasi) destreggiarsi senza timore tra pertiche e panori, ed è curioso anche
l'uso spregiudicato che fa dei "numeri misti", ormai passati quasi
del tutto nel dimenticatoio, 2 "Discrimen generis nihil pertinet ad
grammaticam rationalem", sancisce Leibniz, e chissà cosa avrebbe pensato
oggi che le discussioni su quale sia il modo più corretto per trattare al
meglio il genere delle persone sono molto divisive e cariche di significati che
trascendono la mera razionalizzazione della lingua. Con numeri misti si
intende quella grafia che consente di scrivere ad esempio "5½" - come
fa PEANO (vedasi) nella citazione - semplicemente accostando un numero intero e
una frazione, senza esplicitare il sottinteso segno "+". È un metodo
di scrittura di numeri frazionari abbastanza naturale, ma poiché di solito
l'assenza di segno è caratteristica delle moltiplicazioni, la grafia può
generare confusione, ed è caduta in disuso. Nei paesi di lingua inglese è però
ancora abbastanza diffusa, al punto che la maggior parte delle scuole dedicano
qualche lezione all'aritmetica dei numeri misti. Atkinson, noto appassionato di
matematica ricreativa e dell'Italia ha condotto una ricerca sulla sopravvivenza
dell'uso dei numeri misti nella nostra nazione, con risultati curiosi e
piacevolmente piasmentmathssesantat/ divulgazione/matematica-il
linguagiortini Versa pubblicato su MaddMaths!: forse con le sole
eccezioni dei voti sui compiti in classe e dei tabelloni di alcune
metropolitane che segnalano l'arrivo dei treni con una precisione fino al mezzo
minuto. L'escursione in quel dimenticato volumen si è rivelata già
ampiamente sufficiente a dimostrare quanto possa essere gratificante il
"viaggio nella libreria", anche quando si riduce solo a
una gitarella di un paio d'ore. E si potrebbe chiudere qui anche questo
articolo, una volta pagato un minimo pegno di riconoscenza all'autore del sagio
saccheggiato. Ma tutti i viaggi che si rispettino presentano almeno un paio di
imprevisti, e nel nostro caso è proprio L. a fornircene uno. Come recita
il suo frontespizio, il "Periodico di Matematica per l'Insegnamento
Secondario" non è una rivista accademica destinata ad ospitare memorie di
ricercatori professionisti, ma un giornale che perseguiva la missione di
facilitare il lavoro di chi si occupa di insegnamento. Per quanto nel celebrato
indice rifulgano tra gli autori nomi di matematici di prima grandezza, è assai
probabile che tra i collaboratori più o meno abituali comparissero anche coloro
che più di altri conoscevano i dettagli della didattica, cioè proprio i
professori, ed è quasi certamente tra questi che occorre collocare il nostro L..
Pur essendo assente dai maggiori siti specializzati in biografie dei matematici
più importanti, una ricerca un po’più generale intercetta facilmente un saggio
che lo riguarda. L'autore è Hans van Maanen, direttore di
"Skepter", la rivista dell'associazione di
"scettici", e perciò in qualche modo consorella della corrispondente
associazione italiana, il CICAP fondato d’Angela. Naturalmente, la maniera di
gran lunga migliore per godersi il saggio è quello di leggerlo direttamente. Ma
per chi si accontenta di un riassunto veloce giusto per capire come L. scrive qualcosa
che quasi un secolo dopo ha molto irritato un pezzo grosso di Nature, ne
riporteremo i punti salienti. Vista la lunga estensione temporale della
storia, forse vale la pena di procedere cronologicamente. Premessa:
Buffon, osserva che il valore di n è determinabile per via sperimentale con il
metodo che resta famoso nella storia proprio con il nome d’ago di Buffon. Immaginando
un pavimento diviso in sezioni trasversali di larghezza s, lanciando a caso un
ago di lunghezza a e registrando le volte m che l'ago intercetta una delle
linee del pavimento, presupponendo un numero di lanci n tendente a infinito, si
può risalire al valore di a utilizzando i rapporti s/a e m/n. Il nostro
L. pubblica, sempre sul Periodico di Matematica per l'Insegnamento,
(ma volume XVII, non il XIX ritrovato nel
"viaggio in libreria"), un sagio in cui afferma di aver
applicato il metodo di Buffon e di aver ottenuto un valore
sperimentale di n esatto fino alla sesta cifra decimale, 3,141529, con una
serie di 3408 lanci di cui 1808 positivi, e con valore di a pari a 2,5 e s pari
a 3,0. Nell saggio afferma anche di aver raggiunto il risultato grazie a una
sua [Ho avuto invece approssimazione maggiore col disporre la retina
traversalmente, vale a dire coll'utire tra loro i lati maggiori del rettangolo.
Qui le espurienze vanno divise in doe serie, ginechi. Mentro ho mantenuto
sempro costante la lunglezza della sbarretta. ho fatto invece variare
l'altezza della striscia compresa fra le parallele: ed ecco i rimaltati
ottenuti: 1• Seme I1 SREI 100 300 13000 9000 4000 611 1200 1600 2148
3,101 3,152 3,147
8,125 8,185 100 200 10? 1000 1,115
3,180 8,1446 1142 3.1415129 3,1416 3 Estratto
dell'articolo di L. Grazie alla traduzione di Garlaschelli lo si può leggere in
italiano, o direttamente su Query, la rivista del Comitato Italiano per il
Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze] macchina, descritta in
dettaglio, che consente di meccanizzare i "lanci casuali di un ago sul
pavimento piastrellato come richiesto dall'idea di Buffon. Il risultato
viene accolto inizialmente con grande entusiasmo, diventa noto a livello
internazionale e non sono pochi i grandi nomi della matematica che lo accolgono
con sperticate parole di elogio. Il nome di L. diventa abbastanza famoso. A
parte la sua, le migliori approssimazioni sperimentali arrivano, e a fatica, a
una precisione di un paio di decimali. Compaiono però i primi saggi che esprimono
dubbi sulla correttezza dell'esperimento. Badger scrive il saggio, "L.'s
lucky approximation of t" in cui analizza in dettaglio tutte le fragilità
della memoria di L. Parte dalla strana coincidenza - già notata del rapporto
3408/1808, cruciale nel testo di L., che è identico alla nota frazione 355/113,
scoperta già nel V secolo da Chongzhi come approssimazione di p; prosegue
notando la stranezza di quei "3408 lanci", poi passa a calcolare la
probabilità d’ottenere per via randomica quel risultato, giungendo alla
conclusione che è una probabilità talmente bassa, circa tre parti su un milione,
da ritenere che quella stima fosse il frutto o di un colpo di fortuna davvero
eccezionale o di un "hoax" termine che si può tradurre come qualcosa
a mezza via tra uno "scherzo" e una "beffa". Badger,
grazie a quello saggio, vince un premio istituito dalla Mathematical
Association of America, e ovviamente il saggio viene letto anche da Maddox,
redattore capo di Nature. È naturale che un redattore capo di una prestigiosissima
rivista scientifica vede la manomissione dei dati sperimentali più o meno come
il proverbiale diavolo guarda l'acqua santa, e la sua ira funesta colpisce
Lazzarini: titola il suo articolo come "Falsa misura sperimentale di
n", usa senza mezzi termini la parola "fraud" ovvero
"frode" al posto del più morbido "hoax", e lancia perfino
una specie di anatema: " ...l'articolo di Badger dovrebbe restare
come un ammonimento, a tutti coloro che inquinano la letteratura, che i
loro misfatti li seguiranno fin nella tomba. D'altro canto, il saggio di
Maanen che ci ha consentito di scoprire questo affascinante giallo matematico
sembra più orientato a smorzare lo scandalo. La descrizione accurata della
macchina per i lanci che fa L., a ben vedere non sembra poi così efficiente da
meritarsi d'essere costruita. L’aver posto in bella vista il numero 3408 nella
tabella che riporta i suoi tentativi quando i valori intermedi esposti vanno
per blocchi interi di centinaia o migliaia. Insomma tutto lo spirito del saggio
di L. sembra più uno scherzo che la rivendicazione di una scoperta. È anche
possibile che, da insegnante, cerca e suggerisse ai colleghi qualche metodo
scherzoso per affascinare gli studenti, come quella complicata macchina
lancia-aghi o la meraviglia di una costante matematica trovata sbattendo
oggetti per terra. A voler cercare una morale da tutta la storia, non c'è che
l'imbarazzo della scelta. Dall'opportunità o meno di scherzare con la scienza
alla troppo diffusa propensione agli entusiasmi, o alla rissa, anche tra i più
autorevoli critici. O anche sulla necessità di ricordare sempre che anche gli
scienziati sono donne e uomini, con tutte le caratteristiche e le debolezze
degli esseri umani. E poi, a dire la verità, la morale più evidente e ovvia che
ci sembra emergere è semplicemente quella che ricorda alle riviste scientifiche
prestigiose e autorevoli di non concedere i loro spazi ad arruffoni
incompetenti fin troppo disposti a scherzare su qualsiasi cosa pur di vedere
stampate le loro sciocchezze: ma uno strano e persistente brivido lungo la
schiena ci suggerisce di non evidenziare troppo questo aspetto, chissà
perché. Cortesia: Alembert, Riddle, e Silverbrahms. Nome compiuto. Mario
Lazzarini. Lazzarini.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Leanace: la ragione conversazionale e la setta di Sibari
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). Abstract. Grice: “Cuoco says that Pythagoras, oddly a
non-Italian, is the father of Italian philosophy. By ‘Italian philosophy,’
Cuoco means Magna Graecia, as in Sibari!” FIlosofo italiano. Pythagorean.
Giamblico.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e
Lecaldano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della
traspatia – l’impassibile di Cicerone – filosofia veneta – la scuola di Treviso
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Abstract. Grice: “Lewis Carroll, who had read Mill and
had a tutorial studentship at Christ Church, knew well that names – such as ‘Alice’
do mean something – contra Mill. Indeed, Lecaldano is one of the most
meaningful Italian philosophical names! The Italian surname “Lecaldano” likely
has roots in Italy, in the regions of Piemonte and Lombardia, where it is
thought to have emerged during the mediaeval period. The name’s etymology is
believed to be connected o geographical features, with the term ‘sasson’ (which
often appears in conjunction with “Lecaldano” in some variations, like “Lecaldano
Sasso la Terza,” meaning ‘stone’ in Italian. This suggests a possible link to
rocky landscapes or settlements. Furthermore, the term ‘Lecaldano’ may have
local dialectal origins, potentially associated with a specific area or family.
However, the exact maning and the specific historical context that led to the
formation of the surname require further investigation!” Filosofo italiano.
Treviso, Veneto. Grice: “Lecaldano is interested in altruism as the basis for
morality; I’m interested in morality as the basis for altruism; he ain’t
Kantian; I am!” -- Grice: “I love Lecaldano; perhaps because he is an Italian,
he focused on Scots! His analyses of Smith and Hume on ‘sympathy’ is
‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice: “Lecaldano engages in the kind of
linguistic botanising I do when I reflect on ‘cooperation’ versus ‘benevolence’
versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end
up with a rationality-based account of cooperativeness – or rather a narrowing
of ‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are others!” Si laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La
Società Italiana di Filosofia Analitica (“to keep us apart from non-analytics
like Plato!”). Membro della Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di L.
spaziano dalla storia della filosofia morale sino alle discussioni
contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del rigore concettuale della
filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla ricostruzione storiografica
della morale, con particolare riferimento ai filosofi scozzesi (Hume, Smith). Ha
inoltre indagato criticamente i problemi della meta-etica. In bio-etica, L. si
prefigge l'obiettivo di una chiarificazione delle implicazioni morali legate
alle bio-tecnologie, che sfocia in una prospettiva laica per la pacifica
gestione del conflitto morale che le "tecnologie della vita" hanno
prodotto. Saggi: “Le analisi del linguaggio morale – “Buono" e
"dovere" (Roma, Ateneo), “La fallacia naturalista” (Roma, Laterza);
“La lume della ragione, gl’iluminati”” (Torino, Loescher), “Lo scetticismo”
(Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica: la scelta morale” (Roma,
Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario di bio-etica” (Roma,
Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza); “Prima lezione di
Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano, Cortina);
“Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione officiale in
Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica Comitato
Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di vista
morale di L. sulla nascita, la cura e la morte di Corchia. Riflessioni di L.
sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di simpatia tra
conversazione comune e letteratura “La molteplicità di usi di simpatia” È
possibile riconoscere diversi significati nel termine simpatia che di solito è
accompagnato da un significato positivo, anche se in realtà è possibile
estendere il suo significato fino a usarlo con connotazione negativa. Nel
dizionario troviamo distinte 13 accezioni del termine, dall’attrazione
sentimentale alla condivisione di un atteggiamento o posizione politica. Come
nota Hume, è molto difficile parlare delle operazioni della nostra mente in
termini del tutto esatti, perché il linguaggio comune raramente fa delle
sottili distinzioni. Il termine “simpatia” viene compreso dalla gran parte
delle persone, ma paga la sua ampia diffusione con l'indeterminazione che ad
esso si accompagna. E enorme l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in
forma implicita che esplicita. Hunt suggerisce che la nozione di simpatia sia
la prosecuzione di quella che nei testi illuministi viene analizzata come
simpatia; Hunt, poi, privilegia la simpatia assimilata alla compassione. Già
nel diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione, la
considerava una forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre Hume e
Smith la considerano come la capacità, più sviluppata negli uomini che negli
animali, di partecipare attivamente alle condizioni altrui, sia dolorose che
gioiose. E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui il rafforzarsi della
simpatia fra gli esseri umani nella cultura europea (reso possibile dai
romanzi) portò a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri umani che fino a
quel momento erano stati emarginati. Molti romanzi in secoli successivi
accesero le emozioni e la partecipazione simpatetica del
pubblico.Verosimilmente anche molta della forza espressiva del cinema può
essere identificata nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le sue
tecniche, degli stati d'animo e della trasformazione delle emozioni dei
personaggi. (discorso su Kundera) “Un percorso di approfondimento” Lo sforzo di
conoscere il funzionamento della simpatia si connette con la questione relativa
a quanto la simpatia si debba ritenere essenziale per la genesi della pratica
morale diffusa tra gli esseri umani. Cercheremo di capire se la simpatia sia
necessaria o meno per la moralità ed esporremo le argomentazioni pro e contro
questa tesi. Fermo restando che la simpatia può essere considerata necessaria
per la nostra vita etica, ma non sufficiente. Simpatia può riferirsi a
un'attitudine conoscitiva tramite la quale riusciamo a cogliere le condizioni
mentali altrui, oppure a una reazione affettiva ed emotiva nei confronti dei
sentimenti altrui. Concordando con Stueber, andremo verso la simpatia intesa
come preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri
in base ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte quello che
considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e istintiva, un
contagio emozionale automatico; Dall'altra quello che considera la simpatia
come un processo psicologico più complicato e che comporta un minimo di
riflessione. L'impostazione adeguata è quella che non confonde i due livelli di
simpatia e non semplifica le cose, presentando una concezione riduttiva.
Insisteremo inoltre sulla connessione tra simpatia e la pratica non solo della
moralità, ma della giustizia, della politica, così come sulla sua incidenza
nelle forme di civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della
simpatia sul piano normativo che vede in essa ciò che è necessario e
sufficiente per la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha
una lunga tradizione nella storia della filosofia. La prima importante nozione
di simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte
le cose del mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia
utilizzata per richiamare una connessione armonica che unisce fra loro esseri
umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella filosofia antica
viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel mondo fisico e solo
secondariamente in quello umano, infatti gli stoici si riferiscono ad una
simpatia universale per indicare l'affinità oggettiva esistente fra tutte le
cose. Gli stoici sono importanti per l'influenza che ebbero sui moderni
interessati alla simpatia come Hume e Smith. In Plotino troviamo un'immagine
che verrà ripresa da Hume. Questo concetto naturalistico della simpatia è il
fondamento della magia e verrà ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella
cultura antica la simpatia ha un'estensione prevalentemente cosmologica e
ontologica, identificandosi con un fenomeno universale e con la forza che tiene
insieme tutte le cose in una relazione automatica. Fin dall'antichità, quindi,
la simpatia ha un'accezione positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è
un'importante innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel
“Cantico delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma
anche il sole, la luna, l'acqua e il fuoco. Questo atteggiamento è “empatia”
(oriente e Schopenhauer) “Una relazione attiva fra due poli” La simpatia
conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica a Hobbes
che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come essenzialmente
egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson che però, pur
riconoscendo agli esseri umani un grado di apertura affettiva l'uno verso
l'altro non ne avevano realizzato quella completa soggettivizzazione che
troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury, infatti, con l'impostazione
platonizzante tende a considerare la simpatia come una trama che si estende al
di là del mondo umano, creando armonia fra vite umane ed ordine universale.
Hutchenson, invece, preferisce il termine simpatia quello di “senso pubblico”,
facendo riferimento ad un contagio emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una
trattazione della simpatia erronea perché incapace di cogliere il suo collegamento
con l'immaginazione e la riflessione. Ciò non toglie che le analisi di
Hutchenson siano tornate attuali. Troviamo la trattazione più approfondita
dell'idea di simpatia e si può individuare nelle analisi di Hume e Smith due
diverse concezioni che influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano
nel considerare la simpatia solo come un dato della natura della psicologia
umana e non una forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico
che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani; per
Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra ciò che
possiamo approvare e ciò che dobbiamo disapprovare. Queste diversità tra i due
autori incidono sulla connessione fra simpatia e moralità: Smith la concepisce
come necessaria e sufficiente, Hume solo necessaria ma non sufficiente. Hume
dedica alla simpatia molte analisi nel “Trattato sulla natura umana”, in cui
troviamo una linea interpretativa ben riconoscibile che sarà illuminante. La
simpatia viene considerata da Hume un principio costitutivo della vita umana ed
egli fissa due punti fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra
cose o oggetti, ma solo quelle fra esseri umani, nonostante coinvolga anche
relazioni con gli animali e tra loro stessi; Nella natura umana esiste una gran
tendenza a prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che osserviamo in
noi stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi.
L'estensione della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla
condotta di questi ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche
negl’animali suscitando le stesse emozioni provocate nella nostra specie. Hume
distingue due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin
dall' infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo
indiretto, ricorrendo all'immaginazione riflessiva e non immediata che genera i
sentimenti morali. A quest'ultima forma di simpatia può essere ricondotto la
trattazione della questione sul coincidere tra morale e simpatia. Hume offre
una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in grado di rendere conto
della distinzione che facciamo tra virtù e vizio. Nella teoria dei sentimenti
morali, Smith presenta una concezione della simpatia alternativa a quella di
Hume. Infatti, a Smith non interessa la simpatia come contagio emozionale, ma
anzi la identifica come una specie di emozione che si prova quando si concorda
con le emozioni e passioni altrui. Provare simpatia per qualcuno significa
provare piacere su nel condividere emotivamente la risposta che l'altro dà alla
situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa simpatizzare
con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato complesso e
articolato: vi è un primo stadio che è la capacità di ricostruire la passione e
condotta dell'altro, o spiacevole se comporta sofferenza o piacevole se provoca
gioia; un secondo stadio dato dall'approvazione o disapprovazione che si dà
della condotta altrui; infine, uno stadio in cui si troverà un piacere
simpatetico, se le nostre approvazioni concordano e un dispiacere se
discordano. Considerando la simpatia come approvazione, Smith cattura una
nozione più determinata di quella generica analizzata da Hume, ma molto più
aperta per ciò che riguarda il ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La
simpatia come approvazione morale in Smith si allarga ad includere in ogni
relazione simpatetica l'intervento di uno spettatore immaginario capace di far
valere le esigenze di una più completa ricerca delle informazioni rilevanti.
Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla
simpatia col ter. Grice: “While his
research on sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his
philosophy of laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for
Romans religio WAS a matter of state – those who did not submit were thrown to
the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a
post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the
romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter
of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated
the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I
would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus,
ennico, a pagan, or heathen!” LE
DISCIPLINE FILOSOFICHE o doo lerprene CUCA CO SC {y/ertse e Ul insonne do SAU
VOVASVARIZZZA quali Sé prese NARO 1 SSCONI SUL problemi ‘ORGONO per gli CSSOLL
UAN quando AYIscOno © cerci ole è princi da Seguire nelle diverse dimensioni d
> Oa pratica. Sa parte integrante di questa ILCELC “tazione delle regole TAN
c0 pri «e giù disponibili Q/ we da altre pers one. Afrontereno WZZZ volte nel
co SAGGIO la questione di Guanto l'etica assorba i sé 4 AGUA dall'economia per
fare valere 77) generale Pa ‘va (esa a lenee distinte concettualmente CALO, da.
In questo senso ‘etica’ occuba lo spazio. Ordinario di Storia delle dottrine
morali all'Università «La Sapienza» di Roma. I suoi lavori sulla filosofia
inglese dei secoli XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di
Hume), all’edîzione italiana delle Lettere a Serena di Johni Roma. I suoi
lavori sulla filosofia inglese dei secoli XVII e XVIII vanno dall’edizione
italiana delle Opere di David Hume, all’edîzione italiana delle Lettere a
Serena di Toland, all’ampia antologia L’ilyminismo inglese (1985), al volume
Hume e la nascita dell'etica contemporanea. All’etica contemporanea ha
dedicato, tra gli altri, i volumi Le analisi del linguaggio morale e
Introduzione a Moore ETICA STEAS TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A.
Corso Italia 13 - Milano UTET, corso Raffaello, Torino. UTET dal Volume ITI
della Fi/osoffa, diretta da Rossi TEA ETICA. Con il termine etica ci si
riferisce all'insieme di scritti e discorsi nei quali si presentano riflessioni
sui problemi che si pongono per gli esseri umani quando agiscono e cercano
regole e principi da seguire nelle diverse dimensioni della loro vita pratica.
Fa parte integrante di questa ricerca la valutazione delle regole e dei
principi già disponibili o fatti valere da altre persone. ETICA Affronteremo
più volte nel corso del saggio la questione di quanto l'etica assorba in sé e
si distingua dall'economia per fare valere in generale una prospettiva tesa a
tenere distinte concettualmente etica ed economia. In questo senso ‘etica’
occupa lo spazio semantico che nella tradizione dotta italiana si collega a
‘filosofia morale’. L'etica in questo senso ampio comprende dunque tutta una
serie di più determinate specificazioni che riguardano di volta in volta i
problemi morali, quelli di pertinenza del diritto e della legge e quelli che
più propriamente rientrano nel campo della politica o dell’azione del governo.
Usando un altro linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo dei
valori e delle norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia la
morale, sia il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più
tecnici e specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria
dell’ordinamento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere efficaci
le sanzioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di governo e i rapporti
tra i vari poteri non sono di pertinenza dell'etica come qui intesa. Verranno
dunque brevemente trattate le questioni relative al diritto e alla politica
solo per individuare con più precisione gli ambiti specifici di problemi
pratici in gioco in queste aree dell'etica, La pretesa per quanto riguarda queste
sezioni è di col. locarle con chiarezza nel campo più generale dell'etica
piuttosto che affrontare partitamente i loro problemi specifici. La scelta
concettuale fatta comporta che si lasci completamente da parte la pretesa di
occuparci dell'etica 0 della morale in un senso più sociologico, ovvero come
insieme di costumi di un popolo, o in un senso più psicologico, ovvero come
stili di vita 0 inclinazioni e abitudini a determinati tipi di associazione
mentali effettivamente riconoscibili nella biografia di esseri umani
concretamente esistenti. L'etica nel senso in cui ce ne occuperemo coinvolge
piuttosto la riflessione e il pensiero impegnati nella caratterizzazione,
critica, difesa e revisione del costume o delle pratiche effettive. La
scrittura di questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una parte si
è cercato di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX. Anche
se probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo stacco tra
secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una prospettiva che è
largamente influenzata dalla considerazione di quei problemi morali che nel
nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si stanno ancora affrontando, per la
prima volta, quali ad esempio le questioni della bioetica, o dell'etica
ambientale, del trattamento degli animali ecc. In secondo luogo chi scrive
assume la prospettiva fatta valere da Derek Parfit secondo la quale una vera e
propria etica nel senso moderno può essere vista nascere solo con il XVII
secolo. Ma un'etica che unisca insieme la consapevolezza della sua autonomia e
un certo impegno in senso professionale riguarda solo la seconda parte di
questo secolo (Parfit). Ed è dunque a questa etica moderna e contemporanea più
che a quella antica e medievale che in questo scritto si farà principalmente
riferimento per dare spessore storico alle distinzioni e conclusioni che si
avanzeranno. Anche se l'etica si presenta come una disciplina già consolidata e
con una tradizione di sapere costituito, si può indicare una strada che permette
di accedere ai problemi di cui si occupa muovendo dall'esperienza comune e
quotidiana. Infatti la pretesa dell'etica come del resto di quasi tutti i rami
della riflessione filosofica è quella di occuparsi di problemi che tutti gli
uomini affrontano e incontrano nella loro vita. Nel caso dell'etica teorica è
frequente anzi trovare affermata la pretesa di essere più vicina e direttamente
rilevante per la vita delle persone di quanto siano altri ambiti della
filosofia, quali poniamo la gnoseologia (con la sua elaborazione teorica sulla
conoscenza), 0 l'epistemologia (con le sue riflessioni sulla teoria della
verità) ecc. Questa pretesa di una più stretta vicinanza con la vita di tutti
si accompagna spesso nelle elaborazioni teoriche nel campo dell'etica con
un'ulteriore pretesa per cui tali elaborazioni vengono presentate come la parte
più importante delle riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha
priorità e centralità regolativa rispetto alle altre. Nella vita quotidiana si
presentano numerose situazioni problematiche che possono essere considerate
come punti di partenza per la riflessione etica. Suggeriamo di classificare
queste situazioni problematiche ricorrendo a due distinte tipologie, quella dei
conffitti e quella dei disaccordi. Casi di conflitto per così dire il versante
privato o soggettivo dell'etica sono quelli in cui noi stessi non riusciamo a
trovare una soluzione valida a un problema etico 0 perché i nostri principi
tradizionali risultano inadeguati o perché non riusciamo a risolverci appunto
tra differenti principi egualmente rilevanti. Casi di disaccordo per così dire
il versante oggettivo o pubblico dell'etica sono quelli, molto frequenti e
diffusi nelle nostre società complesse, in cui petsone diverse tendono a fare
valere principi etici contrastanti per risolvere la stessa situazione
moralmente rilevante, î Il cammino verso l'elaborazione di un'etica più
riflessa sembra aprirsi non già quando le regole e i principi tradizionali
rispondono alle nostre esigenze, ma piuttosto in una situazione in cui gli
esseri umani incontrano difficoltà nel campo delle loro scelte e decisioni
pratiche. Se, infatti, la vita pratica procede in modo del tutto ordinato
all’interno di una routine consolidata non vi è quella base necessaria per un'elaborazione
critica, Il presentarsi di una diffi. coltà nell'applicazione dei codici
normativi tradizionali è, in genere, il punto di partenza per l'elaborazione
dell’etica nel pensiero moderno e tale quadro problematico è diventato
costitutivo della teoria etica nel pensiero etico contemporaneo. La stretta
connessione della riflessione etica con situazioni di conflitto e di disaccordo
sembra voler suggerire che proprio all'etica in quanto tale spetta di proporre
una soluzione e che quindi rientra negli obiettivi specifici dell'etica teorica
prescrivere esplicitamente ciò che è bene o giusto fare in situazioni
particolari. Una pretesa che nel corso della nostra ricostruzione delle varie
posizioni riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea avremo l’occasione
di valutare criticamente. L'elaborazione etica di cui renderemo conto in modo
più sistematico in questo scritto si colloca in un quadro generale
individualistico. A monte infatti della nostra rivisitazione dell'etica vi è
l’assunzione filosofica che in generale i problemi con cui si ha a che fare
riguardano individui ovvero persone umane. L'etica così intesa si muove in un
contesto che può essere considerato come proprio del pensiero moderno da
Cartesio in avanti in cui i problemi di fronte ai quali ci si trova sono
problemi che nascono per esseri umani particolari e finiti. Anche se nei primi
secoli della ricerca moderna la riflessione era volta a fissare il campo
dell'etica tenendo conto della natura umana complessivamente intesa, fin dal
secolo XVII essa muoveva da problemi pratici di individui ben determinati. Il
lettore troverà dunque privilegiata nell'esposizione seguente una tradizione
empiristica e naturalistica nella quale, tra il XVII e il XXX, si sono
collocati tra gli altri: Hobbes, Locke, Hume, Smith, Bentham, Mill, e Sidgwick.
La riflessione sulla morale di Kant malgrado non rientri in questa tradizione
sarà tenuta presente per la sua capacità di far valere l'ottica di una
responsabilità individuale autonoma nella vita morale, Esponenti del
neoempirismo e della filosofia analitica hanno contribuito nel corso del XX
secolo a questo approccio più generale nei confronti dell’etica e il loro
contributo sarà largamente presente nelle pagine seguenti , che è stato più
recentemente caratterizzato esplicitamente come «individualismo metodologico».
Una linea di ricerca ampiamente percorsa anche se non senza differenze in
ITALIA, ad esempio, da Juvalta, Abbagnano, Preti, Scarpelli e Bobbio. È vero
che i casi in cui gli esseri umani individuali e le persone si trovano
effettivamente di fronte a problemi etici quali quelli che rendono possibili
laserie di riflessione di pertinenza dell'etica sono probabilmente più rari di
quanto in genere si ritenga. Ma la rinascita dell'etica e il fiorire della
riflessione pratica a cui abbiamo assistito nella seconda metà del secolo XX
(dai disaccordi pubblici sulle questioni di giustizia distributiva e di
discrimina. zione che hanno caratter izzato gli anni Settanta, ai conflitti che
negli anni Ottanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le regole da far
valere di fronte alle nuove condizioni del nascere, morire e curarsi degli
esseri umani) mostrano l'ampio radicamento nella vita comune di questa
dimensione filosofica. Probabilmente riflessioni e decisioni si svolgono in
modo meno esplicito e più impersonale (attraverso la meditazione della
discussione pubblica intersoggettiva) di quanto risulterà dal taglio
individualistico di questo saggio. Ma nelle pagine seguenti, senza la pretesa
di tutto abbracci are o risolvere, renderemo conto in modo sistematico e
critico delle diverse concezioni elaborate per avere a che fare con quelle
scelte individuali che sono influenzate da ragioni etiche. 2. Lanatura
dell'etica. 2.1. Meta-etica e meta-morale. La riflessione sulla natura
dell’etica ha una priorità logica una volta assunta la prospettiva riflessiva e
critica alla cui genesi abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1. Si tratta
infatti, in primo luogo, di capire l'ordine di problemi intorno a cui si
riflette econseguentemente di individuare quali siano i criteri cui si può
ricorrere per risolverli 0 mettere alla prova la validità delle soluzioni
alternative che ci si presentano. Un esempio particolarmen te rappresentativo
di questo percorso logico troviamo delineato da Moore nei suoi Prircipis
Ethica. Moore chiarisce che il problema centrale dell'etica a suo parere,
l’unico problema dell'etica è quello di fornire una definizione delle
principali nozioni che ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni
di buono, giusto, obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte le
nozioni etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella
fondamentale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive Moore: Ciò che
‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo contrario «cattivo», il solo
oggetto semplice di pensiero che appartenga peculiatmente all'etica. La sua
definizione, di conseguenza, è il punto essenziale nella definizione
dell'etica; e inoltre un errore su questo punto porta con sé un numero di
giudizi errati di gran lunga più grande che qualsiasi altro errore in materia.
Se questa domanda preliminare non è pienamente compresa è non se ne vede
chiaramente la risposta, tutta il resto dell’etica ha un valore praticamente
nullo dal punto di vista della conoscenza sistematica [...] in ogni caso, è
impossibile che, finché non si conosca la risposta, si possa sapere quale è la
prova richiesta per un giudizio etico qualsiasi. Ma il principale obiettivo
dell'etica come scienza sistematica è dì fornire ragioni corrette per pensare
che una cosa 0 un'altra è buona; e se non si risponde alla nostra domanda tali
ragioni non si possono dare (Moore, 1964: 48-49). Secondo l’impostazione di
Moore dunque che faremo nostra i metodi di prova e confutazione che hanno
efficacia in etica potranno essere identificati solo dopo che avremo capito la
natura dell'etica, ovvero il tipo di problemi di fronte ai quali ci troviamo
laddove è in gioco la parte morale della nostra esistenza. Cominciamo quindi
con il passare in rassegna criticamente le più importanti concezioni sulla
natura dell'etica. In filosofia è corrente una nozione per riferirsi a questa
parte della ricerca e, specialmente in questo secolo, ci si è molto dilungati
sulle diverse meta-etiche o meta-morali (assumiamo qui queste etichette in un
senso generico e che le rende equivalenti senza investire la distinzione tra
etica e morale su cui invece ci soffermeremo nel $ 6). Una determinata
concezione meta-etica o meta-morale si colloca sul piano conoscitivo e logico.
Essa si propone infatti, prima di tutto, di farci capire qual è la natura
dell'etica e quali sono i metodi di prova e dimostrazione in essa in vigore.
Tutto ciò è preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a
sottoscrivere una determinata soluzione. La riflessione meta-etica viene quindi
non solo concepita come preliminare o logicamente prioritaria, ma in genere
come del tutto neutra da un punto di vista normativo, Si tratterebbe dunque,
per usare formule che piacciono molto ai filosofi, di identificare preliminarmente
ciò che è comune a tutti i punti di vista etici in quanto etici, per
eventualmente passare poi a sottoscrivere una determinata etica a preferenza di
altre. Naturalmente vi sono anche pensatori che negano che una meta-etica
neutrale e del tutto priva di implicazioni normative sia possibile. In
questalinea troviamo un autore di tendenze analitiche come Scarpelli che
sottolinea la natura prescrittiva di tutte le scelte a monte della costruzione
di una particolare meta-etica (Scarpelli,). Ma anche autori del filone
postanalitico come Hilary Putnam e Donald Davidson che negano la validità
dell'assun zione che distingue tra forma e contenuto, distinzione a monte della
tesi della neutralità delle teorie meta-etiche (H. Putnam, 1985; D. Davidson,
1992). Questa controversia riguarda però più propriamente il modo di intendere
il lavoro filosofico e il modo di concepire le relazioni e connessioni tra
analisi concettuali e logiche e opzioni valutative e normative e dunque in
questa sede laasciamo da parte. Così come non affrontiamo esplicitamente la
questione di quale si debba considerare l'oggetto proprio delle analisi
meta-etiche. Se cioè esse debbano vertere esclusivamente sulle parole e il
linguaggio morale come ha sostenuto una parte dei filosofi di questo secolo e
specialmente gli esponenti della filosofia del linguaggio ordinario come ad
esempio Stevenson, Hare e Nowell-Smith, o possano essere caratterizzate in modo
meno ristretto. Più recentemente, ad esempio, Bernard Williams ha suggerito di
considerare come oggetto proprio delle analisi sulla natura dell'etica in
coerenza con una concezione più liberale dell'analisi filosofica non solo i
discorsi, ma anche esperienze, azioni, emozioni ecc. (B. Williams, 1987).
Tenendo conto del livello generale di questo scritto potremo fare tesoro di
questa proposta liberalizzatrice e considerare come campo della meta-etica o
della meta-morale l'insieme delle diverse dimensioni della vita etica degli
uomini. La concezione dell'edonismo egoistico. La via più ovvia per
identificare la natura generale dei problemi che sorgono quando stiamo
scegliendo o decidendo tra differenti alternative che ci stanno di fronte è
quella di sostenere che in realtà siamo esitanti solo perché non ci risulta
chiaro cosa ci conviene fare di più. Ovvero lasciando da parte la questione di
una differenza tra le più specifiche caratterizzazioni di che cosa intendiamo
con la formula «ciò che ci conviene di più» -ciò su cui stiamo deliberando è
solo l'individuazione del corso di azione che farà maggiormente il nostro
proprio interesse, 0 ci darà più piacere o ci farà guadagnare di più ecc.
Questa concezione meta-etica riconduce quindi le azioni in gioco in questa
dimensione della nostra vita pratica all'interno di un contesto che riguarda le
azioni umane in generale: tutte le azioni umane sono rivolte a ottenere il
proprio personale piacere e a evitare il dolore. Si tratta di una concezione
che riconduce l'etica all’interno di quel quadro dell’edonismo egoistico che
con una certa approssimazione interpretativa viene attribuito a pensatori come
Epicuro e Hobbes. Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of Law Natural
and Politic (Elementi di legge naturale e politica) sostiene: «Ogni uomo, dal
canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole, bene; e male ciò
che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno differisce da un altro nella
costituzione fisica, così ci si differenzia l’uno dall’altro anche riguardo
alla comune distinzione di bene e male. Né esiste una cosa come l’agaton aplos,
vale a dire il bene assoluto» (Hobbes,). Questa concezione della natura
dell'azione umana in generale in realtà porta a negare che vi sia una
dimensione etica nella vita degli esseri umani. Infatti ci troviamo di fronte a
una posizione che propone di tradurre tutti gli enunciati 0 giudizi etici in
questioni che hanno a che fare esclusivamente con valutazioni, pro 0 contro una
certa linea di azione, sulla base di un criterio esclusivo che è quello del
proprio personale tornaconto. La natura dell'etica non viene certo
caratterizzata in questa direzione da tutti coloro che presentano delle teorie
meta-etiche o meta-morali. Infatti al di lì delle diversità da un punto di
vista epistemologico, gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte le diverse
concezioni concordano nel presentare, in termini contenutistici e sostantivi,
il campo dell'etica come quello che ha a che fare con scelte e valutazioni che
hanno come punto di riferimento degli obiettivi che vanno al di là del solo
interesse personale. Naturalmente una caratterizzazione dell'etica che insiste
sulla natura non interessata, imparziale e generale del punto di vista che essa
coinvolge pone come questione preliminare quella più propriamente empirica e
psicologica della possibilità che gli uomini effettivamente agiscano mossi da
motivazioni non strettamente egoistiche. Vedremo più volte nelle pagine
seguenti che una delle grandi questioni intorno a cui sono convergentemente
confluiti gli sforzi di melti pensatori è proprio quella di riuscire a
salvaguardare nel comportamento umano uno spazio per le azioni mosse da ragioni
etiche e dunque non strettamente egoistiche. In questa sezione ci limitiamo
dunque a fissare in via del tutto preliminare il punto su cui convergono le
diverse concezioni sulla natura dell'etica e della morale di cui renderemo
conto in questo paragrafo. In modi diversi le numerose concezioni meta-etiche
cercano di rendere conto di un fatto considerato più o meno acclarato ovvero
che nella vita degli esseri umani esiste una sfera di azioni, scelte,
valutazioni che è di pertinenza dell'etica e della morale. Questa sfera ha a
che fare comunque con valori, principi, criteri, norme, regole che riguardano
la condotta degli uomini ove la si veda come non esclusivamente indirizzata
verso la realizzazione di obiettivi strettamente egoistici ponendosi dal punto
di vista di ciascuno degli agenti. Vi è cioè secondo le diverse teorie
meta-etiche che ora passeremo in rassegna una dimensione sovraindividuale e
intersoggettiva (se non addirittura universale) coinvolta nelle azioni umane e
che sarebbe appunto quella di pertinenza dell'etica. Sulla base di questa
premessa comune le meta-etiche si differenziano poi per il modo di rendere
conto di questa dimensione e conseguentemente delle vie per fondare e giustificare
scelte e giudizi etici corretti. 2.3. L'etica come insieme di comandi divini.
Una delle teorie meta-etiche più antica e fortunata è quella che ritiene che al
centro dell’etica vi siano una serie di doveri e di obblighi che ricavano la
loro origine, validità e forza dal fatto di essere comandi di un’autorità
superiore. In genere poi all'interno di questa concezione meta-etica si tende a
identificare l'autorità i cui comandi vengono messi in pratica nell'etica con
una qualche divinità, si tratti del Dio di una delle diverse religioni
positive, o piuttosto l'Autore della Natura della religione naturale, o ancora
qualcuna delle divinità minori delle religioni politeistiche. Nel mondo moderno
una tale concezione meta-etica è stata presentata nella forma più chiara dai
teorici del giusnaturalismo provvidenzialistico del XVII secolo e in
particolare la si trova difesa approfonditamente da Locke negli Essays on the
Law of Nature (1660-1664, Saggi sulla legge naturale). Si tratta di una
concezione meta-etica che proprio per il riferimento essenziale ai comandi di
una autorità sovrannaturale considera primarie e centrali per rendere conto di
questo campo della vita umana le nozioni di legge, obbligazione, dovere e
mette, dunque, in secondo piano altre nozioni quali quelle di buono, giusto,
diritti, virtù ecc. In questa prospettiva l'etica è poi strettamente connessa
con la religione. Infatti se tutto ciò che è in gioco nelle nozioni etiche è un
qualche comando o legge di un’autorità divina che rende obbligatori i suoi dettami
attraverso sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire allora un'etica così
intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove dell'esistenza
dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a insormontabili difficoltà
nel momento in cui entra in crisi la credenza nell'esistenza di un essere che
trascende la natura. I fautori della concezione che vede nell’etica una serie
di comandi o leggi o ordini di una qualche autorità divina, giunti a questo
punto o riterranno scomparsa l'etica dall'orizzonte della vita degli uomini 0
dovranno indicare una qualche autorità terrena da cui fare dipendere la
validità dei principi etici 0, infine, dovranno abbandonare del tutto la
metaetica che rende conto dei principi morali come di comandi di una qualsiasi
autorità. Una trasformazione del genere fu al centro della riflessione di
Hobbes portando inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico. Ma
più in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad oggi, con
una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica moderna e
contemporanea come un processo di progressivo allontanamento della meta-etica
in termini di comandi di una qualche autorità distinta dal soggetto che
sceglie, decide o giudica eticamente. Laddove si istituisce il collegamento tra
l’etica e la legge divina si aprono le due diverse possibilità
dell’intellettualismo e del volontarismo. Chi ritiene che l’etica non sia altro
che un insieme di comandi divini può infatti ritenere che Dio comandi ciò che è
bene perché lo riconosce come tale oppure alla lucedi una concezione
volontarista può concludere che ciò che è buono è tale proprio in quanto è Dio
a volerlo. Non ci soffermeremo sulle difficoltà presenti in queste due distinte
vie teoriche. In particolare l’intellettualismo sembra andare incon tro alta
difficoltà di rendere in qualche modo il bene precedente e superiore a Dio.
Viceversa il volontarismo si scontra con la teodicea ovvero con la questione
dell’esistenza del male nel mondo e dunque con la necessità di ammettere un
qualche limite alla potenza di Dio di fronte ad esso. Si può ipotizzare che
proprio le difficoltà incontrate una narrazione di queste difficoltà si può
trovare nei volumi di S. Landucci e Scribano nel corso del XVII secolo nel
delineare in modo coerente e accettabile queste diverse strategie per fare
dipendere il bene morale dalla legge divina, hanno segnato una delle cause del
crollo della concezione meta-etica che stiamo esponendo. Sulle macerie di
questa concezione si sono andate consolidando le meta-etiche che ritengono
costitutiva per una ricostruzione adeguata di questo campo il pieno
riconoscimento dell'autonomia delPetica. Cerchiamo di delineare sia pure
sommariamente le principali argomentazioni che giustificavano questo sforzo di
ricondurre l'etica alla legge divina. Nella sezione successiva ricostruiamo
invece il tentativo di connettere comunque l’etica ai comandi di un'autorità,
non già però sovrannaturale, ma solo terrena e positiva. Come si è detto la
biografia intellettuale di Locke è particolarmente significativa per chi sia
interessato a una riflessione critica sulle ragioni pro e contro un’etica del
comando divino. Lo sforzo di Locke era quello di conciliare questa concezione
meta-etica con ragioni che potessero essere accettate anche, al di fuori della
metafisica innatistica del pensiero medievale e cartesiano, da chi si muoveva
accettando un’epistemologia empiristica. Vi erano alcuni vantaggi a favore di
una concezione della morale e dell'etica come una legge divina presente nella
natura umana. Quest'impostazione permetteva di risolvere in modo semplice le
complesse questioni della motivazione propria della condotta etica e
dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra con chiarezza
che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in defini tiva proprio in
quanto permetteva di rendere conto di un'etica in cui i principi venivano
appunto considerati come eterni e universali e obbligatori per tutti gli esseri
umani. Infatti come insistentemente ripete Locke e non solo negli Essays on the
Law of Nature, ma anche in An: Essay concerning Human Understanding (1690,
Saggio sull'intelletto umano) e negli scritti pubblicati dopo il 1690
un'adeguata filosofia morale deve riuscire a delineare le condizioni che
rendono vincolante principi e regole, ovvero la legge naturale, per tutti gli
esseri umani in qualsiasi epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo di una
filosofia morale non è solo mostrare che un certo principio è vincolante e
obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto perché noi
ricoposciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo solo concependo la
legge naturale al centro dell'etica come un comando di Dio. Solo questo infatti
garantisce che il comando sarà giusto, direttamente presente în tutti gli
esseri umani e vincolante in modo efficace in quanto tutti sanno che qualsiasi
defezione alla legge sarà punita da Dio senza scampo in una vita eterna. Locke
nella sua presentazione della natura dell'etica come una legge naturale non
solo si sforzava di insistere sulla natura obbligante di questa legge facendola
derivare da un comando divino, ma di rendere possibile la conoscibilità di
questa da parte della coscienza umana senza doverla presupporre come innata o
ammettere un consenso universale non riscontrabile empiricamente. Proprio il
fatto di fare derivare la conoscenza della legge naturale da un processo che
univa senso e ragione portava Locke a considerare tale legge come costitutiva
della natura umana. Locke finiva dunque con il congiungere la concezione che
vede l'etica come il campo dei comandi divini con un’altra concezione che vede
piuttosto l’etica come l’esplicitazione di quelli che sono i caratteri
necessari della natura umana. Nelle sue analisi Locke non distingueva tra due
strategie radicalmente diverse, quella che concepisce la legge morale naturale
come un comando divino che ci viene direttamente comunicato da Dio o da un suo
interprete autorizzato e quella che invece vede la legge naturale come qualcosa
solo indirettamente scopribile ricostruendo le leggi morali incorporate nella
condotta umana. 2.4. L'etica come comando di una qualche autorità. L'insistenza
sulla tesi che la natura propria dell'etica può essere colta solo mettendo al
suo centro principi morali che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati
è presente anche in un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e
meta-morale. Si tratta di quella concezione che, negata la possibilità di
riconoscere una autorità sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia l'apparato
concettuale dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in termini
mondanizzati della natura vincolante della morale. Questa strategia di
traduzione dell'etica del comando divino nella meta-etica che definisce
comunque le nozioni morali in termini di imperativi o comandi sia pure di una
autorità terrena e umana fu percorsa già nel corso del XVII secolo, ad esempio
secondo alcuni studiosi di etica da Hobbes. Ma l'interpretazione di Hobbes in
questo senso è controversa e dunque risulta dubbia la possibilità di rendere
conto della sua concezione della legge etica o morale considerandola come una
concezione che la riduce al comando di un'autorità positiva riconosciuta. Né
ritengo che, diversamente da quanto pensano altri studiosi di storia dell’etica
(ad esempio M. A. Cattaneo, 1962), una concezione del genere si possa ritrovare
nell'opera del fondatore dell’utilitarismo Jeremy Bentham in quanto è chiaro da
un punto di vista concettuale che per un utilitarista il criterio decisivo
dell'etica non è il rinvio a qualcosa che è comandato secondo procedure
riconosciute idonee ma direttamente a ciò che è accettabile in termini di
utilità generale. Tale concezione può dunque essere più correttamente
attribuita ad autori come John Austin o, per venire al secolo XX, ai
sostenitori del positivismo giuridico come Hans Kelsen. Si tratta di una
concezione legalistica dell'etica; ciò che ha una validità etica può essere
obbligante solo se vi è un’autorità che è in grado di fare rispettare, con
opportune sanzioni, la legge o le regole codificate. Tale impostazione non solo
esige una qualche codificazione dell'etica, ma richiede anche che vi sia una
autorità in grado di fare rispettare i suoi decreti. Numerose sono le obiezioni
che sono state mosse a questa concezione legalistica dell’etica e in generale a
una concezione come quella che sarà sviluppata sistematicamente dal positivismo
giuridico che tenta di ricondurre la totalità del valore etico ai comandi di
un'autorità positiva in grado di fare rispettare con l'uso della forza i suoi
decreti. Già nel XVII secolo viene messa a punto un’ampia batteria di critiche.
Esse rendono difficile accettare questa concezione come in grado di spiegare la
natura dell’etica in generale e finiscono con il delimitarne la portata
esplicativa, eventualmente, al solo diritto positivo strettamente inteso (cfr.
infra, $ 6.2). Ricordiamo alcune di queste critiche. Il punto decisivo sta nel
fatto che ricondurre l'etica a un insieme di comandi non permette di
discriminare come ha mostrato nel dettaglio ad esempio F. Snare (Snare) tra tre
situazioni che sono concettualmente distinte. 1) Una posizione è quella di chi
accetta un comando in quanto teme l'eventuale sanzione di chi promulga il
comando, ovvero quella di chi considera il comando obbligatorio e vincolante in
quanto prevede che chi lo ha emesso ricorrerà a una forza efficace coercitiva
per farlo rispettare. 2) Completamente diversa è poi la posizione di chi
accetta un comando in quanto riconosce un'autorità a chi promulga il comando.
In questa posizione ricadono non solo i fautori di cui abbiamo già detto nella
sezione precedente di un legalismo religioso alla Locke che vedono il comando
divino come obbligante non potendosi non avere «fiducia» nell’autore della
natura che non può regolarsi in modo diverso da quello proprio di un padre
buono. Vi ricadono anche i fautori del positivismo giuridico (per una
presentazione ed una critica di questa posizione sono utili Bobbio, 1965;
Scarpelli, 1965} che ritengono di non potere non obbedire alle leggi promulgate
da un'autorità che riconoscono come legittima in quanto rispetta le procedure
costituzionalmente previste per promulgare leggi. 3) Infine del tutto diversa è
la posizione di coloro che accettano un comando in quanto discriminano tra
comandi giusti e comandi ingiusti e dunque rispettano le leggi del loro paese
fino a quando le considerano eticamente accettabili. Si tratta di tre
situazioni ben distinte e una meta-etica che non riesca a mantenere autonoma
l'obbligatorietà della morale dalla mera accettazione di un comando legittimo o
dal timore di una qualche sanzione data da un potere che ha la forza di
costringerci risulta una meta-etica inadeguata. Le critiche alle concezioni
religiose o legalistiche della natura dell’etica sono una chiara via pet
giungere a cogliere l'autonomia dell'etica. L'autonomia che così viene in primo
piano è quella di decisione di ciascun soggetto individuale responsabile.
L'etica ha a che fare con decisioni autonome di individui che non possono
ritenere risolti i loro problemi meramente facendo appello a una qualche
autorità che comanda loro che cosa fare. In realtà resta sempre aperta da un
punto di vista etico la domanda che conta ovvero se obbedire o meno al comando
riconoscendolo giusto. Il senso peculiarmente etico di tale domanda ci si
rivela laddove comprendiamo che con essa ci si chiede non tantose l'autorità
che ci sta di fronte sarà in grado di scoprirci o punirci ove non rispetteremo
i suoi comandi, quanto piuttosto se il comando è giusto o meno, ovvero se è o no
moralmente accettabile. Le concezioni legalistiche dell'etica e il positivismo
giuridico non riescono dunque a discriminare tra potere giusto e ingiusto.
Collocandosi al loro interno non trovano una spiegazione tutte le situazioni su
cui ha molto insistito Ronald Dworkin (Dworkin, 1990) nella sua critica al
riduzionismo metaetico del positivismo giuridico quali quelle in gioco quando
ci si rifiuta di obbedire a un comando ingiusto (le forme di totalitarismo del
XX secolo hanno di continuo fatto sorgere per gli esseri umani dilemmi del
genere}. Ma più in generale partendo da una concezione meta-etica del genere
non si riesce a spiegare proprio la genesi di istituzioni quali la giustizia e
il governo. Naturalmente intendiamo riferirci a una genesi che cerchi sul piano
logicocritico le ragioni della validità morale di un certo governo e della
giustizia, non già a una genesi che si contenti di qualche risposta di ordine
storico 0 fattuale. Le concezioni che riconducono la validità dei principi
morali a comandi vincolanti dati da una qualche autorità tendono infatti a
considerare che l'unico problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla genesi
della validità del potere di un certo governo o di determinate regole di
giustizia non è altro che il mero interrogarsi sul fatto storico se questo
governo esiste o meno e se queste sono o meno le leggi che vigono nel nostro
paese. Chi riduce l'etica ai comandi di una qualche autorità non riesce più a
rendere conto del perché distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e
leggi ingiuste. In questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso porsi
il problema, che pure sembra centrale per l'etica moderna e contemporanea,
dello spiegare quali sono le basi per cui si debba obbedire a una qualche norma
anche quando si sa che non c’è nessuna autorità in grado di osservare il nostro
comportamento e dunque premiarci o punirci per la nostra fedeltà o la nostra
defezione. Se l'unica validità di una legge etica è data dalla forza che chi la
comanda ha di farla rispettare, è evidente che non c’è nessuna ragione di
seguire una norma etica quando l’autorità non è in condizione di raggiungerci
con le sue sanzioni, Questa concezione meta-etica dunque non solo non spiega il
passaggio da una situazio ne priva di etica a una in cui vi è un qualche
principio etico, ma finisce con il lasciare sempre aperta in definitiva come
fisiologica e legittima la possibilità di defezionare dai comandi dell'etica
ove si sia in condizione di sfuggire al controllo dell’autorità che li ha
promulgati. 2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. Un'altra concezione
sulla natura dell'etica che ha una lunga storia dietro di sé è quella che
identifica il bene e il giusto con ciò che è naturale per gli uomini ovvero con
ciò che è razionale per essi. Le derivazioni della morale in termini di ragione
umana e in termini di natura umana rappresentano certamente due diverse
concezioni meta-etiche se le si vede da un punto di vista contenutistico;
infatti è ben diverso presentare come un tratto definiente del bene e del
giusto la natura o la ragione umana. Per una lunga parte della storia
dell’etica però le due vie sono state fatte coincidere e fino al XVII secolo la
natura umana è stata appunto presentata principalmente come natura razionale.
Solo nel XVIII secolo si sono andate divaricando le due diverse strategie che
hanno ricondotto l’etica o ad aspetti della natura umana non strettamente
razionali (i sentimentalisti e Hume) o proprio alla parte razionale in quanto
non influenzata da desideri e passioni (Kant). Per quanto riguarda queste
concezioni che riconducono l'etica alla natura o alla ragione umana va rilevato
che diversamente da quanto accade nel caso dell'etica del comando divino la
definizione del campo proprio del bene e del giusto non viene data rinviando a
realtà al di sopra o al di là degli esseri umani, quali sono appunto i comandi
di un Essere Supremo. Ci troviamo infatti di fronte a concezioni che ritengono
di potere rendere conto del campo della morale ricavandolo integralmente da ciò
che è interno all’universo della vita umana. Si viene così a superare una
concezione eteronoma dell'etica nel senso di una concezione che rinvia a
qualcosa che è al di sopra o al di fuori della natura e ragione umana. Non
tutte però le concezioni che collegano l'etica alla natura o ragione umana e
che potremmo caratterizzare in un senso molto generale come naturalistiche o
immanentistiche ne riconoscono pienamente l'autonomia, e non mancano fino al
XVIII secolo concezioni riduzionistiche che tendono ad assimilare l'etica a tratti
generali della vita o della natura umana niente affatto peculiari. Alle
concezioni metaetiche di Hume e Kant possiamo fare risalire il pieno
riconoscimento dell’autonomia dell’etica pure nell’alveo di spiegazioni che
fanno ricorso alla natura o alla ragione umana. Nel senso più radicale di
collegamento dell'autonomia dell'etica con le scelte e le decisioni individuali
dobbiamo invece guardare a un processo che si è sviluppato solo nel XIX e XX
secolo. Cerchiamo di individuare i tratti distintivi di questa concezione
meta-etica o meta-morale rendendo brevemente conto delle tradizioni che l'hanno
maggiormente sviluppata. In primo luogo la tradizione naturalistica che ha
guardato e guarda tuttora all'etica nei termini metafisici e ontologici propri
della filosofia di Aristotele con le trasformazioni e manipolazioni più o meno
profonde operate dalle filosofie tomistiche e neotomistiche. In secondo luogo
la tradizione razionalistica che possiamo fare coincidere con il
giusnaturalismo razionalistico del XVII secolo. Come si è detto vanno tenute
distinte da queste due strategie meta-etiche che potremmo caratterizzare come
riduzionistiche quelle che pur rinviando alle nozioni di natura o ragione umana
riconoscono uno spazio del tutto autonomo per la morale o l'etica. Così va
considerata a parte la forma di naturalismo presente nelle opere di Hume che
riconosce nell’etica una dimensione del tutto peculiare della vita umana della
quale non si può rendere conto nei termini di una generale ricostruzione
ontologica e metafisica della natura umana complessivamente intesa. Va
ugualmente tenuta distinta dalle concezioni riduzionistiche dell'etica la
ricostruzione che della morale realizza Kant. Infatti questi, pur ammettendo lo
stretto collegamento tra razionalità ed etica, salvaguarda l'autonomia del
campo della morale distinguendo nettamente tra il piano della ragione pura
conoscitiva e quello della ragione pratica. Presenteremo dunque quattro
distinte caratterizzazioni dell'etica: nel senso di un giusnaturalismo ontologizzante
e metafisico; nel senso dell’estrinsecazione di un'unica Ragione
ontologicamente radicata; nel senso di un collegamento con una natura umana
universalmente intesa al cui interno si cercano però tratti che consentano di
salvaguardare l'autonomia del campo della morale; e infine nel senso
dell'estrinsecazione di una razionalità pur sempre sovrastorica e universale ma
che viene connotata in una dimensione specificamente pratica distinta da altre
dimensioni. In Aristotele troviamo chiaramente formulata la tesi che la virtà e
il bene consistono per gli uomini nel realizzare il comportamento che è proprio
della loro natura. L'essere umano è dunque naturalmente etico (come del resto è
naturalmente politico), e l'etica nella sua realtà può essere derivata solo
dalla conoscenza dell'essenza stessa della natura umana. Una prospettiva che
tra l’altro rende praticamente impossibile distinguere il piano dell’analisi
metaetica da quellodelle analisi normative: identificare lo spazio dell'etica
coincide con l’identificare il bene che gli esseri umani sono naturalmente
inclini a riconoscere. Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979) Aristotele
presenta la più chiara formulazione di una concezione che ricava la definizione
dell'etica dalla definizione della natura umana. L'elenco delle virtù umane e
la loro gerarchia viene infatti derivata da una preliminare conoscenza di
quella che è la natura sostanziale dell'uomo. Anche se in Aristotele si
riconosce come propria della vita pratica una dimensione di indeterminatezza e
probabilità che la rende del tutto diversa dal sapere teorico in cui si possono
attingere sia la certezza, sia la conoscenza dimostrata, poi non troviamo tale
indeterminatezza quando si passa a delineare i fondamenti dell'etica. Che per
gli uomini la virtù somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia
rappresenti la virtù suprema della vita associata viene derivato logicamente
dalla definizione dell'essenza dell’uomo come appunto animale razionale
propriamente adatto al sapere teorico e al vivere in società. Vi è nell’etica
aristotelica non solo una derivazione della definizione dell’etica da quella
che si ritiene la natura essenziale e sostanziale dell'uomo, ma anche una
particolare strategia teleologica per rendere conto della vita etica in modo
tale da salvaguardare l'impianto dinamico e progressivo della vita pratica. In
Aristotele infatti il bene per l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione
dell'erica non rinvia a qualcosa di già dato e posseduto, ma richiede piuttosto
l'impegno dell'uomo a realizzare quello che è lo scopo ad esso più proprio.
Questo impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla filosofia
di Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel neotomismo come struttura
portante della concezione mediante cui il cristianesimo elabora il suo
peculiare tentativo di ridurre l’etica alla natura umana (si veda Maritain,
1971). Nella tradizione cristiana non è necessario percorrere la strategia che
riduce l’etica direttamente ai comandi divini: si può infatti percorrere anche
la strada che vede la natura umana come di per se stessa fornita di caratteri
etici imprescindibili. L'Autore della Natura con la sua bontà e provvidenza ha
creato la natura umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel
particolare te/os che le permette di realizzarela felicità e i risultati
migliori per gli uomini. Realizzare i fini propri della natura umana diventa
così un comandamento anche per la religione cristiana in quanto appunto nella n
atura umana sono rintracciabili chiaramente i tratti distintivi propri della
vica etica. Ciò che è innaturale risulta negativo e malvagio e nello stesso
ordine naturale delle cose possiamo rintracciare la regola di ciò che è buono e
giusto. Ma questa via di ricondurre l'etica a qualche tratto tipico della
natura umana viene percorso nel pensiero moderno e contemporaneo anche su basi
diverse da quelle metafisiche e ontologiche proprie dell'etica aristotelica. Se
il carattere comune în base al quale caratterizziamo una meta-etica come
naturalistica è quello di ricondurre i tratti distintivi dell'etica a qualcosa
che è peculiare della natura umana allora numerose meta-etiche naturalistiche
sono state presentate anche dal Seicento in avanti. Ma queste forme moderne e
contemporanee di naturalismo rifiutano poi di irrigidire la natura umana alla
luce di una concezione sostanzialistica e di conseguenza non percorrono la
strada che presenta l'etica come qualcosa di ontologicamente o concettualmente
necessario per una definizione della natura umana ed evitano anche di ricorrere
alla strategia finalistica 0, nella versione cristiana, provvidenzialistica,
per fondare il campo della morale. Presentiamo alcune di queste meta-etiche
naturalistiche delineate nella cultura moderna econtemporanea e alcune critiche
ad esse mosse. Abbiamo un filone di meta-etiche naturalistiche, inaugurato
dalla filosofia di Anthony Ashley Cooper Shaftesbury, che pone al centro
dell'etica un qualche istinto 0 sentimento originario e irriducibile ad altro:
un «senso morale» proprio di tutti gli esseri umani, Qui ci troviamo non solo
di fronte a una meta-etica chiaramente immanentistica, ma anche a una con
cezione che non deriva la definizione dell’etica da una caratterizzazione di
tipo essenzialistico della natura umana, ma da una ricognizione empirica degli
esseri umani. Resta poi vero che attraverso questa procedura empirica si
ritiene di potere individuare qualcosa che è comune a tutti gli uomini e quindi
come tale proprio della natura umana e almeno nel caso di Shaftesbury, e dopo
di lui di Francis Hutcheson, anche qualcosa di originario. Va sottolineato che
l'etica viene qui collegata alla disposizione da parte degli uomini a reagire
alle cose del mondo sulla base di qualche sentimento o senso piuttosto che in
termini meramente intellettuali o razionali. Ancora per tutto il secolo XVILI
vi è stata una metaetica riconducibile a una forma di naturalismo
sentimentalistico. L'etica infatti ha a che fare con sentimenti e emozioni
proprie di tutti gli uomini anche, ad esempio, per Hume e Smith. Nel caso di
Hume tale caratterizzazione in termini naturalistici dell'etica risulta
temperata, sia dalla portata complessivamente ipotetica delle sue spiegazioni
filosofiche, sia dal presentare i sentimenti e le emozioni proprie dell’etica
come in larga parte non originarie, ma piuttosto come il risultato di un
processo artificiale di sviluppo della natura umana. Di conseguenza da una
parte l'etica si presenta come qualcosa che ha a che fare con un risultato
artificiale e non originario della vita umana, ma dall'altra questo stesso
artificio è presentato come del tutto naturale per gli uomini nel senso che
Hume ne ricostruisce la genesi ricorrendo a cause naturali. Tale concezione
naturalistica è stata così vista ad esempio da Ruse come un precedente di quella
evoluzionistica elaborata da Darwin e che si trova sviluppata poi a un livello
filosofico (non privo di inclinazioni assolutistiche) in Herbert Spencer. Nel
naturalismo evoluzionistico l’etica viene considerata come un insieme di
istinti e abitudini cooperative acquisite dagli uomini nel corso
dell’evoluzione, ma una derivazione evolutiva dell’etica non esclude che essa
venga considerata specialmente laddove si insiste sulle sue radici biologiche
come propria di tutta la specie umana. ‘Tutte queste diverse forme di
meta-etica naturalistica sono state sottoposte a critiche radicali lungo due
linee convergenti, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX. Da una
parte si èobiettato, come ad esempio fa J. $. Mill nel primo dei suoi Three
Essays on Religion (1874, Tre saggi sulla religione) dedicato alla natura
(Mill, 1972: 13-52), mostrando la vaghezza e genericità della nozione di natura
che come tale è del tutto incapace di fornire un qualche criterio preciso per
avere a che fare con i problemi etici, dato che sta le azioni più crudeli sia
quelle più generose rientrano nella Natura latamente intesa. Dall'altra si è
obiettato, come fa ad esempio G. E. Moore nei Prircipia Ethica (Moore, 1964:
91-120) che da un punto di vista logico econcettuale il naturalismo cade nella
cosiddetta «fallacia naturalistica» riducendo appunto a naturale ciò che non lo
è (cfr. oltre $$ 3.4 e 3.11). Malgrado queste critiche nel XX secolo concezioni
naturalistiche dell’etica sono state pur tuttavia riproposte, sia in termini evoluzionistici
(ad esempio nel caso della sociobiologia, specialmente da E. Wilson, 1975), sia
attraverso forme aggiornate di neoaristotelismo (ad esempio P, Foot, 1978 e A.
Mac. Intyre, 1988). In contrasto con queste meta-etiche naturalistiche vanno
viste quelle concezioni che rendono conto dell’etica non tanto riconducendola
alla natura umana, in generale, quanto piuttosto collegandola strettamen te, in
modo più specifico, con la ragione umana. Tale strategia è stata percorsa lungo
due di. verse linee, Da una parte i razionalisti etici del XVII secolo, quali
ad esempio i giusnaturalisti Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, consideravano
questa ragione umana come una facoltà ontologicamente garantita in grado di
cogliere l'essenza stessa dell’uomo e dunque i suoi obiettivi più propri
(Bobbio, 1963). Questa concezione della ragione è rintracciabile anche alla
base dei numerosi tentativi nel corso del XVII secolo di dare vita a un'etica
dimostrata, un compito verso cui tendono pensatori per altri versi molto
differenti quali ad esempio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel Clarke.
L'idea era quella di presentare una morale che derivasse le leggi del
comportamento umano da principi o auto-evidenti, o assunti comevalidi per
definizione, o radicati nella struttura metafisica del mondo. Il razionalismo
etico è stato però successivamente elaborato anche al d i fuori di questo
quadro metafisico, essenzialistico o dimostrativo. Questa è ad esempio la
strategia percorsa nel modo più rigoroso ed approfondito da Kant nella Kritik
der praktischen Vernunft (\788, Critica della ragion pratica), ma poi
ampiamente ricorrente nella storia dell'etica contemporanea. Nel caso di Kant
l'etica ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo, quanto
piuttosto con la forma pura della razionalità umana. Kant precisa anzi,
salvaguardando la sua meta-etica dalla critica di ridurre il dovere al fatto,
la morale alla scienza, che la ragione di cui egli tratta nell'etica non è la
ragione pura conoscitiva ma è la ragione pratica. L'etica secondo Kant non ha
un contenuto diverso dai principi generali che presiedono alla possibilità
stessa di una razionalità pratica per gli uomini, ed è in questo senso che
l'etica ha a che fare con una dimensione trascendentale che riguarda la volontà
umana in generale. L'etica fissa e precisa le leggi che presiedono al
funzionamento di qualsivoglia volontà umana che non si proponga questo o
quell'obiettivo particolare, ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura
generale. L'etica rende così esplicita la struttura categoriale della
razionalità pratica umana. Vedremo nel paragrafo 4.6 quali sono i contenuti
normativi precisi a cui Kant giunge muovendo da questa concezione meta-morale;
qui ci limitiamo a sottolineare alcuni tratti della meta-etica kantiana. Nel
caso della caratterizzazione della natura della morale fornita da Kant risulta
del tutto salvaguardata l'autonomia dell'etica rispetto alle dimensioni della
conoscenza empirica e della fede religiosa (Landucci, 1993): la razionalità
pratica umana è infatti in grado da sola di fondare la validità della vita
morale. Anzi nella concezione kantiana gli stessi contenuti principali della
religione sembrano presentarsi come risultati dell’azione della razionalità
pratica umana in quanto suoi postulati che garantiscono la validità della vita
morale. Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre l'etica a qualche
altra cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso l'affermazione della netta
distinzione tra ragionpura conoscitiva e ragion pura pratica, sia con la
negazione della riconducibilità dell'etica a sentimenti ed emozioni naturali
degli uomini. Rifiutando di assumere un qualsiasi sentimento o emozione
particolare degli uomini come in grado di rendere conto della natura della
morale, Kant ritiene anche di poter giungere a garantire l'universalità della
legge morale. Questa teoria meta-etica ha come sua conseguenza un pregiudiziale
rifiuto rigoristico di considerare come bene una qualunque cosa che possa
soddisfare un sentimento, un'emozione 0 un desiderio individuale. Malgrado
l'impegno con cui Kant si è sforzato di salvaguardare l’autonomia dell’etica
non sono mancate nei confronti della sua meta-etica le critiche di coloro che
vi trovano una forma di riduzionismo non diversa da quella presente nell’etica naturalistica.
Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è ridotto a quella che è la legge
e la struttura della volontà. E ancora che nei suoi scritti vi è la riduzione
di tutte le ragioni pratiche dei singoli esseri umani finiti a una razionalità
universale e assoluta. Si rileva poi che l’uso di una nozione come quella di
trascendentale è una traccia del permanere di tentazioni di tipo ontologizzante
ed essenzialistico. Va segnalato che come avremo modo di documentare
ulteriormente l’impostazione kantiana ha avuto comunque una grande fortuna nel
corso del XX secolo. Autori su posizioni filosofiche molto diverse quali ad
esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O. Apel la ripropongono in nuove vesti. La
tendenza è quella di depurare l'imposta» zione kantiana dalle tentazioni di
ordine metafisico e considerare l'etica come qualcosa che ha a che fare non
tanto con la struttura di fondo della razionalità pratica quanto con le
condizioni stesse della comunicazione umana in generale o con le
presupposizioni della vita civile. Coloro che elaborano il modello della
razionalità pratica kantiana giungono così per quanto riguarda la natuta
dell'etica a conclusioni non molto diverse da quelle raggiunte da alcuni
teorici del prescrittivismo non cognitivistico di cui renderemo conto nella
prossima sezione. 2.6. L'etica come prescrizione universalizzabile. Nel corso
del XX secolo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la prevalenza è
quella preoccupata principalmente di rendere conto della vita morale in modo
tale da segnarne una netta autonomia e differenziazione rispetto al piano della
conoscenza empirica e scientifica; potendosi oramai ritenere già del tutto
acquisito, sul piano teorico, il processo che ha portato a segnare il distacco
dell’etica dalla religione. La distinzione dell'etica rispetto al campo della
scienza e della conoscenza empirica è stata poi tracciata su basi molto
diverse, rimanendo dunque costante la tendenza a definire la natura dell'etica
come campo del tutto irriducibile e peculiare della cultura umana. Così Moore
consolida in modo definitivo la tendenza a segnare una completa autonomia
dell'etica rispetto alla conoscenza empirica 0 metafisica, anche se poi egli
legava le principali nozioni etiche con una forma di conoscenza intuitiva del
tutto peculiare. Conclusione quest'ultima che verrà rifiutata da coloro che più
rigorosamente negheranno che l'etica abbia a che fare con una forma qualsiasi
di conoscenza, ovvero da quei teorici del non-cognitivismo preoccupati
piuttosto di salvaguardare la dimensione prevalentemente normativa o
prescrittiva al centro della morale. Ma la soluzione di Moore era quella di
indicare nelle proprietà oggetto dell’intuizione etica ovvero nel bene e nel
dovere delle proprietà del tutto uniche e irriducibili ad altri tipi di
proprietà naturali, presentandole quindi come peculiari e indefinibili qualità
non-naturali. Tutte le meta-etiche che non avevano riconosciuto
l’indefinibilità e l'irriducibilità delle proprietà etiche secondo Moore
avevano compiuto, in generale, l'errore logico da lui chiamato «fallacia
naturalistica», errore consistente prima di tutto nel ridurre ciò che non è
naturale al naturale. Su basi diverse all'analoga conclusione dell’affermazione
di una netta distinzione tra conoscenza empirica o scienza e ambito della
morale arriveranno anche quei neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred
Jules Ayer in Language, Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e logica) —
allargavano la loro analisi verificazionista del discorso fino a presentare
conclusioni a proposito della natura dell'etica. La tesi generale di Ayer era
quella dell'impossibilità di rend ere conto dei giudizi morali con le stesse
concezioni esplicative che rendono conto delle normali asserzioni empiriche e
scientifiche. Ma Ayer non si limitava a tracciare una distinzione tra l'ambito
delle asserzioni empiriche e l'etica. Egli infatti concludeva sulla base della
generale teoria del significato accettata dai neo-positivisti — secondo la
quale solo le proposizioni empiricamente verificabili, sia pure in linea di
principio, hanno un significato — che l'autonomia dell’etica è data dal fatto
che i suoi enunciati, proprio per l’uso di nozioni quali buono, giusto e dovere
non sono verificabili in termini empirici e dunque sono privi di senso. Ayer
non si limitava però alla conclusione negativa, ma aggiungeva anche una
caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer infatti riconosceva alle
proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello di esprimere le emozioni
di chi parla e di suscitare emozioni in chi ascolta. Proprio sulla base di
questa caratterizzazione emotivistica della natura dell'etica Ayer finiva con
il sostenere sul piano epistemologico che non esistono modi razionali per
cercare di superare il disaccordo in morale (cfr. srfra, $ 3.9). Anche
Stevenson salvaguardava in Ethics and Language (1944, Etica e linguaggio)
l'autonomia dell'etica collegandola agli atteggiamenti, mentre le altre specie
di discorso hanno a che fare principalmente con le credenze. Gli strumenti
teorici generali di Stevenson erano però quelli del pragmatismo e non già
quelli del neopositivismo, e proprio perciò permettevano di delineare una
ricostruzione meno rinunciataria e negativa del discorso etico. Infatti secondo
Stevenson l’etica è costituita da un insieme di giudizi in cui chi parla espone
appunto i propri atteggiamenti e cerca di provocarne di analoghi anche negli
altri. Rispetto all'analisi riduttiva di Ayer, in quella dell’«ernotivismo
moderato» di Stevenson viene riconosciuto il ruolo peculiare del discorso etico
come pienamente significante sia pure collocandolo su dì un piano non
conoscitivo. Rispetto al neopositivismo (ma anche all'intuizionismo di Moore)
il punto di svolta sta nel riconoscimento che non solo le conoscenze sono
significanti. Rispetto a quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica
precedente quello che per Stevenson e i non- cognitivisti diventa centrale non
è solo riuscire a rendere conto di quanto l'etica sia distinta dalla
conoscenza, ma anche specialmente dello stretto collegamento che essa ha con
l'azione e la pratica effettiva. Su questo piano diventa prioritario nella
riflessione meta-etica la salvaguardia della distinzione tra l'è di cui appunto
si occupa la conoscenza e il deve che è di pertinenza della morale. I fautori
della meta-etica non-cognitivistica si impegnano particolarmente lungo una
linea analitica rivolta a rendere esplicito il collegamento del discorso etico
con l’azione fissando in termini di regole precise e non già di espressione di
emozioni questo ruolo del linguaggio umano. In questa direzione sono stati
elaborati numerosi tentativi di caratterizzazione. Tutta la riflessione europea
sull'analisi del linguaggio morale nel periodo successivo alla fine della
seconda guerra mondiale è dedicata principalmente a questo obiettivo. Rendiamo
qui conto della più fortunata tra le concezioni non-cognitivistiche, quella di
Richard Mervyn Hare, già delineata fin dal 1952 con The Language of Morals (Il
linguaggio della morale) e poi ripresa e sviluppata, prima sul piano epistemologico
nel 1963 con Freedom and Reason (Libertà e ragione) € poi su quello normativo
nel 1981 con Mora! Thinking. Its Levels, Method and Point (Il pensiero morale).
Secondo Hare l’etica è caratterizzata dalla presenza di nozioni la cui funzione
è tale che non può trovare realizzazione in nessuna altra parte del discorso
umano: la funzione propria del discorso etico è quella di dare voce a
«prescrizioni universalizzabili soverchianti». Tutti questi tratti dell'etica
vengono spiegati dettagliatamente da Hare nei suoi scritti. Le impostazioni
filosofiche generali di L. Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli
strumenti per dare corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la natura
prescrittiva dell'etica Hare salvaguarda quello stretto collegamento delle
nozioni morali con le azioni effettive di chi esprime una propria posizione e
di chi ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio dell’etica per cui essa è
necessariamente collegata con una qualche motivazione ad agire, e per cui si
imparenta con i comandi e con gli imperativi e include il ricorso alle nozioni
di dovere e obbligo. Si tratta appunto di quel nucleo prescrittivo che veniva
perso di vista da quelle concezioni meta-etiche quali l'intuizionismo sostenuto
da Moore che tendevano invece a rendere conto dell'autonomia e specificità
della morale in termini di una conoscenza peculiare. In realtà l'etica non è in
alcun modo una conoscenza di ciò che è, ma è un insieme di prescrizioni rivolte
a ciò che deve essere. Un altro punto importante della concezione meta-etica di
Hare è quello che insiste sul farto che i nostri discorsi morali non solo sono
prescrittivi, ma in realtà trasmettono prescrizioni universali, ovvero
prescrizioni che si ritengono valide per tutti i casi simili. Il riconoscimento
di una universalizzabilità dei giudizi morali così come affermata dalla
meta-etica non-cognitivistica vuole rendere conto di un'esigenza peculiare di
coerenza e strutturazione propria della vita morale, per cui i giudizi
dell'etica si distinguono dai giudizi di gusto 0 di preferenza relativamente ai
quali tale esigenza non viene abitualmente fatta valere. Una distinzione tra
giudizi morali e giudizi di preferenza della quale invece non riuscivano a
rendere conto le meta-etiche emotivistiche. Attraverso questa via dell'universalizzabilità
Hare e i non-cognitivisti recuperano e includono nelle loro spiégazioni un
tratto dell'etica che è stato fortemente richiamato e sottolineato da Kant ed è
centrale per coloro che ne riprendono la concezione della morale. Non diversamente
come un tentativo di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti della
moralità così come già la presentava Kant, va visto l'ultimo carattere che Hare
riconosce come proprio dell’etica nel suo modello non-cognitivistico: il fatto
di essere soverchiante. Ciò significa riconoscere che l'etica è costituita non
solo da prescrizioni universalizzabili, ma anche che in quanto «soverchianti»
sono gerarchicamente preordinate rispetto ad altre prescrizioni. Il
non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella seconda metà del
secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura propria dell'etica, La
concezione dell'etica come insieme di prescrizioni universalizzabili
soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici tedeschi dell'etica del discorso
come K. O. Apel e J. Habermas (Apel, 1977; Habermas, 1985). Non sono mancate le
critiche a questa concezione che è stata considerata ad esempio da B. Williams
(1987) non tanto come una spiegazione o un’analisi neutra di quella che è
l'etica per noi, quanto piuttosto come una posizione che cerca di imporre una
ben precisa concezione, rigida e superata, della moralità. Altre critiche hanno
rilevato come tale meta-etica sembri volere negare, sul piano logico, la
possibilità invece del tutto aperta a ogni essere umano di restare al di fuori
di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di rispondere a questo ultimo
tipo di critiche precisando che la sua tesi non sostiene che non si può fare a
meno di sottoscrivere nel corso della propria vita prescrizioni
universalizzabili soverchianti, quanto piuttosto che non si può rendere conto
in modo logicamente corretto della natura dell'etica e della morale
fuoriuscendo da questo quadro esplicativo. Altri problemi aperti riguardano
dimensioni ulteriori della meta-etica noncognitivistica e avremo occasione di
fermarci su di essi nei prossimi capitoli. Proprio in quanto la meta-etica
non-cognitivistica si presenta, secondo chi scrive, come quella più adeguata e
fertile si tratterà di completarne l'esame affrontandone anche le altre
implicazioni, relative alla genesi dell’etica (cfr. $ 3.10), alle forme
argomentative ad essa proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi eventuali
suggerimenti normativi (cfr. $ 4.7). 2.7. La negazione dell'etica: libertà e
determinismo. Nel rendere conto delle posizioni che si sono occupate in
generale della natura dell'etica dobbiamo soffermarci su quelle concezioni che
hanno negato che in realtà vi sia uno spazio per le scelte etiche degli uomini.
Per quanto riguarda queste posizioni molto differenziate e sempre più diffuse
nel secolo XX distinguiamo tra coloro che negano decisamente che gli uomini
possano mai agire realmente in modo libero e dunque essere imputabili di una
qualche respon. sabilità, e le posizioni che invece, pur ammettendo che gli
uomini possano agire liberamente, negano che possano essere effettivamente
motivati dalla ricerca di obiettivi non strettamente personali. Le negazioni
dell'etica dell'ultimo tipo nascono da quelle teorie psicologiche che non
ammettono che gli esseri umani possano essere mossi ad agire da prospettive
imparziali o valori più o meno universali. Le concezioni che negano qualsiasi
spazio per una libera scelta da parte dell'uomo sono chiamate abitualmente
deterministiche. Va subito precisato però che qui ciò che è in gioco non è
tanto la questione su cui sembrano contrapporsi deterministi e non-
deterministi se vi possano mai essere per gli esseri umani azioni del tutto
immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto la questione se gli uomini
possono scegliere liberamente di fare le azioni che vogliono fare sulla base
delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili, comprese le motivazioni e
ragioni specificamente morali. Nella lettura che noi proponiamo dunque la
questione della libertà e della responsabilità etica degli uomini non si
colloca nel quadro di discussione sul determinismo e indeterminismo proprio
della filosofia medievale, incline a identificare la libertà degli uomini con
un irrealizzabile libero arbitrio, ovvero con una libertà di volere in assenza
di qualsiasi motivazione. In alternativa va invece accettata l’impostazione
delle analisi sulla questione libertà-necessità dell'agire umano fatte valere
nella linea empiristica da Thomas Hobbes, John Locke, David Hume. Secondo
questi pensatori è del tutto compatibile (0 se si vuole addirittura essenziale)
con il riconoscimento di una libertà e responsabilità morale nelle azioni
umane, una posizione che considera le azioni umane sempre determinate o
motivate da una qualche causa o ragione (W. K. Frankena, 1981: 155162). Il
punto decisivo nella diatriba non è dunque se le azioni umane siano o no sempre
motivate da ragioni o cause, ma se gli uomini possano 0 meno scegliere
liberamente di fare le azioni per le quali hanno motivi o ragioni. In questo
senso la libertà delle azioni umane non si contrappone tanto all’esistenza di
motivi o ragioni che determinano la volontà, quanto al fatto che gli esseri
umani sono costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o che vi siano
comunque delle cause che essi non possono in alcun modo controllare che li
costringano a fare delle azioni che, ove fossero liberi, non farebbero. Si è
costretti a concludere che gli uomini non sono liberi € l'etica non ha alcuna
possibilità di sussistere laddove si ritenga non tanto che tutte le azioni
umane abbiano {o debbano avere) dei motivi, delle cause o delle ragioni, ma si
ritenga che tali cause e motivi agiscano necessariamente anche laddove gli
uomini credano di avere altri motivi e ragioni per agire. Dunque non sussiste uno
spazio per l'etica quando si abbraccia una concezione che ci porta a ritenere
tutte le azioni umane come effetto necessario di cause esterne ai differenti
individui umani esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi esseri umani
singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una qualche influenza.
Esistono numerose concezioni che specialmente nel corso del XIX e XX secolo
hanno insistito sulla completa assenza di spazio per una libera scelta nelle
azioni umane nel senso che abbiamo appena definito. Non possiamo qui rendere
conto di tutte le concezioni del genere; ricordiamo solo quelle più importanti
e certamente inquietanti per chi crede a una qualche realtà ed efficacia delle
distinzioni morali. Già Darwin, nei primi appunti stesi in collegamento con le
sue prime riflessioni tra il 1833 e il 1840 sulle sue scoperte intorno alle
trasformazioni delle specie viventi, suggeriva le implicazioni per la morale di
una concezione evoluzionistica (Desmond e Moore, 1992: 293-320). Tutto il processo
evolutivo è dominato dal caso e dalla sopravvivenza dei più adatti in termini
meramente biologici e sessuali. Come risulta chiaro poi la lotta per la vita in
termini evolutivi riguarda non già i singoli individui, ma le specie nel loro
complesso. In questo quadro tutte le azioni umane si presentano come frutto di
cause che riguardano complessivamente la specie umana. Questa prospettiva
biologica sulla vita degli uomini è stata sviluppata e approfondita da autori
che hanno elaborato quella che è chiamata sociobiologia (Wilson, 1979). A) di
là delle opzioni apparentemente libere che si presentano alle scelte umane, in
realtà tutte le azioni umane sono casuali e soggette a condizionamenti in
termini di ciò che è vantaggioso per la sopravvivenza della specie complessivamente
intesa. Così se identifichiamo l'etica con la presenza di una dimensione
cooperativa nelle azioni umane, tale dimensione non è altro che un effetto
dell'evoluzione biologica naturale e le azioni che ne conseguono sono del tutto
istintive e sottratte al nostro controllo. Del tutto illusoria è dunque la
prospettiva dell'etica che vi siano dei contlitti, disaccordi e scelte
drammatiche di fronte agli uomini e che essi possano responsabilmente e
liberamente dare ad esse una soluzione. La vita umana è sottoposta alle leggi
generali della vita e del tutto casualmente si realizzano processi e
trasformazioni, i quali tutti vanno dunque al di là di qualsiasi libera scelta
individuale. Un'altra concezione che sembra negare qualsiasi spazio alle scelte
libere e responsabili di cui tratta l'etica è quella che viene considerata come
una conseguenza dell’accettazione dell’impostazione psicanalitica di Sigmund
Freud. È dubbio che una tale schematica concezione sia presente in Freud, che,
se leggiamo opere come Das Unbebagen in der Kultur (1929, Il disagio della
civiltà) sembra piuttosto impegnato a rendere conto della genesi della
coscienza morale all’interno della sua generale teoria sulla dinamica psichica,
senza volersi dunque impegnare su di un piano essenzialistico (Freud, 1978). Ma
vi è comunque una vulgata che considera una conseguenza dell’impostazione
psicanalitica la tesi che le azioni umane individuali non possono essere viste
come frutto di scelte consapevoli, ma sono il risultato piuttosto di motivazioni
inconsce che sfuggono a qualsiasi controllo individuale. Quando noi riteniamo
di avere di fronte determinate alternative tra le quali scegliere razionalmente
la migliore, in realtà siamo spinti a percorrere una certa strada da pulsioni
profonde (amore- odio ecc.) che sfuggono completamente al nostro controllo
consapevole e che dettano anche tenendo conto della nostra storia psicologica
personale i nostri comportamenti in modo necessario. Una analoga riduzione
delle motivazioni consapevoli ad altre più profonde cause si troverebbe nella
concezione di Carl Gustav Jung e in tutte quelle dottrine che elaborano una
qualche tipologia o caratteriologia. Rispetto a questi approcci alle azioni
umane che negano all’etica un qualunque ruolo va mossa una critica preliminare.
Queste tesi hanno un valore se sono presentate come ipotesi scientifiche, ma se
vengono presentate come tali la loro validità non può essere estesa appunto al
di là di quella propria di spiegazioni empiriche per un campo ben determinato
di comportamenti umani. Rendere conto delle azioni umane secondo una
spiegazione evoluzionistica non può essere presentato pena l'abbandono del
piano scientifico di discorso come l’unica e necessaria spiegazione di
qualsiasi azione umana, come una sorta di caratterizzazione essenzialistica e
sostanzialistica della natura delle cose. Gli stessi teorici, metodologicamente
più avvertiti, dell’evoluzionismo come ad esempio Richard Dawkins (Dawkins,
1992) non hanno mancato di temperare in vari modi questa semplicistica
negazione dell'etica. Da una parte hanno così insistito sull'incidenza solo
statistica e non necessaria delle cause evolutive. Dall'altra hanno anche
riconosciuto una capacità degli esseri umani, non solo di essere consapevoli
dei processi evolutivi, ma di sottrarsi proprio sul piano procreativo ai
meccanismi dettati dall’evoluzione, Infine si sono impegnati ad elaborare
spiegazioni che rendono conto della superiorità, sul piano evolutivo, di quelle
culture che realizzano al loro interno un equilibrio selettivo stabile intorno
ad abitudini cooperative, rispetto alle culture dominate dal completo egoismo
individuale. Una estensione dunque su di un piano ontologico o metafisico
dell’evoluzionismo risulta effettivamente incompatibile con qualsiasi altra spiegazione
o interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale rappresenta una
fuoriuscita dal piano del discorso scientifico e la trasformazione
dell’evoluzionismo in una religione. Non diversamente si può ritenere indebita
la generalizza zione del modello esplicativo proprio della psicanalisi a tutte
le situazioni in cui gli uomini scelgono, decidono e deliberano. La fertilità
della psicanalisi è indubbia laddove è presentata come una spiegazione di ben
precise azioni e di situazioni patologiche del comportamento umano. Ma non si
può se non impropriamente estenderla in modo tale che essa pretenda di spiegare
tutte le azioni umane in qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce
su cui richiama l’attenzione, Un'altra strada è stata percorsa sempre più
insistentemente negli ultimi due secoli per negare qualsiasi spazio all'etica.
Si tratta qui di quella posizione che sostiene che gli uomini sono in
definitiva mossi solo da motivazioni del tutto personali ed egoistiche e che
dunque cercano sempre e solo la soddisfazione dei loro interessi. È poi molto
diffusa la tendenza a caratterizzare questi interessi in termini strettamente
economici. La negazione dell'etica in questo senso deriva da una concezione
essenzialistica dell'azione umana che identifica come unico movente di tutte le
scelte la realizzazione del massimo vantaggio da un punto di vista economico.
Secondo alcuni ad esempio Louis Dumont (Dumont, 1984) è questo il tipo di
prognosi sulla civilizzazione umana nell'Occidente che troveremmo già in Bernard
de Mandeville (Mandeville, 1987) e in Smith e che dovremmo realisticamente fare
nostra. La tesi generale è che la realizzazione e il consolidarsi delle società
dominate dalla logica del mercato rende praticamente impossibile la ricerca da
parte di ciascun essere umano di obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi
sarebbe quindi, paralletamente al progressivo consolidarsi delle strutture
delle società di mercato, una vera e propria morte dell’etica. In luogo di una
spiegazione pluralistica ancora legittima nel secolo XVII dell’azione umana che
la riconduceva a ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora saremmo dunque
costretti a fare nostra una spiegazione monistica per la quale le uniche
ragioni delle scelte e decisioni sono economiche, e tra l'altro quasi mai sotto
il controllo dell'individuo. Secondo questa filosofia della civilizzazione sono
dunque del tutto scomparse le condizioni che permettono azioni mosse da ragioni
etiche, altruistiche 0 universalistiche. Ancora una volta una spiegazione che
può avere una sua fertilità se tenuta su di un terreno del tutto limitato
finisce poi con il risultare inaccettabile una volta estesa su di un piano
essenzialistico. Tutte queste concezioni contestano la possibilità dell'etica
sulla base di una pretesa ingiustificata di caratterizzare in termini
sostanziali ed essenziali l'azione umana. La ricostruzione che dell'azione
umana viene offerta da chi ammette l'incidenza delle ragioni etiche è una delle
possibili spiegazioni che restano aperte nella nostra cultura. Certo non
l’unica, forse nemmeno quella più importante e significativa, ma di sicuro una
spiegazione fertile sul piano esplicativo e non priva di forza prognostica. Se
si cerca di rendere conto delle azioni umane sulla base dell'assunzione che gli
uomini sono mossi ad agire anche da ragioni etiche si riesce come ha
recentemente in vari modi mostrato Amartya K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994)
a rendere conto di alcuni comportamenti effettivi e a prevedere alcune
situazioni future in modo non diverso (e non meno esteso) di quanto accade con
le altre spiegazioni. 3. Fondazione, giustificazione e spiegazione:
l’epistemologia dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica all'epistemologia. La ricerca
rivolta a identificare la natura della morale, il senso delle nozioni che
operano nell'etica, rappresenta un passaggio preliminare prima di affrontare un
altro genere di questioni decisivo per l'etica, quello relativo alle vie
disponibili per fondare, giustificare, o eventualmente spiegare, le scelte e i
giudizi normativi. Sapere che tipo di domande ci poniamo quando siamo alla
ricerca di ciò che è bene © giusto fare in una data situazione è appunto
preliminare da un punto di vista logico e concettuale per arrivare a
individuare le procedure mediante le quali si può trovare la risposta adeguata.
Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse linee lungo le quali si
è risposto al problema dei modi in cui si possono conoscere, fondare 0
giustificare le norme e i valori con cui l'etica ha a che fare. Nel corso del
secolo XX vi è stato, prima, uno spostamento deciso dal problema di come sono
conoscibili i valori etici, a quello di come sono fondabili i nostri giudizi
normativi e le nostre decisioni pratiche. Successivamente l'elaborazione
filosofica ha visto affermarsi una prospettiva che in luogo della tesi della
fondabilità delle conclusioni etiche ha preferito limitarsi a sostenere la
possibilità di giustificarli o di argomentare pro o contro i valori in gioco.
In questo paragrafo renderemo anche conto di un altro approccio che si è andato
sempre più consolidando nella riflessione etica del secolo XX rivolto non più a
fondare o giustificare le conclusioni normative, quanto piuttosto a spiegare la
genesi dell'etica e delle distinzioni che in essa vengono istituite. Quest'ultimo
approccio che abbandona le pretese di elaborare criteri gnoseologici ed
epistemologicì per passare ad un'analisi propriamente esplicativa non coinvolge
solo le posizioni (di cui abbiamo reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano la
validità delle distinzioni etiche. Un analogo approccio esplicativo troviamo in
chi occupandosi dell'etica filosofica si rifiuta di passare sul piano più
direttamente prescrittivo e normativo, fissando così i limiti dell'intervento
riflessivo nella determinazione della natura dell'etica, dei tipi di procedure
gnoseologiche ed epistemologiche che essa coinvolge e dei meccanismi genetici
che l'hanno costituita. Nel rendere conto dei diversi modelli gnoseologici ed
epistemologici riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea mescoleremo
ancora la prospettiva storica con quella critica e teorica. Per procedere con
questo bilanciamento delle due prospettive le partizioni di questo paragrafo
non seguiranno l'ordine di quelle esposte nel precedente paragrafo, né
riprenderanno in modo esclusivo le distinzioni già fissate a livello di
meta-etica. Dal punto di vista gnoseologico ed epistemologico alcune delle
partizioni fatte valere sul piano meta-etico risultano infatti o troppo strette
o troppo larghe, nel senso che un approfondimento analitico permette di
riconoscere diverse procedure epistemologiche alla base della stessa concezione
meta-etica o procedure epistemologiche analoghe laddove siamo costretti a
tracciare delle distinzioni sul piano meta-etico. Il lettore si accorgerà che
il quadro precedentemente delineato di concezioni meta-etiche trova comunque un
riscontro in questo paragrafo. 3.2. La conoscibilità della legge divina. Come
si è già avuto modo di sottolineare il secolo XVII rappresenta un punto di
riferimento essenziale per chi voglia rendere conto dello sviluppo dell’etica
teorica nel senso in cui ne stiamo trattando in questo scritto. Numerosi
pensatori riconoscono che le soluzioni a proposito dell'etica devono essere
tali da poter essere accettate da esserti umani, finiti razionali, che siano in
grado di ripercorrere la strada che viene ad essi indicata per superare
coniflitti e disaccordi. Questa prospettiva di ricerca sull’etica e sulle sue
basi epistemologiche e gnoseologiche è ad esempio del tutto operante in Cartesio,
che però non la percorre arrestandosi alla sua soglia. Infatti Cartesio non
sottopone anche le verità etiche all’analisi in termini di dubbio e di ricerca
della certezza a cui egli sottopone le altre verità, e proprio in quanto non
intraprende tale indagine si arresta a quella che lui stesso chiama una «morale
provvisoria». Una morale assunta acriticamente dalla tradizione e che andrà
confermata o sostituita dopo che si sarà percorsa sisternaticamente la strada
della ricerca critica sulle verità morali. Questa rinuncia dichiarata a
percorrere una strada fondazionale non esclude, del resto, la presenza
nell'opera di Cartesio di una vasta ricerca sulle basi antropologiche della
vita morale e una rivisitazione, per molti versi scettica, delle concezioni
tradizionali di virtù e felicità (Canziani, 1980). Una ricerca sulle basi
razionali dell'etica viene invece esplicitamente avviata, nel secolo XVII, da
pensatori come Hobbes e Locke. Negli scritti di Locke troviamo in realtà
percorse diverse strategie gnoseologiche ed epistemologiche per l'etica e il
suo problema fondamentale fu proprio quello della conoscibilità della legge
morale e degli articoli della fede religiosa (Colman, 1983; Fagiani, 1983).
Locke dunque affronta sistematicamente la questione di come sia conoscibile la
legge morale naturale in un contesto che assume che la legge naturale è un
comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente diverse strategie
alternative mediante le quali si potrebbe giungere a conoscere tale comando
Locke finisce poi però con il dichiarare la loro inadeguatezza. Possiamo quindi
ricavare dai suoi scritti sia una indicazione delle diverse procedure
epistemologiche a cui può fare appello chi accetta la tesi che l’etica sia in
definitiva un insieme di comandi divini, sia l'indicazione dei limiti propri di
queste procedure e dunque la difficoltà complessiva di dare una base razionale
al tentativo di derivare l’etica da tesi di ordine religioso. Una prima
strategia consiste nel legare la conoscibilità e autorevolezza della legge
morale quale comando divino ad alcuni testi in cui tale legge è rivelata. Locke
si mostra petò consapevole dei limiti presenti in questo appello ai testi
rivelati. Egli riconosce, ad esempio in The Reasonableness of Christianity, as
deliver'd in the Scriptures (1695, La ragionevolezza del Cristianesimo), che il
ricorso ai testi sacri per la tradizione cristiana può al massimo valere sul
piano pedagogico e retorico. Argomenti analoghi possono essere fatti valere per
tutte le religioni positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può
rappresentare un aiuto e una facilitazione per chi si preoccupi di convincere 0
persuadere altri, ma non può però rappresentare una via adeguata per
giustificare una conclusione etica per tutti gli esseri umani, Il collegamento
della verità etica conoscibile con la lettura di qualche testo in cui la
divinità ha espresso i suoi comandi oltre il problema della molteplicità delle
interpretazioni possibili della lettera del testo comporterebbe l’assurda
conseguenza di considerare tutta quella parte dell'umanità che è vissuta prima,
0 vive al di fuori, della rivelazione come del tutto priva di etica. Una
ulteriore conseguenza assurda: considerare del tutto privi di morale coloro che
sono in disaccordo con noi su alcuni dei punti caratterizzanti la religione
rivelata che noi accettiamo. Lo stesso Locke fa valere una obiezione più
generale nei confronti del tentativo di ricondurre la base di validità di una
tesi etica al fatto che si tratti del comando di una certa divinità. Si tratta
di una critica contro il volontatismo di quei teologi che considerano invece
questa strategia come in grado di fondare la moralità. La critica generale
presente negli scritti di Locke già negli Essays (Saggi) del 1664 (Locke, 1973)
è che il fatto di trovare un certo comando espresso in un testo che più o meno
fondatamente crediamo espressione della volontà divina è del tutto irrilevante
sul piano etico; su questo piano il problema che si pone non è tanto se ci si
trova di fronte ad un comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene
comandato è giusto. I sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno sempre
considerato come necessaria e sufficiente la coincidenza tra volontà divina e
legge morale, ma la riflessione moderna e contemporanea ha invece fatto valere
sempre di più l'autonomia dell'etica. Questa autonomia viene affermata già a
livello concettuale distinguendo nettamente le nozioni etiche dalle nozioni che
fanno riferimento a ciò che è comandato da qualcuno, sia pure l'Autore della Natura.
Il riconoscimento di tale autonomia ha poi un riflesso sul piano epistemologico
e gnoseologico e porta a fissare con precisione la diversità delle procedure
gnoseologiche con cui si conosce la volontà divina rivelata nei testi sacri
rispetto a quelle con cui si conosce la legge morale valida. Prima di
illustrare le vie percorse in positivo da Locke per cercare di fondare
razionalmente le conclusioni etiche soffermiamoci invece su una strada da lui
rifiutata. Si tratta di quella concezione che indica in una particolare
coscienza 0 facoltà morale il modo più sicuro per arrivare a conoscere
direttamente i comandi mortali della divinità. Una strategia per fondare e
conoscere l'etica tuttora molto frequentata e cara ai fautori di una riduzione
dell'etica alla religione. Per quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay
nega che alla «coscienza» ci si possa appellare come a una prova valida in
morale e la nozione di coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario delle
assunzioni innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul piano
empirico (Locke, 1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci comanda
direttamente senza per questo servirsi della rivelazione la legge morale, e che
noi abbiamo una cognizione diretta di tale legge attraverso la nostra
coscienza, è stata sviluppata, nel secolo XVII, da alcuni neo- platonici di
Cambridge, e in particolare da Herbert di Cherbury con la sua dottrina delle
notiones comsmunes. La stessa linea fu poi riproposta nel secolo XVIII su basi
nuove da intuizionisti e sentimentalisti che conservavano un quadro
provvidenzialistico. Così Joseph Butler legava la conoscenza delle verità
etiche all’attività intuitiva di una peculiare «coscienza» capace di obbligare
e fornita di autorevolezza, e Hutcheson indicava nel «senso morale» la base di
quel particolare sentimento che ci fa cogliere la virtà in un mondo ordinato
dall’Autore della Natura. Contro la tesi che Dio ci rende noti direttamente
nella coscienza i suoi ordini morali vi sono alcune argomentazioni già
formulate da Locke. L'appello alla coscienza non può essere certo un criterio
definitivo in etica perché dovremmo disporre di almeno altre due ulteriori
specificazioni. In primo luogo un qualche criterio che ci permettesse di
discriminare quei dettami della nostra coscienza che sono affidabili da quelli
che sono errati. In secondo luogo un qualche fondamento che ci autorizzasse a
ritenere laddove sorgessero disaccordi che ciò che ci fa conoscere la nostra
coscienza è veramente la legge morale per tutti gli uomini, anche per quelli
che con i loro discorsi e con le loro azioni testimoniano di non trovare nelle
loro coscienze principi analoghi ai nostri. Rifiutata la via della coscienza
Locke invece si impegna positivamente nel cercare di conciliare una concezione
che vede la morale come caratterizzata da comandi divini con una strategia
empiristica. L'accettazione di una epistemologia e gnoseologia empiristiche
porta Locke ad elaborare una strada indiretta di fondazione e giustificazione
della legge morale naturale come corando divino. Secondo questa via di
fondazione indiretta noi giungiamo ad accettare il comando morale divino
espresso nella legge naturale dopo avere percorso un ragionamento che ci porta
a risalire a Dio come all'Autore della Natura buono che ha creato gli esseri
umani in modo tale che essi effettivamente siano in condizione di ottenere la
loro felicità. Ovviamente questa strategia comporta l’assunzione che ciò che
Dio comanda non può che essere il bene per gli uomini, un passaggio verso
l'accettazione dell’intellettualismo etico che non vede più nella volontà
divina l'unico fondamento del bene e rende del tutto secondario il valore dei
testi rivelati. La strategia di giustificazione della validità della legge
naturale morale avanzata da Locke comprende diversi passaggi: in primo luogo
trovando un ordine o un disegno nel mondo si risale a un autore della natura;
poi si postula una natura divina buona e razionale per cui l’autore della
natura non può che volere la felicità degli esseri umani; ancora si crede che
l’autore della natura non solo abbia trasmesso agli esseri umani un insieme di
leggi naturali, universali ed eterne, per realizzare la loro felicità, ma anche
che abbia messo gli esseri umani in condizioni di conoscere tali leggi con
certezza con il ricorso alle loro facoltà naturali del senso e della ragione;
infine si assume che conoscere tali leggi naturali equivale a essere obbligati
a obbedire a ciò che ci richiedono. Le lacune e le cir. colarità presenti in
questi vari passaggi risultavano già evidenti allo stesso Locke che nel corso
di tutta la sua vita si affannò a cercare di ovviare ad esse. In effetti la
procedura di giustificazione lockiana della validità delle leggi naturali come
comandi divini comporta il continuo passaggio dal piano empirico a quello
sovrannaturale, dal piano dell'essere a quello del dovere. Con l’aiuto di
questa strategia si potrà al massimo disporre di ragioni del tutto ipotetiche a
favore di ciò che noi siamo già giunti ad accettare come un comando divino del
tutto indipendentemente e prima del ricorso a queste procedure gnoseologiche ed
epistemologiche. Consapevole di ciò Locke presentava nell’ultima parte della
sua vita il suo tentativo di elaborare un'etica dimostrativa come una via per
confermare le opzioni morali trasmesse dalla tradizione cristiana. Una volta
che cadono le assunzioni che sorreggono l'argomento del disegno e le pretese
sulla bontà provvidenziale dell'Autore della Natura questa strategia sembra
crollare, Non c'è più nessuna divinità da cui far dipendere la validità della
legge morale, nulla garantisce che l’autore della natura sia buono piuttosto
che malvagio, nulla è più in grado comunque di farci superare l'abisso tra
l'eventuale conoscenza di una norma come comando divino e il nostro accettarla
come obbligante. Locke stesso cercò di superare questo abisso, ma legando la
validità e l'efficacia della legge morale naturale non tanto al riconoscimento
che si tratta di un comando divino in sé giusto, quanto piuttosto al timore per
la sanzione che sarebbe derivata in un'altra vita in caso di infrazione verso
di essa. Ma questo tentativo di agganciare la validità e l'obbligatorietà di un
principio etico a una qualche sanzione che segue una infrazione verso di esso,
è una strategia che non possiamo più percorrere indipendentemente
dall’accettabilità o meno delle credenze sull’immortalità dell'anima e
sull'esistenza di uno stato futuro ove riconosciamo l’autonomia dell'etica.
Fare appello a qualche sanzione ultraterrena infatti al massimo riesce a
giustificare o fondare che noi si faccia qualcosa perché temiamo la sanzione o
cerchiamo i premi che una certa autorità lega a questi comportamenti, Ma
percorrere questa strada impedisce di vedere che il piano concettuale investito
dall’etica è quello che comporta fare ciò che è giusto o bene fare e non già
quello che comporta fare una certa cosa solo perché teniamo la sanzione di una
qualche autorità (per quanto illuminata} ove non dovessimo obbedire ai suoi
comandi. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. Un'altra
strada percorsa per fondare l'assunzione di un punto di vista etico è quella
che cerca di riconnettere la ricerca individuale del bene personale con la
considerazione pet il bene comune. Naturalmente non si tratta di quelle
concezioni che sulla base di considerazioni empiriche e a posteriori concludono
che la ricerca del bene personale risulta essere l’unica via che consente di
realizzare un incremento del bene comune. Una concezione del genere è spesso
alla base della difesa dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è
stata esposta in modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986). Affrontiamo
invece in questa sezione la questione se si possa o meno fornire un fondamento
razionale all'esigenza di essere morali: dove si considerano razionali solo le
argomentazioni che rinviano alla soddisfazione di propri interessi o piaceri e
con «morale» si intende il rispetto di qualche regola generale o norma di
cooperazione quali ad esempio mantenere le promesse, rispettare i contratti e obbedire
alle leggi del proprio paese. Questa impostazione è presente in modo del tutto
esplicito nelle pagine di Hobbes. Così la risposta che Hobbes dà allo «sciocco
razionale» nel capitolo XV del Leviathan, or tbe Matter, Forme and Power of a
Common-wealth Ecclesiasticali and Civili (Il leviatano; Hobbes) è rivolta a
cercare di mostrare che, calcolando sulla base degli interessi in gioco, la
salvaguardia di un minimo di principi etici e cooperativi è vantaggiosa per i
diversi individui. Troviamo dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di
elaborare una giustificazione di ordine prudenziale a favore del riconoscimento
dell'opportunità di rispettare i principi dell'etica. La razionalità in gioco
nel calcolo prudenziale è stata sistematicamente delineata nei suoi assiomi e
nelle sue deduzioni nel corso del XX secolo dalla «teoria della scelta
razionale 0 teoria delle decisioni» (Axelrod, 1985; Resnik, 1990). Proprio tra
i teorici della scelta razionale di questo secolo vediamo ripresentarsi il
problema di Hobbes formulato in un diverso modo (Kavka, 1986). Si tratta cioè
di individuare se e in che modo sia possibile provare la razionalità
dell’accettazione di un minimo di regole cooperative anche quando
quest’accettazione sembra essere in contrasto con i nostri interessi più
immediati e diretti e ci si trovi in una situazione in cui un’eventuale nostra
defezione unilaterale potrebbe sfuggire al controllo altrui. Già in Hobbes
troviamo dunque un tentativo di argomentare a favore dell'accettazione di
regole © principi etici contro le pretese dello «sciocco razionale» di fare
sempre e comunque ciò che è per lui più vantaggioso e dunque di defezionare o
sospendere la propria fedeltà nei confronti della regola o del principio etico
quando ciò è per lui più conveniente o quando comunque può sfuggire alla
sanzione altrui. Torneremo su queste argomentazioni quando affronteremo i
tentativi di presentare come una vera e propria teoria etica normativa la
teoria della scelta razionale. La situazione dello «sciocco razionale» è molto
simile a quella di cui si occupano i teorici della scelta razionale quando
affrontano i problemi posti dal «dilemma del prigioniero», e si impegnano
nell’analisi del comportamento del free rider. Già Hobbes elaborava alcune
argomentazioni che insistevano sulla rischiosità di un comportamento di
defezione unilaterale e sulla probabilità di ricavare un danno nel momento in
cui gli altri prima o poi giungeranno a scoprirlo. Negli ultimi decenni il
paradigma hobbesiano è stato in vari modi interpretato e sviluppato da diversi
teorici dell'etica. Particolarmente stringente è stato il modo in cui David
Gauthier (Gauthier, 1986) ha cercato di fondare la preferibilità di avere una
morale in luogo di esserne privi all'interno di quella posizione che ha caratterizzato
come «contrattualismo reale» per distinguerla dal «contrattualismo ideale» di
Rawls (Rawls, 1982). Secondo Gauthier il quadro concettuale di Rawls con
l'assunzione in partenza della validità del principio di equità implica già
l'accettazione di un piano etico e dunque dà per dimostrato quella che vorrebbe
giustificare. Gauthier cerca di elaborare invece una teoria in cui
l'accettazione dell’etica e del contratto sociale originario che garantisce la
vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere da condizioni ideali
presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno dei contraenti ricava in
termini di ragioni prudenziali o di utilità personale. Il programma di Gauthier
è quello di riuscire a mostrare all’interno della teoria della scelta razionale
come sia più conveniente e vantaggioso essere un «massimizzatore vincolato»
dall’accettazione di qualche principio etico interpersonale, piuttosto che un
«massimizzatore diretto» che tende sempre e solo alla soddisfazione dei propri
interessi immediati. Gauthier elabora tutta una serie di argomenti che fanno
emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attraverso la via della
massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con le disponibilità di
partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la massimizzazione diretta
propria di chi procede come un free rider, Gauthier sostiene che il modo in cui
un agente delibera influenza le opportunità da lui attese. Così se guardiamo al
modo di deliberare proprio di un massimizzatore vincolato potremo aspettarci
che egli consenta volontariamente con i termini di un accordo precedente, anche
se questo comporta che egli così vincoli il diretto perseguimento dei suoi
interessi. Ma sulla base di tali aspettative il massimizzatore sarà il
benvenuto come partner în progetti cooperativi reciprocamente benefici. Se
invece consideriamo il modo di deliberare proprio di un massimizzatore diretto,
da costui non potremo aspettarci che consenta con i termini dei suoi precedenti
accordi a meno che ciò non contribuisca direttamente a soddisfare i suoi
interessi. Ma proprio sulla base di questa aspettativa sul suo comportamento il
massimizzatote diretto sarà estromesso come partner nelle iniziative
cooperative in quanto non si può gemuinamente avere fiducia in lui. La conclusione
di Gauthier è dunque che il massimizzatore vincolato può aspettarsi di godere
di opportunità che invece il massimizzatore diretto può solo prevedere che gli
saranno negate. Si tratta di una differenza che evidentemente opera a tutto
vantaggio del massimizzatore vincolato. Sulla base di questa argomentazione
Gauthier conclude che si può ritenere razionale incorporare nelle proprie
deliberazioni i vincoli con cui si è razionalmente concordato come filtri tra
possibili azioni tra cui scegliere, Ed è chiaro che qui razionale significa un
calcolo con un saldo positivo a proposito della soddisfazione dei propri
interessi. La teoria di Gauthier si presenta come molto potente in quanto
presume di potere dimostrare la razionalità dell'assunzione di vincoli etici
come mezzo per realizzare un surplus di soddisfazione dei propri interessi. Ma
l'elaborazione di Gauthier va incontro a una serie di difficoltà che mostrano
come sia ancora irrisolto il tentativo di fondare in termini prudenziali la
preferibilità di una vita etica. Infatti da una parte, legando il saldo attivo
che ricava il massimizzatore vincolato alla fiducia di altri nei suoi
confronti, Gauthier sembra dovere fornire un criterio sicuro per discriminare
tra situazioni in cui la fiducia è bene riposta e casi in cui invece una tale
fiducia è errata. Un criterio del genere non viene offerto da Gauthier, ma si
può ipotizzare che esso non sia disponibile e che, nel caso in cui si tratti di
fiducia da concedere a un qualche partner, si debba oscillare tra una
valutazione diretta, caso per caso, 0 una assunzione di trasparenza delle
motivazioni del partner o una qualche circolarità. L'altra difficoltà di ordine
generale dell’argomentazione di Gauthier (e più in generale di quelle strategie
che tentano di giustificare l’etica in termini prudenziali o di salvaguardia
dei propri interessi) sta nella pretesa di potere dimostrare che il surplus di
ottimalità conseguente all'assunzione di un vincolo etico riguardi tutti i
possibili contraenti con qualsiasi interesse di partenza. Gauthier si impegna
ad elaborare una concezione non riduzionistica di «interessi» (concerns) non
definendoli in termini strettamente economici, ma lastiandone indeterminato il
contenuto mediante un rinvio alle preferenze di ciascuno. La cooperazione e
dunque l'etica secondo Gauthier rende possibile soddisfare con esiti migliori i
propri interessi di partenza di qualsiasi tipo essi siano che vanno quindi
vincolati secondo le aspettative degli altri. Resta difficile da capire come si
possa mettere su uno stesso piano interessi che esigono soddisfazioni molto
differenziate e, ciò che più importa, vincoli ben diversi. È difficile cioè
riuscire a capire come si possa assemblare e considerare vincolabili alla
stessa stregua preferenze di partenza per beni diversi (poniamo, beni
condivisibili e beni esclusivi). Difficile capire come si possa costruire in
modo unitario il «massimizzatore vincolato» tenuto conto che in genere gli
interessi degli esseri umani si intende dello stesso essere umano in tempi
diversi sono molteplici e probabilmente bisognosi di un qualche ordinamento
interno. Ma la difficoltà più generale riguarda la pretesa della teoria di
Gauthier di fornire la mossa vincente per convincere chiunque solo sulla base
di un calcolo strettamente interessato della convenienza a interiorizzare una
disposizione a rispettare gli accordi. Sembra opinabile che questa mossa possa
risultare efficace anche laddove per esempio non si avesse già una disposizione
a rispettare gli accordi o non vi fosse una qualche base motivazionale, emotiva
o psicologica, sulla quale fare leva per radicarla o rafforzarla. Vedremo poi
in una sezione successiva un'altra difficoltà intrinseca all'approccio
prudenziale o della teoria della scelta razionale. Vedremo infatti che per
restare coerenti con questo approccio finiamo, in alcune situazioni, con il
tendere a risultati niente affatto ottimali. Vi sono però strategie per la
fondazione dell'etica molto più antiche di quelle che abbiamo appena ricordato
e ad esse si continua a ricorrere anche nell'etica moderna e contemporanea. Ad
esempio quelle strategie che ritengono che nella natura umana siano
rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che fondano una particolare
considerazione e rispetto per gli esseri umani, conseguenza del riconoscimento
di uno status privilegiato e unico dell’uomo nell'universo. Abbiamo visto
soprache vi sono cacatterizzazioni dell'etica che vedono al suo centro una
legge naturale razionale e dunque concepiscono il comportamento morale come
realizzazione di alcuni tratti propri delia natura umana. È costitutivo di
questa strategia argomentativa il tentativo di derivare ciò che si deve fare da
quella che è la natura umana in quanto tale. Due passaggi sono caratteristici
di questa strategia sul piano fondazionale. In primo luogo questa strategia
implica che si abbracci una forma di cognitivismo essenzialistico e può essere
percorsa solo da chi ritenga di disporre di una concezione che coglie in modo
assoluto e compiuto la natura umana. In effetti le etiche che procedono lungo
questa strada presentano come loro premessa una qualche definizione sostanziale
della natura umana e in genere rendono conto del suo posto nell'universo in
termini metafisici o ontologici. Troviamo percorsa questa linea nella tradizione
aristotelico-tomistica di cui Jacques Maritain ha reso conto, nel XX secolo, in
modo simpatetico (Maritain, 1971). In questa strategia il contenuto dell'etica
viene derivato da una definizione dell’uomo concepito come persona con una
propria peculiare natura sostanziale che ne garantisce la dignità. La
difficoltà per questa strategia sta nella discutibilità della caratterizzazione
della natura della persona, una natura della quale linee di pensiero diverse
hanno reso conto in termini dei tutto alternativi e incompatibili (come
argomentano Scarpelli, 1985: 181-203; Preti, 1989: 63-95). Nell'elaborare la
concezione della persona morale si procede di solito o impoverendo l'essere
umano di tutti gli elementi concreti, o presentando l'individuo umano in vesti
tanto astratte e ideali che una tale rappresentazione finisce con il non avere
alcuna presa sul piano delle azioni concrete. Un'altra via che pone al centro
della morale una definizione della natura personale dell’uomo è quella che
connota la persona con una serie di tratti che non sono altro che
l’ipostatizzazione di assunzioni di ordine ideologico o religioso. Una tale
costruzione e conseguente uso della nozione della persona come fondamento
dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo nei documenti ufficiali su
questioni morali della Chiesa Cattolica. Un altro limite di questa impostazione
sta nel commettere in modo evidente l'errore logico di ridurre ciò che deve
essere a ciò che è. Si tratta di quella «fallacia naturalistica» ovvero di
quella offesa alla cosiddetta «legge di Hume. Infatti le diverse
caratterizzazioni della natura umana in termini ontologici e sostanziali non
fanno che richiamare ciò che è già proprio di tutti gli esseri umani. Ma allora
non si riesce a capire in che modo da ciò che è già proprio dell’uomo in quanto
tale si possa ricavare ciò che l’uomo dovrebbe fare e che in quanto dovrebbe
ancora realizzare non può logicamente già essere. Proprio questa indebita
riduzione del dovere all'essere è stata al centro di una serie di contestazioni
contro tutte le forme di riduzionismo dal Settecento in avanti. Tali critiche
sono particolarmente decisive contro quelle forme di ragionamento che presumono
di potere conoscere quale sia il bene 0 il dovere per gli omini ricorrendo a
una definizione di quella che è la loro natura essenziale. In generale va
quindi detto che chi procede per la strada di una fondazione ontologica
dell’etica compie tutta una serie di errori logici; il tentativo di ridurre i
valori a fatti ovvero a realtà empiriche o metafisiche; il non cogliere la
peculiare funzione prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi
etici; l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o argomentare
in etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da presunte discipline
metafisiche per descrivere o spiegare il mondo come è. La natura umana come
fondamento dell'etica: la via empirica. Vi è stata un'altra strategia che ha
cercato di indicare come procedura propria della fondazione della morale un
esame della natura umana. In questa linea non ci si propone di risalire a una
qualche definizione metafisica o ontologica della natura umana, ma di cercare
di cogliere, attraverso l’esperienza e l'osservazione, quale è per gli esseri
umani il comportamento più consono ed adeguato. Anche questa via di fondazione
epistemologica dell'etica si presenta come destinata al fallimento. Da una
parte la ricerca empirica sulla natura degli uomini ben difficilmente potrà
ottenere dei risultati di ordine universale, ma finirà sempre con l’identificare
la natura umana con alcuni tratti propri degli esseri umani in un determinato
momento del tempo e in una ben precisa cultura. Inoltre questa strategia non
può sfuggire alla fallacia tipica di tutte le forme di naturalismo che riducono
ciò che deve essere a ciò che è. Tra le concezioni che hanno cercato di
sviluppare sistematicamente il tentativo di provare attraverso un’indagine
empirica che cosa è bene o giusto si colloca certamente l'evoluzionismo erede
di Darwin, specialmente nella forma che esso ha preso con Herbert Spencer.
Berirand Russell agli inizi di questo secolo negli Elements of Ethics (1910,
Gli elementi dell'etica) criticava, in quanto riduzionistica, la pretesa di
ricavare indicazioni etiche da un presunta linea dell'evoluzione umana
empiticamente corroborata. Nella concezione evoluzionistica, rilevava Russell,
la strategia argomentativa procede attraverso continui passaggi dal piano del
riscontro empirico a quello delle definizioni implicite. Così laddove si
identifica ciò che è giusto e ciò che è buono con la linea evolutiva che si
ritiene avere scoperto empiricamente in realtà si è introdotta una definizione
etica per cui ciò che è più evoluto è moralmente superiore, Proprio per queste
difficoltà generali a cui va incontro l’evoluzionismo etico dopo l’ubriacatura
dei sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologicamente avvertiti come R.
Dawkins (Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di presentare le loro concezioni
come una fondazione dell'etica. Tra l’altro non è certo possibile percorrere
questa strategia con un minimo di utilità pratica, ovvero rintracciare in
termini empirici la soluzione a un problema etico connettendola con un corso di
azioni migliore evolutivamente, ovvero che favorisce la sopravvivenza del
genere umano o del gruppo di cui facciamo parte biologicamente. Non vi sono
procedure empiriche che consentono di arrivare a confrontarsi con
un’aliernativa secca tra ciò che favorisce la sopravvivenza del genere umano e
ciò che l’ostacola. Non esistono di certo sicuri metodi empirici per decidere
se una certa linea di comportamento è più o meno in contrasto con i bisogni
della specie umana. Né può rappresentare una fuoriuscita dalle difficoltà
etiche con cui ci confrontiamo, sostenere che però a posteriori può essere poi dimostrato
ammesso che ciò sia possibile che ciò che gli uomini fanno è quanto rende
possibile la loro sopravvivenza. Si tratta di procedure dubbie perché finiscono
con il razionalizzare catastrofi e guerre e comunque si tratta di ricostruzioni
che vengono date dopo che le azioni sono state compiute e che poco dunque
possono aiutarci sul piano deliberativo o della costruzione di una qualche
concezione etica. Difficoltà insormontabili si presentano per tutti gli altri
tentativi di ricondurre il bene e il giusto a delle proprietà del mondo che,
non diversamente dalla forza e dall’energia, possono essere verificate,
misurate e quantificate. Ma più in generale e su un piano meno materiale sono
destinati al fallimento tutti quei tentativi di ricondurre le procedure di
fondazione dell'etica a quelle in uso in scienze, quali la psicologia e la
sociologia, più direttamente rivolte allo studio degli uomini. La via di
ricondurre l'etica alla psicologia è stata più volte percorsa nel corso del
secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei suoi Fragen der Ethik (Problemi di
etica) quando indicava nel bene ciò che è considerato più idoneo ai bisogni di
un individuo che vuole mantenere l'armonia con il gruppo sociale di cui fa
parte. Una definizione che, ammesso sia in grado di suggerire un qualche
criterio di valutazione, dà per scontata la preferibilità sempre e comunque
dell'armonia rispetto alla disarmonia, con ovvie implicazioni conformistiche.
Un più recente tentativo di ricondurre le procedure della deliberazione etica a
quelle in uso nella psicologia è stato fatto da Richard Brandt in A Theory of
the Good and Right (1979, Una teoria del bene e del giusto). Brandt si è
sforzato di mostrare come il processo deliberativo dell’etica sia assimilabile
alla tecnica usata nella terapia psicologica cognitiva per mettere alla prova i
desideri e gli obiettivi sulla base di una valutazione della loro razionalità.
Brandt sostiene che nell’etica come nella terapia cognitiva si tratta di
valutare razionalmente se i desideri che abbiamo sono o meno adeguati: ovvero
tali che li confermiamo avendo tutte le informazioni empiriche necessarie, tali
che ci propongono obiettivi per realizzare i quali disponiamo dei mezzi
necessari e infine tali che non comportano delle conseguenze inaccettabili.
Questi sono certamente passaggi a cui si può ricorrere quando è in corso una
deliberazione etica, ma va aggiunto che parte dell’etica sembra consistere nel
valutare se noi riteniamo che determinati desideri debbano essere accettati da
tutti coloro che si trovino in situazioni analoghe. I riscontri empirici ci
dicono quali desideri gli uomini hanno, ci presentano le distribuzioni
statistiche di questi desideri, ma nulla dicono su quali siano i desideri da
privilegiare e quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da
controllare ad ostacolare. Non mancano coloro che non si fanno influenzare da
questi dubbi sulla validità conclusiva in etica di un metodo di deliberazione e
giudizio che cerchi di controllare empiricamente come stanno le cose per quanto
riguarda gli uomini e le situazioni in discussione. Fautori di un naturalismo
ingenuo, sostengono che noi di fatto già sappiamo che certe azioni sono
negative e malvagie (per esempio l'assassinio o il furto) e che certe
istituzioni (per esempio i contratti, il mantenimento delle promesse e la
fedeltà verso un certo governo) sono giuste. Si può ammettere che questa
strategia naturalistica aiuti a individuare inclinazioni e tendenze ira le più
radicate negli esseri umani, ma il punto è che tali inclinazioni e tendenze non
possono essere giustificate con la mera argomentazione che di esse già
disponiamo di fatto, o che sono universalmente presenti tra gli uomini (il che
tra l'altro non si riesce a dimostrare). Ancora una volta si fa appello a
predisposizioni o inclinazioni così generiche e indeterminate che il rinvio ad
esse ci può essere di scarso aiuto nel risolvere i concreti problemi etici di
fronte ai quali ci troviamo. Così, ad esempio, nessuna indagine empirica sulla
natura umana potrà riuscire a risolvere la questione se vanno considerati o
meno come omicidi alcuni casi controversi (per esempio l'aborto nelle prime
settimane dal concepimento, o alcuni casi di eutanasia volontaria). Inoltre
forse egualmente naturali e per così dire universali si presentano inclinazioni
all’aggressività e predisposizioni all’odio, al risentimento, e alla gelosia
che non risultano certamente giustificate per la loro diffusione e
riscontrabilità empirica. 3.6. L'appello a una ragione universale come via per
la fondazione dell'etica. Un'altra concezione epistemologica per l’etica è
quella che fonda le sue conclusioni non tanto genericamente sulla natura umana,
quanto più specificamente sulla ragione umana, ovvero su quello che è
considerato il tratto più peculiare degli uomini. Così larga parte del
giusnaturalismo del XVII secolo si presenta come un vero e proprio
giusrazionalismo. Grozio e Pufendorf si impegnarono, infatti, nel tentativo di
edificare il diritto, e più in generale l'etica come scienza razionale
dimostrativa. Questo stesso tentativo è presente anche accanto ad altre vie in
Locke. La possibilità di edificare la morale come scienza dimostrativa viene
fatta dipendere da Locke dalla natura del tutto artificiale delle principali
nozioni morali (come egli sostiene si tratta di «modi misti»), ciò che permette
dunque di stringere con un collegamento logicamente necessario tutti i giudizi
in cui ricorrono nozioni morali (Locke, 1971: 632-636). Ma questo rigore
dell’etica, questa sua struttura dimostrativa, e la sua completa dipendenza
dalla razionalità, è possibile solo in quanto si sono svuotate di qualsiasi
portata realistica le nozioni etiche ricavandole integralmente da convenzioni
linguistiche che permettono di dare vita a definizioni essenziali di tipo
arbitrario. In generale questa forma di razionali smo etico si unisce con una
qualche fondazione contrattualistica dei principi dell'etica nel senso di un
qualche accordo sulla definizione delle sue nozioni centrali. Ma la procedura
contrattualistica può fondare una validità solamente convenzionale ovvero
limitata a coloro che accettano di sottoscrivere il patto e dunque le basi
della conseguente scienza etica dimostrativa risultano del tutto esili (cfr. $
3.8). Il razionalismo seicentesco ha presentato anche tentativi di dare una
portata realistica alle conclusioni etiche scoperte mediante la ragione. Così
ad esempio in autori come Samuel Clarke e William Wollaston la ragione si
presenta come la facoltà che permette di scoprire la verità in etica. Questo è
possibile solo in quanto si ritiene che il bene e il male, il giusto e
l'ingiusto siano identificabili individuando quali sono le relazioni adeguate
alle cose in se stesse. Nel caso di Clarke il giusto non è altro che una
relazione di adeguatezza tra l’azione e lo stato delle cose; per Wollaston il
giusto non è altro che un collegamento veritativo tra l’azione e lo stato
complessivo delle cose (così come l’ingiusto è dichiarare, con la propria
azione, il falso). Ma questa prospettiva che riconduce il giusto e l’ingiusto a
un giudizio di adeguatezza o inadeguatezza tra le azioni e lo stato delle cose
comporta due assunzioni che saranno fortemente contestate nel pensiero
successivo. Da una parte la convinzione che gli esseri siano ordinati secondo
una gerarchia ben definita la grande catena degli esseri che distingue
nettamente tra livelli separati ontologicamente e forniti di valore diverso.
Solo sulla base di questa assunzione si può ad esempio, all’interno di questa
prospettiva, considerare inadeguata quella azione in cui l'animale sia
preferito a un essere umano, o un essere umano trattato in modo inadeguato al
suo status ontologico. Questa tesi della gerarchia tra gli esseri è contestata
decisamente da tutta la ricerca evoluzionistica del XIX e XX secolo, Non
necessariamente la scala evolutiva corrisponde a una scala di valore; non
mancano inoltre i casi di confine difficilmente decidibili; nulla vieta di
riconoscere valore anche agli esseri che si presume siano al fondo della scala
degli esseri. La seconda assunzione dei razionalisti realisti è che dare un
giudizio sulla giustezza o meno di un atto {o di un evento) si possa
identificare con l’individuare una qualche relazione tra le cose. Questa
pretesa è criticata e dissolta da Hume che mostra con chiarezza (Hume) come un giudizio
di relazione tra cose non possa in alcun modo esaurire lo spazio di un giudizio
morale. È infatti indubbio che relazioni dello stesso tipo di quelle in gioco
nell’incesto sono rintracciabili tra animali, o che tra le piante ritroviamo
collegamenti analoghi a quelli che si hanno nel parricidio, eppure non possiamo
certo concludere con un giudizio morale sulle «azioni» degli animali e delle
piante. La pretesa di ridurre i giudizi morali a formule matematiche o a
conclusioni razionali dimostrative risulta del tutto fallace. Un tentativo ma
in una forma del tutto diversa dalle precedenti di fondare l’etica sulla
ragione è stato anche quello di Kant e di coloro che ne riprendono il
razionalismo etico. In questo caso si sostiene che è la stessa ragione pratica
o volontà pura, in quanto tale, che implica certi principi morali che vanno
rispettati se si vuole dare coerenza alle nostre conclusioni etiche. Ciò che è
bene e ciò che è giusto può essere quindi individuato conformando la nostra
scelta e decisione alle presupposizioni che vincolano qualsiasi volontà umana
razionale. La razionalità pratica in quanto tale implica certi principi formali
che sono rispettati solo da coloro che compiono le azioni effetti vamente
giuste o ingiuste (Kant; Landucci). È questa la strategia fondazionale seguita
da Kant per ricavare le diverse formulazioni dell'imperativo categorico (si
veda $ 4.6) dalle regole trascendentali che presiedono alla volontà umana.
Critiche alla procedura epistemologica alla base dell'etica kantiana vengono
mosse su due piani. In primo luogo si obietta che la prospettiva kantiana in
realtà concepisce la volontà umana in termini sostantivi e dunque inttoduce fin
dall’inizio nelle sue analisi apparentemente formali e neutrali del volere
umano dei tratti che non possono che portare a un ben preciso esito morale. In
secondo luogo viene obiettato che un mero appello alla coerenza formale è del
tutto inefficace in etica perché alla costrizione in gioco nell’appello alla
coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi di considerare come effettivamente
insostenibile uno stato di incoerenza. In questa rivisitazione del razionalismo
etico faccio dunque mia la prospettiva critica che rileva che la ragione in
quanto tale può solo permetterci di trarre delle conclusioni che si esprimono
in quelle che chiameremo deduzioni o giudizi analitici. Ma se così stanno le
cose ciò che è eticamente rilevante o è già dato nelle premesse del nostro
discorso e allora occorrerà spostare la discussione su come sono state
costruite queste premesse o non potrà certo essere raggiunto ricorrendo al solo
aiuto della deduzione razionale. La razionalità e la ragione umana in quanto
tali non solo risultano eticamente vuote, ma se si guarda poi alla ragione come
facoltà intellettuale questa presenta l’insufficienza più generale, dal punto
di vista fondazionale, di portare a conclusioni © esiti che non risultano
direttamente motivanti. Scoprire che vi è una certa relazione tra le cose, o
che date certe premesse se ne ricavano per via analitica determinate
conclusioni è cosa ben diversa dall'essere mossi a fare ciò che è bene, giusto,
doveroso fare. La ragione può dunque solo aiutarci a identificare ulteriori
situazioni a cui estendere i nostri principi etici, una volta che noi già
abbiamo sulla base delle nostre sensazioni, emozioni e passioni discriminato
tra quello che approviamo 0 disapproviamo, apprezziamo o svalutiamo. Il
collegamento con la ragione umana concepita come la parte migliore e più alta,
quasi una patte divina, della natura umana è spesso sembrata la via maestra per
garantire alle conclusioni dell'etica sia una strategia peculiare sia una
superiorità rispetto a tutto il resto. Ma nel pensiero moderno e contemporaneo
la consapevolezza dell’autonomia della morale ha portato ad abbandonare questa
strada. Questa esigenza di riconoscere l'autonomia dell'etica veniva già
raccolta da Kant, sia pure in un quadro generalmente razionali. stico,
attraverso l'identificazione di una peculiare razionalità pratica. Ma altri
pensatori hanno preferito incamminarsi sulla strada di una derivazione
dell'etica e delle distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad doc del tutto
peculiare ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia ai vari sensi che
contribuiscono a dare agli uomini il bagaglio delle loro esperienze. La strada
dell'individuazione di una vera e propria facoltà ad hoc per la vita morale è
stata percorsa in modo sistematico e nel dettaglio da Hutcheson. Nei suoi
scritti infatti egli presenta articolatamente uno specifico «senso morale» che
permette di cogliere direttamente le distinzioni morali e che non è riducibile
né alle operazioni dell'intelletto, né agli altri sensi. La ricostruzione che
Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà del tutto peculiare che
permette di fondare oggettivamente le conclusioni etiche sembra giustificare
l'attribuzione a questo pensatore di una concezione intuizionistica (Norton,
1982). In definitiva il senso morale di Hutcheson è in grado di cogliere
direttamente delle vere e proprie qualità delle azioni e situazioni naturali da
giudicare, Hutcheson si impegna anche a ricostruire il modo in cui proprietà e
qualità etiche sono collegate necessariamente con le altre proprietà oggettive
e reali delle cose di cui abbiamo esperienza. Dunque in Hutcheson possiamo
trovare un quadro intuizionistico che vedremo ripreso, al di fuori di alcune
pretese sensistiche, nel secolo XX. Infatti intuizionisti come Sidgwick e Moore
{o in parte H. Prichard, A. Ewing e D. W. Ross; si veda Hudson, 1980: 74-104)
insisteranno nel trovare nel campo dell'etica la presenza di peculiari
proprietà non-naturali, ben distinte dalle qualità naturali ordinarie, che solo
una intuizione del tutto speciale può cogliere. La strategia di fondazione
propria dell’intuizionismo etico viene criticata in quanto perde di vista che
al centro dell'etica non c'è tanto la questione di riuscire a cogliere la
presenza di questa o quella proprietà non-naturale sia poi questa proprietà
considerata come sopravveniente o come una accanto a quelle naturali , quanto
piuttosto di essere motivati o sentirsi obbligati a fare certe cose considerate
buone, giuste o doverose. Naturalmente questa difficoltà può essere supetata
sostenendo che le proptietà nonnaturali con cui l'intuizione etica ci mette
direttamente in contatto si presentano come costitutivamente motivanti e
obbliganti. Ma un aggiustamento del genere non sembra nulla di più che uno
stratagemma convenzionalistico. Per ovviare a questa difficoltà è stata
elaborata una strategia già in parte riconoscibile secondo alcuni interpreti
negli scritti di Hutcheson che concepisce la facoltà in gioco nella conoscenza
morale non tanto come uno strumento intellettuale e conoscitivo di
registrazione e individuazione, quanto piuttosto come essa stessa emotiva o
sentimentale e dunque motivante e carica di energia attiva. In questa linea si
collocano tutte le analisi sviluppate a proposito dell'etica dai
sentimentalisti del Settecento come ad esempio Shaftesbury, Hume e Smith. Ma in
questa stessa direzione vanno le analisi di coloro che nel XX secolo sostengono
(come è il caso di David Wiggins, 1987 e John McDowell, 1981) sia
rintracciabile nell’etica una peculiare sensibilità che risponde appunto con
una qualificazione di valore a certe azioni o situazioni. La strategia epistemologica
del sentimentalismo sembra però fuoriuscire dal quadro fondazionale e muoversi
piuttosto in quell'orizzonte più moderatamente giustificativo 0 esplicativo di
cui renderemo conto nelle successive sezioni di questo paragrafo. Infatti
questa sensibilità peculiarmente morale si presenta come qualcosa che va
ricostruita e delineata nella sua specificità attraverso un esame a posteriori
degli esseri umani. L'appello poi a questa base di giustificazione non permette
certo di edificare giudizi etici forniti di quei caratteri di necessità e
universalità definitiva a cui tendono invece coloro che si muovono in un
orizzonte fondazionale. Rifiutando la strada di una fondazione assoluta e
aprioristica dell'etica vi sono alcune concezioni che considerano le opzioni
etiche come esiti a cui si può arrivare dopo avere seguito una determinata
procedura razionale. Percorrono questa strada quei pensatori che sul piano
meta-etico considerano l'etica € la morale come un universo di principi e norme
frutto di decisioni 0 scelte individuali e intersoggettive. Questa linea di
giustificazione è propria ad esempio del contrattualismo etico. Il
contrattualismo è stato inizialmente presentato specialmente nel XVII e XVIII
secolo da pensatori come Hobbes, Locke, J. J. Rousseau e Kant come una teoria
mediante la quale rendere conto della genesi della società civile e delle
istituzioni politiche (Gough). Ma il ricorso a qualche forma di contratto è
stato spesso presentato anche come una procedura in grado di dirimere in
generale i disaccordi pubblici su tutti.i tipi di distinzioni etiche. In
particolare nel XX secolo il contrattualismo è stato ripreso e sviluppato, ad
esempio da Rawls e Gauthier, come la teoria etica e la procedura di
giustificazione di regole e principi capaci di impostare meglio le questioni di
giustizia sociale. In questa sede ci limitiamo a presentare sinteticamente le
concezioni di Hobbes e di Rawls viste come due forme tipiche di tentativi di
derivare la giustificazione delle conclusioni etiche da procedure contrattuali.
In realtà il contrattualismo si lega strettamente alle forme di giustificazione
prudenziale di cui abbiamo dato conto nel paragrafo 3.3. Le differenze che qui
richiameremo non riguardano il tipo di ragionamento in genere appunto
prudenziale che porta ad accettare il contratto come una procedura idonea per
risolvere i contrasti etici. Le differenze concemono piuttosto il contesto in
cui la procedura contrattuale interviene, le sue implicazioni e le conseguenze
che se ne ricavano per quanto riguarda il carattere vincolante degli esiti. Nel
caso di Hobbes il ricorso a una procedura contrattuale in etica si sviluppa
dopo la presa d’atto dell’impossibilità di trovare una fondazione del bene e
del giusto in termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle «
passioni individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non
permette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti che è
propria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene, male, giusto e
ingiusto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno stato di pace e
convergere su qualche bene considerato comune (che certo comunque non potrà
essere trattato come un bene assoluto) bisognerà limitare la completa
discrezionalità naturale concordando sull’accettazione di una procedura che
permetta di realizzare patti condivisi. Secondo Hobbes, dunque, solo un
contratto è in grado di vincolare i singoli individui all'accettazione di
principi etici che non siano direttamente riconducibili agli interessi egoistici
di qualcuno. Nel fare ricorso al contratto come risolutivo Hobbes delineava
tutta una serie di condizioni che presiedono alla sua genesi e alla sua
efficacia. Da una parte il contratto incorporava tutta una serie di principi
secondo Hobbes le «leggi naturali» che venivano considerati giustificati
razionalmente, in linea esclusivamente strumentale, come mezzi idonei alla
conservazione in vita dei contraenti e al mantenimento della pace tra loro.
Dall'altra parte la necessità di rendere vincolanti gli equilibri che vengono
identificati mediante la procedura di contrattazione porta a un completo
trasferimento della forza coercitiva a un potere che in nome della sua funzione
di garantire il rispetto del contratto non è sottoposto ad alcun limite. Anche
questa è una conseguenza derivante dalle assunzioni generali di Hobbes che vede
appunto gli esseri umani come del tutto egoisti e mossi da un irrefrenabile
impulso possessivo in una condizione di scarsità di beni. Infine va rilevato
che laddove in Hobbes il potere non può avere limiti esterni, esso ha un ampio
limite interno. Ciò dipende dalla convinzione di Hobbes che leggi
contrattualmente definite possono valere solo per i corpi di coloro che
stipulano il patto, mentre sentimenti, emozioni e pensieri sono al di fuori
della portata dell’applicazione di principi e regole create con la procedura
condivisa. AI modello di contrattualismo hobbesiano sono state mosse numerose
critiche. In particolare è la sua peculiare derivazione artificialistica dei
principi etici ad essere oggetto di diverse obiezioni. La prima linea di
obiezioni viene da coloro che ritengono necessaria una fondazione assoluta
dell'etica e che rilevano la parzialità e la limitazione di una derivazione da
un qualche contratto di regole e principi etici. Le leggi concordate mediante
il patto possono valere solo quando si è sotto il controllo di un potere totale
e completo come quello appunto ipotizzato nel Leviafazo di Hobbes, ma non
riusciamo così ad escludere defezioni quando il potere è inefficace. Hobbes
sembra tentare una risposta a queste critiche quando ammette la validità delle
leggi naturali anche «in foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda
Warrender, 1974), ma risulta difficile capire qual è la base di obbligatorietà
in questo caso delle leggi naturali. Una seconda linea di obiezioni viene da
quei pensatori che come ad esempio Hume pur condividendo una spiegazione
artificiale della genesi di principi e regole etiche, prendono poi le distanze
da Hobbes e dal suo contrattualismo per il particolare tipo di artificialismo
razionalistico in gioco. L’obiezione in questo caso è che il «costruttivismo
razionalistico» hobbesiano il considerate cioè i principi etici come il frutto
di una scelta consapevole di una serie di individui razionali risulta del tutto
inadeguato quando si tratta di rendere conto della genesi di regole e principi
etici. Vedremo nelle ultime due sezioni di questo paragrafo în che senso il
convenzionalismo etico di Hume presentava un modello artificialistico di
spiegazione dell'etica del tutto alternativo rispetto a quello di Hobbes. Un
altro modello di giustificazione procedurale dell'etica è quello presentato nel
modo più sistematico ed argomentato da Rawls. Si tratta di un modello che viene
ora abitualmente chiamato «contrattualismo ideale» per distinguerlo da quello
di Hobbes e da quello detto «contrattualismo reale» sviluppato da Gauthier, Il
modello epistemologico del «contrattualismo ideale» sostiene pur sempre che i
principi giusti dell'etica possano essere individuati attraverso accordi, ma
poi fa valere tutta una serie di vincoli relativamente alla procedura
considerata idonea per realizzare accordi equi. Rawls delinea tale procedura
come una «posizione originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli
individui che entrano nella posizione originaria da cui si scelgono i principi
di giustizia vanno considerati come individui rappresentativi e non già come
singoli individui concreti. In secondo luogo, gli individui rappresentativi
scelgono tra le diverse opzioni a loro aperte in una condizione caratterizzata
da «un velo d’ignoranza», ovvero si immagina che gli individui nella posizione
originaria non debbano sapere quale sarà la loro condizione effettiva e il loro
status concreto nella società. Infine Rawls ritiene che le scelte nella
posizione originaria debbano essere ispirate da un principio generale, che egli
chiama del maxinmin, secondo il quale si debba sempre preferire
quell’alternativa che permette di massimizzare le esigenze degli individui
rappresentativi dello stato peggiore. La linea argomentativa di Rawls in realtà
non si presenta come un tentativo di giustificare o fondare il nucleo centrale
dell'etica, ma piuttosto come un tentativo di decisione o risoluzione dei
conflitti una volta assunta una determinata definizione della morale. Troviamo
che fin dalla delineazione della «posizione originaria» sono presenti alcune
opzioni morali sostantive che vengono incorporate nella procedura prevista per
l'individuazione dei principi di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin
dall’inizio che le soluzioni da preferire saranno quelle più imparziali ed
eque. Rawls non spende nemmeno un’argomentazione a giustificare queste opzioni
di fondo che sono costitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls
si preoccupa principalmente di questioni di giustizia sociale o di
distribuzione delle risorse, troviamo che egli fa valere il citato criterio di
waxiziz. Contro questo criterio numerosi studiosi di etica (ad esempio
Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiettato che esso ha delle conseguenze
controintuitive. Infatti il criterio del maximin ci costringe a preferire
sempre e comunque quel corso di azione che può migliorare sia pure di
pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza minimamente tenere conto di
quanto questo corso d'azione peggiori le condizioni di tutti gli altri o senza
minimamente instaurare un confronto tra i diversi corsi d'azione possibili ad
esempio sulla base della probabilità effettiva che si realizzi ciascuno di
essi, Dunque la procedura epistemologica a cui si richiama Rawls, ben lungi dal
giustificare le opzioni etiche, in realtà dà già per acquisita la natura
dell'etica e il suo ambito. Del resto questo è ampiamente ammesso dallo stesso
Rawls che ha riconosciuto che la sua ricostruzione della natura dell’etica è
adeguata a rendere conto delle intuizioni morali di un cittadino di una società
caratterizata, come quella statunitense, dalle istituzioni
liberal-democratiche. Spiega Rawls che la sua etica è tale da non avere una
portata metafisica, ma che si presenta come prevalentemente rivolta a rendere
conto di un ben preciso contesto storico e dunque politico (Rawls, 1994:
155-182). La procedura giustificativa delineata da Rawls può dunque operare
solo presupponendo una serie di intuizioni o credenze morali già date. La linea
argomentativa del contrattualismo ideale è rivolta ad ottenere un risultato che
Rawls stesso presenta come una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre
intuizioni di partenza e i risultati più equi e giusti raggiunti attraverso una
correzione delle distorsioni e parzialità di tali intuizioni. Caratteristico di
questo modello è la caduta della pretesa di una fondazione assoluta e compiuta
dei principi etici. Il contrattualismo ideale di Rawls in definitiva riesce a
generare accordi solo in quanto parte già da un accordo dato in partenza tra
tutti i membri della stessa società. Nulla può essere fatto per convincere ad
accettare l'etica da parte di coloro che non sono già cittadini della stessa
società ideale che condivide il contratto. Laddove la posizione hobbesiana
sembrava incapace di generare accordi se non presupponendo il ricorso a uno
strumento extra-teorico quale la forza; la posizione di Rawls è sterile perché
si limita a ricostruire il modo in cui già di fatto si realizzano accordi,
nelle società liberal-democratiche, tra coloro che accettano politiche
progressiste e nulla dice per dirimere i contrasti tra individui
rappresentativi di società profondamente diverse (quali, poniamo, quelle del
mondo occidentale e quelle dei paesi dell’Africa o dell'Asia). La procedura
contrattualista di giustificazione etica ha sicuramente un ampio spazio laddove
contrasti e conflitti sorgano tra individui già vincolati a un certo patto e
all’accettazione di una certa procedura per dirimere i contrasti. Ma poco o
nulla può offrire laddove si affrontino le questioni più sostanziali: da una
parte di come giustificare la scelta di avere un contratto da rispettare in
luogo di non avere nessuna forma di contratto; dall'altra di come giustificare
l'opzione di continuare a rispettare il contratto, in luogo di defezionare,
anche quando ciò danneggia i nostri interessi personali. 3.9. Il
non-cognitivismo e la giustificazione logico-argomentativa del punto di vista
etico. Una teoria della giustificazione © argomentazione etica è stata messa a
punto anche dai teorici del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6). Laddove gli
emotivisti consideravano del tutto fallace la convinzione che si potesse avere
una reale discussione su questioni etiche, i teorici del non-coBnitivismo
trovano possibile indicare una serie di procedure come peculiari del
ragionamento etico. Vale la pena di fermarsi brevemente sulle differenze
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 56 ETICA sul piano della giustificazione e
dell’argomentazione, dunque sul piano epistemologico, tra le posizioni degli
emotivisti e quelle dei non-cognitivisti. Infatti lo sviluppo di questa
differenza rappresenta una delle vicende centrali dell'etica del XX secolo che
viene completamente trascurata da quanti come ad esempio A. MacIntyre
(MacIntyre, 1988) assimilano rigidamente emotivismo e non-cognitivismo, Nel
caso degli emotivisti occorre distinguere tra le posizioni di Ayer e di
Stevenson. È appunto nelle pagine di Ayer (Ayer, 1961) che troviamo la
posizione più radicale che ritiene che l’unico punto di dibattito effettivo in
una discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come
sono andate le cose e, per il resto, sia da considerare comeeffettivo in una
discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono
andate le cose e, per il resto, sia da considerare come del tutto illusoria la
pretesa di aprire una qualche discussione criticamente valutabile sulla
rilevanza etica di ciò che è accaduto, In definitiva connotando eticamente
qualcosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e,
come è noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson
(Stevenson, 1962; cfr. qudo eticamente qualcosa ciascuno esprime solo i propri
gusti morali del tutto personali e, come è noto, sui gusti non si può certo
disputare. La posizione di Stevenson (Stevenson, 1962; cfr. qui sopra $ 2.6) è
meno riduttiva, ma finisce con il sostenere che tutto ciò che possiamo fare da
un punto di vista argomentativo o epistemologico in morale è divenire
pienamente consapevoli del come usare nel modo appropriato, come un potere
causale, la forza emotiva presente nelle nozioni etiche, vuoi per persuadere
altri ad accettare i nostri standards, vuoi impedendo che altri ci persuada con
il mero ricorso a delle definizioni persuasive, Ma non resta nessuna
possibilità pet discutere in una qualche forma argomentativa l'appropriatezza
etica di un determinato giudizio morale. Laddove consideriamo l’etica come un
linguaggio emotivo sia pure, come fa Stevenson, come un linguaggio guidato da
regole nel suo uso tutto ciò che possiamo fare sul piano epistemologico è
richiamare l’attenzione sulla presenza di tecniche di persuasione che possono
essere utilizzate sia da una persona che voglia fare passare dei valori giusti,
sia da chi invece voglia imporre dei valori ingiusti, L'argomentazione etica,
così come ce la presenta Stevenson con il suo emotivismo moderato, non ci
permette di discriminare tra questi valori, ma solo di sostenerli nel modo
migliore ed egli quindi riconosce in questo campo solo uno spazio per procedure
di tipo retorico o propagandistico. Nel caso invece del non-cognitivismo, come
sostenuto ad esempio da Hare (Hare, 1971 e 1989), troviamo l'impegno a
elaborare un'epistemologia per l’etica che fornisca criteri di discussione e
critica anche per il nucleo peculiare di valori che è in gioco nel discorso
morale. Come si è già spiegato (cfr. sopra, $ 2.6) secondo questa concezione
meta-etica la morale è costituita di prescrizioni universalizzabili
soverchianti. Partendo da questa caratterizzazione della natura della morale un
non-cognitivista ha di fronte a sé due problemi distinti. Si tratta, in primo
luogo, di esaminare se vi sono vie argomentative per convincere razionalmente a
farsi guidare nelle proprie azioni da una morale così intesa chi non la vuole
fare propria preferendo un completo amoralismo. In secondo luogo si tratta di
delineare quali procedure argomentative sono disponibili per sottoporre a
controllo le diverse opzioni mortali possibili al fine di individuare, per la
situazione in cui ci troviamo, quale è la migliore prescrizione
universalizzabile soverchiante. Esponiamo qui di seguito le due diverse
strategie argomentative così come vengono delineate da Hare. Per quanto riguarda
il livello di discussione che si apre nei confronti di chi non intende in alcun
modo ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo non c'è molto da fare.
Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a usare il linguaggio della
morale; si può solo, una volta che egli lo usi, mostrare che lo ha usato in
modo inadeguato rispetto alle regole che ne governano l'uso. Hare dunque sembra
voler fissare come limite invalicabile per l’argomentazione morale il confine
al di lì del quale si collocano tutti coloro che non fanno in alcun modo uso
del linguaggio morale. Nei confronti di costoro si potrà fare qualcosa solo
collocandosi da un punto di vista non strettamente argomentativo. L'educazione
e l’uso della forza sono due diverse strategie cui si ricorre per far si che le
persone facciano propria la forma di vita che include la morale. All’interno
della prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece argomentare contro chi
pretende di formulare giudizi morali ed invece in realtà non rispetta le condizioni
logiche necessarie perché un proferimento faccia parte del linguaggio etico.
Come sappiamo un'espressione linguistica farà parte del discorso morale solo in
quanto si presenta come una prescrizione universalizzabile soverchiante.
Possiamo identificare con chiarezza coloro che pretendono di dare una portata
morale alle loro affermazioni, ma compiono degli errori logici (oltre che
morali}. Le analisi di Hare sono rivolte a delineare il tipo di argomentazione
che può essere sviluppata contro il più comune errore nell'uso del linguaggio
morale, quello proptio dei fanatici morali. Le posizioni dei fanatici morali
nascono in quanto si prescrivono dei principi che non vengono fatti valere come
la loro natura di principi morali esigerebbe in modo analogo per tutte le
situazioni simili indipendentemente dal posto occupato da coloro che sono
coinvolti. Un tentativo, coerente con la concezione della morale propria del
non-cognitivismo, può essere fatto per contrastare il fanatismo morale ad
esempio nella forma più ricorrente che è quella del razzista (Hare, 1971; ma
Hare più recentemente ha trattato anche del caso di un medico che in nome dei
suoi doveri professionali fa proprio l’accanimento terapeutico: Hare). Si
tratta di chiedere al fanatico di immaginarsi in una situazione in cui egli
occupa il posto di colui nei confronti del quale egli vuole fare valere in modo
diseriminante i suoi pretesi principi morali. Che cosa fa il razzista
anti-semita quando una nuova informazione fornisce le prove che lui stesso è di
origine ebraica? Il non-cognitivista può con. siderare l'articolazione di un
esperimento mentale del genere come un’estensione epistemologica della sua
concezione meta-etica. Si badi infine che l’argomentazione propria dell'etica
che viene individuata muovendo dalla concezione della natura dei giudizi morali
avanzata da Hare non si limita come nel caso del formalismo kantiano ad
avanzare la richiesta di una mera coerenza formale, ma enuncia un requisito
contenutistico. In linea del tutto pregiudiziale un giudizio potrà essere
incluso nell'universo dei giudizi propri del discorso morale solo se prescrive
un qualche principio che si è pronti a far valere in modo analogo per tutti i
casi simili indipendentemente dalla propria collocazione nelle situazioni
investite. Lavorando su questa condizione epistemologica della concezione che
vede la morale come insieme di prescrizioni universalizzabili soverchianti, più
recentemente Hare ha elaborato ulteriori passaggi critici a cui sottoporre le
prese di posizione etiche. Nello sviluppare queste implicazioni epistemologiche
si è incamminato lungo una linea che giunge a presentare come adeguate su basi
sostantive quelle conclusioni che vengono ricavate dall’utilitarismo dell’atto.
In quanto ci troviamo di fronte ad un’argomentazione che ricava da una
meta-etica una ben precisa etica normativa, ce ne occuperemo in un prossimo
paragrafo. Dalla giustificazione allo spiegazione dell'etica. Proprio nel
nostro secolo la riflessione filosofica sull'etica ha elaborato una serie di
analisi conseguenti a un radicale mutamento di approccio. L'effetto di questo
cambiamento è che anche per quanto riguarda le procedure argomentative in uso
in morale l’obiettivo cui si tende è di ricostruirne il complesso delineando
anche il contesto in cui si sono formate. Con questo approccio non ci si
propone dunque di fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al meglio
strutture argomentative, quanto piuttosto di presentare spiegazioni complessive
rivolte a comprendere qual è il posto che l’etica occupa nella nostra vita. In
definitiva è la prospettiva che Hume aveva sviluppato nella sua scienza della
natura umana che viene recuperata, tradotta nel linguaggio del nostro secolo e
resa più rigorosa e determinata. L'etica viene così considerata come un presupposto
della nostra forma di vita che non tanto va giustificato o fondato quanto
piuttosto spiegato nella sua concretezza. Si tratta dunque di un programma
esplicativo che considera l'etica e le sue distinzioni come costitutive della
nostra esperienza del mondo, con un approccio in parte analogo a quello
kantiano impegnato a identificare le forme generali della nostra esperienza. Ma
questo approccio esplicativo non percorre poi la linea aprioristica kantiana
dell'analisi trascendentale, proponendosi piuttosto di avanzare ipotesi
empiriche sulla natura dell'etica e le forme di argomentazione in essa correnti
(Preti, 1986). ; Questo tipo di ricerca ha avuto nel nostro secolo una notevole
espansione parallelamente al tentativo della filosofia di trasferirsi dal piano
fondazionale a quello esplicativo (cfr. Gargani, 1975 e Nozick, 1987). Una
prima differenza tracciabile in questa linea filosofica, come si è detto, è
relativa al tipo di spiegazioni, ovvero alla natura logica delle
presupposizioni a cui ci si richiama, caratterizzate o in una direzione
trascendentale oppure come ipotesi empiriche. Su basi kantiane un tentativo di
spiegare l'etica è presente nelle analisi di Putnam. La tendenza a esprimere
giudizi morali è secondo Putnam un modo del tutto aprioristico e comune al
genere umano di categorizzare; in modo analogo va spiegata la stessa
predilezione sostantiva per certi contenuti (benevolenza, giustizia ecc.).
Invece sul piano empirico si trovano, tra le altre, le seguenti spiegazioni
della morale. Da una parte abbiamo una concezione come quella di Mackie che
ritiene che l'etica sia una produzione artificiale della cultura umana con cui
gli vomini cercano di fare affermazioni su specifiche proprietà del mondo,
ovvero i valori o le qualità etiche; ma queste affermazioni sono tutte false in
quanto tali proprietà non sussistono realmente. Dall'altra abbiamo le posizioni
proiezioniste, quale ad esempio quella di Blackburn, secondo le quali invece si
guarda all’etica come un prodotto della nostra cultura che ci consente di fare
riferimento a qualità o proprietà quasi reali (le proprietà morali) che noi
abbiamo proiettato sulle cose e sul mondo. Sono ancora da ricordare le analisi
sensiste di Wiggins e McDowell i quali ritengono viceversa che si debba considerare
l’etica come il campo che gli esseri umani costituiscono in quanto forniti di
un peculiare senso o sentimento che li mette in grado di cogliere delle
proprietà nel mondo (appunto ciò che rende moralmente rilevante una qualche
situazione) che hanno poi su di essi una forza motivante e vincolante. Infine
in un contesto più evoluzionistico Gibbard indica nella morale un insieme di
norme che gli uomini anno elaborato nel corso di una loro attività peculiare
che li muove a discutere pubblicamente sul come condurre le loro vite e come
sentire a proposito delle scelte fatte nel corso delle loro vite. Tutti questi
diversi modelli esplicativi dell'etica e della sua genesi come si può vedere ne
rendono conto in ter. mini universalistici; l'etica si presenta cioè come
un'istituzione del genere umano che include al suo interno il ricorso a
procedure pubbliche pet controllare la validità delle opzioni privilegiate.
Larga parte di queste concezioni esplicative sono rivolte a trovare una
collocazione per la credenza che il controllo fattuale giochi un ruolo
importante nella discussione etica. Una credenza del genere sussiste anche se i
fatti morali non esistono, 0 sono solo delle nostre proiezioni o tali che noi
li cogliamo perché forniti di una peculiare attrezzatura percettiva. In questo
secolo un ampio dibattito si è sviluppato intorno a due nuclei problematici
centrali per chiunque si ponga l’obiettivo di una fondazione o giustificazione
di conclusioni etiche. In primo luogo hanno avuto un’ampia diffusione le
discussioni relative alla cosiddetta «legge di Hume» che coinvolgono tutti i
tentativi di fondare una conclusione etica su basi scientifiche, osservative o
empiriche. Il punto di partenza per questa linea di riflessione viene indicato
in un passo del Treazise di Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il cosiddetto
«is-ought paragraph», in cui si richiama l’attenzione sulla differenza tra
proposizioni in cui è presente la copula è {:5) e quelle in cui compare la
nozione deve (ough)). A questo passo si sono richiamati tutti coloro che hanno
criticato come logicamente inaccettabile la derivazione di una conclusione
normativa, e in generale etica, da premesse descrittive, assertive o in
generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969; Carcaterra; Oppenheim; Scarpelli;
Celano). Sul piano storico occorre precisare che è molto probabile che Hume non
fosse direttamente impegnato a formulare un vero e proprio principio logico
relativo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto piuttosto a segnare
con precisione la «grande divisione» concettuale tra conclusioni con l'è e
quelle con il deve. Importa però qui richiamare che nel XX secolo invece si fa
rilevare che proprio da un punto di vista strettamente logico-formale e
sintattico si deve ritenere del tutto scorretto qualsiasi ragionamento o
argomentazione che pretenda di ricavare una decisione, una scelta o un giudizio
etico da considerazioni che riguardano lo stato dei fatti o delle cose. Questa
posizione è stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo con
articolazioni lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva con
decisione sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra conclusioni
avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e decisioni o
assunzioni di responsabilità intorno a ciò che si deve fare (Weber, 1958;
Rossi, L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61 1971: 249-315; Hennis, 1991). Partendo
dalla stessa tesi della inderivabilità dei valori o doveri dai fatti si sono
rifiutate numerose concezioni spesso accusate di essere cadute nella «fallacia
naturalistica» (Moore). Così da una patte vengono denunciate come frutto di un
errore logico tutte quelle posizioni riduzionistiche o conformistiche che
concludono che ciò che si deve fare è o ciò che è naturale per l'uomo o ciò che
è già indicato dai valori accettati più o meno diffusamente nella società. Non
diversamente viene considerata fallace quella specie di argomentazione etica
propria dell'approccio consequenzialista che considera come completamente
risolvibile un qualche problema morale ricostruendo con precisione ammesso che
tra l'altro questo sia fattibile quali sono le conseguenze delle diverse
opzioni tra cui dobbiamo scegliere. In realtà sapere con precisione quali sono
le conseguenze delle alternative che ci sono davanti non basta per ricavare una
conclusione su ciò che dobbiamo fare perché una tale previsione se attendibile
ci dirà solo ciò che ci sarà nel futuro, ma nulla ci dice sul punto se certe
conseguenze che ci saranno vanno poi preferite o meno ad altre e dunque
approvate o disapprovate. Tra l’altro era proprio questa l’argomentazione che
faceva valere Hume nella sua Exquiry concerning the Principles of Morals
(Ricerca concernente i principi della morale; Hume) contro i tentativi di
derivare le distinzioni etiche dal principio di utilità. Contro l’uso di questa
critica come ghigliottina decisiva per numerose concezioni etiche si sono
schierati quei pensatori particolarmente numerosi nell'ultirna parte del XX
secolo che hanno negato che si potesse nettamente distinguere un piano di
descrizioni neutrali del mondo da un piano di opzioni valutative su di esso.
Questo tentativo di superamento del quadro concettuale che sorregge la
cosiddetta «legge di Hume» è stato principal mente rivolto a contestare la
concezione della scienza dei neopositivisti che sembra sorreggere una forte
divaricazione tra fatti e valori, essere e dovere. Questa divaricazione è stata
criticata e giudicata superata da numerosi pensatori pragmatisti, tra i quali
in particolare Putnam. In secondo luogo indubbiamente rilevante per il problema
della fondazione e della giustificazione dell’etica è tutto il dibattito
specialmente vivo nella seconda metà del XX secolo relativo alla possibilità di
costruire una logica delle norme. Collocandosi dunque sul piano della ricerca
di una sintassi di un discorso etico che voglia fare valere al suo interno
principi di coerenza e non-contraddizione è stata contestata la stessa
possibilità di enunciare una logica delle norme. Una posizione del genere è
presente nelle conclusioni a cui era giunto H. Kelsen nell'ultima parte della
sua vita (Kelsen, 1985). Rilevando che le norme sono, dal punto di vista del
significato, dei comandi, e che dunque come tali non possono essere valutati in
termini di verità e falsità, Kelsen negava che si potesse costruire un
sillogismo logico in cui premesse e conclusioni fossero degli asserti
normativi. Le implicazioni della sintassi logica possono valere solo in
presenza di proposizioni empiriche o asserzioni scienrifiche, ovvero laddove
premesse e conclusioni si collocano sul piano della verità e dunque da premesse
vere (o false) si traggono conclusioni vere (o false). Ma un enunciato
normativo non è in alcun modo vero 0 falso e dunque non può funzionare da
premessa di nessuna conclusione logicamente derivata, Così se presentiamo nella
premessa maggiore un enunciato normativo di caratrere universale, laddove nella
premessa minore troviamo l'individuazione di una fattispecie rilevante sulla
base della norma generale enunciata nella premessa maggiore, secondo Kelsen non
siamo autorizzati a presentare come una conclusione logicamente necessaria una
qualche azione o omissione {con relativa sanzione). Coloro che contestano la
possibilità di una logica delle norme obiettano infatti che comunque il
linguaggio normativo esige sempre che ci sia un qualche comando effettivo
ripetuto subito prima del compimento di qualsiasi azione. Sia le «legge di
Hume» sia le obiezioni alla possibilità di elaborare una «logica delle norme»
risultano particolarmente rilevanti nei confronti di chi si muove all’interno
di un contesto fondazionale e pretende dunque di dare una qualche fondazione
assoluta o conclusiva dell'etica. Ma se ci collochiamo sul piano
dell’argomentazione o della giustificazione (per non dire del piano della
spiegazione delle procedure effettivamente adottate) le cose risultano più
complesse. Per quanto riguarda, ad esempio, la cosiddetta «legge di Hume»,
sembra difficile non ammettere l'efficacia di quelle critiche rivolte al
tentativo di ricavare le proprie conclusioni etiche semplicemente da una
ricostruzione dei fatti in gioco, o da una mera raccolta di informazioni, o
dall’accumulo di una congerie più o meno estesa di previsioni. Dovrà introdursi
prima o poi la nostra preferenza per un qualche principio da fare valere in
modo analogo in tutte le situazioni simili, una preferenza che sia radicata
nelle nostre emozioni e che siamo pronti a mettere in pratica quando starà a
noi agire facendola prevalere su nostre opzioni non strettamente etiche. Questa
ammissione di una qualche frattura, divisione o salto tra il piano delle
ricostruzioni empiriche della situazione e quello di una valutazione e
conseguente decisione delle diverse opzioni che ci stanno di fronte non deve
essere spinto però fino ad esiti eccessivi. Così risulterà insostenibile sul
piano metodologico una ricostruzione della natura dell’indagine empirica e
scientifica che non tenga conto di quanto le nostre osservazioni e le nostre
esperienze siano dipendenti dalle teorie, ipotesi e opzioni (anche valutative)
da cui muoviamo. Né sarà accettabile un divisionismo spinto fino all’estremo di
non riconoscere la rilevanza in un certo senso come condizione necessaria anche
se non sufficiente di un’argomentazione etica dell'impegno sia a verificare
come stanno realmente le cose nella situazione in esame, sia a immaginare quali
conseguenze seguiranno una volta incamminatici lungo l’uno o l’altro corso di
azione. Non diversamente a proposito della questione della possibilità di
costruire una logica delle norme è difficile negare la nostra capacità sia di
squalificare certe prese di posizione etiche perché in contraddizione con
principi già assunti, sia di estendere i nostri principi a situazioni nuove
sulla base della tesi logica che esse sono del tutto simili a quelle che
abbiamo già giudicato. È probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un
livello che non è esattamente quello della sintassi logico-formale, ma
piuttosto come ha suggerito Nowell-Smith delle implicazioni di una logica
pragmatica che dà vita a una valutazione dei giudizi in gioco in termini di
stranezza logica. Ma la rilevanza e la portata di strategie di tipo sintattico
o logico resta innegabile se si abbandona la pretesa di muoversi sul piano di
un'etica dimostrata in modo assiomatico e geometrico. Va, infine, sottolineato
che malgrado le obiezioni di fondo dei puristi della logica larga estensione
hanno avuto nella seconda metà del XX secolo i tentativi di elaborare
simbolismi e formalismi idonei al trattamento di norme. Ben al di là dei
tentativi o delle enunciazioni di principio si sono spinti tutti coloro da
Wright a Alchourron e Bulygin che si sono impegnati a elaborare la logica
deontica e la logica delle norme. I risultati raggiunti con tutta la loro
complessa articolazione mostrano la fertilità di un tentativo di dare vita a un
trattamento simbolico della sintassi delle norme e di inserire in un contesto
logico le relazioni tra obbligazioni etiche. Difficile peraltro che tali
modelli di linguaggi perfetti o ideali per le norme o le valutazioni etiche
possano essere di aiuto per ciascuno di noi quando, nella vita comune, siamo
alle prese con i nostri problemi etici concreti. Tali linguaggi invece
illuminano certamente il lavoro di giuristi, politici, scienziati sociali
impegnati nel mettere a punto sistemi di norme più o meno stabili, efficienti,
chiari e comprensibili da tutti coloro per cui tali norme debbono valere. 4. Le
etiche normative: concezioni in contrasto. 4.1. Eriche conseguenzialiste e
deontologiche: principi, mezzi e fini nell'etica. Quando si tratta di
classificare le diverse concezioni etiche possiamo ricorrere a differenti
criteri formali che si intersecano. È quanto faremo n questo paragrafo,
esponendo le differenti concezioni normative esistenti usando diverse strategie
di classificazione. In primo luogo distingueremo le etiche normative in
generale sulla base di una loro struttura di fondo che col. lega la valutazione
etica 0 a un riferimento a principi 0 a una considerazione delle conseguenze.
Renderemo così conto della differenza tra etiche deontologiche o tuotanti
intorno a principi ed etiche teleologiche o rivolte principalmente alle
conseguenze, e accenneremo anche ad alcuni tentativi di elaborare etiche miste.
Passeremo poi a rendere conto delle diverse etiche normative classificandole sulla
base di un diverso criterio formale che ritiene essenziale la distinzione tra
etiche che fanno uso di una nozione di valore intrinseco, in quanto
contrapposta a quella di valore estrinseco, ed etiche che invece rifiutano tale
distinzione. Esamineremo, infine, alcune concezioni normative che
identifichiamo come le più diffuse e vitali nelle discussioni di etica teorica
nel secolo XX. Ovviamente di pari passo con l’esposizione cercheremo sia di
fornire le ragioni delle inclusioni ed esclusioni nella lista, sia della nostra
preferenza critica per una di queste etiche. Un modo ricorrente per distinguere
tra le diverse concezioni normative è dunque quello che contrappone l’etica che
ruota intorno a un appello ai principi a quella che tiene piuttosto conto delle
conseguenze dell’azione. Si tratta di una distinzione che è centrale, ad
esempio, nella riflessione di Max Weber, che però se ne è valso non tanto per
distinguere due tipi diversi di etica quanto piuttosto per richiamare
l'attenzione su due piani diversi della vita etica: quello proprio del
moralista che fa appunto appello alla rilevanza dei principi e quello di chi
come il politico o chi sia comunque impegnato in una dimensione tecnico-pratica
invece, muovendosi nel quadro di un'etica della responsabilità, deve badare
principalmente alle conseguenze dei diversi corsi di azione in cui si impegna
(Weber, 1966). Dietro queste due diverse strategie possiamo anche ritrovare
come subito vedremo un diverso modo di considerare il rapporto mezzi-fini nella
vita pratica. Sono state presentate concezioni deontologiche dell'etica
diversamente strutturate. Avremo così diversi tipi di etiche dei principi a
seconda che pongano al loro centro uno o più principi, e a seconda che
concepiscano tali principi o come assoluti e aprioristici o come ricavati
dall'esperienza e in generale rivedibili. È così chiaro che l'etica kantiana si
presenta come un'etica deontologica che ruota intorno a un solo principio di
fondo, assoluto e a priori, dato dall'imperativo categorico, e le diverse
formulazioni offerte, dell'imperativo categorico, non presentano in realtà
principi diversi (Kant, 1970a). Nel caso di alcune etiche del comando divino
(come ad esempio l’etica cristiana o cartolica) vi è invece una tendenza a
presentare come costitutivi della vita morale diversi principi tutti assoluti
(i vari comandamenti divini o le norme che costituiscono la legge naturale).
Un'etica deontologica pluralista si trova di fronte al problema (quasi mai
invece affrontato esplicitamente in queste etiche) della necessità di disporre
di un criterio chiaro per ordinare i diversi principi e risolvere quei casi in
cui più principi assoluti entrano tra di loro in conflitto. Ma una concezione
etica deontologica non è logicamente costretta a considerare i principi al
centro della vita morale come assoluti, immutabili e di derivazione non
empirica. Non mancano infatti analisi della vita etica (ad esempio quella
dell'evoluzionismo filosofico di H. Spencer H. Spencer, 1893 o di certe forme
contemporanee di intuizionismo si vedano ad esempio W. D. Ross, 1930 e A. C.
Ewing, 1948) che pur ritenendo costitutivo della vita morale l’appello a
principi, non rendono conto del costituirsi di questi principi lungo l’asse
dell’impostazione kantiana o di quella religiosa. I principi dell'etica vengono
piuttosto considerati o come regole fissatesi nel corso dell'esperienza quali
abitudini o come assunzioni più o meno convenzionali preliminari, o anche come
ipotesi più o meno rischiose da avanzare in situazioni risolvibili difficilmente
con gli strumenti ordinari. La questione centrale per una valutazione critica
delle etiche deontologiche è quella di chiederci fino a che punto le si possa
seguire nella loro assunzione che i principi e la coerenza sono il criterio
determinante della vita morale senza che st debba tenere conto delle
conseguenze di un'applicazione di questi principi. Le etiche deontologiche
incontrano in realtà difficoltà insormontabili in quanto si presentano come la
struttura di riferimento di tutte le forme di fanatismo morale, ovvero di
quelle concezioni che ritengono che l'unico modo per elaborare decisioni e
giudizi eticamente validi sia quello di dedurre coerentemente le implicazioni
suggerite da principi considerati come indiscutibili e non modificabili. Il fanatismo
nasce laddove si spinge la fedeltà ai principi fino a non tenere in alcun conto
le eventuali conseguenze disastrose di questa fedeltà. Le etiche deontologiche
partoriscono quindi spesso moralisti che riaffermano continuamente vecchi
principi che, in realtà, non sono più in consonanza con la vita effettiva degli
esseri umani, Paternalismo e rigidità sembrano essere sul piano pragmatico
alcune delle possibili implicazioni delle etiche deontologiche. Tali
conseguenze sono evitate attraverso l’impegno a formulare elaborate casistiche
che prevedono un'ampia gamma di condizioni in cui si può fare un'eccezione alle
regole, Mentre sul piano psicologico non è infrequente che tali etiche generino
forme più 0 meno estese di ipocrisia per cui regole e principi assoluti sono
enunciati solo verbalmente e in pubblico, ma non seguiti nelle scelte effettive
e in privato. Proprio come correttivo di questi eccessi formalistici e
rigoristici sono state presentate come più adeguate le teorie etiche che
mettono al centro della vita morale una considerazione delle conseguenze delle
azioni. Si tratta di etiche in cui è centrale la considerazione per la
dimensione della responsabilità. In luogo di una stretta fedeltà ai principi
l'atteggiamento etico è quello di chi è impegnato in una continua valutazione
dei risultati. Si tratta di quelle concezioni dell'etica che già nel mondo
antico, ad esempio con gli stoici, richiamavano l’importanza della prudenza per
rendere conto del nucleo centrale della vita morale, Queste posizioni conseguenzialiste
hanno avuto un grande sviluppo dalla fine del secolo XIX in quanto sono
divenute la struttura portante delle etiche utilitaristiche. Sul piano logico
non è però corretta un’assimilazione tra conseguenzialismo e utilitarismo.
Infatti l'utilitarismo è una delle varie forme che può prendere il
conseguenzialismo, quella che considera come criterio di valutazione dei
risultati la realizzazione del massimo bene per il maggior numero. Altre forme
di conseguenzialismo possono assumere, come criteri di valutazione dei
risultati, concezioni del bene o del valore da realizzare del tutto alternative
rispetto a quella felicifica dell'utilitarismo. Però proprio la possibilità di
distinguere tra utilitarismo e conseguenzialismo richiama quella che sembra essere
la difficoltà principale delle concezioni conseguenzialiste, ovvero la loro
incompletezza. Infatti una concezione che mette in primo piano per la
valutazione morale la considerazione delle conseguenze delle nostre azioni non
sembra in grado di rendere conto pienamente del giudizio etico, in quanto tale
giudizio non può limitarsi a esaminare quali saranno le conseguenze di certe
scelte, ma dovrà anche valutarle sulla base di ben precisi criteri di valore.
Ci troviamo dunque di fronte alla difficoltà che già richiamava Hume (Hume,
1987: II, 301-311), ovvero che una considerazione delle conseguenze può
informarci solo relativamente ai mezzi e resta poi da valutare del tutto
indipendentemente l'accettabilità dei fini. Ma per quanto possa essere
incompleta, un'etica conseguenzialista richiama su quello che è un passaggio
necessario per le nostre valutazioni e decisioni; la considerazione appunto di
ciò che la loro accettazione comporta. Anche se poi questo approccio non può
esimerci da una valutazione dell’accettabilità o meno dei risultati che si
raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce a rendere
conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed esige di
essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei risultati. Per
quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra mezzi e fini in etica va anche
detto che specialmente nell'ultimo secolo varie forme di naturalismo etico si
sono impegnate nell’approfondire e render meno semplicistica una considerazione
esclusiva dei mezzi come passaggio obbligato verso i fini, riflutando così di
considerare i mezzi come una dimensione incompiuta della vita pratica. In
questa linea si collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory of
Valuation (1939, La teoria della valutazione) che ha insistito nel richiamare
l'attenzione sul processo mediante il quale gli stessi mezzi possono
trasformarsi in fini e nel mettere quindi in crisi una concezione che vede i
fini come un risultato finale, per sostituirvi una prospettiva che nella condotta
umana trova un conzinuute di azioni che da mezzi si trasformano in fini che a
loro volta si trasformano in mezzi ecc. Dall'altra parte vi sono stati teorici
che hanno concepito il conseguenzialismo come autosufficiente laddove non si
considerino i fini come valori intrinseci o valori in sé, ma piuttosto come
valori estrinseci. Il valore intrinseco nell'etica. Dal punto di vista
normativo le diverse etiche possono essere differenziate anche sulla base del
ricorso o meno alla nozione di valore intrinseco. La nozione di valore
intrinseco trova un uso centrale nell’etica di Moore, ma anche ad esempio sul
versante fenomenologico nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler
(Scheler, 1944: 121-130). Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale
nozione nella teoria etica è stato più volte fatto oggetto di critiche in
particolare da pensatori pragmatisti {su questa discussione è da vedere G.
Pontara, 1974, che presenta anche una difesa dell’uso in etica di tale
nozione). Vi sono stati altresì tentativi di delineare una nuova
caratterizzazione della nozione ad esempio da parte di R. Nozick (Nozick,
1987). La nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di dare all’etica
una dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore (1964) collegava la
nozione di valore intrinseco con quella di «unità organica». Le cose fornite di
valore sono uniche in quanto presentano una unità organica che non è definibile
riducendo l’intero alle sue parti. In questo senso il valore intrinseco è la
contropartita a livello ontologico della tesi gnoseologica che riconosce nel
bene una qualità del tutto unica, semplice e indefinibile. D'altra parte il
riferimento al valore intrinseco fa sì che si consideri il bene come qualcosa
che viene conosciuto come presente nel mondo oggettivo e non già come un modo
di sentire soggettivo. In questo senso Moore riteneva che le proprietà etiche
avessero una loro realtà e sussistessero indipendentemente dall'essere
percepite, La tesi che vi sono degli interi forniti di valore intrinseco (come
ad esempio per Moore le relazioni personali e le cose belle) permette di
identificare il normativo e l'etico con qualcosa che ha uno statuto peculiare e
che dunque non può essere ridotto a nessuna altra realtà. La posizione che
ammette l’esistenza del valore intrinseco nega che ogni azione possibile sia
fornita solo di valore estrinseco e strumentale e che possa essere sostituita
da qualsiasi altra azione. La concezione del valore intrinseco si accompagna
dunque all’elaborazione di una teoria normativa che riconosce l'autonomia
dell’etica e ritiene anche che vi sia un modo compiuto e definitivo per fondare
le conclusioni dell'etica. Anche Nozick (1987) usa la nozione di valore
intrinseco come mezzo teorico per arrivare a riconoscere alle realtà al centro
dell'etica un'oggettività e una forza vincolante indipendenti dalle motivazioni
individuali. Nozick, come Moore, collega la nozione di valore intrinseco con
quella di unità organica e anzi propone una gerarchia delle realtà sulla base
del diverso grado di valore intrinseco, nel senso che sarà fornito di maggiore
valore intrinseco quell’intero che connette in modo più organico, ovvero più
stretto e unitario, un maggiore numero di parti differenti. In questo senso la
nozione di valore intrinseco secondo Nozick può essere attribuita a un gran
numero di esseri e permette misurazioni e graduazioni. La moltiplicazione di
esseri forniti di valore intrinseco nella teoria etica di Nozick è confermata
dalla tesi che questo valore può essere creato o costituito (in quanto «valore
contributivo» alla totalità di valore intrinseco già esistente nel mondo).
Nozick poi delinea una precisa lista di realtà fornite di valori, suggerendo
che in particolare sono le persone e i sé ad avere una maggiore quantità di
valore intrinseco e a poterne creare di nuovo. Riprendendo la gerarchia degli
esseri della tradizione aristotelico-tomistica Nozick indica nella persona
umana il vertice tra le realtà fornite di valore intrinseco nel senso che i sé
personali possono scegliere di costituire unità organiche molto originali e
strette, unificando l’insieme molto differenziato di parti rappresentato dal
fluire delle loro vite. Nozick sembra dunque essersi impegnato a riproporre su
una base laica e empiristica la concezione religiosa e spiritualistica che
indicava negli esseri personali realtà fornite di un valore intrinseco e non
sottoponibili a una valutazione strumentale. Un'etica che faccia uso della
nozione di valore intrinseco va incontro alla difficoltà di coinvolgere chi la
sostiene in una serie di pretese metafisiche dif ficilmente accettabili una
volta sottoposte a controllo empirico. Così nel caso di Moore la nozione di
valore intrinseco in definitiva rinvia a una struttura essenziale e sostanziale
delle cose buone che può essere direttamente conosciuta solo ricorrendo a una
intuizione niente affatto empirica. Nozick riesce in parte a depurare la sua
utilizzazione della nozione di valore intrinseco da queste implicazioni
ontologizzanti e metafisiche in quanto colloca tutta la sua teoria non già su
di un piano fondazionale, ma piuttosto su quello esplicativo, Ma procedendo per
questa strada non si capisce più perché sia strettamente necessario usare in
etica la nozione di valore intrinseco. Infatti se rale nozione viene introdotta
solo per spiegare alcune assunzioni e intuizioni che si dà per scontato siano
presenti nel nostro modo di vivere la dimensione etica, potremmo rifiutarla
negando di trovare in noi tali assunzioni e intuizioni, oppure sottoponendo le
assunzioni e intuizioni presupposte a una critica che ne faccia risultare
l’artificiosità e l’inaccettabilità. La nozione di valore intrinseco può avere
un suo uso nel campo dell’estetica quando si tratta di spiegare il valore di
cui una certa opera d’arte come un tutto è fornita, valore che non è
riconoscibile nelle diverse parti che la costituiscono. Ma sembra difficile
accettare come pacifica un'estensione di tale nozione alla vita morale, In
realtà affermando l'imprescindibilità dell'etica dalla nozione di valore
intrinseco si ripropone sotto una nuova forma l’obiezione che contro le
concezioni conseguenzialiste muove chi fa appello all’ineliminabilità dei
principi. Il sostenitore dell'etica dei principi rimarca che la considerazione
delle conseguenze esige comunque una loro valutazione ticorrendo a principi. In
modo analogo chi ritiene ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di valore
intrinseco rimarca che una considerazione etica in termini di valore
strumentale rinvia sempre a qualcosa che è fornito invece di valore intrinseco
0 finale. Con questo lessico la critica al conseguenzialismo si carica di
allusioni ontologiche, metafisiche e oggettivistiche che è difficile possano
avere un riscontro sul piano dell’analisi empirica, L'etica giusnaturalistica e
la legge naturale. Passando al piano più sostantivo un'etica normativa
chiaramente identificabile è quella giusnaturalistica o della legge naturale.
Abbiamo già avuto modo (cfr. $ 3.4) di sostenere come il giusnaturalismo e la
concezione della legge naturale vadano incontro a profonde difficoltà
epistemologiche, ma resta fermo che anche nel corso del XX secolo benché con
minore fortuna che nel passato sono riconoscibili dei sostenitori di un
concezione giusnaturalista o della legge naturale (ad esempio Finnis, 1983), Si
tratta di quella posizione etica che ritiene che gli uomini hanno per natura
determinati doveri e obblighi e che tali doveri e obblighi siano determinabili
prima e indipendentemente dal costituirsi di qualsiasi istituzione giuridica o
politica. La tradizione giusnaturalistica ha avuto, dopo la presentazione da
parte di Tommaso d’Aquino di un’etica cristiana della legge naturale, una
ripresa e una formulazione sistematica nel corso del XVII secolo da parte di
autori come Grozio e Pufendorf. La concezione della legge naturale è stata poi
varie volte ripresentata nei secoli successivi e tuttora costituisce l'etica
prevalente nelle visioni cristiane e religiose. Le concezioni della legge
naturale ruotano intorno al riconoscimento di una serie di obblighi e di doveri
propri della natura umana. Proprio conseguentemente a questo riconoscimento i
teorici della legge naturale fanno ampio uso del linguaggio dei diritti, anzi
possiamo ritenere che la diffusione nell'età moderna e contemporanea di tale
linguaggio sia una ricaduta del giusnaturalismo del XVII secolo. Va però
sottolineato come sia del tutto differente il ruolo che i diritti hanno nelle
concezioni giusnaturalistiche rispetto a quello che essi hanno nelle teorie
etiche dei diritti propriamente dette. Infatti i diritti affermati da un'etica
giusnaturalistica non sono mai illimitati e assoluti, ma trovano una
delimitazione nell’obbligo o dovere che occorre comunque rispettare facendo
valere il proprio diritto. Le diverse classificazioni dei diritti rinviano
quindi a un contesto di leggi, doveri e obblighi che resta primario. I teorici
della legge naturale concordano nel ritenere che gli uomini in quanto tali
hanno tutta una serie di diritti e doveri paralleli: ad esempio, l’esistenza di
un diritto alla vita da parte di qualcuno sì accompagna al dovere del rispetto
della vita di costui da parte degli altri. Tra gli obblighi più frequentemente
richiamati dai teorici della legge naturale ricordiamo i doveri verso se
stessi, i doveri verso gli altri (distinguendo in questo ambito tra i doveri
verso i propri familiari e i doveri verso i propri concittadini) e i doveri
verso Dio. I doveri verso se stessi sono spesso identificati con tutta una
serie di massime di tipo prudenziale, sulla base di un più generale principio
che considera la vita umana più specificamente la propria vita come non
disponibile. All’interno del quadro delle etiche giusnaturalistiche infatti il
suicidio è general mente considerato inaccettabile. Per quanto riguarda poi la
dimensione dei doveri verso gli altri una prima proposta è quella che distingue
tra i doveri in senso più stretto nei confronti dei propri familiari e i doveri
in senso più generale verso i propri simili. Un'altra distinzione ricorrente
tra i teorici del giusnaturalismo è quella tra doveri perfetti e imperfetti. Ci
si trova di fronte a doveri perfetti laddove a questi doveri non si può
disattendere in quanto sono legati a un corrispondente diritto da parte degli
altri e dunque con una qualche codificazione. Così in questa classe rientra il
dovere di non ledere gli altri o di ottemperare a una promessa o patto
sottoscritto. Nella nozione di lesione si fa spesso rientrare non solo il danno
fisico, ma anche il danno relativo ai beni ovvero alla proprietà. Vi sono
invece tutta una serie di doveri imperfetti: essi riguardano azioni che non
siamo sempre tenuti a realizzare perché gli altri non le possono pretendere da
noi come un loro diritto (ad esempio le azioni mosse da generosità 0
beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali legati al partico. lare posto
che si occupa, ovvero al ruolo professionale, o al ruolo nella famiglia (padre,
madre, figlio ecc.), o alla carica che si ricopre nella società. Non mancano
tentativi fatti dai teorici della legge naturale specialmente nel XVII secolo
con Grozio, Pufendorf, Althusius e Thomasius (Bobbio, 1980) di esporre in forma
compiuta e sistematica tutto il codice di obblighi e doveri. I teorici della
legge naturale riconoscono uno statuto del tutto peculiare al dovere nei
confronti del governo o dello Stato, ovvero al dovere di obbedienza 0 lealtà
nei confronti delle leggi del proprio paese. Ma proprio la riflessione intorno
a questo dovere, alla sua assolutezza o ai suoi limiti, segna nel corso del
XVII secolo il processo di crisi per l'etica della legge naturale. Infatti
Hobbes mette in luce la difficoltà di conciliare all'interno di un'etica della
legge naturale due distinte esigenze entrambe considerate essenziali: da una
parte il dovere di obbedienza al governo e dall'altra un qualche diritto a
resistere al governo ingiusto. Hobbes indicava la soluzione nel rimettere al
governo attraverso il patto tutti i diritti e dunque complessivamente anche il
diritto di resistenza, lasciando però all'individuo la possibilità di salvare
con la fuga la propria vita quando in pericolo. La concezione giusnaturalistica
dunque è entrata in crisi non solo sul piano epistemologico (cfr. $ 3.4), ma
anche per la sua incapacità di fornire soluzioni pratiche effettive ai problemi
etici che di volta in volta si sono presentati agli uomini. Quanto più le
condizioni di vita degli esseri umani sono andate collocandosi in un ambiente
artificiale, tanto meno il richiamo alla natura è risultato decisivo e
chiaramente comprensibile. Non solo il dovere di resistenza del cittadino nei
confronti dei governi ingiusti o delle guetre ingiuste è risultato inderivabile
da una presunta legge naturale, ma molti dei doveri a cui rinviava la legge
naturale sono apparsi desueti o inutili o lacunosi quando le condizioni di vita
si sono andate trasformando radicalmente nel corso di un processo di
civilizzazione che ha segnato il prevalere di condizioni artificiali di vita.
Si pensi, ad esempio, alle profonde trasformazioni che hanno subito le
relazioni familiari. Da queste trasformazioni deriva la vuotezza di quelle
concezioni che pensano di potere risolvere i conflitti facendo appello a ciò
che è naturale. Le questioni legate alle relazioni familiari o ai rapporti tra
i sensi non trovano certo più una soluzione ovvia e condivisa rinviando a una
presunta famiglia naturale ideale o a un comportamento appropriato e lodevole
secondo un qualche modello naturale di padre, madre, figlio e dei rispettivi
doveri. Ancora, per cogliere le difficoltà a cui va incontro il giusnaturalismo
si pensi come al suo interno sia arduo trovare risposte per i problemi che
nascono con le nuove professioni o le nuove responsabilità etiche (pensiamo a
chi si occupa di gestione o trasmissione delle informazioni o delle immagini, o
a chi si occupa di terapia delle malattie mentali). L'etica della legge
naturale pretende di trovare nella natura umana da sempre e per l'eternità
doveri e diritti relativi a condizioni e situazioni che solo cinquant'anni fa
erano inimmaginabili. Né una riduzione a una presunta essenza della condizione
umana può risolvere queste difficoltà in quanto per questa via le norme
ricavate dalle leggi naturali si presentano con una formulazione tanto astratta
e generica da risultare del tutto inefficaci. Proprio perciò la tradizione
giusnaturalistica si è andata sempre più svuotando della sua forza pratica e
l'appello alla legge naturale è divenuto solo uno strumento retorico e
ideologico, unito alla reiterazione di regole (spesso del tutto incapaci di
guidarci) molto generali quali «non uccidere», «non rubare» ecc. 44. L'etica
contrattualistica e le sue forme. Il contrattualismo come teoria etica fu
elaborato inizialmente nel corso del XVII secolo proprio come superamento del
giusnaturalismo cristiano e medievale. La possibilità di indicare nella natura
umana un fondamento adeguato per l’etica veniva messa in crisi da Hobbes
indicando la completa assenza, nella natura originatia degli uomini, di
tendenze che rendessero possibili la pace, l'ordine e la cooperazione sociale.
Proprio in quanto la natura umana immaginata in uno «stato di natura» è
incapace secondo Hobbes di dare fondamento alla distinzione tra il bene il
male, tra il giusto e l'ingiusto, queste distinzioni vanno collegate a una
procedura artificiale che coincide con il contratto. Il contratto fu ampiamente
usato nel corso del XVII secolo come criterio etico decisivo da autori molto
diversi tra loro come Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Locke {Gough, 1986). Un
tratto tipico comune del contrattualismo del XVII secolo sta nel fatto che il
contratto è presentato come un criterio che può riuscire a fondare solo una
parte del contenuto dell'etica quello che ha a che fare con le leggi giuridiche
e con le istituzioni politiche , ma non la totalità dell'etica e în particolare
non può rappresentare un criterio adeguato per fondare la morale nel senso
stretto in cui ne trattiamo in questo scritto. Proprio perciò i teorici nel
XVII secolo, al di lì dello spazio garantito dal contratto, rinviano a una
diversa base come fondazione per la morale propriamente detta. Ad esempio nella
teoria di Hobbes troviamo che o secondo la maggior parte dei suoi interpreti vi
è una completa assenza di morale nello stato di natura e prima del patto che dà
vita all’ordine civile, oppure ad esempio secondo H. Warrender (1974) la morale
viene fatta dipendere dagli ordini di Dio, o infine ad esempio secondo Bobbio
(1989) la si fa dipendere da un calcolo prudenziale. Pufendorf e Locke invece
ritengono che il contrattualismo per quanto riguarda l'obbligo giuridico e
politico possa (e debba) essere accompagnato dall'accettazione del
giusnaturalismo per quanto riguarda l’obbligazione morale propriamente detta.
Una prospettiva che restringe la portata della procedura artificialistica del
contratio è presente anche in un autore come Jean-Jacques Rousseau che pure
indica, nel contratto sociale (Rousseau, 1966), l’unica via per correggere le
distorsioni generate dalla corruzione prodotta dallo sviluppo della società e
ricostituire così condizioni etiche più consone alla natura degli uomini
(Rousseau, 1988). Solo con il XX secolo il contrattualismo si è presentato come
criterio etico generale non ristretto alle situazioni di pertinenza del diritto
e della politica. È infatti con Rawls e la sua «teoria della giustizia» (Rawls,
1982) che la concezione contrattualista viene proposta come strategia adeguata
per individuare i principi etici in generale. Va però rimarcato che il
«contrattualismo ideale» di Rawls riesce a funzionare da criterio generale per
l’etica solo in quanto si delinea come una procedura che ha incorporato in sé
un altro requisito ritenuto caratteristico dell’etica: quello dell’imparzialità
o dell'assunzione di un punto di vista generale. Abbiamo già indicato (cfr. $
3.8) i limiti del contrattualismo di Rawls per quanto riguarda le procedure
epistemologiche a cui si richiama; sul piano normativo va rilevato che tale
criterio è in grado di indicare soluzioni ad esempio nella distribuzione dei
beni disponibili solo in quanto tutti coloro che sono coinvolti accettano già
alcuni vincoli. Perché la procedura contrattualistica possa risultare decisiva
bisogna, dunque, ritenere che ci sia già un qualche accordo nel considerarsi
cittadini di una stessa comunità; oppure, in alternativa, bisogna ritenere che
ci sia un’armonia prestabilita (un residuo del provvidenzialismo settecentesco)
che garantisce la confluenza degli interessi individuali nel bene generale.
Proprio come correttivo di queste limitazioni Gauthier ha presentato una
procedura delineata come una forma di «contrattualismo reale» (Gauthier).
Questa strategia si sforza di mostrare che un certo esito identificato come un
equilibrio di contrattazione risulta per tutti coloro che sono coinvolti più
conveniente in termini di soddisfazioni personali. Resta però da dire che in
questo caso il criterio etico decisivo sembra presentarsi al di lì del
contratto in una sorta di «egoismo razionale» che accetta i vincoli di una
contrattazione come mezzo migliore per l'ottimizzazione di risultati anche
dovendo fare conto su eventuali sostegni o ostacoli da parte degli altri (cfr.
$ 3.3). In generale dunque il contrattualismo presenta un criterio normativo
che non è in grado di esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica, ma che
ha bisogno di rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o egoismo razionale)
ove lo si voglia fare valere al di là del piano giuridico e politico. Un'etica
dei diritti. Anche l'etica dei diritti si è andata sviluppando nella cultura
moderna e contemporanea come un correttivo della concezione giusnaturalistica.
Una prima fase dell'etica dei diritti nel corso del XVII secolo fu la via
attraverso la quale si cercò dì garantire la sfera di autonomia delle persone
nei confronti dell'intervento della legge e del potere politico. I diritti che
vengono fatti valere sul piano etico si presentano dunque prevalentemente come
diritti negativi e di libertà contro l’ingerenza di un potere esterno. Così, da
una parte, autori come Hobbes e Locke si fermarono a lungo sui diritti negativi
alla autoconsetvazione e alla proprietà dei beni ed altri autori come ad
esempio Anthony Collins (1990) e in generale i free-tbinkers cercarono di far
valere il diritto alla libertà di pensiero. Il processo teso a garantire i
diritti negativi ebbe esito sul piano storico con le varie Dichiarazioni dei
diritti degli Stati Americani (1776-1789) e con la Dichiarazione dei diritti
della Rivoluzione francese (1789; cfr. Cassese, 1988). Nel corso del XIX secolo
e nella prima metà del XX vi è stata una contestazione della teoria etica dei
diritti, da una parte dagli utilitaristi sul piano epistemologico e,
dall'altra, dai marxisti sul piano di una critica storico-sociale. Ma come
rileva Brenda Almond (Almond, 1991} una ripresa dell'etica dei diritti si è
avuta dopo la seconda guerra mondiale in particolare come reazione alla
soluzione finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è così assistito a un
progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino al punto che Bobbio ha
potuto indicare come adeguata per la nostra epoca l’espressione di «età dei
diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più recentemente hanno fatto ricorso al
linguaggio dei diritti anche quelle concezioni che in precedenza lo avevano
criticato, come ad esempio l’utilitarismo che l'aveva riftutato come del tutto
privo di sensatezza o l'etica cattolica che l’aveva attaccato come espressione
del trionfo di una mentalità moderna anarchica e priva di eticità. Nella
seconda metà del secolo XX si è altresì assistito a una espansione della sfera
dei diritti affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più recente etica
dei diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali diritti negativi ma
ha esteso le pretese anche a tutta una serie di diritti cosiddetti positivi (ad
esempio alla salute, all'educazione, ad un lavoro ecc.). Ma in questa sede non
possiamo limitarci a prendere atto della larga diffusione a livello di opinione
pubblica del linguaggio dei diritti; dobbiamo piuttosto impegnarci a
identificare e valutare criticamente le concezioni teoriche che hanno visto
nell’affermazione dei diritti il criterio etico fondamentale. Nel corso del
secolo XVII laddove i sostenitori della legge naturale preferivano richiamare
sul piano etico il primato dei caratteri essenziali della natura umana intesi
in modo complessivo, o per così dire olistico, i sostenitori di un'etica dei
diritti pur conservando la convinzione di una legge naturale o divina che fonda
in modo assoluto l’etica facevano proprio sia pure in modo grezzo e schematico
il quadro teorico dell'individualismo metodologico. Muovendo da questa
prospettiva, almeno per una parte della storia dell'etica dei diritti possiamo
accettare il quadro esplicativo proposto da autori come L. Strauss (1990) e C.
B. Macpherson (1973) che identificano questa storia con quella della lotta di
una nuova classe in ascesa la borghesia 0 ceto medio, ovvero il ceto di
produttori per giungere a un ticonoscimento delle sue esigenze da parte della
legge o del potere politico. Dunque una prima fase dell'affermazione dei
diritti fu rivolta a far valere pretesi diritti naturali degli uomini contro lo
strapotere della legge e dello Stato. Si tratta di quella fase che possiamo
ritenere conclusa con le Rivoluzioni americana e francese in cui si affermano i
diritti negativi alla vita, alla libertà, all'autonomia, alla resistenza, alla
proprietà ecc. In questo quadro, oltre ai teorici del liberalismo
settecentesco, possiamo collocare anche autori che, come Rousseau, sono
impegnati a recuperare una serie di esigenze naturali degli uomini contro le
limitazioni progressivamente delineatesi nella storia della corruzione umana.
Nel corso del XX secolo invece i fautori dell'etica dei diritti hanno cercato,
sempre su un piano morale o pregiuridico e prepolitico, di argomentare a favore
del riconoscimento di una serie di esigenze minime che gli esseri umani
avrebbero in quanto tali e che le collettività dovrebbero garantire con le loro
istituzioni e forme di vita organizzate. Tra questi diritti positivi rientrano
ad esempio quelli alla salute, al lavoro, a una casa o più genericamente alla
liberazione dalla povertà o addirittura al benessere o alla felicità. Laddove
nella prima fase erano i diritti dell’individuo o del cittadino che si cercava
di considerare come criterio decisivo dell'etica, nella fase più recente si
prendono a guida piuttosto i diritti della persona umana più ampiamente intesa.
Va però rilevato che ci si trova di fronte a una sorta di contrasto 0
incompatibilità tra l'affermazione dei diritti negativi e quella dei diritti
positivi. Come ha più volte sottolineato Bobbio (1990) l'espansione dei
programmi di difesa dei diritti sociali o positivi (a parte le difficoltà di
concordare una lista precisa dei diritti da includere in questo programma e di
convergere su una loro gerarchia) non può che essere realizzata dando al potere
politico e giuridico una qualche autorità per limitare eventualmente i diritti
negativi individuali che, se illimitati, non permettono il raggiungimento per
tutti i membri di una società dei diritti sociali. Dal punto di vista teorico
nel nostro secolo l'appello ai diritti è stato collegato, sul piano
fondazionale, non solo con la legge naturale, ma anche con altre strategie
etiche. Non è mancato chi ha cercato di fondare i diritti in un quadro
generalmente contrattualistico (ad esempio Rawls, 1982), o di recupecarne un
qualche riconoscimento anche in un quadro utilitaristico (ad esempio Hare,
1989), anche se in queste concezioni i diritti non hanno più una collocazione
primaria e originaria ma solo un ruolo sussidiario e derivato. Non sono poi
mancate profonde divaricazioni per quanto riguarda il tipo di tradizione
etico-politica al cui interno sono state calate le affermazioni dei diritti. Da
una parte si è fatto ricorso alla tradizione liberale che ha piuttosto
insistito sui diritti negativi degli individui nei confronti della società civile
e spesso contro lo Stato (così da I. Berlin, 1989, fino alle posizioni
anarchiche di R. Nozick, 1981). Dall'altra si colloca la strategia che ha
trovato espressione nei movimenti democratici e socialisti e in forma più
totalitaria nei regimi comunisti che in nome della realizzazione dei diritti
sociali dei cittadini ha proposto limitazioni più 0 meno estese delle libertà
negative. Una storia del progressivo espandersi e modificarsi delle
rivendicazioni dei diritti può essere una strada molto fertile per ripercorrere
la storia della morale e del costume sociale nelle società occidentali, ma non
permette di arri. vare a identificare un preciso criterio etico. In questa
direzione già Bentham mostrava le fallacie e le insufficienze di una teoria
etica dei diritti che a suo parere non poteva che confluire in un'etica della
legge naturale e dunque in una forma di etica autoritaria o dell’ipse dixit
{Bentham, 1981). Un'alternativa alle concezioni giusnaturalistiche che può
essere percorsa dall’etica dei diritti è quella che, secondo alcuni interpreti,
sarebbe propria di Hobbes, il quale identifica i diritti con le prerogative che
ciascuno individuo si trova di fatto ad avere a ragione delle sue condizioni
storiche, del suo status sociale, delle sue capacità, forza ecc. Una
impostazione che però rende praticamente impossibile un qualche bilanciamento
dei titoli che qualsiasi individuo può far valere come decisivi. Ovviamente si
presentano qui come insolubili pretese confliggenti di diritti in una
condizione come quella umana nella quale per la scarsità delle risorse e i
vincoli emotivi degli esseri umani non sono contemporaneamente soddisfacibili
tutte le esigenze di tutti. L'etica dei diritti manifesta la sua maggiore
inadeguatezza sul piano critico e teorico proprio nella seconda metà del XX
secolo, quando realizza il maggiore successo dal punto di vista della sua
diffusione come forma di discorso prevalente nell'opinione pubblica. Infatti
proprio in questo periodo vi è stato un fiorire di nuovi diritti ed un indubbio
processo di democratizzazione (ovvero di allargamento della base di coloro che
avanzano le pretese di diritti), fenomeni che ben lungi dal risolvere problemi
etici ne hanno fatto sorgere di nuovi. Abbiamo assistito, proprio come
conseguenza del prevalere della forma di rivendicazione etica che fa appello ai
diritti, a un riacutizzarsi dei contrasti in campi quali quelli della nascita,
della morte, della cura, dell’ambiente, del trattamento degli animali, della
considerazione delle generazioni future ecc. Da un punto di vista puramente
descrittivo e lasciando sospeso il giudizio di merito su questi fenomeni si può
rilevare una crescita esponenziale di nuovi soggetti di diritti e di diritti
che ciascun soggetto avanza con la pretesa che siano riconosciuti da tutti e
salvaguardati dalle istituzioni politiche e giuridiche. Dietro questo
diffondersi delle pretese ai diritti, invece, da un punto di vista teorico e
fondazionale restano valide le strategie del passato con cui si era già cercato
di giustificare il primato dei diritti presentandoli, di volta in volta, come
una pretesa di verità (White, 1984), uno strumento emotivo particolarmente
persuasivo (Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di briscola» (Dworkin, 1982),
un titolo richiamato come valido (Nozick, 1981), Ma il tentativo di costruire
una qualche etica dei diritti come risolutiva va incontro a difficoltà
insuperabili quando si tratta di fornire criteri sicuri per decidere quali
nuovi diritti riconoscere effettivamente come meritevoli di codificazione giuridica
o di tutela morale. Non diversamente, il contesto teorico dell'etica dei
diritti non è in grado, di fronte a casi concreti, di offrire una strada
argomentativa per superare contrasti e conflitti proprio relativamente a
diritti da riconoscere convergentemente. Per questi suoi limiti epistemologici
l’etica dei diritti si presenta, più che come una teoria valida e coerente,
come una retorica pubblica largamente usata oggi nella nostra cultura. 4.6.
L'etica kantiana e la persona umana. Un modello del tutto peculiare di etica
normativa è quello che si trova negli scritti di Kant. Come ha sottolineato
Frankena, nel caso di Kant ci troviamo di fronte a una ben precisa forma di
«deontologismo della regola» {Frankena, 1981). L’universalità richiamata
dall’etica kantiana si collega, su un piano epistemologico, con una forma di
intuizionismo che attraverso la via del trascendentalismo sfocia in un realismo
etico che esclude la possibilità di conciliarlo con una meta-etica
noncognitivistica. Va così rifiutato il tentativo di Rawls {Rawls, 1980) di
trovare in Kant un'etica sostanzialmente costruttivistica e puramente
procedurale. La legge etica di fondo dell’etica kantiana ovvero l'imperativo
categorico «agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere nello
stesso tempo come principio di una legislazione universale» (Kant, 1970a: 167)
si presenta come decisiva e capace di indicare le soluzioni dei diversi
conflitti e disaccordi etici. Ma è proprio questo universalismo dell’etica di
Kant che è stato più frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta
secondo i critici come una mera etica della coerenza formale e propria di una
volontà che per rendersi il più universale possibile si depotenzia, si svuota
di contenuti e si rende del tutto incapace di incidere in qualche modo sulle
effettive opzioni presenti nelle situazioni reali. La comprensione della
proposta etica kantiana passa attraverso una più precisa individuazione della
natura dell'imperativo categorico. In Kant si tratta di una massima che è universalizzabile
solo se può essere voluta senza contraddizione come legge universale, cioè se e
solo se qualcuno può volere, senza incoerenza nella volontà, che ognuno adotti
questa massima e agisca secondo essa. L’universalizzabilità in questo senso «è
la prova dell’accettabilità morale di una massima dell’azione e
conseguentemente della condotta» (cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per Kant
l’universalità è un principio morale e come tale non ha molto a che fare con
l’universalizzabilità che Hare riconosce come carattere proprio dei giudizi
morali, in quanto tale carattere, almeno nelle prime affermazioni che ne fa
Hare (cfr. $ 2.6), si presenta come una tesi sulla logica del discorso morale.
Ma per rendere conto adeguatamente dell’etica normativa kantiana non ci si può
limitare alla componente universalistica. Vi sono altri tratti che la rendono
storicamente riconoscibile, e almeno altre due tesi ne rappresentano il nucleo
essenziale: il complessivo approccio rigoristico a preferenze, desideri e
passioni umane; l'affermazione della centralità morale della persona. Nel caso
dell’etica kantiana la legge morale e gli imperativi categorici nascono proprio
negando in nome della libertà interessi egoistici e desideri individuali e non
già rendendo possibile, con il fare valere punti di vista imparziali e
generali, una loro conciliazione. Uno degli aspetti caratteristici dell'etica
normativa kantiana sta nel riprendere il discorso delle etiche ascetiche
cristiane che indicavano un'incompatibilità tra la ricerca del proprio
benessere e il piano morale. In questa linea l’etica kantiana non si spinge
solo a fissare una distinzione tra il cosiddetto piano prudenziale e il piano
etico, ma procede fino a prescrivere la salvaguardia di un piano morale che
nega recisamente contrapponendovisi tutta l'impostazione delle etiche eteronome
che fanno del benessere il fine delle azioni umane. Proprio in questo senso
l'etica di Kant si presenta come un'etica del dovere e della scelta
responsabile e razionale della legge universale, in contrasto con qualsiasi
tendenza a considerare la felicità individuale come obiettivo finale
dell'etica. La posizione kantiana si presenta, dunque, come del tutto
alternativa rispetto a quella fatta valere sempre più decisamente nella
tradizione empiristica da Hume all’utilitarismo, al prescrittivismo universale
secondo la quale solo desideri, sentimenti e preferenze sono in grado di
motivare le scelte (etiche o non etiche) e la ragione invece risulta inefficace
su questo piano, Non bisogna per dere di vista questa componente dell'etica
kantiana che rende del tutto eccentrici aleuni tentativi contemporanei ad
esempio quelli di J. Rawls e R. M, Hare di conciliare l’universalismo kantiano
con un bilanciamento dei desideri e delle preferenze effettive di coloro che
sono coinvolti. Kant rifiutava tutte quelle etiche che facevano discendere la
determinazione della moralità da motivi diversi da quelli propriamente etici.
La sua teoria è del tutto in linea con l'affermazione nella cultura moderna e
contemporanea dell'autonomia della morale. In particolare Kant rifiutava come
eteronome tutte quelle etiche che assimilavano il bene morale a qualcosa che
dipendeva o dall'educazione (Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville), o
dal sentimento fisico (Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o dalla
perfezione oggettiva (Wolff e gli stoici), o dalla volontà di Dio (Crusius e
altri moralisti teologici; Kant, 1970a: 178). Secondo Kant l’amore di sé, i
sentimenti e le preferenze personali non sono in grado di costituire il punto
di vista morale: laddove l’azione è motivata da questi scopi essa è chiaramente
eteronorna e dunque non morale. Solo una legge della ragione può motivare
autonomamente. Nel primo caso si hanno solo imperativi ipotetici e precetti
prudenziali, mentre nel secondo caso si giunge agli imperativi categorici
morali nella loro peculiarità. La concezione etica kantiana infine riconosce un
posto centrale alla persona. Kant presenta una caratterizzazione della persona
umana in termini essenzialistici e semplici ovvero come qualcosa che ha una sua
realtà sostanziale continua e inconfondibile {tra l'altro che sopravvive alla
stessa morte}, anche se questa realtà sfugge alia nostra conoscenza e si
presenta come collocata sul piano noumenico. Ecco ad esempio una definizione
dell’essere umano, non priva di implicazioni assiologiche, offerta da Kant
nella Axtoropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst (1798, Antropologia dal
punto di vista pragmatico): «Che l’uomo possa avere una rappresentazione del
proprio io, lo innalza infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri
viventi sulla terra. Perciò egli è una persona e, grazie all'unità della
coscienza in tutti i mutamenti che subisce, una sola e stessa persona» (Kant,
1970a: 547). Malgrado alcune limitazioni epistemologiche nell’affermazione di
un personalismo essenzialistico Kant considera decisamente come tratto
definiente della persona umana che è l'unico soggetto-oggetto dell'universo
morale la sua razionalità. La centralità della nozione di persona nell’etica
kantiana risulta esplicita in una delle formulazioni dell'imperativo categorico
che suona: «agisci in modo di trattare l'umanità nella tua persona come nella
persona di ogni altro sempre come fine e mai soltanto come mezzo» (Kant,
19704). Proprio sulla base della persona è fondata la tavola dei doveri
presentati in Die Merapbysik der Sitten (1797, La metafisica dei costumzi).
Kant riprendeva le distinzioni avanzate dai giusnaturalisti (in particolare
Pufendorf e Thomasius) tra doveri positivi e negativi (che si intreccia con
quella tra doveri verso Dio, verso gli altri e verso se stessi), riformulandola
come una distinzione tra doveri perfetti {quelli verso se stessi stabiliti da
massime universali per le quali persare un'eccezione equivale a una contraddizione)
e doveri imperfetti (doveri verso gli altri in cui la contraddizione si
presenta laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant, 1970b: 269-374). Le critiche
alla concezione kantiana dell'etica sono state mosse lungo diverse linee.
Ricordiamo quelle che ci sembrano più decisive: la mera forma dell’universalità
o è vuota 0 può essere soddisfatta dalla coerenza e fedeltà verso qualsiasi
valore anche negativo; l’uso dell'autonomia dell’etica in chiave rigidamente
rigoristica rende del tutto astratta e ininfluente la norma kantiana che non
potrà includere nessuno dei desideri effettivi di esseri umani concreti.
Inoltre, l'ancoraggio dell'etica da parte di Kant alla persona razionale
comporta per la sua prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa a rendere
conto di situazioni etiche in cui siano presenti esseri non razionali (animali,
ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di colorazione egoistica in una
prospettiva che si muove esclusivamente in un contesto di persone in qualche
modo distinte e separate l'una dall'altra. Quest'ultima critica è stata fatta
valere in particolare da Parfit (1989). La tesi è che solo un quadro
concettuale che come quello elaborato da Parfit dia una spiegazione
riduzionistica e complessa per quanto riguarda la natura dell'io e della
persona potrà permettere di non considerare le singole persone umane come unità
di misura finale pes l'etica. Dunque solo chi sappia liberare la morale dai
confini ontologici della persona umana potrà porre le basi per la costruzione
di un'etica effettivamente universalistica e altruistica. 4.7. Le etiche
utilitaristiche. Una concezione etica molto diffusa e fortunata è quella
utilitaristica. Si può trovare un appello generico all’utilità come criterio di
scelta etica in molti pensatori dall’antichità ai giorni nostri. Ma prendendo
in esame l’utilitarismo propriamente detto facciamo riferimento a quelle
concezioni che riprendono da Bentham lo sforzo di sviluppare, in termini
precisi e rigorosi, un criterio di scelta e valutazione morale con al centro
l'utilità, a sua volta definita ricorrendo a nozioni quali piaceredolore,
felicità-infelicità, soddisfazione di preferenze ecc. La storia
dell’utilitarismo, anche in questo senso più stretto e determinato, è molto
ampia e non si può qui ripercorrerla se non in modo sommario limitandosi a
delineare alcuni dei filoni principali in esso riconoscibili. Nel rendere conto
delle varie forme di utilitarismo proviamo a differenziarle sulla base della
diversa caratterizzazione che viene offerta della nozione del bene che alla
fine si deve ottenere. La nozione di utilità è, infatti, sempre ricondotta ad
una più determinata nozione di bene che identifica con più precisione in che
cosa risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di distinzione che
sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezioni che applicano il
criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti particolari e quelle
che viceversa fanno valere tale criterio per le regole o norme in generale.
Occorre precisare preliminarmente una precisazione particolarmente necessaria
in una cultura come quella italiana in cui l’utilitarismo, ben lungi
dall'essere studiato e discusso, è aprioristicamente liquidato e stigmatizzato
come una forma di egoismo del tutto inconciliabile con la moralità (è ancora
l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle sue Osservazioni sulla
morale cattolica nel 1819 a fare testo) che l'etica utilitaristica va tenuta
nettamente distinta dalle cosiddette concezioni egoistiche. È tipico dei
fautori dell'etica utilitarista fare riferimento a un’utilità che non riguarda
mai il singolo agente, ma che riguarda a seconda della formula privilegiata la
massima utilità generale, l’utilità del maggior numero, l’utilità di tutti,
l'utilità di tutti coloro che sono coinvolti ecc. Si possono individuare
diverse concezioni dell’utilitarismo anche tenendo conto della prospettiva
sottoscritta per quanto riguarda l'universo dei soggetti da tenere presente nel
calcolo utilitaristico. Vi è la tendenza a considerare la massima utilità che
va cercata come coinvolgente tutti coloro nei quali può essere rintracciato il
tipo di stato mentale che va massimizzato, che si tratti di piacere, dolore,
preferenze, desideri o altro. Proprio in questo senso è tipico
dell'utilitarismo il presentarsi come una concezione della morale che estende
la sua portata anche al di là dell’ambito delle persone umane, fino a
coinvolgere tutti gli esseri viventi in cui si trovi lo stato mentale (ad
esempio la sofferenza o il piacere) che il criterio deve minimizzare o
massimizzare con il corso di azione prescelto. Già in Bentham {Bentham) era
presente quell'apertura a una considerazione etica del mondo animale che
troviamo poi largamente sviluppata nell’utilitarismo contemporaneo. Per quanto
riguarda la caratterizzazione del bene che va massimizzato una differenza
classica è quella tra concezione edonistica che distingue tra i piaceri solo su
basi quantitative e quella che riconosce differenze qualitative. Così in
Bentham troviamo sviluppata l’idea che la misurazione quantitativa del piacere
€ del dolore è l'unico criterio in grado di dare una base esterna, valida e
pubblicamente discutibile, alle prese di posizione etiche. Bentham quindi
critica tutte le etiche alternative all’utilitarismo in quanto inclini a far valere
un criterio del rutto arbitrario in morale. La formulazione di un criterio di
misurazione della quantità del piacere, in gioco in corsi di azione che
coinvolgono più esseri senzienti, non è priva di difficoltà. Proprio
sull’inadeguatezza, ad esempio, del criterio offerto da Bentham si sono
concentrate le critiche degli avversari dell’utilitarismo. Si è rilevata tra
l’altro l'impossibilità di ridurre a una base unica piaceri diversi e
l'impraticabilità di quei confronti interpersonali di piacere e dolore che
sarebbero necessari. Resta poi anche costante la critica che la ricerca del
solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sembra lasciare
completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta del bene
massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di azione che
realizza un incremento della quantità di piacere, anche se questo risultato si
accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di tale piacere o benessere e
addirittura accentua la distanza tra individui che ottengono grandi quantità di
piacere e individui che ne ottengono una ridottissima. Dunque vi sarebbe
un’opacità di fondo dell'utilitarismo rispetto a questioni di giustizia
distributiva, e più in generale a questioni di diritti. Una diversa forma di
utilitarismo fu delineata da John Stuart Mill in Ut litarianism in parte già
come risposta a queste critiche e difficoltà del particolare edonismo di
Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative riguardano
l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insistenza sul
principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione delle proprie
gerarchie di piacere e che le sue opzioni laddove non procurino danno agli
altri vanno incorporate nel criterio utilitaristico. Mill nei suoi scritti non
si limita ad assumere come rilevante la distinzione qualitativa tra piaceri più
elevati e più bassi, ma sviluppa anche una tecnica con l’aiuto della quale
risolvere eventuali contrasti, e ciò che più conta usa questa distinzione per
proporre sostanziali innovazioni del costume morale a proposito del trattamento
delle donne, della questione dei lavoratori manuali, della povertà e della
scelta responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti relativi ai
piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che essi possano essere
risolti facendo appello all'opinione che si esprime nella discussione pubblica
con l'approvazione o la disapprovazione morale di coloro che conoscono tutte le
forme di piacere in gioco. La posizione di Mill per quanto riguarda la
distinzione qualitativa dei piaceri è stata spesso criticata e denunciata come
contraddittoria, in quanto mescolerebbe due differenti criteri di valutazione
(cfr. Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta un’etica mista,
ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di decisione, ma non.va data
come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una posizione normativa che cerchi
di conciliare due distinti principi ad esempio facendoli valere a diversi
livelli etici. Ma la grande svolta nella storia dell'utilitarismo è segnata da
quel momento in cui il criterio passa a prendere in considerazione non tanto le
componenti del piacere e del dolore, quanto, più genericamente, le preferenze
di coloro che sono coinvolti nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle
preferenze che si sviluppa in particolare nel secolo XX realizza uno
spostamento decisivo del criterio che non pretende più di fare riferimento a
una unità di misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto
accettando come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti
coinvolti e dunque identificando come giusto quel corso di azione che
massimizza la soddisfazione delle preferenze quali che siano. Le preferenze
possono tendere verso oggetti completamente diversi e dunque l’utilitarismo
delle preferenze dispone di uno strumento di valutazione etico più flessibile,
recuperando e ampliando in un senso ancora più liberale e individualistico
quell’esigenza di pluralismo fatta valere da Mill contro il riduzionismo oggettivistico
e paternalistico dell’utilitarismo di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989).
L'utilitarismo delle preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di trovare
una risposta per numerose questioni dell’etica teorica; in particolare sono
stati messi a punto criteri per distinguere preferenze di ordine diverso, quali
quelle antisociali di un sadico e quelle benevole o altruiste. Così John
Harsanyi (Harsanyi, 1985: 75-126} ha considerato rilevanti per l'etica solo le
preferenze benevole considerate imparzialmente, mentre Hare ha identificato
come eticamente significative le preferenze universalizzabili (Hare, 1989).
Infine non sono mancati utilitaristi che hanno proposto complesse tecniche di
valutazione critica delle preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di
accettare, dopo averle sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le sole
preferenze razionali ovvero basate su desideri non egoistici e pienamente
informati (Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo mostra dunque come,
a livello teorico, prevalga l’elaborazione di concezioni miste. Nel caso
specifico al criterio della massimizzazione si affianca quello della selezione
delle preferenze in base alla loro universalizzabilità formale o imparzialità
sostanziale. Malgrado questi tentativi di evitare il riduzionismo,
l'utilitarismo è stato insistentemente attaccato (Smart e Williams, 1985; A.
Sen e B. Williams, 1984) contestando la legittimità di un approccio che
considera come decisive le preferenze che di fatto un certo individuo si trova
ad avere. Procedendo in questo modo l’utilitarista non terrebbe conto che le
preferenze esistenti possono essere indotte dall'esterno o comunque niente
affatto adeguate ai bisogni reali degli individui che di fatto le rivelano. In
particolare A. Sen (1986) ha obiettato che la mera registrazione delle
preferenze rivelate finisce con il consolidare le distribuzioni di beni inique
di fatto già istituzionalizzate. Gli utilitaristi hanno cercato di rispondere a
queste critiche indicando che l'esigenza della massimizzazione delle
soddisfazioni delle preferenze può essere ottimiz. zata solo laddove si accetti
l’esistenza di una soglia per ciascun individuo al di là della quale un
incremento della soddisfazione delle sue preferenze realizza risultati meno
validi di quelli realizzabili incrementando la soddisfazione delle preferenze
di individui che stanno peggio (Pontara, 1988). Nella storia dell’utilitarismo,
specialmente nel XX secolo, si è proceduto anche su di un altro piano nel
cercare un correttivo che permettesse di fare valere nella massimizzazione una
qualche regola o principio distributivo. In questa linea si sono sviluppate ad
esempio varie forme di utilitarismo della norma © della regola. Sul piano
storico vi è stata una tendenza a considerare Bentham come un tipico esponente
dell’utilitarismo dell’atto e a trovare invece in Mill una posizione che
anticipa le esigenze dell’utilitarismo della regola o della norma (J. Urmson,
1953). Il problema principale affrontato da questa parte della riflessione
teorica interna all’utilitarismo è stato quello della possibilità o meno di
ricondurre l’utilitarismo della regola all’utilitarismo dell’atto. Nel caso poi
in cui si è concluso per la specificità dell'utilitarismo della regola, la
questione è stata se una teoria che fa valere un qualche riferimento a regole,
principi e norme non comporti una fuoriuscita dal quadro conseguenzialista
proprio dell’utilitarismo (Lyons, 1965). Nella riflessione sullassibilità di
conciliare l'accettazione primaria dell’utilitarismo dell’atto con un
riconoscimento di un qualche ruolo nella vita etica a principi e norme, partico
larmente interessante risulta un tentativo come quello di Hare. Hare ha
presentato una teoria dei due livelli di pensiero etico: uno, più intuitivo e
di senso comune, all’interno del quale valgono le regole e le norme, e l'altro
che si colloca invece sul piano della riflessione critica nel quale, viceversa,
si applica ditettamente alle singole azioni il criterio utilitaristico della
massimizzazione della soddisfazione delle preferenze di tutti coloro che sono
coinvolti (Hare, 1989). Più fertili sono da ritenere però quei tentativi di
presentare un utilitarismo della norma e della regola come itriducibile sul
piano normativo all’utilitarismo dell'atto. Così ad esempio procede Brandt, che
ha più volte fatto valere la sua posizione come una forma di utilitarismo della
norma ideale. In questa teoria il criterio etico decisivo è quello che
identifica le soluzioni rappresentandosi le norme da accettare in una società
ideale rivolta a soddisfare massimamente i desideri razionali dei suoi
cittadini (Brandt, 1992). Nel rendere conto delle varie specie di utilitarismo
va infine ricordato quell’utilitarismo che è sembrato preoccupato non tanto di
realizzare un saldo attivo di piaceri, quanto di minimizzare le sofferenze e i
dolori (R, N. Smart, LE ETICHE NORMATIVE). Questo tipo di utilitarismo negativo
è stato spesso criticato ad esempio da J. J. Smart (Smart, 1985) come
paradossale in quanto implica che la soluzione migliore è quella che riduce al
massimo il numero di esseri senzienti esistenti, in quanto per questa via si
procede certamente a una riduzione della quantità delle sofferenze. Ma se si va
al di là del piano speculativo sul quale si muove l’etica teorica sembra chiaro
che proprio il criterio di una riduzione delle sofferenze inutili ha avuto un
ruolo decisivo nei dibattiti più recenti sull’etica pratica. È stata questa la
via principale mediante la quale si è allargato l'ambito del discorso etico
anche alle questioni del trattamento degli animali ed ancora è questa la via
mediante la quale riprendendo le critiche di Bentham nei confronti delle etiche
ascetiche si continua a fare emergere l'inaccettabilità di quelle soluzioni
fittizie ricavate dall’imposizione di antropologie astratte. 4.8. La scelta
razionale come criterio normativo. Consideriamo poi quella concezione normativa
che sostiene che ciò che è bene o giusto fare, in una qualsiasi situazione che
ci presenta diverse alternative, può essere deciso cercando ciò che è razionale
o ragionevole fare, nel senso di ciò che soddisfa massimamente i propri
interessi e bisogni. Una concezione etica della scelta razionale è
riconoscibile in particolare negli scritti di alcuni teorici che difendono
l'economia di mercato, sostenendo che proprio la ricerca da parte di ciascun
individuo della massima realizzazione delle proprie esigenze consente di
ottenere i risultati migliori per la società nel complesso (Arrow, 1977 e
Buchanan, 1989). Naturalmente un punto decisivo per questa concezione normativa
sta nell'impegno a definire con maggiore precisione la natura di ciò che è
razionale massimizzare nella ricerca di una soddisfazione personale. In questa
luce si presentano come nettamente distinte: da una parte, una posizione che
tende a ritenere razionale qualsiasi scelta che ciascuno consideri come
massimizzante la propria utilità interpretata in termini di benessere o
vantaggio economico personale una teoria etica che muove dal riconoscimento di
una qualche sovranità del consumatore; dall’altra una posizione che interpreta
la scelta razionale come quella che massimizza, ad esempio, i bisogni più
profondi ed elevati della persona che sceglie. La teoria che ritiene eticamente
preferibile come criterio per le scelte pubbliche il comportamento che tende a
massimizzare l’utilità attesa da ciascuno degli agenti negli ultimi decenni è
stata attaccata lungo due linee: una rivolta a mostrarne le difficoltà interne
laddove venga presentata come teoria normativa da adottare per identificare
l'alternativa di azione ottimale; l’altra rivolta a farne risaltare la scarsa
portata analitica e esplicativa. Il primo ordine di difficoltà si esprime
specialmente osservando che, col. locandoci all’interno della teoria della
scelta razionale e regolandoci non diversamente da giocatori che cercano di
vincere la partita contro avversati egualmente razionali, finiamo con il
trovarci di fronte al ben noto dilerzizza del prigioniero (Axelrod, 1985 e
Resnik, 1990). Se più individui razionali in una situazione che li coinvolge in
competizione si fanno guidare per decidere la via da seguire dalla ricerca del
migliore risultato prevedibile sulla base del. l'attribuzione di un calcolo
eguale agli altri individui saranno costretti a privilegiare corsi di azione
che porteranno a un risultato niente affatto ottimale. Ll risultato migliore a
cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la massima utilità attesa,
presupponendo anche da parte degli altri un analogo comportamento, non
garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe realizzare solo introducendo
l'accettazione di qualche vincolo cooperativo da parte di tutti gli individui
presenti nella scena. L'altro tipo di critica avanzato ad esempio da Sen (1986)
è rivolto a mostrare i forti limiti esplicativi presenti nella teoria della
scelta razionale in quanto risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte
le nostre scelte in situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se
pensiamo a scelte che riguardano la disponibilità di beni quali strade, servizi
ecc. ci rendiamo conto che ciò che di fatto facciamo laddove privilegiamo una
decisione che porti alla creazione o all'uso regolato di uno qualunque dei beni
pubblici creazione e uso regolato che risultano costitutive della nostra forma
di vita non può essere in alcun modo spiegato come esito di una scelta ispirata
dalla teoria della scelta razionale. Infatti ispirandoci a tale criterio
dovremmo sempre tutti regolarci come free riders, ovvero come battitori liberi
che si preoccupano esclusivamente dei propri interessi, e ciò renderebbe
impossibile la convergenza sulla creazione e l’uso regolato di un bene
pubblico, Tale teoria non riesce dunque a rendere conto dell’esistenza di una
larga fetta della nostra realtà sociale. Va però segnalato che i teorici della
scelta razionale sono tuttora impegnati a elaborare modelli, coerenti con le
loro assunzioni, con cui rispondere a tutte queste obiezioni. In particolare si
sono sforzati di mostrare come nel quadro teorico della cosiddetta teoria della
scelta razionale o dei giochi ovvero in una situazione in cui sono presenti più
agenti razionali con obiettivi in competizione è possibile spiegare
l'insorgenza di norme e regole cooperative che permettono di convergere sui
risultati ottimali. In questa linea si è mosso ad esempio R. Sugden {Sugden,
1986) che ha molto lavorato nel cercare di mostrare come una teoria della
scelta razionale che preveda scelte ripetute, con la ricerca da parte degli
agenti di un aggiustamento reciproco in vista di un equilibrio più stabile,
permette di arrivare a rendere conto dell’accetrazione sociale di norme con un
minimo di contenuto cooperativo. Questo modello cerca di rendere conto
dell'ordine sociale in generale sviluppando alcuni tratti della ricostruzione
della genesi delle istituzioni cooperative già presente in Hume (Magri, 1994).
Questi modelli esplicativi valgono solo in quanto a posteriori rendono conto di
quello che si è già realizzato, ma è difficile usarli come criteri normativi
per scegliere comportamenti rivolti al futuro. I modelli della scelta razionale
sono stati adottati in modo indubbiamente fertile per rendere conto,
all’interno di un generale quadro evoluzionistico, di come tra gli animali
superiori si rafforzano abiti cooperativi in alternativa a quelli o del tutto
egoistici o assolutamente benevoli (Dawkins, 1992). Ma questa teoria nulla può
dirci quando si tratta di decidere quale, tra le differenti alternative di
comportamento che ci sono davanti, dobbiamo scegliere. L'esistenza di
differenti concezioni etiche il loro conflitto sempre risorgente non solo fa
nascere la questione della disponibilità o meno di criteri per affrontare
razionalmente i contrasti, ma fa sorgere anche il problema di come conciliare
la presa d'atto di una pluralità di concezioni etiche con il riconoscimento all'etica
di una qualche validità. In primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico
sembra essere ineliminabile nella società attuale. Non solo si tratta di una
constatazione di fatto, ma il pluralismo etico è considerato anche un valore.
Viene cioè considerata più apprezzabile una società pluralistica che una
società che in forme più o meno coercitive impone il prevalere di una sola
etica. Quest'ultima assunzione valutativa non è però condivisa dalle cosiddette
concezioni comunitarie (Ferrara, 1992) che invece privilegiano società in cui
si realizzi una forte convergenza sui valori e anzi al limite siano
caratterizzate da un'unica morale {MacIntyre, 1988). Ma al di là dei timori per
un pluralismo etico eccessivo e delle tentazioni per una società segnata da una
forte uniformità, vi sono argomentazioni e distinzioni che sorreggono una
preferenza per situazioni caratterizzate da una pluralità di etiche in
competizione. Tutta la tradizione liberale trova nella fioritura pluralistica
una condizione che favorisce lo sviluppo di tutte le differenti potenzialità
creative presenti nella natura umana. Tale posizione presente ad esempio in
pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill, 19814)
ritiene che solo un'effettiva libertà per gli esseri umani di vivere Îl tipo di
vita che essi ritengono giusta, libertà garantita anche accentuando le
differenze, permette che vi sia una piena realizzazione e un progresso delle
capacità umane. L’uniformità porterebbe invece a una completa atrofizzazione di
queste capacità. Una posizione a favore del pluralismo etico presuppone che si
riescano a tenere ben distinte due dimensioni dell'etica: da una parte, quella
che riguarda quel minimo comune denominatore di principi e regole cooperative
che sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia una qualche
stabilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che ha a che
fare coni modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per quanto riguarda lo
stile di vita da preferire. Proprio sul piano che riguarda i valori e gli
ideali etici un confronto tra progetti anche alternativi può segnare un
arricchimento e uno sviluppo della cultura umana. Sul piano più ristretto
dell'etica minima in gioco laddove si tratta delle basi della convivenza è
invece difficile ritenere adeguato un pluralismo di fondo. Ritorna qui dunque
una distinzione già presente nella tradizione giusnaturalistica tra il piano
dei diritti o doveri perfetti e quello dei doveri imperfetti. Questa posizione
di apprezzamento per un contesto sociale e culturale segnato dal pluralismo
etico o pluralismo dei valori va tenuta però distinta da una concezione che
sottoscriva un completo relativismo. Va, infatti, tenuta chiaramente distinta
una posizione che, sul piano descrittivo, prenda atto che si confrontano
diverse concezioni etiche, dunque tutte relative e non assolute, da una
posizione che assuma da un punto di vista normativo le conclusioni del
relativismo. Il relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo ragioni
per ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione a
un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna validità
alle distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e ingiusto. È invece
caratteristico del nostro tempo il fatto che si riesca a sostenere con
decisione e forza di convinzione la propria soluzione etica ai problemi pur
rispettando è tollerando quelle diverse dalla nostra. Ma in questo caso
l'ammissione di altre posizioni etiche non equivale a ritenere che l’una vale
l’alira. Come si è ben detto (in particolare da parte di Berlin, 1989 e Rorty,
1989, ma a livello teorico la posizione era stata già illustrata da Juvalta, ed
è stata più recentemente derivata da una meta-etica non-cognitivista, da
Scarpelli, 1982) la situazione è per paradossale che possa sembrare quella di
chi si impegna con decisione a fornite ragioni a favore del proprio punto di
vista etico pur riconoscendo, ammettendo e rispettando un interlocutore che fa
valere un altro punto di vista e differenti ragioni. La consapevolezza che il
proprio punto di vista etico non è quello assolutamente giusto e buono consente
di tollerarne altri. Ciò non toglie che, comunque, è il nostro punto di vista a
valere di più ad essere più buono e più giusto fin quando non ci verranno
presentate ragioni o non faremo esperienze che ci costringeranno ad
abbandonarlo. Le distinzioni che stiamo suggerendo partono dal presupposto che
si sia completamente abbandonata la pretesa di un'assolutezza dei valori in
generale e dunque anche del proprio punto di vista etico. Una condizione
propria del nostro tempo che M. Weber esprimeva con l’espressione «politeismo
dei valori» (Weber, 1958). Viceversa risulterà impossibile conciliare
pluralismo, relativismo empirico, tolleranza e impegno per il proprio punto di
vista se si muove dalla convinzione che l’etica deve avere a che fare con
qualcosa di assoluto. Ma quest’ultima prospettiva nel XX secolo è largamente
inattuale e perdente, in quanto certamente non può essere conciliata con una
meta-etica che pretenda di avere dalla sua una qualche verità e capacità di
rendere conto della nostra effettiva esperienza morale. Proprio la persistenza
di questa prospettiva assolutistica dell'etica continua a generare confusione e
conflitti e contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo la coesistenza,
in quanto mossi da forme di fanatismo morale che non tollerano le differenze.
La trasformazione che stiamo vivendo con il passaggio da un contesto etico
caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad uno che accetta la finitezza
e mutevolezza dei punti di vista morali può essere vissuta in due diversi modi.
Da una parte ci sono i nostalgici che vivono il tempo e la società presente
come caratterizzati da una perdita e da un regresso; sono coloro che identificano
il passaggio da valori assoluti a valori frutto delle scelte umane come l’atto
di nascita di un completo nichilismo e di una cultura del tutto
irrazionalistica. Per costoro non vi è alternativa tra un fondamento assoluto e
la più completa irrazionalità e mancanza di senso. Dall'altra e chi scrive si
riconosce in questa seconda linea vi sono coloro che vedono la nuova condizione
come un guadagno in quanto ci si è finalmente liberati di miti e illusioni. La
credenza in valori assoluti è stata, ed è tuttora, all'origine di pericolosi e
insanabili contrasti. L'alternativa non è il nulla o la perdita di senso della
nostra esistenza ma piuttosto un'etica che muove da un piano più realistico e
empirica. mente fondato. I valori derivano quindi da scelte e decisioni che gli
uomini assumono responsabilmente tenendo conto delle loro emozioni, delle loro
limitate capacità intellettuali e delle loro condizioni effettive. Credere
questo non equivale ad avere perso qualcosa, ma viceversa ad avere puadagnato
una prospettiva che permette agli esseri umani di muoversi, su un piano di
parità, verso soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi pratici.
Dall’etica teorica all'etica pratica. Dall’etica teorica all’antropologia:
motivazione e obbligazione. La storia dell'etica è ricca di pensatori che
uniscono alle tesi normative, specifiche concezioni antropologiche relative
alle motivazioni, i bisogni, i desideri e gli interessi degli esseri umani.
Potremmo anzi sostenere che è comune che a un'etica teorica si accompagni un’etica
antropologica, ovvero una psicologia della morale che su basi più o meno
empiriche pretende di descrivere come gli uomini sono fatti e procedono nelle
loro scelte. Questa commistione tra piano normativo e piano descrittivo ed
empirico risulta largamente praticata specialmente dal secolo XVII in avanti,
dopo che è entrata in crisi Ja conce. zione innatistica della legge naturale,
che riteneva la legge morale naturalmente obbligante in quanto presente
originariamente nella coscienza di tutti gli esseri umani. Il quadro filosofico
del XVII secolo segna il tramonto di questa soluzione innatistica nel
collegamento tra legge morale obbligatoria e base motivante negli esseri umani
e dunque per l’etica moderna e contemporanea diventa essenziale non solo la
questione di ciò che è bene o giusto, ma anche di ciò che rende effettivamente
obbligante per gli uomini il bene e il giusto (cfr. Fagiani, 1983). Si avvia
quindi una ricerca sistematica sulla motivazione e la base psicologica che
rende obbligatoria una condotta etica, Nel pensiero moderno è ricorrente, per
quanto riguarda la motivazione morale, una concezione che nega che ciò che
viene scoperta 0 trovato con l’aiuto della sola ragione possa avere di per sé
forza obbligante o motivante, Un residuo di attribuzione di forza obbligante
alla ragione in quanto tale si può trovare nella concezione di giusnaturalisti
come Grozio (Grozio, 1625) o in quei pensatori che come ad esempio Joseph
Butler (Butler, 1970) nel corso del Settecento indicano nella coscienza non solo
un principio in grado di trasmettere la consapevolezza della legge morale, ma
anche di obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai teorici dell'etica è
piuttosto quella alternativa di negare alla ragione la capacità di motivare
all’azione e dunque di negare forza obbligante alle norme e leggi scoperte
attraverso l’uso del solo intelletto. Muovendo da questa premessa è dunque
necessario procedere a uno studio empirico della natura umana e in particolare
della condotta per vedere che cosa muove ad agire. Viene così ampiamente
ripresa nel corso del XVII secolo la tesi edonistica secondo la quale solo il
piacere e il dolore muovono all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke,
quando fanno riferimento al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in
modo del tutto esclusivo, alla persona che agisce. Proprio su questa base tanto
Hobbes quanto Locke sembrano appoggiare la forza obbligante della legge
naturale esclusivamente sul potere di sanzione. Nel caso di Hobbes il potere
sanzionatorio viene legato a un calcolo prudenziale relativo ai benefici e ai
danni che nel corso della vita terrena si ricevono uniformandosi alle leggi
naturali. Locke lega invece il potere sanzionatorio della legge naturale, e
dunque la sua forza obbligante, alla considerazione del premio e delle pene che
si potranno ottenere in un’altra vita (Locke, 1971). La concezione che lega la
forza obbligante e la capacità di motivare della morale e dell'etica in
generale a qualche sanzione viene spesso riproposta nel pensiero moderno e contemporaneo,
ad esempio rinviando alla forza sanzionatoria data da qualche piacere o dolore
fisico comunque in gioco. Erede di questa tradizione può essere considerato
Bentham con il suo tentativo di agganciare al potere sanzionatorio del sovrano
la forza della legge giuridica. Non diversamente in questa linea va collocato
il positivismo giuridico del secolo XX. Proprio l’approfondimento della
conoscenza della natura empirica degli uomini porta tra la fine del XVII secolo
e la metà del XVIII a elaborare una concezione della forza obbligante
dell’etica che, pur non riconducendola a una capacità automotivante della
ragione o delle facoltà intellettuali, non la tiduce però al sanzionamento in
termini di piacere e dolore fisici, genericamente intesi. Questa ricerca di una
base specifica di motivazione per la morale è già presente alla fine del secolo
XVII in Shaftesbury, che proprio dall'osservazione empirica degli uomini fa
derivare la scoperta di un peculiare «senso morale» che non solo porta gli
uomini ad approvare le azioni virtuose, ma anche a sentirsi spinti a compiere
tali azioni e ove tali azioni non sono compiute a provare emozioni di disagio e
sradicamento da ciò che è più proprio del genere umano, È dunque la struttura
passionale degli uomini a presentare un'inclinazione in parte già colta
dall’antropologia aristotelica a compiere azioni in generale cooperative.
Questa stessa linea analitica verrà sviluppata ancora nel corso del XVIII
secolo da Hutcheson e Hume. Il nucleo distintivo di questa ricostruzione della
forza obbligante del comportamento etico sta nel mostrare nella psicologia
degli esseri umani una base motivazionale del tutto autonoma e specifica che
spinge a fare azioni eticamente rilevanti. Questi autori poi si
differenzieranno tra loro in quanto presenteranno o meno come motivazione
universalistica tale base psicologica. Così mentre da una parte troveremo
pensatori come Shaftesbury, Hutcheson e Smith che rinviano a un altruismo o
benevolenza più o meno universali, dall’altra troveremo chi, come Hume,
riconoscetà come motivante solo una benevolenza limitata che si estende
piuttosto ai legami familiari. L'idea di tutti questi autori è comunque comune.
Il senso morale approva determinate azioni perché esse risultano motivate non
solo da un esclusivo amore di sé, ma da una benevolenza più o meno estesa. La
stessa approvazione del senso morale costituisce poi una motivazione aggiuntiva
al comportamento virtuoso. Risulta dunque chiaro in questa strategia analitica
che la condotta etica trova una sua base motivazionale in inclinazioni naturali
degli uomini per una forma più o meno estesa di altruismo e interessamento per
gli altri. Un aspetto teorico significativo per il quale questi autori si
distingueranno sarà il loro modo di rendere conto della naturalità della
motivazione etica. Accanto a coloro come ad esempio Shaftesbury o Hutcheson che
considereranno la motivazione a fare azioni cooperative come originaria per la
natura umana, vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto come risultato o
prodotto di un processo evolutivo o di civilizzazione piuttosto lungo. Nel
corso del XVIII secolo la spiegazione delle basi motivazionali del
comportamento morale sarà inserita sempre di più in un quadro artificialistico
ed evolutivo, Una spiegazione genetica evoluzionistica e artificialistica della
motivazione alla condotta etica è, ad esempio, già presente in Mandeville e
viene sviluppata estesamente da Hume e poi in una direzione ancora più ampia da
pensatori come J. J. Rousseau, A. Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono
impegnati nel progetto, che sembra centrale per gli intellettuali del XVIII
secolo, di ricostruire la storia della civilizzazione umana avvalendosi della
teoria stadiale, ovvero di quella concezione che scandisce in quattro stadi
diversi (della caccia e pesca, dell’allevamento, dell’agricoltura, e del
commercio) la storia dell'umanità (Meek, 1981). La prospettiva impegnata a
delineare il processo artificiale attraverso il quale gli uomini giungono a
disporre di una base psicologica e motivazionale specifica per il comportamento
etico (0 coopera tivo) viene realizzata nel corso del XVIII secolo anche lungo
una diversa linea associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle
motivazioni propriamente etiche viene spiegato come un risultato di ripetute
associazioni. Significativo anche per un lettore del XX secolo il contributo
analitico di David Hartley, il cui associazionismo è propriamente fisiologico,
e poi di alcuni esponenti dell'Illuminismo francese (ad esempio Claude-Adrien
Helvétius, Etienne Condillac, Paul Heinrich Dietrich D'Holbach ecc.) e ancora
di utili taristi come James Mill e J. S. Mill. Nel XIX secolo la genesi delle
motivazioni cooperative sarà collocata in un quadro più esplicitamente
evoluzionistico da Darwin e Spencer (Ruse, 1986). Questa linea di spiegazione
evoluzionistica che coinvolge il livello biologico della genesi di una base
motivazionale ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel
corso del XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una
vera e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990), si è
piuttosto impegnato a mostrare analogie e differenze tra gli istinti
cooperativi presenti negli uomini e quelli rintracciabili negli animali. La
ricerca rivolta a individuare una base motivazionale nella natura emotiva degli
uomini a cui agganciare l'obbligazione etica si estende ben al di là delle
concezioni che abbiamo appena delineato. Non sono mancati coloro che hanno
indicato come carattere distintivo della specie umana la capacità di essere
motivati a compiere azioni degne di apprezzamento per il solo gusto o senso del
dovere da compiere, e dunque per il solo essere richiamati da ciò che vale: una
strategia che risulta percorsa da Kant e da coloro che a lui si richiamano come
ad esempio K. O. Apel {Apel, 1977). Al polo opposto si colloca la strategia di
analisi, scettica e riduzionistica, che ha del tutto negato che negli uomini
sia rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o scegliere liberamente,
e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare ai piaceri e ai dolori degli
altri esseri umani. Nel XX secolo entra in crisi la pretesa di disporre di una
antropologia universalistica che sia in grado di indicare con nettezza passioni
e sentimenti presenti in tutti gli uomini o viceversa di negare agli esseri
umani generalmente intesi una qualche motivazione. L'analisi antropologica,
piuttosto che rinviare a una base motivazionale comune, si impegna ad elaborare
più strategie mediante le quali si può spiegare la forza obbligante delle
regole morali. Risulta pur sempre difficile riuscire rendere conto del ruolo
obbligante dell'etica laddove si ritiene che gli esseri umani siano mossi dal
più rigido egoismo; stanno a dimostrarlo la crisi e le difficoltà a cui è
andata incontro la teoria della scelta razionale (cfr. $ 4.8). In positivo,
dunque, risulta del tutto acquisito che per dirla con Williams (Williams)
nessun discorso può riuscire a rendere motivante per un essere umano un
principio etico cooperativo se nella struttura emotiva di questo essere umano
non è già presente (probabilmente come frutto della sua formazione e
iniziazione alla cultura umana) un minimo di interessamento per i piaceri e i
dolori di un altro essere urnano. Da questa prospettiva come da altre il
contesto dell'etica coinvolge direttamente non solo la capacità di chi agisce
di presentarsi come essere fornito di una sua identità, ma anche di riconoscere
l'identità degli altri. Passiamo dunque a rendere conto della portata delle
analisi sulla natura dell’identità personale nell’etica teorica. 5.2. Il ruolo
dell'identità personale nell’etica. Nell’etica medievale il rinvio all'anima
sostanziale rappresentava un fondamento e un preciso criterio per risolvere le
questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo della sostanza
spitituale si presentavano le norme da applicare in etica e dall'altra
l'individuazione dell'universo di esseri forniti di sostanza spirituale metteva
a disposizione un chiaro criterio di applicazione ed estensione dell’ambito mo.
rale. Questa concezione semplice dell'etica che ruota intorno a una sostanza
che è la persona umana e che non è riducibile ad altro, nello stesso tempo
oggetto e soggetto esclusivo della vita morale, è entrata in crisi tra il XVII
e il XVIII secolo quando l’identità personale non è più risultata riconducibile
a una sostanza. Alla filosofia di Locke prima e a quella di Hume poi si può far
risalire il superamento critico della concezione sostanzialistica della persona
umana e dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che concepisce
tali realtà come complesse e cerca di spiegarne la natura riconducendola a
qualcosa d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione delle concezioni complesse
e ridu zionistiche dell’identità personale si presenta la difficoltà di
riuscire a rendete conto del soggetto morale con quel minimo di stabilità
necessaria per dare una base a nozioni essenziali per l'etica quali
responsabilità, merito, demerito ecc. Un altro problema a cui vanno incontro le
concezioni riduzionistiche e complesse dell'identità personale sta nella
difficoltà con cui riescono a rendere conto del valore morale senza farlo
dipendere esclusivamente da una considerazione degli atti di per sé stessi, ma
riuscendo a collegarlo anche con una considerazione del carattere e dei motivi
dell'agente. La connessione tra la considerazione del carattere e dei motivi e
i giudizi morali è al centro, ad esempio, dell’analisi delle virtù e dei vizi
delineata da Hume e Smith e sembra tanto profondamente radicata nel senso
comune morale da non poter essere soppiantata da una qualche teoria che indica
come eticamente rilevanti le sole azioni. La riflessione di marca empiristica e
analitica sulla natura dell’identità personale si è dunque sempre più impegnata
dal Settecento a oggi nell’elaborazione di una spiegazione della continuità e
stabilità dell’io che, senza dover ricorrere alla nozione sostanzialistica e
semplice di io, fosse conciliabile con l’uso di categorie centrali del
linguaggio etico-giuridico quali responsabilità, merito, demerito, punizione,
condotta virtuosa ecc. Un’estensione dell'analisi complessa e riduzionistica
dell'Io anche a livello di ricostruzione della vita morale oltre che sul piano
conoscitivo viene avviata da Henry Sidgwick nel 1874 con i suoi Methods of
Ethics (I metodi dell'etica), ed è stata poi sistematicamente realizzata nella
seconda metà del secolo XX da pensatori come Nagel, Parfit, Nozick ecc. Si può
ipotizzare che questa recente fortuna di un'analisi dell'etica che muove da una
concezione complessa dell'identità personale sia un riflesso, a livello
filosofico, di quel fenomeno più generale a cui si allude sinteticamente con
l’espressione «perdita del Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle
società occidentali, la grande quantità di novità che quotidianamente ciascun
essere umano deve raccordare con l’esperienza passata e con i punti di
equilibrio in essa raggiunti hanno reso sempre più frammentaria la continuità
della vita interiore e difficoltosa l'operazione di recuperarne una qualche
stabilità. Va peraltro sottolineato che le concezioni complesse e analitiche
dell'identità personale più che essere impegnate in lamentele e declamazioni
sulla «Perdita del Soggetto» cercano di elaborare una concezione dell’essere
umano eticamente responsabile che sia adeguata alle trasformazioni culturali
degli ultimi secoli, trasformazioni che hanno reso il rinvio a un qualche
Soggetto sostanziale solo un mito privo di qualunque fondamento empirico. Le
analisi di Parfit sfociate nel volume del 1984 Reasons and Persons (Ragioni e
persone) presentano lo sforzo più approfondito di sviluppare gli spunti
presenti nell'opera di Sidgwick e di ridefinire, muovendo da una nuova
concezione appunto riduzionistica e complessa dell’identità personale nozioni
come quelle di responsabilità morale, merito e demerito ecc. Se tuito ciò che
troviamo dietro la soggettività e l'identità di una persona umana è una qualche
continuità psicologica più o meno stretta, ne consegue che i nostri giudizi
morali © giuridici dovranno essere del tutto a posteriori e investire
interrogativi quali: «quanto la persona che ci sta di fronte è la stessa di
quella che ha compiuto l’azione? », «quanto l’azione che la persona ha compiuto
si inserisce nel flusso più continuo e stabile delle sue abitudini e del suo
carattere e quanto invece ne rappresenta una rottura?» ecc. L'approccio
empiristico all’identità personale comporta dunque non già l’eliminazione delle
nozioni etiche tradizionali dal nostro lessico morale, ma una loro ridefinizione
in modo tale da presupporre connessioni più deboli e meno definitive: tra le
azioni e la persona che le ha compiute; tra la persona come attualmente è e la
sua storia passata; tra il tipo di intervento che possiamo fare sulla persona
attuale e la sicurezza che, utilizzando determinati mezzi, potremo ottenere
certi risultati che coinvolgono il suo io futuro. In generale ci si muove verso
una concezione meno assolutistica e necessitante dell'etica di quella che
accetta chi crede nella persona come sostanza. Ed è ovvio che una prospettiva
del genere risulta del tutto in linea con l’epistemologia empiristica, ma e si
tratta di ciò che più conta anche forse, oggigiorno, fertile sul piano
esplicativo e predittivo, L’approccio all'identità personale che la considera
come una successione di io che hanno tra di loro una connessione psicologica
più o meno stretta è ben lontano dall'essere diventato «senso comune» e ranto
meno sembra corrispondere intuitivamente a quella concezione della persona che
troviamo radicata nella parte morale del nostro «senso comune», una parte che
tende a trasformarsi con più lentezza e prudenza di quella intellettuale. Vanno
però messe in luce le implicazioni normative che accompagnano le analisi di
tipo complesso e riduzionistico dell'identità personale, anche se per ora
occorre confinatne la portata solo alle premesse intellettuali di un sistema
morale che pretenda di essere costruito su credenze vere. Un approccio
all'identità personale che metta in secondo piano una concezione sostanzialista
e semplice della persona umana favorisce anche un complessivo riassetto
normativo. In primo luogo questa linea epistemologica porta al rifiuto di una
concezione statica e sostanziale del bene morale, la presa di distanza da un
modo di intendere la responsabilità morale come legata a colpe, peccati o
meriti che solo un Essere Assoluto, in grado di conoscere la struttura
sostanziale della persona e i più riposti pensieri degli esseri umani, può
giustamente distribuire. La responsabilità morale in questa prospettiva ha
invece a che fare non già con riposte intenzioni, ma principal. mente con ciò
che effettivamente si compie in un campo di azioni pubblicamente osservabili.
In secondo luogo poi tale approccio contribuisce anche a scalzare le basi
analitiche che sorreggono l’impianto normativo dell’egoismo razionale. Ancora a
Parfit si devono dettagliati argomenti che mostrano, una volta assunta la
prospettiva complessa e riduzionistica dell'io, quanto risulti ingiustificata
una preferenza per le parti future della propria vita nei confronti delle vite
attuali di altri esseri umani. La ragionevolezza ed evidenza di una
preoccupazione esclusiva su base egoistica e prudenziale per i nostri io futuri
non risulta affatto giustificata una volta che si diventi consapevoli della
complessità di passaggi che muovendo dal nostro io attuale porta ai nostri io
futuri laddove non si postuli più la persistenza di una stessa sostanza
semplice. Tra il nostro io attuale e quello che saremo fra numerosi anni vi
sono connessioni più dubbie e dunque relazioni più deboli rispetto a quelle che
possiamo istituire oggi con i Sé degli altri esseri umani. L'impegno nella
costruzione di un'etica più imparziale e meno rigidamente egocentrica sembra
dunque avere tutto da guadagnare dalla revisione dell'identità personale
intrapresa dalla filosofia empiristica. Infine risulta del tutto indebolito il
ruolo della nozione di persona come categoria essenziale per la determinazione
dell'universo di esseri per i quali valgono le nozioni etiche. Se ciò che conta
in morale non è più solo la presenza di qualche peculiare sostanza semplice di
natura spirituale, ma gli atti che si compiono più o meno responsabilmente,
nulla vieta che divengano eticamente rilevanti anche atti che non coinvolgono
persone umane. Passando attraverso atti responsabilmente connessi con
dimensioni quali la sofferenza e il danno o il piacere e la soddisfazione di
bisogni e desideri, possono diventare rilevanti per l’etica gli animali, o gli
oggetti che costituiscono l’ambiente, o realtà di certo non personali nel senso
di essere effettivamente presenti ora come sostanze semplici con una loro
propria individualità quali, ad esempio, i membri di generazioni future molto
lontane. È questa dunque la via epistemologica che porta ad abbandonare quella
concezione ristretta dell'etica che si ha quando si è costretti a passare
sempre attraverso la cruna d'ago fornita dalla persona. In particolare sono le
etiche utilitaristiche e conseguenzialiste che si sono impegnate in questo sforzo
di fornire indicazioni normative congruenti con le concezioni di derivazione
empiristica dell'identità personale e dell’universo degli esseri moralmente
rilevanti. Etica del carattere 0 dell’azione. Come abbiamo visto le diverse
concezioni etiche si distinguono sulla questione di quale sia da considerare
l'oggetto proprio di una valutazione. Su questo piano la differenza più
rilevante è quella tra chi ritiene che l’unico oggetto peculiare di valutazione
etica sono le azioni e le loro conseguenze e chi invece ritiene essenziale il
riferi mento al carattere 0 comunque a qualche qualità interna (intenzione
ecc.) di chi agisce. Le due diverse concezioni hanno entrambe dei punti a loro
favore. Si può anzi suggerire che la concezione più adeguata sia quella che non
ricorra in modo esclusivo o all'uno a all’altro approccio o azione o tratti del
carattere ma piuttosto sappia integrare entrambe le esigenze. A favore della
concezione che ritiene esclusiva l’attenzione per le azioni vi è l'esigenza
fatta valere in modo decisivo non solo dall’utilitatismo, ma anche dal
garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989) che ciascuno possa essere ritenuto
responsabile solo di quello che ha effettivamente compiuto e non possa essere
giudicato negativamente sulla sola base di presunte predisposizioni 0
inclinazioni ad agire, che tra l’altro rinviano a una pretesa capacità di
cogliere l'essenza o vera natura di una persona. Il riftuto della concezione
sostanzialistica della persona umana è tra l’altro accompagnato dallo sforzo di
ricollocare l'etica su un piano più esterno e comportamentale. La
considerazione prevalente delle azioni effettivamente compiute segna anche il
tramonto di valutazioni che investono i piani del peccato o della colpa.
Considerando come positivo il superamento di un approccio etico che pretenda di
presentare valutazioni assolute basate su di una presunta conoscenza finale del
carattere o della natura di una persona, va però segnalato un limite di questo
approccio. Un'etica che pretenda di derivare in modo esclusivo le sue
valutazioni dalla considerazione dei comportamenti esterni degli esseri umani
sarà costtetta a omologare azioni criminose e incidenti colposi e non sarà
comunque in grado di discriminare tra azioni compiute in contesti motivazionali
e intenzionali differenti. La valutazione etica non sembra potere prescindere
dall'esame di quanto le azioni in gioco siano responsabili e dunque frutto di
intenzioni e non del tutto casuali o determinate da costrizioni al di là della
portata di chi agisce. Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere
anche la responsabilità delle azioni considerate rappresenta un argomento a
favore delle concezioni che pongono al centro della loro considerazione il
carattere di chi agisce. In questo si sono impegnate le cosiddette etiche della
virtà. Una tradizione che diversamente da quanto è stato recentemente sostenuto
(MacIntyre, 1988) non è certo confinata alla cultura antica e medievale, ma ha
trovato anche nella cultura moderna e contemporanea dei sostenitori. La concezione
dell'etica che ritiene centrale la considerazione del carattere sembra
salvaguardare alcune esigenze essenziali per una adeguata teoria della
valutazione morale. Anche questo approccio ha però bisogno di correttivi, ÎNon
solo risulta dubbia un'attenzione per il carattere tanto esclusiva da giudicare
una persona condannabile per il solo fatto che ha determinate intenzioni, ma
una considerazione etica esclusivamente attenta al carattere può portare a
considerare virtuoso anche chi si limiti a manifestare certi principi o
convinzioni etiche e poi di nascosto agisce in modo completamente diver: gente.
Un’etica dell’intenzione può anche portare a ritenere giustificati atti
gravemente dannosi rinviando a presunte intenzioni benefiche di chi li compie.
Un'etica dell'intenzione o del carattere corre il pericolo di sottoscrivere
posizioni morali esclusivamente predicatorie o addirittura ipocrite, alle quali
comunque non corrisponde alcun effettivo comportamento.Nella conciliazione,
tutt'altro che semplice, delle due concezioni sull’oggetto della valutazione
morale sono impegnati in particolare i fautori dell’utilitarismo della regola o
delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di un'integrazione delle considerazioni
etiche sugli atti con quelle relative ai caratteri e alle intenzioni vanno
anche molte delle discussioni di casi concreti nelle quali si sono impegnati
specialmente nella seconda metà del secolo XX (cfr. $ 5.4) gli esponenti
dell'etica contemporanea. Ad esempio, larga parte della discussione etica
contemporanea su situazioni concrete quali quelle legate alla nascita e in
particolare all'aborto € alla morte e in particolare all’eutanasia è legata
alla riflessione sul ruolo più o meno decisivo delle intenzioni in gioco.
Proprio la tesi di un ruolo essenziale delle intenzioni nelle valutazioni delle
scelte relative all'inizio e alla fine della vita umana ha portato ad elaborare
la dottrina del «doppio effetto» (Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con questa
dottrina si è ritenuto di potere distinguere tra diverse ricorrenze della
stessa azione, considerandola rispettivamente o come una conseguenza diretta e
voluta dell'intenzione di ottenere questo risultato o viceversa come effetto
secondario e non direttamente voluto dell'intenzione rivolta a un risultato
benefico. Laddove l'effetto diretto della nostra intenzione è, ad esempio,
garantire la nascita di un bambino, solo un doppio effetto non voluto è la
morte della madre; o all’altro confine della vita laddove effetto diretto della
nostra intenzione è l’azione rivolta a un'attenuazione delle sofferenze di un
morente, è solo un effetto secondario non direttamente voluto la morte della
persona, quale conseguenza dell’uso di farmaci per attenuare il dolore. Ma
questa concezione va incontro a un’insormontabile difficoltà di ordine
epistemologico, in quanto ovviamente non sono disponibili procedure affidabili
per discriminare tra una dichiarazione di intenzione del tutto ritualistica o
ipocrita e una dichiarazione veritiera. In questo senso la prospettiva che
ruota intorno alla centralità dell’intenzione si presenta come il residuo di
una fase in cui l’etica teorica era impegnata a far valere per il giudizio
sulle azioni umane un punto di vista ideale o divino. Un'’etica fatta su misura
per le esigenze della specie umana, pur riconoscendo la rilevanza delle
motivazioni delle azioni, indebolisce però la portata delle intenzioni
considerandole come componente aggiuntiva e sussidiaria del giudizio etico e
non già come aspetto decisivo ed esclusivo. Fa parte della riflessione sull’oggetto
proprio delle valutazioni etiche anche la discussione sulla possibilità di
distinguere nettamente da un punto di vista assiologico tra azioni e omissioni.
Questa distinzione viene considerata sempre meno influente per l'etica (Glover,
1977; Singer, 1989) proprio da quelle concezioni che come l’utilitarismo hanno
messo al centro della valutazione le azioni e la considerazione delle
conseguenze. L’utilitarismo contemporaneo fa propria in realtà una nozione non
riduttiva di azione, data la quale risulta chiaro che il non fare qualcosa
quando si ha la possibilità di farlo è eticamente rilevante non meno del
compimento effettivo di un atto. Ciò che conta è la nostra responsabilità che
si agisca o non si agisca per conseguenze nella situazione futura, in quanto
esse dipendono comunque da nostre scelte e decisioni. Si può avanzare l’ipotesi
che nel corso degli ultimi secoli della storia della cultura occidentale la
struttura del nostro discorso morale si sia trasformata nel senso di
un'estensione della portata del lessico legato primariamente alle azioni e di
una correlativa riduzione dell'incidenza di quella parte del lessico legato a
emozioni, sentimenti, stati d'animo, intenzioni, caratteri ecc. Da questa
ipotesi si ricava che per quanto forte possa ancora essere, al livello della
predicazione, la riaffermazione di un’etica di tipo agapistico o dell'amore
universale (un’etica cristiana genericamente intesa), tale etica risulta poi in
secondo piano, quando ci si impegna in una riflessione critica rivolta a indivi.
duare regole e principi etici concreti a cui ispirarsi. L'appello a sentimenti
quali l’amore o una benevolenza universale sembra essere del tutto irrilevante
quando siamo impegnati a identificare il migliore comportamento effettivo nelle
situazioni eticamente rilevanti che ci sono di fronte. Certamente tale appello
può continuare a mantenere un ruolo decisivo laddove siano in gioco concezioni
super-erogatorie e ideali sul dovere (che coinvolgano ad esempio la santità e
l’eroismo), che hanno però un ruolo sempre più marginale nella morale di senso
comune di società altamente complesse e popolate come quelle nelle quali
viviamo. La nostra ricerca etica è piuttosto rivolta a regole più modeste e
limitate che incidano però effettivamente sulle azioni o omissioni della nostra
vita quotidiana, in modo tale che le conseguenze dei nostri stili di vita siano
benefiche o quanto meno non disastrose € dannose per le generazioni future. La
svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. Nel corso del XX secolo
l'orizzonte di riflessione che muove dai problemi pratici concreti degli esseri
umani è stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di pensatori
che hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente metaetica e
astratta. Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi nella
riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni Settanta, con
l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco e Fox, 1986). Questo
appello all'etica applicata è stato fatto valere, successivamente, con due
diversi obiettivi critici. In un primo periodo l'appello era rivolto a fare sì
che punto di partenza e punto di arrivo della riflessione etica fosse
considerato non già la conoscenza della natura della morale e delle forme di
ragionamento in essa valide, ma la ricerca di soluzioni normative. In un
secondo periodo a partire dagli anni Ottanta si sono contestate le stesse
risposte normative offerte dalle opere sistematiche degli anni Settanta e la
richiesta avanzata è stata che in luogo di criteri normativi generali validi
per tutte le questioni etiche la riflessione critica fosse rivolta a delineare
soluzioni più determinate e settoriali in grado di risultare rilevanti per una
delle diverse dimensioni problematiche riconoscibili all'interno dell'etica
pratica. La prima esigenza fatta valere negli anni Settanta è stata dunque
quella di trasformare la teoria etica in modo tale che in essa l’obiettivo
principale fosse non già quello logico-conoscitivo di mettere a punto una
meta-etica e dunque una conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo
sistematico di un risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di
J. Rawls e Gautbier, il neo-utilitarismo di }. Harsanyi e poi di R. M. Hare e
R. Brandt, le diverse teorie dei diritti di R. Nozick e di R. Dworkin ecc.
tutte concezioni a cui abbiamo già fatto riferimento specialmente nel paragrafo
4 sono alcuni dei tentativi più influenti di elaborare teorie etiche impegnate
prevalentemente sul piano normativo. Le differenti teorie etiche normative
presentate nel corso degli anni Settanta sono, di volta in volta, la riproposta
sotto una nuova veste di opzioni già formulate a partire dal secolo XVIL Il
neocontrattualismo di Rawls e Gauthier tiene largamente conto dell'elaborazione
contrattualista precedente da Hobbes a Kant. Il neo-utilitarismo ha largamente
discusso e riproposto le precedenti impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I
teorici dei diritti non hanno mancato di tenere conto delle analisi di Locke
ecc. Restano dunque in larga parte operanti le stesse concezioni che nel corso
dell'età moderna e contemporanea sono state indentificate come utilizzabili da
chi fosse alla ricerca di un criterio generale per risolvere i problemi pratici
degli esseri umani. Al livello dei principi o procedure più generali non sembra
si possa segnalare la nascita di nuove etiche, ma si assiste solo allo sviluppo
e all'approfondimento delle linee etiche normative già disponibili. La novità
principale nell’«etica teorica» {e qui si intende una teorizzazione etica con
obiettivi esplicitamente normativi) del XX secolo sta dunque nelle forme che
prendono le diverse concezioni normative, una trasformazione che in realtà era
stata già anticipata da H, Sidgwick con i suoi Methods of Ethics (Sidgwick,
1963). In primo luogo le diverse proposte normative non fanno più parte di una
ricerca filosofica generale. Chi si occupa di etica e contribuisce ad essa non
colloca la sua ricerca in una più ampia prospettiva che ad esempio affronti
questioni generali sulla conoscenza umana, la natura umana ecc. Si parte dando
per scontata una sorta di specializzazione per cui chi si occupa di etica e di
problemi normativi guarda esclusivamente a questi. I teorici dell'etica
contemporanea sono dunque eredi dei professori di filosofia morale come
Hutcheson o Smith, più che di filosofi come Hobbes, Locke € Hume (per non dire
che nulla hanno a che fare con personalità quali quelle dei fondatori di morali
come Cristo, Budda o Gandhi}. Laddove Hobbes, Locke e Hume ma ovviamente anche Kant
collocavano la loro attenzione per i problemi etici in un contesto filosofico
generale, i teorici dell'etica contemporanea limitano invece le loro analisi ai
soli problemi pratici. Questo si accompagna non solo con la specializzazione
che abbiamo sottolineato, ma anche con un più limitato orizzonte critico che
viene fatto valere nelle proposte etiche contemporanee. Tutti i diversi teorici
dell'etica muovono nelle loro analisi assumendo la validità di tesi più
generali sulla conoscenza, la ragione ecc. In questo senso le diverse etiche
teoriche acquistano senso solo vi. ste sullo sfondo delle diverse prospettive
filosofiche generali elaborate dai pensatori che abbiamo più volte richiamato
del XVII e XVIII secolo, Questa più marcata limitazione del contesto dell’etica
teorica contemporanea è in molti di questi pensatori esplicitamente
riconosciuta e programmati. camente affermata anche per quanto riguarda il
piano dei valori di riferi. mento. Così molti dei teorici dell’etica
contemporanea ammettono di muoversi in contesti storici e culturali ben
definiti identificando lo sfondo che dì validità alle loro teorie normative con
quello delle credenze etico-politiche condivise nelle società
liberal-democratiche occidentali (Rorty, 1989; Rawls, 1994). Emerge dunque in
molti teorici contemporanei la tesi che l’etica è una riflessione critica che
non solo muove da intuizioni 0 credenze morali di par tenza che sono già date,
ma che in realtà non può operare al di fuori di un qualche contesto di credenze
condivise. Questo orientamento segna di fatto non solo una specializzazione
dell’etica teorica, ma anche l'abbandono in essa del quadro universalistico in
cui si muovevano i filosofi del XVII e XVIII secolo. Parallelamente con questo
restringimento della base del discorso dell’etica teorica troviamo viceversa e
specialmente nelle opere sisternatiche elaborate negli anni Settanta uno sforzo
di approfondimento analitico molto più marcato, con la pretesa di realizzare
un'elaborazione coerentemente sistematica e un’argomentazione persuasiva di
ampio respiro. Se ci volgiamo infatti alle opere principali dell'etica teorica
contemporanea vediamo che la loro. mole e complessità rispetto agli scritti
dell'etica tradizionale è fortemente cre. sciuta. La base di partenza è più
ristretta ma la pretesa di approfondimento analitico è maggiore. Le nozioni che
la tradizione etica precedente trovava del tutto comprensibili vengono ora
sottoposte ad analisi dettagliate. In questa direzione contributi del tutto
nuovi vengono offerti, ad esempio: o con una dettagliata tassonomia dovuta in
particolare agli utilitaristi delle diverse forme di preferenze; o con una
classificazione che troviamo principalmente negli scritti dei
neo-contrattualisti e dei teorici dei diritti delle principali differenze tra
bisogni e interessi; o con lo scavo e qui sono i teorici della scelta razionale
ad offrire il maggiore contributo delle diverse forme di ragionamento con cui
possiamo valutare le linee di azione che coinvolgono conseguenze future più o
meno lontane e più 0 meno sicure. Ll terreno dell'etica teorica appare dunque
certamente come più limitato e ristretto un campo che si cerca di tenere
distinto da quelli confinanti ma esso viene scavato con una profondità maggiore
che nel passato in tutte le sue parti. La convinzione che muove questo
approccio è che le radici delle questioni etiche possano essere raggiunte non
già derivandole da un altro campo di ricerca, ma andando sempre più a fondo
nello scavo dell’area dell’etica considerata come autonoma e autosufficiente.
Quello che lascia particolarmente insoddisfatti è che i tratti generali del
paradigma della ricerca si trovano messi in pratica e ripresi acriticamente
senza nessuna elaborata valutazione della loro adeguatezza. Né vi è una
sensibilità per la questione a mio parere decisiva di come la vicenda
dell'etica teorica contemporanea possa essere raccordata acquistando con questi
raccordi senso e rilevanza con i lasciti e i residui della passata
elaborazione. Molto più accentuata che nel passato è poi la pretesa di
sistematicità e di coerenza interna, così come della massima completezza
possibile. In questo senso l’etica teorica si muove prendendo a modello le
teorie scientifiche in generale. Proprio per questo tentativo di strutturarsi
in analogia con gli universi scientifici prevale tra le diverse concezioni
normative una tendenza al monismo etico e nello stesso tempo assistiamo ad un
progressivo allargamento dell'ambito di casi e fenomeni investiti. Una tendenza
verso il monismo normativo era presente anche nelle etiche tradizionali che
insistentemente andavano alla ricerca di un solo principio fondamentale. Una
volta caduto l’orizzonte fondazionale il monismo etico si presenta come la
ricerca di un unico criterio di decisione per tutte le situazioni problematiche
nella convinzione che la presenza di più criteri non può che originare
conflitti e disaccordi insanabili. Nei sistemi normativi degli anni Settanta
troviamo infine approfondito lo sforzo di argomentare in modo persuasivo e
convincente a favore della posizione fatta valere. La dimensione per così dire
retorica e persuasiva diviene esplicita e diventa primario l'impegno a fornire
già all'interno di ciascuna teoria una risposta alle critiche avanzate dalle
concezioni alternative. Prevalgono quindi nell’etica teorica contemporanea le
esigenze di una discussione pubblica. Le diverse etiche si presentano infatti
in primo luogo come discorsi sistematici e razionalmente giustificati nel modo
più compiuto, sviluppati per convincere gli interlocutori nella discussione
pubblica a proposito della preferibilità delle opzioni normative proposte.
Questi tratti spiegano nello stesso tempo, da una parte la maggiore concretezza
delle etiche teoriche contemporanee rispetto a quelle tradizionali e,
dall'altra, il loro minore respiro e la loro collocazione in un contesto
storicamente più limitato. 5.5. I principali campi dell'etica applicata. Ma
come si è detto un’ulteriore svolta ha segnato l'etica teorica a partire dagli
anni Ottanta. Vengono contestate ora le stesse teorie impegnate nella
presentazione di grandi sistemi normativi, denunciando la loro astrattezza e la
loro irrilevanza per i problemi pratici effettivi. L'impegno in una riflessione
etica che abbandonasse il piano delle concezioni astratte veniva a caratterizzare
sempre di più gli anni Ottanta. Anzi in questa direzione era la medicina a
salvare l'etica come si esprimerà Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved
Etbics, in De Marco e Fox) nel senso che i nuovi problemi etici generati dagli
sviluppi della medicina e della biologia ponevano in modo urgente una richiesta
di soluzioni che non poteva essere soddisfatta dai grandi sistemi normativi
classici o contemporanei. Laddove infatti i sistemi normativi degli anni
Settanta avevano al loro centro i problemi della giustizia sociale e della
cittadinanza, le questioni della guerra giusta e delle relazioni
internazionali, viceversa i nuovi problemi posti dalle mutate condizioni nella
nascita, morte e cura degli esseri umani coinvolgevano dimensioni etiche
completamente diverse, Inizia così un processo di articolazione e sviluppo di
una miriade di settori nuovi nell’etica applicata che, in parallelo con la
tendenza della cultura americana alla specializzazione e alla
professionalizzazione, porta al consolidarsi e istituzionalizzarsi di vari
campi dell'etica pratica considerati come autosufficienti. Compare così la
nuova figura professionale dell’eticista, ovvero dell'esperto dei problemi di
un particolare settore. Certamente la riflessione etica guadagna così in concretezza,
ma una ricerca esclusivamente impegnata nell’evidenziare i criteri ed i
principi etici validi per specifici e peculiari problemi applicativi va
incontro ai limiti del settorialismo e della iper-specializzazione. Dopo lo
sforzo di scomposizione e di indagine ravvicinata dei singoli campi
problematici che ha accompagnato il fiorire delle varie dimensioni dell'etica
pratica è ora auspicabile un lavoro di sintesi e di ricomposizione che
identifichi i principi e i criteri etici validi in generale e che sappia
fornire visioni d'insieme della vita etica. La maggior parte dei diversi
settori dell'etica applicata consolidatisi negli ultimi decenni del secolo XX
ha a che fare con i problemi pratici del tutto nuovi che sono sorti con lo
sviluppo della tecnologia e detta ricerca medicobiologica. Tutta una serie di
azioni e pratiche umane che risultavano neutre da un punto di vista etico o che
comunque erano affidate quasi integralmente a processi naturali e biologici, e
dunque considerate al di là delle decisioni responsabili, sono entrate a far
parte dell’universo di eventi influenzati dai diversi criteri per discriminare
tra scelte giuste e ingiuste. In primo luogo si sono andate consolidando come
aree largamente indipendenti dell’etica applicata alcune dimensioni
problematiche già colte dalla riflessione del secolo scorso, Laddove nel
Settecento trovavamo solo degli accenni in Bentham sulle sofferenze degli
animali, nella seconda metà del XX secolo si è assistito al fiorire di una vera
e propria etica impegnata nel realizzare la liberazione degli animali (Singer,
1992). St sono sviluppate diverse concezioni generali rivolte a giustificare un
trattamento non discriminante per le sofferenze degli animali: da posizioni
mistiche o religiose, a quelle utilitaristiche a quelle che ruotano intorno
all'elaborazione di una teoria dei diritti anche per gli animali (T. Regan,
1990). In questo caso la presentazione di una risposta normativa alla questione
del trattamento degli animali va di pari passo con una ridescrizione della loro
condizione. I libri dei teorici della liberazione animale sono infatti
insostituibili per la ricchezza di dati e esemplificazioni che forniscono sulle
pratiche invalse il più delle volte inutilmente crudeli per quanto riguarda
l'uso degli animali nella ricerca medica e farmaceutica, nell'industria
cosmetica a dell’abbigliamento, nella produzione industriale di cibo ecc.
(Singer, 1992). Una grande fioritura, in quest'ultima parte del XX secolo,
hanno avuto i tentativi già presenti ad esempio in uno scritto del 1869 di J.
S. Mill su The Subjection of Women (La soggezione delle donne) di affrontare in
modo esplicito e sistematico i problemi etici legati al differente trattamento
nelle istituzioni e nelle pratiche sociali di persone di sesso diverso. Il dibattito
critico sulle discriminazioni legate alle differenze sessuali ha assistito non
solo a una ricerca rivolta a ricavare soluzioni giuste dalle diverse concezioni
normative disponibili, ma anche alla presentazione di tesi femministe che hanno
insistito sulla radicale inconciliabilità tra l’elaborazione di un'etica delle
donne e le concezioni tradizionali. Così da una paste si è discusso
sull’alternativa tra l’universalismo che sarebbe proprio dell'etica maschile e
l'assunzione delle differenze di genere come orizzonte decisivo che è proprio
dell'etica femminile {Irigaray 1985). Dall'altra si è insistito sulla tesi che
il recupero del punto di vista femminile farebbe emergere valori del tutto
peculiari e in luogo di una centralità del valore della giustizia tipicamente
maschile segnerebbe l'affermazione del valore della cura (Gilligan, 1982).
Molti altri tradizionali problemi etici sono stati rivisitati alla luce della
situazione contemporanea e coloro che se ne sono occupati hanno dato vita a
un'ampia produzione specialistica. Tra i campi più significativi per la
costituzione di un'ideale «Enciclopedia Pratica» del nostro tempo ricordiamo le
riflessioni dedicate a: le guerre giuste e l'uso lecito o no della violenza
{Walzer, 1990); le particolari regole che governano le relazioni internazionali
tra stati (Bonanate, 1992); le questioni più strettamente legate alle
discriminazioni di tipo razziale e culturale (Walzer, 1987); i problemi del
trattamento della povertà anche riconoscendone le articolazioni geografiche
(Sen, 1981); il tuolo della pena nel diritto (Ferrajoli, 1989). Una ben precisa
area di etica degli affari si è costituita per i problemi morali posti
dall'attività economica e produttiva, e qui i maggiori avanzamenti sono venuti
dall’uso di una tecnica del tutto nuova fornita dalla «teoria della scelta
razionale» (Sacconi). Infine un incremento notevole hanno avuto le riflessioni
morali già presenti in Ar Essay on the Principles of Population del 1798 di
Thomas Robent Malthus (Saggio sul principio di popolazione) e nei Principles of
Political Economy di Mill (Prizcipi di economzia politica) relative alla
questione etica di una procreazione responsabile. Tali riflessioni hanno forte
mente approfondito le questioni collegate al contesto di decisione costituito
dall’intreccio tra le previsioni sullo sviluppo demografico e quelle sulla
disponibilità di risorse. Tutta questa tematica ha portato ad elaborare una
vera e propria etica delle generazioni future. Le questioni della giustizia tra
generazioni, della regolazione delle nascite in previsione della presenza nel
2050 di oltre dieci miliardi di esseri umani, dei rischi dello sviluppo
tecnologico per gli esseri umani futuri sono al centro di riflessioni che hanno
anche contribuito a modificare il quadro complessivo delle etiche tradizionali
(Parfit; Jonas). Del tutto nuovi sono invece due settori di etica applicata. Da
una parte abbiamo il consolidarsi e determinarsi della bioetica come disciplina
autonoma che affronta sistematicamente i problemi etici posti dallo sviluppo
della medicina e della biologia. Non possiamo qui fare altro che accennare ai
principali tra questi problemi del tutto nuovi che coinvolgono la nascita, la
morte e la cura degli esseri umani: la fecondazione artificiale ix vitro: l'uso
nei reparti di terapia intensiva di strumenti vicarianti le funzioni essenziali
della respirazione, alimentazione e idratazione; il ricorso ai trapianti; la
diagnostica prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria genetica;
l’accresciuta conoscenza dello sviluppo embrionale e la possibilità di
realizzare in laboratorio le prime fasi di questo sviluppo con eventuali
conseguenti sperimentazioni ecc. Vita umana, persona umana, sanità, malattia,
benessere, diritti dei malati, dignità della morte, doveri dei medici ece. sono
solo alcune delle nozioni che vengono sottoposte a riesame nella riflessione
bioetica che si è concretizzata in una sterminata letteratura e nella nascita
di una ben precisa disciplina. Nel corso di questa ricerca sono emerse tendenze
a far valere alcuni nuclei tema: tici specifici come nucleo della discussione
(ad esempio la contrapposizione tra un’etica che si impegna principalmente nel
sostenere la non disponibilità e sacralità della vita umana e un'altra che
ritiene invece centrale la preoccupa zione per una buona qualità della vita
umana; Kuhse, o a enucleare principi più specificamente rilevanti per le
problematiche della nascita, morte e cura degli esseri umani (in questo senso
è, ad esempio, frequente il richiamo a un principio di beneficenza o ad un
principio di autonomia: Engelhardt, 1991, ma anche Gracia, 1993). Infine le
conseguenze devastanti che sull'ambiente hanno avuto gli sviluppi scientifici e
tecnologici e l'incremento demografico a livello planetario hanno reso
eticamente rilevante una serie di azioni umane con effetti più o meno diretti,
immediati o futuri sulla natura. La riflessione di etica ambientale è stata
caratterizzata da una molteplicità di concezioni (Bartolommei, 1989): quella
più religiosa e sacrale rivolta a dare un valore intrinseco alla natura; quella
utilitaristica tesa a calcolare le differenti conseguenze (in termini di danno
e beneficio) sull'ambiente di differenti strategie operative; quella che cerca
di estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali ecc. Non
abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni dell'etica applicata.
Infatti dalla prospettiva complessiva da cui muoviamo dobbiamo limitarci a
rilevare la fertilità di questo recente dibattito, sia nel senso di un
arricchimento delle nostre conoscenze sui problemi pratici effettivi degli
esseri umani, sia nel senso di un incremento del processo di democratizzazione
dell'etica (al centro di tutti i diversi settori dell'etica applicata troviamo
individui umani che affrontano autonomamente i loro problemi). Il pericolo che
sta dietro questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi
dell'etica applicata è quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è
tanto il fatto che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto
piuttosto quella confusione che nella vita pratica di ciascuno può derivare
dall’appello, in situazioni diverse, a principi o criteri etici differenti come
risolutivi. Una frammentazione in questo senso può spingersi fino a esigere
dallo stesso individuo comportamenti incompatibili. In contrasto con questa
tendenza l’obiettivo di una unificazione richiede un recupero di tutte le
diverse dimensioni dell'etica teorica di cui abbiamo reso conto nei paragrafi
precedenti. Un contesto unitario per le riflessioni etiche può infatti essere
offerto da teorie generali che sul piano meta-etico, epistemologico e normativo
identificano quel nucleo comune valido per qualsiasi approccio o discorso che
pretenda di farsi valere come etico. Nel corso dei paragrafi precedenti abbiamo
reso conto dei problemi generali al centro dell'etica in modo unitario non
tracciando distinzioni al suo interno. Così finora in modo unitario si sono
affrontate le questioni di una caratterizzazione, definizione, giustificazione
o fondazione, applicazione e formulazione sistematica dell’etica. Ma le norme e
i valori con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa vengono in vari
modi distinti in campi più o meno nettamente differenziati nei nostri discorsi
e nelle forme di vita. In questo paragrafo renderemo conto brevemente della
distinzione più comune e consolidata che vede l'etica comprendere i diversi
piani della morale, del diritto e della politica. Ricorrendo all'aiuto della
storia dell'etica possiamo rilevare che nell’età moderna e contemporanea vi è
una certa convergenza nel discriminare tra morale, diritto e politica, mentre
notevoli differenze vi sono per quanto riguarda i criteri a cui ci si è
richiamati per tracciare queste differenze. I differenti criteri risultano come
vedremo nelle pagine seguenti — in definitiva funzionali alle diverse opzioni
meta-etiche, epistemologiche e normative da cui sono mossi coloro che hanno
proposto una ricostruzione dei campi dell'etica. Un primo modo per
caratterizzare il campo dell'etica che proponiamo di chiamare morale in senso
stretto è quello di considerarlo come quel settore in cui sono in gioco
principi e norme che guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni che producono negli
altri conseguenze positive o negative diverse dal danno in gioco con le azioni
di rilevanza giuridica e dai benefici o danni provocati dalle azioni di
rilevanza politica. Proprio in quanto diverso è il raggio di influenza con cui
ha a che fare la morale strettamente intesa essa ha anche a che fare con una
sanzione del tutto particolare che va tenuta distinta da quella in gioco con la
legge giuridica e con quella politica: una sanzione semplicemente in termini di
disapprovazione pubblica piuttosto che di concrete pene 0 multe o di
allontanamento dalla cittadinanza politica. Questa caratterizzazione dei vari
campi dell’etica è largamente corrente tra gli utilitaristi ed è stata
delineata già in On Liberty di J. S. Mill (Saggio sulla libertà). La
caratterizzazione così avanzata della natura delle regole e dei principi specificamente
morali ovviamente nel senso meta-etico di cui qui ci occupiamo è in realtà pur
sempre carica di normatività in quanto si presenta come una ridefinizione
stipulativa. Alcuni avvertiranno in questa caratterizzazione un limite dato dal
fatto che essa esclude comunque una qualunque rilevanza etica per quelle regole
e principi che riguardano stati d'animo o azioni del tutto privati, ovvero tali
che non hanno nessun tipo di conseguenza né benefica, né negativa sugli altri.
Possiamo offrire un chiaro esempio di questo campo di azioni del tutto private
e che non sarebbero di pertinenza della morale così intesa rinviando ad atti di
auto-erotismo o al modo in cui impieghiamo il nostro tempo libero. È così
chiaro che stiamo proponendo una caratterizzazione della morale più stretta
rispetto a quella a cui giungono coloro che, muovendosi all’interno di una
tradizione spiritualistica e giusnaturalistica, trovano l'etica
complessivamente intesa come un insieme di doveri verso Dio, se stessi e gli
altri. Anche all'interno di questo approccio all’etica, comunque, il livello
della moralità per così dire del tutto privato si presenta come diverso
rispetto a quello della moralità che coinvolge altri; nel complesso poi
l’insieme della morale va tenuto distinto dalle azioni con cui hanno a che fare
il diritto e la politica. Il piano delle regole morali del tutto private e
personali può essere considerato come campo di applicazione di principi e
regole super-erogatorie che hanno a che fare con una vita santa, eroica o perfetta
(Urmson): una forma di vita che solo cedendo al fanatismo può essere prescritta
universalmente. La morale super-erogatoria va dunque tenuta distinta dalla
morale che ha a che fare con azioni di benevolenza o generosità che per quanto
considerate doverose e obbligatorie non lo sono certo nello stesso senso delle
azioni che evitano il danno fisico per gli altri. Vediamo così ricomparire una
distinzione tra diversi piani della vita etica, sia pure su basi differenti.
Muovendoci all’interno dell'approccio utilitaristico già delineato suggeriamo
però di collocare al di fuori dell'etica generalmente intesa non solo le azioni
strettamente interessate a obiettivi economici, ma anche molte azioni del tutto
indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere nel modo che
preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli altri. In questo
senso questa concezione dell'etica si presenta come fornita di limiti anche per
quanto riguarda l'ambito della moralità strettamente intesa (Williams, 1987). i
Possiamo dunque collocare l'ambito della morale nel campo delle azioni benevole
e generose che non siamo tenuti a compiere con la stessa coercività dei nostri
obblighi giuridici e politici. La morale cioè ha a che fare con un universo di
azioni che saranno poi distinte in buone e cattive a seconda dei diversi valori
sottoscritti che gli altri non si aspettano da noi come soddisfacimento di loro
diritti giuridicamente o politicamente riconosciuti. Le nozioni di obbligo,
dovere, diritto possono avere un uso nel contesto della morale, ma con un
significato che va tenuto nettamente distinto da quello che tali nozioni hanno
nel contesto giuridico e politico. Molte confusioni e conflitti sociali nascono
dall’incapacità di tenere distinti questi diversi livelli dell'etica, In un
campo della morale così inteso le diverse concezioni dei valori potranno
confrontarsi presentando appunto diversi modelli e stili di vita virtuosa. La
vita virtuosa si distinguerà poi, da una parte, dalla vita santa o eroica e
dall'altra da quel tipo di vita che è richiesto a ciascuno di noi dalle leggi
del suo paese e dalle regole politiche della sua società. : In un approccio del
genere diventerà decisivo riuscire ad individuare, e tenere ben distinto, un
ambito di danno o offesa che è coinvolto dalle azioni di pertinenza della
morale strettamente intesa. Si tratta di sviluppare l’idea messa a punto dagli
utilitaristi e più recentemente da Hart e Feinberg che ci sono alcune aree
delle nostre azioni interpersonali in cui non sono in gioco danni di rilevanza
giuridica, ma solo danni e offese morali. Gli altri si aspettano da noi un
certo comportamento anche se questo comportamento non è sanzionabile mediante
l’intervento della legge. Il piano di questi obblighi morali coinvolge
principalmente le relazioni più strettamente personali ovvero quelle relazioni
che riguardano i rapporti familiari, i rapporti tra persone di sesso diverso,
le relazioni tra persone di diversa età, le relazioni collegate a diverse
responsabilità professionali o di status sociale ecc, Tutta un'area di
relazioni personali coinvolgono per ciascuno di noi obblighi relativi al suo
status (figlio, padre, marito, amico, medico, docente ecc.) che non fanno
riferimento a danni giuridici, ma a danni morali. Possiamo provare a suggerire
l'estensione e l’importanza di un ambito della morale così determinato pensando
al rilievo che nelle relazioni umane hanno le promesse che non siano state
codificate in un contratto, o alle aspettative che ci legano con gli altri
esseri umani con cui abbiamo istituito più strette relazioni personali. Proprio
quest'ambito della moralità è quello che rende possibile la convivenza civile.
Infatti laddove cerchiamo di ancorare la permanenza di una qualche forma di
società civile o ordine sociale al riconoscimento di obblighi e danni
esclusivamente legali non riusciamo a rendere conto di niente altro che di uno
stato di polizia. Senza basi morali la convivenza può essere garantita solo da
uno Stato ossessivamente preoccupato che nessuna azione dei suoi cittadini sfugga
al controllo delle sue sanzioni. E si tratterà comunque di uno stato di polizia
la cui accettazione come legittimo da parte di coloro che si riconoscono come
suoi cittadini risulterà del tutto incomprensibile a meno che con un
ragionamento circolare e vizioso non si voglia fare appello alla autorità
derivata dalla sola forza. Il divitto e î sistemzi codificati. Un ambito
dell'etica completamente diverso da quello in gioco nella morale è quello in
gioco nel diritto e nell'insieme delle norme giuridiche. Qui come peraltro con
la politica ci muoviamo nel campo dell’etica pubblica, laddove con la morale
abbiamo a che fare con l’etica privata (Veca). Largamente condivisa è la tesi
di una marcata differenza tra piano delle regole morali e piano del sistema giuridico,
nel senso che quest’ultimo rinvia necessariamente a un momento di
codificazione. Anche i teorici del giusnaturalismo, che pur vedono la sfera
giuridica come strettamente correlata con la legge morale naturale, accettano
Ja distinzione sia pure cronologica 0 tecnica tra il piano naturale della
morale € quello civile proprio delle procedure che caratterizzano il diritto e
la politica, Significativa in questa luce la posizione espressa da Locke nei
Due trattati sul governo. Locke vede già presente nello stato di natura il
diritto di punire come diritto di ognuno, ma individua nel passaggio alla
società civile la realizzazione di una completa delega di questo diritto a un
magistrato che potrà usare unico autorizzato la forza e fare rispettare le sue
decisioni, che non saranno più caratterizzate dagli inconvenienti che
accompagnano nello stato di natura l’uso del diritto di punizione da parte di
ciascuno.Uno dei grandi problemi al centro dell'etica è proprio quello delle
connessioni tra morale e diritto. La questione preliminare è quella di spiegare
in che senso le norme del sistema giuridico ovvero le norme che si occupano
della giustizia penale e pubblica e che sono sanzionate con l’uso della forza
sono collegate con le norme morali (ovvero pre-giuridiche o non-giuridiche). La
soluzione più semplice è quella del positivismo giuridico che ritiene che di
vero € proprio diritto non si possa parlare se non dopo il costituirsi di un
governo riconosciuto, legittimato e autorizzato a promulgare norme giuridiche.
Queste norme saranno poi valide giuridicamente laddove siano state promulgate
osservando le procedure previste nello Stato dalla Costituzione o dalle sue
leggi fondamentali per l’amministrazione della giustizia (Scarpelli). La
posizione del positivismo giuridico non è priva di difficoltà in quanto
confonde due nozioni etiche concettualmente diverse, ovvero la legge promulgata
correttamente, e cioè nei modi previsti dalla Costituzione, e la legge giusta.
Norme del tutto in regola dal punto di vista della validità formale richiesta
dal positivismo giuridico come quelle promulgate dal regime nazista possono
risultare del tutto ingiuste e tali da esigere un obbligo di resistenza da
parte dei cittadini (Dworkin). Alcune posizioni che si presentano come alternative
al giusnaturalismo si distinguono dal positivismo giuridico proprio in quanto
riconoscono un collegamento tra morale e diritto. Questo è ad esempio vero per
l'utilitarismo fin da Bentham. Infatti Bentham riconosceva l’ineliminabilità di
questa connessione rappresentando la morale e la legge come due sfere
concentriche, l'una più ristretta costituita dal diritto e l’altra più ampia
costituita dalla morale. Questa immagine permette di capire sia in che senso la
morale condiziona la sfera giuridica, sia in che senso l'ambito del diritto
debba essere considerato più ristretto di quello proprio della morale. Questa
stessa linea di analisi è stata elaborata in modo compiuto da Mill, I
collegamenti tra queste due dimensioni dell'etica la morale e la legge giuridica
sono complessi e ineliminabili, Non solo i limiti di applicazione della legge
giuridica ovvero la distinzione tra l'ambito di pertinenza della sanzione
giuridica e quello in cui c'è completa libertà dalle sanzioni e in cui dunque
vale la sola critica che si manifesta nella discussione pubblica , ma le stesse
procedure mediante le quali vanno accertate le azioni che sono rilevanti dal
punto di vista della responsabilità giuridica e infine gli stessi modi in cui
va articolata la sanzione e la pena giusta esigono un rinvio continuo a
considerazioni di ordine morale (Ferrajoli, 1989). Il riconoscimento di
un’effertiva responsabilità giuridica rientra anch'esso in un discorso che
esige il ricorso ad assunzioni di ordine morale. Non diversamente assunzioni di
ordine morale sono in gioco laddove si discute la questione della pena adeguata
o giusta o meritata pet un determinato reato. Tutta la discussione sull’uso
della tortura, della pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi penali
sta lì a mostrare questo intreccio. La politica e i fini del governo. L'ambito
dell’etica che invece possiamo denominare «politica» è quello che rinvia ai
principi e alle norme che all’interno di una società riguardano non tanto i
rapporti giuridici, quanto l’azione del governo e il riconoscimento della sua
legittimità. Una parte della dottrina etica che coinvolge la politica riguarda
dunque l'individuazione dei principi che sono in grado di dare ai governanti
l'autorità per governare, e conseguentemente gli obblighi di lealtà dei
cittadini nei confronti dei loro governanti (e di riflesso gli obblighi dei
governanti nei confronti dei loro cittadini) e infine l’esistenza o meno (e in
quali limiti) di un diritto dei cittadini a resistere alle leggi dello Stato.
Basta volgersi alla riflessione di filosofia politica per vedere quanto già in
quell'epoca fosse centrale la ricerca di una base morale che desse validità
alla pretesa dei governanti di avere un'autorità sui loro cittadini, Il primo
dei Tivo Treatises di Locke rappresenta un chiaro tentativo di contestare la
pretesa avanzata da Filmer nel Patriarca che i sovrani potessero ricavare il
loro diritto ad un'autorità assoluta sui loro sudditi da una investitura
diretta da parte di Dio ad Adamo che era poi stata trasmessa secondo una linea
diretta, di successione ai suoi eredi. La cultura filosofica presenta non solo
l’attacco più radicale alla concezione assolutistica del potere politico come
di origine divina, ma anche i primi decisi tentativi di ricavare da principi
più mondani il potere dei governanti. Così Hobbes e Locke percorrevano la
strada del contratto come base del potere politico, ma le due forme di
contratto a cui si richiamavano erano tali da condurre a due diversi tipi di
potere politico, l’uno totalitario ed illimitato e l'altro invece determinato e
limitato dal rispetto di una serie di diritti che comunque il cittadino deve
salvaguardare. Perciò, mentre Hobbes non sembra riconoscere un vero e proprio
diritto di resistenza, Locke lo accetta, come del resto dopo di lui faranno
tutti i teorici dello stato liberale. Quasi tutta la filosofia politica
contemporanea, da J. Rawls a R. Dworkin, da A. Downs a R. Dahl, si muove
elaborando le basi etiche di una teoria liberal-democratica (Brown). È oramai
fuori discussione che solo l’investitura popolare mediante votazioni
democratiche può giustificare il potere politico. Così come è largamente
accettata la convinzione che il potere politico deve limitarsi nelle sue leggi
in modo tale da non toccare i cosiddetti diritti negativi dei suoi cittadini.
Non viene nemmeno posto in discussione specialmente dopo l’esperienza dei
regimi totalitari del XX secolo quali il nazismo e lo stalinismo il
riconoscimento del diritto dei cittadini di resistere ai comandi ingiusti dei
loro governanti, anzi addirittura viene riconosciuto il loro dovere di
boicottarli e di lottare contro di essi. Per quanto riguarda poi la riflessione
etica sugli scopi del governo essa ha subito una radicale trasformazione
laddove si è considerato come uno dei compiti primari dei governi garantire ai
cittadini non solo la pace sociale, la vita, la salvaguardia dei diritti di
proprietà, ma anche il benessere, la salute, la qualità della vita ecc. Quando
sono entrati in gioco quelli che si considerano più propriamente i diritti
positivi dei cittadini si è posto il problema di quanto si dovesse ritenere
autorizzato il potere di un governante che, ad esempio, ponesse dei limiti ai
diritti negativi dei suoi concittadini al fine di far progredire i diritti
positivi della maggioranza. Si tratta di questioni etiche che la riflessione
sul potere politico si è trovata davanti in particolare all’interno della
questione sociale e sulla base delle lotte sostenute dalle classi operaie e dal
movimento socialista (Bobbio). Molte delle questioni etiche in gioco nella
politica coinvolgono direttamente le relazioni internazionali tra Stati. È
oramai del tutto superata la posizione considerata ovvia nel XVII secolo per
esempio da Hobbes, ma anche da Locke, che riteneva i rapporti tra Stati come costitutivamente
collocabili nella sfera di uno «stato di natura». Nel corso dell'età moderna e
contemporanea non solo è cresciuta l’esigenza di una valutazione etica delle
motivazioni che ispirano le azioni internazionali dei governanti (Bonanate), ma
si è anche affermata sempre più la spinta a far valere anche tra Stati una
serie di principi consensualmente accettati che garantissero, nei limiti del
possibile, la pace. È stato Kant {Kant) che ha fatto valere con decisione
l'esigenza di estendere anche alle relazioni internazionali quel requisito
della pace che si riteneva necessario per i rapporti all'interno della società
civile. Le Filosofia_in_Ita3 riflessioni etiche sull'uso della forza nelle
relazioni internazionali tra Stati nel XX secolo hanno poi dovuto affrontare le
questioni nuove segnate dalla creazione di armi nucleari. Molto insistita è
stata la conclusione che l’uso di armi che, come quelle nucleari, mettono a
rischio l’esistenza della stessa umanità, non può essere giustificabile al di
lì della sola funzione deterrente (Kavka; Pantara). Anche sul piano delle
relazioni internazionali si è poi ripresentata in questo secolo una riflessione
etica che non investe solo quei fini dei governi esclusivamente rivolti a
salvaguardare o difendere i diritti negativi dei cittadini del mondo, ma ancor
più i cosiddetti diritti positivi. In particolare l'incremento della
popolazione mondiale, una differenza sempre più incolmabile tra qualità della
vita nei paesi ricchi e sviluppati dell'Occidente e povertà nei paesi
sottosviluppati dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud hanno posto come
problema etico primario per la politica la questione di quanto si debba
ritenere obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale internazionale
(Pontara; Singer; Sen), Da un punto di vista teorico generale, così come si è
assistito a un allargamento dello spazio per l’etica nel senso di una
progressiva democratizzazione delle responsabilità e decisioni che essa
richiede in modo paritario a tutti i cittadini del mondo, si assiste altresì a
un analogo allargamento di questo spazio nella direzione di un incremento delle
questioni che ad essa si demandano. L’ipotesi che avanziamo ovviamente carica
di un’opzione normativa è che ci si muova verso un allargamento delle aree problematiche
che vengono affidate alla discussione pubblica e dunque a una regolamentazione
pacificamente concordata, sottraendole al terreno in cui si fa ricorso alla
forza. Così sul piano internazionale vediamo sempre più riconosciuta almeno al
livello del dover essere l'esigenza di un governo mondiale democraticamente
costituito e rispettoso della libertà dei suoi membri impegnato a garantire
pace e giustizia sociale a livello planetario. Oggigiorno sembrano quindi
privilegiate quelle teorie etiche normative in grado di rendere conto in modo
adeguato delle nuove estensioni problematiche presenti nella situazione storica
degli esseri umani, Una competizione con le sole armi dell’argomentazione
razionale e della conoscenza tra concezioni normative può favorire l’in-
dividuazione di soluzioni giuste ed efficaci. In generale poi una richiesta di
maggiore riflessione sull’etica può trovare una sua giustificazione in quanto
questa riflessione sia pure in modi più o meno indiretti contribuisce a rendere
più realizzabili gli obiettivi della pace, della libertà e della giustizia
sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere ricorre alla forza delle armi 0
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Almond Althusius Dahl Anscombe Darwin Apel Davidson LIZIO Dawkins Arrow De
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G. R. Grozio Habermas Hagerstròm Hare Hart Hartley Hayek Helvétius Hennìs
Herbert di Cherbury Hobbes Hudson Humboldt Hume Hutcheson Irigaray Jonas Jonsen
Jules Jung Juvalta Kant Kavka Kelsen Kuhse Landucci Locke Lorenz Lyons Mackie
Macpherson Magri Malthus Mandeville Manzoni Marirain McDowell Melniyre Meek
Mill Mill Montaigne Moore Moore Musacchio Nagel Norton Nowell Smith Nozick
Oppenheim Parfit Pontara Preti Prichard Pufendorf Putnam Rawls Regan Resnik
Rorty Rass Rossi Rousseau Ruse Sacconi Scarpelli Scheler Filosofia_in_Ita3
INDICE DEI NOMI Schlick Sen Shaftesbury Cooper Sidgwick Singer Singer Smart
Smart Smith Snare Spencer Spinoza Stevenson Strauss Sugden Thomasius Aquino
Toulmin Urmson Veca Viano Walzer Warrender Weber White Wiggins Williams
Wittgenstein Wolff C., Wiollaston Wright .Filosofia_in_Ita3 Introduzione La
natura dell'etica si ci. Fondazione, giustificazione e spiegazione:
l’epistemologia dell'etica CRA ERA Le etiche normative; concezioni in contrasto
Dall’etica teorica all’etica pratica Di Le dimensioni dell'etica Nota
bibliografica Indice dei nomi. Keywords: etica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Lecaldano”. Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lecaldano (Treviso). Filosofo italiano. Eugenio
Lecaldano è un filosofo italiano, attivo soprattutto nel campo della
bioetica. Biografia Nel 1964 consegue la
laurea in Filosofia presso l'Università degli Studi di Roma "La
Sapienza" e nello stesso ateneo frequenta il corso di perfezionamento
nella medesima disciplina, conseguendo il diploma nel 1968. Successivamente è
ricercatore per il CNR presso il "Lessico intellettuale europeo" a
Roma. Dapprima docente di Storia della filosofia moderna e contemporanea e poi
di Filosofia morale a Siena, prosegue la sua attività presso la Sapienza dal
1986, ove insegna anche Bioetica dal 1999 al 2002 ed è Direttore del Master di
II livello di Etica pratica e Bioetica dal 2002 al 2010. Dal 2010 è professore
emerito di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università
Sapienza di Roma. Dall'aprile 2015 è socio corrispondente della Classe di
Scienze Morali, Storiche e Filologiche - sezione I Filosofia - dell'Accademia
delle Scienze di Torino. È membro dei
comitati scientifici delle riviste Ethical Theory and Moral Practice. An
International Forum (dal 1998), Iride. Filosofia e discussione pubblica (dal
1987), Ragion Pratica e dei comitati direttivi di Bioetica. Rivista
interdisciplinare (dal 1995), Filosofia e questioni pubbliche, Rivista di
Filosofia (dal 1998), Hume Studies (2006-2011). È stato membro del Comitato
Nazionale di Bioetica. È stato fra i fondatori della Società Italiana di
Filosofia Analitica, che ha presieduto dal 1992 al 1994; e membro del direttivo
della Società Filosofica Italiana sezione di Roma dal 1991 al 1993 e poi dal
2006. Ha diretto la collana Etica Pratica per l'editore Laterza, e la collana
Etica pratica e bioetica per l'editore Le Lettere di Firenze. Nel 1997 per il
volume Etica (UTET Libreria, 1995) è stato insignito dall'Accademia delle
Scienze di Torino del premio "Cesare Gautieri" per la Filosofia del
centenario 1896-1996. Pensiero Le
riflessioni di Lecaldano spaziano dalla storia della filosofia morale sino alle
discussioni contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del rigore
concettuale della filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla ricostruzione
storiografica della morale anglosassone dal XVII al XIX secolo, con particolare
riferimento ai filosofi scozzesi (David Hume, Adam Smith). Ha inoltre indagato
criticamente i problemi della metaetica. In bioetica, Lecaldano si prefigge
l'obiettivo di una chiarificazione delle implicazioni morali legate alle
biotecnologie, che sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione dei
conflitti morali che le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Opere Le analisi del linguaggio morale.
"Buono" e "dovere" nella filosofia inglese dal 1903 al
1965, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1970. Introduzione a Moore, Roma-Bari,
Laterza, 1972. L'Illuminismo inglese, Torino, Loescher, 1985. Hume e la nascita
dell'etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1991. Etica, Torino, UTET
Libreria, 1995. Bioetica. Le scelte morali, Roma-Bari, Laterza, 1999. Saggi di
storia e teoria dell'etica, Gaeta, Bibliotheca, 2000. Dizionario di bioetica,
Roma-Bari, Laterza, 2002. Un'etica senza Dio, Roma-Bari, Laterza, 2006. Prima
lezione di Filosofia Morale, Roma-Bari, Laterza, 2010. Simpatia, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 2013. Senza Dio. Storie di atei e ateismo, Bologna,
Il Mulino, 2015. Sul senso della vita, Bologna, Il Mulino, 2016. Identità
personale. Storia e critica di un’idea, Roma, Carocci editore, 2021 Bene, in Le
parole della filosofia, a cura di Corrado del Bo’, Simone Pollo, Paola Rumore,
Corriere della sera, 2022 Traduzione e curatela David Hume, Opere filosofiche,
insieme a Enrico Mistretta, Roma-Bari, Laterza, 1971. Note ^ curriculum vitae,
su accademiadellescienze.it. URL consultato il 25 agosto 2021. Voci correlate
Bioetica Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie Collegamenti esterni
Eugenio Lecaldano, su accademiadellescienze.it, Accademia delle Scienze di
Torino. Modifica su Wikidata Opere di Eugenio Lecaldano, su MLOL, Horizons
Unlimited. Modifica su Wikidata La bioetica. Il punto di vista morale di E.
Lecaldano sulla nascita, la cura e la morte di Luca Corchia. Riflessioni di
Eugenio Lecaldano sul Senso della Vita In Riflessioni.it. Eugenio Lecaldano.
Pagina docente Dipartimento di filosofia, Sapienza - Università di Roma.
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Categorie: Filosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloNati
nel 1940Nati il 29 agostoNati a TrevisoBioeticaStudenti della Sapienza -
Università di RomaProfessori dell'Università degli Studi di SienaProfessori
dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza"Membri
dell'Accademia delle Scienze di Torino[altre]. Nome compiuto. Eugenio
Lecaldano. Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico, antipatico, compassione,
compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia, patico, il patico,
diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses ‘transpathy,’ but then he
would use anything!” filosofi italiani della simpatia, croce, l’intersoggetivo,
simpatia ed amore, empatia, impassibile, im- negative, im- enfatico – teorie
della simpatia morale in Italia, illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia,
dia-pathia, trans-passione – trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano”
– The Swimming-Pool Library. Lecaldano.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lelio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma).
Abstract. Grice: “It
must be remembered that when I started the serious study of philosophy at
Oxford, it was through the classics. Clifton, my alma mater, would certainly have
found it odd to offer a pupil a scholarship in philosophy – but ‘a classical
scholarship’ was ‘okay,’ as the Americans put it – in terms of societal norms.
Of course, I never met philosophy well into my fifth term in the classics! But
once I did, Lelio was second nature to me!” -- Filosofo italiano. Ha fama soprattutto per l’intima amicizia che lo lega
all’Africano Minore. Conosce i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato
principalmente da Diogene, del Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e
ne diffuse la dottrina nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa
alla guerra contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo
in premio la pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte
civili determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera
contro questo e i suoi fautori. E ammirato, se non come oratore, come uomo
politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli
dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console
della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare
romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio
Cornelio SCIPIONE (si veda) Africano, che
segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e
questore. Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in
seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo
un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla
presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una
grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa
lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato,
dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia
rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani,
mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono
cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio
Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un
grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto
che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere
degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato
decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di
ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a
Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le
stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore
e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano,
a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio
Cepione. Smith, Dictionary
of greek and roman biography and mythology, The Ancient Library.Polibio, Livio.
Polibio. Appiano di Alessandria, Historia
Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia.
Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le
conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano.
Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in
Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo,
L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale
Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore
Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio
Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica,
guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari.
Consoli
repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman and
orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of
members of the Porch PORTICO like Diogene and Panazio. L. was given the
nickname ‘sapiens’ -- know it all. According to CICERONE (vedasi), this was not
because L. knew it all, but because of his self-control in matters of judicial
sentencing. CICERONE (vedasi) greatly admires L. and features him in a number
of his philosophical works. Gaio
Lelio. Lelio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lelio.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Leocide: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone. Roma – filosofia basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana–
Luigi Speranza (Metaponto). Abstract. Grice: “Metaponto
was a powerful centre of philosophy in Magna Grecia – and my pupil, Strawson,
arged that meta-physics does not derive from the book by Aristotle, but from META-ponto!”
-- Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Luigi Speraza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Leofronte: la ragione cnversazionale e la setta di
Crotone – Roma – filosofia calabrese – scuola di Crotone -- filosofia italiana–
Luigi Seranza (Crotone). Abstract. Grice: “Before
Italians acquired proper surnames, they bore the strangest of names, such as
Leofronte!” -- Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.
Luigi Speranza –
GRICE ITALO!; ossia, Grice e Leone: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone – Roma – filosofia basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Metaponto). Abstract. Grice: “I was never
interested in the history of ancient philosophy just because at Oxford, after
the German invasion, it became fashionable to spend most of your time with the ‘scholia’,
rather than the philosophy itself! And therefore, in the London Society pages,
you would be described as a ‘historian of philosophy’ not a ‘philosopher’. Take
the case of Leonzio. All we know about him is that Alcmeone wrote an essay
which he cares to dedicate to L.! Big deal!” -- Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by
Giamblico di Calcide. Alcmeone di Crotone dedicates a ‘saggio’ to him.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Leonzio: all’isola -- la setta di Leonzio -- Roma –
filosofia siciliana – filosofia leonzia – scuola di Leonzio -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Leonzio). Abstract. Grice: “When
in a PUBLIC lecture – as opposed to a SEMINAR – I felt like providing an answer
to what I called the ‘fundamental’ question of what the basis is for a
conversationalist to assume that the other one will follow the principle of
conversational helpfulness, I sketched a transcendental argumentation – or
metaphysical argumentation, as I later called it. It is a WEAK transcendental
argumentation, if I may follow Bird’s jargon --. A true transcendental argumentation
is one which JUSTIFIES the very EXISTENCE of an item x --. If the item x is the
‘conversational move’ I cannot claim that the principle of conversational
helpfulness makes a conversational move POSSIBLE – but a WEAK argumentation may
claim that it makes a GOOD conversational move possible! Oddly, this is
precisely the sort of argumentation, way before Kant, and his jargon of
transcendentalism – that Leonzio uses against Socrates and vice versa. “Hey,
Soc – as Leonzio called the Athenian sophist – ‘if you are not going to tell the
truth, what is the POINT of conversing with you?’”. Filosofo italiano. Filosofo siciliano. Filosofo leonzio. Leonzio,
Sicilia. Pupil of Girgenti. He seems to have written one essay on philosophy. In it, he argues that
nothing exists, or that if anything did exist, there could be no knowledge of
it, or if there could be knowledge of it, that knowledge could not have passed
from one person to another. Poche
e scarne le notizie relative a L. sotto il dominio di Roma. Inquadrata in primo
momento tra le città decumane, sottoposte al pagamento della decima parte del
raccolto, si trasforma a poco a poco in città censoria, il cui territorio viene
dato in affitto a cittadini di altre città dietro pagamento di un canone
prestabilito. Alla fine del I secolo a.C. il territorio di Leontini viene usato
per i donativi agli alleati dei triumvirato. La città entra in un periodo
di grande decadenza, scompare praticamente come città, mentre la popolazione
preferisce trasferirsi nelle campagne e nelle fattorie sparse nel territorio.
Quasi del tutto assenti le notizie relative alla città in periodo imperiale. Le
poche informazioni giunte fino a noi sono inserite nel contesto delle vicende
dei santi martiri Alfio, Filadelfo e Cirino, chiaramente leggendarie e quindi
di poca utilità. Secondo la tradizione, la chiesa leontina è una delle prime ad
affermare che Maria è madre di Dio, prima che questa verità di fede venga
ufficialmente proclamata dal concilio di Efeso. La riscoperta tra studi e
scavi Paolo Orsi, R Carta, R Santapaola in una foto degli anni 30 Dopo un
secolare abbandono del sito, torna l'interesse per la storia del luogo grazie
ai primi studi favoriti da vari studiosi. Le prime indicazioni sull'antica L.
provengono da C.M. Arezzo, Fazello, Alberti, Maurolico e Cluverio. Nel XVIII
secolo Vito Amico identificò la valle S. Mauro come l'agorà e la Valle S.
Eligio come sede dell'antico fiume Lisso. Nel 1781 Ignazio Paternò Castello
evidenzia lo stato di decadenza della città. Schubring studiando il testo di
Polibio sulla città ne identifica la struttura assieme alla strada citata anche
da Tito Livio per la morte di Geronimo nel 215 a.C. La testa del
kouros della collezione Biscari Le prime segnalazioni in merito alle necropoli
di Leontinoi risalgono al 1879 ad opera di Giuseppe Fiorelli, con tombe nella
zona nord di Lentini. Nel 1884 Francesco Saverio Cavallari rinviene un ipogeo
cristiano e nel 1887 una necropoli sicula nella Valle Ruccia. Nel 1891 il
Columba presenta uno studio sulla topografia della città con un rilievo del
Castellaccio. Le ricerche effettuate misero in evidenza l'esigenza di
mettere ordine al patrimonio per bloccare i traffici illeciti di materiali
verso collezioni private. Lo stesso Paolo Orsi evidenzia questo problema
suggerendo già nel 1884 la fondazione di un museo archeologico. Sono proprio
gli studi di Paolo Orsi a dare impulso alle ricerche tramite gli scavi condotti
in varie parti del sito. Nel 1902 viene ritrovato il kouros di Lentini, oggi al
Paolo Orsi cui viene associata la testa della collezione Biscari. Nel 1925 lo
Ziegler pubblica una sintesi sulle conoscenze di Lentini. Gli scavi
riprendono nel 1940 con Pietro Griffo presso le fortificazioni del S. Mauro e
ulteriori indagini relative alla topografia. Dal 1950 al 1955 viene messa in
luce la porta sud (la cosiddetta porta siracusana) e viene esplorata la necropoli
esterna. Ulteriori ricerche di Adamesteanu e Rizza mettono in luce altre
strutture. Mentre nel 1960 viene rinvenuta casualmente una stipe votiva ad
ovest del colle della Metapiccola. Vengono scoperti dei blocchi in Piazza
Vittorio Veneto, nel 1971 e nel 1974 vengono esplorate delle tombe presso la
Valle di S. Eligio, e nel 1977-78 si riprende l'esplorazione della necropoli di
contrada Piscitello. In contrada Crocifisso viene riportata alla luce
un'abitazione che rispecchia le descrizioni di Polibio. Tra il 1981-82 le
ricerche vengono effettuale a sud della porta meridionale in contrada
Pozzanghera, mettendo i luce delle tombe di età arcaica sino a quella
ellenistica. Si prosegue con scavi nel 1986 sul colle Metapiccola, nel 1987 sul
Castellaccio da cui emergono anche le strutture murarie della porta nord. Gli
scavi sono proseguiti su varie aree sino al 1989, poi nel 1993 in Piazza
Umberto è stata rinvenuta una necropoli musulmana sopra a quella greco-arcaica,
sino ad arrivare agli ultimi anni con ulteriori aggiornamenti. Il
sito Mappa di Leontinoi «La città di Leontinoi è interamente rivolta
verso settentrione: vi è nel mezzo di essa una valle piana, nella quale si
trovano le sedi dei magistrati e dei giudici e tutta l'agorà. Da un lato e dall'altro
della valle vi sono alture scoscese: I ripiani di queste alture sopra i colli
sono pieni di case di templi. Due porte ha la città, di cui una è al termine
della valle anzidetta verso mezzogiorno e porta a Siracusa, l'altra, al Nord,
porta ai campi detti Leontini e alla regione coltivabile. Sotto uno degli
scoscendimenti, quello verso Occidente, scorre un fiume che chiamano Lisso.
Parallele a questo, E la maggior parte sotto lo stesso pendio, giacciono delle
case contigue, tra le quali e il fiume vi è la strada anzidetta.»
(Polibio, Historiae) Il sito di Leontinoi è stretto tra Carlentini a sud
e Lentini a nord. L'area dell'agorà si trova in una vallata circondata a sud
est dal colle della Metapiccola e a sud ovest dal colle San Mauro. Mentre a
nord vi è l'area del Castellaccio. Il parco archeologico copre parzialmente
l'intera estensione dell'antica città ed è accessibile da sud, con ingresso
dalla porta siracusana, una porta a tenaglia di cui sono ben visibili i tratti
murari. Sull'ingresso sono rintracciabili anche dei monumenti funerari e
delle vicine necropoli del IV e III sec a.C. Le prime tombe di questa zona
risalgono al VI sec a.C. L'agorà si trova al centro della vallata. Le
fortificazioni arcaiche sul monte S. Mauro Sul colle della Metapiccola è
presente un villaggio preistorico identificato con l'antica Xouthia. Gli scavi
hanno evidenziato la presenza di capanne rettangolari col basamento infossato.
Le capanne erano di legno, difatti sono visibili anche i segni dei pali sul
terreno. La cinta muraria La cinta muraria ha un andamento complesso e
mostra quattro interventi costruttivi. La più antica risale al VII sec a.C. e
circondava solo l'acropoli, sono emersi dei tratti sul lato est del colle S.
Mauro con incisioni che distinguono la cava di estrazione. La seconda
cinta è degli inizi del VI sec a.C. e dal fondovalle risaliva sino al colle
della Metapiccola. La fortificazione ben visibile a piccoli blocchi presenta
una torre circolare. Un restauro delle mura avvenne nel III sec a.C. durante la
guerra tra Roma e Siracusa. Lentini nell'Enciclopedia Treccani, su
Treccani. LENTINI Enciclopedia dell' Arte Antica, Treccani. Bibliografia
Massimo Frasca, M. Congiu, C. Miccichè e S. Modeo, Tucidide e l’archaiologhìa
di Leontinoi, in Dal mito alla storia. La Sicilia nell'Archaiologhia di
Tucidide (Atti del VIII Convegno di Studi, Caltanissetta). Massimo Frasca,
Leontinoi. Archeologia di una colonia greca, Roma 2009 Massimo Frasca,
Interazione tra Greci e Indigeni nella Sicilia orientale Il caso Leontinoi.
Maltese, I Tetradrammi di Leontinoi. Dinamiche produttive e storico-artistiche,
Trieste Sicilia, Touring Club d'Italia, Voci correlate Monte San Basilio Storia
di Lentini Museo archeologico di Lentini Altri progetti Collabora a Wikiquote
Wikiquote contiene citazioni di o su Leontinoi Leontinoi, su sapere. Agostini.
Leontini, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Leontinoi,
su sicilia fotografica Filmato audio Leontinoi. Memorie da una città
dimenticata. Frasca, Leontinoi, città dei Calcidesi in Sicilia. Città della
Magna Grecia Siti archeologici della Sicilia greca Portale Antica
Grecia Portale Sicilia Portale Storia Categorie:
LeontinoiSiti archeologici del libero consorzio comunale di SiracusaCittà della
Sicilia grecaCittà romane della SiciliaLentini [altre]. L. Se stai cercando
altri significati, vedi L. (disambigua). Busto di L. ad opera dello
scultore lentinese Caracciolo. L. (in greco antico: Γοργίαςs; Leontini –
Larissa), retore e filosofo siceliota. Discepolo di Empedocle di GIRGENTI
(si veda), è considerato uno dei maggiori sofisti, teorizzatore di un
relativismo etico assoluto, fondato sulla morale della situazione contingente,
spinto fino al nichilismo. Figlio di Carmantida, nasce a LEONZIO, Leontini
(odierna Lentini, nella provincia di Siracusa), città greca della Sicilia. Fu
discepolo del filosofo Empedocle di GIRGENTI (si veda) e dei retori siracusani
Corace e Tisia, inventori della retorica, ma subì anche l'influenza delle
scuole pitagorica ed eleatica. Prese parte ad un'ambasceria ad Atene per
richiedere aiuti militari nella guerra contro Siracusa e riscosse un grande
successo per la sua eloquenza (vedi Prima spedizione ateniese in Sicilia).
Viaggiò anche in Tessaglia, in Beozia, ad Argo (dove fu fatto divieto di
frequentare le sue lezioni), a Delfi e a Olimpia, dove gli furono erette
statue. Vendendo i propri insegnamenti di città in città, pare guadagnasse
ingenti ricchezze facendosi pagare fino a 100 mine ad allievo, anche se in
realtà alla sua morte lasciò una somma piuttosto modesta. Muore in Tessaglia,
dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere, pare ultracentenario[8]; a
chi gli chiedeva il motivo di tale longevità, egli rispondeva: «il non aver mai
compiuto nulla per far piacere ad un altro. Di sicuro visse con sobrietà
dominando le passioni, lontano da simposi e incurante di tutto ciò che potesse
turbarlo. Tra i suoi numerosi discepoli si ricordano Polo di Agrigento, Crizia,
Alcibiade, Tucidide, Alcidamante, Isocrate e Antistene. Pare inoltre che
intrattenesse ottimi rapporti di amicizia con Pericle. Tipico dell'oratoria di L.
era l'ampio uso di complesse figure retoriche, desunte dal linguaggio poetico
ed epico. Si prendeva gioco, inoltre, di quanti sostenevano di poter insegnare
la virtù, e vantava di saper tenere un discorso su qualsiasi argomento, come
testimoniato anche da Platone. Insieme a Protagora, Prodico e Ippia di Elide,
viene tradizionalmente ricordato come uno dei grandi sofisti. Contenuto delle
opere principali Opere conservate sono l'Encomio di Elena e In difesa di
Palamede. Solo frammenti, invece, abbiamo del Sul non essere o sulla natura di
un Epitafio per i morti della guerra del Peloponneso, di un Encomio degli Elei,
di un Discorso Olimpico e Discorso Pitico. Encomio di Elena Lo stesso
argomento in dettaglio: Encomio di Elena. L'amore di Elena e Paride, olio
su tela di David, oggi esposto al Louvre (Parigi) Nell'Encomio L. difende Elena
dall'accusa di essere stata causa della guerra di Troia, con la sua decisione
di tradire il marito Menelao e seguire Paride. Elena è innocente, perché agì o
mossa da un principio a lei superiore (che si tratti degli dèi o dell'Ananke,
la Necessità), o rapita con la forza, o persuasa da discorsi (logoi), o vinta
dall'amore. In ogni caso il movente rimane esterno alla sua responsabilità.
Schematizzando, l'argomentazione L.na è ricondotta a quattro argomenti: Elena
si era innamorata di Paride; era stata rapita da Paride; fu persuasa da Paride;
fu rapita per volontà divina. Nel primo caso Elena è una vittima, poiché Afrodite
promise a Paride che in cambio della Mela d'Oro avrebbe fatto innamorare di lui
la donna più bella al mondo, appunto Elena. Nel secondo caso Elena viene
rapita, quindi è una vittima e la colpa è da assegnare a Paride. Nel terzo caso
se è stata la potenza della parola a convincerla anche in questo caso non è
colpa sua poiché la parola è una grande dominatrice. E se fu per l'ultimo caso
non fu per sua volontà ma per quella degli dei i cui progetti non possono
essere impediti con la nostra precauzione o provvidenza. Sul non essere o
sulla natura Nell'opera Sul non essere G. dimostra, tramite la reductio ad
absurdum, tre ipotesi, volutamente opposte alla scuola di Elea. Il suo
argomentare svolge il seguente percorso logico: Nulla è; Se anche
qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; Se anche qualcosa fosse conoscibile,
non sarebbe comunicabile agli altri. Questi tre punti fondamentali della
filosofia di L., secondo la testimonianza di Sesto Empirico, vengono delucidati
attraverso una sequenza di ragionamenti che portano ad una conclusione
ultima. Che niente esista G. dimostra in questo modo: se qualcosa esiste,
esso sarà o l'essere o il non-essere o l'essere e il non-essere insieme. Ora il
non-essere non c'è, ma neppure l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non
potrebbe essere che o eterno o generato o eterno e generato insieme. Ora, se è
eterno, non ha alcun principio e, non avendo alcun principio, è infinito e, se
è infinito, non è in alcun luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma
neppure generato può essere l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o
dall'essere o dal non-essere. Ma non è nato dall'essere, ché, se è essere, non
è nato, ma è già; né dal non-essere, perché il non-essere non può
generare. Se le cose pensate non si può dire siano esistenti, sarà vero
anche l'inverso, che non si può dire che l'essere sia pensato. È giusta e
conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste, l'essere non è
pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti, se il pensato
esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò è
contrario all'esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli
o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo si mette a volare o dei carri
si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il pensato esista. Di più,
se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser pensato, perché ai
contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo, perché si pensa anche
Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque l'essere non è
pensato. Posto che le cose esistenti sono visibili e udibili e in genere
sensibili e di esse le visibili sono percepibili per mezzo della vista e le
udibili per l'udito, e non viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un
altro? Poiché il mezzo con cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è
l'oggetto, la cosa, non è realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino,
ma solo parola, che è altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile
non può diventare audibile, e viceversa, così l'essere, in quanto è oggetto
esterno a noi, non può diventar parola, che è in noi. E non essendo parola non
potrà esser manifestato ad altri.» (Sesto Empirico, Contro i
matematici) Interpretazione dell'opera Lo stesso argomento in
dettaglio: Relativismo etico sofistico
Il nichilismo di G. E' decoro allo Stato una baldanzosa gioventù, al
corpo la bellezza, all'animo la sapienza, alla parola la verità. (G.
Encomio di Elena) Le interpretazioni di G. si possono dividere
fondamentalmente in due tipi, a seconda che si considerino le sue opere scritte
con intento serio o ironico. Nel secondo caso, il trattato Sul non essere
sarebbe unicamente una parodia delle dottrine e dello stile argomentativo
tipico di Parmenide e della sua scuola e non, piuttosto, una presa di posizione
convinta che invece farebbe di G., secondo alcuni, un precursore del
nichilismo. Nel Sul non essere G. giunge alla conclusione (secondo
l'interpretazione dello Pseudo-Aristotele) che solo il nulla è. Di conseguenza,
l'essere non esiste: poiché se è infinito nessun luogo potrebbe contenerlo, e
non può essere finito poiché gli stessi eleati lo negano come tale. Ancora, se
anche esistesse, non sarebbe conoscibile: chi è all'interno dell'Essere, dello
Sfero parmenideo, non può conoscerlo. Infine, se anche fosse conoscibile, non
sarebbe dicibile né comunicabile ad altri: mancherebbero le parole per
esprimerlo, e anche se fosse esprimibile non si potrebbe comunicare se non ciò
che è oggetto d'esperienza, sicché per L. appare una conoscenza espressa in
termini negativi: la verità non esiste, ogni sapere è impossibile, tutto è
falso perché tutto è illusorio. Se la verità non è raggiungibile né con i
sensi ingannatori né con la ragione, su quali princìpi certi si reggerà la
morale dell'uomo? L. risponde che non esistono valori, princìpi immutabili di
comportamento, ma che ognuno dovrà affrontare la situazione in cui si trova e
semplicemente reagire ad essa. È questa la «morale della situazione» per cui il
comportamento di ognuno varierà a seconda del soggetto, della sua età, della
sua cultura, delle circostanze. Significativo è il fatto che, quando G.
fu incaricato dal governo ateniese di celebrare i caduti della guerra del
Peloponneso, egli disse che questi non furono eroi, ma che erano da onorare
perché accettarono la situazione in cui si trovarono e seppero agire come le
circostanze richiedevano – seppero cioè rispondere all'occasione (kairós)
offerta dalla situazione. Di fronte al dramma della vita, l'unica consolazione
è la parola (logos), che acquista valore proprio perché non esprime la verità
ma l'apparenza (doxa). La parola, afferma nell'Encomio di Elena, è magica: essa
è «un potente signore, che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a
compiere le imprese più divine. La parola esprime al meglio le passioni che
guidano la vita dell'uomo, è in grado di evocarle e modificarle, e così di
sottomettere chiunque. Essa è dunque onnipotente e addirittura in grado di
creare un mondo perfetto dove vivere. L'uomo è una pedina nelle mani del caso
(tyche), il quale domina ogni vicenda umana. Egli, però, sarà felice se sarà in
grado di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità (kairoȋ) che la tyche gli
offre: è per questo, in ultima analisi, che Elena merita un elogio, in quanto
ha saputo sfruttare a proprio vantaggio ciò che le assegnava il destino.
In conclusione, un'interpretazione filosofica del pensiero di G. tenta di
tracciare un percorso che, partendo dal naturalismo proprio di Empedocle,
conduce alla cosiddetta crisi eristica, di stampo nichilista, sino a uno sbocco
in un più sereno scetticismo del linguaggio. Resta tuttavia dubbio se L. avesse
un'effettiva sfiducia nelle possibilità conoscitive dell'uomo o non, piuttosto,
un'enorme fiducia nelle possibilità del linguaggio, in grado di dimostrare
tutto e il contrario di tutto, svincolato da ogni criterio di verità. D'altra
parte, resta anche incerto quanto G. fosse cosciente dell'onnipotenza della
parola o se essa non fosse piuttosto un ovvio corollario della sua attività
retorica. Infine G., a differenza di alcuni filosofi di epoca successiva
come Platone, ha una buona opinione dell'arte: sostiene che se esistesse
l'essere, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta, ma siccome
l'essere non esiste, l'artista è un creatore di mondi. Quindi il bravo artista
è colui che riesce ad ingannare gli spettatori facendoli partecipi delle
proprie opere, mentre lo spettatore più "saggio" è colui che sa farsi
ingannare. Note Fazello, Della Storia di Sicilia, Palermo, Assenzio,
Quintiliano DK Diodoro Siculo, XII 53, 1-3. ^ Olimpiodoro, commento a Platone,
G., Pausania, VI 17, 7 per Olimpia; X 18, 7 per Delfi. ^ Probabilmente il
prezzo di 100 mine d'oro, testimoniatoci da Isocrate nell'Antidosis, si
riferiva non a singole lezioni ma all'intero ciclo di insegnamento. A riprova
di ciò vi è il fatto che lo stesso Isocrate testimonia che alla morte del
maestro non si trovarono le ingenti ricchezze che tutti si aspettavano, ma solo
1000 stateri. Cfr. Antidosis, 155-156. ^ Le fonti riportano un'età variabile
tra i 107 e i 109 anni. Apollodoro di Atene, FGrHist . DK 82 A11. Filostrato,
Vite dei sofisti Filostrato, Vite dei sofisti, I 1. Forse provenienti da
manuali di retorica (frr. D.-K.) contenenti numerose orazioni da memorizzare
come esempi. ^ La scuola eleatica, a differenza del suo fondatore Parmenide,
concepisce l'essere come infinito, soprattutto a seguito delle considerazioni
di Melisso. ^ M. Sacchetto, La morale della situazione, in L'esperienza del
pensiero. Le polis e l'età di Pericle, p. 72. ^ DK 82 B6. ^ DK 82B11 ^ J.C.
Capriglione, Elena tra L. e Isocrate ovvero se l'amore diventa politica, in L.
Montoneri-F. Romano (a cura di), L. e la sofistica, numero monografico di
«Siculorum Gymnasium» Cfr. DK82 B23. Bibliografia L., Testimonianze e
frammenti, a cura di Roberta Ioli, Roma, Carocci. L. di Leontini, L. "Su
ciò che non è", edizione critica, traduzione e commento a cura di Roberta
Ioli, Hildesheim: Georg Olms, 2010. Barbara Cassin, Si Parménide. Le traité anonyme De
Melisso, Xenophane, L., Lille: Presse Universitaire de Lille, 1980. I presocratici. Prima traduzione integrale con testi
originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e
Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani ( = DK) Stefania
Giombini, L. epidittico. Commento filosofico all’Encomio di Elena, all’Apologia
di Palamede, all’Epitaffio, Presentazione di Livio Rossetti, Passignano,
Aguaplano, 2012. Giuseppe Mazzara, L.. La retorica del verosimile, Sankt
Augustin, Academia Verlag, 1999. Maurizio Migliori, La filosofia di L., Milano:
CELUC, 1973. Mario Untersteiner (a cura di), Sofisti: testimonianze e
frammenti, Milano: Bompiani, Voci correlate L. (dialogo), il dialogo platonico
di cui è protagonista Ippia di Elide Prodico Protagora Relativismo etico
sofistico Sofistica Gòrgia di Leontini, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Calogero, L. di Leontini, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, L. di Leontini, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Gòrgia (sofista e retore), su
sapere.it, De Agostini. L.s of Leontini, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. L., su Internet Encyclopedia of Philosophy.
Modifica su Wikidata (EN) Opere di L., su Open Library, Internet Archive.
Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di L., su LibriVox. Modifica su Wikidata
(EN) L., su Goodreads. Modifica su Wikidata Registrazioni audiovisive di L., su
Rai Teche, Rai. Higgins, L.s su
Internet Encyclopedia of Philosophy. Taylor, Lee, The Sophists, in Zalta (a
cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language
and Information (CSLI), Università di Stanford. V · D · M Presocratici V · D · M Sofisti Portale
Biografie Portale Filosofia Portale Letteratura
Portale Magna Grecia Categorie: Retori siceliotiFilosofi
siceliotiFilosofi del V secolo a.C.Sicelioti del V secolo a.C.Morti a LarissaFilosofi
greci antichi del V secolo a.C.SofistiCentenari greci antichiMagna
Grecia[altre]L.. L. o Leonzio? Cf.
Empedocle o Girgentu. Cf. William or Occam? L.. Conversational reason as a
PRESUPPOSITION for conversation. Trascendental argumentation. L. as a character
in Plato’s dialogue where Socrates and L. argue that, unless understanding that
the other is abiding by a principle of conversational helpfulness, it is not
worth conversing! Or even POSSIBLE! L.. Grice e Leonzio.
Grice e Lionzio. Grice e Lionzo. Grice e Lionzi Grice e Leonzi: l’arte
dell’implicatura – filosofia siciliana – la scuola di Leonzio – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo siciliano. Filosofo italiano,
Leonzio, Sicilia. Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi L.
(disambigua). Busto di L. ad opera dello
scultore lentinese Salvatore Caracciolo. L. Γοργίας; Leontini – Larissa è stato
un retore e filosofo siceliota. Discepolo di GIRGENTI, è considerato uno dei
maggiori sofisti, teorizzatore di un relativismo etico assoluto, fondato sulla
morale della situazione contingente, spinto fino al nichilismo. Figlio di
Carmantida, nasce a Leontini, odierna Lentini, nella provincia di Siracusa,
città greca della Sicilia. Fu discepolo del filosofo Empedocle e dei retori
siracusani Corace e Tisia, inventori della retorica, ma subì anche l'influenza
delle scuole pitagorica ed eleatica.[3] Nel 427 prese parte ad un'ambasceria ad
Atene per richiedere aiuti militari nella guerra contro Siracusa e riscosse un
grande successo per la sua eloquenza (vedi Prima spedizione ateniese in
Sicilia). Viaggiò anche in Tessaglia, in Beozia, ad Argo (dove fu fatto divieto
di frequentare le sue lezioni), a Delfi e a Olimpia, dove gli furono erette
statue. Vendendo i propri insegnamenti di città in città, pare guadagnasse
ingenti ricchezze facendosi pagare fino a 100 mine ad allievo, anche se in
realtà alla sua morte lasciò una somma piuttosto modesta.[7] Morì in Tessaglia, dove soggiornava presso il
tiranno Giasone di Fere, intorno al 375 a.C., pare ultracentenario; a chi gli
chiedeva il motivo di tale longevità, egli rispondeva: «il non aver mai
compiuto nulla per far piacere ad un altro»[9]. Di sicuro visse con sobrietà
dominando le passioni, lontano da simposi e incurante di tutto ciò che potesse
turbarlo. Tra i suoi numerosi discepoli si ricordano Polo di Agrigento, Crizia,
Alcibiade, Tucidide, Alcidamante, Isocrate e Antistene. Pare inoltre che
intrattenesse ottimi rapporti di amicizia con Pericle. Tipico dell'oratoria di L. era l'ampio uso di
complesse figure retoriche, desunte dal linguaggio poetico ed epico. Si
prendeva gioco, inoltre, di quanti sostenevano di poter insegnare la virtù, e
vantava di saper tenere un discorso su qualsiasi argomento, come testimoniato
anche da Platone. Insieme a Protagora, Prodico e Ippia di Elide, viene
tradizionalmente ricordato come uno dei «grandi sofisti». Contenuto delle opere principali Opere
conservate sono l'Encomio di Elena e In difesa di Palamede. Solo frammenti, invece,
abbiamo del Sul non essere o sulla natura di un Epitafio per i morti della
guerra del Peloponneso, di un Encomio degli Elei, di un Discorso Olimpico e
Discorso Pitico. Encomio di Elena Lo stesso argomento in dettaglio: Encomio di
Elena. L'amore di Elena e Paride, olio
su tela di Jacques-Louis David, oggi esposto al Louvre (Parigi) Nell'Encomio L.
difende Elena dall'accusa di essere stata causa della guerra di Troia, con la
sua decisione di tradire il marito Menelao e seguire Paride. Elena è innocente,
perché agì o mossa da un principio a lei superiore (che si tratti degli dèi o
dell'Ananke, la Necessità), o rapita con la forza, o persuasa da discorsi
(logoi), o vinta dall'amore. In ogni caso il movente rimane esterno alla sua
responsabilità. Schematizzando, l'argomentazione L.na è ricondotta a quattro
argomenti: Elena si era innamorata di Paride; era stata rapita da Paride; fu
persuasa da Paride; fu rapita per volontà divina. Nel primo caso Elena è una vittima, poiché
Afrodite promise a Paride che in cambio della Mela d'Oro avrebbe fatto innamorare
di lui la donna più bella al mondo, appunto Elena. Nel secondo caso Elena viene
rapita, quindi è una vittima e la colpa è da assegnare a Paride. Nel terzo caso
se è stata la potenza della parola a convincerla anche in questo caso non è
colpa sua poiché la parola è una grande dominatrice. E se fu per l'ultimo caso
non fu per sua volontà ma per quella degli dei i cui progetti non possono
essere impediti con la nostra precauzione o provvidenza. Sul non essere o sulla natura Nell'opera Sul
non essere L. dimostra, tramite la reductio ad absurdum, tre ipotesi,
volutamente opposte alla scuola di Elea. Il suo argomentare svolge il seguente
percorso logico: Nulla è; Se anche
qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; Se anche qualcosa fosse conoscibile,
non sarebbe comunicabile agli altri. Questi tre punti fondamentali della
filosofia di L., secondo la testimonianza di Sesto Empirico, vengono delucidati
attraverso una sequenza di ragionamenti che portano ad una conclusione
ultima. «Che niente esista L. dimostra
in questo modo: se qualcosa esiste, esso sarà o l'essere o il non-essere o
l'essere e il non-essere insieme. Ora il non-essere non c'è, ma neppure
l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non potrebbe essere che o eterno o
generato o eterno e generato insieme. Ora, se è eterno, non ha alcun principio
e, non avendo alcun principio, è infinito e, se è infinito, non è in alcun
luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma neppure generato può essere
l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o dall'essere o dal non-essere. Ma
non è nato dall'essere, ché, se è essere, non è nato, ma è già; né dal
non-essere, perché il non-essere non può generare. Se le cose pensate non si può dire siano
esistenti, sarà vero anche l'inverso, che non si può dire che l'essere sia
pensato. È giusta e conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste,
l'essere non è pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti,
se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si
pensino; ciò è contrario all'esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un
uomo che voli o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo si mette a
volare o dei carri si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il
pensato esista. Di più, se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser
pensato, perché ai contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo, perché
si pensa anche Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque l'essere
non è pensato. Posto che le cose
esistenti sono visibili e udibili e in genere sensibili e di esse le visibili
sono percepibili per mezzo della vista e le udibili per l'udito, e non
viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un altro? Poiché il mezzo con
cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è l'oggetto, la cosa, non è
realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola, che è
altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile non può diventare
audibile, e viceversa, così l'essere, in quanto è oggetto esterno a noi, non
può diventar parola, che è in noi. E non essendo parola non potrà esser
manifestato ad altri. (Sesto Empirico, Contro i matematici) Interpretazione dell'opera Lo stesso argomento in dettaglio: Relativismo
etico sofistico Il nichilismo di L.. E' decoro allo Stato una baldanzosa
gioventù, al corpo la bellezza, all'animo la sapienza, alla parola la
verità.» (L., Encomio di Elena, 1) Le interpretazioni di L. si possono dividere
fondamentalmente in due tipi, a seconda che si considerino le sue opere scritte
con intento serio o ironico. Nel secondo caso, il trattato Sul non essere
sarebbe unicamente una parodia delle dottrine e dello stile argomentativo
tipico di Parmenide e della sua scuola e non, piuttosto, una presa di posizione
convinta che invece farebbe di L., secondo alcuni, un precursore del
nichilismo. Nel Sul non essere L. giunge
alla conclusione (secondo l'interpretazione dello Pseudo-Aristotele) che solo
il «nulla è». Di conseguenza, l'essere non esiste: poiché se è infinito nessun
luogo potrebbe contenerlo, e non può essere finito poiché gli stessi eleati lo
negano come tale.[13] Ancora, se anche esistesse, non sarebbe conoscibile: chi
è all'interno dell'Essere, dello Sfero parmenideo, non può conoscerlo. Infine,
se anche fosse conoscibile, non sarebbe dicibile né comunicabile ad altri:
mancherebbero le parole per esprimerlo, e anche se fosse esprimibile non si
potrebbe comunicare se non ciò che è oggetto d'esperienza, sicché per L. appare
una conoscenza espressa in termini negativi: la verità non esiste, ogni sapere
è impossibile, tutto è falso perché tutto è illusorio. Se la verità non è raggiungibile né con i
sensi ingannatori né con la ragione, su quali princìpi certi si reggerà la
morale dell'uomo? L. risponde che non esistono valori, princìpi immutabili di
comportamento, ma che ognuno dovrà affrontare la situazione in cui si trova e
semplicemente reagire ad essa. È questa la «morale della situazione» per cui il
comportamento di ognuno varierà a seconda del soggetto, della sua età, della
sua cultura, delle circostanze.
Significativo è il fatto che, quando L. fu incaricato dal governo
ateniese di celebrare i caduti della guerra del Peloponneso, egli disse che
questi non furono eroi, ma che erano da onorare perché accettarono la
situazione in cui si trovarono e seppero agire come le circostanze richiedevano
– seppero cioè rispondere all'occasione (kairós) offerta dalla situazione. Di
fronte al dramma della vita, l'unica consolazione è la parola (logos), che
acquista valore proprio perché non esprime la verità ma l'apparenza (doxa). La
parola, afferma nell'Encomio di Elena, è magica: essa è «un potente signore,
che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a compiere le imprese più
divine. La parola esprime al meglio le passioni che guidano la vita dell'uomo,
è in grado di evocarle e modificarle, e così di sottomettere chiunque. Essa è
dunque onnipotente e addirittura in grado di creare un mondo perfetto dove
vivere. L'uomo è una pedina nelle mani del caso (tyche), il quale domina ogni
vicenda umana. Egli, però, sarà felice se sarà in grado di sfruttare a proprio
vantaggio le opportunità (kairoȋ) che la tyche gli offre: è per questo, in
ultima analisi, che Elena merita un elogio, in quanto ha saputo sfruttare a
proprio vantaggio ciò che le assegnava il destino. In conclusione,
un'interpretazione filosofica del pensiero di L. tenta di tracciare un percorso
che, partendo dal naturalismo proprio di Empedocle, conduce alla cosiddetta
crisi eristica, di stampo nichilista, sino a uno sbocco in un più sereno
scetticismo del linguaggio. Resta tuttavia dubbio se L. avesse un'effettiva
sfiducia nelle possibilità conoscitive dell'uomo o non, piuttosto, un'enorme
fiducia nelle possibilità del linguaggio, in grado di dimostrare tutto e il
contrario di tutto, svincolato da ogni criterio di verità. D'altra parte, resta
anche incerto quanto L. fosse cosciente dell'onnipotenza della parola o se essa
non fosse piuttosto un ovvio corollario della sua attività retorica. Infine L., a differenza di alcuni filosofi di
epoca successiva come Platone, ha una buona opinione dell'arte: sostiene che se
esistesse l'essere, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta, ma
siccome l'essere non esiste, l'artista è un creatore di mondi. Quindi il bravo
artista è colui che riesce ad ingannare gli spettatori facendoli partecipi
delle proprie opere, mentre lo spettatore più "saggio" è colui che sa
farsi ingannare. Fazello, Della Storia di Sicilia, Palermo, Giuseppe Assenzio,
Quintiliano, DK Diodoro Siculo, Olimpiodoro, commento a Platone, L., .Pausania,
per Olimpia; per Delfi. Probabilmente il prezzo di 100 mine d'oro,
testimoniatoci da Isocrate nell'Antidosis, si riferiva non a singole lezioni ma
all'intero ciclo di insegnamento. A riprova di ciò vi è il fatto che lo stesso
Isocrate testimonia che alla morte del maestro non si trovarono le ingenti
ricchezze che tutti si aspettavano, ma solo 1000 stateri. Cfr. Antidosis. ^ Le
fonti riportano un'età variabile tra i 107 e i 109 anni. Cfr. Apollodoro di
Atene, FGrHist 244 F33. ^ DK 82 A11. ^ Filostrato, Vite dei sofisti,
Filostrato, Vite dei sofisti,Forse provenienti da manuali di retorica (frr.
D.-K.) contenenti numerose orazioni da memorizzare come esempi. ^ La scuola
eleatica, a differenza del suo fondatore Parmenide, concepisce l'essere come
infinito, soprattutto a seguito delle considerazioni di Melisso. ^ M. Sacchetto,
La morale della situazione, in L'esperienza del pensiero. Le polis e l'età di
Pericle. ^ DK 82 B6. DK 82B11 ^ J.C. Capriglione, Elena tra L. e Isocrate
ovvero se l'amore diventa politica, in L. Montoneri-F. Romano (a cura di), L. e
la sofistica, numero monografico di «Siculorum Gymnasium. DK82 B23.
Bibliografia L., Encomio di Elena, testo greco a fronte, a cura di Giuseppe
Girgenti, Milano, Alboversorio, 2014. L., Testimonianze e frammenti, a cura di
Roberta Ioli, Roma, Carocci, 2013. L. di Leontini, L. "Su ciò che non
è" , edizione critica, traduzione e commento a cura di Roberta Ioli,
Hildesheim: Georg Olms. Barbara Cassin, Si Parménide. Le traité anonyme De Melisso, Xenophane, L.,
Lille: Presse Universitaire de Lille. I
presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle
testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di
Giovanni Reale, Milano, Bompiani (DK) Stefania Giombini, L. epidittico.
Commento filosofico all’Encomio di Elena, all’Apologia di Palamede,
all’Epitaffio, Presentazione di Livio Rossetti, Passignano, Aguaplano, 2012.
Giuseppe Mazzara, L.. La retorica del verosimile, Sankt Augustin, Academia
Verlag, 1999. Maurizio Migliori, La filosofia di L., Milano: CELUC, 1973. Mario
Untersteiner (a cura di), Sofisti: testimonianze e frammenti, Milano: Bompiani.
Voci correlate L. (dialogo), il dialogo platonico di cui è protagonista Ippia
di Elide Prodico Protagora Relativismo etico sofistico Sofistica Gòrgia di
Leontini, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Guido Calogero, L. di Leontini, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, L. di Leontini, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Gòrgia (sofista e retore), su
sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) L.s of Leontini, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata L.,
su Internet Encyclopedia of Philosophy. Opere di L., su Open Library, Internet
Archive. Audiolibri di L., su LibriVox. L., su Goodreads. Registrazioni
audiovisive di L., su Rai Teche, Rai. Higgins, L.s, su Internet Encyclopedia of Philosophy.
(EN) C.C.W. Taylor, Mi-Kyoung Lee, The Sophists, in Edward N. Zalta (a cura
di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Università di Stanford. V · D · M Presocratici V · D · M Sofisti Portale
Biografie Portale Filosofia Portale Letteratura Portale Magna Grecia Categorie: Retori
sicelioti Filosofi sicelioti Filosofi del V secolo a.C.Sicelioti del V secolo
a.C.Morti a Larissa Filosofi greci antichi del V secolo a.C.Sofisti Centenari
greci antichi Magna Grecia [altre]. Gorgia di Leonzi. Keywords: transcendental
argumentation veracity and conversation. Socrate e Gorgia di Leonzio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Leonzio”. Leonzio.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Leonzio: la ragione conversazionale la diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Taranto). Abstract. Grice: Protagoras
of Leonzio should be carefully distinguish from Leonzio da Taranto! Oxonian
historians of philosophy start on the wrong foot by speaking the wrong language
anyway!” -- Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to The Vita di Pitagora di Giamblico di Calcide.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!: ossia, Grice e Lettine: all’isola – la diaspora di Crotona – Roma – filosofia
siciliana – scuola di Siracusa -- filosofia italiana – Luigi Spearnza (Siracusa). Abstract. Grice: “Cuoco called Pythagoras – a non-Italian
– the father of the philosophy in Italy (Magna Graecia) – he could have added –
‘and the isola!” -- Filosofo italiano. Siracusa,
Sicilia. A Pythagorean, according to “Vita di Pitagora” by Giamblico di
Calcide.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Leoni:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia marchese
– scuola di Ancona -- filosofia italiana – il vincolo mi fa libero -- Luigi
Speranza (Ancona). Abstract. Grice: “It’s funny that while one of my
pupils – A. G. N. Flew – and many members of Austin’s Play Group – Thomson, Pears,
and what have you – were interested in ‘if I can’ as a wedge to imply the
freedom of the will, I only realised how important ‘freiheit’ was when I
elaborated on the basis for such things as my principle of conversational helpfulness.
My idea of freedom developed not along the lines of Aristotle or Epitteto – his
idea of the semi-free will—but that of Kant, and Hegel. My conversational
imperative, or command, or commandment, is FREELY adopted by a RATIONAL AGENT.
Indeed, it wouldn’t be a matter of rationality if such a principle were NOT
adopted freely. “My lips are sealed” is the utterance I utter to refute Kant on
the decalogogical category, ‘Thou shalt not give false testimony.” Of course
such things are defeasbible. They ARE the things a decent chap should do – but they
are the things that a chap – see my ‘Ill-Will’ – may decide NOT to do – he would
still be a chap, if not a decent one! – On occasion I refer to the ‘ordinary
chap,’ not the ‘decent chap,’ until I gave a seminar on ‘Decency’!” – In my
linguistic botany on freedom I consider ‘liberal’ and ‘liberated’ – and Speranza
has spoken of meaning liberalism to echo Bennett’s meaning-nominalism – so there’s
that! Leoni is interested in the libero- root that we find in ‘liberal’ and ‘liberated,’
and I do use ‘liberated – from nature’s constraints – in my pirotological
progression of action, from the free-moving, free-wheeling, phototropic, and
animal freedom, and even the action where one more or less freely sets a goal
to pursue. But, like Leoni, I make a fine distinction between ‘libero’ e ‘spontaneo’
or autonomo. A truly rational agent is free in the sense that it’s a ‘strong’
conception of freedom that is needed. One in which the END (or goal) is FREELY
chosen by the agent – and EXPECTS that his parner – in the conversational game –
will have adopted HIS ENDS or goals just as freely!” -- Filosofo italiano. Ancona,
Marche. Grice: “I love Bruno Leoni; my balance between the principle of
conversational self-love and the principle of conversational benevolence is
what all his philosophy is about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here:
his is an individualism, i. e. subjectivisim, and he believes that the
‘scambio’ or ‘inter-subjective,’ inter-individual exchange’ is ‘spontaneous –
he calls it ‘ordine spontaneo.’ He doesn;’t see it necessarily as ethical or
meta-ethical – but descriptive; similarly I speak of conversational maxims as
different from ‘moral’ maxims!” “La
situazione paradossale del nostro tempo è che siamo governati da uomini non,
come pretenderebbe la classica teoria aristotelica, perché non siamo governati
dal diritto, ma esattamente perché lo siamo. Vive a Torino, Pavia, e la
Sardegna. Per la sua filosofia, viene associato ad un modello liberale e
anti-statalista della società. All'interno della filosofia, si inserisce nella tradizione del liberalismo
classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure assistente volontario, e collega di
Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del conflitto, fa parte di A Force,
un'organizzazione segreta alleata incaricata di recuperare prigionieri e
salvare soldati. Insegna filosofia e ricoprendo l'incarico di preside della
facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze tragiche, ucciso. Un
collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione tipografo ma che
svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato truffe e sottrazioni
di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo, Quero lo assassina
colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo in un garage,
inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli anni della
ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si affermavano
politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente sostenendo il
liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L. critica la
logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore razionalità e
legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del concorso delle
volontà dei singoli individui. Fondatore di Il Politico, svolge
ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per
Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi
presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi
Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e
Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche
appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che
della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali
all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo
contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della
società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere
quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore
conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della
rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel
tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche. Con i suoi saggi,
inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta
pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano
la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine
interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non
già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca
capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso. E stato quasi
dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di lezioni
). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la cultura
del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è pervaso da
quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa
frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo
intellettuale. Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i
protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche
se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi
e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso,
bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente
senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di
entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima
dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha
rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano
interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi
in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie
alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i
suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La
situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione
de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere
sulle pagine del torinese, dando vita ad
una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla
quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori
filosofi del liberalismo. Oggi. non è
più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore
delle sue tesi. In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi
lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il
carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del
diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del
normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale
all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è
stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al
potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro
modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è
oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa
ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al
normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L.,
per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più
di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della
tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che
restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro
potenzialità. Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato
fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri,
Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico,
i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della
filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana. Altri
saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli,
Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza
politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le
radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La
sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);
“La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”,
Treviglio Mannelli, Facco Rubbettino, “Il
diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico
moderno e contemporaneo, Masala, Bassani, Macerata, Liberi libri, Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni
nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di
O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato
a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu,
che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana. E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek,
rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e
del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente
con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il
liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri,
“Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri,
Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce
il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già
ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L..
Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della
Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e
politico italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo.
Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità
dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l. Nome
compiuto: Bruno Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di
‘freedom’ in Grice e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e
la tradizione liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito
nazionale fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del
liberalismo italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo --
Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Leoni: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia umbra –
scuola di Spoleto – filosofia perugiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto). Abstract. Grice: “In Italy, in those days, it was very
common for a philosopher to be called in the singular – Leone – or in the
plural – Leoni –. In England, and specifically
Oxford, we don’t have that problem with Occam!” -- Filosofo italiano. Spoleto, Perugia,
Umbria. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but there’s a peril in
that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) – when he died,
Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning), strangled to death,
and thrown into a ditch. Categorie:
philosophers in ditch – Thales, Leoni.” Di famiglia aristocratica, studia a
Roma. Insegna a Padova e Pisa. E qui che
ha modo di entrare in contatto con la cerchia di filosofi che gravitano attorno
a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Ha contatti e una fitta corrispondenza con
Ficino e Pico. Venne considerato uno dei più valenti filosofi. I più illustri
personaggi e sovrani dell'epoca, come il duca di Calabria, il re di Napoli,
Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo VIII, richiedeno le sue cure, tanto
che divenne il medico personale dello stesso Lorenzo de Medici. All'indomani della morte di Lorenzo de Medici
venne ingiustamente sospettato di essere stato il responsabile del suo
avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in un pozzo il giorno seguente.
Diverse fonti dell'epoca sostengono che
il mandante dell'uccisione di L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F.
Bacchelli, Dizionario Biografico degl’Italiani, riferimenti in. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz.
Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era
adpresso del dicto Lorenzo uno excellentissimo et famosissimo medico de
grandissima scientia in FILOSOFIA, nominato magistro Pierleone de leonardo da
Spolitj, reputato el più singulare valente homo in dicte scientie che ogie dì
viva. E questo uomo in tanto prezzo adpresso del dicto Lorenzo che, senza
quisto clarissimo doctore, non podiva stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille
ducatj de provisione per anno: poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento
ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj ad legere e similemente ad Padova. Dagli
Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio
per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda
a Firenze. E questo mastro L. de tanta scientia, che predisse la morte sua
essere infra IV misi. E anda mal voluntierj ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze
trova Lorenzo stare male: sono lì clarissimj medicj et valentj et excellentj:
poj ce venne el medico del duca de Milano: et predice mastro L. la morte de
Lorenzo. Ipso non presta mai et non se mestecù in alcuna medicina ne potione
sue. Il cronista forse vuol dire che L, non s'ingerì affatto in ciò che
riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo, limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI
della malattia ed a consultazioni astrologiche. E con ciò vuole, forse,
velatamente intendere che niente ha a che vedere L. con quelle strane pozioni a
base di gemme e perle triturate somministrate da un altro medico, il
Piacentino, le quali, attese le lesioni viscerali che tormentano il paziente,
servirono forse ad accelerarne il tracollo -- ma solo ipso in consulendo et
predicendo. Tandem venendo alla morte Lorenzo, Perino, figliolo del dicto
Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato homo bestiale e senza prudentia,
ordina che el dicto mastro L. fosse morto. Lorenzo e in villa ad uno suo
casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto Lorenzo, et lì insino alla
sera stando mastro L., volendo tornare luj allu solito loco, e menato per uno
Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale, et lì e strangulato dicto
mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e portato in Firenze, e
retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai. Et de tanto tradimento
et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la bona memoria de Lorenzo
ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li secretj soj sapiva, savio,
sapientissimo e pieno de verità, bontà et integrità." Nella sua "Storia della Letteratura
Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti dell'epoca, fra cui
Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se medesimo ma si
rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due famigliari di
Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il quale non
nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei parla di
Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese
contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a
Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si
conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico
della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki,
Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della
Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie
fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria
della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste
sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti,
Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova, Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta
alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di
Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di
Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e
opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune
di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori.
Nome compiuto: Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier Leone. Leone.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library. Leoni.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Leopardi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del favoloso – Leopardi fascista – filosofia maceratese – la
scuola di Recanati -- filosofia marchese – scuola di Recanati -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice:
“Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative; admittedly, he is
wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks, pretty much like the
first Vitters, that language is a prison. Man has a need for ‘non-linguistic
thought,’ to think without naming – without conceptualizing! The oddest
philosophy of language for Italy’s greatest poet, one would first think!” -- Grice: “One could write a whole
dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite expression would be
‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a philosophical griceianism,
seeing that my theories were stolen by non-philosophers, there is ‘leopardismo
filosofico,’ seeing that he wasn’t one!” -- essential Italian philosopher, and
founder of a whole movement, ‘leopardismo.’
L. Al dibattito sulle lingue universali
partecipò anche Giacomo L. nello Zibaldone de' pensieri. Sostenne che a rendere internazionale una
lingua non è la potenza della nazione che la parla o la diffusione dei suoi
domini, e nemmeno il suo prestigio letterario: se così fosse la lingua
italiana, che per molto tempo fu intesa e letta nelle corti di tutta Europa e
oltre, sarebbe assurta a lingua
utilizzata da più nazioni, ma così non è stato.L. spiega che invece ciò
che fa di una lingua universale è un aspetto ad essa intrinseco, ovvero la sua
capacità di essere geometrica e regolare e di possedere una struttura semplice
e ideale. Esattezza, precisione, chiarezza i suoi punti costitutivi
fondamentali: Quello poi che ho detto
che una lingua strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere anzi
un'ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente anzi esattamente conviene
a quella lingua caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave I...I,
la qual lingua o maniera di segni non avrebbe a rappresentar le parole, ma le
idee, bensì alcune delle inflessioni d'esse parole (come quelle de' verbi), ma
piuttosto come inflessioni o modificazioni delle idee che delle parole, e senza
rapporto a niun suono pronunziato, né significazione e dinotazione alcune di
esso. Questa non sarebbe lingua perché la lingua non è che la significazione
delle idee fatta per mezzo delle parole.linguaggio (così nominiamola) la quale
giustamente si è riconosciuta per quella maniera di segni ch'è meno dell'altre
impossibile ad essere strettamente
universale. 63 Ella sarebbe una
scrittura, anzi nemmeno questo, perché la scrittura rappresenta le parole e la
lingua, e dove non è lingue né parole quivi non può essere scrittura. Ella
sarebbe un terzo genere, siccome i gesti non sono né lingua né scrittura ma
cosa diversa dall'una e dall'altra. Quest'algebra delLa proposta L.ana si
avvicina alle idee di Soave e crede realizzabile un progetto di lingua
universale solamente qualora questa sia rappresentata da segni matematici,
algebrici. Conscio però della forza implacabile del mutamento linguistico, a
cui tutte le lingue sono soggette, L. aggiunge: Resta dunque provato che la
lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni
ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e
senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per
causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi,
dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di
quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente
l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua
universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle
medesime condizioni che a tal durata indispensabilmente richieggonsi.oIn
sostanza quindi, dopo aver individuato il miglior tipo di linguaggio universale
auspicabile, cioè quello composto matematicamente da segni e caratteri, L.
rimane scettico sulla possibilità, se non d'adozione di una tal lingua, della
sua resistenza al cambiamento. Di questo tratta anche Stefano Gensini quando
spiega che per L. In termini teorici l...] un'autentica universalità è
impossibile, perché quand'anche i dotti riuscissero a convenire su un sistema
artificiale di comunicazione esso, una volta calato nell'uso, inevitabilmente
comincerebbe a mutare In questo modo, spiega Gensini - (L.] anticipa a livello
teorico l'idea saussuriana che tempo e massa parlante sianostrettamente
universale. books.google.it/
books?id=hnS1DwAAQBAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad
=0#v=onepage&q&f=false consultato in data 06/05/2020. La proposta L.ana
si avvicina alle idee di Soave e crede realizzabile un progetto di lingua
universale solamente qualora questa sia rappresentata da segni matematici,
algebrici. Conscio però della forza implacabile del mutamento linguistico, a
cui tutte le lingue sono soggette, L. aggiunge: Resta dunque provato che la
lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni
ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e
senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per
causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi,
dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di
quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente
l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua
universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle
medesime condizioni che a tal durata indispensabilmente richieggonsi.otIn
sostanza quindi, dopo aver individuato il miglior tipo di linguaggio universale
auspicabile, cioè quello composto matematicamente da segni e caratteri, L.
rimane scettico sulla possibilità, se non d'adozione di una tal lingua, della
sua resistenza al cambiamento. Di questo tratta anche Stefano Gensini quando
spiega che per L. In termini teorici (.../ un'autentica universalità è
impossibile, perché quand'anche i dotti riuscissero a convenire su un sistema
artificiale di comunicazione (...] esso, una volta calato nell'uso,
inevitabilmente comincerebbe a mutare In questo modo, spiega Gensini - (L.
anticipa a livello teorico l'idea saussuriana che tempo e massa parlante siano
elementi 'interni' dell'organismo linguistico, svuotando di senso, fra l'altro,
ogni atteggiamento normativo di tipo puristico.5STEFANO GENSINI, «Sul campo
semantico del linguaggio nello Zibaldone», in Lo «Zibaldone» di L. come
ipertesto. Atti del Convegno internazionale, a cura di Marìa de las Nieves
Muñiz Muñiz, Barcellona, 2012, pp. 162-163.Il conte Giacomo L., al battesimo
Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro L. (Recanati), filosofo. È
ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti
figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo
letterario; la profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla
condizione umanadi ispirazione sensista e materialistane fa anche un filosofo
di spessore. La straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un
protagonista centrale nel panorama letterario e culturale europeo e
internazionale, con ricadute che vanno molto oltre la sua epoca. L.,
intellettuale dalla vastissima cultura, inizialmente sostenitore del
classicismo, ispirato alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite
le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto, Luciano ed altri,
approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali
Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale,
pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialistederivate
principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla lettura di FILOSOFI
come il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli unisce però il proprio
pessimismo, originariamente probabile effetto di una grave patologia che lo
affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto sistema filosofico.
Muore di edema polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di
colera di Napoli. Il dibattito sull'opera L.ana, specialmente in relazione al
pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e cinquanta, ha portato gli
esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei contenuti e significati dei
suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle opere in prosa, essi trovano
precise corrispondenze a livello lirico in una linea unitaria di atteggiamento
esistenziale. Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che L., al pari
di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa essere
visto come un esistenzialista o almeno un precursore dell'Esistenzialismo. L.
nacque a Recanati, nello Stato pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle
Marche), da una delle più nobili famiglie del paese, primo di dieci figli.
Quelli che arrivarono all'età adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina,
Luigi, e Pierfrancesco. I genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte
Monaldo, figlio del conte Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro,
era uomo amante degli studi e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa
Adelaide Antici, era una donna energica, molto religiosa fino alla
superstizione, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto profondo di
dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo che non
ricevette tutto l'affetto di cui sentiva il bisogno. In conseguenza di alcune
speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa prese in mano un
patrimonio familiare fortemente indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto
solo grazie a una rigida economia domestica. La rigidità della madre,
contrastante con la tenerezza del padre, i sacrifici economici e i pregiudizi
nobiliari pesarono sul giovane Giacomo. Fino al termine dell'infanzia Giacomo
crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto
con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere
con racconti ricchi di fervida fantasia. La formazione giovanile La casa natale
Ricevette la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori,
Torres e Sanchini che influirono sulla sua prima formazione con metodi
improntati alla scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo
studio del latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione
scientifica di buon livello contenutistico e metodologico. Nel Museo L.ano a
Recanati è conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello sulla
chimica, composto insieme al fratello Carlo. I momenti significativi delle sue
attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da
rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in
occasione delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed
accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in occasione
della riunione della Congregazione dei nobili. Il ruolo avuto dai precettori
non impedì, comunque, al giovane L. di intraprendere un suo personale percorso
di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila
volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei
Roberti e probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla
Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale
della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui
stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una
composizione. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti
chiamati puerili. La produzione dei puerili Puerili e abbozzi vari Il corpus
delle opere cosiddette puerili dimostra come il giovane L. sapesse scrivere in
latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di
versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di
Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al
precettore e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo,
come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni
filosofiche che riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica
teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria
dell'elettricità, eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima
delle bestie. Con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che
discusse davanti ad esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può
far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo
sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato
gusto arcadico. Si immerse totalmente in uno "studio matto e
disperatissimo" espressione da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue
energie e che recò gravi danni alla sua salute. Apprese perfettamente il latino
(sebbene si considerasse sempre "poco inclinato a tradurre" da questa
lingua in italiano) e, senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più
sommario apprese anche altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo
spagnolo e il tedesco (nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue
antiche, come il sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate
Sanchini, il quale ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne
sapeva ormai più di lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il
Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori
classici, alcune traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai
rappresentate durante la sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria
Antonietta (rimasta incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della
Storia dell'astronomia L. si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu
sicuramente la Storia dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal
signor Francesco Milizia, a partire dalle Histoires del celebre astronomo
francese Jean Sylvain Bailly. L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano
da parte di Herschel. Invece il lavoro di L. presenta ulteriori aggiornamenti,
come ad esempio la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per
l'elaborazione del suo testo, L. fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di
Jérôme Lalande (presente nella biblioteca di casa L.), del Dictionnaire de
Physique di Aimé-Henri Paulian e delle storie di matematica inserite nel
Tacquet e nel Wolff. Inoltre L. adoperò diverse opere generali come la Storia
della letteratura italiana di Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli
e varie raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i
francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi
testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane L.. Nella Storia
dell'astronomia L. lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per la
matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali
invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e
sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la
invenzione de’ logaritmi fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo.
Probabilmente infatti L. non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla
geometria cartesiana e al calcolo differenziale. Iniziò nello stesso periodo
anche le prime pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco,
dimostrando sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono
questi anche gli anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco,
corredate di discorsi introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi
epigrammatici, tradotti dal greco e pubblicati in occasione delle nozze
Santacroce-Torre da Frattini di Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo
Spettatore italiano», gli idilli di Mosco, il Saggio di traduzioni
dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo dell'Eneide, il Moretum (un
poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di Esiodo, pubblicata su «Lo
Spettatore italiano». La conversione letteraria: dall'erudizione al bello Tra
Si avverte in L. un forte cambiamento, frutto di una profonda crisi spirituale,
che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si
rivolge, pertanto, ai classici non più come ad arido materiale adatto a
considerazioni filologiche, ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno
le letture di autori moderni come Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che
serviranno a maturare la sua sensibilità romantica. Ben presto egli legge I
dolori del giovane Werther di Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di
Madame de Staël. In questo modo L. inizia a liberarsi dall'educazione paterna
accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura
recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari.
Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze,
L'Appressamento della morte e l'Inno a Nettuno, nonché la celebre e non
pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, indirizzata ai
redattori della rivista milanese, in risposta alla lettera Sulla maniera e
utilità delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa sul primo numero, nel
gennaio dello stesso anno. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica per
la sua fragile salute, rifiuterà di intraprendere questa strada. Fu colpito da
alcuni seri problemi fisici di tipo reumatico e disagi psicologici che egli
attribuì almeno in partecome la presunta scoliosiall'eccessivo studio,
isolamento ed immobilità in posizioni scomode delle lunghe giornate passate
nella biblioteca di Monaldo. La malattia esordì con affezione polmonare e
febbre e in seguito gli causò la deviazione della spina dorsale (da cui la
doppia "gobba"), con dolore e conseguenti problemi cardiaci,
circolatori, gastrointestinali (forse colite ulcerosa o malattia di Crohn) e
respiratori (asma e tosse), una crescita stentata, problemi neurologici alle
gambe (debolezza, parestesia con freddo intenso), alle braccia ed alla vista,
disturbi disparati e stanchezza continua. Era convinto di essere sul punto di
morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto scrive poco dopo a Monaldo L.i:
«L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo cinque anni consunto e scontorto,
con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile.» Egli stesso si ispira a
questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a Giordani, per la lunga
cantica L'appressamento della morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui
ripensa a questo e definisce la sua malattia come un "cieco malor",
cioè un male di non chiara origine, che gli fa pensare al suicidio assieme
all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro
quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della
vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che
sì per tempo cadeva. L'ipotesi più accreditata per lungo tempo (diffusa e
sostenuta da medici di Recanati e da Citati) è che L. soffrisse della malattia
di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta
anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè
tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure dalla spondilite
anchilosante (secondo Sganzerla), una sindrome reumatica autoimmune che porta a
una progressiva ossificazione dei legamenti vertebrali con deformazione e
rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi infiammatori sistemici, oculari e
neurologici-compressivi in casi gravi, il tutto unitamente a problemi nervosi.
Alcune di queste sindromi hanno predisposizione genetica, derivabile dal
matrimonio tra consanguinei dei genitori. Tutti i fratelli L. furono deboli di
salute, con l'eccezione di Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale
presentava solo una leggera asimmetria del viso. Citati afferma che avesse
anche dei disturbi urinari e di probabile impotenza, e sarebbero stati questi,
più che l'aspetto fisico (a cui poteva ovviare essendo un nobile benestante) la
causa del suo rapporto difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio
seguente l'apparire dei disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici
consultati in gioventù, a parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in
maniera erroneache numerosi disturbi del L. erano dovuti a neurastenia di
origine psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi
depressive che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia
fisica), come lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi
dottori. «Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi
e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte,
quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei
trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.» (Lettera
dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla,
propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, L. non
mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito
sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie
comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come
ribadito spesso da L.), influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e
lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il significato della
vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato dal critico
Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento conoscitivo". Dopo il
primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di
una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non
arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel passaggio dalla poesia di
immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì
l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E per L., che giunto
alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua intensità, il
peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava, un anno
decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole ormai del
suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui, fino a
quel momento, era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di
uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti
incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo
determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della
"teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da L. nel
corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è
contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la
sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero L.ano in questi
termini avviene. Scrisve al classicista Giordani che aveva letto la traduzione
L.ana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo
aveva incoraggiato. Ebbero inizio così una fitta corrispondenza ed un rapporto
di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere scritte al nuovo
amico, il giovane L. sfogherà il suo malessere non con atteggiamento remissivo,
ma polemico ed aggressive. Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i
titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che
s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde
con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo.
Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi
ammazza: tutto il resto è noia» Egli vuole uscire da quel "centro
dell'inciviltà e dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è
quella vita alla quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con
studio profondo. Fissa le prime osservazioni all'interno di un diario di
pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della
cugina, provando per la prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani
riconosce l'abilità di scrittura di L. e lo incita a dedicarsi alla scrittura;
inoltre lo presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa
partecipare al dibattito culturale tra classicisti e romantici. L. difende la
cultura classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica
persona che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor,
com'ei travaglia!» (Il primo amore, v.3) Geltrude Cassi Lazzari con i figli,
illustrazione di Chiarini per la Vita di Giacomo L.. Inizia a compilare lo
Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note filologiche e gli
spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il sonetto "Letta la
vita scritta da esso" che toccava i temi della gloria e della fama. Un
altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso
anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso
la famiglia per alcuni giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse
in questa occasione il "Diario del primo amore" e l'"Elegia
I" che verrà in seguito inclusa nei "Canti" con il titolo
"Il primo amore". La posizione di L. verso il Romanticismo, che stava
suscitando in quegli anni forti polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione
del Conciliatore, va maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi
passi dello Zibaldone ed in due saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della
"Biblioteca italiana", in risposta a quella di Madama la baronessa di
Staël, ed il Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica, scritto in
risposta alle Osservazioni di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere
mostrano l'avversione, sul piano più strettamente concettuale, al Romanticismo.
La posizione di L. rimane fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia,
come si vedrà, quello che professava sulla pagina critica si rivelerà, poi,
profondamente diverso dai risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo
spirito saranno, invece, perfettamente in sintonia con la mentalità romantica.
Aveva, intanto, scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia
e Sopra il monumento di Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e
la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso
dal Giordani. Il suo materialismo ateo si pone in contrapposizione al
Romanticismo cattolico predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche
il suo rifiuto di ogni speranza di progresso nella conquista della libertà
politica e dell'unità nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione
storicistica del passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei
contenuti e nella lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.» (L.,
L'infinito. Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto
progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da
un amico di famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il
progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L.
elaborò le prime basi della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle
speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del
dolore stesso. Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in
seguito pubblicati con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì
di festa, Alla luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera
del giorno festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento
notturno. Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli
idilli". Qui confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa
di coscienza dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il
permesso di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno
successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida
e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata
studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di
prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come
scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba
di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso
il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore
a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi
componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente
culturale romano L. visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra
cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore
dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Niebuhr; quest'ultimo si interessò per
farlo entrare nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma L. rifiutò.
Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non
era quello sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò alle canzoni di contenuto
filosofico o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da
Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore
Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere
l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici
latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli
era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al
Monti, gli recava noia. Ritratto di L. a metà degli anni '30, da alcuni
indicato come una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione
in eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la
tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata
secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga
esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove
visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca
mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private.
Nell'ambiente bolognese L. conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato,
al quale dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse
nell'Accademia dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di
Stella, una "Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal
Trecento al Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia"
poetica. A Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della
quale si innamorò senza essere corrisposto. L. frequentò i Malvezzi per quasi
un anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante
del fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.L. si
sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di
lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la
casa del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta,
patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la
famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. L. in un
ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri al
giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del
ritratto di L. sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte
da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto
tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il
quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più
fedele e realistico dei ritratti di L., con l'aspetto che aveva verso la fine
della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e
l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però
argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto
Morelli non vide mai L. dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e
nei ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a
Firenze, dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux
tra i quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora
esiliato a Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a
Firenze per rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi.
Divenne amico particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con
Capponi e Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu
invece conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente
avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte
avversione per L., attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se
riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare L.
per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private rivolte
ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). L. risponderà nel
1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che nell'ottava strofa
della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a Pisa, dove rimase.
Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata del padrone del
pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica rimasta a lungo
inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e L. tornò alla poesia,
che tace (con l'eccezione della poco riuscita epistola in versi Al conte Carlo
Pepoli e del Coro di lo studio di Ruysch contenuto nel Dialogo di Federico
Ruysch e delle sue mummie delle Operette morali); compose la canzonetta in
strofe metastasiane Il Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata,
secondo i critici che si basano su appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del
fratello Carlo, alla figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane,
Fattorini), inaugurando il periodo creativo detto dei Canti
"pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", in cui
il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone libera o L.ana, il cui primo
sperimentatore era stato Alessandro Guidi, dalla cui lettura ne era venuto a
conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non credea tornare ancor per uso a
contemplarvi» (Le ricordanze) Il periodo di benessere era finito ed il poeta,
colpito nuovamente dalle sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli occhi,
fu costretto a sciogliere il contratto con Stella e già durante l'estate del
'28 si recò a Firenze nella speranza di riuscire a vivere in modo indipendente.
Chiese aiuto ad alcuni amici: Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra
di Mineralogia e Zoologia a Milano, ma il compenso era troppo basso e la
materia poco consona alle conoscenze di L.; Bunsen gli offrì la possibilità di
una cattedra a Bonn o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito,
poiché il clima tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma.
L. allora progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni
di salute non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a
Recanati, dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica
nuovamente alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra
cui Le ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese
morta poco prima, Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la
tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile)
e il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo
denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi
idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti
pisano-recanatesi". In questo periodo l'insofferenza per la sua città
natale, da lui definita "natio borgo selvaggio", aumenta,
proporzionalmente all'avversione per i recanatesi (gente zotica, vil), che lo
ritenevano un intellettuale superbo, tanto che anche i ragazzini del paese,
secondo testimonianze postume, cantavano in sua presenza canzoncine denigranti
del tipo: "Gobbus esto fammi un canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A
Firenze dal Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei.» (A se stesso).
Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il Colletta, al quale il poeta scriveva della
sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli "amici di
Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze, dove fu eletto socio
dell'Accademia della Crusca. Per mantenersi accettò la sottoscrizione e
progettò un giornale che avrebbe curato quasi da solo, Lo spettatore
fiorentino, ma che non realizzerà a causa della burocrazia e del timore della
censura. A Firenze cura un'edizione dei "Canti", partecipò ai
convegni dei liberali fiorentini e strinse infine una salda amicizia col
giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro senatore del Regno d'Italia,
che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di personalità liberale, fu eletto
deputato dell'assemblea del governo provvisorio di Bologna (sorto dai moti), su
designazione del Pubblico Consiglio di Recanati, ma non fa in tempo ad
accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli austriaci restaurano il
governo pontificio. I genitori decidono infine di concedergli un modesto
assegno mensile che gli permette di sopravvivere; L. accetta ma, reputandolo
umiliante, decide di non tornare mai più a Recanati. Risale sempre a questo
periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (terzo e ultimo
amore secondo i biografi, dopo la Cassi Lazzari e la Malvezzi), moglie del
medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti e forse amante di Ranieri,
conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di
Aspasia", una raccolta di poesie che contiene: Il pensiero dominante,
Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora positivamente), la
drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa raccolta si manifestò il
L. più disilluso e disperato, orfano anche di quella tristezza nostalgica degli
Idilli, nella perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella
dell'amore (l'inganno estremo). Aspasia, seppur piena di rancore e sarcasmo
contro Fanny, è considerata l'unica poesia d'amore (seppur per un amore ormai
finito) scritta per una donna che egli frequentò realmente e intimamente, anche
se solo in maniera romantica e intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse
sempre come un amico e dopo la morte come una persona "disgraziata" a
cui non voleva dare alcuna illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la
descrizione fisica e caratteriale della Targioni, presentata come una
"donna fatale", si nota anche una tensione erotica molto rara in L.,
il quale ribadisce ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla
nobildonna. L'identificazione della donna con l'Aspasia poetica è data, più che
dalle lettere di L., dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio
e da alcune lettere tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia
accenna anche a toni polemici e misogini, in cui L. si dice felice di essersi
perlomeno liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi
come un servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una
lettera a Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e
la morte del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di
Consalvo e con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le
sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere
desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose
che non sono né belle né degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto
più volte le vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro.
Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo
che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno
valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e
credetemi sempre vostro.» (Lettera da Roma) «Due cose belle ha il mondo: /
amore e morte. All'una il ciel mi guida / in sul fior dell'età; nell'altro,
assai / fortunato mi tengo.» (Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti
molto precedenti al ciclo, avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare
che il personaggio di Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non
solo a Fanny. Per circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando
di avvicinarsi alla padrona di casa procurandole moltissimi autografi di
scrittori e personaggi famosi, che lei collezionava. In questo periodo L.
diviene amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano,
affascinata dalla grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma
poi se ne allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta
negativamente come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri
per ritornare a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi
dialoghi delle "Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e
di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a
corrispondere epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure
in maniera più fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due
iniziò una fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra L. e
Ranieri vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe
trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso
nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo
al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio Ranieri,
tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti
raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi
desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma
qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno
per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia.
Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà
eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì
per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse
giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò: «Quivi L.,
mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia
(cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi
lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana
allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua
cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da
ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse
cacciarli, per timore che L. fosse portatore di tubercolosi polmonare infettiva
e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti di sua
proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci faceva
caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse. «L.
ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag zur Nacht
macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer
Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen Bildung
und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. L. è piccolo e gobbo, il
viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce una delle
più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da
vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare
dispongon l'animo in suo favore. Busto del poeta presente a Villa Doria d'Angri
Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte delle autorità
borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti dopo la
censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni "dialoghi".
L. così ne parlava in una lettera a Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai
preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro,
possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli
si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse probabilmente riprendendo
molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della
Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera
lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera
incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della
Batracomiomachia, (che già L. aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la
trama) che dal poema Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane
autografo il solo primo canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua
mano, furono scritti sotto dettatura del L.. Le ultime ottave sarebbero state
dettate da L. morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto
della luna. Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi
dopo la morte del poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo
finanziario. Quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, L. si recò con
Ranieri e la sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del
Greco, dove rimase dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove
scrisse La ginestra o il fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà,
personalmente e con profondo affetto, L. nei suoi ultimi anni, all'aggravamento
delle sue condizioni fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si
trattasse di un amore fraterno. A Napoli L. lavora incessantemente, nonostante
la salute in peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le
raccomandazioni dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una
persona dalla salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al
pomeriggio e sta sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti
e gelati), talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del
colera) e beve moltissimi caffè. La morte L. sul letto di morte, ritratto a
matita di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi
molto realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra
o il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie
l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e
Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava
anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. L.
aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il
tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal
formale e nobiliare signor padre e al voi delle lettere giovanili passa
all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo cominciò ad
ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque decidere il suo
destino. In una lettera al conte L., una delle ultime di Giacomo, il poeta
avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando più i suoi
mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue condizioni si
aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far sospettare ai medici
o a Ranieri il reale stato di salute. L. si sentì male al termine di un pranzo
(che abitualmente consumava all'inconsueto orario delle 17); quel mattino,
aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti cannellini comprati da
Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio e bevuto una
cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita fredda) verso
sera. Fu colpito da malore poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria
Ferrigni, come era stato programmato, e nonostante l'intervento del medico
l'asma peggiorò e poche ore dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di
Antonio Ranieri, L. si spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime
parole furono "Addio, Totonno, non veggo più luce". La morte fu
dichiarata all'ufficio dello stato civile il giorno successivo da Giuseppe e
Lucio Ranieri, i quali fecero registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2,
nel territorio della parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono
che il fatto era avvenuto "alle ore venti". Tre giorni dopo il
decesso, Antonio Ranieri pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La
morte del poeta è stata analizzata da studiosi di medicina. Molte sono state le
ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso,
oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare e cardiomiopatia,
seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle più fantasiose[146],
fino al colera stesso.Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a
smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia
polmonare ("idropisia di cuore" o idropericardio), il che è comunque
verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della
colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze
dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse un
problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante di colera che
avrebbe ucciso il debilitato L. (che notoriamente soffriva di disturbi cronici
all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite
colerosa) in poche ore. L. era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in
cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che
fece interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta
la versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una
fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa
dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla
presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di
San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso
Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro
Giordani: «Al conte Giacomo L. recanatese filologo ammirato fuori d'Italia
scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi greci
che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece Ranieri
per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il ministro
avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo, non il
medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia per poter
dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin dall'inizio il
racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti furono i dubbi
che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue versioni furono
molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo
del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, o in
quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366 Fosse), destinati in
quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come attesta il registro
delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca di Napoli
(riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e "sepolto
id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che Ranieri
avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota, con la
partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco compiacente a
cui avrebbe regalato dei pesci freschi. La lapide originale, traslata nel parco
Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio
della chiesa di S. Vitale e che il certificato d'inumazione fosse un falso
redatto dal parroco su richiesta del ministro di Polizia, onde aggirare la
legge sulle sepolture in tempo di epidemia. Nel 1898 avvenne una prima
ricognizione; secondo il senatore Mariotti, smentito da altri, durante i lavori
di restauro di alcuni anni prima, un muratore ruppe inavvertitamente la cassa,
danneggiata dalla troppa umidità, frantumando le ossa e provocando la perdita
di parte dei resti contenuti, forse gettati nell'ossario comune o addirittura
con i calcinacci, mescolando i resti con altre ossa. La tomba di L. (Parco
Vergiliano a Piedigrotta o Parco della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla
presenza dei rappresentanti regi e del comune di Napoli, venne effettuata la
ricognizione ufficiale delle spoglie del recanatese e nella cassa (in realtà un
mobile adattato allo scopo clandestino dai fratelli Ranieri), troppo piccola
per contenere lo scheletro di un uomo con doppia gibbosità, vennero rinvenuti
soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui delle costole, delle vertebre
recanti segni di deformità, e un femore sinistro intero, forse troppo lungo per
una persona di bassa statura, e un altro femore a pezzi), una tavola di legno
(con cui gli operai avevano tentato di riparare il danno alla cassa), una
scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna traccia vi era del cranio e
del resto dello scheletro, per cui in seguito si arrivò anche a formulare la
teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi lombrosiani di frenologia
amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione venne ben presto chiusa;
secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era plausibile che quelli fossero
parte dei resti di L.. Il medico parla esplicitamente di aver rinvenuto una
parte di rachide e una di sterno entrambe deviate. Alcuni, pur pensando ad
un'effettiva morte per colera, credettero comunque che Ranieri fosse riuscito
davvero nell'intento di salvare il corpo dalla fossa comune corrompendo, se non
il ministro, perlomeno dei funzionari incaricati. La scarpa ritrovata, o quello
che ne rimaneva, venne poi acquistata dal tenore Beniamino Gigli, concittadino
di L., e donata alla città di Recanati. Dopo vari tentativi di traslare i
presunti resti a Recanati o a Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a
quelli di grandi italiani del passato, la cassa, per volontà di Benito
Mussolini che esaudì una richiesta dell'Accademia d'Italia, venne con regio
decreto di Vittorio Emanuele III che ne stabiliva l'identificazione, riesumata
di nuovo e spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco
della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato
monumento nazionaledove tuttora sorge appunto il secondo sepolcro del poeta,
eretto quello stesso anno; nei pressi venne traslata anche la lapide originale,
mentre parte del monumento venne portata a Recanati. Questa versione è quella
sostenuta ufficialmente dal Centro Nazionale Studi L.ani. Nel 2004 venne anche
chiesta (da parte dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato
anche della riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo,
Pico della Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se
quei pochi resti fossero davvero di L. tramite l'esame del DNA e del mtDNA,
comparato con quello degli attuali eredi dei conti L. (Vanni L. e la figlia Olimpia,
discendenti diretti del fratello minore del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi
Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla
famiglia L. (tramite la contessa Anna del Pero-L., vedova del conte
Pierfrancesco "Franco" L. e madre di Vanni). La posizione ufficiale
della famiglia L. (esplicitata dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa L. da
loro presieduta (presidente fino al conte Vanni L.) è invece che i resti nel
parco Vergiliano non siano comunque del poeta e Ranieri abbia mentito, che il
corpo si trovi alle Fontanelle e che quindi la riesumazione sia inutile,
occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro membro
della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto
disponibile. Tale esame non è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore fu
per lui rimedio al dolore, cantare la disperazione salvezza dalla disperazione,
cantare l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole, l'unica felicità. n
quei canti veramente divini il L. trasformò l'angoscia in contemplativa
dolcezza, il lamento in musica soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni
di splendore.» (Papini, Felicità di L.) Il pensiero di L. è caratterizzato,
attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto
lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle «illusioni» e
lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica presente nelle sue
riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle illusioni, negando ad
esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e
disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del
no, era del resto ben presente allo stesso L., il quale, secondo Karl Vossler,
si adoperò costantemente per ricomporle, non rassegnandosi mai allo
scetticismo, convinto che la vera filosofia dovesse in ogni caso mantenere i
legami con l'immaginazione e la poesia. Come ha rilevato De Sanctis. L. non
crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa
amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto
un desiderio inesausto. È scettico e ti fa credente; e mentre non crede
possibile un avvenire men triste per la patria comune, ti desta in seno un vivo
amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Francesco De Sanctis,
Schopenhauer e L.,Luoghi L.ani A Recanati Targa della piazzuola del Sabato del
Villaggio Palazzo L.: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato
dai discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme
attuali dall'architetto Carlo Orazio L. verso la metà del XVIII secolo.
L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre
20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del
poeta, Monaldo L.. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si affaccia
Palazzo L.. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa Maria in
Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo L. nel 1798.
Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un panorama
vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta dal poeta a
soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale della Poesia e
della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e manifestazioni
culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai aperto a tutti.
Palazzo Antici-Mattei: casa della madre di L., Adelaide Antici Mattei, edificio
dalle linee semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario:
nel cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un
fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San
Leopardo): venne fatta edificare dalla famiglia L. insieme e nei pressi della
villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch. La cripta, a cui
si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia L.. Chiesa di
Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i Minori Osservanti
insieme al Convento annesso, cacciati i frati e abbattuti due lati del
convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico cimitero di Recanati. Vi
si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed affreschi nelle
lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei L. ove sono sepolti
Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della Posta (corso Garibaldi),
Palazzo Antici Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma,
tomba del Tasso in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli
della terra, in mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna
("ospitalissima"), convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo
soggiorno bolognese. Casa dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro
alla Scala a Milano ("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al
teatro del Corso (oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e
niente magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna
(qui si vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze, "sporchissima
e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi del mercato del
grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di L. a Napoli Casa
delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi), Firenze. Palazzo
Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a Firenze. Pisa ("una
beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il Lungarno pisano
("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che
innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui battezzata
"Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa (lettera a
Paolina L.). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città oziosa,
dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso), con
Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria Ognibene
(casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti affittati con Ranieri e la
sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle Ginestre, a Torre
del Greco, alle pendici dello "sterminator Vesevo". Opere di Giacomo
L.. Copertina della prima edizione dello Zibaldone di pensieri. Epistolario Di
L. ci sono rimaste oltre novecento lettere, composte nell'arco di una vita e
indirizzate a circa cento destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al
padre e al fratello Carlo). L'intero corpus epistolare di L. è raccolto dall'Epistolario,
che malgrado le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta
di prose private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per
seguire le vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione
del suo pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L.
prese parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del
saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa
polemica vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro
Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica. L., amico
del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per iscritto il
proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca italiana e nel
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti entrambi inediti
sino al 1906. Nella prima L., pur riconoscendo la bontà dell'intervento
dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle istanze della
lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle nuove
letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di un
«vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più vicina alle
uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e quella latina.
Nel Discorso, invece, L. approfondì la sua riflessione poetica in merito al
dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia L.ana,
come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone Lo
Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali L.
depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari. Inizialmente
l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario, essendo
semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: L. iniziò a
datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi agevolmente
nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso scartafaccio»),
arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo stato presente dei
costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve trattato
filosofico dove L. analizza le peculiarità che contraddistinguono la società italiana,
e le compara con il carattere, la mentalità e la moralità delle altre nazioni
d'Europa. Alla fine dell'opera L. giunge all'amara conclusione che l'Italia,
dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo poco civile per godere dei
benefici del progresso (come in Francia, Germania ed Inghilterra), ma troppo
civile per godere dei benefici dello «stato di natura», come accadeva nelle
nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo manoscritto
autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le parole dello stesso
poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci
malinconici»: è ancora L. a descrivere la propria opera in una lettera
indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che regna in
esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed
un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi
considerate la più alta espressione del pensiero L.ano, racchiudono l'essenza
del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale
dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I
Canti, considerati il capolavoro di L., racchiudono trentasei liriche composte
da L.. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il
monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del
dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei testi
più rappresentativi della poetica L.ana. Le ultime opere Durante gli anni
napoletani L. scrisse due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia e I
nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con protagonisti animali:
«Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre Batracomiomachia è
battaglia dei topi e delle rane, ovvero un'opera pseudoomerica che L. aveva
tradotto in gioventù. Dietro la finzione comica L. qui stigmatizza il
fallimento dei moti rivoluzionari napoletani. I topi infatti, simboleggiano i
liberali, generosi ma velleitari, mentre le rane sono i conservatori papalini,
che non esitano a chiamare a sé i granchi-austriaci, feroci e stupidi. nuovi
credenti, invece, sono un capitolo satirico in terza rima dove L. esprime una spietata
satira contro gli esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna
la religiosità di facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo L.
si devono numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un
linguaggio colto e sorvegliato), come "erompere",
"fratricida", "improbo", "incombere",Al suo
tempo, questa vena creativa di L. non fu apprezzata e fu oggetto degli strali
di un atteggiamento purista che opponeva resistenze all'adozione, e
all'accoglimento nei lessici, di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva
all'«aureo Trecento» In un caso, un frutto della sua creatività,
"procombere", gli guadagnò accuse postume mossegli da Niccolò
Tommaseo, coautore del Dizionario della lingua italiana. Poesia e musica A sé
stesso, romanza, versi di L., musica di Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro
di morti, versi di G. L. (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie,
Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre
liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di L., Foscolo e
Montale. Epistolario di Giacomo L.. L. nell'immaginario collettivo Il fatto che
l'opera di L. sia stata e sia ogni anno oggetto dello studio di migliaia di
studenti ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere
siano divenute d'uso corrente. Fra le principali: studio matto e disperatissimo
(in: lettera a Pietro Giordani e Zibaldone di pensieri); passata è la
tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel?
dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio
borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna...
(in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il
sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito).
Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12
pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie
città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano,
Napoli. Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la Documentazione
dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva anche altre opere
di Trubbiani dedicate a L.: 10 disegni originali realizzati sul tema "L.
figurativo", 8 incisioni a colori, una scultura in rame, bronzo e argento
con il Poeta pensoso in osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia
oltre pel campo e vede greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia, un'installazione scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia
dei topi e delle rane") ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia
L.ani. L'ispirazione prodotta in Trubbiani dall'opera L.ana è raccontata
dall'artista nel breve documentario "Le Marche di L.", patrocinato
dalla Regione Marche. L. nella musica pop italiana L. è citato nella Canzone
per Piero di Guccini e in Stai bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati
anche nei titoli di Canto notturno (di un pastore errante dell'aria) e Il cielo
capovolto (ultimo canto di Saffo), entrambe di Roberto Vecchioni. Giorgio
Gaber, nella canzone "Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album
"Gaber" del 1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il
luogo "dove i poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su
L. Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di
Ermanno Olmi. Pisa, donne e L. (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è
interpretato da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. L. è
interpretato da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma
televisivo"L., il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica
"Il tempo e la storia"; "Le Marche di L.", breve
documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche.
Video in rete su L. "L., il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini,
puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con Massimo
Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo L. e l`importanza di Recanati",
per Rai Storia, vita e opere di Giacomo L. nel commento del critico teatrale
Guido Davico Bonino. L’attore Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì
di festa, Alla luna, La vita solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito
descritto da L."]: Guzzini del Centro Studi L.ani mostra l'itinerario che
il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione
del paesaggio che gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai
all'infinito", spot turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense
Dustin Hoffman che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero
Solari; "A casa di Giacomo L.", intervista di Pippo Baudo alla
contessa Olimpia L. all'interno del Palazzo L. di Recanati; "Un L.
inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di
"Visionari" programma televisivo condotto da Corrado Augias su Rai 3.
"L'arte di essere fragilicome L. può salvarti la vita", intervista
allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro e spettacolo teatrale.
Inoltre, sono pubblicate in rete numerose letture/interpretazioni dei
principali canti L.ani da parte dei più importanti attori italiani. Fra questi
si possono ascoltare: Gassman: L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa,
Amore e Morte, La quiete dopo la tempest, A se stesso; Carmelo Bene:
L'infinito, Passero solitario, La ginestra (o Il fiore del deserto) Alla luna,
La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno
di un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà:
L'infinito, Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del
dì di festa, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La
ginestra (o Il fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla
luna; Giorgio Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele
Lavia: L'infinito, Lavia dice L.; Alberto Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio
Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone: L'infinito], parte de
La ginestra (o Il fiore del deserto) la prima parte de La sera del dì di festa,
un brano di Amore e Morte, l'ultima parte di Aspasia. L.
"testimonial" della Regione Marche La Regione Marche, dopo aver più
volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese per la promozione turistica
del proprio territorio ed anche della propria offerta enological commissionò
una discussa campagna pubblicitaria attraverso un video, per la regia di
Solari, trasmesso sui principali canali televisivi italiani ed anche esteri,
con protagonista il noto attore statunitense Dustin Hoffman[236], già
conoscitore delle Marche per aver interpretato ad Ascoli Piceno il film di
Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane Sandrelli. Questa la
descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della stagione
turistica: «Un uomo legge una delle poesie più note della letteratura italiano,
l’Infinito di Giacomo L., la cui emozionalità è strettamente legata alle
visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana. L’uomo legge la poesia
camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua non stando fermo,
dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha visto nascere questo
capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare la
lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e
riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi di Rossini, che
accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo cerca per sé:
l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito
nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova, formidabile, ma
difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine sorridere, la
poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente conosciuta, capita e
raggiunta.» (dal comunicato stampa della Regione Marche) Nello spot Hoffman
tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano "condito" dal
suo marcato accento californiano. Un accento tanto forte e straniante da
suscitare numerose critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di
Mina, che nella sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a
scrivere: «L. bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche Oliver Hardy.
Al quale, paradossalmente, in questa demoralizzante «performance», mi sembra
che assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire
la nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal pur bravo divo americano
mi ha rigettato giù nella nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo
della pubblicità è un mondo di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e
irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma
non li avevamo noi degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che
conoscono la musica dell’andamento di un’esposizione poetica?» (Mazzini) Al
contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico
letterario, da Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente
presidente onorario e presidente emerito dell’Accademia della Crusca;
quest'ultimo commentò lo spot con queste parole: «Sprovincializza la lingua
italiana» Comunque sia, lo scopo perseguito fu raggiunto: anche grazie alle
polemiche, la versione non definitiva del video della Regione Marche, inserito
su YouTube, totalizzò quasi 21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella
prima settimana. Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la
campagna promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi
L.ani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera", nella
nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante dell’oggetto da
reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un racconto tutto
personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito amore per le
suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la gastronomia, l’arte,
la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna promozionale del Dustin Hoffman
fu sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè. Continuò comunque
l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di L.: sull'onda del successo del
film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario Martone e
interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie di
iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del territorio
marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un
"movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti
del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un
breve documentario, "Le Marche di L.", diretto da Alessandro
Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il
riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta
recanatese. Seguono una breve biografia di L., con le immagini di Recanati, e
gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che, rifacendosi a veri
o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del Poeta, introducono ad
altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione (Gioacchino Rossini,
Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani, Osvaldo Licini), il
tutto "condito" dalle musiche di musicisti marchigiani (Giovan
Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci paesaggistici di varie
località della regione.Opere biografiche su L. Giacomo L., Puerili e abbozzi
vari, Bari, G. Laterza et f.i,Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L.,
Milano-Napoli: Ricciardi, 1920; poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto
Arbasino); Milano: Mursia (Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi,
Storie di casa L., Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore,
L.. L'infanzia, le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album
L., Milano: Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con L.,
Bologna: Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo L.,
Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il
mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati, L.,
Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi L.ani nel primo centenario
della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di Studi L.ani.
Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi su Giacomo L. in campo
storico, biografico, critico, linguistico, filologico, artistico, filosofico.
Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo L., Effettivamente il titolo di conte con
cui L. veniva talvolta appellato, e che egli stesso usava, in quanto
primogenito dei conti L., era un "titolo di cortesia", in quanto il
vero titolo nobiliare era ancora in capo a Monaldo, finché fu in vita. Uno
sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ). Giulio Ferroni,
La poesia del dolore: Giacomo L., su emsf.rai). Forse la malattia di Pott o la
spondilite anchilosante. Erik Pietro Sganzerla, Malattia e morte di L..
Osservazioni critiche e nuova interpretazione diagnostica con documenti inediti,
Booktime,: «Questo libretto rende giustizia a un uomo che soffriva di numerosi
problemi fisici, che ebbe una vita non felice e una cartella clinica in cui
sono posti in evidenza i sintomi e il loro decorso temporale, l’età d’esordio
della progressiva deformità spinale e dei problemi visivi e gastrointestinali,
l’influenza delle condizioni psichiche e ambientali nell’accentuazione o
remissione dei segnali. altamente probabile la diagnosi di Spondilite
Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che L. «affetto da una
pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria cronica, aggravata da
episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno scompenso cardiorespiratorio
terminale in paziente affetto da cuore polmonare e possibile miocardiopatia.
Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male» (L., Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia) Renato Minore, L.. L'infanzia, le
città, gli amori, Milano, Lettera di G. L. (Recanati) a Pietro Colletta
(Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de'
maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti. Emilio Cecchi e Natalino
Sapegno, Storia della letteratura italiana. Milano L'Ottocento Zibaldone «Il
Chimico italiano. Rossella Lalli, Si spegne la contessa L., erede e custode
della memoria del poeta, newnotizie,Scritti vari inediti di Giacomo L. dalle
carte napoletane, Firenze, successori Le Monnier, Maria Corti in «Giacomo L..
Tutti gli scritti inediti, rari e editi», Milano, Bompiani 1972 Citati20-25.
Cecchi, Sapegno, oGiuseppe BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a
Pietro Giordani a Milano, Recanati,in Epistolario di Giacomo L. con le
iscrizioni greche triopee da lui tradotte e lettere di Giordani e Pietro
Colletta all'Autore, raccolto e ordinato da Prospero Viani, I, Napoli, Lettera
all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in Epistolario di L. con le
iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con sorpresa, in questa
lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato dallo storico Lucio
Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di Massimo Bernardini
(puntata "L., il rivoluzionario", 15 ottobre, RaiTre-RaiStoria) Sarà
la lingua utilizzata nelle lettere allo Jacopssen Il programma delle
celebrazioni L.ane, su giornale. regione. marche. Il sanscrito nella teoria
linguistica di Giacomo L., in L. e l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale,
Recanati a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di Macerata, M. T. Borgato, L.
Pepe, L. e le scienze matematiche, 5-8. Aimé-Henri Paulian su data.bnf.fr. Un
episodio della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini
ovvero della gloria Cecchi, Sapegno, Spesso nell'epistolario afferma di
soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una coperta di lana. C 33 esegg.
Giuseppe Bortone, Il "morire giovane" in L.i, su moscati..:
"frequenti mi occorrono febbri maligne, catarri e sputi di sangue…"
scrive nel testo Alessandro Livi, giacomo L., le malattie ed i misteri sulla
morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico, Paolo Signore, Giacomo L.: il
genio di Recanati favoloso e malato, su Rotari Club Fermo, «Di contenti,
d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà
su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio.
Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella
giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso
all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna
poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me
stesso / In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su
torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la
malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e
considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di
L. anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici pediatri
recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece. Es. sindrome della cauda
equina Alcuni propongono altre diagnosi: diabete giovanile con retinopatia e
neuropatia, tracoma oculare con sindrome di Scheuermann alla schiena e disturbo
bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo cifoscoliotico, rachitismo e
neuropatia periferica originate da celiachia o malassorbimento, sifilide
congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni napoletani, arrivò a
pensaresalvo poi smentireaffermando che L. morì vergine (cosa dibattuta), Sette
anni di sodalizio con L.i che avesse contratto la sifilide o che l'avesse
ereditata dal padre. cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia
clinica di Giacomo L., Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto
contestata poiché basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia
criminale e della frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e
Giuseppe Sergi affermarono che L. aveva l'epilessia, e avesse disturbi
ereditari come tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi. Prof. M. L. Patrizi,
Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia, Torino, Fratelli Bocca
Editori, Patrizi. G. Chiarini, Vita di G. L.453. E. Galavotti, Letterati
italiani Lettera di Paolina L. a G.P. Vieusseux, G. L., Lettera ad Adelaide
Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. L., Zibaldone, autografo, Scritti
vari inediti di Giacomo L. dalle carte napoletane, cUn'analisi critica del
Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla Batracomiomachia si trova
in: Riccardo Bonavita, L.: Descrizione di una battaglia, Nino Aragno Ed.,
Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori della letteratura
italiana, 3, tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con
pensiero. Dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della
lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso.
Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi
parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi
ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia
facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente tutto
il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una
befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma
come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e
dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un
interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e
divertirsi non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite
difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne
pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in
ogni modo sono così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla
pubblicazione dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato
ripristinato solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo
esplicito ("non la danno"); cfr. Il senso di L. per la donna di
città. Pierluigi Panza, La casa di Silvia (amata da L.) restaurata e aperta, in
Corriere della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da
Joseph Nicéphore Niépce fu da questi usato per la prima fotografia (precedente
di 13 anni il dagherrotipo). Bonghi, Biografia di L., su classicitaliani. La
donna nelle parole di L., su casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle
Operette morali, Garzanti Citati 226 e segg. Bortolo Martinelli, L. oggi:
incontri per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi,
Vita e Pensiero, Fotografia della maschera (JPG), Centro Nazionale di Studi
L.ani Recanati. 1º gennaio (archiviato il 1º gennaio ). Donatella Donati, L. a
Napoli, Centro nazionale di studi L.ani Centro mondiale della poesia e della
cultura "G.L."Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre
Palinodia al marchese Gino Capponi Niccolini era già stato l'ispiratore del
personaggio di Lorenzo Alderani delle Ultime lettere di Jacopo Ortis «Ora
bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo di
coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux) Una stroncatura
per L. Archiviato in.; mentre fu più meditato e indulgente il giudizio dato dal
Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su L. stesso. Introduzione alla
Palinodia L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani. Giuseppe Bonghi,
Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo L. così ricordava, su
ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di G. L. (Recanati) a Colletta
(Livorno), in cui dichiara di aver percepito venti scudi romani (diciannove
fiorentini) al mese. Lettera aColletta dcome citato in Marco Moneta, L'officina
delle aporie: L. e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone,
FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30. Gente che m'odia e
fugge, per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale
estima ch'io mi tenga in cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I
genitori di Giacomo L.: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi,
Sapegno. L., in Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad
Aspasia, nei Canti, edizione Garzanti Donne fatali 2: L. e Aspasia"Io non
ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...", su sulromanzo. "Tu
vivi / bella non solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre
avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti e link in. Giovanni Mèstica, Gli amori di G. L., in Fanfulla della
domenica, (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto alluda piuttosto alla sola
Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio nel commento ai Canti,
edizione Signorelli, Roma. L.: dama invaghita del poeta non fu ricambiata ma
evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze di Massimo d'Azeglio. Dal
carteggio con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo Abbate, La vita
erotica di L., C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu, pubblicato in
"Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's who in gay and
lesbian history, 1, ad vocem L. gay? Vietato dirlo, su ricerca. repubblica.
Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario, BrioschiLandi,
Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, Milano.
D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo L. in L.
Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle abitudini del
vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari irregolari, va a
letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser longeva per i
complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni di
sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece,
appresso a poco, della notte giorno, e viceversa." Traduzione in Michele
Scherillo, Vita di Giacomo L., Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. L.
e le donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola
(Paolina), su treccani. 2 D'Orta25. L. Il poeta della sofferenza, su archivio
storico. corriere. Teorie alternative sulla morte del conte L. sono state
trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro (cfr. Sfrondando gli
allori della poesia) Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti,
Napoli Confronta anche Citati, L., Mondadori,, Milano, Secondo originale
dell'atto di morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali. Il Progresso delle
Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia Plautina, cfr.
anche Notizia della morte del Conte Giacomo L. Angelo Fregnani Ad esempio cibo
avariato, congestione, coma diabetico o indigestione Cenni storiciFu
un'indigestione a causare la morte di L.?, su spaghettitaliani.com. Napoli e
L., su ildelsud.org. Ecco i confetti che uccisero L.. Al Suor Orsola la
collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere. in Lettera di Ranieri
a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di A. R. a Monaldo L.,
Napoli, in Opere inedite di Giacomo L., G. Cugnoni, I, Halle, Max Niemeyer
Editore, Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo L., G.
Piergili, Firenze, Le Monnier, in.; "Idrotorace" in Lettera di A. R.
a De Sinner, Napoli, idropisia di petto" dice Paolina L. in una lettera a
Marianna Brighenti Biografia sulla Treccani, su treccani. are LB, Matthay MA.
Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia Vincenzo,
Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano, McGraw-Hill,
Picchi, Storie di casa L., BUR, Dalla foto pubblicata qui, su
rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la
Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro Giordani,
Scritti editi e postumi di Giordani, pubblicati da Antonio Gussalli, Milano
presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta lieve variazione di testo,
sotto forma di disegno in Opere di Giacomo L., edizione accresciuta, ordinata e
corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore, da Antonio Ranieri,
Firenze, Successori Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre in..
Pasquale Stanzione, Giacomo L.Una tomba vuota a Fuorigrotta, su
pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione.
Ingrandimento (JPG), su pasqualestanzione. Nuove scoperte su L.? Occorre
cautela in. da Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e
misteri del passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio
di Pier Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA
DEL DNA, MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO? Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La
seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi, L., strane ipotesi su morte e
sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a
Napoli. La seconda morte di Giacomo L., Guida, Picchi, Storie di casa L. Si
riporta anche il verbale ufficiale delle persone presenti. E' vuota la tomba di
L.. Guerra sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita L.,
sito gestito dal CNSL Si torna a parlare dei resti di L., nato comitato per
l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su
ilcittadinodirecanati. Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su
cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia, Milano, Mondadori, Cfr. in proposito anche
gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare: Manzoni e
L.: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo L. (Firenze,
Sansoni). Paolo Emilio Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo
L., Tipografia del Mediatore, Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al
Novecento, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo L.
e la percezione estetica del mondo Peter Lang, In Saggi critici, Russo, Bari,
Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc. Per L., su
pergiacomo L..altervista.org. Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono
prese da Attilio Brilli, In viaggio con L., Il Mulino, Bologna Tra virgolette
le parole di L., tratte da sue lettere. Marta Sambugar, Gabriella Sarà,
Visibile parlare, da L. a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar,
Gabriella Sarà, Visibile parlare, da L. a Ungaretti, Milano, RCS Libri,
Operette morali, su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da L.
a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano
(), Istituto dell'Enciclopedia italiana. Catalogo della mostra "Viaggi e
transiti opere L.ane di Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione
dell'inaugurazione del Centro culturale "Pergoli" di Falconara
Marittima Comune di Falconara Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la
scheda dedicata al CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte
Contemporanea di Falconara Marittima nel sito "La memoria dei luoghi"
del Sistema Museale della Provincia di Ancona: CARTCentro permanente per la
documentazione dell'Arte contemporanea, su Associazione "Sistema Museale
della Provincia di Ancona. Le Marche di L., breve documentario diretto da
Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg
ascolta la canzone nel sito della Fondazione Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/
discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo Archiviato il 6 settembre in.
vedi il testo dell'Operetta morale in Operette _morali /Dialogo _di_ un_
venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il corto metraggio di Ermanno
Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere: youtube. com/
watch? v=hiJOBK JZNaU Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore
di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno del programma
"L., il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica
televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia" con Massimo
Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/ articoli/l.-
il-rivoluzionario/default.aspx "L., il rivoluzionario" di Giancarlo
Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini
e lo storico Lucio Villari://raistoria.rai/ articoli/ L. -il-rivoluzionario/
default.aspx in. Rai Storia, "Giacomo L. e l`importanza di
Recanati"://raiscuola.rai/articoli/
giacomo-L.-parte-prima/3205/default.aspx Archiviato l'8 settembre in. Nel sito
web de "La Stampa", Guzzini del Centro Studi L.ani mostra
l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto
di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/
multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito-
descritto-da-giacomo-L.-fncjkba7 fEJyVoUSrazy1H/ pagina.html. Lo spot turistico
sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di Giampiero Solari:
youtube."A casa di Giacomo L.", intervista di Pippo Baudo alla
contessa Olimpia L. all'interno del Palazzo L. di Recanati: youtube.
com/watch?v=oNlkBu0E "Un L. inedito" raccontato da Novella Bellucci e
Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma
televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch? v=KwFnKv0T BaI
Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo libro e spettacolo
teatrale “L'arte di essere fragilicome L. può salvarti la vita” nel sito di
RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM Gassman interpreta
L'infinito, su youtube.com. Gassman interpreta A Silvia: youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ
Archiviato il 29 marzo in. Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di festa:
youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube
Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U
Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4 Bene
interpreta L'infinito: youtube.co Bene interpreta Passero solitario: youtube.
com/ watch?v=IZz Qbnzpaok Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto):
youtube. com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y Bene interpreta Alla luna:
youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk Bene interpreta La sera del dì di festa:
youtube.com/ watch?v= qydGUiV1wwI Bene interpreta Il sabato del villaggio:
youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4 Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch
?v=jyB0eM9AOoM Bene interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia:
youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane: youtube.com/
watch?v=f2-QAubKbLE vedi su Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_
posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista Archiviato in. leggi il testo
di Inno ad Arimane init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(L.) /Ad_Arimane
Archiviato il 15 settembre in. Bene interpreta Amore e Morte:
youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw Foà interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà
interpreta Passero solitario: youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg Foà interpreta A
Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube.
com/watch?v=kmk_gd-48XE Foà interpreta La sera del dì di festa: youtube.
com/watch?v=a WOJfMZeCVo Foà interpreta Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia: youtube Arnoldo Foà interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v=
hL 855FC_juA Foà interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/
watch?v= zB nDqu8X5fk Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della luna: youtube
Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok Arnoldo
Foà interpreta Alla luna: youtube. Com /watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi
interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v= BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º
giugno in. Gazzolo interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A
Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao Lavia discetta
sull'opera di L., prima della "dizione" delle opere di L.: youtube
Alberto Lupo interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube Elio Germano, nel film
Il giovane favoloso di M. Martone, interpreta L'infinito:
youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ Germano, nel film Il giovane favoloso di
Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4 Elio
Germano, nel film Il giovane favoloso di M.n Martone, interpreta la pri ma
parte de La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4 Germano, nel
film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e
Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone,
interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/
turismo.marche/ Portals/1/L./ L.%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot
promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero
Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM La stroncatura di Mina allo spot
della Regione Marche: you tube.co riportato in: "Il cittadino di
Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su "La Stampa" affonda
lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati, "Il Resto del
Carlino" Ancona, "L. bisogna meritarselo" Mina critica lo spot
della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il Resto del Carlino" Ancona,
Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin
Hoffman ancora sponsor delle Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su
blitzquotidiano. 6 settembre (archiviato il 6 settembre ). vedi la serie di
spot "Le Marche non ti abbandonano mai" interpretati dall'attore
marchigiano Neri Marcorè, con la regia di Rovero Impiglia e Cagnelli: youtube Minnucci,
La regione Marche rispedisce Hoffman in America e pone fine allo stupro di L.,
su qelsi, su Giacomo L.. Edizioni delle opere Giacomo L., [Opere. Poesia],
Bari, G. Laterza, Epistolario Epistolario di Giacomo L., Francesco Moroncini,
Firenze: Le Monnier, Lettere, Solmi e Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi
Torino: Einaudi «Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra
Giacomo e Monaldo L., Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli,
Milano: Adelphi «Biblioteca» Brioschi e Landi, Torino: Bollati Boringhieri,
Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone Pensieri di
varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri, Firenze: Le
Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano: Carabba,
Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino: Pomba scelto e annotato con
introduzione e indice analitico Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento
letterario, pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda»,
Roma: La Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno,
Opere: Zibaldone scelto, Robertis, Milano: Rizzoli, Francesco Flora, Milano:
Mondadori, in Antologia L.ana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed
Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e
Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi,
«Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter
Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni,
saggi introduttivi di Solmi e Robertis, Milano: Mondadori «Oscar» (con uno
scritto di Ungaretti) e edizione fotografica dell'autografo con gli indici e lo
schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola normale superiore, Il testamento
letterario, pensieri dello Zibaldone scelti annotati e ordinati da Vincenzo
Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli, Torino: Fogoli, Pensieri
anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli: Procaccini, edizione critica e
annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I Libri della Spiga», Damiani,
Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del piacere, scelta di pensieri con
note, introduzione e postfazione di Vincenzo Gueglio, Milano: Greco e Greco,
edizione tematica stabilita sugli indici L.ani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione
di Antonio Prete, Roma: Donzelli Editore, Lucio Felici, premessa di Trevi,
indici filologici di Marco Dondero, indice tematico e analitico di Dondero e
Marra, Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea
Rigoni, Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica Ceragioli e Ballerini, Bologna:
Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, L., Giacomo, Canti:
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L. e Schopenhauer [collegamento interrotto], su gheminga. Opere integrali in
più volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza
Opere di Giacomo L., testi con concordanze, lista delle parole e lista di
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vita o arte della felicità?, su giornaledifilosofia.net. Concordanze delle
Lettere su classicistranieri.com. Autobiografia (Monaldo L.)/Monaldo L., la
satira a servizio della fede, su totustuus.biz. Nietzsche e L. a confronto, su
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gennaio ). Angelini, "Sereno in L.", su cesareangelini. Buonofiglio,
"L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito", su academia.edu. Il primo
di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica della letteratura italiana
d’Ancona,. Il secondo nella Critica. Il terzo nella stessa Critica. Tutti e tre
furono riprodotti nei Frammenti di Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba,
Si ha alle stampe un’ Esposizione del sistema filosofico di Giacomo L. *. E una
dissertazione di laurea, e reca infatti l’impronta comune a tutti i lavori
giovanili. L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro, un po’
troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro, che non vuol essere
propriamente un’esposizione fatta dall’autore del sistema filosofico del L.; ma
appunto questo sistema, portato innanzi al lettore con le stesse parole del L.;
non volendo l’autore da parte sua aggiungervi se non prefazione, note ed
epilogo. Metodo anche questo alquanto ingenuo e da scrittore che non vede
ancora la necessità, chi voglia rappresentare nella sua unità logica e
nell’organismo delle sue parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo
pensiero, entrarvi dentro, mettendosi allo stesso punto di vista del filosofo,
e quindi in grado di rielaborare il suo pensiero, chiarendolo con le attinenze
storiche a cui è legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logicamente
è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la inconsistenza: in modo che
l’esposizione riesca una vita nuova del sistema filosofico nella mente
dell’espositore. GATTI, Esposizione del sistema filosofico di L., saggio sullo
Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro difficile, certo, e che non riesce
felicemente se non agli scrittori provetti; ma che nessuno ordinariamente crede
di potere schivare, se non limiti il proprio ufficio a quello di semplice
editore; e tutti ne escono alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno
li ha intesi. L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere insieme i
passi dello Zibaldone L.ano, mostrando come fil filo un pensiero si svolgesse
dall’altro; e dove la connessione non appariva evidente nelle parole del testo,
ha supplito di suo i legamenti opportuni, ma continuando a parlare, in prima
persona, a nome del L.: proprio come se questi avesse riordinata e organizzata
quella copiosa congerie di riflessioni già via via segnate sulla carta a schiarimento
del proprio pensiero e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente
sospettato il rischio, e stavo per dire la responsabilità, a cui andava
incontro, facendo parlare per la sua bocca lui, il L.. Ha creduto che nello
Zibaldone stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere
al seducente disegno d’innalzare, con la semplice composizione degli stessi
materiali L.ani, la statua del filosofo sul piedestallo finora vuoto. Laddove è
chiaro che, se anche nei pensieri inediti del L. fosse implicito un sistema
perfetto di filosofia, la via di ritro- varvelo e dimostrarvelo non poteva
essere questa scelta dall’autore. Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già
altri, ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il L. poeta, questi
inediti Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura venuti ultimamente
in luce, ci scoprissero il L. filosofo. Questa era anche la tesi dello Zumbini
nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui il nuovo studioso
manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali della
filosofia pessimistica del L.: nella prima delle quali il dolore sarebbe
conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa natura; donde prima una
concezione storica del pessi- niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo
Zumbini non insisteva sul valore sistematico di questa filosofia L.ana; e,
d’altra parte, nel secondo volume dei suoi Studi su L., esaminando le Operette
morali, veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle riflessioni
dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che L. aveva fatto
seco stesso per iscritto, fossero appunto condensate nelle Operette. Gatti,
invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello Zumbini, cominciando col
cancellare quelle differenze cronologiche, che lo Zumbini aveva badato bene a
mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è noto, dal L.) : cancellarle a
disegno, per poter adoperare i singoli pensieri liberamente come parti
integranti d’un sistema logico. Ora, lo Zibaldone comprende centinaia e centinaia
di pensieri annotati come si formavano giorno per giorno nella mente del L.
attraverso ben (juindici anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per
quella del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78.
Esso è anzi il diario degli anni in cui si svolse la vita morale del poeta, e
offre perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a tutti i
pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui stesso pubblicate. Ed è chiaro
che, se in questi sette volumi abbiamo, per dir così, i segreti documenti di
tutto il lavorìo intimo di quello spirito, non potremo apprezzarli nel loro
giusto valore, se prescindiamo dalle loro rispettive date; perché a chi scrive
ogni giorno le proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno:
e quel lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri
slegati si possa fare un tutto coerente, manca. Gentile, ifa» 2 ont e L.. Il
Gatti protesta che non va imputato a sua «poca accortezza qualche salto
anacronico, a dir così, facile a rilevarsi, che qua e là avvicinerà pensieri
cronologicamente molto lontani fra loro ». E la sua ragione sarebbe questa :
Tali salti, mentre da un lato ci forniscono ancora una prova evidentissima e
incontrastabile della profonda ripugnanza.... provata da L. per una concezione
cosmica del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il proposito nell’Autore
di rifare spesso a ritroso coll’ immaginazione la via già percorsa dal pensiero
allo scopo di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa strada, e così
riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino, allorché quella linea
immaginaria d’orientamento non gli avrà mostrata altra via da battere per
giungere alla mèta prefìssa». Cioè, se ho capito bene; a dilucidazione di
pensieri anteriori Gatti stima di poter addurre pensieri di un tempo più
avanzato, anche quando occorra ammettere avvenuto nell’ intervallo un
cambiamento sostanziale di pensiero, iierché L. rifà talvolta con
l’immaginazione la via già percorsa col pensiero, e già superata. Ci sarebbero
certi « pensieri di ritorno », o « ritorni immaginari », per cui, secondo il
Gatti, non bisogna credere che il L. contraddica al suo pensiero posteriormente
acquisito, anzi lo lasci intatto, ma, per certa ripugnanza sentimentale alle
più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi temperamenti, torni
per un momento agli ameni inganni, o alla mezza filosofia d’una volta. Ma per
immaginario che sia, un ritorno siffatto nella mente del L., se noi crediamo di
poter fissare questa nella coerenza di certi pensieri definitivi, è evidente
che non può essere altro che una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è
costretto, quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria.
Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a pretendere dal L., nelle sue
stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella natura di
tali confessioni. E non era neppure nella natura dello spirito del L., che fu
un poeta, un grande, un divino poeta, ma non fu un vero e proprio filosofo. Che
fa che egli abbia tante volte protestato di possedere una sua filosofia ? Allo
stesso modo del L., più o meno, chiunque si ritiene in grado di giudicare dei
sistemi dei filosofi, ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra di
costoro, e insomma di affermare una filosofia propria che possa aver ragione di
quei sistemi. E dal proprio punto di vista chiunque, così facendo, ha ragione;
e aveva ragione il L. ; perché in fondo a ogni mente umana, sopra tutto in
fondo a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia:
e però è lecito parlare così di una filo.sofia del L., come di una filosofia
del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero. Ma questa filosofia dei
poeti non è la filosofia dei filosofi, e bisogna trattarla, per non snaturarla
e non distruggerla, con molta delicatezza. Una delle differenze più notabili
tra la filosofia dei poeti e quella dei filosofi è che il poeta può averne una,
se è capace di averla, in ogni singola poesia; laddove il filosofo che dice e disdice,
e muta sempre la sua dottrina, non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno
diritto, come poeta, di affrontare il problema del dolore, sempre da capo, con
nuovo animo, con considerazioni nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo
alla virtù, ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve stringersi
contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa di L. è infatti una situazione d’animo
nuova; quindi una nuova vista dello stesso dolore che domina l’anima del poeta;
un nuovo concetto, una filosofia nuova, che solo trascurando le differenze
essenziali, che in una poesia e in una prosa del genere di quelle del L. son
tutto, si può rappresentare come sempre identica. Egli è che il poeta, checché
si proponga e dica di aver fatto, non espone propriamente una filosofia: ma
esprime soltanto un suo stato d animo, occupato, determinato e quasi colorito
da certi pensieri dominanti. Abbozza in se medesimo (e quindi in un diario
intimo) una filosofia provvisoriamente sufficiente ad appagare i bisogni della
propria ragione (che non sono poi grandi in uno spirito prevalentemente
poetico); e questa filosofia, in quanto profondamente sentita, in quanto vita
della propria anima, diventa materia di poesia. Di poesia anche in prosa;
perché, in sostanza la prosa L.ana è anch’essa poesia, cioè espressione piena
di certi stati d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per lo
sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il L. fa di costringere il
sentimento spontaneo dentro r intenzione ironica, satirica, che gli fece appunto
pre- f0rire la prosa al verso. Ma in realtà, nelle Operette come nei Canti c’ è
L. con la sua filosofia tetra e col suo candore, col suo disprezzo degli uomini
e col suo grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni, che altri ha
studiosamente cercate in lui, e che sono il vero segno caratteristico del suo
spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver
niente dell’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una liberazione
assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della soggettività; è una
contemplazione, diciamo così, d’una verità eterna, in cui il filosofo, come
persona particolare, si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e di tutte
le tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di Spinoza, la cui \dta e il
cui animo han parecchi punti di somiglianza con quelli del L. non presenta nes-
Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza, nella Rivista d’ Italia, asuna traccia, non
offre nessuno indizio di sentimenti personali. K veramente una visione del
mondo sub specie aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del
filosofo scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire, scompare
nell’animo dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro
filosofia. Onde una volta noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in
tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un sistema di concetti, in sé.
Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i filosofi dai
poeti; ma il pessimismo L.ano è, come è stato tante volte osservato, così
imprgnato di elementi ottimistici, così logicamente frammentario e
contradittorio, e d’altra parte così poeticamente coerente e vivo, che lo
scambio non è possibile. Noi possiamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma
come vita del suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto, molto
delicato; perché in esso non bisogna mai lasciarsi sfuggire che la realtà vera,
a cui bisogna aver l’occhio, non è questa filosofia in se medesima, astratta
materia della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella filosofia è per
acquistare la vita che uno spirito poetico è capace di comunicarle. La
filosofia quindi va studiata per intendere la poesia, e valutata in quanto
poesia, per quella vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta. La
pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente contribuito a fare smarrire questo
criterio. Ci s’ è trovata innanzi la materia grezza della poesia L.ana, quella
tal filosofia, che il L. rimuginava dentro se stesso, e che, per quanto
confidata a uno Zibaldone, non aveva pregato nessuno di mettere in pubblico:
quella filosofia, che egli destinava a far materia di espressione più perfetta,
cioè di opera poetica; e che infatti divenne in parte materia di canti e di
dialoghi (com’ è stato osservato, ma merita di essere particolarmente
studiato). E dimenticando che pel L. tutti questi materiali non avevano valore
per sé, ma l’avrebbero acquistato soltanto quando egli li avrebbe trasformati,
qualcuno s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del L.! No,
questi sono i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non
avvivò, non trasfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e trasfigurandolo
nel suo canto e nella sua satira. E produce davvero una strana impressione il
procedimento seguito dal dott. Gatti, che riferisce nel testo certe informi
osservazioni dello Zibaldone, e a sussidio di esse, in nota, luoghi delle
Operette o versi dei Canti, in cui gli stessi pensieri assursero a forma
artistica. Il perfetto fatto servire all’imperfetto; la poesia ridotta a
documento d’un suo documento! Ecco un esempio di filosofia documentata con
poesia. In un pensiero L. S’era domandato. Che vale per noi questa «miracolosa
e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosa macchina
e mole dei mondi? A che serve, dunque, questo infinito e misterioso spettacolo
dell’esistenza e della vita delle cose », se « né resistenza e vita nostra, né
quella degli altri esseri giova veramente nulla a noi, non valendoci punto ad
esser felici ? ed essendo per noi l’esistenza, così nostra come universale,
scompagnata dalla felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi
l’unica utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e
tutta la Idosofia del L.. Ma che significano queste sue interrogazioni ? Esse
non possono aver altro significato che questo, che, non sapendo concepire il
fine dell’esistenza umana [ Zibald., Queste giunture frapposte alle parole del
L. sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi leggermente il
senso del testo. e mondiale se non come felicità, e non vedendo, d’altronde,
che tal fine sia o possa mai esser raggiunto, egli, Giacomo L., finisce col non
sapersi più spiegare quale possa essere il fine di quest’universo, che pur
nella sua artificiosa costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a
un’ intima finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì
manifestata la situazione personale del poeta: situazione, che sarà
jierfettamente espressa quando il L. ci dirà tutta la risonanza che questo suo
ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il dubbio
suUa validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo suo perpetuo
ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento filosofico, o filosofia soltanto
iniziale e potenziale), egli sarà ispirato al Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia che il Gatti reca a confronto e conforto di quelle note dello
Zibaldone. Nel Canto notturno L. dice con l’energia della fantasia commossa
quello che nelle note fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi
appunto o traccia del canto. E quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra
me pensando: A che tante facelle ? Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren ? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Cosi
meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell' innumerabile
famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena
cosa. Girando senza posa. Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun
frutto Indovinar non so. Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio che
non ci sia un fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il
dubbio che irrompe neH’anima di un poeta, che mira in cielo arder le stelle,
quasi tante faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità dell’aria, il
sereno profondo infinito (elementi di grande commozione, com’ è noto, per L.),
e l’immensità della solitudine attorno alla propria persona non dimenticata {ed
io che sono P) né dimenticabUe perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il
germe d’una filosofia, ma l’uomo L., intero, con l’ansia e il terrore che gh
desta lo spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al dolore di lui che vi si
sente dentro smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio filosofico :
semphce dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse s’avess’ io
l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio pensiero, Forse in qual
forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma come elemento o momento della
lirica grande. La pubblicazione dello Zibaldone, badiamo bene, è stata, in
fondo, una certa quale indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato,
vivo L., e che non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio
deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno
che scriva e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo il
fine a cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta non beenzia al
pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie. Anzi, questi antecedenti
naturali del suo prodotto artistico, ha un certo schivo pudore di mostrarli al
pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua personale; laddove quello
che egli crede arte, gb par bene appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti.
Certo, r interesse storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le
opere del genio, mediante la conoscenza più larga che sia possibile della sua
anima, bastano a giustificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degb
epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più gelosi segreti delle
persone, le quali a un certo punto si finisce col credere che appartengano agli
altri più che a se stesse. Ma questa giustificazione non deve farci dimenticare
che gli abbozzi del poeta, sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti
provvisori del filosofo sono antecedenti spesso superati e rifiutati della sua
filosofia. Ad ogni modo non si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro
valore che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresentano la
conclusione definitiva del poeta e del filosofo. Tutto questo, si potrebbe
osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna
vedere al fatto, se il L., dopo gli studi di Gatti, ci apparisca nello
Zibaldone un vero filosofo. Potrei rispondere con un altro discorso astratto,
sostenendo che è ben difficile che uno stesso genio possa essere insieme poeta
e filosofo; richiedendosi alla poesia un’attività, che la filosofia
necessariamente combatte e mortifica. Ma penso a Dante: unico, secondo me, e se
non sempre, quasi costantemente mirabilissimo esempio dell’energia, onde è
capace lo spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel
sentimento di un’anima singolarmente potente il sistema più
intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della filosofia ci
presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre perfetta d’un sistema
miracolosamente vario e armonico di fantasmi che son pure astratti concetti:
unità, che non si finisce e non si finirà mai di studiare nella Divina Commedia
». E preferisco perciò una risposta particolare e concreta, che è questa. Tutto
il mio discorso generale io r ho fatto appunto a proposito del L., dopo Alla
quale per questo rispetto non credo si possa paragonare, ma a distanza
grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera, come arte e come
filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta. aver letto attentamente il saggio
di Gatti. Libro, che non ò certo inutile, perché molti schiarimenti particolari
a concetti del L. da uno studio così attento e minuzioso dei Pensieri si hanno;
c molti istruttiva raffronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani,
vi sono opportunamente istituiti tra pensieri del L. e luoghi di Helvétius, di
Rousseau, di Maupertuis e degli altri autori del Poeta; ma insufficiente a
dimostrarci la tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del L. si
fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi a dimostrare il contrario,
per lo stesso esame accurato che ci dà dei Pensieri L.ani con l’intento di
cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la travagliosa meditazione sui
fantasmi del Poeta; ci sono le accorate riflessioni, che gli suggerirono quei
jiroblemi che furono il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non più
di questo. Il L. lo ritroveremo sempre nel disperato lamento de’ suoi canti e
nel sorriso amarissimo e pur soave delle prose. 11 materialismo della sua
metafisica, il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua
epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono nei pensieri
inediti, come in tutti gli altri scritti già noti, i motivi costanti del breve
filosofare leoparebano : ma sono spunti filosofici, anzi che principii d’un
pensiero sistematico; sono credenze d’uno spirito addolorato, anzi che veri
teoremi di un organismo speculativo. Le sue pretese dimostrazioni non vanno mai
al di là dell’osservazione empirica; e non servono ad altro che a dirci come
vedev^a le cose Giacomo L.. In lui non trovi né anche una critica della ragione,
come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi somiglia. Ma un
prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e accettarle come verità
assiomatiche e principii di deduzioni pessimistiche. Passione v^era per a
speculazione il L. non ebbe mai. Non studiò nessun grande sistema filosofico:
egli, conoscitore e studioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il
pensiero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filosofia antica ò
tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio Evo non
studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce neppur
nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come Voltaire, non
sospettando in alcun modo la profondità del suo pensiero Ebbe una vernice di
cultura filosofica, come l’avevano allora tutti i letterati; ed ebbe velleità
di filosofo; ma la sua vera indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è
r indole poetica, convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a
considerarlo nel valore filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei
particolari della esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella
filosofia pratica edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette in
rilievo di contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non
ha niente che vedere coll’odierna filosofia prammatistica, a cui egli
studiosamente la raccosta, per dimostrare così la modernità del pensiero L.ano.
Quella filosofia pratica è il retaggio dello scetticismo da Pirrone in poi: il
quale ha contrapposto sempre la vita alla scienza, e salvata almeno quella dal
naufragio di questa. Salvataggio operato ora con la natura, ora col sentimento,
ora con la volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito
come tale, che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo fondamentale.
L. ricorre all’ immaginazione e a un certo qual senso dell’animo, che fan
contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e bastano a confortarci a
vivere. Né anche questo principio, del resto, è sviluppato. Certo, esso non
giova a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore del James e degli
altri pram- matisti d’oggi, i quali non sono scettici, benché in realtà abbiano
una dottrina negativa del conoscere; non vedono nell’attività pratica un
surrogato dell’attività teoretica: ma unificano le due attività, e immedesimano
la verità con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia esso stesso il
vero; laddove quel che gioverebbe credere, secondo L., sarebbe né più né meno
che un’ illusione. La differenza tra L. e James è la differenza profonda tra lo
scetticismo di tutti i tempi e il nuovo prammatismo, che si professa dottrina
essenzialmente dommatica e positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi da
Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra gh studiosi di letteratura
italiana, e dei più valenti e competenti interpreti del pensiero L.ano; ma con
altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leggere al principio del
suo libro le seguenti parole; «Fu tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal
Cantella, di ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri dello
Zibaldone L.ano; con esito che non poteva essere altro che infelice; quando si
pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza disegno
prestabilito, per lo spazio di circa quindici anni, da quando prima il poeta
adolescente cominciò a voler pensare col suo cervello, fino aUa sua piena
maturità. Che fu uno degli argomenti principali che a suo tempo io opposi al
tentativo di GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con
gli ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i documenti, può
esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del poeta, la
cui forma definitiva va piuttosto cercata nei prodotti più maturi, dove parve
all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e
nelle Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio del Levi, e
conferma pienamente il mio giudizio sul valore e sull’ interesse dello
Zibaldone. Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce netta e ferma
quanto si potrebbe desiderare, costretta com’ è dall’autore ad andare in
compagnia di certi prin- cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la
visione esatta di taluni momenti dello sviluppo del pensiero L.ano e turbano il
giudizio sulla sua forma ultima. Cosi, quando comincia a notare che io ho
ecceduto « negando a priori allo Zibaldone ogni interesse speculativo, per la
qualità stessa dell’autore; il quale sarebbe bensì un osservatore acuto, ma
troppo essenzialmente poeta, dominato interamente dal sentimento, e perciò di
pensiero incoerente, mutevole e spesso contradittorio », egli, da una parte,
esagera e àltera il mio giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su tutta
l’opera del L.; e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca subito dopo
di dichiarare esplicitamente), il quale non gli può consentire una
ricostruzione storica non arbitrariamente soggettiva, ma razionalmente
giustificabile del pensiero L.ano. In primo luogo, non è esatto che io abbia
negato o voglia negare ogni interesse speculativo allo Zibaldone e tanto meno
alle poesie e alle Operette morali', anzi sono disposto a riconoscere che tutta
la poesia di L. non abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in tutti i
suoi gradi, che il problema speculativo, nei termini, s’intende, in cui egli
poteva e doveva porlo. Quel che ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci
sia del pensiero del L. qualche cosa di più che non fosse negli scritti da lui
pubblicati; qualche cosa che, dal punto di vista del L., fosse già pervenuto a
quel punto di maturità spirituale, di verità, in cui il L. s’acquetò, a
giudicare dalle opere con cui egli stesso volle entrare nella nostra
letteratura; qualche cosa che possa nello Zibaldone farci vedere nulla di
diverso {si parva licei componere magnis) da quelle note, onde ognuno di noi si
prepara ai suoi lavori, e che, compiuti questi, quando ci pare d'averne
spremuto bene tutto il succo, si buttano al fuoco; e tanto più volentieri,
quando dalle note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano
venute correggendo e integrando in più logica compattezza ' ; 2) che si possa
adeguatamente valutare la grandezza di L., facendogli il conto del tanto di
verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a prescindere da ogni
dottrina sulla natura della poesia, basta considerare le critiche profonde e
ineluttabili, onde quella verità fu superata da uno spirito, che ebbe
inizialmente una profonda simpatia congeniale col L., il Gioberti (specialmente
nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: « Fii detto che la pubblicazione
del Diario sia stata un'indelicatezza, quando il L. medesimo di questa
pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh si, sarebbe un indelicatezza
esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un pubblico di pedanti, i cjuali
spiegherebbero con trionfo gli errori del grand'uomo che si viene formando. Ma
chi ha già imparato ad amarlo e a venerarlo, può accostarsi senza scrupoli a
tutte quante le sue reliquie. Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel
che scrissi io nella Rass. bibl. tett. U., mi rincresce di dovergli rispondere
che egli non ha inteso lo spirito della mia affermazione. La quale mirava
soltanto a chiarire che dello Zibaldone non ci si può servire se non come di
documento della formazione del pensiero del L., la cui forma ultima dobbiamo
per altro cercare sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse l'autore,
e pubblicò egli stesso come sole degne di sé. nel Gesuita e nella Protologia),
in pagine che il Levi non anteporrebbe di certo né pur a quelle dello
Zibaldone. L vero che « nei sistemi filosofici le parti più caduche sono spesso
quelle dovute alle esigenze di sistema ». Ma ciò non dimostra che la filosofia
non è sistema, anzi dimostra che è: perché gli errori di questo genere non si
scoiarono dal critico se non come errori della costruzione del sistema, ossia
come divergenze dalla costruzione che, secondo lui, sarebbe più conforme alle
verità fondamentali intuite d<al filosofo. E se U critico non rifacesse per
suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe modo di discernere nel
sistema criticato il vero dal falso, nato dunque non dal sistema, ma dal falso
sistema. Giacché un giudizio che affermasse immediatamente : questo è vero, e
questo è falso, senza dimostrazione di sorta, non credo che pel Levi sarebbe un
giudizio per davvero. E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non è
privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi s’intende i
filosofi storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per poeti
quelli che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare, ecc.
Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos intra muros peccatur et
extra. D’incoerenze, di maglie rotte nel sistema, ce n’ è state, e ce ne sarà
sempre, da una parte e dall’altra. Ma noi non possiamo parlare di Omero poeta e
di Platone filosofo senza un concetto del poeta e del filosofo, e cioè della
poesia e della filosofia: le quali, come funzioni dello spirito, trascendono la
storia, che è la concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla
poesia e alla filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si possono
assegnare caratteri distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto
tale non sarà della filosofia, e per converso. Nella storia tutte le funzioni
concorrono in un’unità concreta, in cui il poeta, essendo anche filosofo,
partecipa del carattere dello spirito che è filosofia; e il filosofo, essendo
pure poeta, partecipa del carattere dello spirito che è poesia, sempre. E la rigida
e salda distinzione delle funzioni astratte cede il luogo alla plastica e
mobile distinzione della storia, che fa essa stessa la divisione dei grandi
spiriti nelle due schiere dei poeti e dei filosofi, secondo che negli uni
prevale il momento poetico e negli altri il momento filosofico; onde la
distinzione e però la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni
volta, funzioni di giudizio storico, concreto. Perché il L. va considerato come
poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il L. storico, quale si formò e
quale si espresse nel suo canto, io ci vedo bensì dentro una filosofia; ma
questa filosofia la vedo chiusa, compressa, fusa e assorbita nella intuizione
immediata che questo spirito ha della sua personalità materiata di cosiffatta
filosofia; per cui dico che egli non rappresenta una filosofia, ma la sua
anima; e poiché il suo occhio è tutto intento alla risonanza tutta soggettiva,
in cui vive per lui un certo, oscuro, vago e frammentario concetto del mondo,
la verità è per lui, e dev’essere per me che lo giudico, non in questo
concetto, ma nella vita di esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica.
Beninteso che, per quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà pure
un concetto, che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente alla
logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta. E non ci sono
principii astratti ed estrastorici che possano segnare a priori i limiti della
filosoficità del concetto che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non toglie che
la distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e che non si possa mai
trascurare, volendo rilevare, a volta a volta, il valore deUo spirito rispetto
alle sue forme es- senziaU ed assolute. Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte
le sue forme è in fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se è suprema
esigenza etica che la nostra vita sia azione, ed abbia un senso; non sarà fuor
di luogo nei poeti, di cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di
più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare
e cercare un’attività etica con un suo senso determinato e costante ». Ond’egli
si propone di cercare negli scritti del L. «per quah vie egli giunse alla sua
profonda intuizione, e potè prendere un atteggiamento interiore costante e
sicuro di fronte all’universo Ebbene, tutto questo è molto vago perché possa
servire di criterio alla storia del pensiero di un poeta. Se la grandezza in
tutte le sue forme è una sola soltanto « in fondo », bisogna pure che si
rispettino le differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che
quello che è in fondo venga su, e si manifesti, e assuma così una forma storica
determinata. E se è suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,
posto, com’ è necessario, che le suddette forme della I grandezza, o, più
modestamente, dello spirito, siano più d’una, oltre la suprema esigenza etica,
ci saranno (dato pure c non concesso che questa sia la radice di tutte) altre
esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia, e che la vita sia filosofia;
le quah, se il Levi ci riflette bene, s’avvedrà che non sono meno supreme,
anche per la sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un ^
atteggiamento dell’uomo di fronte all’universo : poiché; quest’atteggiamento o
è un pensiero, o l’imphca; e questo pensiero, dovendo essere una filosofia, non
può non essere anche una poesia. In realtà, quel che cerca il Levi nel poeta,
non è la ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una metafisica, I una
rivelazione della ragione dell’esser nostro o del regno soprannaturale dei
fini: e con l’occhio a questa mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e
là all’ identità del valore poetico e del valore del contenuto filosofico della
poesia, egli non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro, il problema
dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira quasi mai al giudizio estetico
dell’arte L.ana; ma si restringe a tracciare la linea di svolgimento del
pensiero che c’ è dentro, e che egli crede abbia assunto la sua forma finale in
una specie di individualismo romantico corrispondente alle tendenze dello
stesso Levi. Dirò bensì che la distinzione tra arte e filosofia accenna a
svanire nel pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente estetico, più
che etico, di questa filosofia romantica a cui egli aderisce: quantunque pur in
questo concetto la differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza, qua e
là, al pensiero del L. per dargli queUa sistematicità, che è necessaria anche a
una filosofia individualistica. Il risultato degli studi del Levi, in breve, è
questo. Nel pensiero del L. si devono distinguere due periodi; uno come di
distruzione e dissoluzione dell’uomo, l’altro di affermazione e ricostruzione
dell’uomo stesso; il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !
mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo periodo, e si aderge
in tutta la sua grandezza, che è la j sua stessa infeUcità, o piuttosto la
coscienza della sua p infelicità. 11 primo periodo terminerebbe verso la fine |
del 1823, e sarebbe rappresentato, sostanzialmente, dallo 1 Zibaldone', il
secondo comincerebbe, presso a poco, nel J gennaio 1824, quando il L. pose mano
alle Operette morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta- # mente ;
« Fa onore al buon gusto e al senso critico del 1 L. l’aver lasciato da parte
tutto quello ch’egU l sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno
jS alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?. e l’aver
esposto definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi pensieri
intorno alla virtù e alla felicità umana. Insomma, anche pel Levi, lo Zibaldone
è il periodo jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette volumi i primi sei
giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui il L. cerca tuttavia se stesso,
e ancora non si ritrova qual era nella sua giovinezza e all’ inizio del suo
speculare: «pieno d’ardore per la virtù, e assetato di felicità, di bellezza e
di grandezza ». La riflessione, in questo periodo, che comincia intorno al ’20,
si stringe addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito L.ano; e
non riesce a giustificarli, anzi h corrode e distrugge. Che cosa è il bello ? e
il bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal sensismo, che negava lo
spirito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello spirito si
dileguano facilmente dagli occhi del giovane pensatore, poiché perdono tutti la
loro assolutezza, la loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende in
lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta nell'esser suo di
coscienza, e prorompe in una espressione ingenua della verità disconosciuta:
espressione, che ferma giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa
segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo dello svolgimento del
L., ma comincia ad essere interpretata alla stregua del difettoso concetto che
egli ha delle attinenze della poesia con la filosofia, e a far deviare quindi
tutta la sua interpretazione del secondo periodo. 11 L., il 27 novembre 1823,
scriveva nel suo Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la forza
dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede neH’animo. L’uomo è
tanto più infelice generalmente quanto è più forte e viva in lui quella parte
che si chiama Storia, anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò
per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, né accresce il suo amor
proprio. Nel totale e sotto il più dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio]
sono in ragione inversa della forza propriamente corporale. La vita è il
sentimento dell’esistenza. La materia (cioè quella parte delle cose e dell’uomo
che noi più pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può
esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente coll’esistenza, la quale,
considerata senza vita, non è capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello
che in questo luogo il L. chiama sentimento vitale, o vita», avverte
esattamente il T.evi, è manifestamente la coscienza ». Ma continua : Di qui
innanzi egli negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello spirito (al
che egli ha avuto cura di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella
parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale e quella parte delle cose e
dell’uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo movevano
il suo bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato e il falso
ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici. Ma, praticamente,
rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha fermato con sufficiente
sicurezza la nozione di ciò che in esso è di natura spirituale e della sua
dignità». Ora qui è il piincipio del maggiore equivoco EQUIVOCO GRICE, in cui
si dibatte poi il Levi in tutta la sua interpretazione del L.. Nel luogo citato
del Diario c’ è la coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il concetto)
di questa coscienza; il L. sente la propria grandezza come uomo sugh animaU e
sugli esseri inferiori, e la propria grandezza come L. sugli uomini comuni,
come potenza di essere infehce. ma non pone mente che egli è grande, non perché
infelice, ma perché conscio della sua infelicità ; cioè non vede 1 esser cuo
nella coscienza che si eleva al di sopra del dolore, e lo impietra, nell’arte;
e però non si può a niun patto asserire che possegga la nozione della propria
natura spirituale e della propria dignità di contro alla natura. Infatti il
possederla praticamente (e soltanto praticamente) come vuole il Levi, che
significa se non che non la possiede come nozione, bensì con quella
immediatezza onde 10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza di sé
? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il contenuto
della sua poesia (attualità reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché
sarebbe risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od oggetto dello
spirito consapevole della propria vittoria sulla natura, come opposizione e
limite dello spirito, e quindi sorgente dell’ infelicità. Il pessimismo è
assolutamente inconciliabile col concetto del valore dello spirito; e questa è
la vera e profonda ripugnanza che prova il L., pur quando intravvede nella
vivacità stessa della sua spiritualità l’essenza propria del reale, che è
sentimento, com’egli s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà che
non ha posto nella visione pessimistica del mondo in cui si chiude e fissa
l’anima sua; e però ricorre a quelle circonlocuzioni « quella parte dell’uomo
che noi chiamiamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni, che sono la patente
documentazione del fatto, che il L. non si solleva al concetto dell’essenza
dello spirito. Che se questo concetto si fosse rivelato comunque alla sua
mente, con tutta la sua « avversione all’accattato e al falso che ei sentiva
negli entusiasmi spiritualistici dei romantici », con tutto « il suo bisogno di
concretezza », come avrebbe potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non
vedere che 11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non è materia,
e che la presunta concretezza della materia come tale non è altro che
un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota altrimenti che pel
sentimento che ne ha il vivente? Orbene questa contraddizione intrinseca tra il
sentimento, non elevato a concetto, dell’umana grandezza, e il concetto
(contenuto della poesia L.ana) della nullità dell’uomo di fronte alla natura e
quindi della fatalità assoluta del dolore, questa è la grande situazione
poetica di L. rappresentata così splendidamente dal De Sanctis nel saggio su
Schopenhauer: L. produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede
al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare.
Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un
desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non
puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti,
perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e
mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti
desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così
basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la onora e la
nobilita ». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto e la sua
anima è la forma e il valore speciale della sua poesia: ma non perviene mai a
distinta coscienza degli opposti motivi che vi concorrono senza scoppiare
dentro il contenuto (astrattamente considerato come filosofia) in manifesta
contraddizione logica, come avviene nella Ginestra: con quanto vantaggio della
poesia non so. Certo, la forma L.ana si regge sull’equilibrio di questi opposti
motivi, che sono la personalità del poeta e il suo mondo pessimistico:
equilibrio che si mantiene perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di
Saffo, Saggi critici, à nel canto A Silvia, nel Canto notturno e, in modo
tipico, nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica nel suo
mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove, appena vi si contrapponga,
come parte di contenuto (che qui coscienza che il poeta ha di se medesimo)
accanto all'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a spezzare l’unità
del fantasma, che è la logica del pensiero poetico. Di tale contrasto il Levi,
poeteggiando anche lui per interpretare il L., non vedo abbia chiara coscienza;
e però scambia la forma col contenuto dell’arte L.ana, e vede una filosofìa
(quella con cui piace a lui d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto
l’anima, e cioè la poesia del L. Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra
alla storia della concezione storica del pessimismo, quale si disegna già nella
critica dello Stato e della civiltà, della scienza e della filosofia e nella
teoria delle illusioni attraverso 10 stesso Zibaldone per trovare in fine la
sua espressione nei primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A un
vincitore nel pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo, Alla primavera e
Inno ai Patriarchi. ’E vengo al secondo periodo. 11 Levi studia gl’ indizi
della coscienza che il L. comincia ad acquistare della propria grandezza dopo
la dimora che fa in Roma: coscienza culminante da ultimo, in questa nota del
Diario: «Ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano
intelletto, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza.... E veramente quanto gli esseri più son
grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più capaci
della conoscenza, e del sentimento della propria piccolezza » ». Quindi
s’inizia il secondo periodo, il cui Zibald.] pensiero il Levi vede maturarsi
tutto nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo della Natura e di un'Anima,
Dialogo della Natura e di un Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e nelle
note sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo dall’uomo L. ritrae la
causa del dolore universale nella natura; alla concezione storica del
pessimismo sottentra quella cosmica; ma di fronte alla natura inesorabile
artefice del nostro doloroso destino e imperscrutabile prosecutricc di fini
divergenti dai fini dell’uomo s’accampa questo con la coscienza del proprio
valore: dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo, e pur creatore
del suo valore nel virile disdegno d’ogni illusione, nella magnanima sfida al
Potere ascoso: nell’affermazione, insomma, di sé come coscienza del dolore.
Onde il L. acquista una serenità, una sicurezza ignota a quell’angoscioso
piegarsi e stridere dell’anima sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo
jieriodo. Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione del
Levi, il suo modo d’intendere questa forma suprema dello spirito L.ano. Ma contro
questa interpretazione vedo due princijiali difficoltà, la prima delle quali
confesso di proporre con qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere
interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i documenti dell’
interpretazione del Levi per ciò che riguarda l’individualità dell’uomo, che in
questo secondo periodo starebbe di contro alla natura. Nell’allegoria
dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la designazione dei «
cuori più teneri e più gentiU, delle persone più generose e magnanime », che
vengono a provare « piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine »,
comprende bensì il L., anzi rappresenta soltanto il L.: ma non come individuo
che crea se stesso, col suo valore. Non è coscienza del dovere dell’ individuo.
che può nello spirito vincere l’avversa natura e toccare (juindi la beatitudine
da questa contesagli ; ma è l’im- niediata condizione spirituale del Poeta, la
cui serenità estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il dolore. 11
ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di ogni desiderio della
felicità ignota e aliena alla natura dell’universo, e l’amarezza dei frutti del
sapere; ma della beatitudine che spira intorno al nume, figliuolo di Venere
celeste, non v’ è giustificazione, né quindi concetto. Dove egli si posa,
dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve,
già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo
effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla
Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è l’anima che
non s’arrende alla verità; ma non la verità, come concetto dell’anima. E
l’anima è appunto quella dolce serenità che si diffonde per tutta la prosa:
ossia la forma, la poe.sia, non il contenuto, la filosofia, del pensiero L.ano.
Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella
individualità che il Levi vede nelle varie prose al di sopra del pessimismo
cosmico, fino a Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il
capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini.
L'affermazione di Tristano è piuttosto negazione: E ardisco desiderare la
morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità,
con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da
pochissimi. In altri tempi ho invidiato.... quelli che hanno un gran concetto
di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non
invidio più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi
cambierei. In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti si
manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura, perché e come potrà farsi una
caratteristica del secondo periodo se nel primo periodo resta, per esempio, il
Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che guerreggia teco Guerra
mortale, eterna, o fato indegno; e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui
l’uomo si erge magnanimo contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della
propria grandezza al di sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo del
cieco dispensator dei casi ? Però credo che nell’esame dei canti del secondo
periodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e suggestivo studio del
Levi, la poesia L.ana sia più d’una volta tormentata affinché risponda
docilmente ai preconcetti filosofici costruttivi dell'autore. Nel Risorgimento
sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la superiorità della vita affettiva
sulla conoscenza e su tutto, e la forza invitta con cui l’io profondo si
afferma, non ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il L.
canta: Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci inganni; Sopire in me gli
affanni L’ingenita virtù. Non l’annullàr, non vinsela Il fato e la sventura;
Non con la vista impura L'infausta verità. Pur sento in me rivivere Gl’ inganni
aperti e noti; E de’ suoi proprii moti Si maraviglia il sen. la chiave,
l’intonazione della poesia è in questo meravigharsi dell’animo di fronte al
risorgimento dell’ ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché
tale. j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità della vita
affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza, perché meravigliarsi ? E se
togliete questa meraviglia, questo stupore innanzi al subito rianimarsi del
mondo al risorgere del vecchio cuore, la poesia è svanita. Un altro esempio
significativo. Nei versi .4 se stesso, secondo il Levi, « ancora una volta si
sfoga riaffermando, disperatamente, ma pure ancora superbissimamente,
l’assoluta solitudine della sua grandezza » ; e cita i versi; Non vai cosa
nessuna I moti tuoi, né di .so.spiri è degna La terra. Amaro e noia La vita,
altro mai nulla; e fango è il mondo. Ma dov’ è qui la solitudine della
grandezza, se il L. vi nega ogni finalità ai moti stessi del cuore, se cioè non
crede che il cuore possa aspirare a nulla, e tutti i versi sono uno
schiacciamento del cuore stanco sotto r immane fatalità ? Infine : « La
Ginestra », dice il Levi, « è da taluni, non senza un po’ di retorica, esaltata
per il suo contenuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A
me sembra una cosa grande, anche per quella maschia e dantesca sprezzatura,
onde il poeta non rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere
la sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in versi. Certo le
parti più belle sono le meditazioni intorno all’ immensità dell’universo e alla
piccolezza dell’uomo, eppoi la straordinaria descrizione delle eruzioni
vesuviane. La bellezza di questa nasce da cosa molto più alta che non sia
l’eccellenza espressiva : e questa è l’intensità tragica del pensiero
universale simboleggiato, e la potenza di una personalità, che si colloca di
fronte alla natura, e ne abbraccia e comprende la terribile grandezza senza
lasciarsene opprimere ». Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa grande
per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la poesia con pagine di
ragionamenti. Se vi sono ragionamenti che interrompono davvero la poesia, il
L., mi pare, sarebbe stato più grande non interrompendo la sua poesia; dato che
la grandezza della poesia non possa essere altro die il carattere eccellente di
una poesia, tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e tutta
poetica. Vero è che soltanto la retorica può persuadere ad esaltare la Ginestra
per il suo contenuto morale; poiché questa parte appunto (oltre che la polemica
contro la filosofia e contro Mamiani ROVERE (si veda)) è quella in cui è
compromesso l’equilibrio lirico della poesia; ma mi pare anche un errore
staccare la bellezza delle meditazioni sul contrasto tra la grandezza
sterminata dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila della descrizione
dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di tutta la ])oesia, dove é la vera e
sola bellezza, da cui le altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la
bellezza della ginestra, del fior gentile, immagine del L., che, mentre tutto
intorno una mina involve, al cielo Di dolcis.simo odor manda un profumo. Che il
deserto consola: l'espressione più delicata della divina poesia leojìardiana. E
dove il Levi afferma con intenzione, che la bellezza non so se della
descrizione delle eruzioni vesuviane o se di tutta la Ginestra, « nasce da cosa
molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina
estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò che egli mostra di
non aver forse compreso che s’intende in questa dottrina per espressione :
perché l’intensità tragica che egli vi contrappone non è niente di diverso
dalla espressione, se di questa intensità tragica intende parlare in quanto la
vede nella Ginestra] poiché l’espressione va cercata nell’atteggiamento
individuale che lo spirito assume di fronte a una certa materia, e questa,
quindi, in lui. Ma c’ è poi quella personalità, che si colloca di fronte alla natura
senza lasciarsene opprimere? Qui sarebbe il proprio della interpretazione del
Levi. Né supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra non
supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo, non crede sue stirpi
immortali, e sa pertanto che supph- cherebbe indarno al futuro oppressore. Non
c’ è, dunque, né pur qui, l’individuo che si contrappone alla crudel possanza,
ma la serenità pacata della coscienza della sua inesorabihtà ; insensibiUtà di
saggio antico, più che affermazione romantica dell’umana personalità. In
conchiusione, anche al nuovo schema filosofico la poesia L.ana si sottrae e
repugna, per richiudersi sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos
lirico. ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con alcune osservazioni
ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente lettera: Egregio Professore, Mi
par difficile discutere delle interpretazioni particolari di questa o quella
poesia o altro documento del pensiero L.ano senza rimettere in discussione il
concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro. Perché le mie
osservazioni singole non miravano a confutare singole opinioni e determinati
giudizi, né a mostrare piccole infedeltà ed inesattezze, sì bene a far vedere
in atto r illegittimità del criterio fondamentale con cui aveva Ella
ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si possono leggere nella Critica,]
pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune delle mie critiche
particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire r intento generale e il significato
complessivo del mio articolo. Per esempio, perché, pur consentendo che nel
luogo citato dello Zibaldone con vita o sentimento dell’esistenza H L. intenda
la coscienza, 10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto,
della coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale, in quanto parte di
una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella aveva bisogno per
cominciare a vedere nel L. la filosofia individualistica, in cui Ella intende
riporre l’essenza della più alta poesia L.ana. Con ciò io non dovevo attribuire
al L. soltanto 11 possesso immediato della coscienza (com’Ella mi fa dire), che
sarebbe stato invero troppo poco: ma solo un senso vago o, se vuole, una
nozione imperfetta, o magari un concetto, che però non era un vero concetto,
della coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza, ma non la pensa;
sicché per lui pensatore questa coscienza è come se non fosse ; e non può dirsi
perciò, che « praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli
ha fermato con sufficiente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di natura
spirituale e della sua dignità. Il senso della spiritualità e della dignità
spirituale di sé e dell’uomo in generale sì; e questo appunto io dicevo essere
non il contenuto (la filosofia, il concetto) della poesia L.ana, ma la forma
(la poesia, la lirica, l’espressione della personalità del poeta, superiore
alla sua filosofia). Così, sarà verissimo che il L. si creda infelice perché
grande, piuttosto che grande jierché infelice. Ma questo non ha che vedere con
la mia osservazione che, se egli avesse avuto il concetto della coscienza,
avrebbe veduto la propria grandezza in un grado spirituale che è al di sopra
del dolore e della infelicità. La coscienza per lui era la stessa sensibilità,
non la coscienza vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia
del dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e visione sub specie
aeterni del dolore stesso, non può non liberare da esso il soggetto. Nel
Dialogo della Natura e di un Anima il L., phi che far dipendere l’infelicità
dalla grandezza, identifica l’una con l’altra. L’Anima domanda Ma, dimmi,
eccellenza e infehcità straordinaria sono sostanzialmente una cosa stessa? o
quando sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l’una dall’altra?» e la
Natura risponde; Nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di
tutti i generi di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi il
medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione della
loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell’ infelicità propria ;
che è come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove è chiaro che la infelicità
maggiore è maggiore sensibilità, cioè eccellenza, grandezza spirituale: perché
l’infelicità è tale in quanto è sentimento di essa, cioè quella vita, nella cui
intensione consiste l’eccellenza dell’animale. E però L. deve ad ogni modo
commisurare la propria grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non
avrebbe fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la
nozione della vera realtà spirituale, che in lui spontaneamente s’afferma
quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i «
maggiori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi annoverava «il
piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori, e contemplare
da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con
altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo ; sia essa o non
sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è quel dolore impietrato, di cui io
parlavo come dell’unica forma possibile del dolore in quanto contenuto della
coscienza « ; ma di questa coscienza, e quindi di quella vita del dolore che
non è più dolore nella vita dello spirito il L. non ha coscienza. E però il
contrasto interiore che io vedo nella poesia del L. è identico a quello che ci
vedeva il De Sanctis, anche se, nel passo citato da me, rappresentato da un
solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della personalità del poeta
e la povertà, per non dire negazione, di ogni sostanzialità spirituale, propria
del contenuto della sua poesia. Del Dialogo di Tristano e di un amico non è
esatto che il primo periodo citato da me sia; E ardisco desiderare la morte
ecc. ». Le parole precedenti erano state pur da me riferite immediatamente
prima fino a Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il
capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini » Ma queste
parole non potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui confluisce
il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il Dialogo, una negazione
piuttosto che un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella dice, della
propria persona empirica; perché la morte, pel L., non distrugge soltanto la
persona empirica, ma tutto l’essere dell’ mdividuo. Mi piace ricordare la
felice osservazione di Sanctis {Studio sul L.). L. ha la forza di sottoporrei
il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e
fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di
poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su una
poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e appunto perché può
trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare] Bruto e Saffo, non c’ è
pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono stati momenti di felicità, sono
stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del filosofo nell'atto del
lavoro ? — L’anima, attirata nella contemplazione, esaltata dalla ispirazione,
ride negli occhi, illumina la faccia. Quanto alla differenza di disposizione
spirituale tra ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e
Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma la si attende
serenamente, deposto ogni disperato pensiero di suicidio, non occorre negarla
per non vedere né anche nei componimenti più tardi quella coscienza jel valore
della propria individualità, che Ella ci vede. ^'el detto Dialogo non si cela,
almeno io non riesco a scorgere, « quella robusta fede nella grandezza umana,
riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a se stessa ». Se l’essere
dell’uomo è la sua vita, quivi si dice che «la vita è cosa di tanto piccolo
rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla
né di lasciarla. E, se non m’inganno, la nota fondamentale del dialogo è nelle
ragioni della tollerabilità della vita, per misera che sia: le quali ragioni
sono bensì la critica del pessimismo materialistico del L., ma restano nella
forma di sentimento, bastevole a conferire al dialogo quell’ intonazione
affettuosa che gli è propria, e sono veramente l’opposto di quella affermazione
dell’ individualità dello spirito, di cui si va in cerca : « Aver per nulla il
dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei
compagni; 0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di
sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima di addolorare colla uccisione
propria gli amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante
di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso non ha cura né
pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per
così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto
che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più
sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi
al mondo. Se prendessimo atto di questa critica del suicidio che. risolvendosi
in una serie di asserzioni, vale certo come effusione di stati immediati
deU’animo, ma non come filosofìa che filosofia diverrebbe questa del Poeta che
ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo sia racchiusa nella
sua sensibilità, e che tutto il mondo all’uomo non si rappresenti se non nella
breve sfera del piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte, senza
questa contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso
affettuoso onde il poeta è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano
(cfr. la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione intima di Plotino con
Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia del commovente dialogo ? Nell’ intendere
come ho inteso il Risorgimento posso sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella
crede si debba intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giudizio. Ma
la ragione che mi oppone non mi riesce molto persuasiva; c’è, di sicuro, nella
poesia una risposta alle domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete or mi
ridesta ? Che virtù nova è questa ? Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto
oblio ? » ecc.; Da te, mio cor, quest’ultimo Spirto e l’ardor natio. Ogni
conforto mio Solo da te mi vien; ed è vero che nella quartina precedente
l’accento maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa risposta è la
soluzione del problema, in cui consiste la poesia : l’inaspettato, il
miracoloso risorgimento del vecchio cuore. E quindi il sentimento che regge
tutta la poesia mi pare la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha certamente nel
correggere il significato da me attribuito In un periodo ora non più ristampato
dello scritto precedente. agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo
la correzione, il significato del canto non è punto favorevole alla tesi
dell’affermazione della propria grandezza, gi a quella del grido della
disperazione, comune a quasi tutta la poesia L.ana. E nella Ginestra chi
negherà il motivo da Lei richia- luato, della personahtà del Poeta che non si
lascia opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna vedere quanto questo
motivo sia attenuato qui dall’umile coscienza delle proprie sorti («che con
franca hngua. Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e
frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle. Né sul
deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e sciolto nell’amore con cui l’animo
abbraccia tutti gli uomini fra sé confederati, e nella poesia consolatrice che,
commiserando i danni altrui, manda al cielo, come la ginestra, un profumo di
dolcissimo amore, che consola il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il
suo capo innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno
codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla
alla gentilezza del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante, né
alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente cantata da L. Certamente,
tutte queste cose meriterebbero di essere chiarite con un’anahsi più accurata
degli scritti L.ani; e io voglio sperare che questa discussione possa invogliar
Lei, che ha studiato tutte le cose del nostro grande Poeta con tanto acume e
con tanto amore, a non staccarsene senza prima avervi gittate su la luce di
nuove ricerche. Maestro di vita L.? Bertacchi > si è proposto appunto di «
raccogliere dagli scritti di Giacomo L. e di comporre in multiforme unità gli
elementi dell’opera sua nei quali parlino più alto le feconde ragioni della
vita»: «quanto di sereno o di mcn ; triste ricorre neUe pagine del Nostro;
quanto di attivo e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal senti- j
mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar, ^ se pos’sibUe, la
figura del grande Scrittore ». Per dire la ' cosa più semplicemente e
chiaramente, egli intende illu- | j strare tutti gli elementi ottimistici
propri della poesia .‘1 L.ana. 1; Elementi che non mancano certamente nella
detta 'i poesia; e costituiscono la singolare caratteristica del suo j
pessimismo, come già osserva Sanctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo
che allo stesso concetto aveva accennato un ventennio prima Alessandro Poerio,
in una sua lirica rimasta inedita); e conferiscono infatti agli scritti di
questo dolente e de- I solato pessimista un’alta virtù educativa e
consolatrice. E molti studi diligentissimi furono fatti in questo senso i da
Negri, nelle sue Divagazioni, che pare siano t rimaste ignote al Bertacchi. Ma
c’è ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J
direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il, carattere dello
spirito L.ano, attribuendogli un ot- l timismo edonistico od estetico, che solo
un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un rft vita-. Sag^o L.ano, Il
poeta e la natura, Bologna, /a nichelli, igi?- stratto e superficiale può
vedere in alcuni aspetti della sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del L. è
la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della lenza dello
spirito, di quelle necessarie illusioni, come egli le chiama, a cui non trova
posto nel mondo, guardato come cieco crudele meccanismo naturale; ma che non
perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più vigorosamente: di guisa che il
suo mondo triste e doloroso viene da ultimo purificato e rasserenato in questa
intuizione schiettamente spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe
il suo proprio particolar significato, disgiunta dalla negazione pessimistica
della vita dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il
contenuto. In questa contraddizione intima tra la natura cattiva e lo spirito
buono che in sé accoglie la visione di cotesta natura, consiste proprio la
radice, da cui trae alimento tutta la poesia del L.; per intender la quale non
bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due elementi contradittorii.
11 Bertacchi invece crede di poter quasi cogliere in fallo il Poeta ogni volta
che il vivo senso delle bellezze naturali (poiché in questa prima parte egli
studia il Poeta in rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti
una sensazione di letizia; per modo che, contro r intenzione del Poeta, la sua
poesia tratto tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale ravvivata
dall’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia una fonte di
dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe attingere. Poiché, per lui, «
vita è sentire e far sentire il bello e il sereno di natura; vita ravvisare e
creare le fide corrispondenze con essa », e poi « l’uscirle incontro così, con
gli occhi luminosi di gioia o impregnati di pianto, narrarle le anime nostre,
consenta o contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti
e di modi, circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso sensibile le
conchiusioni jiiù nostre e i significati inattesi » ecc., e il Poeta studiato «
ne’ suoi fedeli commerci con la natura esteriore » apparirebbe maestro di vita
«spirito vigile e attivo. ])ronto a fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le
cose » che sdoppia e ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma la
vita di cui sarebbe maestro il L. è una vita di piacere | del piacere procurato
dalla intuizione estetica della natura. Tesi in parte ingenua e oziosa, in
parte falsa. Perché se si volesse dire soltanto che il L. insegna a guardare
esteticamente la natura e in generale a dar vita estetica al mondo sensibile,
questo sarebbe verissimo, ma così del L. come, più o meno, di ogni grande
poeta; e non c’ è nessun bisogno di dimostrare questa tautologia, che un’opera
d’arte, qualunque essa sia, è rappresentazione estetica; e quel che può avere
un interesse e un significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo un
artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la pretesa
d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico della bella natura una
vita diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi che questi ne avesse
avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra squaUida e buia, e gli occhi
di lui, senza ch’egli se ne accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la
luce di questa s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e
giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi candidamente esposto fin
dalla prima pagina del suo libro, come norma fondamentale del suo metodo
critico. Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che l’opera d’uno
scrittore non valga solo per sé, ma anche per il modo diverso ond’essa, quasi, si
adatta a ciascuno di noi », poiché « spesso dalla parola d’un autore, acco- r
stata alle anime nostre, si svolgono sensi ulteriori che l’autore non previde,
ma che le affinità degli spiriti e le somiglianze dei casi vi sanno
naturalmente ritrovare. Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via
di significazioni e di uffici ». Sicché L. maestro di vita è il L. dei sensi
ulteriori e non il L. storico; L. creato più che il creatore: creato,
s’intende, in questo caso, da Bertacchi. 11 quale, una volta sul punto di
creare, non è più legato da nessuno dei vincoli onde ogni critico e storico è
legato alle opere che intende interpretare; e può scegliere tra gli scritti
L.ani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti soltanto, in cui meglio può
vedere adombrata l’imma- I gine del maestro di vita che desidera raffigurare.
Così comincerà con lo scartare le prose ; perché « nella voluta terribile
aridità » di queste, « il pensatore sinistro svolge i suoi tristi argomenti, e
noi non abbiamo agio di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore
!) ; «egh non suscita in noi altro moto che non sia d’attenzione a quella sua
logica amara ». E il Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del L., e non
c’ è la natura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che non è poi
vero, se si considerano almeno la Storia del genere umano, il Dialogo della
Natura e di un Islandese, La Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli.
Pel Bertacchi le Operette morali sono filosofia e non poesia. Da scartare poi
le poesie in cui il Poeta «trasferisce nel canto quella materia medesima»,
malgrado «la maggior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar
musicale, dalle pur rare imagini che infiorano il discorso qua e là ». E con
questi caratteri il Bertacchi non si perita di designare, oltre 1 ’ Epistola al
Pepoli, la Palinodia ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante.
Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella donna ; definite «
Uriche anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » ! Scartate, almeno questa
volta, le poesie in cui il L. parla bensì diretto al nostro cuore {Sogno,
Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma cantando se stesso non esce dall’ambito
umano e sdegna ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal
caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora in sé in quanto essa
gli desti nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia provato
esso stesso ». Da escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento di
ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vincitore nel pallone) ;
sempre per lo stesso motivo, che « si resta, sebbene con ampiezza maggiore
nell’ordine voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il L. « canta
all’aperto » ed effonde il canto dell’anima al cospetto della natura: «vive con
la natura, o almeno, nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena
». Qui il ])oeta Bertacchi, creatore del creatore, può spaziare a suo agio nel
vasto cielo dei sensi ulteriori. Ecco; 1 paesaggi campestri, le scene umili o
grandi in cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta, sono sempre
evocati nei loro aspetti più belli ; soleggiati sono i suoi giorni; le sue
notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica in
un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro, riappare in Vita
solitaria con fresca dolcezza mattutina, attraversata dal sole che entro vi
trema sorgendo». E questa presenza della natura « non è senza effetto per noi
». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro ogni serena
bellezza, accampar le sue tristi fortune, o le innate sventure di tutto il
genere umano, o l’arcano terribile dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei
vuole, seguirlo nei suoi tristi argomenti, veder quella bella natura velarsi
del dolore di lui, sentir vivo il contrasto che si agita tra quel poeta e quel
mondo: ma, poi, non possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel
sereno che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e festi in noi quasi a
sé, quasi distinto dai sensi che il poeta vi associa, congiungendosi, anzi,
dentro di noi con quante visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi
si raccolsero negli anni ». Che sarà anche, come si sarà avver- t^ito, neh’
onda del verso — una poesia bertacchiana, un senso ulteriore, che L. non ci
mise (come ALIGHIERI (vedasi) della novella sacchettiana), ma non ha più niente
che vedere colla poesia del L. E dove pare si accenni a un giudizio critico,
non può essere altro che una vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore.
Così il Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la
tempesta « il poeta ha compromesso il filosofo versandoci con troppa pienezza
nel cuore tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle ore
descritteci. Che, come giudizio, è un errore, perché tutta quella poesia
traboccante è l’incarnazione deU’ idea stessa del filosofo, che nel Sabato non
si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette è il più gradito
giorno, Pien di speme e di gioia; Diman tristezza e noia Recheran l’ore »), ma
vive in tutta la rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la gioia
d’una speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità
della fanciullezza ma non quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange
l’uomo già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dileguate le
speranze lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere questa pietosa
malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica
donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole, cioè chiudere
gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un dualismo tra poeta e filosofo, e
d’un poeta che prende la mano al filosofo. O. c., p. IO. Altro esempio, o
L'idillio A llu Lufiu e 1 altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato
di tristezza, lasciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a
queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una sospensione fluttuante, nella
quale diresti che il poeta sia perplesso sul proprio stato » >. Ora, il
breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente il
piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del proprio dolore; il grato
«rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che l’affanno duri». E la
Vita solitaria fluttua soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e la sintesi
che ne è tema (neU’anima, s’intende, del poeta, e quindi in ogni parte della
sua poesia) tra la fresca c solenne beUezza della natura e il sospirante
solingo muto, che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri lo
sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni, alla reina FeUcità servi, o
natura »). Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in cui propriamente
il Bertacchi affisi la poesia del L. invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori.
Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo per esempio delle
Ricordanze che, dopo avere sentito col poeta, «poi è naturale, è umano che noi,
da parte nostra, riviviamo tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione di
rimpianto, quivi il poeta rievoca; che essi nell’anima nostra, non afflitta da
quelle cagioni, lascino pure qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le
stelle dell Orsa e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e j
viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come sorte da
noi, alle sensazioni già nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano, troppo
umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà poesia sulla poesia ?
Dovrebbe essere. Ma la poesia, per dir la verità, non so vederla nella prosa
agghindata, saltellante e retoricamente sonante del Ber- tacchi. « Ma il dono
che L. fece a se stesso ed a noi, godendo e mettendoci a parte di tante scene
serene, non è il significato maggiore della complessa sua opera, cede, per importanza,
alla virtù ivi profusa di vivere della natura e di comunicare con essa, quali
ne siano gli aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la
natura e lui, che era in se stessa, per lui, elemento e ahmento di vita ». «
Quelle mitologie che, sia pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi
la visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura d’arcano e di vago
che è tanto cara al poeta, conforme all’ inconscio e aU’ ignoto onde è come
infusa ed effusa la fanciullezza dei singoli, la giovinezza dei popoli. Momenti
e motivi reali, più che di pura idea, sono que’ tocchi ed accenni di cui
venimmo parlando; son temi di canto, perché ci son dati da tale che tutto era
uso ad avvolgere in aura di poesia i temi son temi e temi che, comunque, ci
attestano come la stessa malia delle sensazioni infinite fosse cagione per lui
a meglio indugiar sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri »
». Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama troppo spesso
cullarsi per jiagine e pagine, dove forse i sensi ulteriori gli soccorrono più
lenti alla fantasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un capitolo. Come Saffo
e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi liriche sorelle nate dalle
notti d’ Italia, aggiungono alle notti medesime qualcosa che prima non c’era.
Molti di noi certamente, in qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli
notturni, sentirono ripioversi in cuore un’eco di quei canti stellati, e
ripensando al poeta congiunto da quei canti a quei cieli, ridissero a se
medesimi. Egli è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi di
oratoria ritmica ; alla quale potranno non mancare gli ammiratori; ma in cui
non direi che sia ricreato i] L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio che
quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze ulteriori: per
esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture L.ane che il Comitato
della Dante Alighieri di Macerata istituì nel 1927 presso quella Università;
nella cui Aula Magna questo discorso venne pronunaiato; quindi pubblicato nella
Nuova Antologia. A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di letture L.ane
c’ è da essere assaliti da un certo sgomento, per la responsabilità che si
assume. E ciò per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si
rajjpresenta generalmente come un maestro di pessimismo; ed alzare una cattedra
a illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere perciò
tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a vecchie e
radicate tradizioni d’indifferentismo e scetticismo e di allargare il petto ad
energici sentimenti di fiducia nelle proprie forze e ad alte convinzioni di
fede nella vita che è chiamato a vivere. Oggi sopra tutto, che il popolo
italiano è raccolto nella coscienza di grandi doveri da assolvere e nel senso
della necessità di rifare nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti
civili, nella educazione della gioventù a maschi propositi e metodi di vita
l’antica fibra del carattere nazionale. E sarebbe questo il momento di
diffondere nei giovani e nel popolo gli ammaestramenti pessimistici del poeta,
la cui poesia non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di questa
vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla? Motivo grave di
esitazione e titubanza; ma che, lo confesso, non turba tanto l’animo mio quanto
l’altro che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella istituzione che oggi
si inaugura. Giacché chi abbia anche una elementare conoscenza della poesia
L.ana, sa bene che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito
gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiammato nei cuori la fede nella vita,
nella virtù e negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl
individui e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già altri
poeti e sopra tutto Dante, argomento di letture pel pubbhco, diventi anche lui
materia di quel malfamato genere letterario che troppo è stato coltivato negh
ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi delle «conferenze»; genere che
vorremmo avesse fatto il suo tempo, e potesse ormai relegarsi tra le smesse
abitudini dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’ Italiani si persuadano che,
se si vuol far davvero, e stare tra le grandi Potenze, ed essere un popolo
vivo, serio, temibile, realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla
testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e morale, bisogna romperla
col passato. Dico col jiassato dell’accademia e della «letteratura», dei
sonetti e delle cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame e colti signori
in cerca di onesti passatempi, più o meno noiosi; in cui ogni argomento era
buono purché leggermente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato con
oratoria adatta a mover gli affetti e guadagnare gli applausi: ma in cui né
dicitore mai, né ascoltatori debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di
parlare o di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con tutta l’anima,
e a pensare, a trarre da quel che si dice o si apiilaudisce, conseguenze che
siano norme di condotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si
dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui
oratore e pubblico, in buona fede, e anche in mala fede, compiono un’azione e
si preparano a compierne altre; e non vuol essere una predica, che debba
edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che nessuno vi sbadigh ma neppure
vi s interessi tropjio, nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito,
ognuno Si ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto con è venuto alla
conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si sviluppò durante il
Rinascimento, quando dall’umanista venne fuori il letterato, e nacquero,
fungaia che si estese rapidamente per tutto il suolo del bel Paese, tutte
quelle accademie dai nomi strani e burleschi che attestavano es«i stessi la
frivolezza dei propositi e la spensieratezza jegli studiosi perditempo che \’i
si riunivano; accademie, che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia
dalla nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resistono al sorriso,
al sarcasmo e al fastidio degli spiriti nioderni e alla storia, e vivacchiano
oscuramente sul margine dei bilanci dello Stato nelle provincie e anche nelle
maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a danno delie istituzioni più
utili e più serie. All’ombra delle accademie vegetò tutta la vecchia cultura
italiana, esanime e priva d’un profondo contenuto e interesse religioso,
morale, filosofico, umano; poesia senza ispirazione, filosofia alla moda,
erudizione per l’erudizione, scienza per la scienza, nessuna fiassione, né
anche nella letteratura politica, che legasse il pensiero alla persona e la
persona al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui l’uomo non era
cittadino della sua patria, né padre della sua famiglia, né credente della sua
religione, ma puro spirito innamorato di astratte forme, senza attinenza con la
pratica della vita e con la realtà degl’ interessi personali. Cultura
intellettualistica, di cervelli magari pieni zeppi di notizie peregrine e di
squisite nozioni e raffinatezze di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né
odi né amori. Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura, cioè
senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini proni alla frivolità
e agl’ interessi particolari, chiusi ad ogni alto e generoso sentimento e ad
ogni idea la cui attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile, MaiXrZoni e
L.. Chi non conosce queste debolezze dello spirito italiana nei secoli della
decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata
di quella cultura e di quella letteratura, e con Parini ed Allieri ha
cominciato a sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo e che poesia, come ogni
altra forma d’ingegno, vuoi dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa
che j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra le genti, come fu
delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe stata una creazione effimera ed
insignificante senza gl; Italiani ? Cioè senza Italiani che cominciassero a
unire e a fondere insieme quel che avevan sempre diviso, l’in. teUigenza e la
volontà, la letteratura e la vita, la scienza e gl’ interessi concreti e
attuali deH’uomo, facendola finita jier sempre con l’accademismo e con la
rettorica e con tutta la vecchia sapienza scettica dell’altro è il dire e altro
è il fare », per cominciare a prender sul serio tutto, a lavorare tenacemente,
a sentire come proprio r interesse comune, a stringere la propria sorte a
quella della patria, a sentirla perciò questa patria come intima a sé e tale da
meritare che per lei si viva e che per lei si muoia ? Chi non sa che la vecchia
Italia rifatta di fuori si doveva pur rifare di dentro? Questa almeno
l’aspirazione del Risorgimento. Ma venuto meno lo slancio morale di quell’età
eroica, tale aspirazione si attenuò e fu meno sentita; e nei riposati tempi di
pace e di raccoglimento succeduti al periodo agitato della rivoluzione e della
formazione del Regno, certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a
galla; nel rifiorire della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei
decennii ultimi del secolo scorso, in cui r Italia parve godersi le prospere
condizioni acquistate con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c
arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed elegante; e da
Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze
prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu imitato jn
tutte le principali città, e i conferenzieri più brillanti f celebrati
viaggiavano da una tribuna all’altra recando j„ giro le loro arguzie, i loro
motti ed aneddoti, le loro pagine patetiche e scintillanti, a gran diletto, si
diceva, del lor^^ pubblico di dilettanti di cultura a buon mercato. Perché a
certe conferenze, con certi nomi, di dire che l’ora é lunga a passare pochi
hanno il coraggio. L. non può esser materia di conferenze. Vi si ribella la
pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i luoghi solinghi
e i silenzi della notte dove il suo canto possa spandersi in una religiosa
elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito; dove il pastore
po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a fronte della natura, e ragionare
tra sé e sé de’ più gelosi segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa
austerità del suo spirito tormentato dal mistero del dolore universale. Non
amerebbe egli, schivo com’era e orgoglioso della sua solitaria grandezza,
mostrarsi al pubblico e far suonare la sua voce esile e tremante di commozione
in mezzo a un numeroso uditorio distratto e proclive a mondani pensieri e a
cure di frivola oziosità o di vanità letteraria. No, quanti amano il Poeta, non
tollereranno che anche L. venga alle mani dei pedanti, dei letterati, dei
conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto di vane esercitazioni onde
gli animi si alienino dai problemi che fanno yiensoso ogni uomo che viva e
rifletta sulla sua vita con vigilante coscienza morale. E io inizio questo
corso formulando il voto e, per cyuanto è da me, fermando il programma, che qui
sia sempre vivo e presente L. poeta, che è il L. degli uomini, e non L. dei
letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli e dei perditempo.
Giacché L. fu anche un erudito ap. passionatissimo ; anzi, ricorderete, si
rovinò la comples. sione e si precluse la via a ogni godimento della vita per
la furia con cui nella età più giovanile si gettò sugli studi per puro amore di
sapere. Per molti anni aspirò, finché la perduta salute e la vista indebohta
non gli ebbero create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo
consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia degli accademici, fu
anche lui studiosissimo, ancorché ironicamente guardasse dall’alto, per la
coscienza che ebbe del suo più squisito gusto e della sua più perfetta
dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma la sua anima non si
chiuse né nella filologia, né nella letteratura. Se ne servì come di strumenti
a vedere e sentire più addentro nel proprio animo, e di grado in grado elevarsi
alla sua forma di poetare. Egli (e la prova più manifesta è in quel suo diario
dello Zibaldone) visse sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando
la vita, studiando gli uomini, speculando sulla natura e sull’anima umana,
indagando i destini dei mortali e le forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e
nel suo iiensiero la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il suo
pensiero è una continua, commossa meditazione su se stesso, in forma che ora
rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge agli interni
occhi trepidanti. L., con diversa temperie spirituale e cultura diversissima, è
dell’età stessa del Manzoni : figlio di quella nuova Italia che guarda la vita
religiosamente, e ne sente il valore e la serietà; profondamente differente da
quella anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti italiani cominciarono ad
accorgersi che nella stessa poesia c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo;
l’uomo, che è legaio da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti della sua vita
a una divina realtà, governata da leggi che domano e annientano ogni arbitraria
velleità dei singoli; a una realtà, in cui il singolo uomo viene a trovarsi
nascendo da cui si diparte morendo, ma in cui deve inserire e jnserisce, con 0
senza frutto e vantaggio, ogni sua azione, ogni suo gesto, ogni sua parola,
ogni suo pensiero o sentimento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a
quello jella morte. Anche L., razionalista e irrisore di superstizioni e di
dommi, è uno spirito profondamente religioso, sempre faccia a faccia del
destino: incapace di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di
prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è sempre un sorriso
di austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato accoramento dell’uomo che
non riesce a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel mondo subbiettivo del
pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso dalla considerazione ine\'itabile
del mondo, in cui l’uomo, ed egli in particolare, si sforza di vincere il
dolore. Per questa sua costituzionale religiosità L. non fu soltanto un poeta,
ma fu anche un filosofo, allo stesso titolo e per la stessa ragione di MANZONI.
Bisogna intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam così, di professione, ai
filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi
risponderanno che L. filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee
speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti più affini al suo
modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta personale, perché non
furono fecondate da una sua speciale ispirazione. Accettò, riecheggiò, Ria
senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo, ordinarlo e potenziarlo a
nuova forma sua propria di verità. In una storia della filosofia ei perciò non
può trovar posto; quantunque di lui non si possa non parlare di stesamente in
un quadro della cultura filosofica della prima metà del secolo passato. In
questo senso, d’accordo, L. non fu un filosofo. Ma c' è un altro senso in cui
si deve parlare della filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia
dei filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare tutti gli
uomini, e non essere una malinconica fantasticheria di gente che viva fuori del
mondo. Ed è quello per cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi
sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh che, senza inventarne,
li cercano questi sistemi nei libri dove sono esposti, e leggono questi libri,
li studiano, ne fanno prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e
forza dello spirito, in cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal
fondo della loro anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non
saprebbero reprimere e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il
pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa intorno a
costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza tregua
assillati. Giacché, insomma, la filosofia, come la poesia, non è privilegio né
monopoho dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in fondo allo spirito
umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto, c’ è chi si distrae e corre e si
disperde per le cose e gl’ interessi esteriori, senza mai per altro dissiparsi
a tal punto nelle esteriorità da non portare in tutto l’accento, per quanto
leggiero, della sua personalità; e c’ è chi si ripiega e raccoglie in sé, e
dentro di sé cerca, trova e coltiva il germe della sua vita e del suo mondo. In
questo senso più largo e fondamentale il L. fu squisitamente filosofo: e stette
sempre anche lui con gli occhi intenti, ansiosi, sopra il mistero della vita,
quale ad ogni uomo che sente e che pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le
idee quotidiane, di tra il confuso agitarsi passioni svariate che gli
tumultuano incessantemente pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può
vivere così spensierato e abbandonato all’ istinto da non avvertire che la sua
vita non scorre tranquilla com’acqua sopr^ un letto già scavato e terso. Sono
sempre ostacoli da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora
appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore; e la gioia offuscata sempre
dal dolore, che, vinto, risorge in mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna
vicenda di vittorie e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e disinganni,
giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire totale di tutto, un
disseccarsi e inaridirsi definitivo della sorgente stessa, a cui l’uomo accosta
ad ora ad ora le sue labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci
atterrisce prima di colpirci, toghendoci per sempre e annientando intorno a noi
tante delle nostre persone care, con cui ci era comune la vita, in guisa che la
morte loro ci pare la morte di una parte di noi. E che è questa morte ? e che
questa vita che precipita fatalmente nella morte ? Che è questo bisogno di cui
viviamo, di non arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una tutte le
nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie, ci priva di tutti i nostri
beni, ci chiude dentro mille ostacoli. ci combatte, c’ insegue, ci sbarra la
via, e non ci concede tregua finché non ci abbatta per sempre ? Nascere è
entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede sempre nuove e maggiori
forze, e una volontà sempre più agguerrita, per vincere una battaglia sempre
più aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti 0 lenti,
rispondere all’appello delle cose, della natura, del destino, che ci attende, e
ci spinge a nuove fatiche per soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta
la nostra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men difficile: ma
per tutti è una scala, che bisogna salire; salire sempre; da un gradino
all’altro: sempre più senza fermarsi mai. Ma, appena l’uomo che ha un cuore,
sente quest affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la catastrofe” non
può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta ché par destinata a una
sconfitta assoluta egli abbia forz. sufficienti, o se non sia un’ illusione
questa jier cui egfi confida a volta a volta di poter affrontare la lotta
stessa per conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei
la vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia mette in moto la sua attività; e
se egli non debba aprire gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco
inesorabile della natura, granello di polvere sperduto nel turbine, o ruota di
un ingranaggio universale, il cui combinato movimento non s’arresterà né
devierà mai, e dentro i] quale ogni sforzo di volontà non può essere, esso
medesimo, al pari delle idee e dei sentimenti che lo sollecitano, se non un
necessario effetto di una causa necessaria predeterminato ab eterno in eterno.
£ il mondo, in cui si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa
neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi dentro di esso,
tutt’uno con tutte le altre cose, anche noi mossi dalla forza irresistibile del
destino ? 0 siamo noi veramente capaci di metterci di fronte a ciuesto mondo,
modificarlo con la nostra opera, con la nostra volontà, e al di sopra delle
ferree leggi del meccanismo naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo
nostro innamorato dell’ ideale, instaurare una legge che sia la norma del bene
e di un mondo spirituale dotato di un valore assoluto ? E se non fosse
possibile questo mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male, e c è
una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe pensare lo stesso mondo
inferiore e quella natura spietata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui
affermazione implica che si ritenga vera? E se a questo mondo superiore, alla
cui esistenza occorre l’attività libera dello spirito che sceglie il bene e si
apprende alla verità resping^n*^ contrario, se ne contrappone un altro che è la
nepzione della hbertà, come si farà ad ammettere che sia libera la natura
umana, circondata e condizionata da una natura che è l’opposto della hbertà ?
Pensieri, che il filosofo più esperto mette in formule stringenti, e scruta a
fondo; ma che confusamente, e non perciò meno tormentosamente, affiorano in
ogni umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la fede di
cui ogni uomo ha bisogno per non fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un
passo senza credere di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta innanzi a
lui da raggiungere, e che quella è la via buona per giungervi. E quando questa
convinzione gli manchi, e gli manchi del tutto, allora non gli resta che
rifugiarsi nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi
termini, ma per gh uomini che pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono.
Nessuno invece sentì mai cosi acutamente come il nostro L.. nessuno vi pensò
mai con tanta insistenza, e ne trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il
L. se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta in senso
stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni filosofiche non gli rimasero
nella testa; ma gli scesero al cuore, e \'i si abbarbicarono, e furono la sua
persona, lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento, in cui \ibrò a volta
a volta tutto il suo cuore. La sua concezione della vita, come or ora vedremo,
si chiuse in poche idee, ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa
fiamma della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in accenti e fantasmi
di poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata
e del sapere speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e si stende
in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e far sua, e viverne
anche, ma elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da sé, e mediandosi, cioè
svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo vivente della sua
individualità, in guisa da parere che non senta più né affetti, né passioni, né
gioie, né dolori, assorta nella contemplazione del suo oggetto. Laddove la
poesia, lungi dall’alienare da sé il soggetto, lo stringe a se stesso, e lo fa
vedere immediatamente così come esso è, dentro di se medesimo, chiuso nel suo
sentire, fremente nel brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere
e nel suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e
disindividuato. Lo scienziato cerca e trova la verità che è di tutti,
astrattamente obbiettiva, in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi
umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa; e il poeta in^’ece non
cerca e non trova se non se stesso: l'amore o qual’altra passione gli detta
dentro le parole in cui egli si esjirime. In questa immediatezza, spontaneità e
quasi naturalità dello spirito poetico è il segreto della miracolosa potenza
della poesia, raffigurata dagli antichi nella virtù incantatrice della lira di
Orfeo, che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che riflettono, ma le
fiere che solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda anch’essa cultura
e finezza spirituale, risultato di studio e di educazione, s’appiglia al cuore
dei semplici e delle moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non
per virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto,
immediatamente, quasi per divino miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù
diffusiva dell’arte è senza paragone superiore a quella della filosofia. Perciò
quella filosofia, che fu nel L. sentimento e diventò sublime poesia, ha una
potenza infinitamente maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e se si
chiudesse nel gretto circolo di una concezione pessimistica della vita, non
sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento di educatori del popolo italiano
erigere qui una cattedra a commento ed esaltazione di essa. I filosofi, per
raggiungere la loro verità, devono salire l’erta faticosa del monte; e giunti
alla cima, vi restano per solito in una solitudine magnanima, anche a malgrado
della moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti si traggono
dietro il popolo, toccandone il cuore anche lievemente, con quella loro arte
che « tutto fa, nulla si scopre ». L. è tra essi; ma materia del suo canto è la
sua filosofia. E qual è dunque il contenuto di questa sua filosofia ? Quello
che abbiamo già detto dei problemi filosofici, che spontaneamente sorgono dal
fondo del pensiero umano, ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita
intellettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei problemi
martellò il suo pensiero; e di quei problemi vagheggiò soluzioni, che scossero
profondamente il suo animo. E sono i problemi fondamentah o massimi della
filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno di assicurare all’uomo la
fede che gli è indispensabile per vivere: la fede nella propria libertà; ossia
nella possibilità che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo giudizio, di
conoscere una verità, di agire, e farsi un suo mondo, conforme cioè alle sue
aspirazioni e a’ suoi ideali e non dibattersi vanamente in una rete di illusioni
e di sforzi infecondi. Bisogno, rispetto al quale ogni filosofia materiahstica,
evidentemente, è una filosofia fallita; la quale, logicamente, se l’uomo non si
risolvesse da ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad abbandonarsi
all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come ho detto, al suicidio. Ora Giacomo
L., ogni volta che si trovò a fare di proposito una professione di fede, fu
esplicito nel manifestare la sua adesione alla filosofia sensualistica e
materialistica; e il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, inserito nelle
Operette morali, è una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per
altro, si ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti in prosa e in verso.
Poiché da per tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente
rappresentata nel Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa e
non si cura dei desiderii né delle sofferenze umane; natura grande, enorme,
infinita, la quale racchiude in sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che
pretende di contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle proprie
tendenze, conformarla a quei fantasmi di una vita bella ideale, che egli si
finge e pretende di far valere in concorrenza della dura, quadrata realtà che
lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni umana velleità, e
aggioga l’uomo al dominio universale delle leggi di natura: dove non c’è bene
né male, ma tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa che lo
determina, non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o
volere, che non deriva da un principio autonomo, che si faccia centro di una
vita superiore e indipendente, avente in sé la propria misura, ma è effetto del
generale meccanismo, che si abbatte sulla così detta anima umana attraverso le
sensazioni e gh appetiti che queste producono. Filosofia materialistica,
dunque. Ma è questa, in conclusione, la filosofia del L. ? Io \’i invito a
riflettere che c’ è due modi di giungere a conclusioni materialistiche : uno
proprio degh spiriti poco sensibih, che, raggiunte quelle conclusioni, vi si
rassegnano: le trovano inevitabili, e si fanno un dovere, il cui adempimento
non costa a loro grande fatica, di accettarle senza reazione di sorta; e
l’altro invece proprio di quegli altri, che se non trovano la via di affrancarsene,
e scoprirne l’errore e la manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro, e
vi si ribellano con tutta la forza del loro sentimento, che ò come dire della
loro stessa personalità. I secondi non riescono ad affisarsi tanto nella
visione di quella natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo,
da restarvi come assorbiti, dimenticandosi affatto di queste esigenze, e cioè
della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce appunto da
questo stridente contrasto, di cui essi infine vengono a fare l’esperienza, e a
vivere. La realtà finale, al cui cospetto vengono a trovarsi, non è una sola,
ma duplice: da una parte, la natura disumana, in cui tutte le luci onde
s’illumina la via dello spirito si spengono; e dall’altra, questa realtà
fiammeggiante e splendida, che arde dentro di loro, e alla cui luce, infine,
essi comunque guardano e vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di una
affermazione, in cui lo spirito umano manifesta la fede che ha nelle proprie
forze e nella propria capacità di distinguere il vero dal falso, e di
appigliarsi al primo in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì di
fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale, meccanica, chiusa
e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di libertà;
ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello spirito ad
essa: dello spirito, che è una realtà dotata di attributi contrari a quelli con
cui vien pensata l’altra. E per ammettere questa, bisogna ammettere prima
quella ; senza la quale mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si chiede tale
ammissione. E chi dice pensiero, dice libertà. Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo
cioè col nostro pensiero, con la nostra volontà, crearci il mondo che ci
sorride alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose belle e buone,
a cui il nostro cuore tende con irresistibile slancio ? E come spiegar l’ali,
onde noi vorremmo innalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano sul
muro di bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e stringe da tutte
le parti, dalla nascita alla morte? Ecco l’esperienza del L., ecco la sua
lìlosofìa, che è molto ]ùù complessa del semjjlicismo materialistico; ed essa è
il reale contenuto della poesia L.ana: quella filosofia fatta sentimento e
persona, che ho detto esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale non
si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché la ricca e
sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la negazione del
materialismo; e poi perché egli è un poeta, e come ogni poeta crede nel suo
mondo, lo prende sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più luminosa della
sua capacità creatrice e della sua libertà. Si consideri che questo è uno dei
caratteri principali dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato,
l’uomo religioso, lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà che
prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca scientifica, alla sua preghiera o
alla sua speculazione, che è in sé quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo
deve arrendersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e, prescindendo
nella sua fantasia dalla realtà preesistente, celebra la sua assoluta libertà,
arbitro della nuova realtà che egli si finge, e in cui vive, e si aliena dal
mondo naturale dell’uomo comune e della sua stessa vita ordinaria: sì che il
suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga a orizzonti infiniti, e gli fa
sentire il gusto deH’cterno e del divino. La poesia del L. ribocca e freme di
trepidante tenerezza per le vaghe immagini figlie dell’arte sua: per quelle
dolci parvenze che un po’ gli sorridono e poi, a un tratto, lo abbandonano
rapite via dalla corrente di quella disumana realtà, che ignora il dolore che
essa cagiona ai cuori teneri e gentili. E insieme con le immagini belle, gli
arridono tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari
agli uomini non ancora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non ancora
spinti dalla malsana riflessione alla disperazione (ji quella mezza filosofia,
che è il materialismo: le beate lar\e, che allietano e confortano la vita agli
uomini, nelle antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e della gioventù
quando non ancora si sono appressate le labbra all’amaro calice della vita; e
nelle prime ore del mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha
riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con 1’ immaginazione una che lo
anima e alletta alla nuova fatica. Le beate larve delle illusioni naturali e
necessarie : di tutte, cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che
quella filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate di un
legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare dallo spirito umano. Perche
illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea onde ebbe pregio il mondo ?
Perché la vita che noi conosciamo, risponde il L., ne è la negazione. Ricordate
il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeggere? L’almanacco
promette per l’anno nuovo tante cose belle; ma il passeggere è scettico;
«quella vita eh’ è una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa che
non si conosce; non la vita passata, ma la vita futura ». La quale però un
giorno sarà passata, e allora si conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa,
una volta sperimentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro è il
mondo che vi finge lo spirito; il mondo, dice L., delle illusioni. Lì è la
virtù che vince il male e trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì
è l’amore; lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non è il
mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga, e diventi passato. La
realtà realizzata, quale noi possiamo averla innanzi a noi, ed effettivamente
conoscerla, quella ci disillude, e ci dimostra che la virtù è un nome vano. e
che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più cari finiscono nel nulla.
Tant’ è che Tuomo conchiuda o per condannare come semplici ombre fallaci tutte
le illusioni, e dire che la vita non si può governare se non in rapporto al
reale all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o per risolversi
animosamente a dir no a questo mondo reale (che è il passato senza futuro) e a
governarsi con l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di essere
pensante, e perciò creatore di ideali e vagheggiatore di una vita superiore a
quella puramente naturale. E L. dice questo no con tutta la forza del suo
animo, con tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto proteso verso
il futuro, verso l’ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla
legge fatale che incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata necessità di
morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il brutto poter che ascoso a comun
danno impera e V infinita vanità del tutto. Per lui Nobil natura è quella Ch’a
sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato. E quanto a sé non
cederà certo ; e alla morte può dire: Erta la fronte, armato, E renitente al
fato. I.a man che flagellando si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar
di lode. Non benedir. Solo aspettar sereno Quel dì eh’ io pieghi addormentato
il volto Nel tuo virgineo seno. Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima
umana pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi
dialoghi; vivi, e sii grande e infelice. Infelice perché grande; perché sentire
la infehcità è solo jelle anime grandi, che con la loro gagharda natura si
jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e regnano sovrane in quella
superiore realtà che è propria dello spirito. L. sa che la grandezza del suo
dolore si commisura alla grandezza del suo pensiero che lo sente e analizza e
ne fa materia al suo altissimo canto; e che un’anima volgare e torpida non
saprebbe provare tutto il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e
irride. L. sa che la coscienza dell’umana miseria è già segno di grandezza. Sa
che ancor che tristo, ha suoi diletti il vero: che l'acerbo vero, a
investigarlo, dà un amaro gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e
stanca della vita che non mantiene mai le sue promesse, si riduca infatti
all’estremo della infelicità, che non è la disperazione, ma la noia >, la
morte ncUa vita, non dolore né piacere, ma il sentimento della nullità, questo
terribile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha provveduto perché non
ha neppur sospettato che l’uomo vi potesse cadere; quella noia che, a
simiglianza dell’aria «la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri oggetti,
e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri oggetti non gli
rimpiazzino », « corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che
lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche
allora l’anima non cade, non è vinta. Giacché, secondo L., « la noia è in
qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Il non potere essere
soddisfatto da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia.
La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili, anche i più
crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del bene, a tutti fuorché
alla noia» (Zibald.). Zibald., Giuntile, Manzoni e L.. alcuna cosa terrena, né,
per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello
spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco
e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi
infinito, e 1 universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro
sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accu- sg^re le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto, e pero noia, pare a me
il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana.
Perciò la noia è poco nota agh uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla
agli altri animali » Su tutte le delusioni, su tutti i dolori, su tutte le
miserie, al di sopra della mole sterminata di quest’universo, in cui
s’infrangono tutte le speranze e si spengono tutti gl’ideah, l’infinità dello
spirito. Quindi la hbertà, quindi la possibilità di crearsi una vita superiore
degna delle più nobili aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel L.,
poca scienza pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce
la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura, che la mezza
filosofia del materialista ci rappresenta in voley mutyignu, è pur quella
natura che mette nell’animo nostro le illusioni; e se non sopravvenga la
riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo non più contento delle
condizioni naturali della vita che egli dapprima vive istintivamente, conforta
l’uomo con l’amore, con la pietà, con tutti gli affetti gentili che riempiono
il cuore di dolci consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68.
Questa natura che governa Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi,
nei tempi oscuri e favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella prima età
di ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro immaginare la speranza nel
futuro a cui egli va incontro; questa natura, che nell’amore torna sempre a
rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere una « verità piuttosto che rassomighanza
di beatitudine»; essa torna da capo, quando l’uomo ha tutto conosciuto il
tristo vero e vuotato il calice amaro, torna a confortare l’uomo, amica e
consolatrice. La natura del materialista è via; ma non è punto di partenza, né
punto d’arrivo. 11 savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio,
l’uomo è alla presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che
tutto travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del pensiero,
dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici
della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il
filosofo al suicidio, Plotino può rispondere : <iPorgiamo orecchio piuttosto
alla natura che alla ragione»'. alla natura primitiva « madre nostra e dell’universo
», la quale ci ha infuso un certo senso dell’animo, che è amore degli altri e
che ferma la mano al suicida ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si
dorrebbero della sua morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe
togliersi la vita, il filosofo più savio, il maestro, Plotino dirà: Viviamo, e
confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita dei mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a tenerci
compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.E
quando la morte verrà, allora non ci dorremo : e anche in quell’ultimo tempo
gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che
saremo spenti, cosi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò
Sanctis paragonando Schopenhauer a L., notava questo grande divario tra n
filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette in luce il
deserto desolante e disamabile della vita, tanto più ce la fa amare; quanto più
dichiara illusione la virtù, tanto più ce ne accende vivo nel petto il
desiderio e il bisogno. Perciò la lettura del L. non sarà mai pericolosa, anzi
salutare e corroborante a chi saprà leg- gergh nel fondo dell’anima. E di lui
può dirsi che preso per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero,
è uno dei più sani e vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto
della vita operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della
fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare minacci sempre da
lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni fatica, e della
nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la stessa morte al Poeta,
nella maturità piena della sua poesia, quando il suo animo ha più nettamente
ravvisato e sentito nel profondo la sua verità, e quasi toccato il fondo di se
stesso, diventa germana di Amore, che è pel L., come s’ è veduto, ciò che dà
verità più che rassomiglianza di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso.
Amore e Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle Altre il mondo non ha,
non han le stelle. Morte diviene una bellissima fanciulla, dolce a vedere; e
gode accompagnar sovente Amore: E sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti
d’ogni saggio core. Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica,
come merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo L.ano,
Treviso, bongo e Zoppelli, Il Poeta sente che Quando noveUamente Nasce nel cor
profondo Un amoroso affetto. Languido e stanco insiem con esso in petto Un
desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale D’amor vero e possente è il
primo effetto. Il Poeta vuol rendersi ragione di questa coincidenza, e non vi
riesce. Ma ben sente che quando si ama, non ha più valore la vita naturale
dell’ inditdduo chiuso nei suoi limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita
natura che fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore scopre che
la sua vera vita è di là da questi hmiti; e che bisogna ch’egli perciò muoia a
se medesimo, e spezzi r involucro della sua individuahtà naturale, centro di
ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte opti gran dolore,
ogni gran male annulla. Perciò la morte è liberatrice, affrancando lo spirito
umano dai vincoli onde ogni uomo è da natura incatenato a se medesimo, chiuso
in sé, in mezzo agli altri esseri e forze naturali, incapace di libertà e di
virtù. Amare è redimersi, entrare nel mondo morale, che è il mondo della
libertà. Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa la materia del
suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che attraverso il corso di queste letture,
che inauguriamo, tale concetto apparisca in luce sempre più chiara. Pubblicato
la prima volta negli Annali delle Università toscane (Pisa) e come proemio alla
edizione con note delle Operette morali di G. L., da me curata, Bologna,
Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette morali come una raccolta
delle varie parti, in cui il libro è diviso, sarebbe tutt’altro che agevole
stabilirne la cronologia. Certo, non sarebbe consentito di starsene alle
indicazioni fornite con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi alla
terza edizione iniziata a Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte
nel 1824, pubblicate la prima volta a Milano, ristampate in Firenze
coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere, e
di quello di Tristano e di un Amico; tornano ora alla luce ricorrette
notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, del
Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio. Intanto, non tutte le
Operette furono pubblicate la prima volta a Milano; giacché tre di esse, come «
primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’
Antologia e quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo
Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle che
nella notizia testé riferita sono assegnate dall’autore furori composte; perché
l’autografo originale, che è tra le carte L.ane della Biblioteca Nazionale di
Napoli, ce ne Scritti letterari, ed. Mestica, li, fa sicura testimonianza con
le date apposte alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13
dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo in cui ciascuno
scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o ne cadde il motivo
fondamentale e inspiratore nell’animo del L.. Giacché con qual fondamento si
toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a documento di quel periodo
spirituale che si suole infatti atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna
con i Frammenti dal greco di Simonide (appartenenti probabilmente a quello
stesso tempo), e l’epistola Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri
che sono caratteristici delle Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già
osservato j che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che sono fra le
carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti staccati senza indicazione di
tempo » 3, è segnato un Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal
Chiarini, Vita di G. L., Firenze, Barbèra, e da me riscontrate tutte sul
manoscritto autografo (che si conserva tra le Carte della Biblioteca Nazionale
di Napoli): Storia del genere umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo
della Moda e della Morte; Proposta di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e
di Sallustio; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo; Dialogo di Malamhruno e di
Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della
Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo di un Fisico e di un Metafisico;
Dialogo della Natura e di un Islandese; Dialogo di Tasso e del suo Genio
familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini, ovvero
della gloria; Dialogo di Ruysck e delle sue Mummie; Detti memorabili di Ottonieri.
Dialogo di Colombo e di Gutierrez); Elogio degli Uccelli; Cantico del Gallo
silvestre; Note, Da N. Serban, L. et la France, Paris, Champion, I Avvertenza
premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle carte napoletane, Firenze, Le
Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo, sul proposito di quella parlata
della natura, all’uomo, che Volney le mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o
vero nel Catéchisme » dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di
Dialogo della Natura e di un'Anima) il quale, dunque, al tempo di quell’appunto
non era scritto. Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli
errori popolari degli antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa
cosa del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e riflessioni sopra diversi
luoghi di diversi autori, sull’andare di quelle ch’io fo in un capitolo del F.
Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è delle
ultime operette del '24. Ora, se questi appunti sono pertanto da ascrivere ad
epoca posteriore a tale data, in qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della
Natura e di un’Anima l’autore parlasse come di opera da comporre ? O egli non
aveva neppur composti i Detti memorabili, e si riferiva ai materiali che vi
avrebbe messi a profitto, e che già, come vedremo, possedeva? Comunque, in
altra serie di appunti, relativi, come par probabile, a dialoghi tuttavia da
scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra gli altri,
i seguenti argomenti: Salto di Leucade) Egesia pisitanato) Natura ed Anima)
Tasso e Genio) Galantuomo e mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco,
da capo, il Dialogo della Natura e di un’Anima, ma accanto a un altro dialogo.
Galantuomo e mondo, che l’autore abbozza, per tornarvi sopra nel '24, senza
condurlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto deve risalire. E
secondo lo stesso documento, contemporanei sono i disegni primitivi di altre
[Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto relativo, riscontrato per me
dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte L.ane della Bibl. Nazionale di
Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. quattro operette, due del '24 e due del '27.
Giacché, oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico, qui son
pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato la prima idea del Dialogo di
Plotino e di Porfirio > ; e nel Salto di Leucade quella del Dialogo di
Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore quella del
Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il documento certamente dimostra che del
Plotino e del Copernico, scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo
il concetto, ma anche la forma in cui il concetto si ])re- sentò alla mente del
L., non è posteriore alle Operette. E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci
dai documenti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate del 1824; ma
un’anahsi molto accurata dei singoli Detti, riscontrati coi Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in
questo scritto « liberamente il L. raccolse dal suo Zibaldone gh appunti più
singolari e umoristici; certo intendendo a una vaga e libera somiglianza e
rispecchiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di pubblicare qualche
parte del materiale accumulato giorno per giorno». Sicché s’è creduto poter conchiudere
che nell’ Ottonieri al L. « venne fatto un centone, non un’operetta come le
altre organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti un paio d’esempi, tra i
tanti che si potrebbero riferire. Nel cap. Ili dell’ Ottonieri si legge :>
Egesia infatti è ricordato nel Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il
Colombo e Pensieri. Questo dialogo infatti originariamente recava il titolo di
Dialogo di Filénore e di Misénore. Luiso, Sui Pensieri di L., nella Rassegna
Nazionale. Dice che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di commettere
infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o
crudeltà; come, a cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in
qualche suo passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla
pioggia; non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando
colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’inconsideratezza sia
molto più comune della malvagità, della inumanità e simili; e da quella abbia
origine un numero assai maggiore di cattive opere; e che una grandissima parte
delle azioni e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a qualche
pessima qualità morale, non sieno veramente altro che inconsiderati. Idee che
fin dall’ ii settembre 1820 L. aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi
Pensieri, scrivendo: La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza
e produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di esser considerata
come una delle principali cagioni della tristizia degli uomini e delle azioni.
Passeggiando con un amico assai filosofo c sensibile, vedemmo un giovinastro
che con un gros.so bastone, passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un
buon colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir nessuno.
E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno
di brutale irriflessione. Questa molte volte c’induce a far cose dannosissime e
penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più
ordinaria e giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci penare
il suo servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole; molte altre
volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non
ci curiamo di considerarlo e lo facciamo cosi alla buona; considerandolo bene,
noi non lo faremmo. Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo
stessissimo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta che
tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto, e
che la malvagità e crudeltà non abbia che fare col tuo carattere Pensieri di
varia filosofia e di bella letteratura, no Voltando appena pagina, nell’
Ottonieri si torna a leggere; Ho udito anche riferire come sua, questa
sentenza. Noi siamo inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci
avviene di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi
veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o qualunque altra
virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un abito
grande di meditare, e molta memoria, per considerare esse virtù ed essi pregi,
e tenerli poi sempre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o
non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra noi di
scoprirvele. E anche questo pensiero, quantunque in forma compendiata a mo’ di
appunto, era già nello Zibaldone; Noi supponiamo sempre negli altri una grande
e straordinaria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari che
sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando anche ricusiamo di
riconoscere in loro queste qualità rispetto a qualunque altra cosa. E il numero
di simili riscontri è tale che pochi sono i luoghi dell’ Ottonieri di cui non
si trovi la prima prova nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da
dire che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma definitiva a questa
operetta, facendone, come ad altri è sembrato, un centone di sue osservazioni
di tre e quattro anni prima ? Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri.
Anche del Parini è stato notato che la sostanza è già nei Pensieri [ b
Caratteristico questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini; Come
città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga all’eccellenza
nelle lettere e nelle dottrine; e V. tra gli altri B. Zumbini, Studi sul L.,
Firenze, Barbèra, - 04, II, 42; e Losacco, in Giorn. stor. letter. Hai., come
tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città grandi; perciò le
piccole sogliono tenere tanto basso conto, non solo della dottrina e della
sapienza, ma della stes.sa fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi,
che l’una e l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per
caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e di studi,
si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica, non tanto non le
accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte, quando anche famosa al
di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli uomini, la più negletta e oscura
persona del luogo. E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili
luoghi, che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti, né
perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva
talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la terra eh’ io soleva
attendere agli studi, e mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani
mi riputavano poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e
perito di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma
differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o favella
intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per questa loro opinione
mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore assai di tutti gli uomini dotti
degli altri luoghi. Ma se io li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina
fosse pure un poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora
moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che essa mia
dottrina non si stendesse niente più che la loro. Mirabile pagina, piena di
verità. Ma essa trae origine da riflessioni jiersonali e autobiografiche già
dal L. segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820; Spessissimo quelli che sono
incapaci di giudicare di un pregio, se ne formeranno un concetto molto più
grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò
la stima che ne faranno sarà infinitamente minor del giusto, sicché
relativamente considereranno quel tal pregio come molto minore. Nella mia
patria, dove sapevano eh’ io ero dedito agli studi, credevano eh’ io possedessi
tutte le lingue e m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi
stimavano poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc.,
insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e per T
ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano paragonabile
ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che avevano di me. Anzi uno
di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A voi non disconverrebbe di
vivere qualche tempo in una buona città, perché quasi quasi possiamo dire che
siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che le mie cognizioni fossero un poco
minori ch’essi non credevano, la loro stima scemava ancora e non poco, e
finalmente io passavo per uno del loro grado Né soltanto la cronologia diventa
un problema di difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.
I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento del
pensiero del L. astratto dalla forma che esso ha nelle Of erette. Che se si
guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la superficialità del
giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri non sarebbe nient’altro
che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si badi, d’altra parte, a non
prendere né anche questa forma in astratto, quasi la forma speciale del tale
passo delle Operette, il quale abbia un antecedente più o meno prossimo nello
Zibaldone (quantunque, pur così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente
diversa). Anche questa è una forma astratta; perché la vera forma assunta in
concreto da ciascuna parte di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione
con tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di quel certo
atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò componendola. Sicché un
centone si può certamente trovare anche in un’opera che abbia una salda e
vivente unità organica, ma solo pel fatto che si prescinda da questa unità, e
si cominci a indagarne il contenuto, decomposto meccanicamente nelle singole
parti, Pensieri, dalla cui somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare che
l’opera risulti. Che è quello che è stato fatto per le prose L.ane da tutti i
critici che se ne sono occupati, ora considerando e giudicando le singole
operette ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse in una serie di
frammenti facilmente rintracciabili in altri scritti, in verso e in prosa,
dello stesso L. (dando l’idea d’un L. che ripeta inutilmente se stesso), o in
precedenti scrittori, massime francesi del secolo XVIII (in confronto dei quali
poi tutta l’originalità dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il
L. abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato ogni ricerca analitica e
mortificante di fonti e confronti, fermo nella dottrina, che è sua gloria,
dell’ inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò
della necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera nell’accento
personale, nell’ impronta propria, onde ogni vero artista trasfigura la sua
materia; non s’è guardato tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti,
la cui serie forma il contenuto del libro, anzi che nel tutto, nell unità, dove
soltanto può essere l’anima e l’originalità dello scrittore. E ha creduto di
poter cercare, per così dire, un L. in ciascuna delle operette, presa a sé,
invece di cercare il L. di tutte le operette, che sono un’opera sola. In primo
luogo, sta di fatto che, ad eccezione del Venditore di almanacchi e del
Tristano, con cui nel '32 l’autore volle tornare a suggellare il pensiero delle
Operette, tutte le altre pullularono dall’animo del L. nello stesso tempo, da
un medesimo germe d’idee e di sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che
il Copernico e il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei vagheggiava il
suo Tasso, il Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e meditava insomma quegli
stessi pensieri, che presero corpo nelle Operette del '24; con le quah infatti,
poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano accompagnarsi. 11 all’amico
De Sinner, che gh chiedeva scritti inediti da potersi pubblicare a Parigi,
scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere aggiunti alle Operette, l’uno di
Plotino e Porfirio sopra il suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del
genere umano. Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a vostro
piacere: solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la
copia. Esse non potrebbero facilmente pubbhcarsi in Italia. Ma avvertiva
subito, che da soU questi dialoghi non potevano andare; e tornava a scrivere al
De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite abbiano un interesse
sufficiente per comparir separate dal corpo delle Operette morali, al quale
erano destinate»*. Quanto al Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è
del ’25; cioè immediatamente posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad
ogni tentativo fatto dall’autore per pubblicare le Operette. Alle quali, nelle
edizioni parziali e totali fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore
non potesse pensare ad includerlo a causa del crudo materialismo che vi è
professato, c che le Censure non avrebbero lasciato passare. Ma, lasciando per
ora da parte queste cinque operette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore
d’almanacchi e Tristano) che vennero successivamente ad aggiungersi alle prime
venti, è certo che queste venti, composte tutte di seguito in un anno di lavoro
felice, furono dall’autore scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E
quando ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che le singole
operette potessero venire in luce alla spicciolata. Nel novembre del ’25 sperò
poterle pubblicare Epistolario, Firenze, Le Monnier, * Epistolario, nella
raccolta delle sue Opere, che un editore amico voleva fare allora in Bologna;
e, andato a monte quel disegno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del
Giordani, al quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un editore:
con tanto desiderio di vedere stampata la sua opera, che scrive impaziente a
Papadopoli : « I miei Dialoghi si stamperanno presto, perché se Giordani, che
ha il manoscritto a Firenze, non ci pensa punto, come credo, io me lo farò
rendere, e lo manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus- seux
il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel
manoscritto che gli avevate confidato, dal quale abbiamo estratto alcuni
dialoghi, che troverete riferiti nel n. 61 dell’Antologia, ora pubbhcato, eh’
io ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio fervido desiderio
di vedere il mio giornale spesso fregiato del vostro nome; e più del nome
ancora, dei vostri eccellenti scritti. Sento che queste Operette morali
verranno probabilmente pubbhcate costà, e ne godo assai pel pubblico, e per
voi, tanto più che sembrano meglio fatte per comparire riunite in una raccolta,
che spartite in un giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu
altro che un saggio. Del quale L. scrive all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi
stampati ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio, e però furono
così pochi e brevi. E soggiungeva 1 « La scelta fu fatta dal Giordani, che
senza mia saputa mise l’ultimo per primo; affermando così che tra i dialoghi
c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo posto. Proponendo pertanto la
stampa dell’opera intera all’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella
veduto [Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47. » Nell' Epist.
del L. 3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E
penetrato, ed ha avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella veduto il Saggio
delle mie Operette morali ? Le parlai già. in Milano di questo mio manoscritto.
Ne abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il manoscritto
passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito per lei ?... Tutte
le altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve ne ha parecchie di
un tono più piacevole. Del resto, in quel manoscritto consiste, si può dire, il
frutto della mia vita finora passata, e io 1’ ho più caro de’ miei occhi » '.
Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di quel mese lo Stella rispondeva : «
Ho letto il Saggio ; ed ella ha ben ragione d’amar cotanto quel suo
manoscritto. 11 fascicolo dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma
l’editore non credeva di poterne tuttavia sperare altresì l’approvazione per la
stampa Avrebbe provato: intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E
il L. subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi sento molto lusingato e
superbo del voto favorevole che ella accorda alle predilette mie Operette
morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del ms.
d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di mio carattere.
Sarei ben contento se ella volesse e potesse esserne l’editore.... La prego a darmi
una risposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà » i. Lo Stella,
per saggiare le disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di
ristampare nel suo Nuovo Ricoglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’
quali », scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un opuscolo a parte
che mi farà strada a pubblicar tutte queste, da 0 . c., Lei chiamate Operette,
che lo saranno per la mole, non pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il L.
affret- tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella stampa
fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella assumesse Tedizione del
libro intero ; che il 26 si disponeva a inviargli : « Debbo però pregarla
caldamente di una cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i manoscritti
che non passano. Mi contenterei assai più di perder la testa che questo
manoscritto, e però la supplico a non avventurarlo formalmente alla Censura
senza una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o che sarà restituito
in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto partì infatti sulla fine del mese
per Milano 3, e lo Stella j)oté informare l’autore d’averlo ricevuto. poi gli
scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi restano, vo leggendo le Operette
sue morali, le quali quanto mi allettano.... altrettanto temo che trovar
debbono degli ostacoli per la Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello
di darle prima nel Ricoglitore, per poi stamparle a parte, e in fine fare una
nuova edizione di tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento delle
care Operette ? La proposta ferì al vivo l’animo del L., che, a volta di
corriere, il 31 rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’ è
altro mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente la
prego ad aver la bontà di rimandarmi il manoscritto al più presto possibile. O
potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre inedite al dispiacer
di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubblicata a brani.... » 5.
Furono infatti pubblicate in volume l’anno seguente, come l’autore ardentemente
desiderava, conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti operette, nate
come venti capitoli di un’opera sola. All’unità della quale ei certamente mirò
nell’ordinamento definitivo che fece delle singole parti, quando le ebbe
condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come tenesse a rilevare e attribuire
al Giordani l’inversione avvenuta nei tre dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti-
mandro doveva essere l’ultimo, egli avA^erte. Infatti era stato scritto dopo il
Tasso-, ma era stato pure scritto prima del Colombo. Anzi nell’ordine
cronologico • era quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente fin da
principio era destinato al ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella
edizione milanese del '27. È invero un’apologià del libro; e l’apologià non
poteva essere se non la conclusione e il giudizio, che, nell’atto di Ucenziare
il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma, nel passaggio dall’ordine
cronologico a quello ideale che L.ebbe da ultimo ragione di preferire, non
soltanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il Dialogo di un Fisico e di
un Metafisico e il Dialogo della Natura e di un Islandese, scritti
successivamente, con un solo giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve
opportuno frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, a
cui il L. pose mano appena finito quello della Natura e di tm Islandese. È
ovvio che senza una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed è ovvio
Mtresì che la ragione non potrà consistere se non negli scambievoh rapporti da
cui questi dialoghi eran legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che
i vari scritti devono per lo più esser nati già con questi rapporti, l’un dopo
l’altro, secondo che il pensiero germoghava via via nella sua spontaneità
organica; ma dove Cfr. sopra, p. io6, n. i. una ripresa di idee già non
sufficientemente svolte, e il risorgere di un’ ispirazione che era parsa
esaurita, traeva l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che l’ordine
cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e alla coerenza del
pensiero. Così il Tasso, scritto appena levata la mano dall’ Islandese, nasce
come un anello che salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico; e
se l’autore scrive il Timandro, bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese
agli antecedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere esaurito il suo
tema; credere perciò di potersi arrestare a quella fiera rappresentazione
finale AtW Islandese: e quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro.
Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse riattirato verso il suo
lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni, e condotto innanzi a sbalzi fino alla
fine dell’anno, quando fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei
operette in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un gruppo distinto, nato
da questo risorgimento, seguito al Timandro, del motivo ispiratore delle
operette. Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’organismo e unità
dell’opera L.ana, se questa unità non si trova effettivamente nel suo intimo.
Ed è vero. Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa bene in luce con
lo studio interno del hbro, potrebbe anche apparire inutile tutto questo
preambolo, indirizzato ad argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine
non meno vero che non si trova quel che non si cerca; e che l’unità delle
Operette L.ane, ritenute generalmente una semplice raccolta, aumentabile (con
la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, come tutti
fanno), o riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie scelte di
prose L.ane) non si è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti
questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne essenziale. Intanto,
lo spostamento osservato del Timandro epilogo, in origine, delle Operette, ci
ha condotto a scorgere un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli
scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre
il Timandro, destinato ad epilogo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo
distacco formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia la forma di
un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il
destino del genere umano a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si
può a ragione considerare come un prologo; le diciotto operette intermedie,
formanti il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre gruppi, di
sei ciascuno, come tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del L.. Innanzi
al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa dell’ ispirazione originaria,
si spiega il secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si
compie, (]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo della Natura e
di un Islandese. Precede, e inizia la trilogia, un primo grujipo, aperto dal
Dialogo d’Ercole e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui
all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sottentra un eroe della
potenza dello spirito immaginato dalle superstizioni moderne, un mago, Malambruno,
dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo. Farfarello. Disposizione
simmetrica, sulla quale non giova certo insistere troppo, ma che non può
apparire arbitraria o fortuita quando si osservino gl’ intimi rapporti
spirituali onde sono insieme congiunte e connesse, in tale ordinamento, le
diverse operette. Ascoltiamo dalle parole stesse del L. la nota fondamentale di
ciascuna operetta; e vediamo se le varie note degli scritti appartenenti a
ciascun gruppo non forniino per avventura un solo ritmo. Cominciamo dal primo
gruppo. Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche Qja il peso della
Terra, come aveva fatto già parecchi secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e
si riposi un poco. j(a la Terra da allora è diventata leggerissima; e quando Ercole
se la reca sulla mano, scopre un’altra novità più nieravigliosa. L’altra volta
che l’aveva portata, gli « batteva forte sul dosso, come fa il cuore degh
animali; e metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al
battere, si rassomiglia a un orinolo che abbia rotta la molla »; e quanto al
ronzare, Ercole non vi ode uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante, « che il
mondo finì di fare ogni moto o ogni romore sensibile; e io per me stetti con
grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che
m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e
l’epitaffio che gli dovessi porre. È lo stesso grido, come si vede, de La sera
del dì di festa'. Kcco è fuggito 11 dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar
succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov’ è il suono Di
quei popoli antichi ? Or dov’ è il grido De’ nostri avi famosi, e il grande
impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e
l’oceano ? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa li mondo, e più di lor non si
ragiona. Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la Moda, sorella
germana della Morte, vien a dirlo essa questo perché alla Morte stessa: poiché
i soh frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i « lacci
dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono soltanto «l’itale menti»; i
costumi «di questo secol morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e
pgj. cui il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e riscoperti dai
filologi, « se in tutto non siam periti » t La Moda spiega infatti aUa Morte:
«A poco per volta ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato
in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere
corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabih che abbattono il corpo
in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali
ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come
dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con
verità che sia proprio il secolo della morte ». Morti gli uomini, spenta la
forza dei corpi, infranto il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano
macchine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine». L’Accademia dei
SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro bando di concorso per l’invenzione
di tre macchine, che restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta
costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa, quale fu una
volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna:
quella donna, che fu r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata come
la « sua donna » da esso il L. : Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro
ha nome. Or leve intra la gente Anima voli ? o te la sorte avara Ch’a noi
t’asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti ornai Nulla spene m’avanza 3 .
Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv. 3-4. » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna.
fbbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo «espedientissimo che gh
uomini si rimuovano dai negozi jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a
poco diano luogo, sottentrando le macchine in loro scambio. Questa I la morte
dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degh ideali che già
fecero virtuoso e magnanimo l’uomo antico, finito con Bruto minore; il quale
non può sopravvivere alla maledizione scaghata alla stolta virtù, che ei
respinge da sé nelle cave nebbie e nei campi dell’ inquiete larve. Onde se un
romano, e 5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio, d’infiammare i soci alla
battaglia, parlando ad essi non solo delle ricchezze, ma dell’onore, della
gloria, della libertà, della patria, affidate alle loro destre, un moderno
lettore d’umanità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo di
Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo, a norma di rettorica,
richiederebbe. La patria ? Non si trova più se non nel vocabolario. La libertà
? Guai a proferir questo nome. Di essa, dice il L., che ne sa anche lui qualche
cosa « non si ha da far conto ». La gloria ? Piacerebbe, se non costasse
incomodo e fatica. Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa
«che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni occasione la patria, la
hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché il testo è da restituire, per travestirlo
alla moderna, facendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis, memi-
neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula, epulas, scorta,
animam denique vestram in dextris vestris portare. Animam vestram, la vita:
quella vita, che non hanno ! Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio
della vita [Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29 novembre *895: G.
Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L., Bologna,
Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e della morte, è in sospetto anche lui sia
cessata da un pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra uno
spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi rito dell’aria, un Folletto,
può dirgli infatti che «gjj uomini sono tutti morti e la razza è perduta ».
Mancati tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando parte mangiandosi
l’un l’altro, parte ammazzandosi nori pochi di propria mano, parte infracidando
nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando
in mille cose; in fine, studiando tutte le vie di far contro la propria natura
» ; studiandole tutte con queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che «
(juel- l’antico error, di cui « grido antico ragiona », onde fu negletta la
mano dell’altrice natura, come il L. aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il
nostro Scellerato ardimento inermi regni Della saggia natura ! Morto l’uomo; e
«le altre cose.... ancora durano e procedono come prima ». E l’uomo che
presumeva il mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto invece
crede fosse fatto e mantenuto per i folletti; come lo Gnomo per gli gnomi ! La
vanità umana pareggia essa la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti
spariti, la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono stanchi di
correre.... e le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare...
». La saggia, l’altrice natura non si commuove allo sterminio di sé a cui
l'uomo è tratto dal suo ardimento. Fu certo, fu {né d’error vano e d’ombra
L’aonio canto e della fama il grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo Inno ai
Patriarchi. Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa misera piaggia, ed aurea
corse Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai consueti ovili Né
guidasse per gioco i lupi al fonte Il pastorei; ma di suo fato ignara E degli
affanni suoi, vota d'affanno Visse l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta
contento della vita spontanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della
natura. Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è il
principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di restaurare
la sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo
sa* *; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano con piena potestà
di usare tutte le forze d’inferno in suo servigio, lo riapprende da Farfarello,
impotente a farlo felice un momento di tempo. La felicità è la vita che si
V’iva sentendo che mette conto di viverla: è la vita col suo valore. E il L.
pare la intenda come un diletto infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito
amore che ogni uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché
nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro desiderio
naturale. Onde il vivere sentendo la vita è infelicità; e questa non è
interrotta se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda l’uso dei
sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra vita ; e se vivere è sentire, «
assolutamente parlando », il non vivere è meglio del vivere. La vita non ha
valore. È, a rigore, l’ultima conclu- [Malambruno è Faust, non Manfredo, come
mostra d' intendere il Losacco, L.ana, in Giornale storico della letteratura
italiana, sione di quella premessa, che la felicità o valore della vita
consista nel diletto; il quale non può essere altro che limitato, e quindi mai
mero diletto, senza mistura di amarezza. Tale il concetto del primo gruppo
delle Operette, che pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al nulla:
ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta: poiché degna sarebbe
la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella
felicità è la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà,
con r irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma. Ed ecco il
problema e il tormento dell’anima di L.: l’uomo in faccia alla natura. La
natura, che è quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo, che è,
non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo avrebbe caro > che uno
risuscitasse per sapere quello che egli penserebbe della già sua vantata
grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uomini
morti e la natura viva, muta, indifferente. Problema affrontato nel Dialogo
della Natura e di un’Anima, il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice
all’anima, dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai
tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice ».
Giacché, come poi le spiegherà, nelle anime degli uomini, e proporzionatamente
in quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra cosa
sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle I Ben avrei caro che uno o
due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero
vedendo che le altre co.se, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano
e procedono come prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e
mantenuto per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna).
jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità proria; che è come se io
dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo « ha maggior copia di vita, e maggior
sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il niù
perfetto; e però è il più infelice. E il meglio è per l’anima spogliarsi della
propria umanità, o almeno delle (loti che possono nobilitarla, e farsi «
conforme al più stupido e insensato spirito umano » che la natura abbia jjjai
prodotto in alcun tempo. Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei
dialoghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco,
apparisce il destino dell’uomo : la cui storia non può avere altra conchiusione
che la rinunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col suo amaro
sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia e raccoglie nella Luna, come
immaginò l’Ariosto di tutto ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la
Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda, non solo la convince che
l’immaginazione ariostesca è semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo
dimostra che il linguaggio umano e relativo allo stato degli uomini, che la
Terra usa, non ha significato fuori di questa: e che insomma non ha base in
natura quello che gli uomini considerano pregio della loro ^^ta, e che, non
trovandolo fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione. Ma il concetto
più direttamente è trattato nella Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con
Momo (che è lo stesso spirito satirico pessimista con cui L. guarda la \'ita
nella sua vanità).'Perduta, perché Prometeo deve confessare che alla prova il
suo genere umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto genere
dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali, gli era fallito,
dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro- pofagi a quello più
incivilito dei suicidi per tedio della vita, il più sciagurato e imperfetto.
Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più oltre, quando a Londra vede
gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta ed entra, e scorge «sopra un
letto un uomo disteso su! pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel
petto e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti»:
sciagurato padre, che per dispera- zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se
stesso: (juan- tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di amore, e
favorito in corte: ma caduto in disperazione «per tedio della vita, secondo che
ha lasciato scritto. Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta
andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel primo
dialogo di questo secondo gruppo. E i due seguenti dialoghi hanno questo
argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita non
essere bene da se medesima, e non esser vero che ciascuno la desideri e l’ami
naturalmente: ma la desidera ed ama come « istrumento o subbietto » della
felicità, che è ciò che veramente vale. E questa, guardata più da vicino,
consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle affezioni e passioni
e operazioni, e insomma, non nel puro essere, ma nella sensazione dell’essere e
nel far essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia e la vuota
durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran numero e la gagliardia delle
impressioni, e cioè il tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e
la vita degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto meno infelice,
quanto più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né
disagio ». La vita vacua, che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte;
anzi peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso Metafisico
(che ha cominciato negando che la felicità sia vivere), «la vita debb’esser
viva»: cioè la vera felicita, in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il L.
così sente) non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata la
certezza nelle operette del primo gruppo; e che non è pura morte, ma la morte
sentita; la morte nella coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che
l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare perciò di far nulla
che abbia valore. La morte è dolore perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe
essere il pieno; la morte al posto della vita. E questo tedio è la malattia, il
segreto tormento del Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal
’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso al L. come suo spirito
gemello, al par di lui « miserando esemplo di sciagura: O Torquato, o Torquato,
a noi l'eccelsa Tua niente allora, il pianto A te, non altro, preparava il cielo.
Oh misero Torquato ! il dolce canto Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda. Cinta l’odio e l’immondo Livor privato e
de’ tiranni. .Amore, Amor, di nostra vita ultimo inganno. T’abbandonava. Ombra
reale e salda Ti parve il nulla, e il mondo Inabitata piaggia. Tasso medesimo,
che non trova nel mondo altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel
vago inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno alla realtà;
questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio ', e non si lagna
già del dolore, ma della noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli
pare abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli spazi interposti alle
altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un
corpo si parte, e altro non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente.
Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai
dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però. come nel mondo materiale, secondo
i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto»;
e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte di dolore parte di
noia. E la vita tutta uguale monotona del povero prigioniero immagine d’ogni
uomo di fronte alla immutabile natura — si viene via via votando cosi del
piacere come del dolore, e riempiendo tutta della tristezza soffocante del
tedio. L’uomo prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo,
in cui si presenta da capo la Natura a render conto di sé all’uomo: al povero
Islandese, che la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la vede
sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha innanzi, prima di morire,
in effigie di donna, di forme smisurate, seduta in terra, col busto ritto,
appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di volto tra bello e
terribile, occhi e capelli nerissimi, con 10 sguardo fisso e intento. Perché,
le chiede il povero errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’
tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere », e « per
niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto
o vi benedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita dell’universo è un
circolo perpetuo di produzione e distruzione. Ma, riprende 1’ Islandese, poiché
chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi quello che
nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose
che lo compongono ? E prima di aver la risposta 1’ Islandese è mangiato dai
leoni, già così rifiniti e maceri dall’ inedia, che con quel pasto si tennero
in vita ancora per quel giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e
il male dell’uomo, è la Natura che al principio ha detto aU’anima: Sii grande,
e infelice. La vita infatti È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché
vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa Matura
terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza
valore, non appena con la sua coscienza si stacchi dalle cose, e vi si
contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto nel primo
dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire) non ha posto
nella natura, che è poi tutto. Perciò l’anima è vuota, e la vita è tedio. E qui
potè parere al L., come osservammo, di aver esaurito il proprio tema; e,
prevedendo le facili critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso
libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro. Ma poi considerò che la sua
dimostrazione non era veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a
consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare Panimo addolorato ?
Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al
grande Recanatese b scrisse una volta. L.comincia uno de’ suoi Dialoghi,
inducendo la natura che scaraventa nel mondo un’anima con queste parole: Vi\d e
sii grande ed infelice. Io per me credo proprio il rovescio, e che le anime
nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole £ cosa facile
esser grandi uomini, se basti a ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la
via della infelicità; ma non l’aveva imparata egh quando produsse quelle
canzoni per cui Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene
sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte L.ana, raccolto nel volume La
donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della nuova Italia, Lanciano,
Carabba, Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo
»>. E il De Sanctis doveva osser\’are più tardi: «Quel suo nullismo nelle
azioni e nei lini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era
riempiuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca immaginazione, che gli
procuravano uno svago e gli fa, cevano materia di diletto quello stesso
soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo stato morale alla
riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato conforme
del genere umano. Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni
e immagini e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino
il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e
immaginare Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci
sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del
poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? Ma né il Capponi, né il De Sanctis
avvertivano cosa sfuggita al L.. È suo questo pensiero vero e profondo ; L’uomo
si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria
». E suo è ciuesto altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere di
genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando
anche dimostrino evidentemente e facciano sentire 1 inevitabile infelicità
della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad
un animo grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento,
disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e
mortifere disgrazie servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e
non trattando né rappresentando altro che la morte, gh rendono, almeno
momentaneamente, quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli,
Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo ora bene che, spente che sieno le
passioni, non resta negli studi aura Ebbene, sentire ripullular questa vita,
che il raziocinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno (ji
riprendere la dimostrazione. L. non affronta nelle Operette, né in altro dei
suoi scritti, il problema di questa vita incoercibile che risorge dalla sua più
fiera negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà, non superata nei primi
due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto l’argomentare della sua filosofia non
genera la convinzione che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma la
mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla misera Saffo « il velo
indegno », per rifuggirsi ignudo animo a Dite, e così emendare il crudo fallo
del destino. L’amor della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima che le
infinite difficoltà e miserie, a cui vanno incontro i grandi, « sono
ricompensate abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a
questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza
che essi lasciano di sé ai loro posteri. Ebbene, questa gloria, che già non
arride all’anima, quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure agli
occhi del L. questo mondo di morti, in cui gli sembrava di vivere. Filippo
Ottonieri, che è lui stesso, potrà esser « vissuto ozioso e disutile, e morto
senza fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser nato alle
opere virtuose e alla gloria ». Questa gloria, che è il premio della grandezza
e la sublime consolazione dei grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto
più sentiranno la loro infehcità, e più quindi saranno infelici, è la lode che
nell’animo degli altri e pei secoli riecheggia la lode stessa che il grande
tributa egli alla loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la
soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per
Taddietro, finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non potevo
comprendere, Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo genio.
La sua sostanza è veramente in questa lode interna e soggettiva: la sua
esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e ferma, e pare
consolidi il valore onde il genio vede illuminata la propria opera. L., nudrito
la mente dei concetti classici e delle idee materialistiche, cerca la realtà di
questa gloria, in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte le
miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in fatto altri verrà
tributando alla nostra grandezza. E perciò si trova in faccia al problema del
valore tuttavia superstite della grandezza spirituale, veduto in questa forma;
l’anima grande e infelice è destinata essa alla gloria ? o la speranza è
fallace, come tutte quelle che ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze? ' Ed
ecco il Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto di questa
gloria, specialmente nell’età moderna e nel mondo presente, da farla apparire
mèta inattingibile. Talché vien meno anche questa aspettazione, e al grande non
rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga, con animo forte,
adoprandosi nella virtù, perché la natura stessa lo fece nascere alle lettere e
alle dottrine. Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si possa
chiedere alla stessa eccellenza dell’animo, quando altra realtà, e fonte eventuale
di gioia, non si vegga da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual
porto rimane allo stanco spirito umano? Vivere infeUce ? Dovecanterà: O
speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età ! sempre, parlando.
Ritorno a voi; ché per andar di tempo. Per variar d'alletti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto. Inutile miseria. E sia; ma se non si può
né anche farsi un monumento della propria infelicità ? Sola nel mondo, eterna,
a cui si volve Ogni creata cosa.In te, morte, si posa Nostra ignuda natura.
Lieta no, ma sicura Dall'antico dolor. La risposta viene dai morti, che si
sveghano per un quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descrivono
questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale vivono immortah; senza
speme, ma non in desio, come le anime del limbo dantesco: Profonda notte Nella
confusa mente Il pensier grave oscura; Alla speme, al desio, l’arido spirto
Lena mancar si sente: Così d’affanno e di temenza è sciolto, E l’età vote e
lente Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza
sentimento. Vero porto, in cui il povero Islandese finalmente avrà pace, e in
cui si può giungere in un languore di sensi senza patimento, com’ è degli
ultimi istanti della vita, quando sopravvive solo un senso « non molto
dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel
tempo che si vengono addormentando. Dolce morte hberatrice ! Ma prima che la
morte ci abbia sciolti dal tedio ? Filosofare, come Filippo Ot- tonieri, il
socratico, che « spesso, come Socrate, s’intratteneva una buona parte del
giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con
alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata
dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre. non per farne trattati
(ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la filosofìa in iscritto
e irrigidir]^ in formule che non risponderanno piti ai mutevoli bisogni
dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e senza illusioni la vita, e
adattarvisi da saggio, tralasciando ogni vana querimonia: come aveva detto
Spinoza: non ridere, non liigere, neque detestari, sed intelligere. Questo r
ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile e morrà senza fama, ma «
non ignaro della natura né della fortuna sua »>. E con la sua pacata
magnanimità e la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate anche in
questa modesta, anzi umile coscienza del sapere, e quindi, per lui, del potere
umano. L’ Ottonieri vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e
persona. Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia ? Sì : c’ è
la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte vegliata
sull’oceano .sterminato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando all’amico
che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, ha posto la vita sua e de’
compagni sul fondamento d’una sem- phee opinione speculativa » che può
fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando altro frutto non venga da questa
navigazione, a me ]iare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un
tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli
molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,
come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso di
Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone,
restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io non so se
egli si. debba credere che ottenessero questo effetto; ma so bene che, usciti
di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo,
avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pure avuta più cara e più
pregiata che innanzi. Ciascuna pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto
dalla fxipe di Leucade. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione
eroica. O filosofare, dunque, come Ot- tonieri; o navigare come Colombo, e far
guerra al tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce ne
liberi. E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il Dialogo a Colombo e
Gutierrez L., nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza del valore e
quasi gusto della vita riconquistato mercé l’attività, di questa grandezza
felice, mette mano al bellissimo Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor-
gatagU dal pieno petto, al guizzo d’una immagine Ucta e ridente: di queste
creature amiche delle campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure
e lucenti, del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline e dolci
e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e rasserena e allegra gli animi; e che,
col perpetuo movimento e col canto che è un riso, sono simbolo di quella vita
piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno
amar la natura, che ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un medesimo genere
d’animali il canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ricreare gU
altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto ; donde ella si
spandesse all’ intorno per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di
uditori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che il poeta riceve da
questa vaga immagine degU ucceUi, che è già appagato il desiderio finale di
questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello,
per provare quella contentezza e letizia della loro vita ». Non ha cantato qui
anch’egU la gioia ? Cfr. Pens. E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di
cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e tocca
colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vibrante gli dirà
Tultima parola di questa filosofia della vita, attenuando bensì il tono della
lirica precedente, c smorzando l'entusiasmo, al quale mai come in questo caso
s’era abbandonata l’anima del poeta; e additandogli anzi lontano il pauroso
nulla di tutte le cose, e la morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta
infaticabilmente, ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del
puro e frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin- francatore. Sensazione già
nota al Poeta: La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo esulta nella
chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia L’abitator de’ campi, e il
sol che nasce I suoi tremuli rai fra le cadenti Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli sussurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge benedico. Canta il
Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno; « Il dì rinasce : torna la
verità in sulla terra, e parton- sene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi
la soma della vita : riducetevi dal mondo falso nel vero ». La fiera soma!
Meglio, meglio dormire, e non destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita.
Ad ogni modo », dice il Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c
canta questa corsa universale alla morte, « ad ogni modo, il primo tempo del
giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne La
Vita solitaria producono e formano di presente; giacché gli animi in quell’ora
eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto
alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei
mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovasi occupato dalla
disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la speranza, quantunque
ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la speranza risorgere ogni
giorno, anche se la sera finì nella disperazione ; e se il Gallo silvestre
paragona la vita dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va alla
notte, e alla vita umana che muove dalla heta giovinezza incontro alla
vecchiaia e alla morte: e se termina annunziando che tempo verrà, che la stessa
natura sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo
spazio immenso »; il dolce gusto della speranza mattutina e giovanile non è
distrutto: perché quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più tardi
l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà mai: e la vita mortale
ritorna sempre dalla notte al mattino, e la speranza risorge, e la vita rinasce
di continuo. Le operette dunque del terzo gruppo ricostruiscono, nella misura e
nel modo che si può secondo L., quello che le prime dodici hanno abbattuto.
Ricostruiscono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche la speranza
della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai precedenti; e fu
ritirato dopo le prime due edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita
del secondo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano e il Timandro
l’autore non voUe più il Sallustio] e lo rifiutò e gli sostituì il Frammento di
Stratone, collocato al diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il
gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di un'Anima e il secondo II Parini.
E il Frammento, lì sulla fine del- l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu
come l’interpretazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripiegatosi su se
medesimo, diede della propria intuizione filosofica: concezione, sullo stile
delle teorie cosmologiche greche più antiche, di un universo go\'ernato da pure
leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in fondo a ogni concetto
pessimistico del L.; onde si tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta,
l’immagine di quella Natura che eternamente passa, e che negli ultimi detti del
Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile e spaventoso. Si noti che il
Sallustio fu conservato tra le venti operette primitive anche nell’edizione di
Firenze. quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi dialoghi del
Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che in questa edizione invece
non potè entrare il Frammento di Stratone molto probabilmente per le difficoltà
già accennate, derivanti dalla materia di esso, poiché è il solo scritto
crudamente materialistico, che sia tra le Operette. 11 che, se si pensa pure al
fatto che il Frammento fu scritto quando L. aveva tuttavia presso di sé il
manoscritto delle Operette, e a\ rebbe già fin d’aUora pensato ad
incorporarvelo, se questa aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico
del hbro), dimostra all’evidenza che i dialoghi fiorentini, che sappiamo
scritti a Firenze due anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene ad
aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi: come avverrà del
Frammento, appena l’autore crederà potere e dover tralasciare il Sallustio, e
sostituirlo. Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde il Mestica I Cfr.
Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G. L., perché gli parve troppo scolastico e
di materia non [ abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso contenuti
siano conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco movimento e scarso
valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e
sull’attrattiva dello strano e del fantastico prevale nel lettore un senso
d’incredulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e forse anche
per rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar degli anni, il L. non
credè più che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e per opera di Cesare
e dei cesariani ». Più si è accostato al L vero questa volta il Della Giovanna:
« Forse egli si sarà I pentito delle parole crudissime che usa parlando della I
libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli f lamenta la mancanza
d’amor patrio e di libertà, ma in modo più vago ». Il Sallustio, in questo
cinico pessimismo, contraddice al motivo fondamentale delle Operette: logico
nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei sentimenti più
profondi, onde la personahtà del poeta abbraccia in sé e contiene, e tempera
quindi e solleva a un suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali
non sono qui un sistema filosofico astratto, ma l’alimento segreto di un’anima
che si riversa ed esprime in una poesia di grande respiro, la quale in tutta la
sua unità risuona all’anima del lettore come una musica, secondo che osservò un
amico del poeta, il Montani i, appena I operette morali di L., ’ Le prose
morali di L.Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non
vi è mai avvenuto una sera d’opera nuova, di entrare in teatro a sinfonia
cominciata, e imaginandovi un motivo musicale diverso dal vero, trovar men
bello e men significante ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando
VAntologia, or son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L. ancora
inedite.... io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il motivo della
musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette insieme unite, mi
parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne scrissi al
Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava potè leggere
tutta la collana delle Operette. Questo rrio tivo fondamentale facilmente si riconosce
nel preI^^]i^^ e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cor nice la
trilogia delle operette : ossia nella Storia del genere umano e nel Timandro:
due operette, che sono affatto estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio
di tutte le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re qua e là
s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e d’entusiasmo; a quello spirito,
che si può definire con le parole stesse con cui il L. ritrae se medesimo in
una lettera al Giordani (del tempo in cui forse raggiunse nel Frammento di
Stratone l’estremo termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al genere
degli studi che io fo, come sono mutato da quel che io fui, così gli studi sono
mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di
scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché il vero, che
ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e
toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e di inorridire
freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita
dell’universo ». Lo stesso animo, non altrettanto felicemente, ma con maggior
abbandono, esprimerà tuttavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli : Ben mille
volte Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde Per
volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati qui nel
più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di del Boccaccio),
dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo amico più non salirei
che a cappello cavato. Le operette del L. sono musica altamente melanconica. La
recensione contiene più d’una osservazione notabile. SuU’amicizia del L. col
Montani, vedi G. Mestica, Studi L.ani, Firenze, Le Mounier, (si ricordi il
Cantico del Gallo silvestre)] Della prima stagione i dolci inganni Mancar già
sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso immagini, che tanto Amai, che sempre
inlino all’ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al
tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e
solitario riso. Né degli augelli mattutini il canto Di primavera, né per colli
e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni
bel tate o di natura o d’arte. Fatta inanime e muta; ogni alto senso. Ogni
tenero affetto, ignoto o strano; Del mio solo conforto allor mendico. Altri
studi men dolci, in eh’ io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortaU E dell’eteme
cose.. In questo specolar gh ozi traendo Verrò: che conosciuto, ancor che
tristo. Ila suoi diletti il vero. Questo era stato il suo ideale nelle
Operette] speculare, scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e
inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che nel '25, nel caldo
ancora dell’opera, poteva credere di aver raggiunto già questo stato d’animo;
l’anno dopo egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente
che il suo petto sarà forse un giorno, non è ancora, al tutto irrigidito e
freddo; non è eterna la gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è
ancora del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inorridire e il
disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente è un desiderio, un
programma, un propo sito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni
bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso ogni tenero affetto
ignoto e strano. E questo sente liené e proclama il Poeta nel dialogo di
Timandro e di Eleandro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda fa
alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace' ed è insomma un
ottimista, il pessimista, che sente invece per l’uomo un’alta pietà, il futuro
cantore della Ginestra protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia
sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono nato ad amare, ho
amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva Oggi,
benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco
tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non mi vergogno a dire che non amo
nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è
possibile ». Dove ognun vede che realmente certo invinciliile pudore arresta
Eleandro innanzi alla conseguenza delle sue dottrine; e si ripigha subito
infatti: « Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io,
che esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per poca notizia che
abbiate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimonio ». L’amore degli
altri si ribella alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella all’
intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro che freddezza e petto
irrigidito! E da ultimo Eleandro conchiude; «Se ne’ miei scritti io ricordo
alcune verità dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per consolarmene col
riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare,
sconsigUare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione
del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, [Ed
ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più intitolare, come
aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli non era davvero
quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero Filénore
poteva dirsi l’ottimista. iniquità e disonestà di azioni, e perversità di
costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché
false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, \nrtuosi, e utili
al bene comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,
che danno pregio alla vdta; le illusioni naturali dell’animo; e in line gli
errori antichi, diversi assai dagh errori barbari; i quali, solamente, e non
quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della
filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da queste
illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si volgono gh occhi del L., il
mondo di Stratone da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese, come non è spiegabile
nel mondo che solo esiste per la scienza; ma non perciò è ignorato, o è
divenuto estraneo al cuore del Poeta. 11 quale non è Timandro, ma è bene
Eleandro; e a dispetto di quella natura, che è il vero, ama gli uomini e la
virtù, dichiarandola un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque
contradittoria a quell’altra natura, che non conosce né amore, né bene.
Inorridire freddamente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di sopra della
universale miseria, sentita come tale, e non assentirvi, non semplicemente
intelligere, come Spinoza avrebbe voluto. Così nella Storia del genere umano,
vero preludio alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto all’ uno
fondo di cotesta miseria, rappresentato dall’ap- parire in terra della Verità,
spunta egualmente una divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile
dei mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta,
commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infehcità; e
massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’ intelletto,
congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali egli vedeva essere
comunemente oppressi ed afflitti più IO.(‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi.
che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio»: ossia
appunto, della Verità. Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità,
propose agjj immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare,
come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro
progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a se,
indegni della sciagura universale. Tacciono tutti gli altri Deima si offre
Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo massimo iddio », che « non prima si
volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della
Verità ». Di rado egli scende, e poco si ferma, e perché la gente umana ne è
generalmente indegna, e perché gli Dei molestissimamente sopportano la sua
lontananza. EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la sua grandezza. La
quale perciò è condannata sì all’ infelicità del vero; ma è pur redenta e
beatificata da Amore. « Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri
e più gentih delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve
spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti
sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al
tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di
beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e
l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in
ambedue; benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli
occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché
la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata
dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per se qualunque
più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Ed ecco perché
il Poeta inorridisce, sia pur freddamente, allo spettacolo del tristo vero. La
sua anima è calda (iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità
(quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che né egli può respingere, né
altri egli ha consigliato mai a respingere. « Dove egli si posa, dintorno a
quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già
segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo
effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla
Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente
offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli
Dei ». Non può, cioè, la nostra logica non render l’arme all’arcano, che resta
pel Poeta questa natura, la quale mette in cuore il bisogno della virtfi, e la
fa apparire poi stolta a Bruto. Infine, quella stessa giovinezza e freschezza
mattinale, arrisa e ringagliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di
questo Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi
esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo
voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia.
Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce, per
tutto il tempo che egh vi siede, l’infinita speranza e le belle e care
immaginazioni degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’ suoi
diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con
isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri; e quando gli
udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe: tanto è da natura magnanimo e mansueto.
Qui non c’ è satira, né riso, né fredda anahsi; ma la più ferma fede e l’anima
stessa del Poeta, che con la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di
Elean- dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto amore tutta la
infehcità degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel gran mare
tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una
perpetua giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e della barbarie,
ma dell’affetto che lega le anime con nodi divini, e della bellezza, della
libertà, della patria, e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l’uomo.
Questo amore, che dà piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine, e
ristaura tutta la vita umana, questo è il vero spirito delle Operette morali. Pessimista, sì,
ma alla Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un roscau, le plus faible de la
nature] mais c’est un roseau pen- sant. Il ne faut pas que l’univers entier
s’arme pour l’écraser ; une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour le tuer.
d/a/s, quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore plus noble que ce
qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et l’avantage que l’univers a sur
lui] l’univers n’en sait rien\ sicché la grandeur de l’homme est grande en ce
qu’ il se connaU misérable E il L. nell’agosto del ’23, alla vigilia delle
Operette, e quando il concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente
dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e
nobiltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente
essere infinitesima parte di un globo che è minima parte degh infiniti sistemi
che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua
piccolezza e profondamente sentendola e intensamente riguardandola, si confonde
quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle
cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza;
allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova della sua
nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale,
rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées, (Brunschvicg). è jiotuta
pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e
può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della
esistenza e delle cose. Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità sulla
trista natura il L. non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua poesia, in cui
queste Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme e in
ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio a questo punto centrale,
da cui s’irradia la luce che tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione
del Sallustio, che è negazione fredda, senza l’orrore, la ri- beUione
dell’animo, il dolore, sia pur mascherato da amaro sorriso, che si diffonde in
tutte le altre. E questo parmi il giusto motivo che indusse l’autore a
sopprimerlo. Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva ispirazione diede
il Copernico e il Plotino, venutisi quindi ad aggiungere alle prime Operette
già formanti un organismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché il
Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore, la nullità del genere
umano; e la dimostra ripigliando un’ idea che contro i Timandri medievali
attardati aveano già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle ceneri
e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclusione necessaria che Porfirio
ricava nell’altro dialogo (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica
di tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragionevole uccidersi. Ed
egh vince a furia di argomentare (movendo da premesse, che son quel che sono,
ma a lui paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma Pensieri,
Plotino può opporgli una sapienza assai più profonda più vera: «Sia ragionevole
l’uccidersi; sia contro ragion^ 1 accomodar l’animo alla vita : certamente
quello è u ^ atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP elegger
piuttosto di essere secondo ragione un mostr^' che secondo natura uomo. Perché
contro natura e contro umanità il suicidio ancorché conclusione di logica
inesorabile? Porgiam’orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh
ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e
deU’universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti
infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo
stati noi coir ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata, colle
speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente,
si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con
trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande 1 alterazione
nostra, e diminuita in noi la jjo- tenza della natura; pur questa non è ridotta
a nulla né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno gran
parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai
non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo;
veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo;
e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai
saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro
genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli uomini,
non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione,
non senso della nulhtà delle cose, della vanità deUe cure, della solitudine
dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo, che possa durare assai: benché
queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata leggermente la
disposizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un subito, per cagioni
menomissime, e appena possibili a notare; rilassi il gusto della vita, nasce or
questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro
apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’
intelletto, ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo » •. E infine,
conclude Plotino, questo senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa.
Sicché è evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal Dialogo d’
Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di
Stratone, e poi nel Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della
sapienza L.ana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata stoltezza dalla
natura e da questo « senso dell’animo ». Senso dell'animo, che è sempre amore
per L. Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche un bisogno
d’amore, che a noi spetta di alimentare: « E perché », chiede Plotino, « anche
non vorremo noi avere alcuna considerazione degh amici; dei congiunti di
sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori, della moglie; delle persone
familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che,
morendo, bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor nostro dolore
alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e
per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E
dice la parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette, ma di cui può
dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma- Il solo, a mia notizia, che abbia
rilevato l’importanza che questo «senso dell'animo» ha nel sistema dello
spirito L.ano, come principio di redenzione dal pessimismo, è stato il prof.
Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni L.ane (6 volumi, Pavia, 1894-99), passim,
e specialmente voi. V, pp. lys-yy. 1gine di Bruto mancante ai funerali della
sorella: prae- fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero, colui che
si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca
se non la utilità propria; si gitta per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi,
e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi della vita,
apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale
amore di se medesimo, che si trovi al mondo. Dunque quella grandezza non è
infelicità; perché l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe se
vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo dell’utile. Ma la vera
vita è non sembianza, sì verità di beatitudine se è amore, in cui l’uomo non
distingue più sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa è
la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso L., che non è più il
dolore incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma questo amore che ci
stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di uomini, come
Plotino con voce tremante di affetto dice al suo Porfirio: «Viviamo, e
confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci
compagnia l’un l'altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».
Questo amore, che ci regge e riempie la vita, ci conforta la morte e ci
abbellisce l’idea di questo mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. « E
quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo momento
gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi
che saremo sjienti, così molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ».
Vili. Amore è la prima e l’ultima parola delle Operette. Le quali ebbero ancora
una ripresa nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Almanacchi e Tristano.
Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore
d’almanacchi col suo grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che
ricomincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il passeggero in cui
s’incontra oppone la sua fredda riflessione a quell’ impeto di vaghe e
indefinite speranze, e lo conduce a considerare che « quella vita eh’ è una
cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce ; non la
vita passata, ma la futura ». La vita che si conosce è la passata, mista di
beni e di mali, e a cagione di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe
riviverla: vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce, e che
sarà egualmente brutta quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta,
se noi ce la vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? L. non
conchiude ; ma la conclusione è quella che viene dalle Operette: sperare non è
ragionevole, poiché, come cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte;
ma non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro sarà brutto quando
sarà passato; ma bello è finché futuro; né di questo futuro potrà mai tanto
passarne che non ce ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi la
speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo intonare il suo canto consolatore.
E la vita resta sempre con queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una
miseria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro cuore, i nostri
fantasmi, le nostre speculazioni e il nostro amore, una beatitudine divina. Fu
per Giacomo l’anno della tragica prova della sua fede. Dopo dieci anni tornò la
misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però luminosa immagine della
fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del cuore stesso di Giacomo. Bello
il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non
fenno. A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E
dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo Non meno supplichevole Giacomo guarda ad Aspasia; onde
ricorderà: Or ti vanta, che il puoi. Narra che prima, E spero ultima certo, il
ciglio mio Supplichevol vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in
ridirlo Di sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni tua voglia, ogni parola,
ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir. E cadde
l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu « notte senza
stelle a mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido disperato ; Morremo ! --
e violenta cercò l’atra notte e la silente riva. L. scrisse invece Amore e
morte] dove la morte non è più l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta
la sua gentilezza fino alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella d’Amore ; 1
Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla, Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente; E
sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d'ogni saggio core £ la morte
sospirata dall’amante, nel languido e stanco desiderio di morire, che si sente
Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto, perché già a’
suoi occhi la vita diviene un deserto: a se la terra Forse il mortale
inabitabil fatta Vede ornai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il
suo pensier figura; Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in suo cor,
brama quiete. Brama raccorsi in porto Dinanzi al fier disio. Che già.
rugghiando, intorno intorno oscura. E a questa morte consolatrice, che insieme
con amore è quanto di bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano,
anzi con umile e mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro di religiosa
preghiera: Bella morte, pietosa Tu sola al mondo dei terreni affanni. Se
celebrata mai F'osti da me, s’al tuo divino stato L’onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai. Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina A disusati
preghi. Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o dell’età reina. Non già
che amore e morte abbian potere di cancellare la fatale infelicità: né che
l’uomo e il L. abbiano mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà
le penne al suo pregare, lo troverà Erta la fronte, armato, E renitente al
fato. La man che flagellando si colora Nel suo sangue innocente Non ricolmar di
lode. Non benedir. La morte è consolatrice e liberatrice da questo fato
crudele: ma già L. aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi addormentato il volto
nel vergineo seno di lei; e il fato è vinto nel suo animo gentile da questa
aspettazione: vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di Tristano; il quale,
dopo avere con amara ironia fatta la palinodia del suo libro, conchiude che il
meglio sarebbe di bruciarlo : « non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro
di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come
un’espressione dell’infelicità dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico
Tristano, con accento che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in
confidenza, mio caro amico, io credo febee voi e felici tutti gli altri; ma io,
quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infebeisshno: e tale mi
credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario ».
Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E di più vi dico
francamente eh’ io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al
destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco
desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa.... Né vi parlerei
così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie
parole.... In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che
hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con
qualcuno di loro. Oggi non in\'idio più né stolti né savi, né grandi né
piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri
àzH’antico dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della morte, è
fiducia confortata da una speranza che non falhrà, e che già allieta di sé
Tanimo sottratto per lei a quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e
stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema, poiché è un
passato irrevocabile: «Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero
dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia solitudine, e con cui vo
passando il tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire, adunque, quale il
venditore di almanacchi lo prometteva. In conclusione, ancora una volta, e
sempre, l’amore trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine da
quella vita che la natura e il fato danno all’uomo « di cedere inesperto ».
Cederebbe il suicida egoista, non il magnanimo che allarga la sua persona
nell’amore, e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae,
alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta differenza tra la morte di cui
Ercole ragiona con Atlante 0 quella che s’incontra nella Moda, al principio
delle Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge desioso alla fine delle
Operette stesse ! Il filo aureo che dall’una conduce all altra è già nella
Storia del genere umano'. Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu
pubblicato prima nel Messaggero della domenica, poi nei Frammenti di estetica e
letteratura, A proposito di L. toma sempre in campo la questione delia
differenza e del rapporto tra filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe
essere, e per certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo;
ma, d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distinguere una cosa
dall’altra, come res dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma più
sistematica e più razionalmente convincente esporre quel suo pensiero da cui
traeva intanto ispirazione il suo canto nelle poesie. E non importa se non ci
sia una sola delle sue poesie in cui il L. non ragioni la sua fede e non si
sforzi di dimostrare la verità del concetto ch’egli s’era formato della vita, e
che attraverso una determinata situazione personale, un paesaggio, un
’immagine, si sforza costantemente di mettere in piena luce. Non importa se
nessuna delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto la forma
di scolastica dimostrazione e scevra di quel sentimento, di quella viva commozione,
in cui \dbra la personalità del poeta così nelle Operette come nei Canti. La
distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non po- tenilo altro, se ne fa
una questione di quantità e di più e di meno: affermando che l’elemento
filosofico predomina nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si crede
così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare alla filosofia per
esser poeti, e viceversa: giacché la loro natura è così diversa e ripugnante,
che l’una non può esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata. Ma io non
voglio ora affrontare la questione, che potrà sembrare tanto teoricamente
difficile e dehcata uanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso di L. la
questione di principio è priva d’ogni interesse, perché il L., anche nelle sue
prose, è indubbiamente poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o
ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce se non ad
esprimere se stesso; a vivere di quella verità che gli invade l’anima e non gli
lascia modo di dubitare e di assoggettarla a quella più alta razionalità, a
quella critica oggettiva che s’inquadra in un sistema, e in cui consiste
propriamente una filosofia che non vuol dire che non abbia anche lui la sua
filosofìa; ma è una filosofìa fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo
del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare intera coscienza di
sé, e perciò di superarsi. E, cioè, un certo suo atteggiamento spirituale, che
s’effonde nella divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore a
quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente di formulare. Superiore
perché, ormai è noto agh studiosi più attenti della sua poesia questa ha pel
poeta un contenuto pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto
ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatalmente infelice, è ciò che
il poeta aveva innanzi agli occhi, vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché
quella \nta che ogni poeta canta non è quella che ha innanzi agli occhi, bensì
quella che ha dentro al cuore, e però ogni poeta canta non la vita quale egli
la vede, ma il cuore con cui egli la guarda; e poiché il cuore di L. era, come
egli disse una volta, nato ad amare, ed aveva amato, e forse con tanto affetto
quanto ]iuò mai cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del suo I Vedi
ora il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii. d. filos- Hai., e nel
voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vailecchi,-- canto non fu mai quella brutta
vita, che è piena di dolore, ma quell’altra che egli più profondamente sentiva,
redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che rassomiglianza di
beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e ottimismo: che il
primo vede la vita quale apparisce nella natura considerata dal punto di vista
materialistico, brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa
in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana bisognosa di amore e di
consenso, ossia di un mondo conforme alla sua vita e a lei consentaneo; e
l’altro invece crede nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia
dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale valore. 11 mondo del
pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui il dovere e la \nrtù sono mere
illusioni, e il mondo dell'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera
realtà è quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la verità è questa:
che il L., pessimista di filosofia, e ijuasi alla superficie, fu invece
ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista,
col progresso della riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista.
Basta confrontare la canzone All’Italia con La Ginestra. Di qui la sublime
bellezza della sua poesia, dove la bestemmia e lo strazio della disperazione si
smorzano e dissolvono nella commossa e tenera effusione di un’anima
angosciosamente agitata da un bisogno di amore universale e da un’ incoercibile
fede nella virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di
questo superiore ottimismo in cui rimane assorbita la sua iniziale visione
pessimistica; e continua a dire che la sua è sempre la filosofia del Bruto
Minore^-, ma l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella storia
del genere umano. Lett. al De Sinner -- realtà che è per lei la vera e suprema
realtà, raggiungo bensì la forma poetica della sua espressione in modo pieno e
perfetto. Se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico, ironista,
materialista piuttosto mediocre nell’ invenzione, dove riesce facile scoprire
quanto egli debba ai libri che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle
fonti ph, disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a conferma delle sue
idee: mediocre nell'esposizione od elaborazione della materia, per evidente
inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità coi grandi
pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il L. e si fermi a ciò che in lui è
mediocre, non ha occhi né anima per vedere che cosa c’ è propriamente in lui
che è vivo ed eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi la sua poesia
s’impone e suscita un’eco solenne nell’animo. In questo senso bisogna pur dire
che in L. non si deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima, che
rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima umanità. C’ è insomma il
poeta. Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di avere definitivamente
dimostrato con argomenti esterni, attestanti nella maniera più esplicita 1’
intenzione di esso L., e con argomenti interni, desunti dallo svolgimento del
pensiero e dagli evidenti legami onde le singole operette sono congiunte tra
loro per graduali passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal
primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma un organismo, un tutto
unico, che si articola dentro di se stesso e si conchiude. Si conchiude tra un
preludio e un epilogo in una opera, che è un poema, e non è un trattato: un
libro di poesia, anch’esso, e non di contenuto didascalico e speculativo. Il
quale si compone o ginariamente di venti capitoli, scritti tutti in un anno di
lavoro felice, ma con un intervallo tra i primi quattordici e gli altri sei: in
guisa da suggerire il sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima
parte, svolgendosi in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella prima
serie: dalla quale sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché
introduzione e questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie, si
ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in due gruppi
di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è destinato a svolgere un certo
motivo, e quindi forma un ritmo a sé. Sospetto confermato da alcuni spostamenti
dall’autore introdotti nel primitivo ordine cronologico, e poi costantemente
mantenuti, salvo una sostituzione che nella terza edizione del libro mise uno
scritto, per l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al posto di un capitolo del
primo gruppo: capitolo abolito allora perché infatti non armonico né col
gruppo, né con tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non può avere se non
una importanza relativa. £ ragionevole pensare che fosse voluta e curata
dall’autore. Il quale egualmente non volle mai rispettare l’ordine cronologico
nelle edizioni da lui curate dei Canti, e diede loro un ordinamento ideale, che
per lui aveva un \'alore, e che per i lettori ed interpreti non può essere
perciò trascurabile. Ma il fatto stesso che tutte e venti le operette furono
scritte successivamente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo, e
hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo, dimostra evidentemente che
i loro singoli gruppi non si possono considerare separatamente, quasi ognun
d’essi formasse un tutto a sé. La distribuzione del nucleo principale delle
Operette in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un capitolo
introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può servire soltanto a
renderci attenti per leggere le varie parti del libro cercandovi tre motivi
fondamentali che nel pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj
complessivo, e formano l’unità organica del libro; e in questo modo può servire
quasi di chiave a un libro, che fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo
l’uno o l’altro capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre dire che
ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere un taglio netto tra un gruppo e
l'altro, e una soluzione di continuità che non si sa perché l’autore avrebbe
dovuto introdurre una prima e una seconda volta nel corso della sua unica
opera. Discrezione che non vedo, per esempio, nel professor Faggi ', quando del
Dialogo di Malambrmio e Farfarello che resta collocato alla fine del primo
gruppo e da servire quindi come passaggio al secondo, mi domanda: « Ma non
potrebbe stare anche nel secondo, poiché è una affermazione chiara ed esplicita
dell’ infelicità assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta-
mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere ? ». Ma io non avevo
eretto nessuna muraglia tra il primo gruppo concluso da questo dialogo di
Malambruno e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura e di
un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero dominante nel primo gruppo, additavo
in Malambruno quell’anima che si ritrova di fronte alla Natura al principio del
nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi non un salto, anzi un passaggio
naturale e come insensibile ove non si osservi che quella che nel primo ciclo è
una constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel secondo ciclo il
problema. Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una nuova
edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Marzocco -- da me usate
incidentalmente, mi fa dire che la differenza tra primo e secondo periodo in
questa trilogia delle Operette consisterebbe, secondo me, in ciò: che nel primo
« r infelicità del genere umano si considera particolarmente nell’età moderna
come effetto più che altro della volontà pervertita dell’uomo e della civiltà
», e nel secondo invece, « questa infelicità si considera come legge
imprescindibile e ineluttabile dell’umanità o del mondo in genere»; sicché «la
Natura, che nella prima ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita
e di fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio di ogni male e di
ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo Zumbini tra la
prima fase « storica » del pessimismo L.ano, e la seconda metafisica o cosmica.
Ma non corrisponde per l’appunto alla distinzione da me indicata, tra il
concetto del primo e quello del secondo gruppo delle Operette. Nel primo, io
dissi, l’animo del poeta vien posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia
al vuoto della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché degna sarebbe la
vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella fehcità è
la natura; e l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con
l’irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ». Qui il
pessimismo storico è già superato, e Malam- bruno può dire che « assolutamente
parlando » il non vivere è meglio del vivere. Lo può affermare, perché la vita
umana, fin da principio e per sua natura, è senso, coscienza, e si è strappata
a quell’ ingenuità istintiva e affatto inconsapevole, che è pura animalità. «
Può parere », scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul- htà o
infelicità sia, nei dialoghi del primo gruppo, una colpa dei degeneri nepoti »
: poiché infatti civiltà è aumento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma
in realtà, fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo. c’ è già
il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Malambruno perciò è benissimo al
suo luogo alla fine del primo ciclo. Il secondo ciclo ricava la conseguenza
pratica della verità scoperta nel primo. E si apre infatti col Dialogo della
Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione del dolore con la grandezza
dell’uomo (il cui progresso e perfezione consiste nell’acquisto di sempre
maggior copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto il dolore
dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio spogliarsi deU’umanità, o delle
doti che la nobilitano, e farsi « conforme al più stupido e insensato spirito
umano che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare l’umanità,
rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta, rinunziare ad affiatarsi con la
Natura indifferente, che ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e
rassegnarsi alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo ciclo
addita aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è aperto tra lui e la natura, il
secondo gli fa sentire il destino a cui gli conviene di rassegnarsi,
rinunziando a quella natura che non è per lui, e a quella vita che soltanto
nella natura potrebbe spiegarsi. Il primo ciclo è una negazione, per così dire
teoretica; il secondo è la negazione pratica, che consegue dalla prima
negazione. La conclusione dovrebbe essere quella di Bruto minore e di Saffo, il
suicidio; non ò però la conclusione del L., il quale non finisce con r Ultimo
canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché quella di Bruto non sia la sua
conclusione è detto nel terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo
motivo: che quella vita che certamente non ha valore, perché è dolore e perciò
negazione della vita che noi vorremmo vivere, ripullula rigogliosa e
incoercibile dalla sua stessa negazione. La \àta è abbarbicata aH’anima umana;
e questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della gloria, la stessa
contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro da tutte le tempeste, come
la cantano i morti di Ruysch, attraverso una filosofia che sappia intendere e
sorridere con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso gli stessi
rischi in cui la vita si perde e si riconquista col gusto di una cosa nuova, e
in generale attraverso l’attività, il movimento, la passione e la speranza che
non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore che ci fa ricercare
nell’uomo, neW’umana compagnia, quello che la natura ci nega anche nella piena
coscienza della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e sente la gioia
d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo dalla natura. Una soluzione
dunque del problema della vita nei tre cicU delle Operette morali c’ è. Ma è
una filosofia ? È evidente che no: perché la via che filosoficamente si
dovrebbe seguire per superare il pessimismo radicale dei primi due cich è,
senza dubbio, quella per cui l’anima dello scrittore si avvia e spontaneamente
e vigorosamente procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì 10
slancio naturale dello spirito che risorge con tutte le sue forze dalla
negazione pessimistica. E il pessimismo, in linea di teoria, rimane la verità
assoluta e insuperabile. L. sente bensì e vive la verità superiore, ma non
riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli sperimenta in sé ed attesta
coi moti del suo animo la potenza dello spirito, che anche nell’uomo che
s’immagina scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza tirannica e
feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta la gioia di questa sua vita in
cui consiste la realtà dello spirito. E in questo balsamo, che il suo animo
sparge così su tutte le piaghe che ha aperte e che ha fissate inorridito, in
questa dolcezza che sana ogni dolore, in quest’ idealità che sopravvive a ogni
negazione, qui la personalità, qui è la poesia del L.. Così, ripeto nelle
Operette, come nei Canti. Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde si
conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di. scorso di Plotino,
con cui il libro tornò ad essere suggei. lato nelle aggiunte posteriori; e si
neghi, se è possibile, che il centro e l’accento principale dello spirito
leojiar- diano è in quel « senso dell’animo », com’egli dice, che, agli occhi
suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore, vincolo soave insieme ed eroico,
instaura un ordine morale inespugnabile a ogni riflessione scettica, e
superstite infatti (coni’ è detto nella Storia del genere umano) a quella fuga
di tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal sorgere della verità tra gli
uomini. L’animo del L., come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita,
anzi vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna d’esser vissuta,
per quel che dice appunto Plotino: «E perché non vorremo noi avere alcuna
considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei
fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche,
colle quali siamo usati di vivere da gran tempo: che morendo, bisogna lasciare
per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione; né
terremo conto di quello che sentiranno essi, per la perdita di persona cara e
consueta, e per l’atrocità del caso ? ». Questo non è un argomento filosofico,
ma un cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si sente come velata dal
pianto dell’anima che il dolore apre ed espande nell’amore. Ma è proprio vero,
torna a domandarmi il professor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola
delle Operette ? Ecco: che la Storia del genere umano faccia consistere tutto
il pregio, la bellezza e la felicità della vita nell’amore, mi pare sia così
chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non vedo
che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto che amore sia l’ultima
parola del libro. Non gli pare che sia nella prima forma di questo, quando
finiva col Dialogo a Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma definitiva,
quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo di Tristano e di un Amico. La
compassione di Eleandro, egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo
dialogo dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e Mis nore, cioè
odiatore dell’uomo, doveva essere L. ». Ma il Faggi non ha badato che (come
avrebbe potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte dall’autografo)
cotesto titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo,
non solo fu ideato quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto fino
alla fine della composizione del dialogo stesso. Sicché il concetto di
Mist'nore è puntualmente quel medesimo che vediamo incarnato in Eleandro: in
chi cioè non si oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si oppone
soltanto a chi, anzi che Filénore, merita d’esser detto Timandro, perché
eccessivamente valuta, col domma della perfettibilità progressiva, il potere
umano di impadronirsi della feheità. L’uomo del L. non è l’uomo vantato e
millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII e dai progressisti del suo
secolo: l’uomo dalle magnifiche sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo
vittima della natura e però degno di compassione. La compassione non è amore;
certo. Ma ne è la radice. E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del
genere umano, manda Amore fra gli uomini. Perché solo l’amore lenisce i dolori,
per cui si commisera l’infelice; e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido
che gli si sprigiona dal più profondo del cuore: Sono nato ad amare, ho amato,
e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », soggiunge.
Oggi non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie stesso, per
necessità di natura, e il meno possibile»- l’aggiunta è un’asserzione voluta
dalla coerenza del si' sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone al
dommatico ottimismo di Timandro; ma si smentisce subito continuando. Con tutto
ciò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione
di patimenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg una sorta di amore.
Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte questa morte (come credo
di aver chiarito abbastanza col riscontro di quel dialogo con i canti
dell’amore fiorentino, Aspasia e Amore e morte), non è la disperazione della
vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è la bellissima fanciulla che Gode
il fanciullo Amore Accompagnar sovente; la bella morte, pietosa, sospirata in
quel languido e stanco desiderio di morire che sorge col nascere d’un amoroso
affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano, non è rivolta contro
la vita confortata dall’amore, bensì contro quel volgare ottimismo che parla il
fatuo linguaggio di Timandro e deH’amico di Tristano. Vero è che per leggere L.
non bisogna tanto badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto in cui lo
dice, al tono delle sue parole, in cui propriamente consiste la sua anima, e
quindi la vita e il valore della sua prosa. Che io perciò desidero considerare
più come poesia che come argomentazione. E perciò non posso accettare quel che
il Faggi dice del Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare e dell’ Elogio
degli uccelli. Come mai, mi domanda del primo, «appartiene al secondo gruppo e
non al terzo ? Anche questo dialogo è senza dubbio.... una ricostruzione; e,
per questo lato. vale il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ».
Infatti, egli osserva, « non dee spaventare la differenza che c’ è fra un uomo
chiuso nelle quattro mura d’una prigione e un altro che corre a vele spiegate
1’ Oceano infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo genio
familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il grande Genovese nel suo
fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la maniera di fuggire la noia, questa
compagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto non ci venga da
questa navigazione, dice Cristoforo Colombo a Pietro Gutierrez, a me pare che
ella ci sia profittevolissima in quanto che per lungo tempo essa ci tiene Uberi
dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non
avremmo in considerazione. E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla
conversazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo da questo
datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche Uquore generoso, non andrà
perduto. Tutt’e due, tra fantasticare o navigare, van consumando la vita: non
con altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo se
ne può avere: e l’unico ‘intento che l’uomo deve proporsi ogni mattina in sullo
svegliarsi ’ ». Ora tutto ciò, se si guarda alla nota fondamentale dei due
dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo spunto del Colombo ci è indicato
dallo stesso L., che, come io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto
col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del dialogo va quindi
cercato nel passo che segue alle parole citate dal Faggi, dove Colombo dice: «
Scrivono gU antichi, come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan-
dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella
marina, e scampandone, restavano per grazia di Apollo, liberi dalla passione
amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero questo effetto; ma
so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco senza
il favore di Apollo avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pm-g avuta
più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na vigazione è, per giudizio mio,
quasi un salto dalla rupe di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(,
durevoli che quello non produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è
superiore assai. Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra,
essendo a ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita propria,
che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso rispetto giudico che la
vita si abbia da molto poche persone in tanto amore e pregio come da’
navigatori e soldati ». Non il consumai'e la vita è l'utilità del rischio, a
cui Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la gioia di riafferrarsi aUa vita
che nell’oceano sterminato si teme sfuggita per sempre: il gusto che si prova
per ogni piccolo bene, appena ci paia di averlo perduto, se lo riacquistiamo.
11 Colombo è questa gioia del pericolo vinto, ma che bisogna perciò affrontare
per vincerlo. Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il piacere della
vista di un cantuccio di terra: ma il povero prigioniero non conosce né spera
mutamento alla sua sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da parte i dolori,
la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può parlare perché ne ha
esperienza; ma che gh pare il destino universale degh uomini, quasi la sua
prigione fosse simbolo della natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo:
A me pare che la noia sia della natura dell’aria : la (juale riempie tutti gli
spazi interposti alle altre cose matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna
di loro: e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra, quivi ella
succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai
piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo
materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita
nostra non si dà vóto : se non quando la mente per qualsivoglia causa
intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo,
considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere
qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e
dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non
altrimenti che il dolore e il diletto. Che egli consumi pure un po’ di tempo
nel colloquio col suo Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier
confermarsi nella convinzione della sua immedicabile tristezza: «Senti. La tua
conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia
tristezza, ma questa per la più parte del tempo è come una notte oscurissima,
senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli,
piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o
trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio
risponderà con amara ironia che la sua abitazione è in qualche liquore
generoso. Ma il Faggi crede sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi
alla lettera ? « Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che ebbe pure la
strana idea di cercare negh scritti del Tasso l’eventuale fondamento storico di
questo tratto. Il quale, per chi legga la prosa L.ana con animo sensibile
all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può significare altro che un
realistico strappo che 1 autore vuol dare alla stessa poetica illusione
consolatrice del- r infelice prigioniero. E porgendo l’orecchio all’accento
commosso dello scrittore io credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli
lirica stupenda sgorgata al L. dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e
ridente, e come un canto di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli
uccelli un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj riflessione;
benché questa sia ravvivata dal soffio della poesia inerente al soggetto. Il L.
non intendeva di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no litario)
ma avverte subito da sé il carattere del tutto estrinseco del ravvicinamento, e
nota che « anche quello non è un canto di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo
il Faggi, il L. è filosofo, e non è poeta. « Non ha creduto di spogliare del
tutto la giornea del filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio,
filosofo solitario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico,
scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso. .Scrive, e ha
davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende in una lunga
digressione sull’origine e la natura del riso, suggeritagli dall’osservazione
che il canto è, come a dire, un riso che fa l’uccello ; e, intorbidando
l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo suo volea riposarsi, si lascia
attrarre a considerare il riso umano nello scettico, nel pazzo e nell’ebbro;
che non è più manifestazione sincera, o spontanea dell’animo, e non ha jùù
quindi relazione col canto degli uccelli ». Donde s’avrebbe a concludere che il
L. abbia voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una
tesi ritenuta da senno per vera, e industriandosi di dimostrarla nel miglior
modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera ci ammonirebbe il
poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre scandalizzato dalle forme
pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione mia fu di far poesia in
prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una mitologia ed ora un’altra ad
arbitrio; come si fa in versi, senza essere perciò creduti pagani, maomettani,
buddisti ecc. » Senza essere creduti perciò zoologi o filosofi, possiamo
aggiungere noi. E del resto a quella conclusione io non credo che il Faggi
abbia voluto andare incontro intenzionalmente, poiché egli pure vede «
l'imaginazione beta o serena in cui l’animo del L. volea riposarsi » ; e
rispetto alla quale gli uccelli non sono davvero gli uccelli dello zoologo;
ancorché nella tessitura dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze
delle sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui, della storia
naturale) ; ma sono appunto un’ immagine, simbolo di quella vita piena d’impressioni,
che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui espansione e penetrazione
nel cuore del poeta si vede bene dove a questo si svegha nell’animo un senso di
gratitudine verso quella Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli a
conforto degli uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu notabile prowedimento
della natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in
guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla voce, fossero
per l’ordinario in luogo alto, donde ella si spandesse all’ intorno per
maggiore spazio e pervenisse a maggior numero di uditori. E in guisa che
l’aria, la quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata di creature
vocali e musiche. Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non meno, per
mio parere, agli altri animali che agli uomini, l’udire il canto degli uccelli.
La prosa tranquilla e contenuta vuol essere nella sua forma esteriore l’eloquio
didascalico di un filosofo, ma tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza
gioiosa che vi si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta, che fa
dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento degli uomini la vispezza dei
volatili. « Gli uccelli per lo contrario, pochissimo soprastanno in un medesimo
luogo; van- [ I Episiol., lett. no e vengono di continuo senza necessità veruna
; usano T volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen tinaia di
miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo in sul vespro vi si
riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in un luogo, tu non h ved^
stare mai fermi della persona; sempre si volgono cjua I là, sempre si aggirano,
si piegano, si protendono, si croK lano, si dimenano; con quella \ds]iezza,
queU'agUità quella prestezza di moti indicibile. E con la stessa intenzione del
contrasto tra l’esposizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’
deve vibrare dentro, si spiegano i ricordi anacreontd che il Faggi dice eruditi
e freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio,
nel desiderio finale di Amelio: Similmente io vorrei, per un poco di tempo,
essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della
loro vita ». Ultime parole dell’ Elogio, che ne sono quasi la chiave, e che
reca meraviglia non vedere intese esattamente nepjmr dal Faggi Già il Della
Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo pedanteggiò irriverentemente nel suo
commento erudito ma offuscatore assai più spesso che rischiaratore del nitido
pensiero L.ano, postillò: n Per un poco di tempo. Meno male ! chè dopo la
vantata perfezione degli uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno
restrittiva. E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che Amelio non sia
riuscito a convincere pienamente se stesso, o il suo entusiasmo non sia stato
davvero troppo profondo ». Come se si trattasse di convincere! A me pare ci sia
un modo più ragionevole d’intendere quell’inciso; ed è quello che verrà subito
in mente ad ognuno, che rifletta che se il filosofo avesse espresso il
desiderio d’essere convertito per sempre in uccello, avrebbe fatto ridere. Che
diamine, il poeta invidia degh uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi
non sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui sono
tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per essere disposto a barattarla
con esse per sempre. Anche la morte potrebbe essere per lui, come per Porfirio,
la soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso dell’animo» lo ammonisce
colle parole di Plotino: «In vero, colui che si uccide da se stesso non ha cura
né pensiero alcuno degh altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta,
per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano;
tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il
più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo che si
trovi al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del Palazzo Comunale di
Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno- luglio dello stesso anno del
periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di commemorare un poeta è
quello di entrare nella sua poesia, cioè nel suo animo, nel mondo dei suoi
fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli elementi della sua biografia,
tutti, dalla data di nascita a quella di morte, i casi della sua vita, le persone
e le cose in mezzo alle quali questa vita si svolse, le idee stesse che egh
accolse e che professò, le correnti spirituali antecedenti o contemporanee di
cui partecipò, sono semplici generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto;
le quah, ove non si accompagnino e precisino con una fotografia, rimangono
appunto generalità, riferibili a migliaia di persone. Ogni uomo è una
determinata personalità in quanto è un’anima. La quale, quando si conosca da
vicino e cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica. E la sua
singolarità in fondo consiste non nella periferia del mondo di cui l’uomo fu
centro, ma in quello piuttosto che egli fu, al centro di questo mondo, col suo
modo di reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo pensiero e nel
suo sentimento. Due possono nascere nello stesso anno e nello stesso giorno,
vivere nello stesso luogo e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi,
tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci negli orecchi; e ricevere la
stessa educazione, incorrere magari nelle stesse malattie, e insomma viv'ere
tutta materialmente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse idee, ed
essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate
ad entrare nel suo intern è se stessa, diversa, assolutamente diversa
dall’altra quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr nel timbro
della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^ subitamente l’essere
dell’indi\dduo : quell’essere eh” ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a scoprire
atti e nelle parole delle persone che frequenta. Quest dèmone interno, sorgente
segreta da cui scaturisce in verità tutta la vita effettiva dell’uomo non
soltanto quale essa è, ma quale è sentita e perciò nel valore che ha, è quello
che i filosofi dicono 1’ Io: il soggetto, che è la base d’ogni individualità
umana. Qualcosa d’inafferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta
se non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni del carattere, nel
complesso degh atti e delle parole, che formano la trama della vita dell’
individuo. 11 centro non è rappresentabile se non in rapporto alla sua
circonferenza. Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella vita di
ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del poeta. Il quale non si
distingue dagli altri uomini se non jierché riesce a stampare una più profonda
impronta di questa segreta potenza nelle espressioni del suo essere. E pare che
per lui innanzi agli occhi meravigliati della moltitudine si levi e grandeggi
in una solitudine infinita l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé
fa il suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù
sua onnipossente son corpi saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la
immensa scena del mondo che il poeta sostituisce a quello della comune
esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli vede e tutto ciò che
può dirci è la sua anima, anzi questo dèmone che si cela nella sua anima. Nel
caso di L., quanto difficile cercarla e trov'arla questa scaturigine della sua
poesia: e quanto perciò s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della
sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide tutti i cuori, trova
la via di tutte le anime, che spontaneamente si aprono alle soavi commozioni di
essa. Ma studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da mille ingegni,
alla luce di mille sistemi e sulla base di mille preconcetti, analizzata,
tormentata dalla pretensiosa volontà indagatrice della critica, impegnata per
lo più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi frammenti
esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione anatomica, essa si è
sottratta e sfugge ancora alla intelligenza riflessa, che si sforza di
coglierne l’essenza e chiuderla in una definizione. Negli ultimi tempi vi si
son provati critici di grande levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di
cui non disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano indubbiamente
alla comprensione della poesia L.ana; ma solo in quanto ne scoprono alcuni
aspetti. 11 loro comune difetto è quello di trascurare la verità, che io
ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho creduto opportuno prender le
mosse. Trascuranza il cui effetto è questo: che il critico non sente la
necessità di risalire sino alla sorgente da cui la poesia L.ana sgorga, e in
cui soltanto è possibile scorgere l’unità della sua ispirazione e rendersi
conto della varietà dei motivi in essa dominanti. Così accade che si aprano i
canti e le prose del L., e si dica. Nelle prose, manco a dirlo, non c’ è poesia.
C’ è una pretesa filosofia, che è una filosofia per modo di dire. Lambiccatura
di cervello che si sforza di dimostrare sistematicamente uno stato d’animo
personale; e perciò si mette fuori di questo stato d’animo; e quindi riesce
amaro, falso, estraneo al vero e profondo sentire dello stesso scrittore, e
perciò freddo, sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna
distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi in cui il poeta
trova se stesso e parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta le cui
parole non si dimenticano e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci
col calore e la passione della vita che ogni uomo vive e sente. Ma ci sono
negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente patriottiche; ci sono poesie
filosofiche non meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora-
torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore e non si dimentica
nello schietto moto della sua anima Manca qua e là negli stessi canti più
felici il caldo di queir ispirazione, che s’apprende immediatamente all’animo
di ogni uomo. Risorge il ragionatore a freddo che vede il mondo
dall’angustissimo foro che le sciagure fisiche e le tristi condizioni personali
gli han lasciato aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta che
accoglie beato nel suo petto la voce naturale del mondo e il vasto respiro
delle cose. £ fortuna se alla prova di questa critica si salva qualche
frammento della poesia di L.. Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare questi
critici a ristampare L. purgandolo da tutte le scorie della sua poesia, per
darcene il fiore, un’antologia; contenente i soli pezzi ^'eramente poetici a
cui si fa grazia. Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema- mente
difficile, se non impossibile: poiché non solo il significato di ciascun verso
risulta dal contesto a cui appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel
complesso del componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre un accento, in cui
è la sua anima e individuahtà; e quell’accento non si può sentire se non nel
ritmo dell’ insieme. Isolare una parola è impresa vana ed assurda. E se si
crede il contrario, ciò accade perché in realtà quella parola che ci pare di
isolare, noi la facciamo nostra e la fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da
noi creato, in cui non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione del
nostro animo. L. non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove il suo petto si
allarga e s’inebria del profumo della natura, e il suo cuore batte all’unisono
col grande cuore del mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera
nei campi, brilla a notte nel mite chiarore della luna, imporpora il viso alle
fanciulle innamorate, tuona tra le nubi nell’ infuriar della tempesta, e
ridesta ad ora ad ora negli animi stanchi e delusi la speranza e la dolcezza
dell’amore. Il L. è anche Tristano ed Eleandro; ed è Copernico e Ottonieri; ed
è Colombo e Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio familiare; ed è
Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto della Natura dal volto mezzo
tra bello e terribile; ed è il gallo silvestre che sta in sulla terra coi
piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e riempie del suo canto
l’universo e dice di questo « arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza
universale » che, « innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e
perderassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato nel sentimento solenne e
religioso del dolore e del mistero e della vanità dell’opera umana, e pur
raccolto nell’ intima soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni travagho
c gustano una beatitudine divina, ancorché confusa a certo mistico senso del
proprio dissolvimento nella vita universale. Ed è anche il poeta che come
italiano vede le colonne e i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma
non vede più la gloria e le armi dei padri; e non sa rivolgersi indietro a
(juella schiera infinita d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza
pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore la disperazione di
Bruto per l’impotenza della virtù sconfitta dalla perversa fortuna e lo strazio
della misera Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei superbi regni
della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non gli si esalti nell’ idea
della guerra mortale che il prode di cedere inesperto, guerreggerà sempre
contro l’indegno fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà
sparso a terra il velo indegno, di emendare il crudo fallo del cieco
dispensator dei casi. E anche l’uomo che si leva col pensiero al di sopra della
ferrea vita e sentendo che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il
vero, si compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle mortali e
delle eterne cose] e trae gli ozi in questo speculare. E in fine l’uomo che si
rifugia con questo altissimo sentimento della invitta potenza del pensiero
umano nella rocca inespugnabile della noia: di questo che egli dice « in
qualche modo il più sublime dei sentimenti umani », poiché « il non poter
essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra
intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e la mole
maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è ])oco e piccino alla capacità
deU’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo
infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande
che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità,
e patire mancamento e vóto, e però noia, pare a me il maggior segno di
grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. E perciò anche L., nel
colmo della sua delusione, può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e
ogni moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura, il brutto Poter
che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto: e, pur caduto
l’incanto che gli fece vedere e amare in una donna mortale la Dea della sua
mente, pur vedendo ormai nella propria vita una notte senza stelle a mezzo il
verno, può trovare al suo fato Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta
nella coscienza di se medesimo: su l’erba Qui neglùttoso immobile giacendo, Il
mar, la terra e il ciel miro, e sorrido. Se noi rinunciamo a questi ed
altrettali motivi della poesia L.ana, per restringerci al dolce gusto di quell’
idillico che è la prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì
elementi di una poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del L.. Nella
quale quella prima forma è solo uno degli elementi del dramma e del fiero
contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia L.ana per l’appunto
consiste. L’i dilli o è certo alla base di L. poeta. Ne risuona il motivo di
continuo nell’ Epistolario, nello Zibaldone, nei Canti, nelle Operette morali.
Se volete rendervi conto della natura dell’ idillio, come L. r intese e lo
sentì, rileggete l’ Infinito, quei quindici versi che gittano la fantasia del
Poeta al di là della siepe in spazi interminati, sovrumani silenzi e
profondissima quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in sé e
annichilano la voce del vento che stormisce tra le piante e il suono delle lotte
e delle fatiche umane: Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio E il
naufragar m’ è dolce in questo mare. L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli
riflettendo si distingue e si oppone alla natura, e si confonde con essa.
Ricordate il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, che dice alla sua
greggia: Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe. Tu .se’ quieta e contenta; E
gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra
l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi
punge Si che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. Nell’ Inno
ai Patriarchi il Poeta rammenta l'antico mito della colpa che sottopose Vuman
seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’ irrequieto
ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La noia, la sublime noia, è
il privilegio del pensiero. Finché la riflessione non è sorta, e il pastore
errante non è ancora in grado di domandare alla luna il fine di tanti moti, e che
sia Questo viver terreno. Il patir nostro, il sospirar che sia; Che sia questo
morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno
.‘Vd ogni usata, amante compagnia; egh può esser queto e contento come la sua
greggia. Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene fuori,
cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto: non aver più né contentezza
né pace. Il L. intanto sa bene che senza pensiero non c’ è grandezza. Perciò in
uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola mia prediletta,
che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande
e infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi credenti » che non credono al
dolore: A voi non tocca DeU’umana miseria alcuna parte, Ché misera non è la
gente sciocca. Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna Kon è dagli astri
alcun poter concesso. Non al dolor, perché alla vostra cuna Assiste, e poi
sull’asinina stampa 11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se talor la vostra
vita inciampa. Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio Il non sentire e il non
saper vi scampa. Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio Rompon l’alme ben
nate. Ma se il pensiero è la sorgente del dolore, bisogna pur distinguere tra
pensiero e pensiero. E anche questo è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è
la stessa natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore e nella virtù
; che sente e crede nella bellezza della natura e della vita; che spera e apre
l’animo alla gioia delle illusioni, che tali si dimostreranno al cimento della
esperienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre dal fondo del cuore
umano a rendere amabile o almen sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’
è un altro pensiero, che si sovrappone a questo primo e lo critica e lo demolisce
e lo irride, e, scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo
sconforto nel cuore umano e lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre
pertanto che l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al dolore. Può
essergli simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del
benefizio di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero naturale, e vede
la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati. Vive nel suo stesso pensiero
la vita spontanea e istintiva che è propria di tutti gli esseri naturali, senza
che questa natura sia sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno. Così fa
il fanciullo, così tutti gli spiriti semplici e sani. Questa è la giovinezza
sempre rinascente del genere umano; dell’anima aperta alla speranza e
fortificata dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se stesso al
mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni suo giorno, come d’ogni nuovo
periodo della sua vita « Il primo tempo del giorno », canta anche il gallo
silvestre « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo
svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti- ma quasi tutti se
ne producono e formano di presente perocché gli animi in quell’ora, eziandio
senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mah.
Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato daUa
disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza ciuantunque
cUa in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte
cause di timore o di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non
parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in
dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori e d’immaginazioni
vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del
mattino somiglia alla giovanezza. Cresce l’esperienza della vita, sopraggiunge
la riflessione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e la noia: tanto più
acuto quello, tanto più grave questa, quanto più viva fu la speranza e ardente
la fede nella vita. Quindi la grande importanza del momento idillico, o
giovanile, spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del L., accentua
poi il momento negativo del distacco e della opposizione, che è il momento del
dolore. Questo dolore è materiato, si può dire, dalla stessa dolcezza dell’
idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai il suo significato lirico se
non corrispondesse a un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita
è così bella agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel
fondo del suo cuore, egli si duole tanto di non possederla. Al disperato
affetto di Saffo non arride spet- tacol molle: ma questo spettacolo pur le è
fitto negli occhi e nel petto; Placida notte, e verecondo raggio Della cadente
luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh
dilettoso e care Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato. Sembianze agli occhi
miei. Del resto questo molle spettacolo non fugge da’ suoi occhi senza che
questi si volgano desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al
suo stato d’animo. Noi r insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido
si voi ve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando il
carro. Grave carro di Giove a noi sul capo. Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la
vittrice ira dell’onda. Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di questa
natura di cui ella si vede prole negletta:, Bello il tuo manto, o divo cielo, e
bella Sei tu, rorida terra. A me non ride L’aprico margo, e dall’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il
murmure saluta: e dove all’ombra Degl' inchinati salici dispiega Candido rivo
il puro seno, al mio Lubrico pie’ le flessuose linfe Disdegnando sottragge, E preme
in fuga l’odorate spiagge. GkktIx<s, Manzoni e L. Bruto minore, fermo già di
morire, percote l’aura sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se ne
odono di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste: E tu dal mar cui
nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi, E l’inquieta notte e la funesta
All’ausonio valor campagna esplori. Cognati petti il vincitor calpesta, Fremono
i poggi, dalle somme vette Roma antica mina; Tu si placida sei ? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni Lieti vedesti, e i memorandi allori; E tu su l'alpe
l'immutato raggio Tacita verserai quando ne’ danni Del .servo italo nome. Sotto
barbaro piede Rintronerà quella solinga sede. Ecco tra nudi sassi o in verde
ramo E la fera e l’augello. Del consueto obblio gravido il petto. L’alta mina
ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del
villanello industre. Al mattutino canto Quel desterà le valli, e per le balze
Quella r inferma plebe Agiterà delle minori belve. D’altra parte, fin da quando
il Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed eternamente giovanile
della santa natura e del mondo, contro cui si volgerà sempre più risentito e
dolorante, egli sente nel petto Nell’ imo petto, grave, salda, immota Come
colonna adamantma, quella noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte
Carlo Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri
piccoli e grandi idilli che altro, infine, si canta se non il dolore ? Dolce e
chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia. Già tace
ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che
t’accolse agevol soimo Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già
non sai né pensi Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo
ciel, che si benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica natura
onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la
speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. La serenità, il
dolce chiarore lunare dei primi versi e lo stesso sonno tranquillo e scevro
d’affanni de lla donna formano lo sfondo del quadro, in cui risalta la
personalità di quest’uomo, a cui la speranza è negata e i cui occhi non
brilleranno mai se non di lagrime. L’amarezza di questa anima desolata nasce
dal contrasto. La donna sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a
lei. Fantasmi e sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto
per fargli sentire che egli ne è escluso: non io, non già eh’ io speri, .à.1
pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna. Si getta per terra,
grida, freme. E il suo pensiero si insinua nella gioia altrui e vi soffia
dentro il vento della riflessione che l’inaridisce: Ahi, per la via Odo non
lungo il solitario canto Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i
sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, A pensar
come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. L’artigiano probabilmente
non fa questa malinconica riflessione. Probabilmente egli, come la donna,
rimembra i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta tuttavia a
riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel mondo festivo e gorgogliante ancora
di sensazioni dilet- tose il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore
desolato. E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste sue poesie, che L.
stesso definì idillii, e in cui più forte risuona la corda dell’animo commosso
e vibrante della stessa vita del mondo. Citerò ancora il primo periodo della
Vita solitaria che comincia; La mattutina pioggia, allor che l’ale Battendo
esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’afìaccia L’abitator
de’ campi, e il Sol che nasce I suoi tremiili rai fra le cadenti Stille saetta,
alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi
nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca, E le ridenti
piagge benedico; per rivolgersi subito contro le cittadine infauste mura, e per
concludere; In cielo. In terra amico agh infehci alcuno E rifugio non resta
altro che il ferro. Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto è
idillico il principio. I due termini si corrispondono e si congiungono insieme
in un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione e l’amore per la natura,
per la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza magnanima, per
l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la patria, per i parenti, per gli
amici, per tutto ciò che rende amabile e santa la vita, e non intenderete più
lo strazio delle sue delusioni. Prescindete dal fermo convincimento, che la sua
filosofìa gli ha piantato nel petto, della arbitraria soggettività degli ideali
in cui l’uomo, non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente;
chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto con cui egli, tornando sempre ad
esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il fato universale
degli uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non potrete più
sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca a questa vita fallace e il
tremito giovanile e sto per dire virgineo con cui tutto il suo essere si
stringe al mondo, che non può, malgrado tutto, non amare. Leggete II pensiero
dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte del Poeta. Quel pensiero, cagion
diletta d' infiniti affanni, è gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha
vaneggiato, ma il cui incanto è caduto, risorge nella sua memoria e nel suo
cuore superba visione, sua delizia ed erinni'. e l’angehca sua forma, sempre
viva e presente, torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale, che
già lo fece per tanto tempo ululare. L’atteggiamento negativo ed ostile, quando
non si scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e significato, si può
intendere e s’intende anche in quelle forme di fredda ironia e di affettata
irrisione, che assume in qualche raro tratto dei Canti e in parecchie delle
Operette morali. Di cui si è potuto parlar con sì distratta intelligenza da
vedervi lampeggiare non so che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed
ama L., sa che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici sono i
critici del frammento. Si fermano a una pagina delle Operette L.ane, e non
curano di guardarne l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente unità
organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una, sotto la stessa
ispirazione, nel pensiero e nel sentimento dell’autore. Così vedono Momo, i
sillografi, Stratone; ma non vedono il principio e la fine del libro. E si
lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito iniziale, la Storia del
genere umano, vaga immaginazione tutta per- v'asa di una commozione contenuta e
pudica di un amore gentilissimo; come si lasciano sfuggire le meditazioni
finali di Eleandro e di Plotino, tutte umanità ed affetto. Non vedono perciò lo
spirito complessivo e centrale e quell’onda viva di universale e irresistibile
simpatia, che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri,
più pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del
freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei due opposti
motivi, che si fondono insieme e infondono nello spirito del L. l’impeto della
sua lirica sublime. La quale nel momento stesso che pare prostri gli animi nel
più disperato dolore, li solleva, conforta ed esalta, aspergendoli di non so
che affettuosa soa\ ita. Idilho e dolore. L’uomo che vive lietamente e
serenamente la vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed estrania;
e fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente dentro di sé un vuoto
infinito. Due cuori diversi, ma non posti l’uno accanto all’altro, bensì
unificati in un cuore solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né
])cssimismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà, del valore e della superiore
letizia della vita, tremenda insieme e adorabile, angosciosa e febee : questa è
1 essenza della poesia L.ana. In verità, l’origine del dolore è nel pensiero.
Ma L. sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce,
sana esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di
tutte le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo
stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora rinverdisce di nuove
fronde. Non si può negare che esso faccia guerra continua alla nativa
confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la fede e
la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ; e dall’altra, il ruscello
che al piede della misera donna, la quale tenta d’immergervisi e sentirne il
refrigerio, sottrae disdegnoso le flessuose acque, e fugge e s’affretta per le
piagge odorate. Se non che questo pensiero devastatore e distruttore della
originaria unità dell’uomo con la natura, è esso stesso una nuov'a natura: è la
natura di quell anima grande perché infelice, e infehee perché grande, onde il
Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in verità sempre che il
pensiero non si guardi dal di fuori, ma si pensi, si attui, si viva, esso non è
più nulla di estraneo alla vita, ma è la vita stessa. E in esso, ancorché
rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più aride, rifluisce l’onda della
vita e si risveglia il palpito della gioia. Allora, ecco, il L. acquista
coscienza della felicità superiore in cui si purifica e rinvigorisce il suo
spirito attraverso al pensiero e al canto; poiché (come egli dice) « ninna cosa
maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia
l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere
e fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora egli
sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce naufragare, è contenuto nel
suo pensiero, che lo abbraccia spaziando più oltre. Allora egli, piccolo ed
esile fiore sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore, s’inebria del profumo
della sua poesia, che consola il deserto. Allora egh ritrova in sé, nel genio
che nessuna forza maligna gli può strappare, nel demone divino e onnipotente
che fa insieme la sua infelicità e la sua grandezza, la gioia e il fervore
della vera vita; in cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e
si riaccende l’amcre con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si
riattaccano alla vita e han la forza di vivere e di morire. A Porfirio che a
conclusione d’un rigoroso ragionamento si vuol togliere la vita, Plotino
ammonisce che « non dee piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere
secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro chi non cerca se non
la utilità propria, e si gitta, per cosi dire, dietro alle spalle i suoi
prossimi, e tutto il genere umano. Uomo chi l’amore di se medesimo pospone
all’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini, è proprio contraria
alla ragione che ci farebbe mostri ? O non ci sono, per dir così, due ragioni:
una, inferiore, che ci trarrebbe al suicidio attraverso il più sordido amore di
noi medesimi, e una superiore, che ci libera dal giogo di questo amore, e ci fa
amare la vita e gli uomini che ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo
questa non è la natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama
e canta. Quale in notte solinga Sovra campagne inargentate ed acque. Là 've
zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli obbietti 1 Operette. Fingon
l’ombre lontane Infra Tonde tranquille E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo. Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’
infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon Tombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta, E cantando, con
mesta melodia. L’estremo albor della fuggente luce. Che dianzi gli fu duce.
Saluta il carrettier dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età mortale
La giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere canta. La giovinezza si
dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto. In questo canto, nella sua
mesta melodia, è il più alto segno dello spirito del Poeta. Qui la sua poesia.
Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia Nazionale dei T .inr ei neUa
seduta reale e pubbUcata, oltre che ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova
Antologia del i» lugUo dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di
Giacomo L. (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla morte di L.
Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno di grandi eventi ; storia mossa e
agitata da fedi e interessi in massima parte estranei all’animo del L., anzi
osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro uomo. E gli effetti
sono stati così cospicui, così importanti, anche secondo il modo di vedere del
L., da riuscire un’aperta condanna delle sue convinzioni e de’ suoi giudizi
storici. Secolo, si può dire, anti-L.ano, culminante in questa Italia, potente,
imperiale, creazione audace della stessa Italia che alla fantasia giovanile del
L. apparve inerme, anzi di catene carche ambe le braccia, seduta in terra,
negletta e sconsolata, la faccia nascosta tra le ginocchia, piangente. Eppure
lungo questo secolo la fama del L. è venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo,
ma in Italia ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza
della sua poesia, della sua anima ha acquistato d’anno in anno, e quasi giorno
per giorno, di penetrazione, di comprensione e di intima simpatia a mano a mano
che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza più seria e
positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze risorgevano a
dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo contro gli oppressori e
li affrontavano nei congressi, e accordavano rivoluzione e forze conservatrici
dimostrando maturità di accorgimento e di patriottismo da meravigliare 1 Europa
; e tra audacie e negoziati facevano dell’ Italia archeologica, letteraria ed
artistica una nazione viva, operante e presente nella storia dell’ Europa e del
mondo. Intanto sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova
scienza, una nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e
creavano un esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva
collaborazione alla vita economica internazionale, le loro industrie e i loro
traffici; e creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica
istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate da
secoli all’ignoranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di un sistema
politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le energie individuali
si venivano educando al senso e alla tecnica dello Stato; e infine, in una
riscossa della coscienza nazionale che si era venuta formando negli animi più
giovanili in un fermento nuovo d’idee religiose sociali c filosofiche, si
trovavano pronti alla più grande guerra della storia; combattevano con grande
onore, e contribuivano più d’ogni altra nazione alleata alla vittoria finale. E
dopo questa prova stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con
una profonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova Itaha e una nuova
Roma. Quanto cammino! E quanta vita in quella moribonda Italia, di cui parlava
L.! Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di quesb cento anni, lungi
dall’allontanare 1’ Italia dal L., r ha portata sempre più vicino a lui, a
misurare la sua grandezza. La bibliografia L.ana è una delle più ricche tra
quante se ne siano formate intorno ai maggiori poeti e pensatori itaUani, da
gareggiare con la dantesca. Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato
e suscita la personalità del L. con i suoi scritti e con i casi della sua vita.
Selva foltissima, di grandi alberi che soprastano con le loro alte cime al
vento, da Sanctis a Carducci e a Pascoli, per non citare viventi, e di fitta
boscaglia pullulante per tutto, ai piedi dei grossi tronchi. Intorno al L. non
pure letterati, deside- sori di esattamente conoscere tutti i particolari della
biografia e dello svolgimento graduale del genio, e di risolvere tutti i
problemi che lo studio di tal materia fa nascere; ma filosofi e storici della
filosofia, poiché il L. ebbe il gusto degli alti concetti speculativi, e nel
suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri di dottrine celebri a cui
egli, a suo modo, aderì; e insieme scienziati (antropologi e fisiologi) entrati
a un tratto in sospetto che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta
derivino da non so qual limite somatico; sospetto nascente da improvvisate
teorie e appoggiato a improvvisate osservazioni di fatto; ma fecondo tuttavia
di costruzioni e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili tuttavia a chi
voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto in questo secolo intorno al
L.. Fortunatamente, peraltro, se ci sono state deviazioni ed eresie critiche e
storture di metodi materialistici suggeriti da pigrizia intellettuale di
letterati ottusi, o da presunzione pseudo-scientifica di cervelli rozzi e
ignari dei rudimenti di qualsiasi serio concetto intorno ai valori dello
spirito, ci sono stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso le
forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti della espressione
artistica sa scoprire il principio profondo dell’ ispirazione, che è l’anima
del poeta e 1 essenza di quell’eterna poesia che lo fa immortale. Critica che
in Italia, in questo secolo, da L. a noi, ha avuto esempi da fare epoca, e che
hanno infatti educato nell’universale la coscienza del solo metodo che ci sia
per raggiungere il poeta là dove egli e poeta. Così in questa selva della
letteratura L.ana noi non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di questo
secolo anti-L.ano si può dire che egli sia stato prima scoperto, e poi veduto
più e più giganteggiare come uno dei più grandi spiriti della storia del mondo,
e come il creatore della più intensa poesia che si sia prodotta mai in Italia.
Fu scoperto quando un nostro grande critico, che lo aveva conosciuto di
persona, gentile e mansueto come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh
scritti, e acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro, non poteva
paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire la infinita differenza tra il
pessimismo amaro del filosofo tedesco e il pessimismo sui generis del poeta
itahano. L., dice, produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non
crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa
amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto
un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non
puoi accostar tigli, che non cerchi innanzi di raccogherti e purificarti,
perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e
mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti
desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così
basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la
nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al Quarantotto,
senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore.
Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva confessato il L. medesimo, in quel
libro in cui più freddamente si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli
occhi dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza indagare il
mistero dell’universo, fanno la vita bella e degna di esser vissuta, ossia
nelle Operette morali. Dove esce candidamente a dire « che non è fastidio della
vita, non disperazione, non senso della nuUità delle cose, della vanità delle
cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che
possa durare assai; benché queste disposizioni dell’animo siano
ragionevolissime e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un
poco di tempo, mutata leggermente la disposizione del corpo; a poco a poco, e
spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibih a notare;
rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose
umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche
cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al senso
dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva l’uomo dal sapiente:
l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché sente di dover affermare, come
fa L. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai
cadere in anima viva, sohto e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che
essere cagione di patimento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire :
<( Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o jier isfogo
dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio
di (juel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di noncuranza
e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà di azioni, o
perversità di costumi; laddove, per Io contrario, lodo ed esalto quelle
opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi,
virtuosi, ed utili al ben comune e privato; quelle immaginazioni belle e
felici, ancorché vane, che dànno pregio alla vita; illusioni naturali
dell’animo; e infine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i
quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà
moderna e della filosofia ». Così aveva pensato quando scriveva con animo di
credente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Così continuava a
pensare, da miscredente, sette anni dopo, nella canzone Alla primavera, o delle
favole antiche. Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo il succo
dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e assaporandone il fiero gusto,
rivolge .4 se stesso nel '33 quegli accenti disperati ed empi; In noi di cari
inganni Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e noia La vita, altro
mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener nostro il fato Non donò che il morire.
Ornai disprezza Te, la natura, il br\itto Poter che, ascoso, a comun danno
impera, E r infinita vanità del tutto. Momento satanico, ma un solo momento: voce
sì dell’anima L.ana, ma che il lettore attento non può ascoltare se non
commista in armonia profonda a voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e
che lo stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come espressione più schietta
della sua propria natura. Alla quale egli non può rinunziare, convinto che sia
da fare « poco stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al
lettore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mezz’ora gl’ impedisca di
ammettere un pensier vile, e di fare un’azione indegna. Il momento satanico
ricorre spesso nel L.. Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di questa
forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a se medesimo, di fronte
e a dispetto della natura, ossia di questo universal meccanismo che regge il
mondo concepito, come L. aveva appreso a concepirlo, in maniera rigorosamente
materialistica: quel mondo in cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per
la virtù, né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza umana
dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e la fiducia nella sua forza
di contrastare alla natura, di dominarla e farne strumento di una vita
spirituale sempre più ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta
l’immagine enorme e tremenda di quella Natura disumana, che stritola e annienta
l’uomo e tutte le pretese del suo audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella
gli si presenta nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove all’uomo che
aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita per cento parti la Natura e
la fuggiva da ultimo nel- r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in
un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco che gli interviene
qualche cosa di simile che a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona
Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide da
lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò doveva essere di
pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima
neh’ isola di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era una forma
smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dorso e il
gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e
terribile, di occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ». La
Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più che altrove la sua
potenza. E alle molte parole con cui 1’Islandese si lagna delle tribolazioni
che affliggono l’uomo in questa vita a cui non egli ha chiesto di nascere,
risponde breve che « la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di
produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna
serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre
che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ».
Intanto sopraggiungono « due leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che
appena ebbero forza di mangiarsi quell’ Islandese; come fecero; e presone un
poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano
questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che r Islandese
parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò un superbissimo mausoleo di
sabbia; sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella
mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so
quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente beffardo della prosa
dimostra con qual animo il Poeta accolga questa immagine deUa Natura. E spesso
gli torna alle labbra una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace
d’indagare questo mistero enorme delbumverso non per addolorarsi del disperato
destino deU’uomo, anzi per riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri,
filosofo socratico, che con occhi di lince scopre tutto il vano e il doloroso della
vita, ma ne ragiona con impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al di sopra e
al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo L. non fa la fine dell
Islandese; non soggiace aUa natura, pasto dei leoni o còlto improvvisamente
dalla sabbia del deserto. Guarda dall’alto e sorride, e sente la propria
umanità superiore nell’ intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di
reagire al fato col sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia n plebeo il quale,
non valendo a cessare gli oltraggi del destino, si consola con la necessità dei
danni, quasi fosse men duro un male senza riparo o non sentisse dolore chi è
privo di speranza. No, Guerra mortale, eterna, o fato indegno, Teco il prode
guerreggia. Di cedere inesperto. È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima,
riso luta ad emendare il crudo fallo del cieco dispensator de casi. A quel modo
di emenda a cui s’induce Saffo, L., a pensarci, non potrà consentire, come
sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non devecedere. Resterà
sempre la grandezza dell’animo che col pensiero si leva al di sopra del fato,
intende, comprende e sorride; Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili
errori, È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me
bastante E conforto e vendetta è che su l’erba. Qui neghittoso immobile
giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e sorrido. Grandezza eroica, a cui
il petto del Poeta si allarga allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna
che fece battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa
eroica grandezza non basta; poco stante, nella piena maturità delle sue
esperienze morali, tornata la calma dopo la tempesta della patita delusione e
del sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su dal cuore la risposta
più vera che si deve al cieco dispensator dei casi. Quando, presso Portici,
mirerà i campi cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti d’ impietrata lava, là
dove erano state liete ville e ricche messi e armenti e città famose, e ora
tutto intorno una ruma involve, il suo occhio poserà sul gentile fiore della
ginestra, che, quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un
profumo, che il deserto consola: simbolo della sua poesia, del suo animo, che
da questa spietata empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo nella umana
compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro al destino: Nobil natura
è quella Che a sollevar s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e
che con franca lingua, Nulla al ver detraendo. Confessa il mal che ci fu dato
in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini, ma contro la natura
che sola è rea: che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna. Costei
chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando. Siccome è il
vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia. Tutti fra sé confederati estima Gh
uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando
aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. Oh l’alta
meraviglia del L., dopo circa un lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel
concetto desolato del mondo che le meditate dottrine gli mettevano innanzi, e
spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella speculazione dell’acerbo
vero (non più acerbo del resto a chi lo gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso
Poeta, ancor che tristo ha suoi diletti il vero) ; dopo avere scritto le
Operette che sono la filosofia del L., ma sono pure un momento essenziale dello
svolgimento della sua poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della
sua vita avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel
freddo bagno nella filologia italiana, che furono per lui le cure spese intorno
alle Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia italiana. oh l’alta
meraviglia, quando si sentì rifluire in petto la vita ! Non che risorgesse la
speranza; non che la natura gli apparisse sott’altra luce; non che si
accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi. Ma insomma. Proprii mi
diede i palpiti Natura, e i dolci inganni. Sopirò in me gli affanni L’ingenita
virtù ; Non l'annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non con la vista
impura L’ infausta verità. Dalle mie vaghe immagini So ben ch’ella discorda;
che natura è sorda. Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual
egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette: Pur sento in me rivivere Gl’inganni
aperti e noti; E de’ suoi propri moti maraviglia il sen. Da te. mio cor,
quest’ultimo Spirto, e l’ardor natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien.
Saffo ha ragione quando afferma; Mancano, il sento, aH’anima Alta, gentile e
pura. La sorte, la natura. Il mondo e la beltà. Saffo però ha dimenticato il
suo cuore: Ma, se tu vivi, o misero. Se non concedi al fato. Non chiamerò
spietato Chi lo spirar mi dà. Ecco, Tanima si calma, torna la vita con le sue
attrattive, con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al cuore del Poeta
Silvia, la giovinetta Silvia splendente di bellezza negli occhi ridenti e
fuggitivi, lieta e pensosa; toma l’onda di beate speranze, di pensieri soavi
che gli riempivano il petto, al suon della sua voce; quando questa voce gli
faceva lasciare gli studi leggiadri per affacciarsi al balcone della casa
paterna: Mirava il ciel sereno. Le vie dorate e gli orti, E quindi il mar da
lungi, e quindi il monte. Lingua mortai non dice Ouel eh’ io sentiva in seno. E
pur lo aveva detto la sua lingua, dieci anni prima, in quel capolavoro che è
l’idillio scolpito nei quindici versi de L’ infinito, quando, nel fondo
dell’empia matrigna, della spietata natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra
Natura; l’immensa Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe
l’anima è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica dolcezza:
interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete
ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste
piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando; e mi sovvien
l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Cosi tra
questa Immensità s’annega il pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo
mare. Di questo momento mistico del L. poco s’è parlato; ed è momento di grande
valore per la comprensione della sua anima, che in quest’atteggiamento
religioso placa definitivamente il fiero contrasto tra la sua indomita
soggettività e la realtà onnipotente e infinita, in cui quella par destinata ad
infrangersi. Lo placa in una situazione idillica che, riportando l’individuo
alla natura madre, infonde in lui la fiducia rinfrancatrice, di cui l’uomo ha
bisogno per vivere, abbandonarsi all’azione e sentire nel proprio petto il
respiro eterno e r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli perciò,
com’egh stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i grandi idilli che dal
canto a Silvia vanno a quello del pastore errante dell’Asia, scritti tra il ’zq
e il ’30, anni della più potente espansione e della lirica più piena e felice
del Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia L.ana. Quando si legge la
lettera al Giordani : Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la
finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e
sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si
svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore,
onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla Natura,
la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo »; non si può non essere
commossi da questo prorompere di così alta vena mistica la cui scaturigine
evidentemente si cela nel centro vivo più remoto della personalità L.ana. E
allora s’intende l’invocazione ansiosa della canzone Alla primavera: Vivi tu,
vivi, o santa Natura ? Allora si ode quasi il lento respiro queto e dolce e
l’arcana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in solitaria
parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve. La sua tranquilla imago il sol
dipinge. Ed erba o foglia non si crolla al vento; E non onda incresparsi, e non
cicala Strider, né batter peima augello in ramo, Né farfalla ronzar, né voce o
moto Da presso né da lunge odi né vedi. Tien quelle rive altissima quiete; Ond’
io quasi me stesso e il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le coramova, e lor quiete antica
Co' silenzi del loco si confonda. Allora, infine, si scorge il tono vero del
Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così accorato e pur così
sereno, con i suoi perché disperati, e col suo funereo sigillo (è funesto a chi
nasce il dì natale) e la sua alata poesia : Forse s'avess’ io l’ale Da volar su
le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in
giogo. Più felice sarei. Poiché il pastore vede che la sua greggia è beata,
quasi libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non -prova, a differenza di
lui, che non ha pace anche sedendo sopra l’erba, all’ombra, poiché un fastidio
gl’ ingombra la mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia riposo.
E ogni animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si appaga. Vede il pastore che
nel seno della natura è la felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con
l’irrequieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile intrigo, in una
fatica vana senza speranza. Tutta la poesia del L. attinge in quel punto
mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia. Allora egli parla dei
pensieri immensi e dolci sogni che gli ispirò sempre, nello stesso modesto
giardino della casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri
». Per lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi, né riso, né amore: ma
cantare sì, come ruccellino che dalla vetta della torre antica va cantando,
alla campagna, finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per la valle,
mentre Primavera d’intorno Brilla nciraria, e per li campi esulta. Si ch’a
mirarla intenerisce il core. L'uccellino non si tormenta col pensiero della
giovinezza che passa e della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto
ogni sua vaghezza e in lei non è affanno: e da lei sgorga pure il suo canto; il
canto che aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa brillare l’aria e
esultare le campagne. Anche uomini di alto intelletto, come Capponi, han voluto
dar sulla voce al L. per quel suo concetto della infehcità che cresce negli uomini
in proporzione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sapere. Come se
questo stesso lamento non uscisse dalle Sacre Carte ! E gli han voluto far
osservare che felice era certo egh stesso mentre componeva i suoi canti, e
riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo il significato di tutta la
poesia L.ana, e la sorgente del suo irresistibile incanto! L. lo sapeva bene, e
sotto la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri annotava: «Felicità da me
provata nel tempo del comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia
vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’ io vivo ! Passar le giornate
senz’accorgermene e parermi le ore cortissime, e meravigliarmi sovente io
medesimo di tanta facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non aveva egli
scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza deU’umano intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e
interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza? Tale il suo
canto; il più squisito frutto dell’operare della natura santa e onnipossente,
raccolta, per dir così, a far la più alta prova del suo potere dentro il genio
dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova se stesso, scoperta
che abbia la fonte della sua vita: quel divino, che ha in sé e gli colora il
mondo delle beate larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere e
di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze, al regno immortale della
vita dello spirito. E quando scopre questa sorgente, egh è veramente lui, il
genio; e sente l’amore che abbellisce e conforta, e crede nella potenza e nella
grandezza dell’umana intelligenza, e torna ad amare la vita nobilitata dall’
ideale. E pur con le dolenti parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore
in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto dello spirito che
si ritrae in se stesso e nel sentimento del proprio valore, quale si svela al
contatto di quella natura eterna, in cui è il suo principio e con cui perciò
deve immedesimarsi per trovare le radici del suo proprio essere. E il naufragar
m è dolce in questo mare. Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua
poesia, che i giovani amano per l’amore della giovinezza che vi spira dentro;
che gh uomini maturi ed esperti della vita amano non meno per il lucido
specchio che essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso i
quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni disinganno; che tutti
gli uomini, piccoh e grandi, dotti o ignoranti, considerano come uno dei doni
più preziosi di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un gran cuore parla a
tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono per sedvarsi) in un sentimento
acuto della miseria innegabile della vita e della non meno innegabile azione
dello spirito che affranca da ogni miseria e infonde la fede per cui si ha la
forza di vivere. Piccolo hbro, sacro per gl’ Itahani e per tutti gli uomini,
come tutti i libri in cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e
perciò faciU, com’ è al passero solitario il suo perpetuo canto : anima della
sua anima. Piccolo libro da leggere bensì non a brani e frammenti, ma intero,
affinché non sia frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi insieme la
sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di
Firenze e pubblicata nel volume di letture Giacomo L. a cura di Blasi (Firenze.
Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo L. (Firenze, Sansoni).
A parlare della filosofia di un poeta, e di un grande poeta, o, che è lo stesso,
delle relazioni del pensiero di questo poeta con la filosofia, un pover uomo,
per discreto che voglia essere, si espone al rischio di toccare un tasto falso
e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime parole. Ripugna infatti al
senso poetico di cui ogni spirito bennato è più o meno riccamente dotato,
questa ricerca che ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima e
affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che pensa un poeta, sopra
tutto, ripeto, se è un grande poeta, e cioè un poeta vero, quel che egli riesce
a dire, ossia quello che egli sente, e sente profondamente, al paragone degh
astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire. Non già che i poeti non
abbiano anch’essi la loro filosofia, un loro concetto della vita, una loro
fede. Oh se 1’ hanno ! Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza
e col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita spirituale, nessuno
così fortemente come il poeta afferma la propria fede e la oppone ad ogni più
meditata dottrina che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati
interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto d’avere una sua
filosofia capace di sbaraghare tutte le altre. Ma le battaglie che il poeta
combatte e vince, si svolgono dentro al chiuso della sua fantasia. E gh possono
bensì procurare la gioia della vittoria, ma una gioia tutta soggettiva come di
chi in sogno viene a capo del suo più arduo desiderio e coglie il fiore più
bello del giardino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui
e le opere loro, perché con la ragione sovrana prima o poi valuta le ragioni di
ciascuno — di fronte al poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le
contraddizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito delle sue
asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede; e insomma i difetti e le
debolezze del suo pensiero ; e viene così a trovarsi nella impossibilità di
scorgere la grandezza della sua personalità se a misurarla non adotti un metro
diverso. E che cosa di più irriverente e ottusamente inumano e brutale che
accostarsi ai grandi uomini per guardarli da tutti i lati, anche da queUi che
lasciano scorgere i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto in
cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è grande uomo per il suo
cameriere; e potrebbe parere che in fine il filosofo sia, per tale rispetto, il
cameriere del poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le scarpe, ma non lo
guarda mai in faccia. Oh la servitù numerosa che sta intorno al poeta ! C’ è il
filosofo; ma c’ è anche l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e
c’ è il filologo ; schiere e schiere di scienziati, servitori dalle più vistose
livree; i quah, per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti
più elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il
padrone, per entrargli nell’anima e scrutarne la passione, intenderla,
sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!
Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto tutto questo servitorame,
e sta sulle sue, per non confondersi, per salvare se stesso e \fivere la sua
vita superiore, di cui è geloso come del suo tesoro. Talora può concedere un
sorriso di umana indulgenza o signorile degnazione; ma il più spesso guarda con
que’suoi acuti occhi che penetrano negh ascosi pensieri così laboriosi, così
opachi, così grevi; e negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia,
sarcasmo. E allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli
uomini che la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue incessanti
inchieste e pretese, diventa materia di satira. Allora, il L. esce in
un’osservazione di gusto volteriano, come questa che è nello Zibaldone. L’apice
del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria
inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio; consiste a correggere i
danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui
sarebbe sempre stato s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la
sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia.
Osservazione che ama ripetere, dandola come un suo principio. La sommità della
sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà, e come gli uomini
sarebbero già sapientissimi s’ella non fosse mai nata: e la sua maggiore
utilità, o almeno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto
umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato in cui era prima del di
lei nascimento ». E in assai più nitida forma tornerà a ribadirla infine come
uno de’ capisaldi delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo di
Timandro e di Eleandro: «L’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia
vera e perfetta, si è, che non bisogna filosofare ». Nei Paralipomeni degli
ultimi anni, anzi degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente dirà; Non
è filosofia se non un'arte La qual di ciò che l'uomo è risoluto Di creder circa
a qualsivoglia parte. Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni
assegnando empie le carte O le orecchie talor per instituto Con più d'ingegno o
men, giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere. Eppure,
s’ingannerebbe sul vero pensiero del L. chi si limitasse a leggere questa sola
ottava dei Paralipomeni, come chi si diverte a ripetere col Petrarca. Povera e
nuda vai filosofia, dimenticando o ignorando che PETRARCA continua; Dice la
turba al vii guadagno intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il L. infatti si
ripiglia nella seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in questo
modo: Quella filosofia dico che impera Nel secol nostro senza guerra alcuna, E
che con guerra più o men leggera Ebbe negli altri non minor fortuna, Fuor nel
prossimo a questo, ove, se intera La mia mente oso dir, portò ciascuna Facoltà
nostra a quelle cime il passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso. La
filosofia, dunque, che il L. schernisce è quella teologica, come allora si
diceva, dommatica, spiritualistica; la filosofia della Restaurazione e del
Romanticismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni filosofia. Anzi la
filosofia imperante, tutta ottimistica, presuntuosa, intollerabile alla
mentalità L.ana perché in contrasto coi fatti e con le necessità di ogni libera
mente, proveniente, come pur quivi si dice, da quella Forma di ragionar diritta
e sana Ch’a priori in iscola ancor s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi par
vana. La qual per certo alcun principio pone E tutto l'altro poi a quel piega e
compone; cotesta filosofia non è satireggiata qui propriamente dalla poesia, ma
dalla filosofia stessa, o, se si vuole, da un’altra filosofia. Si tratta deUa
filosofia falsa che è combattuta e debellata dalla vera: ossia da quella che
all’autore par vera. Neanche si può dire quel che dice MANZONI degli avversari
della filosofia respinta in tutte le sue forme e in generale, quando osserva
che anch’essi, questi avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro
filosofia, servitori senza livrea. Il L. sa di avere la sua filosofia; anzi,
per cominciare ad intenderci, egli propriamente professa di averne due. Dico cU
più: senza r intelligenza di questa sua duphce filosofia si rischia di fare, a
proposito del L., di quella esegesi filosofica, ov\’ero sia di quella
filosofia, che s’ è soliti fare, e che s’ è sempre fatta fin dal tempo del L.;
una filosofia infarcita di luoghi comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da
camerieri che allacciano le scarpe e non guardano in faccia. Con la filosofia
cosiffatta va a braccetto una critica che si chiama infatti filosofica,
presuntuosa non meno, tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e
però della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una
ragione di metodo, che ritengo fonda- mentale. Ed è questa: che l’essenza della
poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta ha del suo
pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma negh occhi con cui lo vede e lo
accoglie, lo fa vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del quale ogni realtà,
sensibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile. Lì, nel trepido moto
dell’ intimo sentire, in cui il mondo ha il suo centro di vita, è l’attuahtà di
quanto si vede o si pensa, o si può vedere e pensare; e lì è la sorgente della
poesia. Perciò una critica che innanzi alle Operette morali si ferma allo
«spirito angusto, retrivo e reazionario », cioè alle idee negative che vi
spaziano dentro, e per ciò non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e cioè di
positivo ed eterno, è critica radicalmente sbaghata, che scambia le ombre con i
corpi saldi. Poiché le idee, una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima
assume verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse partecipano e
da cui traggono il loro significato vivente, sono pallide ombre che il critico
si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai abbracciare al suo petto. Nel caso
del L. poi c’ è di più; perché, come ho accennato, se egli ha una filosofia
tutta negativa, natu- rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e
che fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli ha
la filosofia di cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore che è
negazione della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da
Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser quella, che
non bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è il senso serio e
profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda della
filosofia, giudicata inutile anzi dannosa. Lo stesso L., teorizzando questa
filosofia superiore, in cui fa consistere la cima della sapienza, la chiama,
nello Zibaldone, «ultrafilosofia»: una filosofia « che conoscendo l’intero e
l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura: filosofia naturale, spontanea,
primitiva, barbara; più che alle origini, si trova nella maturità della
intelhgenza umana. Sentiamo da capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol
essere 1’interprete della filosofia L.ana contro la pretensiosa filosofia
ottimistica alla moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, «
quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza
del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla
ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno
o i più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno
e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco meno che tutti i
filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad Eleandro che tutti sono
infelici; gli ha concesso la necessità della nostra miseria, e la vanità della
vita, e l’imbecillità e piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità
degli uomini; gli ha concesso che in queste verità si assommi la sostanza di
tutta la filosofia; ma deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo
frutto di spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo fondamento
della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e distorh dal procurare il
loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle verità che sono la sostanza di
tutta la filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli uomini; e
credo che facilmente consentireste che debbano essere ignorate o dimenticate da
tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. 11
che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo. Dunque, non
bisogna filosofare, come s’ è detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non fa di
bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima, perché cjuella
ultima conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e imparata che
sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli uomini
dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi più facilmente qualunque altro
abito che quello di filosofare. Non si può mettere in opera. Il che significa
che rultrafilosofia — che è la conclusione perfetta e perciò la vera filosofia
— non estirpa e distrugge l’altra, falsa o insufficiente. La quale, buona o
cattiva che sia, è quella che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo,
vi resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado, quantunque insieme con
essa e al disopra di essa ci sia una verità certamente più umana e degna
dell’uomo, diretta a ricostruire quel che la prima ha demolito. Verità ? Se per
verità s’intende solamente quel che si conosce per mezzo deU’esperienza e di
quello schietto ragionare che s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa
della filosofia superiore non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce
misteriosa della più profonda natura, che la filosofia più tenace e più
pervicace non riuscirà mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta
filosofando, questa è la verità assoluta, perché messaci innanzi dalla stessa
filosofia quando sia riuscita ad elevarsi fino alla sommità della sapienza.
Dove, volendo pur non contraddire alle verità via via accertate e sempre più
strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile sistema, bisognerà sì
rassegnarsi a dire errori in sembianza di verità, illusioni, fantasmi, tutte
quelle altre verità che come tali si rappresentano all’uomo il quale a quella
sommità sia pervenuto; e quindi veda rivivere il mondo nella pienezza
rigogliosa della sua vita primitiva, felice, ridente, soffusa di una divina
aura di giovinezza ignara e fidente. L’uomo L. non può non filosofare; non può
non passare attraverso la prima filosofia; ma non può né anche non giungere
infine alla seconda e superiore. Dove egli ritrova tutto quello che ha perduto.
Lo ritrova, s’intende, com’ è possibile soltanto dopo averlo perduto; poiché
dimenticare quel che ha saputo e sa, non potrà mai ; a quel modo che può tornar
fanciullo un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e le amarezze
del mondo, e può riacquistare il gusto della virtù chi abbia una volta bevuto
al calice del bene e del male. Chi distingue nel pessimismo L.ano due fasi o
forme, la prima di un pessimismo storico in cui tutto il male è frutto dell’ «
irrequieto ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi
regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai Patriarchi), e l’altra
di un pessimismo cosmico che fa gli stessi uomini vittime incolpevoli della
immane natura, si lascia sfuggire l’unità fondamentale dello spirito del Poeta,
dov’ è, ripeto, il segreto della sua poesia; di quella dolcezza che ci suona
dentro alla lettura dei canti dal primo all’ultimo, e in forma più palese e più
sistematicamente determinata, almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle
Operette morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza che negli
uni e nelle altre si riversa nelle più varie forme dell’anima di quest’uomo,
che fu certamente tanto grande quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta
onda della sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvolgere il mondo
stesso nella tenebra della disperazione, anzi per illuminarlo coi raggi d’una
indomata fede nella vita con i suoi ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è
quella che ci viene apertamente attestata nello stesso disegno delle Operette.
Le quali cominciano col mito delle origini della umanità governate dall’amore e
finiscono nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei scritti io ricordo alcune
verità dure e triste, o per isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e
non per altro [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora può parlare con
animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare,
sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione
del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,
iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e
pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato;
quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che dànno pregio alla vita;
le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli errori antichi, diversi assai
dagli errori barbari. i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere
per opera della civiltà moderna e della filosofia. E più tardi l’autore
aggiungerà il Dialogo di Plotino e di Porfirio, dove l’accento torna sull’amore
come sovrana legge della vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto
al fondo della disperazione della sua vita senz’amore. Prima parola ed ultima,
amore. Quella stessa che risuona in fondo ai Canti, nella Ginestra. E
contraddice certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello
Zibaldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi
credenti e insomma a tutto il contenuto prosaico della poesia L.ana; voglio
dire a tutto quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del L., la
verità in opposizione agli errori: a tutto il complesso degli insegnamenti di
quella filosofia che, per altro, negli stessi Paralipomeni, dove più
espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L. di uscire in quel famoso
grido del cuore. Bella virtù, qualor di te s’awede. Come per lieto avvenimento
esulta Lo spirto mio. Cotesta filosofia, non occorre esporla. Tutti la
conoscono. E quella concezione del mondo, che giustifica un empirismo assoluto.
Lo spirito vuoto; e tutto quello che in esso può mai trovarsi, un derivato
meccanico dall’esterno attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il quale
da chi tenga fermo al concetto delle sue esigenze imprescindibili, non può non
raffigurarsi dotato di liberta, e quindi appartenente a quel mondo dei valori
per cui è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione al falso, o
un volere buono in contrasto col malvagio, e un’arte creatrice di bellezza che
si libri nel puro aere ideale e sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte;
lo stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto che si trova
dentro, nulla: assoluto nulla, in cui libertà e verità e virtù e bellezza non
possono essere, in fondo, altro che vane larve e falsi miraggi di un’
immaginazione ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa realtà
che si rappresenta a un tratto tutta spiegata ncUo spazio e nel tempo,
materiale, risultante da infinite parti e particelle che si condizionano a
vicenda in guisa che ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre;
in un meccanismo universale, dove tutto quel che accade, è fatale di una
necessità che schiaccia e stritola ogni vana pretesa dell’uomo che si ])rovi a
mutare il corso del destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia nel cuore
degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’ignoranza ci possono far
giudicare buono o cattivo; anche il giudizio con cui ci s’illude di distinguere
il vero dal falso. Anche la volontà che non sceglie, come si favoleggia, tra
bene o male, ma scoppia in un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità
del fulmine nelle tempeste della natura. La natura dunque è tutto, e l’uomo
nulla. La natura, perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a ogni
razionalità (perché la ragione è discriminazione, scelta, libertà). Un mistero.
Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che essa dice con tanta
sicurezza, fosse possibile; come se cioè fosse possibile un mondo in cui, se
non altro, la verità sia una parola vana, e ci sia nondimeno posto per l’uomo
che, in mezzo a questo universale meccanismo, nel mistero di questa tenebra
profonda e per definizione invincibile, abbia pure il diritto di affermare che
la verità sia proprio quella che egli asserisce ! Come se fosse possibile
salvare una verità qualsiasi dal naufragio d’ogni verità. Filosofia dunque
essenzialmente contradditoria, che nei filosofi empiristi, naturalisti,
materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente
contraddizione, tra la ragione che si nega e la ragione che per negarsi
rivendica di fatto il proprio potere e valore. Filosofia accettata dal L., ma
con un’anima che troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo è
naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito reagisce ai hmiti che si
oppongono alla sua libertà, e quindi al dolore, per non aver coscienza di tale
contraddizione. E questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo, pertanto, che
dovrebbe prostrarsi di fronte alla natura nel senso angoscioso del proprio niente,
non piega, invece, non s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se
battezzate fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione di tutto il suo
spirito nel senso gagliardo e tenace con cui l’apprende e lo ferma nel
cristallo della sua divina fantasia, si trasfigura: non è più il limite della
sua forza e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza umana,
trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e infinita potenza. Qui l’anima di
L., qui il fascino deUa sua poesia. La quale non trae la sua ispirazione
centrale dall’astratto concetto di quel crudo materialismo, che annienta l’uomo
e fiacca perciò ogni velleità di vivere a proprio modo, a norma de’ propri
ideaU, in un mondo qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo senso
profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno, che gli \aene dalla sua «
ultrafilosofia », dal bisogno di respingere come antiumana e contradditoria
alla incoercibile natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e soffocante. Ora
è Bruto minore, nudo di speranza, ma prode, di cedere inesperti), neUa sua
guerra mortale contro il fato indegno, in atto di sfida magnanima contro il
Destino, che egU vince, violento irrompendo nel Tartaro: e la tiranna Tua
destra, allor che vincitrice il grava. Indomito scrollando si pompeggia. Quando
nell’alto lato l’amaro ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride. Ora è
la misera Saffo, grave ospite di natura, estranea alla infinita beltà di
questa, consapevole del prode ingegno che pur le venne in sorte assegnato, delle
proprie virili imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può vantare;
ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo indegno ricevuto da natura,
primo principio della sua infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo
del cieco dispensator de’ casi. Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte
hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio pregar
dispieghi. Erta la fronte, armato, E renitente al fato. La man che flagellando
si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir, com’usa
Per antica viltà l’umana gente; Ogni vana speranza onde consola Sé coi
fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto Gittar da me. O che, stanco di sperare
e disperare, sente in sé spento anche il desiderio, e vuol acquetarsi
nell’ultima disperazione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo,
della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a
questa Natura misteriosa, arcana, e si scioglie in un mistico sentimento della
sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il naturalismo è stretto parente
della mistica, che ugualmente oppone la realtà all’uomo al punto da non
lasciargli più modo di distinguersene e spingerlo perciò al desiderio
d’immergersi e immedesimarsi col tutto infinito che gli è davanti e lo attrae.
E allora L. ricompone il suo volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il
suo dolore, ossia quella sua soggettività solitaria e disperata di uomo che, perduta
la giovinezza, vede intorno a sé il deserto e il buio della sera e deH’orrida
vecchiezza, nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito, dove il
poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce gusto dell’eterno: Così tra
questa Immensità s’annega il pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo
mare; de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe A pensar come tutto
al mondo passa e quasi orma non lascia; e il suono delle umane glorie e degl’
imperi più famosi cede come il canto dell’artigiano che riede a tarda notte al
suo povero ostello poiché la festa è finita: Tutto è pace e silenzio, e tutto
posa Il mondo; e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante
insieme e viva divenutagli familiare: ed alla tarda notte Un canto che s’udia
per li . sentieri Lontanando morire a poco a poco; de La vita solitaria, dove «
l’altissima quiete » del meriggio presso all’ immoto specchio del lago di
taciturne piante incoronato gli fa obliare se stesso e il mondo: e già mi par
che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le commova, e lor
quiete antica Co’ silenzi del loco si confonda. Estasi; estasi mistica che fa
risalire dal petto il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel
canto Alla primavera, 0 delle favole antiche: Vivi tu, vivi, o santa Natura ? e
quello anche ])iù antico della stupenda lettera al Giordani, che convien
rileggere: «Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della
mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria
tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegharono alcune immagini
antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come
un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di
udire dopo tanto tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore
allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota
nello Zibaldone che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della
eeligione, ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della sua nota,
della FILOSOFIA inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia
quando, sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano robusta: la
seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto della
natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di
genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge
d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli
può nascondere ». La mano robusta dunque non si contenta della ragione, ma
vuole anche cuore, fede, natura o « senso dell’animo », genio ; e cioè, non sa
che farsi della piccola ragione, poiché ha bisogno della grande. La quale non
s’illude di aver spiegato tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato
e si mette in condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a
dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana. L’uomo, che è
poi colui che si propone il problema della natura, e senza del quale {pertanto
il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella mezza filosofia della
ragione piccola rinserra e schiaccia nel meccanismo della natura e condanna
alla schiavitù del nulla, ma che risorge in tutta la sua libertà e nel suo
valore infinito appena la grande ragione gh faccia sentire la sua grandezza
nella sua stessa infehcità: « Niuna cosa » infatti, come si legge nello
Zibaldone « maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano
intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza » ; e provare la gioia del comporre, del
cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita,
intesa, espressa, è grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non soggiace alla
natura, e può non temere la morte, e può, come la ginestra, consolare il
deserto col profumo del suo divino alito spirituale. Perciò infine il poeta c’
insegna, in una forma lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio, che
« nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che voler savia e
filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di passare in proverbio tra
i filosofi. E pel L. vuol dire che nella vita non c’ è soltanto la filosofia :
c’ è altro ancora, che è poi sempre filosofia. La vera però, che afferra la
verità con mano robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto
intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo intellettualismo. La quale
FILOSOFIA, si ponga mente, una volta, come s’è veduto, il Poeta la chiama
ultrafilosofia; ma non è poi altro propriamente che la sua personalità, il suo
modo di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù che prorompe nel
Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata salire su dal
profondo i palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il sentimento
della natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia, il bosco, il monte; Parla al
mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli
affanni poterono sopire; Non l’annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che
è, io dico, la stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la
determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle parole, nelle formule, nei
concreti pensieri, come sistematica- mente si possono comporre ad unità nelle
esposizioni che l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a fatica e non
senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci quei camerieri di L. che sono
i suoi interpreti, pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i
volumi che questi non pensò mai di scrivere; non vorrei, dico, si ricercasse
una vera e formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente costruita su’
suoi fondamentali convincimenti e orientamenti Mi perdoni la grande e austera
ombra del Poeta questa parola cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi,
che ogni giorno che il Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente
e catechizzarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e
disporla a cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a trovare.
Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno frammentari e sparsi, le
sentenze assai spesso felicemente formulate non possono essere pel critico
altro che accenni, spie dell’anima del filosofo. La cui individualità è
caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo atteggiamento, che è la
concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella che, conferendo all’uomo un carattere, non
ci spiega tanto le sue parole, spesso espressioni di cose pensate e non
sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente nel suo più intimo essere;
là dove egli, arrivi o no ad averne coscienza in un sistema chiaro e bene
organato di idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare e
inconfondibile individualità si mamfesta e si fa conoscere non per quel che
dice ma per il modo in cui lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel
colore che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la sua anima vi
suona dentro. Stile, essenza della poesia d’ogni uomo. Sicché, infine, a
parlare degnamente della filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte
del cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove la pupilla trema
della commozione segreta: ascoltare il suo canto, dove la sua filosofia è la
sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi nella filosofia italiana,"
per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Leopardi: l’implicatura conversazionale – 1150 – implicatura –
filosofia italiana – filosofia maceratese -- Luigi Speranza (Recanati). Abstract.
Grice: “Apparently, unlike in Scotland, it is very rare in Italy that a philosopher
is father to another philosopher, as James Mill was father to John Stuart Mill –
the closest you get in Italy is Leopardi, the philosopher, who was the father
of a poet, Leopardi, who some deem ‘philosophical’ in spirit – as Austin said
Donne was philosophical!” Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice: “We don’t have at Oxford a ‘chip off
the old block’ as they have in Recanati!” -- Importante
esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi,
targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio
primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una
delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del
padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro
figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal
precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della
cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali
cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto
alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio
familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la
deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse l'amministrazione
della propria eredità. Dopo un primo
progetto di nozze andato a monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua
lontana parente. Il matrimonio fu un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato
dalla famiglia di Monaldo, in base ad antiche dispute tra casati e per
questioni economiche (mancanza di una dote adeguata), che per manifestare la
propria contrarietà non partecipò al matrimonio, che venne infatti celebrato
nella sala detta "galleria" di palazzo Antici a Recanati. Il
patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo, passò in quelle della moglie, a
causa dei debiti del prozio che il conte non riusciva a ripianare. Frutto di
questa unione tra opposti caratteri furono numerosi figli: di questi,
raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. A
causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla sua indole caritatevole
verso i poveri, agli sperperi dei parenti e all'invasione giacobina),
l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle mani della consorte, donna
energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi totalmente alla sua passione,
gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti vi è aver grandemente
contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della biblioteca di
famiglia dei L., nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni di
"studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i
quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a
disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese,
come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".
L'impegno civico Angolo della biblioteca di palazzo L. con i ritratti di
L., Adelaide e Giacomo Il medico e naturalista britannico Jenner La sua
opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione
dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno
riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita
politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.
Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore
dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo
dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in
tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi
principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la
Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di
Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di
strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno
abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e
delle attività teatrali. Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze
della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a
vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò
inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo
stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il
cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il
vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui
propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che
svolgeva personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di
"retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte
della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di
un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe
seguito. Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i
medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la
costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come
scrisse una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le
sue idee controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire
il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene
presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale» Morì
il celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi,
la perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto
nella tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a
Recanati. Dei molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e
filosofici di Leopardi, i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie
correnti” usciti con lo pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane,
ovvero le iniziali di "Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente
un grande successo, ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più
lingue e divennero notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma,
ne informa il padre in una lettera dell'8 marzo: «I Dialoghetti, di cui
la ringrazio di cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho
più in proprietà se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in
mano.» Per umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È
probabile che con quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali
del figlio, che giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede
cristiana. In essi, infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione).
Tra le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone
al papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia
per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio
dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da
Dio"), la proposta della suddivisione del territorio francese fra
Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della
dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per
l'indipendenza. Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era
infatti ottimo satirico e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra
esse, il Viaggio di Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don
Muso Duro, curato nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza
(versione digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai
fedeli cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce
della Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi
stesso diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000
abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero
inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua
Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza,
ironia e umorismo. Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non
amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna consistette
in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo pontificio
e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico svizzero Il
Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi storici su
Recanati, coltivati in gioventù. Opere digitalizzate Monaldo Leopardi, La
Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso Francesco
Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino con le
sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con
annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle
materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da
don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella contrada della poca
pazienza. Rapporto con il figlio ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante
la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono:
senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del
ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del
padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte:
la crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo. La
lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto
negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella
che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819,
quando il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli
dovette rinunciare ai suoi piani. «Mio Signor Padre. Per quanto Ella
possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti,
Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi
hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non
debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea
cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in
questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e
persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo
consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice
mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo.
Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande
azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla
conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.» Finalmente,
Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il
padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma
non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione
delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che
non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di
prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La
pubblicazione dei Dialoghetti di L. è causa di attrito fra padre e figlio.
Giacomo Leopardi si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce
che fosse lui l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che
egli fu costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si
sfogò poi per lettera con l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con
questa macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame, infamissimo,
scelleratissimo libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è
l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore
sono io. Fino il governo m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi,
fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più nominarmi o essere nominato in
nessun luogo, che non sentissi dire: ah, l'autore dei dialoghetti.» In
toni decisamente più miti ne scrive poi a L. il 28: «Nell'ultimo numero
dell'Antologia... nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o
avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei
Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia,
e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel
libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. E
dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri
apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per
due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è
dovuto ad altri, o massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello
degli altrui meriti. [ L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare
per convertito, né di essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato
mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei
principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e
ch'io rispetto in Lei, ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati
però mai tali, ch'io dovessi né debba né voglia disapprovarli.» Nelle
ultime lettere Giacomo esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai
toni formali a quelli affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima
lettera). Monaldo sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i
due rimaneva però ancora evidente otto anni dopo la morte di Giacomo, non
accettando lui le idee areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina,
scriveva a Marianna Brighenti: «Di Giacomo poi, della gloria nostra,
abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di lui veniva fatto di
sapere, come di quello che non combinava punto col pensiero di papà e colle sue
idee. Pertanto, non abbiamo fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle
sue opere, e quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo
ancora, acciocché per cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.»
Su richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo
la morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su
Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura
fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal
figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto
successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò,
Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà
il proprio testamento, alla settima volontà scrisse: «Voglio che ogni
anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno anniversario
della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto
figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L. e la sua famiglia, Bietti, Milano. La
famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di Michele Mari Io
venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di Sandro Petrucci Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu
chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di
Canosa Antonio Capece Minutolo. Giacomo
Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo
Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo
Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo
Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo
Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana
ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,
(L'ultimo amico del poeta narra di un
suo incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi,
Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede et Cultura, L.,
Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa
giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi,
Diabasis, Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo
Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il
bicentenario del trattato di Tolentino, n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, L..
Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i
Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale
Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco
Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi. Monaldo Leopardi, su Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Corno, L. in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e
l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte
Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi
anti-italiano. che
dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte
le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio, questi sono i
doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e
raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in
stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo
potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo,
questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi, e non trovo in esso una
sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole
e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi
sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto
questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro
io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete
che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello? LA
CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora
avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer.
Fin quì non dite male, ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con
cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella, ognuno ba i suoi gusti,
e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè
voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di
fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si
tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via
cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”.
Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa
tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a
campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo,
bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno
della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo.
come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo
dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va
guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é
desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m
e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol
guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non
dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie
per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i
merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi
ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo, e incominciamo
le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia, il Cervello e
il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete
quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che
vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi Cer.
Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il
governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città, perchè immagino
che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce
lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle
formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non
vogliamo un governo all'antica, il quale pretenda di governare davve ro, ma
bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra, un simulacro, un brodo di
ranocchie e niente di più. questa è una cosa da nulla, ed è più facile
preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel
regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer.
Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e
il più semplice, ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd, oibù ; se
fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele
poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo
vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano
diavere ricevuto il loro potere da Dio, e nessuno si azzardava di slendere la
mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma
nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del
popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente
devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico
adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il
più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re
falto dal popolo, perchèchipuòfarepuò guastare, ed è più facile sbalzare dal
trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di
cucina.Sentite dunque signor governo, e imparate bene cosa ha da essere il
governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di
tutto, il re ha da essere un re di carta, o vogliamo dire che tulta la sua
autorilà deve consistere in un pezzo di carta, esso medesimo deve riconoscerla
tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella
carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle
belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso
di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e
putati, ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi
la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza, e
per una semplice for malità, sua maestà di carta deve subito pi gliare la
frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del
popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la
giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza
essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino
riceverà una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare
una querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di
pane e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità
della giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere
i vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico
costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa, e di toccare un
quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno
di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla
cainera dei deputali, e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo
importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se
però la camera non vorrà darglieli,lascerà che il governo cammini da per sè
stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il
pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche
volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con
le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una
giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi
scacciare il re con tutta la sua maestà e la Gov. Benissimo. Fil.Siccome
poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve
sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla, e che egli pad usarne
soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali
condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua
maestà di carta lo dovrà liberare, e se condanneranno ingiustamente un
innocente malveduto dal popolo, sua maestà di carta dovrà farlo impiccare. Gov.
Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col bordone
in mano, e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five dei
conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono, il governo, tutto è del
popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di passatempo
al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a
preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”.
Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia
vera mente solida, dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse
col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che
muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino, il
quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna
contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto
affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare
ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici
debbano essere lavorali sopra queslo m o dello, un re dipinlo,ovvero un re di
paglia potrebbe servire nello stesso modo. La Filosofia. Chi siete, e cosa
volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella
vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a
meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti, i quali hanno inolla pratica dei
tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie presenti, sa
rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle cause,ovvero
giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri sparmierebbero le
spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero il giusto
con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino. Giu .
Parlate pura giacchè sono venula a p La Filosofia, il Cervello, a la
Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza tribunale
e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle queste
cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero però che
se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia, gli avvocati e i procuratori
resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee filosofiche
sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un altro poco
adattarsi al siste ma antico, e perciò venile avanli madonna Giustizia e
facciamo i nostri palli. posta per imparare cosa deve essere la
giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in m e
n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e la
giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente
al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròin verecondamente
per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle
cause, quando stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei
giudici però i quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere
discacciati e puniti. 102 re che questo non è proibilo ; e non manca il
modo di stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli
occhi al mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se però qualcbe
volta vi troverelealle strelle, rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate
ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre
assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e
salvare la capra e l'orto, falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano
di niente quando sono protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo
sofia i giudicisono una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i
liberali si mellono per tutto, e coperlamente, ovvero scopertamente comandano
in lulli i dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo
loro, e a chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le
corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione.
Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei
liberali, dale sempre ragione all'uomo indifferente an corchè fosse uù
ruffiano, ovvero un capo la dro, e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali,
acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà.
Fil. In questi casi potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero
ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale
pure quello che vi pare, che alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne
dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un partito troppo gras. so per i
galantuomini i quali giuocherebbero alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan.
no da godere sempre qualche vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ?
Giu. Ho capito anche questo e non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma
come si dovrà procedere in parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a
litigare due uo. mini indifferenti, ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che
hanno ragione quelli iquali desiderano, che ildirillo eiltorlo si estraggano
allasorte oppure vengano giuo catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha
da essere veramente giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della
nera . Giu. Ho capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause
criminali come dovrò regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per
la parte dei malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si
vuole la m a n naia del boia, e piuttosto si gradisce ilcol tello degli
assassini. Se la giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb
bero le gloriose giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo
morire di malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto
per la giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce, Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq
diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il
Sacramento, te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez
za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete,
un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli, i frali, i
vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in
galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave
re fatto una sconcordanza, caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la testa,
e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re, distribuite le
pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma regolatevi in modo da
far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è permesso fuorcbè toc care
colla puola delle dila i liberali e la fi Giu . H o capitotullo benissimo,
e vado a stabilire i tribunali e a portare in trionfo la giustizia nel regno
della filosofia. Fil. Vedo bene compare mio che i miei ordinamenti fondamentali
non incontrano trop. po il vostro genio; ma finchè sarele un cer vello
all'anlica tullo pieno di pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c
non potrele figurare nel regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a
poco ancho il cervello perderà il cervello, e allora le dottrine e le pratiche
della filosofia si diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza
agli altri che vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia,
il Cervello e la Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci
hanno da essere i proprielari,ma anche 105 1 losofia. Se poi talvolta
doveste per rispetto umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per
questo, perchè ire dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la
grazia, e non ci sarà mai pericolo, che la scure del manigoldo ardisea di
toccare il col lo di un liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a
stabilirmi nel vostro puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci
do. vranno essere i proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di
mascalzoni. Pro. Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno
alla proprietà, e lulle le leggi devono consistere in questo, che ognu. no
possa tenere e godere tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche
cosa da dire, m a siccome ancora non siamo arrivati al punto, basterà stabilire
per adesso alcu ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che !
vorreste forse che nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il
proprietario non fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste
di fare per introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil.
Si potrebbe benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una
legge agrarja, intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i
disperati e tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per
questo partito definitivo, l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il
mondo non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte
le leg gi, tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a
procurare lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni
si diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione
uguale ? 106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole
fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in
mira di spogliare iricchi,i signori e i benestanti; e di arricchire
i cialtroni, e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre
diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso
vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino,
e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer.
Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da
questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una
importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello
Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime, e siccome
alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere
come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti
gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più
rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il
denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano
di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente
aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con
questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il
malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un
popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca
pito,signora Proprietà? Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad
un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo, che
bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati
ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e
divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne;
e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia
le anticamere, perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a
spalle dei mincbioni, se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi
parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre
preferire i più indegni, i più asini e i più lemerari, e così si deve correre
ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il
perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo
Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo
in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni, diffusa l'idea che
tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato, e
rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni, igoverni e i
ministri del governo verranno strascinati da quella piena, e non potranno più
impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più
bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo
disordine e sono vera 108 mente affezionati allo Stato, daranno
mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno
la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè
in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti
qualche loro protello, tutti diranno che quella è la eccezione della regola, e
tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di
più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol
tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto,
acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè
furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il
privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato
perchè non ebbe mai niente, e non è dovere che nel giorno della cuccagna un
galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato
non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni
assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le
sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza, a depositarsi nella pan cia
di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare la
diffusione dei beni, o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei
privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa
- tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe
qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci
è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste
nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e
delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da
vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di
pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia
prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero
un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita
impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi,
ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta,
con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di
avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli
poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le
mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con
dottieri nasali dei grandi, e sino le zitelle, le vedove e le vecchie,
pericolate, perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una
pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver
tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi,
e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli
soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e
i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno
in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti
annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della
proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi,
e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per
sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go
che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per
operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi
cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla
dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale
della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e
le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a
poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori,
e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i
coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e
preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le
casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare
del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra
mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi
zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste
cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi, siguor Cervello, e
imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno
depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in
quelle casse, m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti
ipoteche sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco
depositato nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei
propriela rii verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli
effetti di questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio
avranno un capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie
tari e ancora dello stato, allora si manife steranno le forze di questa nuova
occulta p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le
proprielà, e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è
diventata la vera padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con
elemosine propor zionate, stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro
bisogni,e ricoverarli nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le
opere della prudenza e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di
talli i pezzenti, aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse
di risparmio so no un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni
? a banca per il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla
bellola ovvero rubati nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè
monti a cavallo sul collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli
stessi go. verni, questo è propriamente secondo la dol trina della diffusione
del potere e dei beni, ed è la vera quintessenza della filosofica malignità.
Cer. Confesso il vero che mi avele sor preso, e non credeva cbe la filosofia la
sa. pesse tanto lunga, e pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto
di fare la carità ai poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi
sociali che proveranno da questa dilapidazione universale della proprie tào
vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo
non cerca di mutar posto, 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da
perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate
onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti,
rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e
la buona morale, il deside rio dell'ordine, l'altaccamento al governo e la
considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite
e degra date dalla miseria, sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire
l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della
nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio
dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le
classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni
; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o
quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine
tolta la barriera della ricchezza e della nobillà, o vogliamo dire tolta la
barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril
tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà
più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo, e le gloriose
giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non
altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni, o vogliamo dire
l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire,
ma Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed
il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato
per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti
passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno
nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo
crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non
potranno es sere permanenti e durevoli, perchè l'egua glianza delle proprietà è
in opposizionecon gli ordinamenti della natura. sfasciata da capo a fondo
una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo, sì quando avremo
subissata ben beno la società, non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci
saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di
quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le
educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini
del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle
mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il
dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per
ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo
assicurare il bordello, il susurro, e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai
secoli successivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non
mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama
Proprietà, ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi
ai miei be nefici regolamenti, e ricordatevi che nel re gno
dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni
e delle proprietà, o sia per assassinare tulle quante le proprielà. La
Filosofia, il Cervello, l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre
persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è
colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro
talto smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi
sono l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali, e amici tan to
sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento
el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome, ma
bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di
corrom pere tulle le cose buone, perchè questi due cbe si avanzano hanno la
cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini
e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della Filosofia.Ve
nite avanti, signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad
ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà. L'Ins. Parlate
pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima
di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi
è quella appunto con cui si olliene Fil.Dibò,oibo.Tutti
vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà
poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno
i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti
e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società, e che anche i
guatleri, i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi,
letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia,
e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina?
la diffusione della civillà.Voi dunque, signor Josegnamento, dovete mettervi in
testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi, let terati e saccenti, e
di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la
nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi
vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che
dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso. ciali sono destinati a
trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol
lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e
lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani, que stinon vorrete che
apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli
oziosi,indocili e scontenti diseme desimi, e gravosi e molesti agli
altri. rivare alla diffusione generale dei lumi,e al
l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora
si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai
vostri scon siderati seguaci, qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero
d'individui, e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla
schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità
e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro
che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso
stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di
vil lapi ignoranti, e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto
basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla
società non conviene alla filoso fia, la quale vuole il movimento e non vuole
la quiete, vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità. Se
predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero giungere
alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel do. minio
dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe consiste nella m
o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi convenevoli al proprio
grado, la filoso fia non vorrebbe saperne niente e prediche rebbe contro la diffusione
dei lumi e della ci viltà. Siccome però è certo che la grande plu ralità degli
uomini non arriva alle perfezio ni, e che ostacoli insormontabili naturali
e civili si oppongono alla troppa diffusione dei lumi e della civiltà, così
è certa che la propagazione smodera la dell'ammaestramento e dell'incivilimento
empirà il mondo solamente di mezzi dolli, di scioli, di sapulelli teme rari e
presuntuosi, iqualiappunto ci voglio no per secondare la grand'opera della
filoso fia.L'uomo grossolano e di buona fede crede più al curato che alle
pappole dei liberali,e rispellando e temendo il sovrano non pensa, neppure
quando si trova ubriaco, di essere esso stesso un sovrano.Chi non sa leggere o
non presume un poco di letteratura e di ci villà non legge le gazzelte e non
modella il suo modo di pensare sui giornali e sui liber coli della propaganda;e
senza le gazzelle,senza i libercoli e senza igiornali,come si rendereb bero
fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo del Bellarinino ? e dove si
trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare le croci,per
abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare
Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa
vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della civillà. L'Inc. Orsù, non perdiamo più tempo perchè io
muoro di voglia d'incominciare la mia missione, e di andare a diffondere i lumi
e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che vengano
inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio adattati per affascinare la
mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto allescienze, generalmentepar:
L'ins. Ho capito bene quanto alle scienze e lasciatevi pure servire;e
quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil. Tutti i libri che mettono in
ridicolo i preti, i frali, la chiesa e le pratiche della chiesa;tulli quelli
che parlano contro l'aulo rità del Papa e dei principi; e lulti quelli che
trattano scopertamente ovvero copertamen. te di materie scandalose e lascive
lusingando lando, potete secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate
sempre di oscurargli la verità e di allerare nel loro cuore igermi della virtù.
Parlando poi specialmente, le vostre lezioni più frequenti devono essere sulla
m e tafisica e su i dirilli dell'uomo, le quali scienzc adoperate dalla
filosofia liberale riescono benissimo adattate per diffondere le dollrine
dell’empielà e per suscitare lospiritodellale. merità.Sevoinon
capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare la testa
dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu
l'opera di un essere necessario, ovverouscì dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele
cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi, oppure ciolloli del
torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non ne
sapele un acca, queslo purenon importa niente, purchèivostridi scepoli
ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti
consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel
diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho
capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre
lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua
volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua
latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è
stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla affallo
non solamente dalle scuole, madatutto il commercio letterario sociale.Che
ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga conservato l'uso
della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia delle pas sioni,
tutti questi libri generalmente grandi epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo
derni, lulti sono altrettanti evangeli della filosofia, e lulti vi serviranno
meravigliosamente per diffondere i lumi, per incivilire la società, o sia per
ridurre iullo il genere umano una massa abbominevole di corruzione.Per re
golarvipoineicasi particolari voi dovete scegliere un buon giornale
letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con grazie per ac cappiare meglio
imerlolli,ma ildicuivero fine sia la rigenerazione filosofioa, o voglia mo
direl'assassiniodel mondo. Alloraandate a colpo sicuro e non polele
sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro lodato da quel giornale non
abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche modo a sollecitare il
pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende senza nemmen o parlarne .
Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e l'esercizio della lingua
latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi pali,le quali dovranno venire
riconosciule da chiunque non abbia ripudialo l'uso della ra gione. In primo
luogo la lingua latina, essen do la lingua della chiesa e delle scienze, vie pe
inseguata e diffusa in lullo il mondo, serve a legare tutle le nazioni del
mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili, commer ciali e sociali. Perciò
sbandire l'uso di questa lingua universale e comune sarebbe lostesso che
rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle nazioni il modo
d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem proximi sui. In secondo
luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta per custo dire le
tradizioni, i monumenti e le opere delle lingue viventi,perchè quella si conser
va sempre immutabile,passando direttamente dagli scrilli dei nostri anlichi
padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre calledre, lad dove le lingue
volgari regolate dalla moda, allerale dal mescolamento di voci nuove 0 straniere,
e logorate e guastale dall'uso, si mulano e s'invecchiano
giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per soltrarle all'intel ligenza
comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono il latino di Cicerone e le
ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli italiani, dai francesi,
dai goli e dagli arabi, i libri scritti in ilaliano e in francese sei o sette
secoli addietro sono diventali arabici e golici, e non si possono intendere
senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in comoda precisamente per
questo, e che vo gliamo levarcela di altorno appunto, perchè è la lingua dei
preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco della dottrina ecclesia
stica resterà in piedi, vantando diciotto se. coli d’inalterata antichità, i
preti e i frati, i vescovi, i papi e i cristiani ce lo sbatte ranno sempre sul
viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre subissatedaquellamas sa; e
gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre riconosciuti come apostati e
disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce della ve. rilà e della ragione.
Quando però la lingua latina non sarà conosciuta più da nessuno, e quando la
bibbia e l'evangelio, la collezione dei concili e delle decretali, e la
bibliotheca patrum avranno servilo per accendere il fuoco e per involtare il
salame, allora saremo tulli del paro; la parola di un prele edi un papa varrà
quanto quella di un filosofo liberale, e allora si potrà liberamente rigenerare
il mondo secondo il gusto della filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo
della malizia non vi abbia dato un suggerimento larsi il cervello è senza
il soccorso malsicuro dei commenli. E sevenissedisprezzatoequasi eli minato
l'uso della lingua lalina,chi garanti rebbe l'autenticità e l'intelligenza
delle scrit ture divine ? e cosa diventerebbero i canoni dei concili, i placiti
dei pontefici, le opere dei padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e
maraviglioso della dottrina del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo
pari, ma in primo luogo è assicurato dall'alto che le po lenze alleale
dell'inferno e della filosofia non prevaleranno contro la chiesa e contro le
dot trinedellachiesa, e in secondo luogoi go verni conoscendo l'ulililà della
lingua latina e sospettando sulle trame della filosofia non permetteranno mai
l'espressa o tacita abolizione di quella lingua. Fil. Non sapete che i governi
si lasciano menare per il naso, e che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche
il regime degli stati resta sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi
ullimitempi on governo il qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in
leressato a sostenere la lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove
aveva regnalo pacificamente per due dozzine di secoli,e con ciò le ha dato un
grande incamminamen lo verso l'ultima sua rovina. Cer. Questo certamente
è stato un passo falso carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto
giusto mezzo nazionale e straniero, che presume di salvare la casa aprendo la
porta ai ladri :e una tale concessione rub bata dalla violenza e falta contro
la volontà, è appunto una di quelle riforme che bisogna guastare, se non si
vuole che l'ardire della filosofia e i danni religiosi e sociali diventi.
nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran
no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali, e con
questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo
indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare
ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co noscano e che
vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei
litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli
ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi
è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare, giacchèin
qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot tore e
sulla fede del farmacista, così litiganti è lo stesso che le citazioni e le
cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua, giacchè alla fine dei
conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali. Abbiamo
però altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal foro :
Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè
tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento
della sua importanza e della sua familiarità, si rende sempre più sconosciuta e
straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra
poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra
forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque
sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre
in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la per i Cer.
E quali sono queste ragioni? tino, e dove il foro sarà chiuso per chi non ha
sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali, gli avvocati e i
giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e
di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango,
e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di
quella lingua, gl'impegni, le protezioni e la cabala faranno il resto; il foro,
i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a lulli
i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon dersi
sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le mie
ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre chiacchiere,
voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella città della
filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra tutteleclassi del
popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere la vostra lezione.
L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri comandi. Fil. Prima di
tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal vostro nome, persuaden
dovi, che la civillà di adesso non deve essere come quella di una volta, e che
l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere ilfra. tello carnale
dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della filosofia.
L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri precetti. Fil.
Una volta adunque la vera civiltà con. e L'Inc. Ho capito
benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la decenza
e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no l'indizioelagaranzia
dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le vogliamo più, e la
civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza e della
magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure
cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il
vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito
d'arlecchino, una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre
il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito
anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il
modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.
sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono, e al più si deve
con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið
scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità
dichiarata e brutale, predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono
il frutto della civiltà, m a rendele poi familiari negli scritti e nei
trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze
seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e
questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e
il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito
tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per
opera della civiltà. Fil. Andate pure, e vi accompagnino cou
lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae
il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione
vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di
abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel
suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi
dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi, ma
oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo, e l'incilimento deve
esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i
superbi. Voi dunque, andando sempre contro natura,dovele mettere in
tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori, e d o vele
meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini, siccbè
queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino
a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra
costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia
sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la
diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di
una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco
neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo
venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli
imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ? Fil. Voi vi
ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo
pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo
tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue
abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali
che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a
presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale
siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che
si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il
Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i
veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il
luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo
però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi
terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per
fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di
meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro
servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati
di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro
paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e
un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci
libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel
terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con
l'errore è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una
religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola
religione può esser vera e tutte le altre devono essere false, così un solo
cullo può essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere
allrellanle imposture e mascherate, ridicole agli occhi degli uomini e
oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in
discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine
filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto
dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà, che
la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza, e che una città
dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o
Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne
uno. facendo torto agli altri ? trebbe essere la citla della
Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con
tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi
pare, operate come vi pare, e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame non
im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro
slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla
quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio
pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la
tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a
ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre
rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua.
Fil. Queslo veramente non è necessario, percbè nei paesi della filosofia ci è
il datur omnibus, e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno
questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna
magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco,
e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a bere
e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo luttuosamente nei
nostri serragli, come vi vono i galli nel pollaio e i becchi nel peco rile, e
la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo pollaie pecorili ancora
nell'altro mondo, e che l'abbondanza delle galline e delle pecore sarà il
guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa mi sem bra una
religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a dirla schietta,
questa, poco più poco meno, è la religione dei fi losofi liberali, i quali non
sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli due sessi del genere
umano quella libertà che si godono ibruti animali. Esaminate pure e analizzate
quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo illuminato, il libertinaggio
animalesco libera è il compendio di lulti i voti e lo scopo principale del
liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo dire un serraglio, e per
l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto l'evangelio della filosofia.Voi
dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia nuova cillà, esercitatevi il
vostro culto liberamente, e non dubitale che i pollai, i pecorili e i porcili
non saranno mai perseguitati dalla fi losofia. E voi che venile appresso chi
siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia un Dio, ma siccome non so
cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi
religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu
dizio. Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una
religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e
si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale
cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più, e non
gli volge mai nè uno sguardo, nè una parola ; questo Id dio è come se non ci
fosse, si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi, e la
dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe
corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni, ed
entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro.
Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se
il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione
fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo, ovvero se col
tempo prenderà qualche altra figu ra, e non so cosa sia l'uomo e se finirà di
essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per non
vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di Dio,
e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini, voglio dire che non
c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello che
gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia e
senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m e
desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile,
o il sarà quel che sarà, può accomodarsi benissimo con la dottrina della
filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione
filosofica, e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al
contrario di quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni
riconosciamo un diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a
doriamo il sole e la luna, gli animali, i sas si e le piante; ci facciamo le
divinità di le gno e di cocco, e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le
lucerte, è fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un
branco dimatli, e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro
paese. Fil. E perchè no ? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se
la idolatria non è secondo i dellami della filosofia, almeno non riesce molesta
alla filosofia. Anzi al Dio M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei
filo sofi non mancheranno adoratori,e a quella cara Venere, deessa della
voluttà si dovreb bero erigere altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco
galantuomo : suppongo che la morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata, e
che contro il libertinaggio non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete
immaginare cosa debbano es sere la morale e i costumi dove le divinità sono
lavorate nelle botteghe dei falegnami e degli sloviglieri. Nulla dimeno il
fanalismo e l'imposlura si intrudono per lullo sotto lea p Ris. Noi
siamo riformati e protestanti, lu terani, calvinisti, zuingliani,anglicani,
quac queri, puritani, presbiteriani; insomma fra di noi ci è di ogni sorta un
poco, é venia mo astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino
che sarete tuiti quanti per suasi di essere una gabbia di matli, e co noscerele
che essendo una sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse
re lontana dalla verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può
trovarsi fuorchè in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con
indifferenza uno con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di
strada. Per que. sto se ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi
medesimi e conosciamo di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo
parenze della pielà, e anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre
vestali, e abbia mo i nostri penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio
per essi ; e poi ognuno ha i suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i
Bonzi e i Dervis vogliono digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro
divinità. Quelle credenze e quelle pratiche religiose che non disturbano la
società devono essere accolte e protette nel regno della filosofia. Andale
dunque tutti liberamente ; incensate quanto vi pare sorci, gatti, porci e
somari, e vivele si cuci della nostra filosofica fraternità. Adesso venga
avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta turba di gente ? Rif. Per
ultimo il nostro clero è disinvol. to e sociale e non intende di rinunziare
alle soddisfazioni della natura ; perlocchè, abbia mo in abbondanza
pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra noi ci fossero il papa e i cardinali
avremmo ancora le papesse e le cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi
miei compagni vogliamo aprire le nostre sinagoghe nei vostri domini. e
l'impegno ci conservano nel nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi
venia mo spesso a capelli siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci
disertori dalla Chiesa romana. Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo
godere i privilegi dell'errore, e non volendo assoggettarsi alle seccature
della ve. rità è d'uopo lenersi lontani da quella dot tora che presame
d'insegnare essa sola la verità. Rif. Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè
frati, nè confessionari, e conoscele bene che questa è una grandissima comodità
per la vila. Fil. Sicurissimamente; e levato quel tram pino del confessionale,
il libertinaggio non si contrasta più da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi,
e questo si chiama essere cristiani a buon mercato: pro priamente secondo il
gusto della filosofia. Entrale dunque anche voi col vostro mezzo evangelo,
perchè lanto è mezzo quanto è niente, e venga avanti chi resta. Fil.
Senlite, figliuoli miei, nel regno della filosofia ci deve essere senza dubbio
il luogo per lulli,ma voi altri giudei avevale tanti pregiudizi e tante
pretensioni che non so se starele d'accordo cogli altri, e non vorrei che mi
melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni dubbio,perchè gli ebrei di adesso non
sono più di quelli di pri m a, e anche noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li
patriarchi per arruolarci sollo le in segne della Filosofia. Ci resta un poco
di cir concisione, perchè ce la ficcano quando non possiamo parlare, ma questa
non si vede,e in tull'altro siamo una vera canaglia, nata fatta per venire a
figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene, ma intanto puzzatecenlo miglia
lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo a lulli i miei popoli. Eb.
Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio civilizzati noi siamo il
fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti, portiamo titoli e
decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se volessimo degnar. cene
faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori. Fil.Quando è così entrale
pure anche voi, fate le vostre sinagogbe, circoncidetevi a modo vostro,e non
dubitale che non vimanche ranno libertà e protezione nel regno della fi
losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat. Io sono un cattolico, e
insieme coi miei compagni desideriamo di professare li 137 e per
ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di ammettere tutte le
religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà essere esclusa?
Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò non è vero nel
senso in cui voi lo intendele, e non polrete provare in nes sun modo cbe noi
siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es sere i soli a
credere e insegnare la verità, che fuori della vostra chiesa lulli sono p o
veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si chiama essere
conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là della verilà
non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è persuasodi
trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che quelli i
quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via dell'orrcre.Anzi
perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi dalla verilà basta
solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori delle loro dottrine
si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo nessuno a
farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che vivono in
un'altra credenza, e neppure ci vendichiamo quando veniamo oltraggiati e
beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica. Fil. Un cattolico! un
cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno dei filosofi la fede
e il culto cattolico? e perseguitati ; perlocchè in luogo di essere in
tolleranti, noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e i più tolleranli.
Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache, di frati e di claustrali
di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non vanno a genio della
filosofia. Cat. Ma, se è vero che nei paesi costituiti filosoficamente, ognuno
deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni uominiealcune donne unanimi nel
pensiero, e animali dallo stesso desiderio, non potranno albergare in una
medesima casa,vestire un medesimo abi to, vivere come gli pare e godere
anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della vostra tolleranza non
podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e dei giappo nesi, e i Dervis
dei maomettani, perchè lo vostre esclusioni saranno riservate privaliva mente
per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la vostra capaglia di frati vuol vivere
senza far niente e campare a spalle degli altri. Cat. I preti e i frati
callolici predicano la parola di Dio, istruiscono la gioventù, so stengono il
ministero del culto, assistono gli infermi, consolano i moribondi e tutto
questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli oc chi della filosofia ; e
quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri prelieinostri frati campano
per forza, assassinando i pas saggieri in mezzo alla strada ? forse i predi
canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il villo e il vestito dalle
nuvole e non 1 $ Fil. E non contate per niente il celibato
del vostro clero il quale naoce alla socielà col l'impedire la molliplicazione
del popolo? Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non
consiste nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta
proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però
entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà,
forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento
mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse
sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero
alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere
lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è
troppo serio, troppo pubblico, troppo pomposo e solenne, e non può essere mai
gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela
religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il
nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione
cattolica è la dominante, ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene
ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di
donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe,
epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla
filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei
nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto
dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte
dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele
dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non
disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della
filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di
più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare
mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio.
Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il
lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà
sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat.
tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete
accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri
frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro
priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure
e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si
accordano mai coi cattolici, e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto
quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il
perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo, perchè accomodata quella
piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per
ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete
accordarci il bru tismo, le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è
venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di
sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque, i preti e i cat
tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e
inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi
liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo
in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert mert
doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città, o la
sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia
accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con
allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie
i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare
in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce
un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del
ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde
l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle.
La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a
questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS
un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di
scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si
mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un
corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa
la sua danza pippando, e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea
scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a
ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare
il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi, e della
civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno
accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale
dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare
a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna
contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il
libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del
potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo completa.
Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la
Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce
la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo
lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con
l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la
diffusione del potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo
completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a
calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così
finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata
troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La
Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La
Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La
Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti
dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello,
la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni
sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio
ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. –
the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da
Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; Grice
e Lettieri: all’isola -- la ragione conversazioanle e l’implicatura
conversazionale – filosofia siciliana scuola di Messina -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Messina).
Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Grice: “Lettieri rightly contrasts sensualism in the
practical sphere of reason as ‘egoism’ – my ‘principle of conversational
self-love’ – but focuses on benfeficence, and solidarity – as ‘rational’ – my
principle of conversational benevolence, -- or conversational helfpfulness.” Grice:
“I like Lettieri for two reasons: he uses ‘diritto razionale’ which we at
Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo filosofico’ as a genre as we
Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on ‘l’intuito’ – While he wrote on
‘sensualism,’ he also explored the idea of ‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as
he put it in his vernacular!” Insegna
a Messina. Presidente della Real Accademia Peloritana dei Pericolanti. Molto
apprezzato da Mamiani, Gioberti e Galluppi.
Altri saggi: Il sensualismo – cf. Grice, “Some remarks about the empire of the
five senses” – Austin, “Sense and sensibilia” --, dissertazione, Messina, Capra;
“La fisiologia calunniata di materialismo, Messina, Nobolo; La potenza del
pensiero, Palermo, Console; Etica e diritto naturale, Messina, Amico; L’intuito:
dialogo filosofico, Messina, Arena; L'omu nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata
di lu professuri cav. A. Catara- Lettieri (Messina, Amico; Introduzione alla
filosofia morale e al diritto razionale, -- Grice: “I like the idea of
‘rational’ right!” (Messina, Amico; “La cognizione del dovere -- poche nozioni
dirette all'operaio e ad ogni classe di cittadini” (Messina, Amico; “Ricordi
storici intorno al movimento filosofico in Siciliam Messina, Amico; “L’uomo” Pensieri”
(Messina, Amico; Via Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on rationality –
solidarity, beneficence and all the conversational principles appealed by Grice
find room in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il prossimo” – The
fundamental one is that of equality, as when Chomsky says that competence is an
ideal natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri would hardly
consider hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a trattarello on
‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to him, nor does he
belong to her!” – RELAZIONE
LETTA NELLA R. ACCADEMIA
PELORITANA DI MESSINA, ... Antonio Catara Lettieri
Digitized by Google RELAZIONE V
LETTA NELLA R. ACCADEMIA PELORITANA DI MESSINA (
Tornata del 28 gennaro ) dal Segretario Generale della stessa
PROF. GAY, A. CATÀRA-LETTIEKI INTORNO AL DISCORSO DEL
COMM. NEGRI CRISTOFORO della Societt Geografica
Italiana AU/AOUNANEA OEHERÀLB DKI MEMBRI DELLA
MEDESIMA IL 15 DRKMBRE 18«>7 MESSINA
PRE88O IGNAZIO d' AMICO Impressore d<»lla R.
Accadevi» 180* i. Digitized
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Google m» i H:rt- laeafc Darò
cominciaraento alla relazione interno la Società Geografica Italiana ,
toccando dapprima alcune cose che con- cernono questo Sodalizio; il quale
da più mesi si occupa con attteso animo e colla coscienza del proprio
dovere , a poter renderò gli onori funobri alla memoria non
peritura dell' illustre estinto socio Professore Felice Bisazza t
Segre- tario della quarta classe ; non senza ricordare con parole
di lodo gli egregi soci Barone G. Natoli, Senatore del Re gno , Antonio
Uaivjcri , Kracamp, anche essi rapiti dallo indico morbo.
Taluno pratiche, o certi incidenti inaspettati, sono stati di ostacolo
a poter avere luogo la tanto bramata generale tornata. Però convenne
rassegnarsi; ma ora abbiamo ragione di potere annunziare cho in brevo
sarà reso all' inclito nostro consocio quell'onore, che per noi si potrà
maggiore di conserva agli altri soci nostri suddetti. Ci
corre il debito manifestarvi, che il Segretario Gene- rale col consenso
dell' onorando Presidente , è ormai più di un mese , ha iniziato delle
trattative , che sono di già condotte a buon punto , per raccogliere
tutte le Opere del Bisazza, edite ed inedite , e farne un' edizione a
vantaggio Digitized by Google - 4 -
dell' egregia Vedova , consenziente , e dei figli dell' insigne
poeta , di cui deploriamo la dipartita. E se V opera perse- verante ed
affettuosa nostra non andrà disgiunta dal concorso dei nostri consocii, e
di quanti nel lor cuore hanno un culto alla sapienza ed alla virtù, qui
fra non molto sorgerà il mezzo busto in marmo del Bisazza nostro ; poiché
è da più settimane che il bravo Letterio Gangeri, fratello all'
estinto egregio Antonio, si ò messo all'opera. L'accademia,
malgrado i mezzi esigui disponibili, si coopererà ancora ed
efficacemente perchè le spoglie mortali dell' illustre poeta abbiano
riposo in luogo degno, e sieno trasportate con quel decoro che si
addice a chi onorava tanto questo consesso, la patria, l'Uni- versità
degli Stodii, e V Italia I Ora darò mano alla Relazione circa la
Società Geografica Italiana, e al discorso del Commendatore Cristoforo
Negri Presidente della stessa. Noi, figli di Dicearco, di
Maurolico, di Borelli, quando apprendiamo che alcuna cosa di utile, di
grave e di grande si sollevi, e si scuota dall' inerzia il pensiero e
voglia farsi sempre più indagatore della natura, come lo furono quei
som- mi nostri padri, che tante solenni verità disvelarono anche
nel giro delle cose sensate ; noi par che un che di soave allora
proviamo, un nobil sentimento si susciti in noi e scorra per tutto le
nostre fibr3, e lo spirito degli avi aleggi d' intorno a noi, e c' ispiri
amore e riverenza verso quegli uomini e quel- le associazioni, che
intondono a tutt' uomo riportare nuove vittorie sulla natura, estendendo
ognora il pensiero ed il potere umano, e coli' incremento di questi
volgerò in meglio le condizioni dell' umana famiglia.
Digitized by Google 5 Allora di
presente ci ricorre alla memoria, che Dicearco anche egli si rese
benemerito in fatto di Geografia, ricordando la storia le carte
geografiche da lui fatte, e che, come ri- ferisce Cicerone , esistevano
ai suoi tempi , e furono da lui vedute ed ammirate, E , senza tener
dietro ai portenti di quei sovrani intelletti, del secondo Archimede e
del Borelli, questo nostro sodalizio ha titolo alla comune benemerenza
, perocché esso con Arrosto (Gioacchino) fu il secondo che in
Europa felicemente esegui 1' esperienze galvaniche ; con Jaci creava una
Meridiana in Messina ; con Arrosto (Antonino) arricchiva di nuove
famiglie di piante la scienza; con Cocco popolava di nuove specie il muto
armento. E se il morbo del 54 , non avesse reciso anzi tempo quelle care
vite di Giamboi (Giuseppe), Preetandrea (Antonio), De Katale (Giu-
seppe), ohe tanto confortavano le speranze della patria, ed erano
degnamente continuatori di quegli osservatori e dili- genti scrutatori
della natura , ma che entravano nel campo interminato di essa con con
quelle nuove vedute , con quei nuovi elementi che la maturità delle
scienze naturali offriva, il nostro consesso avrebbe certo a quest'ora
titolo ad altre lodi. Ricordando i socii nostri che si
distinsero veramente nelle scienze, che alla natura volgono il loro
amorevole sguardo, non devo non fare onorata menzione di Francesco
Arrosto , figlio a Gioacchino, rapito immaturamente da morte quando
già avea dato in luce la Monografia sugli Agrumi , che pel suo intrinseco
valore ha avuto l'onore di molte ristampe, senza dire che venne in allora
premiata dalla Società Economica di questa Provincia. Ma oggi? Pure il
nostro Consesso e la Regina Digitized by Google
- 6 - del Peloro hanno in Cuppan un eminente intelletto, che
tieno il primato in Italia quanto ad Agraria, e l'Arrosto
(Giuseppe) e Seguenza (Giuseppe) han rappresentato bene, il primo
alla Esposizione Italiana in Firenze , ed a quella internazionale
in Londra eoi lavoro suHe acque minerali, e l'altro alla Esposizione
universale in Parigi (1867) con una colle- zione di fossili , cho
chiaramente dimostrano i' esistenza di un nuovo torrcno interposto tra il
Piacenziano del Mayer ed il Tortoniano dello stesso autore , han
rappresentato , io dico , bene questo nostro Consesso , e ne vennero
premiati con medaglie, lo son parco nelle lodi, massimo coi viventi
e presenti forse , ma certo amici; e saria stata colpa non lieve non din»
una parola, quando i fatti sono cosi elo- quenti a prò dell' egregio
figlio del chiarissimo Gioacchino Arrosto, o del valente naturalista
Seguenza, si bene conosciuto ed apprezzato pei suoi lavori, che
riguardano principalmente la Geologia e la Paleontologia Stratigrafica
della provincia 4i Messina. Kè oseremo dimenticare il Socio
Costa-Saya (Antonio) Segretario della 1? olasse di quosta Accademia
, cotanto benemerito, anch' egli autore del Filo di Prova, stru-
mento addetto a dimostrare, come la elettricità statica si ditribnisca
anco alla superficie interna dei conduttori cavi, in opposizione a ciò
che credevano di ave*e. dimostrato i fisici. £ noi abbiam fiducia
che i sapienti gli renderanno piena giustizia. Ho toccato di
questi antecedenti storici e contemporanei della nostra Accademia a fine
di poterò affermare, che essa non fu e non è straniera a quei movimenti
intellettivi, che mirano ad eccelsa mota, come oggi veggiamo avvenire
colla fon- Digitized by Google - 7
- «lazione della Società Geografica Italiana. Di vero, mentre
esistono in Europa tredici società geografiche, tre in Asia o quattro in
America, chi il crederebbe che nella nostra Italia, quasi sin l' altro
ieri, non si fosse pensato nè punto nò poco a costituirne una ? Come fra tanto
movimento intellettivo, fra tanto associarsi e dissociarsi, in mozzo alla
nuova forza uni- ficante, che puro esiste, malgrado di quelle
dissolventi, indi- gene ed esotiche, e delle aberrazioni che il moto
politico ha rice- vuto da forze estrinseche, meccaniche, certo non
dinamiche, come non era caduto in meato a tanti dotti, che
risplendono fra di noi per eminente virtù di peregrina sapienza, la
for- mazione di una società geografica , di cotanta importanza alla
scienza ed alla prosperità dei popoli? Forse l' idea poli- tica,
assorbendo a ae di troppo V attività dei nostri sommi avea fatto
negligentare nel periodo del Rinnovamento la crea- zione di un sodalizio,
cho 1' Italia nazione ed il progresso della scienza altamente
reclamavano. Forse. ma qui i forse ricorrono e molti e spontanei
allo spirito. Certo si $ che non si pensò cotant' alto, mentre per taluni
si fu cosi solleciti, andando terra tnrra, a volere fare rivivoro appo
noi sistemi da più tempo morti nella nazione stessa, ove ebbe- ro
nascimento , annunziandoli qua! punto culminante , sia dato allo spirito
poter giugnere , facendo opera indegna di screditare tatto lo nostre
glorio , anco quella del Vico. Ed a noi appena redenti dalla servitù del
pensiero francese , si volea faro il regalo d' imporri un altro giogo
mentale , non francese, ma certamente giogo I , , Ma se i sapienti
combattono corpo a corpo i sistemi d' Alemanna, cho si vogliouo importare
da Italiani in Italia, Digitized by Google
- 8 - dopo avere avuti 1' ostracismo nella terra nativa, gli
statai sacerdoti di Minerva fondarono di già nel bel Paese la
Società Geografica Italiana. Lode alta, sincera a chi combatte a visiera
alzata V errore, . lode a chi ebbe il nobile pensiero e lo condusse in
atto con crear* 1' associazione in discorso, e con operosità oltre ogni
dire rcommendevole la fe' in breve perìodo tanto progredire, a potere con
fondamento sperare di ammirarla, in un tempo non lontano, gareggiare
colle società sorelle ormai adulte. Il principe di Metternioh
almeno ammetteva che l' Ita- lia fosse un' espressione geografi™. E
quost' Italia, che non volle appagarsi d' appartenere meramente alla
geografia dovea essere il solo paese che mancasse d' una Società
Geografica! Ma, noi lo rispetiamo, essa esiste e viverà di vita
prospera. Non ne ineepto desistere vietosf Si orta sociteas fuisset
con- dita tomolo, coram Europa ubinam gentium essemus ? Tolga Dio
tanta vergognai Noi non saremo dejettati al retroguardo del- la scienza,
noi che con Galileo abbiamo scosso 1' immobilità di questa terra,
lanciandola fra i rotanti pianeti; noi che abbiamo letto pei primi nel
fulgente volume del cielo le sue forme, partizioni e misura; noi che con
Polo 1' abbiamo inon- dato di luce a levante, con Colombo Y abbiamo tolta
in Po- nente all'eternità delle tenebre, con Pigafetta l'abbiamo
cir- condata, misurata con Cassini .eon Volta vi abbiamo fatto
discorrere per elettriche fibre fin nei gorghi del mare Y i- stantaneità
del pensiero. Qui Flavio Gioja insegnava ai navi- ganti la misteriosa
virtù dell' ago magnetico di volgersi al polo; qui Torricelli trovava la
bilancia delle altitudini; qui Brocchi poneva le basi della scienza
geologica; da qui alza- Digitized by Google
_ 9 - vasi la prima volta all' empireo nel telescopi
1' arma conqui- statrice dei campi eterei; e nella forma dèi pianeti,
noila loro rotazione , nella varietà dell' asse polare e dell'
equatoriale , nel corteggio dei satelliti, e nelle fasi di questi,
leggevanai e modi ed ordini di questa bassa dimora, ubbidiente pur
essa alla generale legislazione del cielo. Col Zeno abbiamo prece-
duto alla nobile schiera degli artici navigatori, con cui l'In- ghilterra
ha poscia il più ammirabile poema d' energia, di perduranza e sapienza ;
con Baratti abbiamo preceduto in Abiasmia a Brace: abbiamo guidato con
Cadamosto i Porto- ghesi, coi Cabot gì' Inglesi , con Vcrazzani i
Francesi a sco- perte ed acquisti. Noi dunque, il dirò coli' illustro
Negri nostro Socio corrispondento, non getteremo nel fango la nobiltà
dello spirito, e caccieremo gì' inerti, dovessimo pur fare il deserto
1 Pensiamo, anche per far dispetto, ai nemici del pensiero! Ope-
riamo: dagli operosi avremo plauso ed onori: dagli infingardi avremo quel
silenzio che vale onore, ed anche quel biasimo che vale trionfo ! (Pag.
28) Eppure, dirò di nuovo, la Società Geo- grafica Italiana oramai
esiste. Nel mese di maggio p.p. quando ne avvenne la fondazione i soci
erano al numero di 120, oggi sono 377, ed undici di questi lo sono a
vita. E, facendo a- strazione di molti soct di nobilissima fama , e non
distin- guendo la massa dei medesimi se non nelle classi cui
apparten- gono per le professioni e condizioni di vita , abbiamo titolo
a contento e speranza. Il Corpo diplomatico e Consolare d rappresentato
da soct 21, la Regia Marina da 19, la Camera dei Deputati da 47, il
Senato da 27. i professori di varie scienze fisiche sono 36 , e 17 gli
Ingegneri. Veramente ci gode Y animo, pensando che essa abbia di già nel
suo seno Digitized by Google - 10 -
navigatori provati ali© brume biancastre del Baltico, ed allo
«ostanti bufere australi d' America; ed abbia Apostoli che battezzarono
le negre fronti, i nudi selvaggi chiamando dalla vita dei sensi a quella
delle idee coli' evangelizzarli della dottrina amica del oielo e della
terra , di Dio come padre , e degli uomini come fratelli : pei quali non
vi ha che un» sola terra di promissione, ma tutti sono chiamati all'
eredità dei medesimi premt. Fra essi vi sono astronomi cho drizzano
alle altissime sfere l' ottica lente, e vi mostrano quelle danze dei
pianeti , e loro amc*i e simpatie , che nello Bcabro loro linguaggio
chiamano poi orbite, attrazioni, aberrazioni. Certo questi sacerdoti
<Y Urania saranno abbandonati, quando par- lano del pianeta
intormercurialo , del sistema planetario di Kirio, o del sole in cammino
vorso la costellazione di Ercole; saranno lasciati in allora , che con
nuovi caratteri si fanno o sognano ad una cometa che fuege il
sentiero invisibile nell' immensità dello spazio , ma sarà con loro la
società , perchè rispondente allo scopo di essa, quando più di fre-
quente si fanno del cielo stellato no' orario quadrante , su cui naviga qual
indice mobile il nostro compagno pianeta a donarci le posizioni precise
dei punti alla superfìcie del glo- bo. Tra loro sono i geologi , sì
poetici , e ad un tempo sì positivi e sì utili, questi geogran delle età
sconosciute, che vedono addentro la scorza terrestre, fatta per essi
diafana . le trasformazioni che nell'abisso dei secoli ha subito la
terra. Sono eziandio con essi, naturalisti, che perigliando la vita
tras- sero da stranie contrade ricchezza pei nostri Musei;
Etnografi che procedendo da tronco a ramo, e da ramo a foglia,
tatto Digitized by Google - 11 -
rischiarano l' intrecciato albero di favello , che si allargò sulla
terra ; idrografi come Paleocapa , come Lombardini , certamente non
secondi a qualunque nome più glorioso nel mondo. Arrogi che
ogni famiglia di scienze , ogni accademia principale d' Europa o d'
America , ogni colonia italiana in qualsivoglia lontano paese, ha degni
rappresentanti in essa Società. È adunque evidente,
evidentissimo che la Società, cho porge materia al nostro dire, noo solo
per numero dei mem- bri, cho la compongono, ma anche pel loro valore
morale divenne capace ad ottenere gli scopi, ai quali mira, o ad
il- lustrare ancora la scienza. E chi conosce V avanzamento ,
il progresso della Geo- grafia nei tempi moderni , vedrà di leggieri
come, e quanti scienziati, o meglio una pleiade nobilissima di sapienti
con- corrono al suo perfezionamento ; a tal che essa , per molti
aspetti e forse i più importanti, sia tutt' altro della geogra- fia degli
antichi, che rozza e sensibile pò tea dirsi in con- fronto della
geografia moderna. In effotti, vel dirò colie stesso sapienti parole del
dotto Presidente Negri, dal cui discorso ho quasi tolto il contenuto di
questa breve relazione, o ciò per rispondere bene allo scopo
propostomi. t La nostra scienza, la nostra Società d cosmopolita,
ò amica di tutti : non distingue sulle bocche il partito , sui
cappelli le nappe, od il culto nei penetrali del cuore: non adatta
secondo il vento la vela, non muta ad ogni suono la danza : qui tutti i
meriti son fratelli : noi non ci curviamo ad ossequio servile ad alcuno.
La nostra scienza corro il ■ Digitized by
Google - 12 — prati mare dell' essere t
descrive, per dirlo con Dante, fondo a tatto 1' universo : invade tutti i
campi del sapere e della vita civile : riceve da ogni scienza tesoro, e
ad ogni scienza ne dona. Essa è nell'istinto del secolo: in questa età
l'uo- mo nasco viaggiatore: chi non lo può colla persona, viaggia
col pensiero, entra i regni remoti, scorre i mari in procella, spazia
nelle contrade della state perpetua, e sulle silenti del polo al cozzo
paventoso dei ghiacci lottanti, vuol conoscere intero il nostro pianeta,
e si sdegna che ad onta del fortu- natissimo successo di tanti viaggi,
segnatamente di Inglesi, di Russi e Tedeschi , ancora vi siano nel centro
d' Asia , noli' Australia , nell' Africa, vaste regioni , la cui
configura- zione è molto più ignota che non lo sia quella del disco
lunare. Ma il moto d impresso e nulla sarà che lo arrosti. Chi mai
potrebbe Sistero aquaoi fluviis, et vertere aidera retro?
E quanto si è vasta, alta scienza è la nostra. Anche gli antichi
viaggiavano per commercio, per religione, per po- litici rapporti, per
guerra : anch' essi scoprivano, e le notizie delle cose crescevano. Ma
quant' era più umile la cognizione degli antichi ! Era meno ristretta di
spazio, che non lo fosse la scienza : non è che da un secolo si viaggia a
scopo di- retto di scienza, e nelle serie dei fatti concatenati e posti
a raffronto, si svelano le leggi che governano il globo. Ormai
quella geografia antica così irta di nomi e vuoto di cose , quella
geografia letargica, che porgevasi ai giovani, che era discesa anche al
di sotto dei tipi , che ci lasciarono i Greci , quella Geografia è morta
: gli Azara , i Niebuhr , » Digitized by Google
- 13 - Forster 1' aveano ferito, Ritter ed Humboldt la
uccisero. La Geografia moderna rivisse, vera fenice, variopinta e più
gaja; guizza luce come stella che tremola : è corruscante d' ogni
bellezza, ingemmata d' ogni sapere : ò una scienza, o meglio la parte
positiva di tutte le scienze. Noi l'avevamo inviata dall' Italia
pellegrina succinta e modesta a mercanteggiare , ad iscoprire, ad
evangelizzare la terra: ora ritorna regina gemmata e pomposa :
accoglietela degnamente: essa ha por- tato a tutto il mondo la fama
italiana ! Stringiamoci ad essa, ed alcuno di voi la farà ili nuove gioie
fulgente, nè troverà il secolo lento alla gloria, ma la consueta vincendo
oblivione degli anni, prenderà fama tra colon» Che questo
tempo chiameranno antico. Così pon line ai gravi e modesti
ragionamenti l' insigne Presidente della Società Geografica
Italiana. Noi, rendendo le debite e sincere laudi all' illustre
Ne- gri , ed a quanti egregi uomini con lui si fecero compagni ed
iniziarono e condussero, con indicibile operosità ed intel- ligenza, la
Società al segno, non isperabile al certo , ove la veggiamo , facciam
caldissimi voti che lo splendido esempio abbia sempre più un eco
maggiore. E come non debba averlo, so il passato scientifico d'Italia
parla chiaro a prò di essa, ed oggi per virtù singolare ci vien fatto
ormai ammirare il neonato Sodalizio quasi adulto, e per numero di socii,
«• per loro peregrino valore , e pei indirizzo sapientemente avuto
? Digitized by Google re
- 14 - Io bramerei, o son certo aver con me tutti coloro ,
cui sta a cuore la patria , la scienza ed il bene altrui, bramerei
che i dotti fossero accesi dal desiderio di concorrere a tutto potere ad
opera si utile. Sarei presto, se la mia voce fosse autorevole, a fare un
appello ai più grossi comuni del Re- gno, a tutte le accademie, invitando
gli uni e le altro a far parto del nuovo Sodalizio, con quei diritti che
sono con- sentiti dagli Statuti e con i doveri rispettivi. Nulla dirò
dei consessi scientifici , essendo certo della loro presunta annu-
enza ; mentre il patriottismo dei Mnnicipii senza alcun du- bio darebbe
piena adesione, trattandosi di una tenue som- ma annua, che in nulla
potrebbe squilibrare la loro finanza. Ed a condurre in atto il mio
disegno potrebbe essere effi- cace 1' opera coadiutrico del Governo, del
Giornalismo , o di qualunque associazione, degna di questo nome. E già il
Go- verno destinavalo un locale entro il palazzo stesso del Mi-
nistero. Il giornalismo si ò reso benemerito. — Ricorderemo con lode il
socio Sig. Mussi, Direttore del Diritto che ha dato luogo nello stesso
giornale agli atti della Società — come ancho ad altri direttori di altri
giornali si debbo esser grati. Cosi la Gazzetta di Venezia, il Giro del
Mondo di mano han ripetuto per intero le pubblicazioni della Società ;
la Gazzetta di Torino, il Corriere delle Marche ec le riprodus-
sero per estratto. Ancho ncil' Argia di Melbourne e nella Gazzetta
Italiana di San Francesco in California si fece onorevole menziono della
Società Geografica Italiana. Eccomi, onorovoli Socii, al termine
della mia relazione, cho vo' chiudere con un mio desiderio ispirato da
giustizia. Digitized by Google 15 -
S*» al capitano Tortello, che spaventò i più audaci na-
viganti, facendo con piccolissima barca un giro attorno il globo, nel
(inalo rettificò anche la carta delle Caroline di Luthe , si debba una
medaglia d' onoro ; come la si deve pure al Vicario Borgatti per la bella
relazione del suo viag- gio d' Abbeocuta e del Delta del Niger , ed anche
a Don Paolo Abona , residente a Mandalay nell' impero birmano , le
cui notizie sull'alto Jrawaddy hanno contribuito a sta- bilire comunicazioni
fra l' Europa o la China occidentale , che sono cinque volto più pronte
delle già esistenti esclusi- vamente per Canton ; se all' illustre
Antinori , che per la Fauna e l* Archeologia geografica , non ha temuto
nella Nu- bia e nella Tunisia del Sud , nè i miasmi pestiferi delle
paludi , nò le zanne dello pantere , ed ha il valent' uomo tanto operato
a prò della società di conserva al sullodato Comm. Negri , se a lui
debbasi per giustizia una medaglia ò cosa evidentissima, — Nè si potrebbe
non retribuire con pari onoreficenza Raimondi che rischiara con tanto
successo l' intrigata idrografia delle acque peruviane scendenti
alle Amazzoni, Ori cho avanza operoso la scienza sul Nilo, Boc-
cari o Dorìa cho V accrescono ad lava ed in Bornoo.... nè a qualche altro
benemerito socio si potrebbo negare l' onore di una medaglia — io bramo,
ed il desiderio mio sarà di tutti, perchè eco di giustizia, che una
medaglia sia conferita pure da quel Consesso al Comm. Cristoforo Negri
Presidente della Società Geografica italiana por tanti titoli sì
benemerito, cho nulla più. Possano gli uomini onorandi , che
racchiude nel proprio seno quel nobile Consesso far lieta accoglienza al
desio di Digitized by Google - 16 -
colui, che ammiratore del merito, brama ammirare che non
vada senza essere onorato! Quindi questa nostra Accademia manda,
per mio orga- no, a quoll' illustre Sodalizio un saluto fraterno,
veggendolo «urto con si lieti auspici in si breve tempo! SULL'UOMO
PENSIERI DEL CAV. PROF. A. CATARA- LETTI ERI
Antonio Catara Lettieri Digitized by Google
Digitized by Google j AW
Illustrissimo SIGNOR PRESIDENTE DELLA R. ACCADEMIA PÉLORITANA
CAV. PÀRKOCO GAETANO MESSINA PROFESSORE ni DIRITTO
ecclesiastico sella n. università degli stcd di Messina
preside DELLA FACOLTÀ GIURIDICA fjl fu A \ i ò s i nto
ó temente Offrendo alla S. I . Ili™ questo mio lavoro
mi e caro il dire, che soddisfo un voto del mio eiwre , perocché si e per
Lei massima- mente che si videro cominciare le domenicali
Conferenze nel nostro Sodalizio, cotanto bene accolte nel nostro Paese, e
che saranno con- tinuate nel novello anno. Io non debbo ricor- dare
tutto che si è tatto di bene durante la Sua Presidenza , che la Sua
modestia mei vieta, cume per medesimezza di ragione noìi devo dire
della dottrina vasta e profonda di Lei e delle specchiate virtù, che han
sede nel Suo petto — ma mi permetterà dirle che
mandando alle stampe la prima conferenza, che per me si lesse in
quella prima tornata, ed il seguito che avrei dovuto leggere per. C
anno vegnente, che essi scritti si appartengono alla Accademia —
però che sento il debito fre- giarli del nome di Colui, che degnamente
rappresenta il Peloritano Sodalizio. Mi con- tinui la Sua amicizia ,
mentre ho V onore essere Messina 21 novembre 186ÌL
\ i De wli «siino A. .
Cat«ra-Lettierl. Digitized by Google UNA
PAROLA AI SOCI Son lieto potervi annunziare che la
risoluzione di aprire in questo luogo , sacro al Sapere , le con-
ferenze domenicali , ò stata accolta con plauso da coloro , che son socii
del Peloritano Consesso , ed anche dai non socii. Pure non
toccava a me esordire quest' oggi , perocché non era affatto preparato ,
ma dovetti sob- barcarmi , piegando la cervice , non senza il
timore di non colpire nel segno, trattandosi d' un lavoro fatto d 7
un fiato. Quindi alla mia pochezza, io nqn dubito, sop-
perirà la vostra indulgenza. Il mio discorsetto suir uomo non sarà
invero dire una conferenza, ma piuttosto V inizio delle con-
ferenze, che saranno ogni domenica date dai nostri egregi Socii.
Se dovessi dirvi schiettamente la cosa, la mia conferenza sarà lo
schema di una serie di conferenze ' relative ali' Uomo. •
Digitized by Google VI Noi dicendo
conferenze domenicali scnz' altro , abbiamo intono lasciare intera la
libertà dei socii, non legandola a nessuna specie d' argomento sia
letterario, o scientifico, od artistico, o classico, o tecnico — abbiamo
inteso eziandio che le lor confe- renze sian popolari , o pur no , o
siano miste di cognizioni che rispondano alla comune apprensiva
degli animi colti , e di quelle che sono patrimonio esclusivo dello
scienziato. Abbiamo tutto questo vo- luto lasciare alla discrezione d'
ognuno. Rispettando tale libertà non solo si risponde alla
varietà dei bisogni , delle tendenze e delle ca- pacità , ma si rende un
omaggio alla Società che seppe e volle attuarle. La quale,
ponendo mente all'attuale movimento degli spiriti, ben comprese il dovere
di prender parte a quel commercio di lumi cotanto importante al
progresso dell' umano consorzio. Io adunque prendo l' iniziativa ,
facendo asse- gnamento stili' animo vostro benevolo , che saprà
accordare alle mie povere parole larga indulgenza. Digitized
by Google L'UOMO (*) 1. Sento una voce
che altamente dice, una voce ripetuta da mille lingue : 1/ uomo 4 un
bruto! 2. Mirato qu^st' essere ! Ora ignorante , ipocrita ,
su- perstizioso — ora credulo , avaro , ambizioso , il buo cuore
essere sede delle più abbiette passioni. 3. Egli sacrifica il bene
altrui alle sue brutali passioni! Caino e Giuda non furvn soli nel mondo
, il loro seme non si è spanto mai. 4. Lodino pure ed
innalzino a cielo quest'essere umano, ludibrio di tutto le più
scompigliate passioni, dei più tetri e rei disegni , non potranno giammai
negar la storia che alta- mente ad ogni piò sospinto smentisce la vanità
degli umani pensieri. 5. Egli porta la mano sacrilega sul suo
simile , e Te- nore , la persona , gli averi altrui non isfuggono alle
sue cupidigie ingorde. (•) Conferenza letta nella Rcalt
Acromi» Prioritari» il giorno 13 aiu»no 1JM30. 8
6. Fa sa ben dissimulalo , ti sbatte in viso il turiboli ■MI'
adulazione — c , in raen che tei dico, ti tradisce. 7. Oh il bacio
di Giuda non restava infecondo! 8. Se non à potuto agguantare il
potere, ti vien fatto wd rio tutto umanità, ogni 6uo discorso esser tutto
micio di rwi umanitario, di eguaglianza, di libertà, di
civiltà, e di tutto le più bollo parole che suonano così gradite
alle crecchie casto , ai cuori retti! 9. Oh Dio! Eccolo già
in alto saggio, su cui vi per- venne coli' ipocrisia e col delitto — e con
questo e con quella si mantiene , dando sfog » ai suoi istinti
brutali. 10. Ove n'andato quei sensi umanitari , quelle
promesse di migliorar lo umane condizioni, lo stato del popolo?
3 1. Povero Popolo] tutti dicono che son per te, e da to , ma tutti
finiscono con crocifiggerti ! 12. Povero Popolo! sei zimbello di
tutte le adulazioni, di tutte le più smodate lodi — bugiardo osanna, cui
tien dietro il crveifìi/e! Perocché alla fine col tuo sangue si
chiude ogni dramma sociale. 13. Tu, o Topo lo , paghi tutto!
Per te lo caste, per te la servitù , per t« il feudalismo , e quinci e
quindi il pauperismo. H. Ludibrio dello passioni dei potenti,
vi si aggiunge lo scherno chiamandoti — Popolo Sovrano/ 1 5.
Sovrano che à tra per lo mani la canna per scettro, in capo la corona di
spine! con quella sei battuto, e con le acutissime spino ti si traiigo il
capo ! lo. Si lasci almeno al popolo la sua più preziosa ere-
diti, qual si e quella dello »uo credenze! Ah non si attenti a questa
sacra proprietà ! 17. Eccolo ferocemente bruto portar la sua mano
sa- crilega sul Santo dei santi , e far di tutto per alterar o per
annullare le più sublimi e consolanti verità, patrimonio
della umanitaria coscienza, che. dovria restare inviolabile ai
deliri delle bugiardo passi' mi ! 1S. Mirato come la vita
dell' uomo di lettere è sparsa di dolori, e spesso di tormenti che gli
sono un vero martirio! 19. Egli cho tien dietro al bello, al vero ,
al bene in questa vita terrena, e non mai può coglierli del tutto, ma
pur ognora vi] aspira, e fu di tutto per incarnarne alcun che nelle
sue opere , nelle sue azioni, vedesi tormentato dalla società, dai fatti
che essa più o meno offre in opposizione a queir ideale per lui vagheggiato
nel proprio spirito 1 20. Adunque doppio martirio è per lui ,
quello di una idea che gli sta ognora presente , e sempre gli sfugge ,
e quello dei fatti sociali, degli uomini che lo fan segno delle
loro calunnio , o dei fatti che vede in antagonismo a quelle alto
idee che vagheggia ! 21. La vita di lui è attorniata di tutti i
pericoli. Tenta portar la face nrlle tenebre della vita , e di
presente tutto lo passioni si svegliano , si scatenano e vogliono
anni- chilire la potenza di quel pensiero apportatore di luce.
22. Lasciatolo , dico uno , è pazzo ! non vedete che il suo
pensiero ò in antagonismo alla realità della vita ! 23.
Schiacciamolo colla potenza dell'oro, dice un' altro I Ma la virtù
dell'uomo divino sfugge all'azione corruttrice dell' oro , non avendo la
potenza morale aflinità alcuna con lo ricchezze , anzi ripulsione,
24. Non abbiamo che farne di costui , grida alto una voce I
gittiamoio in una prigione , egli scandalizza e conrompo il popolo , e io
solleva ! 25. Ed ci, l'uomo virtuoso, vi sta incatenato pfr
s^i lustri come Campanella ! E la potenza d«l suo sovrano intel-
lo Mto non si spegli» 1 , ansi divien più luminosa a
mille doppj in quel luogo tetro. 26. N«>n vi è eh.» farne
di uomini così caparbj, insen- sibili a tutte le p^ne dei ferri,
dell'esilio, delle carceri, delta torture, però levasi la v >ce di
molti: mandiamolo a morte! 27. E 1 uomo divino muore si , ma come
Socrate be- vendo la cicuta , e predicando 1' immortalità dell' anima
— o come Mario Pagano, disputando coi colleglli di martirio la nera
che precesse la sua morte sul palco eretto dalla ferocia dei tiranni ,
sul tema socratico ed a prò di esso ! 28. Oh animo benedetto di
Anassagora, di Socrate, di Pagano , di Cirillo e di cento altri , noi vi
salutiamo , ed il nostro saluto sia un omaggio reso alla virtù, che ebbe
sede nei vostri intemerati petti ! 29. Oh martiri della fede,
della patria, della scienza! Voi mostrando la potenza della fede , del
patriottismo , del vero, mostraste la potenza dell' intelletto e del
cuore umano! Voi mostraste che 1' uomo non è argilla soltanto , ma
questa animata e vivificata dallo spiro divino I Voi mostraste che
1' uomo non ò soltanto bruto, ma alla natura animalesca con- giunge un
cho di divino ! 30. Se guardi la stupidezza, la corruzione, le roe
ten- denze, l' abbiezione, 1' abbrutimento di alcuni uomini sei
tentato a dire che 1' uomo sia un bruto o un demone. 31. Ah
sospendi , per amor di Pio, il tuo giudizio — - osserva meglio , estendi
1' orizzonte delle tue idee , allontana Io sguardo dalle miserie umano,
in che l'avevi ristretto, volgiti altrove, e vedrai 1' altro lato dell*
uomo ed il più im- portante, lo vedrai un angelo. '\2. Fa
ragione che quegli uomini stessi la cui mente ^'ìaco avvolta nel hujo
dell' ignoranza , son capaci di essere Digitized by
Google 11 illuminati , il loro spirito può
eascro stenebrato. Quelle umane creature il cui cuore è avviticchiato dal
reo costume, e per- Vertito tanto che oflVe il tristo spettacolo di una
furia di sverno — esse stesse son capaci di smetterò quelle
colpevoli azioni , quello ree abitudini ed entrare in una via di
morale perfezionamento. 33. Basterebbe questo solo a mettere
in chiaro non essere l' uomo del tutto bruto , esistere in lui un che di
supe- riore alla natura tutta sensata, all' immensa schiera
animalesca. Pon mente a quel che dico. A lui solo il
rimorso, il pentimento, perche a lui solo apparisce la legge, a lui
appartiene la libertà. Egli adunque nei suoi stessi traviamenti
comprende che è uomo o non bruto. Che vaio dunque addurre le sue colpe,
se in esse stesse si legge che uon ò bruto , se in esse sta
scolpita la sua umanità , la eccellenza del suo essere ? 34. Ma vi
ha di più , anzi quasi dirò il meglio , che forma V iucantesimo di quanti
voglian essere giudici imparziali e son scienti. Mirate i
prodigi dell' umana potenza in tutte le opere che Ella ha largamente
sparse , e quasi vorrrei dire gettate sulla terra ! 35. Se
volgi lo sguardo alle Piramidi d' Egitto , al Colosso di Rodi, al
Panteon, al Circo si appresenteranno grandi e magnifici insieme il
Vaticano , il l'aìazzo di cristallo, il Tunnel .... e cento di simili
opere colossali fra gli antichi od i moderni. 30. Mira la
trasfigurazione dell'Urbinate, forse e senza 1' opera più perfetta che
sia uscita dalle dita d'un pittore! Volgiti alle logge del
Vaticano! 37. Son semidei , non ò egli vero , son angeli
coloro che fecero opere sì stupende , por non ricordarne altre !
Non 12 pare che la Provvidenza per rendere mono
incresciosa la vita mandi quando a quando qualche spiriti superiori, che
con le loro opere faccian dire ai contemporanei: Eglino son angeli!
38. E non furono angeliche lo opero di un Bellini , e quello della
sovrana mente del Rossini ? Si , la Pittura , la Scultura , la
Musica sono «stupendo manifestazioni della potenza del pensiero umano ,
eh" non si può stoltamente confondere con nulla did creato.
39. Eppur vi ha un' arto che pinge , scolpisco ed è armonia. La è
questa la Poesia. Omero , primo ptttor delle memorie antiche , è ad
un tempo scultore del pensiero armonicamente. 39. Che dirai
della Stampa, della Pila di Volta, del Vapore ? Mi dirai cho intendi ad
alto line , quello cioè di accomunar le ideo, dando a queste,
possibilmente, in atto quella universalità che si hanno in potenza. Vuoi
in un certo modo fare che il pensiero non sia esclusivamente mio o tuo
, ma umanitario. In pochi istanti il pensiero fa il giro del mondo.
Pria giravano gli uomini per acquistar le idee ; oggi viaggiano queste
per istruir gli uomini. L' uomo vive sotto l 1 impero della leggo
del tempo e dello spazio — ma ei colla forza del suo spirito ha fatto
di tutto per ridurre , quasi direi , a nulla e spazio 'e tempo. L'
anima sua vivo noi t^mpo e nello spazio, e non già per questo e quello,
corno l'unità dello epoche e quella dei corpi; brama ed opora in modo per
trasfondere nelle coso circostanti la sua potenza unificatrice, figlia
dell'unità dell'essere pensante. 40. Né spaziando solo nel campo
dell'arte, sia bella o meccanica , o predomini in essa il raggio del
bello o V ele- mento dell' utile , ti vien fatto toccar con mani la
grandezza dell' uomo, ma pure se alle scienze sollecita ti fai a
volgere lo sguardo — svolgendole sarai meco che 1' uomo esercita un
Digitized by Google 1.1 imprrio su
lu natura tutta quanta , ed < gli solo lo esercita , perciò a lui solo
è dato quello spirito immortalo che primeg- gia sulla natura
intera. 41. Dalla molecola al globo coleste, dall'insetto
all'ele- fante, dalla fogliuzza all'albero più alto e maestoso tutto
ei ha tentato conoscere. La potenza del suo genio gli fa crear
degli strumenti , e penetra nelle più esili parti della materia, ne
rileva le leggi di composizione p decomposizione ; le leggi generali
della natura comprende. 42. Non isfagge il globi terrestre alle sue
indagini — t-i tenta penetrarne 1' intima natura , la struttura , la
forma- zione — quasi geografo dolio età sconosciute, vede addentro
la scorza della t rra, fatta por lui diafana, lo trasformazioni che
nel corso dei secoli ha ella subito. 43. Invano la sterminata
distanza fra terra e cielo , chè drizza alle sfere l* ottica lenta, vi
ascende vittorioso, vedo le vie dogli astri , ne conosce lo moli , le
orbito , le attrazioni , le aberrazioni , — addiviene legislatore degli
astri. 44. Quindi non più impallidisce delle eoclissi , e
della malaugurata luce d 'Ile fiammeggianti comete , ma
seguitandolo col pensiero nel cammino dei secoli, i più tardi nepoti
del loro apparire ammonisce. 45. Oh i prodigi della mente dei
sacerdoti d' Urania f di questi profeti astronomici ! 46.
Ricco ornai di tanto sapere attinto negli astri , scendo sulla terra, e
malgrado cho essa col senso sia incom- mensurabilo , pure col pensiero la
stringe in piccol campo . e la misura, come si fa del più piccolo oggetto
che si ha tra mani. 47. Dalle astronomiche cognizioni egli
ottenne guida su pei mari — norma stabile nei pesi e nello misure.
48. Le leggi del moto ci rivela, e quindi allevia di
li dure fatiche gli uomini , dà nonna certa agli editizj ,
uustodia alle città dai fulmini dei guerrieri offensori. 49.
Ed è pur bello il dire che egli ha ottenuto tali miracoli su pei cieli,
sulla terra e sul moto muovendo dai con- cetti dello spazio e del tempo,
ed atjgiraudoM nH campo ideale, ai ù fatto ricco di quel materna; ico
sapere, cui l'acuto senno della iMatomca fìlosotìa die il n me di
Ih'anoja, per significarne il carattere medio fra 1' intelligibde ed i sensibili
, fra la scienza e 1' opinione, 50. Dimmi ora, sa il cuor ti
basta, che l'uomo è bruto ? che uno spirito non informi il suo corpo , e
come di- cea il Pascila! , che l' uomo non sia una canna pensante ?
51. egli ù fragile quauto una canna fisicamente consi- derato, ma
forto e potente rispetto al pensiero. Il quale non contento di
scendere, or nei profondi abissi della terra e del mare , or d'
innalzarsi nelle interminate vie del firmamento, pur ardito sollevasi
all' Eterno, e lo vede in ispecchio ed in enigma, per usar lo parole
dell' Apostolo. 51. Non vi ha molecola , non erbetta , non insetto
, di cui non intenda comprenderli 1 le leggi, la struttura, gli usi,
i lini, le attinenze col creato intero. Quindi scoprendo le leggi
dei minerali , dei vegetabili . degli animali , piega la natura ai suoi
desideri! , la doma, la impera — egli tanto può, quanto sa.
52. Volete adunque sapere la forza , 1* astensione del suo pensiero
? mirate il suo prodigioso potere. Se dal campo della natura
corporea ei è principe mercè V anima, vasta e potente, si ò colla stessa
forza divina ohe penetra nel mondo morale ed in quello sociale.
ó:'». Chi potrebbe dimostrare brevemente come il pen- siero
scandaglia se stesso , il mondo , DJb ? Senza fotocopi] ,
microscopi , crogioli, fornelli , reattivi , Digitized by
Google 15 scalpelli il pensiero ha virtù di
penetrare in se , nelle ragioni supremo degli esseri , nella ragion
prima creatrice Egli è vero che penetra in tutto questo, ei è capace di
questi sublimi voli , di eseguire questi difficili e miracolosi
viaggi scientifici , che all' occhio volgare sembrano impossibili, o
fan- tasie, ma tutto quest > lo fa coli' ajuto della luce ideale,
che lo anima e vivifica , tuttavolta è certo che senza la potenza
cogitativa di riflettere non potn'a sì allo sollevarsi. 54. Oh
auimc sublimi di Platone e di Vico, d'Aristotile e di Cartesio, di
Senofane e di Miceli, di Bruno e di Spinoza', di Kant e di Hegel , di
Anzelmo e di Tommaso , di Danto e di Bonaventura di Lock , di
Romagnosi , Galluppi , Bosmini , Gioberti , t'ousin o cento altri ,
noi rispettosa- mente vi «aiutiamo , e con noi tutti coloro che sono all'
al- tezza di comprendere la misaioue della scienza principe, della
scienza dello scienze ! di questa legislatrice di lutto lo scibile !
Potrà alcuno ignorarla , potrà pur calunniarla — ma chi non ha attinto a
quella fonte , avrà sempre inaridita 1' anima , e si morrà come
Tantalo. 55. Ed è appunto n i campo sociale, che ei scendo
armato col sapere filosofico. — E qui è dove i doveri ed ì diritti
individuali , sociali , pubblici interni ed est-mi — la società nella sua
natura, nel principio vitale, mi suo tripli, e stato economico, morale o
politico — la legge che serbano nella loro evoluzione — oppur le leggi
dell' ordine n casari > delle ricchezze. 56. Un altro
passo — ed ecco ascendere alto allo — dalla contemplazione dell' Idea
studiar la vita dell' umanità, e formolarne la legge, o scandagliar la
legge che serba l'urna mtà nello evolgimento del vero, del bene, del
bello, nelle quali ella compie tutta quanta se stessa — Tali sono le
impr-a* 16 giganti àel pensiero nell'ordine
morale, giuridico, economie), umanitario. 57. Pur maestoso è
ammirare il pensiero procedendo da tronco a ramo, o da ramo a foglia,
tutto rischiarare T intrec- ciato albero delle favelle, che si allargò
sulla terra. 58. 0 colla stampa produrrò V immensa rivoluzione
noi mondo intellettivo, cosicché cessando il sapere d'essere la
pro- prietà di pochissimi privilegiati, divenne patrimonio comune,
ed il solo di Minerva illuminò rapidamente tutto il globo. Se allora 1'
acquisto d' un' idea costava un tesoro , oggi poco o nulla vaio — allora
viaggiavano i sofi per imparare , oggi i libri per insegnare — oggi le
idee viaggiano, facendo il giro della terra, colla rapidità dell'
elettrico. 59. Ammirato questa fragil canna pensante , coli'
aiuto della stampa , trascorrere 1' oceano ed il nuovo mondo , e
far stupire l'antico — penetrare la terra dello sabbie, ravvivare
le ceneri di Cartagine , e far parlare lo ossa dei Faraoni — rovistare l*
Asia , e squarciare il velo Sanscrita , palesare i misteri dell' Indostan
— dapprima col cannone britannico , quindi con amichevoli relazioni
atterrare 1' egoista muraglia del celeste impero, già da tanto tempo
addormentato alle cantilene dei suoi Bonzi ed allo sbadiglio dei suoi
imperatori — tirare di mezzo alle onde un nuovo continente , i; l' Oceania
colle nuove sue pianto , coi suoi nuovi animali , collo mille isole
, sorge quinta figlia del mondo, ed all'amore dello maggiori
sorolle presenta il suo seno ancor vergine, |' incanto della sua
gioventù. 60. L' umana intelligenza adunque non cammina più a
stento od al nulla, ma cammina alla perfezione, e svolgendoci sempre più
vinco il passato, domina la barbarlo e la forza, »■ coragpoia &i
stende all'avvenire. Digitized by Google
17 61. Quando io lui penso che ebbi culla in una terra
, patria di quegli arditi e potenti pensatori , che destarono il
mondo dal profondo letargo in che viveasi , imprimendogli quel moto che
die vita a tutte le genti — io ne lodo la Provvidenza di un tanto bene !
* Quando ini ricorrono alla mente Dante creatore delle
lettere ed arti cristiane , sintesi suprema di tutti i tipi della
estetica moderna, ingegno eminentemente dinamico — Flavio Gioja elio
insegna ai naviganti !a virtù misteriosa dell' ago magnetico — Colombo
che d ma al mondo antico un nuovo mondo — Galileo che scuotendo !'
immobilità della terra , ai fò ardito a lanciarla fra' rotanti pianati —
Archimede che rivive in Maurolico — e Telesio , e Campanella, e Bruno,
e Macchiavclli, e Sarpi, e Torricelli , e Volta colla famosa Pila,
e Vico Creatore di una scienza e conscio di esserlo o tutti
coloro che levarono vanto d'esser maestri delle genti — il mio
cuore s'inonda di gioj.i, e ne ringrazio Colui che tutto muove.... Si, la
Divina Commedia, la Scienza' Nuova, la Pila di Volta bono tal triade
gloriosa dell'ingegno creatore italiano, che rolla maggioro !
62. Non è boria nazionale, ma verità di fatto. — Qui la sovrunità
dell'ingegno siede maestosa sin da' tempi vetusti, e si perde nelle
venerande memorie del Pitagorismo, e più in là. Qui la Provvidenza
suscita in p chi lustri ciò che al- trove ha luogo in secoli , e forse ,
per alcuni rispetti , non inai — Qui per tristi casi , per nequÌ2Ìe di
tempi non venne mono giammai ! 63. A me pare di vedere con
Dante assorto nella con- templazione della sua Beatrice — con Colombo che
si volge alla scoperta dei Nuovo Mondo — con Galilei che non paven-
tando nò la tortura nè il rogo, pronunzia il sublime: Eppur la si
muove/ — con Cavalieri che medita 1' invenzione della 2
18 Geometrìa dogi' indivisibili — con Michelangelo inteso
allo innalzamento della Olinola dol Vaticano — con Raffaello elio
pingo la trasfigurazione a ino paro di vedere il simbolo
dello scienze , d ;lle lettere e delle arti I Ogni simbolo
doflo ombre venerande dei grandi figli di Italia ò una potenza, una
storia, una scienza, un'arte — o più che una face, un faro, un Sole nel
tempio dell' universo sapere I G-i. Potea adunque qui durar
per sempre la schiavitù del pensiero, la servitù allo straniero, la patria
scissa iu brani ? La sovranità della mente richiedo autonomia , che
ra- zionalmento reclamavano il pensiero , la nazionalità , e perciò
nelP ordino operativo dimostra fondarsi la grandezza di quello
intellettivo. G5. Spingo ancora lo sguardo dilla mente nel
processo dell' umano pensiero. Il quale tende ad accomunarsi
eolla tradizione nella specie, o quindi a rappresentar se stesso con
immagini, d' onde la scrittura ideografica o rappresentativa, o con
simboli , la scrittura simbolica o geroglifiea, Mia Bempre
imperfettamente, finché non perviene a c mprendere non dovero imprimere
s< stesso immediatamente , ma i segni dei suoni , che saranno
segui dei pensieri — ecco la scrittura alfabetica. Si avvantaggia grandemente
, che il pensiero , che pria era individuo, addiviene sociale — pur non è
ancora umani- tario. Non ò certo 1' isolamento della prima epoca , ma
ù pensiero, da cui deve venirne la comunione, è quasi solitario. La
scintilla, arcanamente divina, tende a produrre gran fiamma, ad accendere
un faro universale, ma mancalo 1' ossi- geno , 1' aria.
»'•<>. il |*'iisiero di quell'epoca rispetto all'umanità, ò
lampade che illumina più sè stessa, che vii altri — o latn-
Digitized by Google 19 pade cho illumina
gli scheletri d' un sepolcro. La virtù cogi- tativa risplende rinserrata
in se, come la potenza di ro soli- tario in isola deserta ; o come ro ,
cui manchi il popolo , od oratore nel deserto. So non che,
verrà giorno in cui gli scheletri si tramu- teranno in esseri rigogliosi
di vita por opera dello stesso pensiero, che troverà modo, come
acquistare in atto quella signoria che si ha in potenza , annullando
tutto che si oppone alla sua universalità, alla sua forza espansiva ed
unificatrice, * ognora perenno anche quando sembri che non operi , o
pur che facci l' opposto. 07. Allora ti verrà fatto ammirare
quel re solitario, re cT immenso popolo, umanitàrio , re dell' umanità !
E ciò sarà un fatto. Io il dico con piena convinzione , che in me o pro-
dotta dal presente unito con vigorosa sintesi al passato , unione di
presento e di passato che mi fa presentire il futuro. Ciò che fummo ,
spiega ciò che siamo — quel che siamo , dichiara quel che saremo.
G8. Facciasi ragione che se all' epoca di assorbimonto ò .succeduta
quella di antagonismo o di guerra: a questa terrà dietro un epoca di pace
o di conciliazione, più o meno. per- fetta o proporzionevole all'
imperfetta e perfettibile umana natura — alla quajo n.l secondo ciclo ò
sol concessa quella perfezione , cho nel tempo ò follia sperare , ma cho
pure essa brama, ò il mjvent^ precipuo delle magnanime op^re, tanto
nel campo del sapere, quanto in quello pratico. 00. Volgasi con me
uno sguardo fuggevole al passato ed al presente , e tantosto si
riv-i-lerà all' anima il futuro , e ai accrescerà la fedo in esso.
Di vero so ti farai ad esaminare con occhio superticial-i il corso
degli ultimi tre secoli, non vi vedrai che lo spaven- Lovolc caos, che
novella Babele — Sistemi che si seguono. . incalzane , e
miti ai urtano , m contraddicono — Scien» che si c.DU-ndf/no a viva forza
il primato , anzi par che vo- gliano assorbire tutto in se stesse lo
scibile — Tutte le credenze tir. osse , tutte le autorità chiamate a
render severo conto di ce, della loro ragion d' essere , anco quella
della steppa ragione , che chiamava tutto a novello sindacato — e
talvolta tutte esautorate, coni" la ragione uccise se stessa.
70. Lunghe c fi>re son citali battaglie, che io chiamerei
umanitarie; in esse si combattono sempre l'idea c<">n la
scusa- zione, la libertà cn l'autorità, la ragione col senso, la
fede con la ragione, la civiltà con la barbarie. Ed imminente
ti aspetti la morte dei combattenti, pe- rocché) semi raso dirette dal
soffio venefico d< 1 genio della distrattone , che fra non guari t'
immagini assiso sui rottami del mondo delle nazioni , e eoli' inno d<
Ila vittoria intonare i funerali dell' umanità. 71. Ma DO !
allontana 1' «occhio dalla buccia delle cose, o spingilo addentro in esse
— penetra c<dla tua mente, ti dirò col linguaggio Kantiano , n^lla
realità noum. nica , non curando quella fenomenica, che è quati la Maja
degl'Indiani, ed aliora leggerai apertamente nel compito dei secoli, uou
già un lavoro doli' indolo di quello di Penelope, o di quello delle
Dftnajdi , immagini pagane della fatale itasi, o di un Cerchio fatalo ed
eternamente identico, ma vi leggerai, il ripeto, le vittorie dell'uomo,
di questo misto di miseria e grandezza, nel mondo lìbico, intellettivo,
politico.... 72. Ah si, leviamo con grato animo alto la mente
a quegli uomini, che furono i profeti delle grandi idee nou solo,
ma i martiri ; perocché noi al loro patire ed al loro sangue- dobbiamo la
libertà ed i beni di cui godiamo. Qua=i direi novelli imitatori di
Cristo, a' immolarono pel riscatto dell'umano pesueiro, e eoa ea-o delle
umane associazioni ! 11 loro sangue, Digitized by
Google 31 quasi direi , ai trasformò in quella
sostanza vitale , chi? forma il nutrimento sostanziale , .salutare della
moderna società , la quale a quel sanguo benedetto ed a quei dolori
santissimi va debitrice, se oggi non ha più inutile e sacrilego
spargimento di sangue , e non ò più martoriata da atroci dolori.
73. Un'altro istante con me, signori, o toccherete con mani la realità
di belle , eloquenti vittorie. Allora si uccideva 1' uomo che
pensava — oggi nem- meno si uccido 1' uccisore del pensiero.
Allora il rogo a chi pensava ; oggi nemmeno al bruto che non
pensa, Allora si martoriava l'accusato colla corda, col
ferro, col fuoco — ora nemmeno il ivo vien punito con tali pene.
Allora il diritto mentiva le apparenza di divino, ma <ra in
fatto regio, patrizio, nobile, di sangue, era privilegio — oggi il dritto
è tutto in tutti, ed ò veramente divino sol perchò è diritto.
Allora il dirilt » del re era solo sulla sua spada — oggi
precipuamente nel volerò del popolo. Allora il diritto del re era
la forza, ed i! dovere del popolo una fatalo necessità prodotta dalla
forza imperante — oggi il dovere del popolo ò il diritto del principe ,
corno il dovere di questo si risolve nel j'.is del popolo.
Allora dicevasi : io sono re per volere di Dio — oggi per volere
del popolo. Oggi un pazzo direbbe : io sono lo Stato — ma
invece io sono pel popolo e dal popolo. Allora la forza di
uno che mentiva il giure di tutti — oggi il dritto del popolo che ne
investe chi merita, chi è galantuomo, Allora il diritto
divino — oggi il divmo-umano — ciò* 1 hi*
22 allora il ro dice»: Dio e*l Jo — oggi dir dove — /sto, il
po- polo ed io. 73. Allora...! Oggi ! Oh l'
immenso divario che corre fra 1* un tempo e l'altro ' Divario che si
accrescerà ognora , essendo Y avvenir» simile al passato. 74.
Infine medito mille insegne adottato da tre nostri italiani sapienti, o
vi leggo il pensiero magnanimo e sublime, elio ò stato 1' anima del mio
discorso. Divoro quando richiamo al mio spirito , 1* insegna
di Tommaso Campanella — una campana col motto: Kon tacd>o.
L'intitolarsi che facea Giordano Bruno: Dormi tantium r uni- morum
cxumbitor. L' impresa da Bernardino Tele» io posta all' accademia di
Cosenza, una luna crescente col motto: Dome lotum imnkat orbcm — quando a
tali simboli io penso, com- prendo allora la voce , che parl i forte o
soave ad un tempo all' umanità , anco quando sembri che stia
silenziosa. Veggo la sua potenza, che custodisce e scuote l'
inerzia d^gli animi , e li tien desti , anche quando questi faccian
le viste d' ossero profondamente addormentati. E veggo infine
che il verbo interno umanitario sempre loquente, sempre custode e
potente, tende mai sempre a riempir di se tutto il globo, ad attuaro
quella suprema signoria, che si ha in potenza. E pur veggo
che ù 1' Ideale, che è nell'umanità, sopra l'umanità ed al di là di essa,
e pertanto è distinto dalla stessa. È l'Ideale, che muove l'umanità, la
penetra, la informa, la vivifica, la anima — e pur non è l'umanità!
Compreso da riverente affato adoro tal sublime parola , che muovendo
arcanamente 1' umanità , le dà nobile indin/jw ! Me lo prostro , e
voi con me. Digitized by Google L ' UOMO
( ' ) Dovendo preludere alla solenne apertura doi eorbi
d' questa R. Università» il mio discorso, quanto alla sostanza ed
all' intento propostomi , riesce opportuno — oggi elio por taluni si
mettono innanzi vecchi errori, degni solo di occupare un posto nella
storia delle aberrazioni dello spirito umano — oggi par proprio debito
dello scrittore impugnar la penna c vi^o- rosamento combatterli,
cacciandoli nell' obblio, da cui la pas- siono vollo cacciarli
fuori. Taro veramente una contraddizione , ma puro ò una
verità di fatto , che mentre i' attuale generazione concepisce , ed
intende con generosi sforzi attuare le più bolle aspirazioni che siano
cadute in mente umana, rispetto al progresso sociale, quali sono il
vivere libero, la pace perpetua ed universale, il risorgimento delle
nazioni, la trasformazione delle plebi in popolo.... e cosi via via, che
sarebbo lungo il ridire a lodo dei nostri tempi — pare impossibile , io
dico , che si dia opera per alcuno a rinnegare la nobiltà dell' essere
umano , confon- dendolo colla natura brutale del gorillo o dell'
orang-outang ; pare impossibile che le scienze naturali si faccian tanto
scon- finare , asserendosi per taluno che la materia à tutto, il
sistema nervoso ò 1' unico fattore nell' uomo. [■'■) Alcuni
brani di questo lavoro furono per ino letti il 16 no- vembre in occasiono
dell* solenne apertura doi corsi di questa Regia l'nivcrwtd de^li
Studi. Iti* 1A Coma si può
rendere ra"ione .li Ini mostruosa contrad' dizione ? Da
una parte la brama <Y invadere il campo altrui . costume vecchio
quanti il mondo, ed a cui non può far lieto viso che 1' ignoranza , o
ppgpìor cosa ; corno d' altra parto i prosperi successi ottenuti nella
sfera delle scienze che han per obbietta la natura materiale, possono
illudere al segno di trasportare in altre scienza, di eoa e ben diverse
dalla materia ed in altra guisa conosciute, il proprio metodo, il proprio
criterio, Io abitudini proprie Vi son altri fattori che dàn
spiegazione , ma che per ora non è necessario significare. Solo devo diro
che por molti si tien dietro al cattivo vezzo , perchè usciti da un'
epoca di servitù, alla quale non si tornerà giammai, l'invaghiscono
di una libertà fescennini, sconfinando nelle loro azioni ; simili a quei
giovinetti tenuti per lunga pezza sotto oppressiva tu- tela , venuti poi
a libertà, olirono una condotta per nulla edificante, ina pur scandalosa,
immorale. Pure è da sperare che dopo aver toccato 1' estremo
opposto , si accorgano quando che sia dei mali commessi , che il sentiero
da loro battuto non conduco alla s spirata meta , e però scelgano una
posizione che stia fra gli estremi opposti , percorrano una via dignitosa
o che risponda a capello a quei lini , che all' uomo si
appartengono. Se non che ad ottenere l'intento bramato, ad
accelerare il momento sospirato è mestieri alzar la voce e forto
contro i pretesi saggi, che facendo le viste di emancipar 1" uomo
dal- l' crr re , richiamano essi stessi a lurida vita rancidi errori
. nati in essi da abitudini inveterate. Si, se in noi è amoro
al vero, dubbiamo a tutto potere abbattere ciò che altra volta venne
felicemente abbattuto. Non è tempo di sacrificare in silenzio i nostri
sinceri affetti , lo Digitized by Google
nostro più profonde e ragionevoli convinzioni. Non è tempo «li
dissimulare i danni prodotti da uno speculare licenzioso, da un pessimo
indirizzo — è debito escir dall' inerzia. E poiché i creduti
sapienti c^ngiung no con falsa sintesi la loro opinione alia politica,
allo scopo umanitario, asserendo che distruggendo anima o Dio potranno i
popoli esser vera- mente liberi e riuscir al rea! ? godimento dei beni
civili e politici sinora non avuti ; cosi corro allo scienziato il
debito a dileguar questo futilo o funesto errore, che potendo
preva- lere nello inenti inesperto sarebbe causa di esiziali danni
nel civil consorzio. Il tempo in che viviamo rende grave e di
somma im- portanza T argomento di cui parlo, perocché oggi la
quistione politica ti ri 1' onore del campo, quinci e quindi è facile
il farsi abbindolare dall' errore impudente , facilità che cresce a
mille doppi , avendo V occhio che il nostro risorgimento ha preso una tal
quale ilsonomia religiosa , e ciò massimamente per la lotta con Roma , a
tal che si vorrebbe p< r taluni an- nullare Dio ed anima col pretesto
di attuare con facilità la legittima aspirazione nazionale.
Noi mirando allo sc«jpo nazionale non dobbiamo darci della falce
sui piedi , che tale sarebbe il dar io sfratto a quello idee sovrane, che
sono la base e la vita di ogni umano consorzio. Il
materialismo e 1' ateismo son la negazione di tutto che all' ordino
morale e sociale si spetta. Noi non dobbiamo imitare quei tali dei
nostri nemici in commettere orrori, che tornino a noi stessi nocivi, chè
se essi in grazia di un granello d" arena sacrilegamente fan
ser- vire la religioni ai loro rei disegni, noi non dobbiamo in
grazia della giustizia della nostra causa adoprar dei mezzi indegni , cho
portano la nostra stessa rovina. Se miriamo ad 20
e?sor grandi, dobbiamo mettere in opera i messi veri per esserlo
consentiti dalla ragiono, dalla storia , e dal consenso dell'
amenità. La scienza, la patria, la religione tre afletti, tre
idee, tre nobili aspirazioni del cuoro umano, che Etan racchiuse in
quello sapremo categorie elio l'umanità contengono e rivelano; ^sso sono
in lotta perenne, porche nella lotta sta ii progresso, dalla lotta poi la
vittoria, ch^ vicn coronata dal premio — le intelligente miopi gi
scandalizzano reggendo la lotta, ma il filo- sofo vi scorge la legge
provvidenziale d^I pr^gn sso, richiamando alla monto le parole di Paolo,
che anco le eresie son necessarie. Forse in una sintesi suprema, in
uno schema sublimo ideale mollo tre grandi nozioni si unificano, erme V
Essere da cui • vennero ò uno — ma V essere umano imperfetto e
perfettibile , non potendo elevarsi tant'alto incespica negli errori, e
questi servono spesso a condurlo al vero — In somma ei lotta, e
dalla lotta viene il progresso, e dall' ottenuta vittoria il
premio. La scienza ha un grande compito , quello cioè del
trionfo della ragione sul senso, del diritto sulla forza, della civiltà
sulla barbarie , e francamente vi dirò che barbarie rediviva sono il
materialismo e 1* ateismo che per alcuni si vogliono propagare nei popoli
e nelle nazioni. E tutto questo mi stndierò dimostrare nella
presento orazione inaugurale , a cui mi chiama il dovere d'
amicizia verso V ogregio collega professore P, Interdonato ,
chiamato altrovo per impreveduto {accendo domestiche, e la voce
dello illustre Rettore , che sul mio animo esercita tanto potere.
Che cosa avrei potuto io fare in duo settimane, dopo di essermi per
molto l'iato provato nel difficile aringo? Mi fu forza fra tanti
mwi inediti lavori sceglier quello che piti si aflacesse alla
circostanza, accomodandolo al possibile con molta fatica all' ufficio
impostomi. Digitized by Google 27
Fortunatamente vi ha una larghezza di vedute tali, una tal quale
universalità di sapere, che ben può in gran parto rispondere allo
scopo. So non che , essendo ben lungo il lavoro , ho dovuto
accorciarl o e forse privarlo di cose che sono di molto interesse ; nò ho
potuto fare altrimenti che in alcun luogo non manife- stasse la sua
erigine , cioè una tal quale popolarità, essendo nato per far seguito
alla mia conferenza sull' Uomo, letta il giorno 13 Giugno nella nostra
Feloritana. L' uomo in vero dire, essendo un soggetto troppo
com- plesso , non potea per me ossero svolto in quella tornata cV
in parte, e nello relazioni più importanti, o, meglio, in ciò che
costituisce il titolo precipuo della sua grandezza ed eccel- lenza — il
che al certo per coloro che han diraestichozza con la scienza era un'
affermazione solenne della spiritualità del- l' anima ed una disdetta
all'abbietto materialismo; quindi ri- chiedevansi nuovi svolgimenti, io
li promette» ; ed eccomi presto a darli. Se non che oggi
devo, più che altro volto, aver fiducia nel generoso compatimento di
coloro cho mi onorano. § L La Scienza Pupolan.
Vi ha chi ehi opera a voler rendere la scienza popolare. ( Ili
animi buoni o superficiali vi prestan fede ; dico buoni , stantechò si
propongono un fine retto, qual si ò quello di giovare al prossimo ; dico
intelletti supertìciali , perchè imma- ginano le BCicDZQ e lo
intelligenze comuni, non quali realmente soni , ina in altro stato.
Popolarizza^, la scienza , democratizzarla , sono parole die molto
illudono ai nostri tempi ; è necessario quindi met- (erto
giusto loro aspetto, toglierne i' orpello, mostrandone il vero
senso. Si può flemocrattaer la scienza n<>] senso di
portare alla comune intelligenza i risultati, almeno alcuni, pratici
ed Otiti delle scienza stesse. Così si può faro una Fisica ,
una Chimica popolare . anco un catechismo d' Economia Politica , e co^ì
via. In tali casi il democ ratizzare equivale a castrare le scienzo , o
ron- fiarle ad un tempo acefalo. In sostanza non è la scienza che
in tali casi si trasforma , ma è V uomo che intendendo far goderò al
maggior numero i benefici effetti della scknza , allontana pr»r anni. si
quel che in c*so o di sublime, veramente scientifico, e riunendo ciò che
è privo dell' elemento essenziale, lo porgo agli spiriti comuni.
Valga quest'esempio. Eccovi un individuo, il qual<- volendo far
gustare alcuni cibi ad un' altr' uomo , ma attesa I' incapacità di questo
ad ingojarli o a digerirli , ed attesa la impossibiliti del cibo ad esser
condott.) allo stomaco di quel- 1' infermo uomo , si studia con amore
ricavare , e , direi , ra- schiare da quello sostanze alimentari tutto
che possa esserne cavato fuori , ed ing jato e digerito. Ciò
mostra che la scienza , in se considerata , occupa un alto seggio, è
aristocratica; essa n r n può scendere, masi d V" a 4 essa salire.
La si può far scendere , ma a brani , a ritagli, a minuzzoli, omettendo
quello che scienza la costituisce. Chi intende metter soft' occhio
ad una congrega di uomini il corpo umano e darne una tal nozione di esso,
quale vien data dalla scienza d" oggi , non può supplirvi giammai
, mostrandone un dito, un dente, o il carpo, o il tarso, od una
vertebre. Democratizzare la scienza per me non ista nello
snaturare Digitized by Google 29
la seleni», ma piuttosto uH rimuoverò tutti gli ostacoli, tutte le
paatoje, tatto ciò che ne rende non solo difficile, ma Miche impossibile
l'acquisto delle scienze alla generalità dei cittadini. Quindi bando ai
monopolj , ai privilegi , agi' impacci. Da questo aspetto Guttembcrg
democratizzò la scienza nel vero senso della parola. Egli la rese
accessibile a tutte le intelligenze, diffondendo i libri ad un prezzo
tènue. Egli tolte queir aristocrazia della scienza , che non era naturale
, della essenza della cosa, ma quella che era accidentale e viziosa
- come arbilrarie e viziose sarebbero quelle leggi che respinges-
sero il povero dai Ginnasj . dai Licei, dalle Università, o dagli
Stabilimenti Tecnici , e che a ftp» di regolamenti in- ceppassero la
libertà degli studenti. A me sembra che la scienza rispetto agli
uomini si possa figurare a questo modo. Ella è come augusta
matrona, che abita in luogo emi- nente , che per la giacitura e gV
ingombri , che presenta , ò quasi inaccessibile agli umani sguardi. Essa
non può scendere a noi uomini, ma siamo noi che dobbiamo avere il
coraggio, la forza e l'animo tenace a salirvi. In modo che l'ascendere
presto o tardi, c u maggiori o minori sforzi, averne la beata, visione ,
più o meno di essa sovrumana donna , o non averne allatto è opera nostra
, e quindi offrir deve delle disu- guaglianze necessarie, nate dalla
varietà delle disposizioni intellettive c volitive dei singoli individui.
E questa disugua- glianza è tale che V umana potenza non può scemare o
can- cellare. So non che , vi ha una disuguaglianza o
aristocrazia , ohe non ha sua base nella democrazia. E,
tornando alla figura, rendendo il terreno più agevole a tutti gli uomini
, senza distinziono alcuna , a poter salire , togliendo al possibile gì'
ingombri che nffre il Ur>go selvaggio. 30
rendendo tutti gli nomini «'gualment* capaci , se vogliano , a
potervi ascendere — è questa la democrazia attuabile , legittima o
giusta. Guttemberg a tanto mirò ; il resto ò l'opera sapiente d'
opportuno e giuste leggi ; le quali facondo scemare gì* incagli,
agevolando tutti egualmente, e menomando 1' azione governativa sul
sapere, mirano alla democrazia attuabile della scienza , di cui
parlo. Facciam caldi voti che tutti sien chiamati al
banchetto intellettuale , senza distinzione di sorta ; vi sia un luogo
vuoto ognora attorno del grande desco , per chi vuole o può , quan-
tunque poi ognuno userà di quei cibi , che si affanno ai su»» gusto ed
alle proprie forze digestive. E per dire un' altra parola sull*
argomento, che ho tra mani , mi par giusto osservare, che noli' apologo ,
nella favola o parabola io veggo chiaro, cho non potendo la sapienza
degli antichi, far. scendere la scienza morale o politica negli
animi volgari, facea tutti gli sforzi per renderno accessibile
alcun bricciolo , presentandolo sotto quella forma sensibile a
tutti ben conta. Era anche questa un' opera democratica , ma
sempre rispondente a quel che per me ò stato detto. L'apologo
ù un piccol ritaglio, che la sapienza strap- pava al manto di quella
regalo donna per coprirne la nudità dei bisognosi. Però , io
ben dicca in altri luoghi , essere la scienza por un lato monarchica ,
per un' altro aristocratica , o per un terzo aspetto democratica.
II sapere è monarchico , quanto al principio, emanando dall' Eterno
Vero i raggi primi della scienza : è democratico , rischiarando tutte le
umane menti, e porcili tutte han diritto ad illuminarsene: ma perchè
tutti gli .spiriti han lume in r.i- giono delle loro disposizioni , d<
lla lor volontà e degli . L'orzi, zed by Google
31 e Insogni speciali , è por questo verso il aaporo
disuguale o aristocratico. Si potrebbe dire che nello stato
intuitivo ò democratico, ina iu quello riflessivo è aristocratico ,
essendo opera della riflessione la disuguaglianza dolio svolgimento della
tela idea- le , e dell' applicazione dello verità attinto in alta
regione ai vari rami dello scibile. Ciò rispondo a capello ai
diversi caratteri della riflessione e dell' intuito o visione
ideale. In somma il sa pero è monarchico nel principio, da
cui muovo ; è democratico nella diffusione e nel diritto eguale in
tutti gli uomini ad essente partocipi ; e aristocratico in fatto
giustificato dal diritto. È un fonte , ove tutti gli uomini han
diritto di attin- gervi acqua , ma ognuno ve 1' attinge a seconda lo sue
forzo e dei bisogni e voleri propri. 0 come la luce ed il
calorico , che vengono dal sole » cho illumina e riscalda tutti i corpi,
ma in ragione delle loro speciali disposizioni, 1 quali
pensieri sulla popolarità d- Ha scienza sono t>p- portuni , o p ossono
avere di grandi svolgimenti ; ma mi fu f >rza attenermi a brevità ,
essendo il mio sc^po discorrere della parte più nobile dell' uomo , cioò
dello spirito , che ani- mando e vivificando il corpo organico ,
costituisco un' uniti concreta , sostanziale , cho e la persona
umana, l' uomo. § II. R Naturalismi , il MatcriaUòiiw
<• li Spiritualismo. Non iscrivo pei dotti nelle socratiche
carte, ma per cloro che corrono facilmente dietro a quello, che
giudicano nuovo, o purché han letto o meditato poco , credono che
sien c*xm nuovo , aucho quello cho aon vecchio quanto il inondo.
< 32 Del quale erroneo giudieio
non possiamo chiamare in colpa il Bùchner, che malgrado i suoi stessi
futili errori, confessa non avere il pregio della novità.
Is'on pochi si lascian spesso abbindolare da parole alto- sonanti !
Arrogi a ciò l'umana inerzia, che brama sapero senza studio , ed ove se
ne richiegga molto , mostrasi meglio ■ presta a
negare. E qual miglior libro , a cagion d' esempio , ohe
libera con pochi tratti di penna di tanto indagini, di tante
luculra- zioni , analisi o sintesi , e studj incessanti o profondi ,
qual libro, io dico, come quello che s' intitola Fui za e Materia,
che intende annientar tutto che non parla ai sensi , tutto ciò che non si
palpa e non si vede ? Se non che, dal detto al fatto vi ha un
grande abisso, che non potrà giammai essere colmato , non dico già
dalle vane ciancio dei ciurmadori della scienza , ma nemmeno da
coloro che stanno in cima , per meritata fama , delle naturali scienze.
Veramente saria molto comodo cacciar via tante scienze, e rendere
più semplice Y albero genealogico del sapere. Di vero , se 1' unica
via del sapere è il senso , se non vi ha altro mezzo d'istruzione che
esso veicolo, spariranno la Ontologia , la Cosmologia, la Psicologia , la
Teologia razionale e tutte le scienze, che ne derivano.
Resteranno allora i corpi , sento dirmi — e coi corpi organati ed
inorganici, animati o pur no, c cui loro modi, si costruirà tutto l'
albero enciclopedico. Tale insano tentativo venne messo in atto più
volte nelle epoche di declinazione di lle scienze razionali . cioè
quando lo spirito, fuorviando, ripudiò la coscienza, l'intuizione ,
il raziocinio , ed ogni altro mezzo di pervenire al vero , e con-
centrò tutto se stesso su 1' unica sorgente del senso, o megli"»
Digitized by Google 33 si fece
assorbir ila questo — eppure quante volto queato upeculare vizioso
apparve nel campo scientifico, tanto e con forza fu respinto dall'
unanime consentimento dei sapienti , e fra questi da uomini insigni anco
nelle naturali scienze. So non cho allora, diranno taluni, le
scienza naturali non erano così progredite , come oggi lo sono ; però
oggi po- tranno esse condurre ad effetto ciò che in altri tempi non
potevano , od al più le era dato soltanto intravedere. Così s' immaginano
taluni , o almeno si potria per alcuno fantasticare. Or egli ò vero
, cho 1' incremento dello scienze naturali dovrà seco trarrò la
distruzione delle scienze razionali e morali ? Senza entrare in
lunghe e profondo discussioni , io mi so , e la storia il dimostra , che
V aumento di una scienza influisce, o influir può al miglioramento d'
altra scienza sorella • come ò avvenuto nelle scienze che han per obbietto
la natura rispetto alla medicina , cho ha usufruito dei trovati di quelle
, ma di progredire d' un ramo di scibile, che produca la morte d'
altra scienza, non vi ha fatto storico che il dimostri. So che lo
scienze percorrono varj periodi; so che con 1' avanzar dei lumi una
scienza ne partorisce altre, quasi fos- sero racchiuse nel suo seno ,
oppur si distingua una scienza dall' altra colla quale dapprima
confondevasi, ma senza perdere esse duo scienze lo relazioni scambievoli,
come ò avvenuto al Diritto rispetto alla Morale. ìson ignoro conio
una scienza non percorra tal fiata quella via , che sola può condurla
alla desiata meta , e che dopo un periodo più o meno lungo di aberrazioni
smette il brutto vezzo di camminare in via tortuosa e sdrucciolevole
e non conducente al segno, e con piò franco e sicuro e con alacrità
percorre il cammino, che la conduce alla sospirata meta , come: ò
avvenuto alle scienze tìsiche dal (Jaliloo e 3 0
<fv 34 Bacone in poi, eccetto la Geologia,
che malgrado il retto avviamento dal nostro Scilla datole, pure fin
l'altro ieri pro- cedeva non per la via dei fatti , ma piuttosto per
fantasie ; ma di una scienza, convien ripeterlo, che col suo
progressivo perfezionamento uccida altre scienze , non vi ha esempio.
So cho l'Alchimia addivenne Chimica, l'Astrologia Astronomia, ma
ciò altro non fa che drizzare lo sguardo al vero scopo di esse scienze,
rimuovendo il futile fantastico che lo deturpava, ed allora il mezzo
addivenne fine, e lo Rcopo cui miravano svanì. E di ciò la ragiono
è semplice e chiara quant' altra mai ; conciossiache ogni scienza ha il
proprio obbietto, il suo metodo, i suoi pnncipj ed il criterio, quindi bo
anco una scienza possa alcuna volta errare quanto al criterio , V errore
tosto o tardi potrà cssrr corretto, c sì del metodo e via.
Adunque ci ò forza concili udore, che l'avanzare di un ra- mo dell'
albero dell' umana enciclopedia non può menomamente recar danno ni
portati inconcussi d' altre scienze , non può il progresso delle scienze
, che mirano alla natura materiale , inorganica od organica , animata od
inanimata , produrrò il menomo danno alle scienzo razionali o
morali. Se non che , un pensiero si affaccia alla mia mente ,
quantunque dinanzi dichiarato , ed ò questo. La distruzione delle
scienze razionali e morali viene dal perchè osse non reggono alle
osservazioni dei sensi , con le quali procedo vittorioso nel campo della
natura il naturalista. Adunque paro che anche le matematiche pure
messe a viva forza nel letto di Trocuste del senso, non solo si do-
vranno impicciolire, ma pur annullare; eppure è cosa ormai evidente che
questo erroneo modo di speculare ò nell' impos- sibilita di rendere
ragione dell' esistenza delle scienze dello matematica pura , cotanto
belle , cospicuo ed utili. Ma se ò Digitized by Google
35 un fatto 1' esistenza di questo scienze , ne
conseguita eli' esso solo ha virtù a ridurrò in nulla il futile empirismo
della vana declamazione dell' aberrato naturalista. Si dica
tal modo di speculare empirismo, sensismo, 0 positivismo poco
importa, giacché cangiando la parola per nulla muta il significato, salvo
ebo la parola positivo oppo- nendosi al negativo, nelle menti volgari
suscita quella della realità , che esclusivamente poi essi fanno
appartenere alla filosofia dei sensi. Finche non si sappia,
che positivo ò ciò che ò nel senso, pel senso , e non può andare al di là
di esso , può la parola aver qualche prestigio nelle nienti pregiudicate
o deboli , ma certo le verrà meno , quando si avrà saputo esser tutt'
uno col lurido sensismo. Non è adunque 1' avanzare delle
scienze della natura , che vuole l'annientamento delle scienze razionali
e morali, ma il falso criterio, il sistema erroneo che tutto sensualizza
l'uomo, ed in questa fantastica concezione negar deve tutto quello
non è coi sensi apprezzabile. Si dirà che cosiffatto
naturalista è come colui che cieco a nativilatc vuole a tutto potere
negare i colori, o come colui che non sentendo i suoni colla vista e col
palato, ne nega la esistenza ? O piuttosto il naturalista
inorgoglito dai felici risulta- menti ottenuti nel campo fisico ,
inconsideratamente si fa a trasportare quelle tali abitudini , quei tali
metodi , che fanno gran prò nell'oggetto delle suo indagini, in altro
campo tutto affatto diverso dal proprio, o che procedo per altra via e
con altro abitudini ? Pognamo due campi vicini , limitrofi 1'
uno all' altro , 1 proprietarj di essi fondi hanno dei doveri ,
delle relazioni reciproche , nato dalla vicinanza dei poderi. Ma tali
relazioni /.ve 36 m vero
dire, so impongono un dovere d' aiuto reciproco , non importano che 1* un
padrone possa invaderò od usurpare il campo altrui, cacciarne a viva
forza il contiguo domino, e dire questo campo ò mio. La
relaziono non è medesimezza, La dualità non è unità. L' anima è in
relaziono col corpo, massime col cervello; ma quella è unità , questo è
molteplice. Como ò stolto 1' idealismo , clic immedesima il
molte- plice all' uno, ò flel pari stolto il materialismo, che fa
l'uno ad immagine del molteplice. L' idealista idealizza il corpo —
il materialista materializza lo spirito — errore dall'una parte e
dall'altra. Errore si, perchè osservano per metà, cioè l'uno coi soli
sensi , 1' altro o;!la sola coscienza — quindi la meta negletta dovetto
essere immedesimata coli' altra rispettiva meta percepita — in tal modo
1' idealista ha spiritualizzato la ma- teria , il sensista ha
materializzato lo spirito. Come ammesso , che i scusi esterni sono
coscienza il moltiplice devo logicamente essere annullato; per
medesimezza di ragiono ammesso che la coscienza ò la stessa cosa del
senso esterno , 1' uno dovrà esser soppiantato dal moltiplice.
Ecco l' immagine dell' invasione , ecco spiegato (' esein- i pio
dei due campi. Turo si può spiegare la cosa in altro modo , o mi
par giusto dirlo. Quando allo spirito umano e dato in alcun
ramo otte- nere dei felici risultamcnti', suolo accadere che si susciti
in lui un impulso interno a trovar modo di trasportare in altri
rami dello scibile quei metodi produttivi di buoni effetti. Ciò è
naturalo. La medicina ne offro palpabili esempi nel chinina nel mercurio
od altro farmaco specifico in alcune malattie , ma che si volle applicaro
in altri morbi , e si ottennero dei fatti in opposizione al caritatevole
, inconsiderato desiderio. Ciò Digitized by Google
37 «> prodotto da astrazione precipitata, perchè
non avente 1' ad- dentellato nei fatti , la ragion d* essere nell'
osservazione di essi ; e però figlia di un nobile desiderio di avanzar
nello scibile e produrre un bene all' umanità , ma non condotto in
atto nei modi prescritti ali' umano intelletto per afferrare il vero, e
coglierlo senz' ambagi, senza vio tortuose, e secondo il metodo proprio
di quel dato ramo di sapere: e perciò lungi dal condurre alla desiata
meta, ti fa forviare , ed inabissar noli' errore. Quasi lo
stesso deoei dire del naturalista, che pieno di santa ebbrezza osa
temerariamente trasportare il suo buon metodo , produttore di eccellenti
effetti nella scienza per lui coltivata, in altra scienza cno ha un
obbietto diverso dal suo , che cammina con altro metodo. Non
ò adunquo 1' incremento dello scienze fisiche o na- turali , che dia un
diritto ad usurpare il campo altrui , ad imporre un metodo , a dire
battete la via che io ho calcato meglio che per tre secoli , e vi
troverete bene , e farete dei progressi rapidi e belli, simili a quelli
per noi ormai ottenuti , ma è il sensismo , 1' empirismo , il positivismo
elevato ad assioma filosofico, che, per non salire troppo alto, avea
dato Hobbes , dichiarando essere la filosofia la scienza dei corpi
dei lor vwdi, che signoreggiando la mento di alcuni naturalisti conduceli
a negar tutto ciò che non provenga dai sensi , senza disdire 1' influenza
cho possano esercitare le proprie abitudini e 1' avanzamento della
propria scienza. Adunque non ò come naturalisti cho ossi negano ,
ma come sensisti, Quanto eccede la sfera dei semi è falso c
di mal» provenienza «lice Bùchner (1), senza awr juvsento la storia
(1) F.y. x » Matxrta — Prefctione dell' EOi/. Italiana p.i« "1
Digitized by Google o vv —
38 doli' umanità , 1 principi Jello scibile , l«' matematiche
pnr<* » misto-, elio sono tanti scogli, ove va a rompere il
vecchio, fruite e sdrucito l-gno dell' empirismo. Lo spirito
spesso tocca gli estremi, 0 va dall' uno al 1' altro opposto ; perocché
al naturalismo elio dominava non « % gran tempo molto nobili
intelligenze, elio traeva la naturo dallo spirito, oggi è succeduto nn
naturalismo, che fa 1» spirito ad immagino della natura ; se quello era
idealismo , questo ò materialismo. E poiché la materia , quasi direi ,
si specchia nello Hpiritr» , e quo?to in certo modo si specchia nelle.
cose che lo circondano; cosi confondendo Io specchio con la cosa riflessa
, la materia addivenne spirito nell'idealismo germanico, come oggi lo
spirito addiviene materia. Le quali fasi del pensiero filosofico mi
richiamano quel combattimento fra lo spinto e la materia , fra 1*
idea e la sensazione, c la vittoria dell' una a scapito dell'altra,
ma momentauca , finché un mezzo conciliatore o dialettico non
le ridurrà in pace. Tutto il fin qui detto dimostra,
che il naturalista, come naturalista, cioè scienziato che si occupa
della cognizione d- Ila materiale natura , non può , non devo entraro col
suo metodo , coi suoi principi nel campo filosofico , cioè in
quelli della natura intellettuale e morale, e so egli tanto osa, è
ciò un' usurpazione derivata da un principio falso , cioè dal sen-
sismo. È corno 1' appropriazione , che fa un uomo della roba altrui in
forza dell' assioma Prudoniano: la proprietà cssero un furto. Ma se la
proprietà è un diritto? allora il rapire l' altrui sarà un delitto. Così
se il sensismo ù falso? aliterà le pratese del naturalista saranno
assurde. Digitized by Google 39
§ ÌIÌ. Delle attinenze fra le scienze razionali,
inorali e quelle naturali. V argomento è grave e merita che
si guardi da tutti i lati. Or eccomi a mostrare lo vere
attinenze fra lo scienze razionali e quelle naturali , giacché se noi
siam contro le ec- cessivo pretese , che vanno all' errore , comprendiamo
e con- fessiamo le relazioni fra esse Bcienzo, rappresenta trici delle
relazioni fra la dualità , che costituisce l' unità umana. E qui
calza a proposito il ricordare la divisione dello « scibile in varj rami
essere stata oberata per nostro comodo, per sorreggere la limitazione del
nostro spirito, e conoscer meglio la natura materiale o spirituale ; ma
quando questa divisione subbiettiva si trasporta assolutamente negli
obbietti, anzi che aver guadagno , si ha grande scapito. Vo' dire
che gli esseri tutti han delle relazioni, tutti son legati, il
finito all' Infinito, V essere finito materiale a quello finito
spirituale; sminuzzando adunque le scienze non dovete credere che
gli obbietti di esse sieno per effetto della nostra divisiono
slega- ti, divisi, perocché essi sono sempre ciò che erano pria
della divisione , cioè aventi le stesse attinenze. Adunque
per ovitàr 1' errore ò mestieri avor presento » che la divisiono dello
scibile è artificiale e subbiettiva, nata dalla nostra pochezza , e
quindi nel discutere 1' oggetto spe- ciale di una qualsiasi scienza è
gioco forza guardarlo non isolatamente, ma insieme alle relazioni che
esso ha con altri oggetti: bisogna in somma usar dello sguardo di
vigorosa sintesi. Se è erroro massimo 1' immedesimare gli esseri
distin- Digitized by Google Oro
40 ti. e jiViie errore trasp- rtnre Bell- cose
un'assoluta dicotomia. [)cw lo scienziato mutare, \vì processo
scientifico, la natura Delia produzione delle ricchezze j deJle qaaK se
la divisione w è una causa , 1' associazione n' è un' altra, anzi n«»n vi
lui divisione senza associazione. Cobi le ricchezze intellettuali ,
i tesori dell'umana scienza si ottengono e colla divisiono o con
l'associazione, o coli' analisi e colla sintesi nel modo suddetto per noi
dichiarato ; come la povertà si ha esagerando od usando uno dei due mezzi
, cioè eoli' esagerar la sintesi si ha 1' immedesimazione, ed usando
all'eccesso la sola analisi, »i attiene la biasimata dicotomia.
So taluno riflessivamente si studj richiamare al pensiero quelle
sentenze della S. Scrittura — aÌiumus gaudenti mtar tem Jloridam facit,
sjriritus tristis exicat ossa (1). Corpus cui tu qvod comtftipttur ,
aggravai anima.ni , et terrena in- hahitatio depriviti soisum multa
cogitantein (2) — Scntio aliati» legnn in numbris mcis repugnantem legi
intuii s mee (3) chiaro ben comprende lo relazioni reciproche fra 1'
anima ed il corpo, fra il me spirituale ed il corpo organico,
Se ricorda che gli antichi faceano le loro pitture o scolture degli
eroi con fronte spaziosa c prominente, e che la favola fece Ercole con
grande corpo e piccola testa, e fece venir fuori Minorva dal cervello di
Giovo — ben vede i sim- boli della grande verità delle relazioni
esistenti fra il fisico ed il morale. So spinge lo sguardo
nelle sentenze dei sapienti, relative alla sede dell' anima, vedrà che
Pitagora, Platone, Galeno la giudicavano nel cervello , Erofilo nei
grandi ventricoli del cer- ti) Trov. XVTI 22. (2) Sftj». IX
15. (3) Rom. VII 23 Digitized by Google
velleità , Scrvett» nell' aquidotto di Silvio, Auranti nel
ter- zo ventricolo del cervello , Cartesio nella Glandola jrinctdc
, Vartham e Schelharamer nella jmnta dolici nascita della vridolut
spinale, Drclincourt , Malacarne nel cervelletto, Bentkoè, Lan- cisi ,
Lapeyronnie nel corpo calloso o grande commisura del cerccllo, Willis nei
corpi striati, Vieucessiens nel centro ovaie della sostanza midollare ,
Ackermann nei tubercoli dei sensi (strati ottici o corpi striati) ed
altri — ricorderà pure che Aristotile , Ippocrate e gli Btoici ne
collocavano la sede nel cuore , ove l'animo si pasce d' una materia pura
e luminila separata dal sangue, Erosistrato nelle Meningi, Van
Helmont nello stomaco e cosi via altri in altro regioni del corpo —
Ricordando tutto questo , ben comprenderà , elio esse vario opinioni sono
1' espressione della relazione fra 1' anima ed il corpo. Se
richiama alla mente i fatti narrati da Tucidide e Diodoro Siculo di
quegl' individui , che camparono dalle pesti- lenze di Atene e di Siracusa,
e non riconoscevano più nè amici, nù parenti , ben si accorge della
cospicua relazione , di cui parliamo. Se volge il pensiero
allo ipotesi con le quali si preteso spiegar la dipendenza in che trovasi
la facoltà riproduttrice dallo stato cerebralo , vedrà cellette ,
impressioni digitali od altro di materiale , ma immaginato , che sempre
accenna alla verità per noi dichiarata. Ed oltre alla storia,
che ci mostra oratori e professori colpiti sui pergami e sulla cattedra
da apoplessia, chi ò che ignori che dopo lunga ed intensa meditazione ,
la fronte dà segno di speciale calore e la testa duole ? ciò ò conforme
a quella legge per cui cresce il calore, aumentandosi l'aziona d'
un organo, e si sviluppa il senso di fatica. 42
Chi ù che non sappia che l' nomo travagliato ila gravo dolor di
testa , non può meditare affatto , o almeno non può in quel modo , quando
ne è privo ? Chi ignora che dopo lauto pranzo, è più viva la
facoltà immaginatrice, o non quella di giudicare? e che, trasandando
certi limiti nel bere, si alterano siffattamente e l 'una e V altra e
tutto le facoltà dell' anima da produrre ghiribizzi e peggio ?
Ognuno bene sa gli effetti dell' ubriachezza considerata nei suoi
noti gradi, e gli effetti dell'uso dell'oppio ed altri narcotici
Chi non sa che digestioni faticose, che incessantemente si
succedono , sono accompagnate da incapacità a riflettere in quello stesso
modo , quando lo stomaco e gì' intestini erano sgombri da quella smodata
quantità di sostanze alimentari? Per qual ragione i filosofi
antichi coli' astinenza si pro- paravano alla meditazione? E
Carneado usava 1' elloboro per rispondere meglio allo obbiezioni di
Crisippo ? Ho voluto mettere sotto i vostri sguardi dei fatti
co- muni, ben conosciuti da chiunque, i quali tutti accennano allo
relazioni fra lo due sostanze componenti 1' uomo. Solo devo aggiungerò
che 1' influenza dell' anima sul corpo , quantunqne per me accennata,
puro molti e molti fatti ognora la dimostrano ad evidenza. Son noti gli effetti
delle passioni sul corpo, anzi su taluni organi ; corno lo spavento di un
incendio vicino al luogo degli ammalati , o per un forte tremuoto diè l'
uso dello gambe a paralitici, che da anni giacnano in letto, senza
spe- ranza di guarigione dal male , da cui erano travagliati.
E gli stessi sistemi che han voluto determinare ciò che vi ha nell'
organismo , e nel cervello massimamente giudicato V organo , lo strumento
delle facoltà cogitative , che rende Digitized by Google
i uomo l'essere pili. intelligente, o meglio l'essere
intelligente, chiaro dicono anche essi questo commercio , queste
relazioni fra lo spirito ed il corpo organico. Se ben si
considerino essi sistemi , o nonne materiali dell' intelligenza, si vede
di leggieri che V assoluta dimensione del cerei «ro , o la proporzione
fra il peso del corpo e quello del cervello , l* angolo faciale di Camper
, 0 quello occipitale di Daubenton , o Y unione di tutti e due angoli , o
la freno- logia del Gali, della quale si volle vedere il germe in
San Bonaventura , come insegna 1' Alighieri , ed anco la fisiogno-
raonia del Porta e Lavater sino alla norma del numero delle
circonvoluzioni del cervello , o alla quantità del fosforo relati-
vamente alla maggiore intelligenza , non già come essere pen- sante ....
questo ed altr ) di simil risma in fondo non dico altro, che relazione
fra l'io immateriale ed il corpo organico, poco montando, se i fisiologi
o naturalisti sieno stati più o meno felici in determinare ciò cui
intendevano. I fatti adunquo per me accennati, posti nel loro
ordino naturale, le sentenze e le opinioni dei filosofi , i
pensieri dei fisiologisti e dei naturalisti , le convinzioni
umanitarie ben meditato non dicono nò che 1' anima è materiale , nò
che il corpo ò spirito, ma che l'unità umana risultante dalla
dualità deve soggiacerò ai cambiamenti avvenuti in uno degli
elementi di questa. Dalle coso per me esposte in questo
paragrafo, ò facile dedurre le relazioni fra le scienze razionali e
morali e le scienze naturali : stantechò se l' anima immateriale è in
attinenza col corpo organico , seguir no deve che le scienze che han
per obbietto 1' umano organismo sono in relazione con quelle , che
mirano alla cognizione dell'anima, presa questa in senso lato, cioè considerata
in tutti i suoi fattori. Che so poi si volesse allargare , come ò di
ragiono , il concotto delle relazioni fra 44
osse scienze a questo modo , cioè che l' organiamo, informata dallo
spirito, trovasi in effettiva relazione colla natura latta quanto , ben
si dedurrebbe che tutto le scienze naturali , pio o meno , sono in
attinenza colle scienze razionali e morali. Scrivendo per tutti ,
non posso dispensarmi d" esempi di facile intellig» nza , e che
rondan ciliari i pensieri per me dichiarati. L' unità della
sp eie umana è una tal verità, che è in intima connessione coli' unità di
legislazione e di religione Pongasi per poco che le vario razze sieno
varie specie, allora vicn meno e 1' unità delle leggi e quella dello
religioni , anzi la schiavitù è di diritto , non solo naturale , ma
divino , come ha proclamato ai nostri giorni il Courte t de V Isle ,
ammet- tendo , come ei fece , le varie razze come diverso specie.
Nò ad illazioni meno esiziali si arriva, facendo lieto viso all' opinione
dei superlativi lodatori della cagiono climatologica rispetto al morale
umano — niente meno si tratta di largire la civiltà , la scienza , la
libertà , il progresso ai fortunati abitatori di alcuni luoghi, in certi
gradi paralleli e in taluno circostanze topografiche , e condannare quei
popoli alla barba- rie , all' ignoranza , al dispotismo , alla stasi ,
che sventura- tamente trovansi in condizioni opposte. Ciò che
dico è di sì grave importanza die nulla più , e mostra le relazioni intime
di che ragiono , come si può anco in altro modo facile dichiarare.
La giustizia , dovere e diritt» dell' uomo , bisogno su- premo di
lui ed aspirazione perenno d' ogni umano consorzio, non potrebbe essere
attuata , il che significa che la vita , l'onore, le sostanze dei
cittadini non potrebbero esser tutelate senza gli oracoli ed i responsi
del medico e del naturalista. E chi T avrebbe mai sospettato nei
tempi antichi , che per attuare il giusto peso e la giusta misura , 1*
uom i avesse dovuto ricorrere all' Astronomia ?
45 Tutto è legato , tutto ò unito nulla natura , tutto
può risponderò tosto o tardi agli svariati e molteplici'bisogni
umani. Non vi sono cognizioni inutili. L' impulso , la leggo che fa
bella la verità, anche quando non so no vegga l'utile, ò provvi-
denziale. L' uomo deo adunque avere un ossequio , un affetto per tutto lo
scienze , perocché tutte son belle , tutte sono utili, tutto son legato
con rapporti di solidarietà. Ciò il diciamo con animo franco in
omaggio alle scienze naturali, delle quali ne abbiam sempre compreso e
manifestata T alta importanza , quantunque lungi il nostro pensiero
da quella esclusività , da quella supremazia , o spirito di assor-
bimento che inconsideratamente si va bocinando per taluni §
IV. Confutazione del materialismo fisiologico — lìclle atti-
nenze reciproche fra la Psicologia e la Fisiologia dedotte dalla natura
ed ìndole di esse scienze, e dei loro limiti. Qui fisiologisti o
naturalisti cho pretendono ridurre il morale al fisico, l'anima
spirituale all'organismo o parte di esso, sia cervello, cellula, sia
fosforo o qualunque altra mate- riale sostanza , gravemente errano , ed
importa non poco conoscerò il loro badiale errore. E di buon grado io il
farò , presentando degli argomenti, cho a me pajon perentori.
E per procedere colla masssima chiarezza il vo' faro quasi per
domande e per risposte. Dapprima domando : Qual' è la materia
propria su cui si travaglia la loro scienza ? Tutti
unanimamente risponderanno : è la vita, 0 le fun- zioni organiche, tanto
nollo stat) sano o fisiologico, quanto in quello morboso o
patologico. Digitized by Google 16
In secondo luogo m dimando: Qual'è.il mezzo che ella adopera
por pervenire a ;>! nobile intento ? L' osservazione
diretta a' fenomeni vitali, osservazione che dalla virtù cogitativa
(sorretta da svariatissime verità porte dalle scienze sussidiarie) vien
fecondata, offrendo in tal guisa quello leggi che vitali o fisiologiche
son dette. Ma pure una terza domanda : Come adunquo si
osa per alcuno dire, che lo spirito o la sostanza immateriale pensante è
una chimera ? Sento rispondermi : Perchè non cado sotto la
sensata osservazione , la quale non vedo altro che organi e lo loro
azioni. Al che io rispondo : Per questo appunto , cho l'
anima immateriale non può esser presa dall' ispeziono dei sensi,
voi avreste dovuto tacere, cioè non affermarne, nò negarne la esi-
stenza, limitati nello vostre indagini, come siete, ai sensi. Pe- roccchò
suppongo che sappiate (e come no?) che vi ha una altra scienza detta
Psicologia, la quale si occupa a conoscere 10 facoltà cogitative o
le loro leggi, come la natura ed il de- stino dell' essere pensante.
Quindi , conoscendo ciò , avreste dovuto almeno percorrere il campo
psicologico, e ragguagliando poi bene lo cose, comprendere che l'anima
pensante non è oggetto della fisiologia o d' altra scienza che tratta
della ma- teriale natura, ma obbietto della psicologia, cui si
appartiene 11 diritto d' indagare le manifestazioni , lo leggi , la
natura e simili di quella realità spirituale. Perciò non conveniro
al fisiologo decretare lo sfratto di ciò , che in altra scienza ò
stabilmente saldo. Di nuovo si controrisponde : Non
esser mestieri conoscere la Psicologia , perchè lo verità dalla
Fisiologia svelate annullano per sempre sin auco zed by
Google 47 la possibilità del soggetto
immateriale pensante. Così tutto le esperienze mostrano , che cotesta
virtù cogitativa , elevata al grado di spirito, altro non essere che
nervi e cervello e simili, nei quali non che essa risederò, ma da essi
derivare, come da lor precipuo fattore. E si dice precipuo e non unico
fattore , giacché alla produzione del pensiero concorre lo esterno
collo suo azioni, che poi son trasformate dalla sostanza cerebrale
in percezioni, in idee ec. appunto come il polmone riceve l'aria dall'
esterno , e sur essa operando , trasformala , rioavandono l'ossigene,
mercè di cui avviene rematosi. Io replico : Ma di grazie , mi giova
non poco sapero quei fatti , ohe distruggono la spiritualità dell'anima,
metten- dovi invece di lei gli organi cerebrali. E che ! hanno
forso colali fisiologisti veduto e palpato il cervello pensante ?
Sproposito! sento gridarmi all'orecchio, il cervello si vede o si
palpa, il pensiero non mai. Come adunque, io dirò, si è potuto
asserire, che l'anima non possa esistere, perchè non cade sotto l'
esterna osservaziono, se il pensiero che non è nò veduto , nò toccato si
stima esi- stente ? Non vi ha mezzo : 0 si ammettano due
specie di osser- vazione, 1' esterna e l' interna, i sensi e la
coscienza, o si dica che noi non pensiamo , o si dica che i pensieri son
vedu- ti o palpati nella midollare sostanza , come i cibi mezzo
digeriti nello stomaco e negl' intestini. Ma poiché noi abbiamo certezza
che pensiamo , come siam certi che i pensieri non si son veduti nel
cerebro, cioè delle tre proposizioni le due ultime sono assurde, resta
evidente che il pensiero è dalla coscienza manifestato. Or
fate meco ragione , so il pensiero ò dato dalla co- scienza, il cervello
ò da essa pure offerto ? Certo che no. Perchè dunque il pensiero
dalla coscienza 4* rivolato è da alcuni teologhiti
attribuiti al corvello , quandi queet' organo non e da quella
veduto? 8« non che, ecco come rispondono infine : Perche il
pensiero soggiace a tutte lo vicossitudini cerebrali : esso na- sce, si
svolge , si altera, vien meno , secondo che la sostanza midollare va
soggetta ad alcuni cambiamenti: il pensiero è adunque un prodotto dal
cerebro. E continuando , osservano, che le leggi dell' organismo sono
generali : cosi cibi ed azione dello stomaco e degl' intestini . . .
danno per prodotto la digestione; aria ed aziono dei polmmi . . .
producono la respi- razione ; sensazioni ed aziono cerebrale , e si ha
per prodotto il pensiero. Ma alterato o distrutti lo stomaco od altri
visceri addominali, alterati o distrutti i polmoni, si alterano o
di- struggono la digestione o la respirazione ; dunque queste fun-
zioni si appartengono ad essi organi , perciò detti digestivi o
respiratori. Perche adunque, se alterato o distrutto il cerebro, viene
alterati o spento il pensiero , non dovremo noi diro ohe la funzione
cogitativa si appartenga alla sostanza cere- brale ? Non sarebbe contro
l' analogia il pensare diversamente ? Udite la risposta.
No, non ò contro l' analogia , anzi 1* asserito processo del
fisiologista è contro ogni analogia. Conciossiacchò nello funzioni,
addotte in esempio, pongasi mento cho materiali sono gli organi,
materiale è lo stimolo, materiale è il loro prodotto, e sì quelli che
questo sono apprezzabili coi sensi; ma non così del pensiero, il quale
non è materiale, non è osteso, non ha nossuna delle qualità dei corpi, e
però i sensi non possono prenderlo , avvertirlo, sfugge alla loro azione
; è dalla sola co- scienza rivelato. Ove ò adunque l' analogia di che
parlasi ? Anzi e violare enormemente l'analogia il volersi ad ogni modo inca-
ponirò per ispiegarlo a somiglianza delle altro fisiche funzioni; porche
in queste trattandosi di cose estese od aventi le altn:
Digitized by Gc 49 qualità doi corpi,
conviene a forza ricorrere ai sensi materiali, ma il pensiero essendo in
se privo d'estensione ed immune di qualsiasi qualità primitiva o seconda
che sia , conviene far ricorso alla coscienza, senza di cui non sapremmo
giammai di essere pensanti , e non potremmo renderci conto dello nostro
cogitazioni Che direbbero di colui, cho volesse conoscere i co- lori colle
narici, o coli' udito? o coi sensi esterni aver contezza della fame o
della sete ? Ogni senso ha la sua sfora speciale, offrendo ciò a cui da
natura fu disposto: il veder fare altri- menti ò opera di mente insana.
Or so talo sarebbe colui, cho volesse sostituire uno dei sensi esterni ad
un altro, cho direm- mo se si volesso all' interiore riflessione
stupidamente sostituire T esterna osservazione ? E si faccia
ragione, lo scienziato, come ogni altro uomo, non esser libero nella
scelta dei mezzi cho il conducono ad un fine, ma aver soltanto piena
liberU nella scolta di questo ; il quale essendo determinato, i mezzi
saranno tali e non altri, cioè quolli necessari per ottenerlo. Così p.
es. chi vuol recarsi in Palermo, muovendo da Messina, dove fare un
viaggio o per terra, o per mare , e secondo cho si determina andar per
quello o per questo, ha mezzi diversi e tali, che non dipende dal suo
volere il cambiarli. In pari modo si è dei viaggi scientifici , nei
quali se da noi dipendo il farli, badisi pertanto che scelto il
punto, determinato lo scopo, non ista più in noi il volere
impiegarvi taluni o tali altri mezzi , ma quelli offerti dalla natura ,
che sono quelli opportuni e rispondenti all' intento. Posto
ciò, qual' ò il fine o l' oggetto, cui mira il fisiolo- go? le funzioni
degli organi. Fin poi era libero, giacché po- teva proporsi tutt' altro
fine. Ma determinatalo una volta , io dirò, quai ne sarà il mezzo per
conseguirlo? Qui non ò più libe- ro, essendo la natura cho impera su di
lui, come nel fine cho ebbe in mira fu il suo libero volere che
comandò. Il mezzo è i fi<th
50 r esterna osservazione , che ae^i-: necessaria dai fine
voluta Non è perciò di sua competenza 1' anima spirituale,
nò il menomo raggio di pensiero. - Nò vale il dire, che
l'esperienza attesta i cangiamenti, cui il pensiero soggiace per opera
delle modificazioni succedute nella midollare sostanza, perocché , senza
tener conto entro quali limiti stieno le attinenze fra il fisico ed il morale
, ò certo che cotale dipendenza non dà giammai al fisiologo il
diritto di usurpare 1' altrui campo, o- mo al psicologo di fare al-
trettanto. Se non che, ciò merita spi<-g:izione, e son presto a darla.
Il fisiologo, come fisiologo, ha per obbietto la cognizione delle
azioni degli organi, mercè l' esterna osservazione ; se non che questa
essendo legata alla coscienza , egli prende, in que- sto punto di
contatto i fatti psicologici, non direttamente, ma quasi sfiorandoli , e
per meglio dire , egli tocca il lembo della . coscienza, 11
psicologo, in quanto psicologo, colla riflessione inte- riore , della
quale è oggetto lo spirito che pensa , non va più in là della coscienza;
ma poiché questa ha relaziono coi sensi, egli accorger si deve
mediatamente delle variazioni di questi, egli insomma lambe il margino
dell' oggetto fisiologico, È adunque evidente, che in questo punto
misterioso di contatto fra la coscienza ed i sensi, fra lo spirito e la
materia, fra 1' interno e 1' esterno stà 1' attinenza mutua fra la
Psico- logia e La Fisiologia , ed i loro limiti rispettivi son
segnati. Il psicologo non può colla coscienza scenderò sul terreno
della Fisiologia , ma può , atteso il legame di sopra dichiarato ,
servirsi dei lumi fisiologici. Medesimamente il fisiologo non potrà
giammai eoli' osservazione sensibile trasferirsi nel mon- do psicologico
; egli trasferendosi col suo mezzo nel campo psicologico , romperà nello
scoglio di materializzar lo spirito ; Digitized by
Google 51 ina può , pel legamo in cui 1'
osservazione sensata è colla co- scienza , mettere a profitto le verità
offerte dalla Psicologia. Anzi dirò meglio : il fisiologo deve
mettere a profìtto le verità psicologiche , perocché quando egli intendo
a dichiarare i fenomeni della vita animale , ò astretto ad avvalersi
degli ajuti della Psicologia , senza di cui , perchè privo di guida
nello suo ricerche , imbatterebbe in errori funesti. Al certo ,
come potrà egli far parola di tutto il corredo nobile degli atti
intellettivi , affottivi e volitivi , senza far ri- corso ai lumi della
coscienza, senza la riflessione psicologica ? Pongasi mento che col solo
dire cho ei fa, sonsaziono, percezione, desiderio, volontà, giudizio,
raziocinio, riflessione, analisi, sintesi, immaginaziono riproduttrice od
inventrice, associazione delle idee, unità sintetica e simili, si 6 di
già trasportato nel campo psico- logico, si è accostato ed avvalso del
lume della visiono interiore. E notisi , cho i' esterna
osservaziono gli darà moto , o non mai volere , moto e non mai
sensazione. E so questi son fatti , cioò il moto volontario e la
sensazione , che hanno re- lazione cogli organi, e tanto che ò percepita
coi sensi cosiffatta relazione , come noi volere , e nella cagione della
sensazione , cho diremo quando gli atti del soggetto pensante si
limitano nel soggetto istesso , cioò non trasandano 1' uomo interiore,
e cominciano dall' interno ? 11 solo dire moto volontario , ò
un accennare alla co- scienza , ò un attingerò dalla stessa quella guida
sicura per ispiegare quei fatti , che altrimenti sarebbero inesplicabili
, e senza ragion d' essere nel fisiologo che gli accenna. §
v. Obbiezione e llisposta. Voglio fare un' obbiezione a
me, poiché il muoverla par- liti clic renda più chiari i miei
concetti. Digitized by Google 52
Si potrebbe dire per alcuno : conio la ideologia potrà dar luce
alla Fisiologia , se gli frumenti di cui esse si gio- vano , son del
tutto diversi ? E poi pare che la stessa natura dello cognizioni
delle due scienze ha tal diversità , che non ammette V
applicazione, di cui parlasi. È giusto in conseguenza che si lascino ,
non che distinte , separate. Al che è facile la
risposta. 8e alcuno dicesse al fisico t Voi applicando Io
verità puro della matematica ai fatti dellt natura , commettete un
errore gravissimo , stantechè riunito cognizioni di natura di- versa,
essendo le cognizioni del matematica o priori, indipen- denti da qualsia
esperienza,-., e quelle della natura sono a posteriori , sperimentali
..... ragionerebbe a somiglianza di chi non vuol riconoscere nel
fisiologista il bisogno delle psicolo- giche notizie. Se non
che ò degno d' osservarsi, che la diversità, che corre fra le ideo della
pura matematica ed i fatti sensibili, è mag- gioro di quella che passa
fra i fatti della coscienza e quelli fisiologici, giacchò tanto questi,
quanto quelli sono a posteriori e percepiti, quantunque gli interiori e
spirituali, gli altri esterio- ri e materiali, mentre le idee della
matematica sono a. priori ed intuite, i fatti della natura a j^teriori e
sentiti. E si noti ancora , che l' attinenza fra i fatti psicologici, e
quelli fisiolo- gici è sì intima, che gli uni e gli altri avvengono
nelfuomo, vale a dire, cho quei fisiologici sono fatti spettanti allo
stru- mento , cioè al corpo, e quelli psicologici bì appartengono
allo spirito, che servesi di esso strumento , a cui quaggiù è
unito, costituendosi la persona detta uomo. Ed e si stretto tal
legame, cho nel misterioso punto di contatto , di cui dinanzi si
tenne parola, il fisiologista prende, ma in modo rasente, la
coscienza. Ma siccome la mente di lui è rivolta all' osservazione
sensata, Digitized by Google 53
può facilmente avvenire che egli, in grazia dell'oggetto principale
dello sue meditazioni, ed ancora della lunga abitudine di atten- dere
agli oggetti dei sensi, e per mezzo di essi, perda di vista l'accessorio
, o lo immedesimi coli' oggetto proprio principale , senza porre mento ,
che ciò che è accessorio per lui , nella spiegazione poi di quegli atti
organici, che concernono la vita psicologica, é principale.
Ed e facile eziandio osservare la strana inconseguenza nel
fisiologo, che ripudia lo psicologiche verità , considerando quanto egli
sia sollecito ad accogliere e far tesoro di tutto che possa offrirgli la
fisica, la chimica e simili scienze. Perchè si fa buon viso a
queste, e si dà lo sfratto a quelle ? non si può dir per la ragione cho
gli obbietti di quello scienze, i fatti che prendono in eaame sono
nell'umano organismo, perche i fatti psicologici non sono in rogiono
estra- nea all' umana natura, anzi ne sono parto nobilo ed eccelsa
di §. VI. JDileinvia che dimostra la necessità in che
trovasi il Fisiologo di far tesoro delle verità psicologiche.
Presento un dilemma al senno imparziale di chi ascolta. O il
fisiologo intende alla spiegazione di tutte le funzioni de- gli organi
dell'ornano corpo, o pure di alcune. Se mira a renderne ragione di
talune , cioè di quelle della vita vegetativa od automatica, pare cho
possa far senza dei dettati psicologici ; se non che, essendo la vita
fisica nel- r uomo in relazione con quella intellettiva o spirituale ,
non potrebbe il fisiologista essere del tutto digiuno di senno
psicologico. Che se poi egli , corno il fatto dimostra , intende
alla spiegazione di tutte 1*» funzioni organiche , fra le quali han
luogo quelle della vita, a buon diritto detta intellettiva,
morale, psicologica , spirituale , ò in allora Biottamente tenuto a
far tesoro delle verità psicologiche, senza delle quali non gli
verrà giammai fatto dare un sol passo , che non lo precipiti nello
abisso degli errori, il che e evidente dalle cose dianzi discorse.
Scelgano adunquo quei fisiologi, che non sono d'accordo con noi e
cogli illustri nomi d<;gli Haller , Sthal, Bonnet , Foderò,
Matthey, Berard, Virey, Buisson, Hartemann scelgano : 0 stringere
il loro discorso alle sole funzioni nutri- tive, rompendo il legamo che
queste hanno con quelle animali, e così mutilar la loro scienza : 0
assumere tutte le funzioni nel doppio ordine di nutritive ed
intellettuali, ritirando queste alle verità psicologiche , senza di cui
perderebbero la loro di- gnità , il loro primato , e Y orroro di
trasformare la causa strumentale in causa efficiente sarebbe
inevitabile. Si persuada chiunque è tuttora ostinato , the non
si può parlar di facoltà intellettive e morali , senza metter pié
nel campo psicologico, il che significa senza usar d'altro stru- mento ,
attingere ad altra sergente cho è quella vera. Si persuada ognuno ,
dirò ancora , che ò massima in- conseguenza ricorrere alla Fisica, alla
Chimica, quando trattasi di spiegaro de' fenomeni , oggetto di quelle
scienze , e rifiutar poi la psicologica scienza , quando si discorro di
coso , cho sono di sua esclusiva competenza. Si persuada
infino , cho il fisiologo non può star cam- pato in aria, dovendo egli
decidersi a riguardare il corvello, od altro agente materiale, o corno
strumento, o come causa effi- ciente , nò ciò può fare staudo limitato
all' osservazione dei sensi , cioè senza far ricorso alla
Psicologia. Digitized by Google 55
§ VII. Una preghiera ai psicologi ed ai fisiohgisti.
• Kon la finirei più , se volessi diro tutto quello che
mi ricorre alla mente sui limiti di esso scienze, e sulle loro
scam- bievoli relizioni. Solo, quasi a preghiera, dirò ai fisiologi ed aj
psicologi quanto Beguo : Egli è certo che vi ha una psicologia
terrena , come ve ne ha una celeste — ma di quest' ultima all' uomo è
dato saperne , nella vita presente , ben poco ; ciò a cui egli può
aspirare a conoscere, si è l'animo pensante strettamente legato al corpo
e soggetto agi' influssi di questo. Pure i psicologi par che sovente
dimentichino la psicologia terrona per sosti- tuirvi qui quella
celeste. Vi ha una fisiologia materialista, ed una spiritualista
: la prima e un' impresa assurda e veramente impossibile , la
seconda , non solo non trascende le umane forze, ma ne è doverosa la sua
attuazione, come è stato fatto da insigni uomini testé ricordati. Eppure
non vi ha penuria di fisiologi, che si av- volgono nelle assurdità del
lurido e stomachevole materialismo. Laonde , se ò giusto ricordare
ai Psicologi , che non fossero tanto celestiali , cioò che non
dimentichino , quando occorro , 1' anima essere avviticchiata al corpo ;
per medesi- mezza di ragiono è giusto dire ai fisiologi , cho non
fossero tanto terreni o materialisti , cioè non facciano astrazione
dello spirito , cho è il soggetto arricchito di quelle nobili facoltà
, per le quali 1' uomo principalmente eccelle cotanto sulla natura.
§ vm Spiegazione del materialismo Fisiologico.
Conoscendo la generazione degli umani errori , egli riu- scirà
facile lo evitarli. Bacon o a ciò intese coi famosi quattro
Digitized by Google 56 idoli — Idola
Tribu8 , Idola Specus , Idola Fori , Idola Thea- tri. Sarò brcvo o chiaro
al possibile. L' uomo ebbe da natura largiti sensi , coscienza ;
con quelli prende cognizione del mondo esterno , materiale , con
questa del mondo intento , intellettuale. Coi sensi percepisce i
fatti esterni, cioè i corpi colorati, caldi , freddi , odorosi ,
saporosi , est-si, in moto a dir tutto in poche parole , percepisce
coi sensi ciò che avviene fuori di lui — colla coscienza prendo
cognizione de' fatti in- terni , intellettivi , psicologici , cioè delle
sensazioni , delle no- zioni , delle idee , dei giudizi , dei raziocini ,
dei desideri , dei voleri e simili insomma di ciò che intimamente
avviene. Col mio discorso io non intendo escludere l* intervento d'
altro facoltà, tanto pei sensi, quanto per la coscienza, come
l'intui- zione o la riflessione per ottenero la cognizione del mondo ma-
teriale e di quello spirituale — ma in vista di semplificare la cosa, ne
ho fatto senza. Or siccome 1' uomo munito di sensi , non è por
questo solo fisico , chimico , naturalista ... così quantunque
dotato di coscienza , non ò per quest i solo titolo filosofo ,
perchè è mestieri volgere la riflessione a ciò che offre il senso , a
ciò che svela la coscienza. Quindi applicando la riflessione ai
sensi, ai fatti esterni , forma la grande famiglia delle scienze ,
che han per obbietta i corpi ; applicandola poi sui fatti interni ,
su quelli svelati dall' inlimo senso, e non senza V apprensione
intuitiva da vita alla psicologia propriamente detta. Al
certo questo ritorno dell' io di sè, in se e per sè, questo ri-
pensare il già pensato, rifaro e ritcssere il già fatto e costruito, é
baso precipua della scienza dell' anima. Qui tutto è chiaro , nessun,
credo, che il possa negare. Ora gli uomini fanno essi eguale uso
dei sensi e della coscienza ? meditano tutti sulle rivelazioni di quelli
e di questa? Digitized by Google 57
No, certamente, perciocché avvi taluni uomini ebo sin dai loro
teneri anni han rivolto il pensiero agli obbietti posti * di fuori; essi
tutto ciò ebo sanno, lo conoscono pei sensi, perchè la loro riflessione
han concentrato esclusivamente sugli oggetti di questi. Dal che seguo che
eglino dànno importanza solo allo scoperto ed allo cognizioni ottenuto
pei sensi , e ciò può giungere al grado di credere che non possano
ottenersene altre, in altra maniera, e di non lieve importanza. Ciò ó
sem- plice o naturale, giacché i bisogni dell'uomo attirano la sua
mente all'esterno; l'esercizio frequente rendo facile siffatta
inclinazione, e si forma quindi l'abito di cou<->scere per mezzo
dei sensi. È perciò necessario fermo e risoluto volere e riflettere
rientrando in se stesso , e per molto tempo , a fine d' inter- rompere
tale abito, ed acquistare l'opposto, cioè quello psicolo- gico, o di
ripiegarsi in so stesso. Lo stesso avviene in coloro, che, assuefatti
all'abito psicologico, devono passare allo acqi- sto di quello
ontologico. Tali scienziati hanno il senso intimo, ma non riflettono
sullo sue rivelazioni. Quindi ò elio tali uo- mini associano finalmente
la certezza a ciò che viene dai sensi, e, sopprimendo in tal modo la
coscienza e qualunque altra visione, credono fermamente che nulla si
possa sapere, se non quello che si vede o tocca, ossia si statuisce nel
lor pensiero, come verità inconcussa: ogni notizia viene dai svisi e
pei sensi. Adunque ò evidente che per troppo esclusivo
meditare sui sensi, si finisce con dire : Tutto l'uomo sta nei sensi,
ogni certezza viene dai sensi. Tale ò la spiegazione, o la
gènesi del fisiologico mate- rialismo, e di qualunque materialismo.
A mo pare, che cotali materialisti son simili a quegli idealisti ,
che quantunque muniti dei sensi , pure meditando unicamente sulla
coscienza, si stringono soltanto a questa, nè Digitized by
Google 58 veggendo più in là di essa, immedesimano
V uggctù, conosciuto al tubbietto conoscitore , come quegli scienziati ,
avvolti nella materia, il subbiato fanno ad immagine dell' oggetto.
Tatti han torto, perehè abusano, quelli dei sensi, questi della
coscienza. Tutti han torto, perchè mutilano 1' uomo, quelli
materializzandolo , questi spiritualizzandolo. Tatti han torto , perchè-
seco stessi contradditori , i primi sentend > l' attività interna
dell' essere pensante , eli altri non interrompendo lo pratiche della
vita esterna. Un BorcheW , un llubb s potranno avere dei
discepoli più o meno ardenti per le loro dottrine, più o meno dotti,
ma non potranno giammai avere a discepola l' umanità ; la qualo
respingerà mai sempre eoo tutte le più splendide dichiarazioni, le più
costanti ed universali manif-stazioni lo spiritualismo assolato ed il
material isino. È agevole ora l'intendere a che si riduca il tanto
van- tato materialismo fisiologico ; esso è nò più, nò meno che
cieca abitudine, nata dalla diuturna osservazione sensata.
Adunque il materialista è schiavo dei sensi , schiavo dell'
abitudine ? Chi può dubitarne ! Egli che vagheggia la libertà del
pensiero , e dico ad ogni piè sospinto: io s >n lib-rj pensatore, ò
mestieri tutto sacrificare alla libertà del pensiero. Egli che fa le
viste di ser- barsi immollo all'influsso di qualunque idea, di qualsiasi
con- cetto. Egli elio dispregia il volgo, perchè schiavo a non so
quante o quali abitudini. Egli è in fritto più schiavo del volgo stesso,
porche avviticchiato alla più abbietta delle schiavitù , che è quella dei
sensi. Tutto questo dimostra quanto sia diificile, anche a'
più millantatori del libero pensiero , il mostrarsi coerenti ai lor
principi. Digitized by G §. IX.
59 Urta jxirola conciliatrice. Non
creda alcuno ch'io intenda accennare ai congressi di pace, al famoso
Progetto della Pace perpotua di Emmanuel© Kant, o d' altro autore
franceso — nulla di tutto questo — ma io ritorno , consentaneo a me
stesso , a quello che meglio che 27 anni addietro io mi facoa a proporre:
alleanza fra la Micologia e la Fisiolojia (1), paco fra le scienze
razionali e morali e lo scienze naturali Ciò in vero non è un
caritatevole desiderio , che muo- vendo da buona radico, pur tuttavia è
inattuabile , ma ò una necessaria deduziouo dalle coso nuora discorse ,
dalle relazioni intime fra esse soienze. Conciossiacchò, se è errore
materializzare lo spirito, ò del pari errore spiritualizzare la materia-
Spiritua- lismo assoluto o material temo sono sistemi esclusivi,
incompleti, mancanti, che or ti trasportano alle nubi , or ti pittano
nel fango , come se non vi sia uu luogo da star bene fra quello o
questo. L' uomo non ó né tutto sensi , nò tutto coscienza ; deve dunque
avvalersi di quelli e di questa ; riliutare 1' uno dei duo, è render
l'uomo monco, e bruttamente svisarlo., Se adunque lo spirito e
unito alla materia; so i sensi sono congiunti alla coscienza , è tempo,
giustizia altamente il reclama, che Fisiologi o Psicologi si dieno il
bacio della concilia- zione, e cessi lo scandalo che l* uomo separi ciò
che natura ha strettamente unito, che egli voglia distruggerò cièche
natura ha creato. E sì, valgano lo sapienti parole dell' illustro
fisiologo Tommasi « non voglio diro con questo cho io intenda procla-
mare divorzio fra lo scienze naturali o lo speculative e lo morali ,
qualuuquo possa essere la grande povertà delle mie parole: (1) V.
La Fisiologia calunniata «li Materialismo — Nutulu IS 12.
Digitized by Google 60 al contrario la
natura e l'uomo, la geologia o la storia compon- gono necoasariamonto un
tutto organico ; o non c'è bisogno di trovaro il principio dell' unita
per poterne affermare così intui- tivamente. Che maraviglia adunque elio
il filosofo abbia ad importare dalla sola esperienza il materiale o il
contenuto dei suoi concetti universali, e d' altra parte che i
naturalisti ricono- scano , anzi invochino una /orma ideale al frutto
delle loro esperienze ? nessuno di noi deve rifuggire dal nobile
desiderio di organare le diverso parti del sapere, e sta bene che
questo sapore svariato armonizzi con le leggi del pensiero. Il
naturalista sotto questo punto di vista vorrebbe esser filosofo anche lui
». Nò certo vi alieneranno, dalla reclamata, giusta pace lo
vane voci cho qua e là sorgono , perocché sono declamazioni, che
finiranno con ammazzar se stesse. Veramente quaT impressiono
potranno fare Bull' animo di un uomo , cho alle filosofiche cognizioni
coogiungo ancora quelle notizie anatomiche o fisiologiche necessarie
all'argomento, qual' impressione, io dico, con serietà tutti quegli
esperimenti eseguiti sui conigli e sullo rane o sovr' altre bestie ?
Sia togliendo alcuni fili nervosi , o amministrando la stricnina, o
toccando parte dol loro corpo coli' acido solforico, o avvelenan- doli
col curaro , o coli' etere solforico in altro modo ? Signori , gli
esperimenti son veri , cioè vi dànno taluni determinati effetti ,
apprezzabili quasi da chiunque non abbia perduto il bene dell'intelletto
— il modo di spiegarli è falso: la loro interpetraziono non regge alla
sana logica ; lo deduzioni sono illegittime, Tutti gli
esperimenti fatti , o possibili non potranno dimostrare altro, che questa
antica verità antropologica quanto il mondo, che il morale dipendo dal
fisico, le facoltà pensanti dall'organismo, ma che il pensiero si
appartenga, come effetto a causa, a tale o tal altro organo , a tale o
tal altra parto di Digitized by Google
61 un organo , corno alla sostanza grigia del corvello ed
allo celialo di cui esso è composto tutto questo, od altro di
simil risma, ò arbitraria deduzione non legittimata dalla logica.
E qui permettete che chiaramente voi dica , il tanto decantato
positivismo so ne va in fumo, onde essere surrogato da un audace
razionalismo. E qui le scienze dette positive addivengono le più
in- temperanti , le più razionali e fantasticamento a priori.
Tutti gli esperimenti ormai fatti o faciendi potranno darci a
conoscere più specificatamente la notissima dipendenza , porgerò nuovi e
splendidi casi, ignoti sin ora, di tali rolazioni fisico- morali, ma
senza dare il diritto di menomamente offendere la inconcussa esistenza
del Me spirituale. Io ammiro l' ingegno umano , che cotanto sa
spingersi nei recessi del misterioso sistema nervoso — ma cessa la
mia ammirazione o sottentra lo sdegno ed il disprezzo , quando si
voglion dedurrò < cose fuori dell'esperimento , quando la in- vasione
va all' eccesso. Avete voglia di spiegaro , corno taluni si lascian
tra- sportare tant' oltre ? É facile dalle coso discorso il
comprenderlo: sono vitti- me di cieca abitudine ; pria degli esperimenti,
poscia tortamente interpretati , se non tutti , molti , eran
materialisti, o la loro mente non informata dallo spirito delle
socratiche carte. Non può essoro diversamente , leggendo quelle
pagino ove uno di essi dice che • la sostanza grigia del cervello,
agisco » come una bilancia delicatissima ; essa pesa le singole im-
» pressioni che riceve dal di fuori — e queato posare ò un t processo che
noi sentiamo in noi stessi, del quale abbiamo » coscienza p cho chiamiamo
pensare ad una cosa » (1). (1) Fisiologia del Sistema Nervoso del
«Ioli. Alessandro ILìraen. Milano 1868 , pag. 15 , E. Trovo»? e C.
Digitized by Google 62 Benissimo !
i nostri padri avean detto cogitare, cogitatio, quasi accennando
all'azione che ha luogo nell'animo , quando pensa — nella nostra lingua
si disse pensare quasi pesare , alludendo al confronto che fa l' anima
delle idee , preso il vocabolo in senso traslato — oggi ci si fa
conoscere che pensare è pesaro in senso proprio, perchè il pesatore è
mate- riale Benissimo I E la coscienza come c'entra ?
La coscienza che nulla dice di bilancia cerebrale; i sensi , e
sarebbe cosa di loro competenza , nulla pure dicono di bilancia nella
sostanza grigia ; adunque chi lo dice ? La fantasia dell'autore, che
certo è senza bilancia- si accorse l' autore , che trasandava i limiti
della sua scienza, invadendo la Psicologia, e soggiunge : t
Noi siam giunti senza avvedercene in mezzo alla psi- • oologia, o
sarebbe stato difficile avvedercene, giacché nella » natura non esiste
alcun limite fra la fisiologia c la psico- » cologia — Oggidì la scienza
è* in grado di dichiarare la * loro identità t (1). Un
uomo cho invade il campo altrui , vicino al suo , tradotto innanzi al
magistrato , dirà quel campo esser suo , perchè senza alcun limite. Così
pare che faccia il citato autore. Alla fine i limiti fra una
scienza ed un'altra saranno forse le colonne di Ercole ? L' autore ha
dimemticato che la divisione fra' diversi rami dello scibile è più
soggettiva, che og- gettiva. Stanco alle sue pirolo nemmeno vi ha limito
fra la fisica e la chimica, eppure son duo scienze belle e fatte. E
si noti che la chimica , la fisica , la mineralogia, la geologia , 1'
astronomia han tutto un oggetto materiale, tutte si servono delle
osservazioni dei sensi ; ma la psicologia ha un' oggetto (i) Pag.
i<;. Digitized by Google 63 spirituale,
c la fisiologia corporeo, la psicologia procede mas- simamente colla
coscienza , la fisiologia coi sensi — dunque esse due scienze hanno un
limite tale che non è nelle scienze, che della natura materiale si
occupano. L'autore, senza avvedersene, entrò nella psicologia,
non perchè avvi un'identità fra essa e la psicologia , ma perchè le
duo scienze hanno delle relazioni , come abbiamo preceden- temente
dimostrato — se non che, egli vi entrò collo suo a- bitudini, col suo
metodo, materializzando tutto. Quindi la scienza non è in grado di
dichiarare la identità delle due scienze , come non può dichiarare
identici l'anima ed il corpo, la coscienza ed i sensi. Io
avrei lasciato in pace 1* autore della conferenza sulla Fisiologia del
Sistema Nervoso fatta in Firenze nel 1S67. Ma . il pensare che trattasi
di scienza popolare, che libercoli di tal natura fanno il giro dell'
intero regno , e con essi s' intendo porgere al popolo un cibo
sostanziale , ciò m'indusse a dirne due parole , come ora no dirò qualche
altra , sembrando che invece di cibo di sostanza, si amministri la
stricnina o il curaro. Udite con attenzione. » Possiamo
esprimere cosi il risultato, dice l'IIerzen, » generalo di ciò che mi
sona sforzato di spiarvi oggi. t Ogni nostra azione dipende da tre
fattori essenziali: » (Già m' immagino, voi col pensiero volato
all'intelletto, alla volontà, alla facoltà locomotrice — al n )sse,
velie, posse . . disingannatovi, nulla di tutto questo). »
1.* Dalla nostra organizzazione individuale; » 2.° Dallo stato in
cui un' impressione dal di fuori trova i nostri nervi in un dato
moment") ; t 3.° Dal complesso d* impressioni che in quel
dato momento riceviamo dal mondo esterno (1). (2) Fn»
4f,-47 64 Voi vi accorgete di leggieri che
questi tre fattori es- senziali di ogni umana operazione , por usar le
parole dello autore , sono tutti e tre organici e fatali , essendo
escluso qualunque arbitrio , atto di volontà , che imperando
modifichi colla sua azione quelle subiettive organiche disposizioni
insieme all'esterne impressioni. L' aut ro , pensa tutto questo,
com- prende la cosa, e dove vada a finire, ma con parole, che
stanno fra h stupido ed il buono, continua. » E se finalmente
da questo conclusioni vogliamo trarre » un' applicazione alla vita
pratica — essa sarà veramente di » natura tale, da fare andare la scienza
superba del suo » lavoro •. Ognuno già colla sua mente
tenterà arrivare al trovato peregrino nella vita pratica, che farà andare
superba la scienza del suo lavoro — chi penserà già ad un modo di
rialzare la finanza, chi ad altro per iscemare il numero dei reati , a
chi ricorrerà al pensiero un nuovo metodo educativo, a chi infine
sembra che l'autore ha bello e fatto il trovato di mettere in su il
principio autoritativo , circondandolo dall' aurèola Bua propria, senza
scemar punto la libertà — datevi pace, frcuate il corso dei vostri
pensieri, rassegnatevi ad ascoltarlo. > Essa non sarà altro cho
una raccomandazione di » usare della massima indulgenza verso lo parole e
gli atti • del prossimo, tenendo sempre in mento cho l' azione sua ò
il t prodotto di tre fattori indipendenti di lui, di tre fattori
dei » quali esso non ò punto padrone, di tre fattori cho al con- »
trario dominano lui » (1). So dividessi il parere dell'autore,
sarei indulgente con lui, che comincia col materialismo e finisce
apparentemente colla morale. (1) rag. 17.
Digitized by Google ♦35 Sì, in apparenza ,
giacché il suo discorso ò oltremodo immorale, Le sue parole fan tremare i
polsi agli uomini onesti, c fan gongolare di gioja selvaggia gli
assassini. Il lavoro della scienza è il materialismo ed il
fatalismo — quindi gli atti del prossimo fatali e necessari non
meritano nò lode , nò biasimo , non premio , nò pena, non sono nò
vir- tuosi, nè malvaggi — perciò in vista di ciò clic farete ?
Massima indulgenza, massima indulgenza vi raccomanda la scienza per
bocca di Herzen. Voi, assassini, continuate nell'opera vostra chò
il dottor Herzen vi assicura l'impunità sino alla consumazione dei
secoli! E la società debbe ancora sapergli grado, perchù
viene a liberarla da tante inutili spese per la magistratura giudi-
ziaria , o per altra autorità che intende -alla sicurezza , anzi,
spingendo il pensiero di lui alle ultime illazioni ai potrebbe stabilire
una magistratura d'indulgenze, ma senza timore che si rinnovi e susciti
un'altra Riforma. E questo ò cibo sostanziale che si porge al
popolo , o stricnina o curaro? Se il popolo facesse gran caso delle
parole di lui , so vedesse perchè si voglia ricorrerò all'indulgenza
, darobbo un prodotto da fare andar veramente superba la scienza, e
chi per essa ! A voi il giudizio. > §.
X. Il progresso delle scienze "naturali non può menomar^
la spiritualità dell' anima. Poniamo ora che la cognizione delle
leggi fisiologiche ai conduca grado a grado a maggior perfezione, ma
<-prt-» restando nel giro dei fatti esterni , di esterna esperienza
, 66 solo avanzate al seguo di esprìmere i modi
della eintesi della umana dualità, costitutiva l'unità antropnlogicafche
avrebbesi che potesse ledere in modo alcuno la spiritualità dell'
essere nostro ? Sarà impossibile al fisiologista venir fatto
mostrare, dicea io in altro luogo, che la superiorità psicologica,
intellet- tuale e morale, dell' uomo suli' orang-antang derivi d' un po'
di più di polpa cerebrale esistente nel cranio degli nomini, e che
spieghi i fatti psicologici col moto , o colle leggi organiche. • I
motodi, i processi delle scienze naturali finora conosciuti » non danno
nessuna traccia, dalla quale potessimo arguire » una benché lontana
spiegazione del pensiero. Un'illustre » fisiologo e giudice molto
competente in questa materia , il > Virchow , dice che non si ha
il diritto , almeno nello stato » attualo dello scienze naturali, di
entrare nel dominio della » coscienza, e ciò si potrà fare soltanto
allora, quando si sarà » trovato un metodo sufficiente a spiegarne i
fenomeni. Ed un » altro fisiologo tedesco , il Volkmann , non solo
dichiara la > incompetenza della fisiologia sulla personalità,
ma soggiunge » che il solo fondamento, che possa venire proposto come
dub- » bio è la dissoluzione dell' organismo nella morte. In ogni
> caso però dalla fisiologia V anima personale non è posta , »
ma soltanto determinata mediante 1' organismo » (1). Non potrà
giammai il fisiologo, o il naturalista entrare col suo metodo nel dominio
della coscienza , essendo il metodo di studiar questa o il pensiero in
antagonismo a quello dei cultori della natura materiale. Però vennero
meno tutte quelle pretensioni che il Morgan ed il Cabanis misero
avanti. Io il ripeterò: oggetto, metodo, strumento tutto
distin- gue lo studio dell' anima da quello dei corpi, senza
annullarne le relazioni ed i limiti. (I) Dell' immortalità
dell' anima umana — Discorso della Mar- ciosa Marianna Fiorenti
Waddington. Firenie Le Mounier pag. 13. Digitized by
Google G7 Per altro [conviene esser giusti , ed
in confidenza dir fra noi, che quando si tentò dai fisiologi
materializzar lo spi- rito , la colpa stesse più da parte dei filosofi
che da quella dei fisiologi ; perocché se questi attingevano all' impura
sor- gente del sensismo , dai filosofi era stato proclamato, e quindi
non potevano che logicamente i fisiologi incarnare nell' organo la
sensazione, alla quale avean ridotto il pensiero — insomma il
materialismo di quei fisiologi tTa conseguenza del sensismo, che
signoreggiava in allora le migliori intelligenze da sovrano
assoluto. Quindi a me sembra chiaro , che non si possa, non
ai debba dire da alcuno : io perché son medico , o fisiologo , o
naturalista , perciò son materialista. No : il medico, il fisiologo, il
naturalista può abbracciare il materialismo, non perchè pro- fessa quelle
scienze della natura , ma perché ó sensista , e perché invade il campo
altrui coi suoi metodi , coi suoi stru- menti , col suo modo di
procedere. Io richiamo agi' imparziali pensatori a rivolgere lo
sguar- do della loro meditazione dentro di loro stessi , nel santuario
della lor coscienza , e dirmi col cuore sulle labbra , se noto- mizzando
se stessi , nella grande varietà e moltiplicità prodi- giosa dei modi di
essere che ognuno vede in se , e che pare dovriano condurlo ad ammettere
un aggregato di forze , di esseri, di subbietti, ai quali appartengono
essi modi o facoltà non coglierà col suo pensiero V io uno — perocché di
leggieri ei si accorge che V io che sente , poi pensa , quinci e
quindi vuole .... è sempre lo stesso soggetto : egli è uno. E
facciasi , ragione che se un' epoca è una , un corpo è uno , vo' dire che
se alle epoche ed ai corpi si riferisce per noi 1' unità , non è quella
che alla sostanza pensante si conviene , quantunque pure tale unità agli
avvenimenti ed ai corpi attribuita sia m relazione coli' unità spirituale.
La quale 68 non è riunione di elementi
nel tempo — essa ha vita e du- rata , ma senza decomporsi o dividersi ,
essendo sempre la stessa — nella successione resta la stessa , in tutti
gì' istanti la stessa, perocché cambiano gli atti , mutano gì' istanti ,
e 1' io pertanto vedo se sempre lo stesso — Non moltiplica cogli
clementi della durata, anzi veggendo cangiare e moltiplicar la durata ,
vede aè lo stesso. Uno è adunque nel tempo ; e tale è puro nello
spazio. Conciossiachè in lui non vi ha moltiplicità o
composizione nello spazio: non ò un tutto, di cui le molecole
sucoessiva- niento decrescono od in un modo qualunque cambiano,
come tutto dì vedesi succedere nei corpi, giacché un assieme avente
sempre delle parti connesse in una perfetta simultaneità, è cosa
contraddetta dai fatti, e repugnanto alla natura del mol- teplice, che è
necessariamente divisibile. Pertanto di quale divisione è capace Y
io f dove ò in lui la pluralità ? Quante e quali unità il compongono ? —
For- se le facoltà che irraggiano da lui , e per lo quali
bellamente risplende ? — Certo che no , perchè le facoltà non sono
di- verse da lui stesso. — Forse i suoi attributi , i suoi atti ?
Nulla di ciò , giacché facoltà , attributi , ed atti di lui sono esso
stesso. Né v' illuda il vedere che si enumerano gli atti , le
fa- coltà, perocché con tale enumerazione non si accenna
all'essere, che é uno, ma alle apparizioni, ai modi di sua
manifestaziono, essendo il nr.mcro tanto in antagonismo con lui , che è
indi- visibile , quanto lo è il composto col semplice. A
questa forza unica adunque, che facilmente è com- presa da chi sa bene
interrogar se stesso , mal si conviene T unità delle cose successive , o
quella delle composte ; le quali ultimo perché estese , figurate ,
impenetrabili , perchè aggregati di forze , se costituissero il me , o ei
fosse a loro 69 immagine e somiglianza , non
unico io , ma tanti , quanti non unica forza, ma tante indefinite
coscienze di sentire , di pensare , di volere : ma una coscienza ò
in noi , unico io , un' unità pensante. È adunque uno il
nostro subbietto e nel tempo e nello spazio , e non già per questo o per
quello. E pongasi mente che la stessa unità che egli riferisce
alle cose successive, o epoche, od alle cose composte, o corpi, od a
quelle coso che sono une pel tempo e per lo spazio, da lui stesso viene ,
quantunque trovi un che in esso — dico da lui , essendo egli che scopre
le attinenze degli avvenimenti , o la composizione delle parti di
qualunque composto , e vi riferisce il pensiero unificato ed unificatore,
perchè egli è uno. A dir breve e chiaro: Perchè egli ò
uno nel tempo o nello spazio, e non già in virtù di questo e di quello ,
qualifica , dando 1' impronta dell' unità , ciò che non è uno nel tempo e
nello spazio. § XI. Spiritualismo nelle Bell*
Arti. Come che io non iscriva pei sapienti, ai quali son noto
tante dottrine , tante discussioni , profondi pensieri in modo cho nulla
più , pur tuttavia mi sarà concesso considerare la spiritualità del
soggetto pensante da aspetti , quasi direi , nuovi ed intimamente legati
alla vita pratica , o meglio alla vita delle arti belle , della scienza ,
della società e dei popoli della terra. Nella vita dei
popoli, nelk- svariate fasi di essi vi ha ilei tempi in cui predominando
un' id«>a , un sentimento , come il concetto politico, quello
utilitario qualunque, .sembra ohe ciò Digitized by
Google 70 che quello predominante non sia , e
che con forza attraente assorbisce tutto in se , sembra , io dico , che
meriti lo sfrat- to eppur non è così. L' uomo non può rassegnarsi a
non ripensare il bello, che risplende al suo intelletto, ed aste-
nersi d' incarnarlo nei marmi , nelle tele , od in altra materia ed in
altra guisa. I lavori artistici sono allora vere e solenni proteste
contro coloro che , se potessero , vorrebbero materia- lizzar tutto, e
dare ad intendere di vedere unicamente nell' uomo, che è corpo e spirito
ad un tempo in unità armonica , che ha senso , ragiono ed idea, che fona-
e materia, e di scorger* nei suoi indefiniti , svariati e nobili prodotti
t che macchine e conti. Ah sì , egli è evidente adunque , che
Y arte sbugiarda anch' essa il materialismo ed i materialisti!
L' arte invero , questo nobile slancio dell' anima verso 1' alta
regione del bello , ne coglie alcun raggio e lo incarna nella materia , e
, quasi direi , la divinizza , e con .questo an- nulla il sozzo pensiero
che intende materializzar 1' uomo. L' artista è novello Prometeo,
che rubba il fuoco a Dio per farne partecipi gli uomini , annulla il
materialismo , che concentrandosi unicamente nei fisici bisogni, vorrebbe
imperare da sovrano assoluto, obbliando i bisogni morali , le
magnani- me tendenze , che alto reclamano alla lor volta i loro
diritti manomessi , che hanno ragion d' essere nella stessa umana
natura, così bruttamente mutilata. L' arte adunque riduco in
frantume 1' apoteosi del ▼entro. L' artista è qual
novello Francklin che eripuit cerio julmen — se non che 1' americano
commise il generoso e sapiente furto per tutelare il capo degli uomini
dalla malefica potenza del fuoco elettrico , mentre gli artisti furano i
raggi estetici del cielo per farne partecipi i mortali. 1/ QUO e
gli Digitized by Google 71
altri ricorrono al cielo coli' intento lodevole di beneficare l' u-
manità, ma in modo diverso; cioè il cittadino del nuovo mondo
allontanandone dei mali terribili ed improvvisi , gli altri col far
piovere sovr' essa dei beni squisiti e puri E però è gioco-forza
considerare 1' artista qual sacer- dote , che fa scendere dal cielo sulla
terra un che di divino, salvo che il magistero ieratico ò nell' ordine
del mistero , quando 1' artista opera nel mondo della natura — eppur
sarà sempre vero che V arte è il sacerdozio dell' estetica.
Adunque la manifestazione delle ispirazioni estetiche, anche nei
tempi nei quali si corre a voto materializzar tuttd è una nobile protesta
contro il materialismo, è un' affermazione solenne della spiritualità
dell' anima, E qui mi pare opportuno richiamare alla mente
alcune idee per me manifestate altra volta , e che son legate all'
ar- gomento. Laude si deve a chi fa opera trovar dei mezzi ,
attin- gendo nelle scienze , che si occupano della natura materiale
, organica od inorganica , onde render comuni quelle immaginii quei
fatti , quelle cose che interessano ogni uomo ; a questa guisa, io direi,
che V arte si democratizza, per quanto è pos- sibile. Se non che , 1'
utile che si può ottenere , abbassandone il prezzo, perchè si è scemato e
tempo e fatica ed altro in produrle, non deve far s\ che annulli ciò che
non si possa ottenere in altro modo, e concerne le più nobili
aspirazioni dell' uomo. Di vero coi moderni trovati si è
ottenuto più Y utile , che il bello , più la merce a buon patto , che il
bello , più il buon negozio che lo sviluppo dell' arcana relazione fra 1'
ani- ma ed il bello — e ciò anziché esser da me biasimato , n' è
lodato , ma pure entro certi limiti , cioè di estendere a tutte le classi
in data colai maniera e grado di perfezione una pai-
72 lida immagine d»-i dip ; nti <• d<-llo incisioni, ma
non già nel tengo clic le arti bello sieno mandate giù. Ciò non può ,
non devo essere , dovendosi trovar modo d' associare, sejpure è
possibile , come parnii che lo sia, 1' utilo al bello , ma quello non
dove aver nò punto nè poco prevalenza su questo o di- struggerlo.
E sino ad un certo segno 6 mestieri far plauso allo intento di
render comuni a tutte lo classi i benolìcii della scienza e dell' arto —
e qui si fa bone , percliò si opera pel popolo. Ma è mestieri aver
presento ognora, che il bello non è V utile, e che per troppa brama di
stendere 1' utile, questo non usurpi i diritti del bello. Si
ponga attenzione che 1' nomo non ò tutto senso , tutto corpo ; c' ò in
lui alcuna cosa d' intangibile, d' invisibile, d'intelligibile, che non
può cadere sotto 1' apprensiva dei sensi, e che sfugge alla dnra forinola
del dare ed avere , del peso r> della misura. Si riflotta
ancora che altro è il pretendere, che si svol- gano gli elementi dell'
umana natura , altro è poi che 1' uno viva a scapito dell'altro,
richiedendosi anzi cho si armonizzino, perocché 1' armonia compie 1' npera
dello svolgimento , Benza della quale non vi ha vero progresso.
A me sembra, che pensare altrimenti si è sconoscere quella leggo di
solidarietà , che ha luogo fra gli esseri o fra gli elementi, cho
compiono 1' umana natura tutta quanta. Ilo fede che la vittoria
riportata dall'uomo sulla na- tura coli' intento di far partecipi i più
dei grandi trovati dell' ingegno , per quanto le arti belle riguarda , se
apporta alcun che di danno allo parti più nobili dell' arte, sarà
ciò per poco , non durerà gran fatto , non patendo 1' uomo rinun-
ziare alla sua intima natura, che cacciata anche a viva forza, tornerà
ognora vincitrice. Digitized by Google
73 Le quali riflessioni sa la tendenza attuale a
spingerò al possibile le cose artistiche al meccanismo, mostrano che
la signoria assoluta di questo su 1' elemento estetico segnerà il
volgere in basso dall' arte, che sarà sempre il nobile attributo dell'
uomo, risorgendo a nuova vita dalle sue stesse ceneri. § XH.
Spiritualivmo nella ruttura. E fate meco ragione, che il
pensiero umano non è quale per taluni si crede, perocché esso ben
comprende anche nella materia uno spiritualismo, non già che
spiritualizza questa, ma per veggendola, pensandovi su, riflettendovi, di
presente comprende un che non materiale , ossia 1' uomo col
pensiero va più oltre delle cose materiali, dei sensibili. Appunto
come» veggendo un altro uomo, gli si attribuisce uno spirito, o me-
glio si spiritualizza in certo modo 1' organismo di lui, in pari guisa
avviene dell' universo : la mente umana non si ferma alla terra, al sole,
alla lana, alle stelle, e cosi via. Se ella vede un fiorellino vario
pinto , ne ammira pur la vaghezza , le foglie , lo stelo , il calice non
senza essere ammaliata dal grato odore , e via via. Eppur non si ferma l'
umana mente a tali percezioni, a tante grate sensazioni, poiché dal
fiore passa al seme, da questo ad altri esaeri, e quindi infine a
quei primi esseri che chiudean virtualmente tutti i fiori , che furono e
che saranno al mondo .... in fine alla causa su- prema di tutti i fiori,
come di tutte le cose. Nò qui ha posa V umano intelletto, che si
spingo , por naturale virtù, a legare gli effetti alle cagioni, a
comprendere le cagioni finali degli esseri, e legge in essi i fini, cui
mirano, e la corrispondenza fra mezzi e fini ; e però vede nella
natura impressi i caratteri indelebili della Mente Sovrana.
74 Laonde e chiaro, che allo sguardo dell' umanità gli
es- seri tutti , che compongono V universo , dall' atomo al globo
celeste, dal fiorellino al boabab, dall' insetto all' elefante, . . .
quindi all' uomo non è un' accozzaglia di esseri sdruciti , in
congiunzione, per usar questa parola nel significato di Davidde Hume, ma
un tutto , quasi direi , organico , connesso , diretto ad un fine pensato
dall' intelletto divino ed attuato dal su- " perno volere.
Adunque la materia che si percepisce, che si vede e si tocca, in
distanza od in vicinanza, grande o piccola , orga- nica od inorganica non
è dall' uomo intesa in modo da tro- vare un limite in ciò che vede
soltanto, scompagnata da qua- lunque concetto, anzi la intende animata e
vivificata da quei nobili ed alti concetti, che da inerte , fredda dal
gelo di morte la elevano a quel grado superiore, la circondano di una
splen- dida aureola, la spiritualizzano. La è questa la
poesia dell' umanità, ma naturale e su- blime poesia. Dire si deve ancora
metafisica dell' umanità; conciosiachd, come ben dicea il Vico, la poesia
essere una me- tafìsica in abbozzo , la si dee perciò chiamar poesia e
meta- fisica ad un tempo. E ciò risponde a capello al pensiero del
Kant , che ammetteva una metafisica naturale , ed ai pensieri del Gali ,
che nel cervello vide pure 1' organo della teosofia , e vi assegnò un
cantuccio. Ed anche se taluno non facesse lieto viso alle idee
si- stematiche dell' autore della Craniologia o Cranioscopia , non
si verrebbe per questo a menomare per nulla il valore del nostro
discorso; il quale poggia tutto sulla disposizione dello spirito \tfnano,
non disgiunta dall' attinenza in cui esso è col- 1' organismo — Se poi
questo è come V intende Gali , o pure, come si pretende da altri, una
semplice disposizione cerebrale, senza la creduta divisione del cerebro
in tanti organi Digitized by Google
73 ciò in nulla influisce a scornare la forza del nastro
argo- mento. Signori, allo sguardo del genere umano la natura
tutta quanta , 1' intero universo non è una macchina , che opera da
se e per se, come orologio senza artefice , ma orologio con un artefice ;
e più che orologio ed artefice , è musica , parto di maestro sublimo ; e
più che musica e maestro, poesia di divin poeta; e più che poesia e
poeta, palagio di grande architetto; e più che edifizio di sommo
architetto, pianta svolta da spiro potente , pensiero* che la muove,
anima che la vivifica , e n' è ragione d' essere. Vedete
adunque, se io mi abbia il diritto a dire, api- ritualismo nella
natura. Ed osservasi che io nel pensiero umano, che spiritua-
lizza, nel senso per me dichiarato, la natura, ho dovuto porro un limite
necessario al mio discorso , trattandosi di ragion comune, d' umanitari
pensieri. Quindi ho messo innanzi ciò che vi ha in tutti,
eaclu- dendo al possibile l'opera della riflessiva potenza del filosofo
; la quale, quantunque nelle varie scuole non sia immune d' er-
rore, pure eccetto una breve falange di seguaci dello schietto
naturalismo, che, secondo alcun sapiente, è merce soltanto mo- derna,
pure, io dico, la massima parte dei filosofi è pel retto spiritualismo
della natura nel giusto senso della parola, spi- ritualismo che ha poi un
riscontro superlativo in colui, che idealizza la materia, in chi fa 1*
apoteosi della natura , in chi le dà un'anima, ma non già in coloro che
spiritualizzano i primi starai dell' universo colla famosa monadologia
del filosofo di Lipsia. A me pare che il nostro Bisazza ,
questo spiritualismo per me messo in rilievo, cantava esprimendo al vivo
il concetto umanitario, di cui parlo: 7G
Chi ha dato all' onda Confin «li sponda ? Chi all' erbe o al
ùniv Diede 1' odore ? Chi a voi diè stolli- Rosee
fiammelle? Egli é il vergine fiato dell* eterno Che infronda
, o svesto le infrondite cime , Atira di primavera, algor d'
inverno, l'iacido nel nucel, nel tuon sublime. Alpi che
arcate Vi sollevate, Ripidi monti Padri dei
fonti, Chi vi diè o rupi Frane e dirupi ? Chi vi appese
le splendide corone O noia della notte , nstri pietosi ?
Chi ti precinse d' infocate Bone, Sole , che or levi il capo
, or ti riposi ? É il suo beato Spiro increato , Che il
ciel gioconda , Cho il mar feconda , Che in terra cade ,
Sciolto in rugiade. Veggo i cernii monti alluminarsi , Poiché
fiato ò di Dio la luce nnch' essa. Veggo gli augelli a turbini
levarsi Che un* aura di quel fiato in lor sta impressa.
Scorrete o rivi Placidi e vivi, Levate o monti Al ciel
le fronti , Dite siam figli Dei suoi consigli ! Deh fra
le corde di commossa lira , Che di terrena polvere S* ammanta , Deh
tn soffio di Dio , discendi e spira , Mentre rapita in te, l'anima canta
1 (1) A me pare che il mio diacono procede chiaro ed inat-
taccabile , anche se taluno venga innanzi con qualche errore, (1)
Fide e Dolore, pag. 20 — 21. Digitized by Google
77 elio la rozza mente comune possa produrre,
conciossiachè il fatto dell' errore non distrugge Y esistenza dello
spiritualismo noila natura , ma sol che esso ha bisogno di riflessione e
di emendamento. Como il fatto di alcun costume barbaro od inu- mano
non annulla la moralità ; così alcun errore, quanto allo spiritualismo
della natura , non menoma punto la natia di- sposizione od attuosità
dell' intelletto , ad animare , o meglio a concepire a traverso della
materia questo cotale spiritua- lismo nell' universo, prestandogli con
sintesi quelle nobili ideo, che gli danno vita ed essere. A
me sembra chiaro assai, cho quando ad un uomo vien fatto dire : Oh quanto
è belio quell' essere ! Quanta 0 sublimo quell' altra cosa I per mo d
evidente che le nozioni del bollo e del sublime eziandio accennano
implicitamente allo spiritualismo, di cui parlo. §
XIII. Spiritualismo nel Senso Comune dei popoli. Il
concetto dell' anima spirituale ò cosa essenziale alla vita pratica dello
umano associazioni , anzi lo circonda , le avvolge e compenetra in ogni
verso e sin negli intimi pe- netrali. Ragioniamo da noi , ma
in modo facile , piano e colla massima evidenza nel tempo stesso.
Concentriamo lo sguardo della nostra mente su quell' uo- mo ; egli
e padre , il quale leva a cielo le doti morali della figlia , per nomo
Giulia , che è modesta , ubbidiente , capace di sacrificio pel bene dei
simili , alla vista dello cui miserie è tocca da indicibil dolore.
78 Un altro genitore si addolora , e quanto , pensando
di aver perduto il figlio , chiamato Eugenio , il cui animo era
seggio di apecchiate virtù morali , di belle qualità mentali.
Povero genitore ! egli ne rimembra le virtù peregrine di quell'
angelica creatura , e gli astanti dividon con lui quei sensi di mesto
affetto! Tutto questo ha per base , che quelle creature
avessero uno spirito dotato di nobili facoltà , anzi d' una facoltà che
è il pregio morale dell' uomo , e , quasi direi , lo emancipa da
tutto il creato, e lo rende arbitro del suo destino, voglio dire della
volontà. La quale rende 1' uomo capace di legge morale, responsabile
delle sue azioni , e queste degne di premio e di pena — la quale volontà
libera costituisce la virtù ed il vi- no, il merito e la pena , a tal che
tutto il sistema morale e di legislazione è fondato sovr' essa , e
compenetrato in essa stessa. Questo dice, manifesta il senso
comune, universale dei popoli tutti quanti della terra che furono , che
sono, e che saranno. Coli* intimo convincimento di tale
cospicua verità, pene- trato il loro spirito di tanta morale scienza,
tutti i legislatori delle nazioni dettarono le leggi ad esse, sapendo di
applicarle ad esseri liberi , ad esseri capaci di legge , e degni di
pena e di premio , e capaci di rientrare nei diritto sentiero ormai
smarrito ; insomma il legislatore seppe aver che fare con esseri
intelligenti e liberi , ebbe piena e lucida coscienza di ciò , e non mai
con automi. Così alla lor volta , i popoli accolsero di lieto animo le
leggi nella coscienza del loro dovere, della loro libera volontà.
Questa manifestazione del senso interno , quest' intimo
convincimento , questo dogma di ragione naturale , conduce
79 1' umanità ad ammirare il virtuoso , a venerare l 1 eroe ,
a rizzare altari a quegli uomini, che si segnalarono per le loro
peregrine virtù ! Come, per medesimezza di ragione, a condannare
all' oblìo, alla meritata pena coloro , che abusarono del loro potere
, che con volere e scienza violarono la legge ! Gli umani
apprezzamenti adunque, i gindizj degli uomini ànno quel fondo comune ,
quel sustrato , poggiano su quella concezione dell' anima spirituale ,
una , superiore e distinta di ciò che vediamo e tocchiamo. Or
, se vi fa cuore , fatevi a sostituire all' essere pen- sante immateriale
i portati della materialistica dottrina: ove sarà più il pregio singolare
dell' umano pensiero , dell' umano volere , la bellezza e V incanto delle
doti mentali e di quelle morali ? Re il pensiero non ò nè
più, nè meno di un prodotto del cervello sullo sensitive impressioni, un
modo di digerirle , come lo stomaco e gì' intestini digeriscono i cibi, e
danno il chimo ed il chilo, o un modo di secrezione, come il fegato
rispetto alla bile. Se il pensiero , intelletto e la volontà e tutte le
fa- colta morali e mentali non sono al più che fosforo, e l'anima
una cellula , od altro supposto impasto di materia , o imma- ginato
prodotto di leggi fisiche, chimiche, vitali, ove sarà più quel primato ed
eccellenza che l' umanità tutta quanta accorda , vede , riconosce e
sanziona nella virtù cogitativa ? Non è uno stolto quel genitore ,
or ora ricordato , che innalza a cielo le belle doti della figlia di lui
? Non è un insensato quell' altro , che va tanto altero dei
pregi morali ed intellettivi del figlio suo? Sì , sorgo io a nome
del materialismo , fate Benno uo- mini illusi , che date tanto valore a
ciò che di cesi mente , 80 anima , spirito ,
ragione , intelletto , volontà , virtù di mente , virtù di cuoro , tutte
queste coso prese a singolo , o sinteti- camente altro non sono che forza
e materia , nò più, nò meno dei prodotti della digestione , delia
respirazione , della secre- zione dello urine , od altro di simil
natura. È evidento che materializzando tutto V uomo , si
dovrà per legittima illazione materializzar tutto elio all' uomo si
ap- partiene. Se non che materializzar tutto ciò, che non ò
materia, quantunque trovisi in relazione con questa, è snaturare, ò
an- nullare ; dunque logicamente il pensiero colla sua potenza , 1'
anima colla sua nobiltà , grandezza ed eccellenza vanno in fumo — e vi ha
tanta ragione od apprezzare ed ammirare i voli del genio, i portati del
sovrano ingegno, quanto ve ne ha ad ammirare un poco di cispa, di urina,
o di qualunque so- fìti^nz8( o s o r in di t i /j i il «
Eppure lo stesso Voltaire manifestava una grande verità, quando in
un suo romanzetto , facendo lo viste d' immaginar quel mostruoso gigante
che toccava Sirio , scendendo sino alla terra , e che veggendo un
vascello , prendevalo e poggiavalo Bull' unghia del suo pollice, e
compiacevasi di guardare guegli insetti cho formicolavano, per lui
microscopici, cioè gli uomini, i quali alla vista di quella mostruosa
creatura , senza un fia- tar di mezzo, facendo uso di strumenti e di
calcoli, ne deter- minarono con meravigliosa esattezza o celerilà
l'altezza del gigante. Manifestava il Voltaire una grande verità,
facendo escire dalla bocca di quello spaventovolo essere, dopo cho
vide il miracolo della potenza dell' umano ingegno, cho in un atti-
mo colse la misura intellettualmente di quella smisurata altezza : Uomo
sei un insetto, quanto al corpo, ma un angelo ti mostri riguardo allo
spirito. Digitized by Google SI
Permettete ora che io interroghi lo stesso Voltaire- oggi la cosa ò
facile, che collo spiritismo si evocano le ombre dei trapassati , e si
ottengono delle risposte , come se fossero in vita tra noi. Caro
Voltaire, gli dirò coi materialisti, la grandezza dello spirito, 1*
eccellenza di lui è cosa apparente e non reale, essa è un pò di sostanza
cerebrale con qualche imponderabile, o una cellula od altro di simil
natura; poni giù adunque la. poesia delle lodi e dell' ammirazione
superlativa ed Hfclusiva. Voltaire risponde : Cari miei , io mi
tengo stretto ai fatti ; V eccellenza dell' ingegno umano è un fatto ; ma
che V umano pensiero sia materia, o prodotto di essa, almeno fin-
che io fui peregrinando in terra, non era un fatto. Rispondono a
coro i materialisti moderni : Altro cho fatto oggi, ma è dimostrato da un
subisso di fatti. A cui 1' arguto francese : Almeno additatemene
uno , perchè" io da tanti anni nell'altro mondo, potrò ignorare
ciò che si è fatto in questo in tanto tempo — ve ne saprò grado,
perchè mi dileguerete i dubbii che mi tormentarono in vita. Certo non
obblierete quel cho per rne si fece a prò della vo- stra scuola
E qu\ i valenti materialisti presti a sciorinare tanti splendidi esperimenti,
ben noti a voi che ascoltate, quello, a mò d' esempio , del taglio del
nervo . . . quello dell' etere solfo- rico . . . quello del curaro ... e
così via. A questo punto Voltaire subisce un cangiamento nel
volto, e con brutto cipiglio risponde: Ma, miei signori , questi fatti
io gì' ignorava , è vero . ma ne sapea dei simili : ma questi fatti da
voi allegati non annullano 1' eccellenza del pensiero , e vel dico in
confidenza h-A noi, sema che il sappiano gli spiritualisti , essi
esperimenti 82 accrescono soltanto la scienza
delle mutue relazioni fra il tìsico ed il morale, ma non dimostrano punto
che questo è cosa ti- sica, ma che solo in contatto col corpo.
In ogni tempo si è saputo che, dando a bere una quantità di alcool
ad un genio , come ad un Newton , dopo un istante sparirà la potenza del
genio , ed il sommo inglese addiverrà meno di un fanciullo , o meglio
meno d' un otten- toto. Perciò chi ha detto mai da senno , fra di noi
parlando che nof ci ascoltino gli spiritualisti , chi ha detto che
per tali fatti, ed altri di simil risma, si possa logicamente de-
durre cho T anima ù la stessa cosa del corpo ? Tante cose si dicono,
tanta e quante io ne dissi per ispargere a larghe mani il dubbio; ma fra
noi, miei valenti medici, l'eccellenza del pensiero e un fatto , ma 1'
opinione che il pensiero è pro- dotto da materia o modo di essa, ò un'
ipotesi — ora un' ipo- tesi non può distruggere un fatto, perchè essa non
è un fatto. Che so si voglia dire, che 1' ipotesi sia fatto
rispetto alla sua effettiva esistenza, dicasi pure, ma non ò fatto per
ciò a cui mira, anzi aspetta dai fatti il trasformarsi in fatto,
per- dendo 1' ipo ed allora addivien tesi. Lasciatemi adunque
, io ritorno d' onde venni , e coi miei dubbi ancora , e colla dolorosa
certezza che il materia- lismo non ha fatto alcun progresso, da che
lasciai questo mondo ! § XIV. Spiritualismo nella
Morale e nel Diritto. lo dioea che il concetto dell' anima
spirituale ò essen- ziale alla vita pratica , il che è verissimo , e
parrai averlo di- mostrato ; ma vi ha di più , anzi , quasi direi , il
meglio , se pur si possa dire. Digitized by
Google 83 Vo' qui mostrare la relazione intima m
che btanno i doveri ed i diritti coli' anima spirituale, una, immateriale.
Tutto le scieuze, che han per oggetto i diritti ed 1 do- veri umani
suppongono la eccellenza del soggetto pensante Di vero , se il mio
pensiero , so la sostanza de. 1 essere pensante e cosa corporea , o parte
di esso corpo, qual nozione potrò io avere del dovere e del giure ? Se
son logico , il mio dover© ed il mio diritto non saranno uè 1'
imperativo, nò la facoltà morale di operare , ma 1' impeto dei miei
istinti, la necessità ineluttabilo della mia natura. Bo con
queste ideo , sa con questi preliminari si possa attuare un ordino
mnrftle , giuridico , rispondente ai bisogni dell' umanità , si lascia
alla discrezione di chi ascolta. Trasportiamoci nel caso della vita
pratica, o vedrem « so la dottrina materialistica sia d' alcun prò.
Ecco un accusato alla presenza del magistrato. Udito questo
dialoghetto , e giudicate. Magistrato — Voi siete imputato d'
omicidi'» con fur- to — difendetevi. Accusalo — Signore , può
essere che i>> sia accusato , ma la mia difesa sta nella mia
natura, nella vostra, in quella di tutto il genere umano. M.
Ìsoiì v' intendo — spiegate meglio il vostro pen- siero. A.
Il mio pensiero ò chiaro. Quelle azioni che dicono che io abbia commesso
, e tutte quelle che si possono com- mettere , son prodotto dalle stesse
cagioni , sono identiche del tutto. M. Como ! ò identica 1'
azione di spogliare il simile con quella di coprirne la nudità ? Quella
di uccidere un uo- mo con quella di salvami la vita? Un pazzo sulo può
pen- sare a questo modo. 34 A. No , anco
un savio pensa a questo modo, corno son io. L' aziono di chi spoglia e
quella di chi copre la nudità del simile , di chi uccido e di chi salva
sono movimenti ne- ecaifcri del sistema nervoso nell'uno e nell'altro uomo
— perfettamente identici nell' uno e Boll' altro. M. li atto di spogliare
e quello di ucciderò , come quello di far bene al prossimo sono prodotti
dall' umana vo- lontà — cioò gli atti imperati, vi dirò collo scuole,
sono moti organici, ma non mai quegli eliciti , che son gli schietti
voleri. A. Non signore, anche 1' atto elicito, la stessa
volontà, 1' anima stessa sono modi necessari del sistema nervoso.
M. Ma il dovere che si ha di rispettare la roba e la vita altrui
? A. Signore , il dovere viene dagli uomini , la passione
dalla natura. Perciò ò leggo naturale , è dovero quello che risponde agi'
impulsi del mio animo , e non già quello che fecero gli uomini.
M. Ma in tal guisa v^ngon giù tutte lo leggi, ed anco la
possibilità di una legislazione attuabile fra gli uomini , mancandone il
fondamento razionale. Perocché senza liber- tà nel volere , non vi ha
responsabilità , imputabilità , mo- ralità A. Il volere è
libero , quando non incontra ostacoli — è un moto organico non impedito,
ma che è prodotto da cause, a cui non si può sottrarre colui che lo
commette. Tutt' altro , io non T intendo , è linguaggio di
pretume, che fa la guerra al progresso della scienza. M. Io
non son prete , ma saeerdoto di Temi. Ma con chi e dove avete studiato ,
o meglio imparato sì strane , an- tisociali , inattuabili idee ?
A. Signore , io sono stato in Firenze , in Torino , in Napoli , in
Milano — ho appreso da Chiff . da MoJlescolt . $5
da Eletteli, dai liberi pensatori, e più dalla lettura dell'aureo
libro — Forza e Materia, che per me vale un tesoro. .Signore , vi
dirò in due parole U mia professione di fedo — il mio credo, che é il
simbolo della novella fede e del - progresso. lo mangio
materia , respiro materia , eento materia , tocco materia , e palpo materia
, mando fuori dal mio corpo materia, sono circondato ed immerso nella
materia . . . adunque non conosco altro che materia . . . sou tutto
materia ! So dopo di ciò volete condannarmi , io non vi
biasimo, come se mi assolveste , io non vi loderei , perchè 1' una
e 1' altra azione sono necessarie e prodotte in voi da cagioni che
vi dominano , come 1' omicidio ed il furto per mo perpe- trati furono
effetti di prepotenti ed irresistibili cause — i fat- tori delle azioui
del genere umano son fatali e necessari. Ilo voluto sotto la forma
di dialogo presentare la con- nessione , che vi ha fra il dovero ed i
diritti , ossia fra V ordine morale e la spiritualità dell' anima
umana. Se volessi spingere il mio sguardo più oltre,, farei toc-
car con mani , che le tristi influenze del materialismo vanno più in là
di quello, che comunemente si crede. Ciò sarà svolto in altri §§.
§ XV. tSjkntualismo neW Jù:onomta litUtica.
►Seguitemi ora colla vostra attenzione , entrando in una scienza ,
che ha pure un grave compito sociale , vo' dire la Economia Politica , ed
i scopriremo le belle attinenze fra essa e la spirituale sostanza.
Uno sguardo fugace sovr essa scienza , che mirando a rilevare le
leggi dell'ordine necessario delle ricchezze nel tri-
Sii plico appetto della produzione , del consumo e della
diatriba* tìntiti , vedrà, , che essa scienza ha per obbietti V
uomo considerato in una relazione determinata coi beni materiali ,
ma non comprenderà la squisita attinenza fra essa scienza ed il Eoggetto
spirituale pensante. Ciò invero sarà un difetto di sintesi molto
ordinario , mostrando 1' esperienza che molti ma- terializzano cotal ramo
di sapere ; perocché rivolta la loro mente a* termini del rapporto di
questa scienza , quali sono 1' uomo ed i beni materiali , non si addanno
che 1' uomo con- siderato dal lato esteriore è materiale , ma nell' uomo
inte- riore il principio pensante è immateriale. E poiché 1' uomo
esteriore è legato a quello interiore , perciò è dell' ultima evi- denza
che uno dei termini dei rapporti molteplici e svariatis- simi economici é
immediatamento legato allo spirito. Perciò d evidente ancora che la
scienza economica non può prescinderò •Lilla relazione colla spirituale
sostanza. A mo non cale tener qui parola dell' alleanza fra
la Giurisprudenza e 1' Economia , come ben dichiarò 1' alta mente
del Romngnosi , nò se altri ai nostri giorni colpì nel segno , ammattendo
un diritto economico, facendo sconfinare la scienza dalla sua cerchia,
trasformando la relazione in medesimezza — solo devo ancor mostrare col
fatto stesso della scienza la re- lazione , che essa ha col soggetto
spirituale: insomma l'ho dimostrato per !a natura della scienza
considerata ne' termini, dai quali svolgo le attinenze , che concernono
la ricchezza , ora lo mostrerò nel fatto stesso della scienza
esplicata. La più chiara nozione del capitale lo presenta ,
comò un lavoro accumulato , cioè il lavoro dell' ieri, conio il
lavoro dell'oggi ò il capitale del domani. Quindi ciò mostra la stret-
ta attinenza fra lavoratori o capitalisti, l'amicizia naturale in che si
trovane, e che l'ignoranza, l'ingordigia od altra bassa passione può
disconoscere, ma contro ragiono. So non che, Digitized by
Google 87 l'uomo ò un agente della produzione, è
un capitale anch'esso, ò una macchina semovente , è un capitalo
immateriale — fin qui d'accordo. Ma sorge un dubbio, ed è questo: Come
il capitalista deve trattare l'operajo, cioò in quale relazione
star debba questo con quello ? Forse come l'asino ed il bue stanno
a petto del lor padrone ? Al certo che no, direte voi, perocché* egli è
vero che il bue e l'uomo sono macchine lavoratrici en- trambe e
semoventi, egli è vero che sono tutti e due capitali, ma differiscono
nella natura del capitale e nell'indole del pro- dotto — giacche l'uomo
che si offre anch' esso dall'Aspetto di macchina, di capitalo ha
un'intelligenza immateriale, ha un volere libero , ha comuni con ogni
altro uomo le aspirazioni al vero, al bene, al bello, in che si compie
l'umana natura, appalesando la propria eccellenza. Però ne
conseguita da ciò che il capitalista non può , non deve trattare
l'operajo che come uomo, cioè in modo pro- porzionevolo alla sua
natura. Dal clie tutti quei contratti che violassero i naturali
, reslì e razionali rapporti fra il capitalista e l'operajo cioè
che non fossero in equazione alla sua natura morale, spiritatilo
sarebbero nulli. Da ciò lo ore di lavoro per ogni giorno, cho non possono
assorbir tutta la giornata, dovendo l'operajo rifocillare le sue forze
non solo, ma pur soddisfare i suoi bi- sogni morali, volgerò il pensiero
o l'opera al suo moral per- fezionamento. Qui hanno eziandio ragion
d'essere i giorni di riposo o festivi o simili. L' uomo non
può, non deve in alcun modo, e per alcun pretesto essere trasformato in
fossile ed in mero congegno meccanico. Ciò rilutta
all'eccellenza del suo essere, sarebbe nè più, nè meno cho una nuova fasi
dell' abborrita schiavitù. 11 Cri- stianesimo, e la civiltà diffusa da
questo, riprovano altamente SS c.ò che appo i
pagani era diritto, era legge; perocché il pa- gano servendosi degli
uomini, come di macchine, esercitava un impero illegittimo, perchè era
quello della forza bruta, mentre il cristiano vede oggi in un altro uomo
il raggio sublime della nobile origine, una comune discendenza, identico
destino, però esercita il proprio poterò sulla natura materiale, potere
la cui legittimità è proclamata dalla filosofia , santificata dalla
Religione. E mi par bello ridire ciò, che tre lustri addietro
scrivea, Se fu un portato di nobile intelletto afferrare le armonie
d'una scienza, ò senza alcun dubbio parto di nobilissima mente
quello di comprendere lo armoniche relazioni di tutti i rami dello
scibile. Or, s^nza occuparmi di quel che concerne un tema cotanto vasto,
diremo solo alcuua cosa che concerne l'Economia civile , la qualo non può
giammai essere in opposizione collo altre scienze, che mirano pure
all'uomo ed alla società. Ognuna di queste scienze mira 1' uomo da
un lato, ma guardandolo da un aspetto, non può esagerar questo sino
a farà un divorzio cogli altri lati, cioè collo altro scienze.
Noi intendiamo tutto questo in linea razionale , e non di puro
fatto, mostrando questo sovente gli abusi dell'uomo ; e si è per tali
abusi dell'uomo, che noi c'impegniamo a riti- rar le coso a' veri
principi. In effetti l'Economia che intende, per alcuni rispetti,
ai mezzi materiali che servino all'uomo pel soddisfacimento dei
suoi bisogni , non deve obbliare elio cotali fini economici ser- vono a
fini più nobili, il che in altri termini significa, che essa non può ,
non deve sconoscere le relazioni che ha colle altre scienze, le quali si
occupano di talune cose, allo quali ciò che l'Economia propone è mezzo.
Così, a cagion d'esempio, la pro- duzione d'una sostanza che tendesse o
facesse rovinare la sa- lute degli uomini, quantunque avesse virtù grande
di alimentare Digitized by Google
89 Jo ricchezze , essa sostanza essendo proscritta dalla
medicina , il retto senso no vieterebbe V uso. E però, dovendo la
Econo- mia armonizzare colla Medicina , dovrebbe quella rassegnarsi
ai dettami di questa, che sarebbero anche quelli della Morale, la quale
ha poi un' incontrastabile primato su tutto lo scibile. Così, se un
esercizio qualsiasi è nocivo alla salute, o degrada la nobiltà
dell'essere umano, e perciò si oppone ai fini digni- tosi e nobili della
creatura, qualunque incremento di ricchezza potria produrrò , qualunque
incitamento o stimolo alla produ- zione , alla circolazione delle
ricchezze , è per natura vietato , dovendo l'Economia essere in armonia,
non solo colla medici- na , ma dblla Morale e col Diritto. E già il
Romagnosi chia- mava con molto senno uno dei peccati capitali il'
divorzio fra 1* Economia ed il Giure privato e pubblico (1). Sarà
forso l'uomo fatto per V economia, o questa per l'uomo ? cioè
l'uomo è fatto per la ricchezza, o questa ò fatta per l'uomo ? E
quan- do dico uomo intendo lignificarlo tutto, abbracciarlo da
tutt'i lati, riassumere con vigorosa e reale sintesi tutti i fattori che
lo costituiscono. Se non che, ordinariamente non si pratica così,
si abusa della astrazione, guardandosi un sol lato, concentrandosi
l'attenzione sopra un sol fattore, c»n obbliaruc gli altri ed i più
nobili. Quindi se Y uomo ha bisogno di pane , ma non deve averlo a prezzo
di mali , d' infamia : V uomo ha bisogno di pane , ma deve acquistarlo
senza mancare a' fini nobili del suo essere, senza vulnerare le sue più
alte aspirazioni. Io il so, che le tendenze del secolo son troppo
per le cifre, non già per quei calcali che feoro ascendere un Cava-
lieri , un Leibntz , un Newton , un Laplace , un Maurolico ed
(1) Collezione ,U'jU a) t. di Economia roliti'a. Prato 18jU } >ag
7 e vgnmti — pag, 00. Digitized by Google
\00 un Galilei tanf alto , che nulla più, ma por
qtj<-i calcoli vo' «lire Bancari , che quasi, se fosse possibile ,
vorrebbero concen- trare tutto in essi ; ma so die istinti nobili stanno
a tutela delle umane associazioni, che fuorviano, per ricondurle nel
retto sentiero. Ed all' istinto non manca sovente la potente voce •
Iella ragiona E gode 1' animo allora dire. — Le dottrino eco- nomiche
debbono salire ad un' altra sfera diversa da quella dei materiali capitali,
nei quali un Galileo ed un Lax'oiser ven- tano accomunati al bue ed al
cavallo, e gli operai alle mac- chine insensate. Questo modo di trattar
la dottrina, oltre eh* spando un gelo ferreo ed immorale d' inumana
cupidigia , ma- nifesta la più completa ignoranza dello leggi
irrefragabili della natura. Avvi nella politica economia dello ricchezze
una parte spirituale, la quale fonda ed assicura la morale dell' u-
manitA. Le sole aspettative, o non assicurato, o interrotto o soffocate ,
bastano a colpire con una apoplessia tutta 1' indu- stria , tutto il
commercio , e quindi tutta la sicurezza di uno «tato (1). L'
economia politica adunque non e materialista ; essa sta in bella ed
armonica relaziono coli* anima spirituale. Questo concetto è
adunquo essenziale nelle scienze, che han per oggetto 1' uomo : questo
concetto dol soggetto incor- poreo anima e vivifica esse scienze ;
perocché quando ho detto che la morale , il giure , 1' economia sono
essenzialmente con- nesse coli' immaterialità del me , è facile il
dimostrare , come tutte le altro scienze sociali, che sono un'
applicazione ed uno svolgimento di quelle, sono dipendenti dalla
psicologia, rice. vono da essa lume e vigore. (1)
0]>. oit. del Ktei<n-_m»»si — S)il ,,,i,do w*<i/<> di traila,'
Ir dot trifU f^tmOmtfht. Digitized by Google
01 §. XVI. ^'jn ritualismo nrll' manna
associazione, nei governi , nella po- litica, nel? uguaglianza , nella
libertà, nella civiltà, nel. progresso — ossia relazione di essn vice colla
spiritua- lità del soggetto pensante. Non vo* andar troppo
alle lunghe, però accorcio quanto più mi sarà possibile. E
qui non voglio passar sotto silenzio una dichiarazione 0 , meglio , una
protesta che ci viene da parte doi materia- listi ; i quali si fanno a
diro essere eglino onesti ed ubbidienti alle leggi dello Stato.
Questa loro dichiarazione ha un grande significato, ed 6
questo. Eglino ben compresero, almeno all' ingrosso, che il
ma- terialismo è dottrina di tal natura, che attuata produrrebbe lo
scompiglio in tutto l'ordine sociale; perciò la loro protesta si traduce
a questo modo: Vero egli è che la dottrina per noi difesa e propagata è
nociva agli umani consorzi ; ma puro dal canto nostro la società non avrà
nulla a temere, perocché l'onestà e l'ubbedienza alle loggi non si
scompagneranno giam- mai da noi. Voi adunque, io mi fo a dir
loro, avete coscienza della perversità della vostra opinione, come
adunque vi basta il cuore di adoperare ogni mezzo per insinuarla ? Forse
perché siete convinti della sua verità ? Ma se è nociva , se è un male, o
, meglio , condotta in atto fa sprofondar la società in un' abisso
di mali, come mai sarà una verità ? Una verità nociva 1 Una verità che
scatena tutti i mali nelle umane associazioni , non può essere una
verità! Comprendo che un materialista può essere onesto, come
lo può essere un ateo ma l' onestà del materialista o dello
92 ateo, non è come materialista e rome atK>, ossia non è
eco del materialismo ed ateismo in essi esistenti, ma come uomini
che operano in opposizione a quelle false concezioni, ma pure in
conformità a quelle primissime ideo , che ebbero dall' edu- cazione , che
si connaturarono col loro spirito , e tanto che pensano in un modo , ed
operano in un altro. E qui calza a proposito la sentenza del Voltaire —
Mettetevi in guardia dell' ateo, che opera come ragiona. Ora
mi par giusto volgere una parola al dottor Bùch- ner: Ha egli mai pensato
che cosa sarebbe una società in- formata e guidata dallo spinto del
materialismo ? Se egli noi sa, glielo dirò io chiaro, chiaro in due
parola. Una società brutale — una società in cui la forza ed il libito
sarebbero tutto. Egli cho vuole che la t baso della
filosofia, e con essa » anche quella che più importa dello stato e della
società , » non potrà più esser teologica o metafisica , ma bensì
sol- » tanto antropologica , ossia fondata sulla riconosciuta unità
» dell' umana natura non teme di dire che « le neces- » sarie
conseguenze di questo progresso non p« tranno pro- » durre che grandi
trasformazioni d' universale e benefico » effetto, e dar nuovo impulso al
progredire di tutte le sfero > della scienza e della vita (1 )
». Non va a dubbio , dirò al Bùchner , che se lo stato e la
società avessero per base 1' unità dell' umana natura , cioè la
medesimezza dello spirito coli' organismo, dovrebbe seguirne un grande
cangiamento in tutto ; ma grandi trasformazioni di universale benefico
effetto ? nuovo impulso al progredire dì tutu le sfere della scienza e
della vita .» Di buon grado accet- terei il pensiero dell' autore ,
purché si facessero queste va- (1) Forza e MaUna Prefazione della
Edizione italiana, j>ag. 31. Digitized by Goo
93 rianti , cioó alla vogo benefico si sostituisse
malefico , ed a quella pro>jrcdke retrocedere. Come, con
qual diritto, con qual coscienza asserire, che l'attuazione del
materialismo trarrà seco grandi trasformazioni a universale benefico
efìetto , mentre è evidente essere il mate- rialismo la negazione dèlia
moralità , della giustizia , di tutte le virtù, e la trasformazione dell'
uomo in animale bruto , sic- come antecedentemente venne per mo
dimostrato ? ' Ditemi , sig. dottore , voi che amate i fatti , e
tanti che vorreste concentrar tutta la scienza nei soli fatti , non
vi accorgete di un fatto , ben riconosciuto da tutti i sapienti ,
che senza spirito di parte han meditato sull'uomo e sulla so- cietà ,
mirando al nobile scopo di arrivare alla soluzione dei grandi problemi
sociali , la cui soluzione ò il martirio dello intelligenze ?
Vo'dire, che grande parte dei mali che al presente tra- vagliano la
povera società sono l' effetto di quella dose di ma- terialismo, che
guasta e corrompe i consorzi, e scema o non fa godere quei beni, che son
frutto di vero, genuino progresso. Ah, signore, vi pr-ghiamo ad
avere più rispetto ai fatti, altrimenti vi diremo, che voi predicate la
filosofia positiva colle parole, ma poi la rinnegato coi fatti !
È inutile aggiungere, che la materialistica dottrina, es- sendo
attuata, non potria produrre l' immaginato nuovo indulso al progrosso
delle scienze e della vita, ma la morte delle scienze e della vita
sociale. Tarmi evidente che l'alemanno medico abbia tal fanta-
sia, che in lui tiene spesso le veci della ragione. Di vero, che lo
stato e la società debbono avere una base non più teologica e metafisica,
ma materialistica, cioè non più Dio, nò più anima sieno l'addentellato
delle umane socie- tà , ma forza e materia , che poi alla fin fine
significa atomi Digitized by Google
JL1M> *• moto , <• lo stesso pensi-ro epicureo
presentato sotto altra torma. Non entra nei disogno per me
ideato esaminare qual sia la base dello stato e della società — il
pensiero dall'au- tore enunciato in questi termini, che lo stato e la
società »on dovranno più avere una base teologica e metafisica, ma
antropo- logica, vale che Dio ed anima dovranno essere cacciate
dagli umani consorzi, e soppiantati dalla sola ed unica materia,
dal- l' ateismo e dal materialismo. Se non che, siccome la
Religione nei primordi dell' umana società assorbiva tutto , scienza e
go- verno , che poi a bel bello se ne emanciparono , costituendosi
potenze a se, quantunque per la prima è tutt'ora un desiderio, così in
questi due stadi dell' umano incivilimonto vi ha sem- pre la Jerocrazia ,
ma in proporzioni diverse. Questo offre la storia ; ciò è positivo. Or
può aver luogo un terzo periodo, in cui la Religione sparisse del tutto
dalle associazioni umane, dai popoli o dalle nazioni, dall'umanità, anche
come motore o fattore dello stato morale della società? Al
certo che no, come estesamente mostrerò in un' altra lettura, che ha per
titolo : La Morale e la Legge. Pertanto osservo che la sapienza
civile dei più grandi uomini presso l'antichità, e quella presso i
moderni, anco di liberi pensatori, ha messo il suggello a tal grande
verità, cioè fu sempre d'accordo in giudicare la Religione come essenziale
alle umane società. Solo per ora diremo al Sig. Bùchnor e consorti:
Voi avete una prova, cho la base materialistica ed ateistica, per
voi reclamata, non può avere dogli effetti benefici; aprite gli occhi
evedretola nel fatto d'Italia nostra, nella quale molti mali si deplorano
precipuamente , perchè l'ateismo ed il ma- terialismo han fatto cap olino
più del consueto. Questa venefica atmosfera d' empirismo fatale tenta
avvolgere in se la scienza , Digitized by Google
95 i governi,, i popoli, e se la virtù c l 1 amoro non
vi si opponessero, ^uai, guai all'umanità sedotta dallo bugiarde promesso
degli apostoli del nulla. Di vero, fate che i popoli abbiano
l'universale, interno convincimento che V uomo tutto intero sia un'
impasto di ma- teria organata ; che come lo spirito non anima il corpo ,
così una mente Sovrana creatrice non muove e governa l'universo, e
però tutto non essere che forza e materia sin dall' eternità . . . Oh,
allora vedrete come si ò la preoccupazione di un'idea si- stematica
vagheggiata, e la forza di essa sola, non convalidata dalla storia, anzi
smentita , sbugiardata da questa vi conduce a vedere il bene, ove è il
male, la luce, ov' è le tenebre, la vita ov'è la morte. Il dì
nel quale l'Idea divina si spegnesse del tutto noi civili consorzj,
sarebbe questo il momento della loro morte. Ed ò bello il ridiro
coli' illustre traduttore di Esiodo: Dio, parola ed arcano,
concento Di mille arpe, ponster del pensiero: Da to solo in un solo
momento Tutto il corso dei secoli usoi. • Mille
mondi sollevi ad un fiato, E mill? altri nel vano risolvi: E
immutabil tu resti increato, Senza il primo ne l'ultimo di.
Ore poetici Messina 1842. Spiriti superficiali, che non
comprendete le squisite re- lazioni fra le cose , ed immaginate che sia
facoltativo , o me- glio un'ostacolo al bene dolio società, ciò ch'ù una
naturale necessità dell'umanità, compiacetevi por mente a quel che
dice chiaramente o senz'ambagi di sorta un autore non sospetto,
Voltaire. 96 • L'ateismo è un mostro
pericolosissimo in coloro, che • governano ; ed è in tal modo nelle
persone di gabinetto , • quantunque la loro vita sia innocente,
perchè dal loro ga- » b netto possano penetrare sino a coloro, cbo stanno
nelle piaz- i za. È evidente essere la santità del giuramento necessario,
e » che dovesi d'avantagio aver fiducia in color), che pensano
• un falso giuramento sarà punito, che a coloro che pensano » che
essi possano spergiurare impunemente » (1). Ed altrove t Io nnn
vorrei avere affari con un principe » ateo, che troverebbe il suo
interesse in farmi pigiare in un • mortajo , perocché io son ben
sicuro che vi sarei pigiato. » Io non vorrei , se fossi sovrano , avere
affari con cortigiani » atei, il cui interesse sarebbe d' avvelenarmi , mi
saria ne- • cessano prendere , per premunirmi , il contro veleno
ogni » giorno. — È adunque necessario, tanto pei principi, quanto »
pei popoli, che Y idea d* un Essere Supremo, creatore, go- •
vematore, rimuneratore e vindicatore aia profondamente im- » pressa negli
spiriti » (2), Ed in altro luogo: « Togliendo agli
uomini il pensiero d* un Dio vindice » e rerauneratore, Siila e Mario si
tuffano nel sangue dei loro » concittadini : Augusto, Antonio o Lepido
sorpassano i furori ■ di Siila : Nerone ordina a sangue freddo l*
assassinio di » sua madre. Egli ó certo che la dottrina d' un Dio era
e- • stinta allora appo i Romani. L' ateo furbo , ingrato ,
calun- t niatore, brigante, sanguinario, ragiona ed opera
conseguen- » temente , se egli è sicuro dell' impunità per parte degli
uo- » mini ; poiché senza la crodenza di un Dio , questo mostro » ò
Dio a so stesso. Egli immola a se stesso ciò che brama, (1) Tom. 40
pag. 343 — 846, (2) Tomo 48. pag. 345. Digitized
by Google 97 » o tutto ciò che gli è d"
ostacola Le preghiera più tener*, » i migliori ragionamenti, non
han potenza sopra di lui, de » sopra un lupo famelico di carname. È
verisimilissimo cha t 1' ateismo sia stata la filosofia di tutti
gli uomini potenti , » che han passato la lor vita in questo
cerchio di delitti che » gì' imbecilli chiamano politica, colpi di
Stato (1). E valgano quest' altre parole dell' autore del
Contratto Sociale, anche non sospetto e libero pensatore quant' altri mai
. « Nulla esiste , se non per Colui che ò. L desso che
» dona un fine alla giustizia, una base alla virtù, un prezzo
» a questa corta vita impiegata a piacergli ; è desso phe di
» continuo grida ai colpevoli che i loro delitti secreti sono
• stati veduti, e che fa dire al giusto obbliato : le tue virtù »
hanno un testimone! È desso, è la sua sostanza inaltera- » bile, che è il
voro modello della perfezione, di cui noi por- t tiamo in noi stessi 1*
immagine. Lo nostre passioni hanno » un bel fare a sfigurarlo, perocché
tutti i suoi tratti legati » all' essenza infinita , lo rapprcseutano
ognora alia ragione , > servendogli a reintegrare ciò che l'
impostura o 1' amore ne • hanno alterato. Tenete la vostra anima in
istato di deside- » rare che vi sia un Dio , e voi non ne dubiterete
giammai. » Fuggite coloro cho sotto pretesto di spiegare la natura
, » spargono nei cuori degli uomini dello desolanti dottrine, e il
» cui scetticismo apparente è cento fiate più affermativo e » dogmatico,
che il tuono decisivo dei loro avversari. Sotto » il superbo pretesto cho
essi soli sono illuminati, possessori » del vero, di buona fede, essi vi
sommettono imperiosamente > alle loro perentorie decisioni , e
protendono darci per vari » principi delle cose gì' inintelligibili
sistemi , che eglino han » fabbricato nella loro immaginazione. Del
resto, abbattendo , (1) Tom. ih 7
98 » distruggendo , calpestando sotto i piedi tutto
ciò che gli » uomini rispettano, eglino negano agli afflitti l* ultima
conso- » laziono della loro miseria , ai potenti ed ai ricchi il
solo » freno allo loro passioni ; eglino strappano , svellon odal
fondo • dei cuori i rimorsi, die produce il delitto, la speranza
della » virtù, e menano vanto ancora di essere i benefattori del »
genere umano (1). Udite lo stesso Ginevrino, eh- merita ancora un
attento sguardo : » Ciascuno devo sapere che esisto un
Arbitro della sorte > degli uomini, di cui noi siamo tutti figli — che
ci prescrive » a tutti di essere giusti, di amarci gli uni agli altri, d'
es- » sere benefattori e misericordiosi , di mantenere le nostre »
promesse verso tutti gli uomini , anco coi nostri nemici ed » i suoi —
che 1' apparento felicità di questa vita ù un » niente , ma che ve no ha
un' altra dopo di questa , nella » quale l'Essere Supremo sarà il
remunerat^ro dei buoni ed » il giudico dei cattivi. Questi dogmi sono
quelli che importa » d' insegnare alla gioventù , ed insinuare a tutti i
cittadini. » Chiunquo combatto questi dogmi merita castigo senza
dub- t bio ; egli ò perturbatore dell' ordine ed il nemico della
so- » cietà ». Udiste ? Fcrturbatori dell' ordine e nemici
della società Bono i materialisti o gli atei I Quanto al
meritar castigo dall' umana autorità , io non to' prender parte, gli è un
affare che eglino si sbrigheranno con Rousseau e consorti. E
potrei qui chiuder questa parte , quanto a citazioni » ohe concerne il
fondamento dell' umana società e dello stato l se non che, la grandezza
dell' argomento, cotanto rimpicciolito (1) J. J. Rousseau
Ktoilc 90 e svisato per alcuni ai nostri giorni,
in' induco se non ni' im- pone il dovere di far sentire eziandio la voce
d' un uomo , per nulla sospetto, e degna d'essere ricordata nei momenti
di declinazione degli animi umani, e di perturbazione sociale, come
era il tempo in che egli proclamava questi sentimenti. » Cittadini,
dicea il Robespierre, è nella prosperità che i popoli, a somiglianza d'i
privati, debbono, per dir così, rac- cogliersi per ascoltare nel silenzio
delle passioni la voce della saggezza. Il momento , ovo il rumore delle
nostro vittorie ri- suonò nell'universo ò adunque quello, nel quale i
legislatori della repubblica francese devono vegliare con una novella
sol- lecitudine sovr' essi stessi e sulla patria, consolidando i
prin- cipi sui quali dove riposare la stabilità e la felicità della
re- pubblica. Mi farò a sommettero oggi alla vostra meditazione
delle verità profondo, che sono importanti alla felicità degli uomini ,
ed a proporvi delle norme , che naturalmente no con- seguitano
11 fondamento unico della società civile ò la morale. Non
consultate cho il bene della patria e gì' interessi dell' u- raanità.
Ogni istituzione, ogni dottrina cho consola e che eleva gli animi deve
essere accolta ; rigettato tutte quelle che ten- dono a corromperli ed a
degradarli. Rianimate, esaltato tutti i sentimenti generosi e tutte Jo
grandi idee morali cho si d dato opera a spegnere; ravvicinato, mercò V
incanto dell'ami- cizia ed il legame della virtù , gli uomini che
intendevasi di- videre. Chi dunque ti ha dato la missione di annunciare
al popolo , che la Divinità non esiste , o tu che ti lasci preoc-
cupare dalla passiono , cho ti appassioni per questa arida dottrina , e
non ti appassioni giammai per la patria ? Qual vantaggio trovi tu dunque
a persuadere 1' uomo , cho una forza presiede , governa i suoi destini e
percuota a caso il de- 100 htto e la virtù, che
l'anima di lui è un'aura leggera, che sì spegne sul limitare della
tomba? » L' idea del suo proprio niente gì' ispira essa dei
sentimenti più puri ed elevati , che quelli della sua immorta- lità?
d'ispirerà essa più rispetto verso i suoi simili e verso se stesso , più
devozione per la patria , più d' audacia per affrontare la tirannia , più
di disprezzo por la morto e per la voluttà ? Voi che piangete un amico
virtuoso , voi che vi compiacete a pensare che la più bella parte di lui
è sfuggita alla morte , voi che piangete sul feretro di una donzella o
di una sposa , siete voi consolati per questo che voi dite , che
non resta più di loro che vile polvero ? Infelici che spirato sotto i
colpi d' un assassino , il vostro ultimo sospiro ò un richiamo alla
giustizia eterna! » L' innocenza sul patibolo fa impallidire il
tiranno sul suo carro trionfale: avrebbe ella quost' ascendente se la
tom- ba eguagliasse Y oppressore o 1' oppresso ? Infelice sofista !
con qual diritto ti fai a strappare all' innocenza lo scettro della
ragiono per metterlo nelle mani del delitto , gettare un velo funebre
sulla natura , disperare la sventura , rallegrare il vizn , sconfortare
la virtù, degradare i' umauità ? Quanto' più un uomo ò dotato di
sensibilità e di genio, tanto più egli si attacca alle id^e che ingrandiscono
il suo essere e che elevano il suo cuore ; e la dottrina degli uomini di
talo tem- pra addiviene quella dell'universo. Kb! come quest» ideo
non sariano punto delle verità ? Io non concepisco nemmeno come la
natura avrebbe potuto suggerire all'uomo delle finzioni più utili di
tutto le realità ; e se 1' esistenza di Dio , se 1' im- mortalità
dell'anima non fossero che dei sogni, sarebbero eziandio lo più belle di
tutto le concezioni dello spirito umano. » Io non ho bisogno di
osservare, che non si tratta qui di fare il proc«»so ad alcuna opinione
filosofica in particolare, Digitized by Google
101 nò di quistionare so tal filosofo può esser virtuoso,
qualunque Biano le suo opinioni, ed anco ad onta di esse, e ciò in virtù
di felici disposizioni naturali, e di una ragiono superiore; si tratta
solamente di considerare l' ateismo corno anti-nazionale e legato ad un
sistema di cospirazione contro la repubblica * L' Mea d' un Essero
supremo e dell' immortaliti dell' anima ò un richiamo incessanto
alla giustizia ; essa idea sociale è repubblicana ». (Si
applaudisco). Vi contesso, esimi colleglli, cho mi fa pena scendere
a confutare pensieri sì futili , cho appena potrebbero cadero in
mento di un giovinetta imberbe , uscito dal Ginnasio. Vegga una
volta il materialista Moleseott, che non ò il pretume, nò altro cho gli
muove questa guerra, ma la scienza. Vegga 1' autore della circolazione
della vita cho non sono coloro che odiano la scienza e la verità, perche
importune ai loro materiali interessi, ma gli fan contrasto coloro cho
amano la scienza e la verità , a nome delle quali difendono ,
propu- gnano gli interessi umanitarj. Koi non vogliamo
saperne nò di pretume, nò di laicume, nò di altro che siasi di simil
risma. Koi abbiamo 1' occhio alla verità ed alla scienza ,
cho nobilmente mira alla stessa. Gli atleti che han fatto bella mo-
stra, veri campioni dello scibile, sono cimo d' intelligenza , e sono in
s\ grande numero, cho si dura,f.ttiga ad enumerarli. — Cominciano , per
non ascendere più in sù , da Platone ed Aristotile , ad Agostino , a
Tommaso , ai Padri della chiesa , che formano una forte falange , non mai
veduta , un' aurea catena le cui anolla sono indestruttibili, e vanno a
Dcs Cartes, Leibnitz , Gerdil , Vico , Keid , Cousin , Genovesi ,
Galluppi , Rosmini, Gioberti, per ricordalo alcuni dei morti, ed altri
ed altri, o tedeschi, o frane-si, o inglesi, od italiani, o
spapnuoli. 102 Io veggo in taluni materialisti
moderni grande audacia in affermare il materialismo — veggo scrittori
dotti , animati da uno zelo ardente di faro in polvere la metafisica ,
anima e Dio, con furore simile a quello elio agitava, gl'iconoclasti,
fa- cendo in brani gl'idoli — veggo degl'uomini ebbri delle sco-
verte della scienza moderna, alla qualo vorrebbero ridurre tutto, anzi
con essa spiegar tutto, — simili, mi si accordi il paragone, a qu
"gli uomini eh ' ingenuament ? ci dicono di non saper leg- ger^, che
nel soh od unico 1 >ro libro — veggo in molti di loro dogli amici
ardenti del pregresso politico e sociale — come ne scorgo accusatori d-
Ila metafisica, dicendola rea di avere apprestato i soporiferi sorismi e
dello chimere , con cui ha reso gli uomini indili r -nti ali i libertà I
Fichte e Mario Pagano basterebbero a smentire essi s/.li questa gratuita
ed in- giuriosa asserzione, senza far pure bella ricordanza del
Gioberti so che i materialisti mettono la lor dottrina
al servizio del radicalismo politico — so che Vogt nel Parla- mento
di Francofort nel 1848 occupò 1' estrema sinistra, e vi pronunziò dei
discorsi pieni di fu' co ; che fu proscritto ed ebbe asilo in Ginevra
.... so tante altre coso — ma che perciò ? Signori , lasciando a
Dio ed all' anima il dominio della coscienza, vo' ammettere che si abbia
una retta intenzione , cho si voglia fare il bene, pure ò facile il
comprendere che la vostra mente non imbercia sei vero, forse a ciò
impedita da ar- denti passioni, dalle quali è con veemenza agitata.
Conciossiachè, so Dio ed immortalità dell'anima sono tali verità , che
nella vita pratica sono moralità, giustizia ed ogni nobile slancio;
se moralità , giustizia sodo le basi inconcusse d' ogni attuabile
progresso ; so Dio cJ immortalità dell'anima, perchè produttrici del
giusto e del morale, sono idee eminentemeute democratiche, ne conseguita
cho Voi , c ;n tutta la migliore intenzione del mondo, facendo ingiusta
gu'-rra a Dio od anima, siete in con- Digitized by
Google 105 traddizione a voi stessi, scavato la
foBsa o Bepellito , metten- dovi su lapide sepolcrale, ed il progresso e
la democrazia. So non che, panni sentire uua voce elio forte mi
dica: La nostra dottrina noi la mettiamo in relazione alla politica
, ma intendiamoci bene a quella politica ampia , elio va per numeri
ben larghi, elio non ù la comune ed ordinaria, cioò noi siam teneri della
politica radicale. Questo ù il segno, a cui miriamo, la meta dei nostri
sforzi Pronta e facilo è la risposta, cho mi farò a dare.
10 il so che ogni dottrina, cho concerne l' umana natura può avero
un eco nell'ordine sociale, o che questo ò il crogiolo delle metafisiche
concezioni — quindi la grande sollecitudine, non mai abbastanza, di
studiar l'uomo in tutti i suoi fattori — perocché l'errare speculativo,
avendo un eco nella realità, dovrà tosto o tardi produrre il malo nel
civil consorzio in proporzione dell'enormità dell'errore stesso.
Or l'erroro del materialismo ò cotanto grave, che nulla
maggiore. 11 materialismo , negando l' anima, ed essendo , per
non dir altro, colla morale ed il diritto in intima connessione
l'anima spirituale, seguir ne devo che sfumeranno in questa esiziale
dottrina il dovere ed il diritto, per esser soppiantati dal libito e
dalla forza. In altro modo. Essendo e materialismo ed ateismo dottrine
negative , esso però saranno la negazione del giure e del dovere.
Signori, non ci debbano illudere le parole, ma penetriamo con
nobile audacia e grave senno nel significato intim > di essci nella
lor sostanza, e ci verrà fatto toccar con mani l'errore, che si nasconde
sotto quelle parole. Uditemi. L'uomo non può uscir dell' umana
natura. Se non che talvolta avviene, che l'umanità tutta quanta dica una
cosa © la riflessone sapiente ne ottenga un altra diversa, an»i op-
104 posta a quella umanitaria. Che faro allora ? uscir
dall' umana natura ? ciò è impossibile — mettersi in opposizione al
senso umanitario ? noi consento la prudenza. Che faro adimque ? non
volendo lo scrittore rinunziare ai suoi concepimenti, nò oppor- si alle
umanitarie convinzioni, almeno apparentemennte, troverà comodo per lui e
rispondente ai suoi disegni conservare, usare quelle parole d'uso comune
ed universale, ma svisandole, sna- turandole al possibile da quel che
sono, da ciò che naturalmente devono rappresentare. Così l'umanità ha per
suo patrimonio il debito, il giure, per suo aspirazioni il progresso,
l'eguaglian- za , la libertà — quindi l'autore non darà lo sfratto a
tali parole, le conserverà, usandole e quanto, ma coli* accortezza
fiua, coli' accorgimento squisito di ritirarle al possibile allo ottenuto
false concezioni. Sb n^ ha una prova in Hobbes , in Spinosa, nel
comunismo e in tutti i filosofi di simil risma. Allora il diritto
sarà la forza, il dovere l'intinto, l'im- peto irresistibile dell'umana
natura — ecco materializzati e diritto e dovere, il che vaio
annullati. Sarà la forza di un solo , di pochi , di un popolo ,
ed ancho dell' umanità tutta quanto poco monta, giacché non sarà
per questo giammai diritto, non essendo la sede, che costituisce il giure
, o chi Ij esercita , ma la natura stessa di esso , nò per cangiar di
soggetti può la forza schietta perdere la sua natura esiziale e divenire
diritto. Allora la libertà non avrà quella formola
squisitamente razionale, cioò poter fare quel che si deve, ma una
formola selvaggia, poter fare come piace. E qui si scorge sempre il
dominio del libito o della forza, sostituiti al dovero ed al giure.
Allora 1' eguaglianza non sarà noi diritti, ma negli ogget- ti di
questi ; non sarà un trattare inegualmente esseri ineguali, ma trattare
egualmente esseri ineguali, o trattare inegualmente esseri eguali.
105 Allora la civiltà non sarà quello stato, ove si
vanno at- tuando le condizioni rispondenti ai bene, al vero, al
bello, sublimi aspirazioni in cbo si compie l'umana natura — ma la
barbarie decorata sarà pur civiltà. Allora il progresso sarà
regresso , come la civiltà bar- barie, la libertà licenza, il diritto la
stessa cosa della forza bruta, il dovero ogni voglia impetuosa ed
insana. E la democrazia, presa nel vero senso della parola,
che intende a diffondere sui maggior numero i comodi, le utilità,
estendere ogni guisa di godimenti e di prosperità su tutte le classi,
porgendo loro quel cibo intellettuale e quella morale educazione
proporzionevoli a' lor bisogni — facendo ogni opera di fare ascendere in
su coloro che trovansi in basso, di tra- sformare il servaggio sensuale
delle plebi in potenza razionale di popolo la democrazia logicamente
verrebbe meno al suo nobil compito, cessando la leva potente dell'
ordine morale, so- ciale, e politico, quali sono Dio ed anima.
Ditemi adunque, seppellendo il vostro spirito nella carne e
cacciando 1' universo intero nella cieca forza degli atomi , che cosa potrete
ottenerne ? Vel dirò in poche parole. Un subisso di
proteste dapprima. Le bello arti, che vivono più di spirito che di
corpi, vi daranno lo sfratto. Protesta la natura tutta quanta
che , senza lo spiri- tualismo che le fa corona , perde 1' incantesimo
indicibile per addivenire peggio elio cadavere calvanizzato , senza 1'
essere che lo calvanizzi. Il senso universale dei popoli
vigorosamente s' innalza contro di voi, perdendo i suoi giadizl. le sue
tendenze quella ragion di es3ere che si hanno nella spiritualità dell'
essere pensante. 106 La morale, volgendo
la faccia altrove, poderosamente vi respinge , qual pudica vergine , la
mano impertinente d' insano, furibondo uomo — il giure con la forza che è
in lui, dalla santità della sua sorgente , vi fa aperta guerra ed a morte
— come la politica economia vi guarda in cagnesco , se pur non vi
odia, per la degradazione , a cui intendete condurla. Se poi
vogliamo considerare la cosa da un altro aspetto, quello cioè di
considerare la vostra dottrina in relazione alla società , alle attinenze
coi suoi membri , alle libere istituzioni, alla civiltà , al progresso,
all' eguaglianza , alla libertà, allora vi vedrete ancora e meglio il
guasto , lo scompiglio , il caos da esse dottrine prodotto, avendo eco nelle
associazioni. Potete voi gridare con quanta forza ne abbiate in
gola : progresso , libertà , civiltà , eguaglianza ! Potrete
occupare in un' assemblea legislativa 1' estrema sinistra , ed
improvvisare dei discorsi con maggioro eloquenza del maggior oratore
della rivoluzione francese ; che perciò ? Datevi pace, che il fuoco delle
vostro orazioni non avrà virtCl di cangiar la natura dello cose.
Ne conseguita da tutto questo , fin qui per me detto , cho so allo
spiritualismo sono legati fortemente , jn dissolubile mente e dovero e
giure , e libertà e4 eguaglianza , e progresso e civiltà, insomma tuttofò
cho interessa grandemente l' uma- nità , ne viene che noi difendendo o
Dio ed anima , siamo i propugnatori degl' interessi più vitali umanitari
— cioè noi i difensori del progresso , della civiltà, dulia libertà ,
dell' egua- glianza, ed i sostenitori e propagatori di esso nobili idee —
noi gli amici dolla democrazia, che ha per sostrato la santità del
giure e del dovere — noi infine gii amici di ciò che vi ha di umanamente
nobile ed attuabile nei civili consorzi. Digitized by
Gooole % XVII. 107
Apostrofe all'Anima. 0 anima , raggio celeste , a te volgo
infine la mia parola ! Sei puro spirito , ma sei avvolta
nella creta. Spesso 1' uomo confonde la benda che ti cinge , con
te stessa : e fa offesa al vero. Ciò non sia mai al senno filoso-
fico imparziale. Perocché spesso hai le ali dorate , invece di
quelle di limo, e penetri ove l'occhio terreno non può, nò potrà
giam- mai i e sublimi verità arcane si rivelano a te stessa , e ti
fanno cosa immortale e divina. Tu sei fra la terra ed il cielo, fra
il finito e l'Infinito, fra il mondo e Dio. Sei colle cose terrene ,
finite , mondiali pel velo di creta , che ti cinge , ma col cielo , coli'
Infinito , con Dio nel sublime slancio della tua nobil natura.
Facil cosa ò adunque , che 1' uomo , che si trovi posto fra due ,
scambii V uno coli' altro ; si concentri tutto sul ter- reno o tatto sul
divino ; materializzi tutto , o spiritualizzi ogni cosa.
Rifugge il filosofo da sì mostruosi errori , chò egli in una
vigorosa sintesi abbraocia , senza nulla confondere , te a un tempo e il
tuo corpo od il terreno soggiorno , come il fi- nito e 1* Infinito ,
terra e cielo , senza immedesimarli. Vedi giudizio uman comn spesso
erra ! vi fu chi ti disse fango , chi ti disse Dio — nè l' uno, nè l*
altro del tutto , o 1' uno e 1' altro , ma questo ed in certo Benso.
0 anima , ti fa bella e sovrumana 1' occhio , che drizzi in alto ,
lo sguardo che levi su per le sfere , e contempli quelle verità ascose al
senso e ad ogni essere, che viva quag- Iu8 giù ,
come Io sguardo , che volgi in basso , ajutata dal tuo misterioso compagno
, il corpo. Son belli questi dae tuoi sguardi — eppur l'umana
fralezza tal fiata ne obblia uno a scapito del vero! Non ti adirare
per questo , o farfalla dei cieli , che sempre sei bella ! sei gemma che
splende pur nel fango — ma non sei fango. Chi dice che sei
fango , erra e quanto ! Ma che vuoi , ciò in alcun uomo avviene per
considerar di troppo la materia, e sempre volgere il proprio pensiero ad
essa. Simile a quegli uomini , che per lunga abitudine di
convivere colle bestie , e quasi con esse sole , si assimilano alla fine
i lor costumi , s' imbestialiscono ; così succede di chi troppo rivolto
alla materia , e unicamente alla stessa, finisce con materializzar sè
stesso. Anima , sei bella ancora , anche quando 1' uomo diso-
nora se stesso con opere ree ! Non è il fallo che ti rendo bella, ma il
rimorso , il pentimento che tengon dietro al male fatto, rimorso e
pentimento che accennano alla nobiltà del tuo essere , perchè figli del
tuo arbitrio e della leggo suprema , che splendo al tuo intelletto
I Anima , sei pur bella , quando 1' uomo cammina nel sentiero
de' vizi, perchè hai virtù di andare a ritroso , e sbu- giardare ,
emendare con opere buone la vita trascorsa ! Ti veggo pur bella , o
anima , quando sei immersa nell' ignoranza , che tanto offende il tuo
intelletto , che aspira nobilmente al vero — non ò 1* ignavia che ti
rende bella e maestosa , ma il potere , che grande serbi nella profondità
di te stessa , a dileguarla , a passare alla scienza , come dallo
tenebre alla luce. Chi non è uso a medi taro in se , per so , con
se , nel silenzio delle passioni, c di tutte le sensitive esteriori
impres- Digitized by 109
sioni ; chi non è avvezzo a questa notomia psicologica , e ad ,
appuntar lo sguardo a quei semi ideali, che riescon poi tanto fecondi
nella tela scientifica , che si va svolgendo ; chi non mette in opera
tutto questo , deve dare gran prò ai sensi , e finire con dogmatizzare ,
perchè immerso sino alla gola nella Forza e Materia : quanto eccede la
sfera dei sensi è falso / 0 anima , io ti ammiro sommamente nelle opere
escito dall' onnipotenza del Creatore, perchè le vinci tutte in
sapienza, in potenza , in bontà — cioè porchè risplende in te un
raggio, ed in te sola , di quel solo divino , che illumina ogni uomo
, che viene quaggiù — perchè col volere libero ti sottrai alle
leggi del Cosmo , e vivi vita morale , e di amore , e di bel- lezza , e
di virtù , che son tuo esclusivo retaggio 1 0 anima , hai nemici ,
che ti vorrebbero preoipitar nel nulla ; eppur non ti mancano degli
antichi e nuovi amici che li faranno arrossir per vergogna. 0
farfalla dell' Empirò ! Vana sarà ognora 1' opera di chi vorrebbe farti
tutt' uno col corpo. Perocché la tua potenza d' intendere , di
slanciarti più oltre del senso, ed in opposizione di questo, la
celerità, 1' estrusione, 1' unità armonica dei tuoi concotti , 1' essere
il pensiero non Bolo uno in se stesso , ma comunicar© 1* unità o la
semplicità sua al moltiplico od all' eterogeneo , abbraccian- dolo; il
riunirò che fa in se stesso i contrari ed immedesi- mare le differenze ,
ciò mostra che non sei un accidente , un modo , ma la sostanzialità
intima , come quella che mediante l' identità pcrsonalo ha il pieno
possesso , e come dire la compenetrazione di se medesimo , e a cui tutte
le altre so- stanze si appoggiano e riferiscono. Sì , dirò
ancora , lo slancio costanto verso 1' Infinito , il bene ed il male
morale , il bello ed il sublime , il dovere , il diritto, la legge , il
rimorso, il pentimento , V arbitrio , la Digitized by
Google 110 virtù ed il vizio, il premia e la
pena .... tutto ben meditato annullerà ognora i Bollerai insani di chi
vorrebbe seppellirti nella carne. O anima , io ti ammiro , ed
a mille doppi veggo ri- splendere in te la gloria di Colui, che tutto
muove! Le tue facoltà a me pajon microscopi ideali , che ben
mostrano le cose , che si sottraggono ai sensi — simili a te- loscopt ,
la cui forza annulla la distanza degli esseri — è la tua potenza cogitativa
qual prisma ideale, che ne scompone i concetti sino agli esili elementi —
fuoco d' una lente , che riunisce e condensa i raggi ideali sopra un sol
punto — infine come il vette di Archimede , che muove tutto il sistema
pla- netario e ad un tempo la mano di Copernico e di Newton, che Io
dirige , tu , o spirito , colla potenza del tuo volere muovi , e governi
il mondo morale e quello delle nazioni. FIHK.
Digitized by Google INDICE Dedica P»g- »
Una parola ai Sodi » 5 // U omo » 7 L' Uomo
(scritto secondo) , . . * » 23 |t La Scienza Pope-laro » 27
j IL II naturalista, il materialismo e lo spiritualismo . . . ■ 31
\ IIL Delle attinenze fra le Scienza razionali, morali e quello
naturali « » 39 2 IV. Confutazione del materialismo
fisiologico — Delle attinente reciproche fra la IV. -o\ . :\ \ e
I-i F:.-'i-.v -ria d?dotl ? dalla natura o dall'indole di essj
scienza, o dei loro liiaiti . » 45 g V. Obbiezione o Risposta »
51 \ VI. Dilemma che dimostra la necessita in che trovasi il Fisio
- logo di far tesoro delle venta Psicologiche » 53 § VII. Una
preghiera ai psicologi ed ai fisiologisti > 55 \ VIII.
Spiegazione del materialismo Fisiologico i id. g IX. Una parola
conciliatrice » 50 \ X. Il progresso delle scienza naturali non poò
menomato la spiritualità dell'anima » 65 \ XI.
Spiritualismo nella Belle Arti i 09 \ XII. Spiritualismo nella
Natura % 73 g XIII. Spiritualismo nel Senso Cornane dei Popoli »
77 g XIV. Spiritualismo nella Morale e nel Diritto i 83
\ XV. Spiritualismo noli' Economia Politica t 85 3 XVI.
Spiritualismo nell'umana associazione, nei governi, nella politica,
nell'eguaglianza, nella liberta, nella civiltà, nel progresso «— ossia
relaziono di esse ideo colla spiritualità del soggetto pensante »
91 \ XVH.Apostrofj all' Anima » 107
AVVERTENZA. Nota Prima alla pagina 59: '
Le parole del professore Tomtnasi lì leggono nei Morgagni anno
Vili, pag. 819, 820. Nota Seconda alla pagina 74:
Dove si tien parola del dottor Gali conviene aggiungere, o dir
meglio, che il dottor Spurzheim chiamò tal facoltà surnaturalité , o
facoltà del •oprannaturale. Vedi Kouveau Manuel de Frenologie par Ooerge Combc
— Bruxelles 1837, pag. 81. OPEKE E LA VOltl DELL'AUTORE 1.
Sopra alcuni errori d'Ideologia — Innominato, au, I , n. 8, 9, 1*35.
2. 8uli' Ideologia di M. Gioja — Innominato. 3. Sul Diritto
Naturalo del prof. D' Ambra — Innominato. Sul Giornale di Statistica di
Palermo — Innominato. 5. Conno sull'Adulazione — Spettatore Zancho
, an. VII. C. Sulla vita e sul Sistema di Emanuele Kant— Sentinella
dd Piloro, 1842. 7. Rassegna di Opere — Annunzio Nocrologieo del
Galluppi — Gior- nale del Gabinetto Letterario di Messina , fase. XIH ,
1817. 8. Proemio alla Rivista Siciliana — Sul Sistema dalle Facoltà
dell'ani ma , an. I , n. 1,2. 9. Sopra le macchine —
Sentinella del Peloro , 1843. 10. Dialogo fra il Senso ed il
Cervello 4 — Beo Pelorilano, an. Ili, fase. 12. 11. Sul Lockismo —
Eco Peloritano, an. IV, fase. 4. 12. Sulle Bollii Arti — Eco
rcloritano , an. IV , fase. 8. 13. Discorso sulla vita e sullo
Opere dell' Ab. Antonio Sarao, letto n<.)U R. Accademia Peloritana —
Eco Pelorxtano , an. IV , fase. 10. 14. Biografi -i di Elisabetta
Molino — Ero Ptloritano, an. IV. fase. 11, 12. 15. L' Uomo non ha
l'uso della Ragione — Eco Pclontano, an. IV, faec. 1. 16. Dialogo —
L'Ideologo ed il Naturalista. Messina tip. Ant. d'Amico Arena, 1S39.
Digitized by Google ■
114 17. Introduzione allo Studio della Filosofia — Messina
tip. G. Fiumara, 1842. 18. Osservazioni unii* Empirismo — Messina
tip. Nobolo, 1842. 19. Sopra i Frammenti di Hamilton — Messina tip.
Fiumara. 20. Memoria Estemporanea pel Concorso a Professore
Sostituto alla Cat- tedra di Logica e Metafisica nella R. Università
degli Studi di Mes- sina — Messina tip. Fiumara , 1815. 21.
Discorso Filosofico ai suoi Allievi — Messina tip. Fiumara, 1817.
22. La Liberta — I Sacerdoti — nel Giornalo L'Aquila Siciliano —
Messina, an. I, 1848. 23. Sullo Statuto — Messina tip. Capra,
1848. 24. Sulla Cicca Serrile Imitazione degli Stranieri in fatto
di Politica — Palermo 1819. 25. Premio alla Potenza del
Pensiero — Palermo M. Consolo, 1819. 26. Opuscoli Editi ed Inediti
— Messina tip. d'Amico Arena, e d'A- mico, 1854 e 1855 — voi.
cinque. 27. Scritti Vari d'Etica e dì Diritto Saturnie — voi. 1 .
tip. d'Amico Arena, 1858. 28. Dialoghi Filosofici
sull'Intuito — Messina tip. d'Amico Arena , 1860. 29. Orazione
Inauguralo per la trienne apertura d.gli Studi dell'anno Scolastico
1859-60 della E. Università di Messina — Messina tipo- grafia Ignazio
d'Amico, 1860. 30. Introduziono al Giornale 1' I<ka — Messina
1S61, un. I, 2* semestre. 31. Iutrodnzione alla Filosofia Morale ed
al Diritto Eazionale, voi. unico — Messina tip. Ignazio d'Amico
1802. 32. Discorso letto nella Società degli Operai inaugurando la
solenne Aper- tura delle Scuole pei figli dei Socii — Messina tip.
Ignazio d'Amico 1863. 33. L'Eguaglianza considerata da un nuovo
aspetto — Prolusione letta nella R. Università degli Studi il giorno 13
del 18C3 — Messina tipografia Ignazio d'Amico, 1863. 84.
Predica di un Parroco in occasione della morte di Giuseppe La Farina
— Messina tip. Orazio Pastore, 1863. 35. Relazione letta nella R.
Accademia Peloritana intorno ad una Disser- Digitized by
Google • 115 tationo sulla Sovranità dell' A vv.
Trof. Giacomo Maeri — Messina tip. Ignazio il 1 Amico, 1863.
36. Relazione intorno «Ila R. Scuola Tecnica di Messina per l'anno
Sco- lastico 1863-64 - Massino tip. Ribcra. 18f,5. 37. Ter la
fino dell' anno Scolastico 1861-05, Discorso scritto per la Repiri
Università degli Studi di Messina —Messina tip. Ignazio d'Amico ISO"
38. Relazione letta nella R. Accademia Peloritnnn intorno all'Opera
in titolata: Origine e Progressi ddi Aritmetica del Colonnello Cav.
Do- menico Martines — Messina tip. Ignazio^d' Amico 18G5 39.
Intorno ad alcuno Glorie di Messina, Oraziouo Inaugurale p.-r la solenne
apertura dell' Università dell'anno Scolastico 1865-66 — Mes- sina tip.
Ignazio d'Amico, 18GG. 40. Con6idorazioni sul Precipuo Fattore
dell' Eguaglianza — Estratto dall' Archivio Giuridico — Bologna tip. Fava
c Garngnani. 41. Per nn Disegno a penna del Trof G. Benincasa —
Messina tipe grafia Ignazio d* Amico, 1SG7. 42. Relaziono
letta nella R. Accademia Peloritana intorno al Discorso del
Presidente della Società Geografica Italiana Coram. Negri Cristoforo
— Messina tip. d'Amico, 1S68. 48. Commemorazione
degl'Illustri Accademici morti nel colera del 1S>7 — Messina
tip. Ignazio d'Amico, 18G8. 44. Discorso i:i occasione dell' ottavo
anno della Società Operaja di Mes- sina — Messina tip. Ignazio d' Amico
18G8. 45. Un Fiore sulla tomba di Maria Ellero. Messina tip.
d'Amico, 1869. 46. Relaziono Finala per Panno 1869. Letta nella R.
Accademia Pelori- tana — Messina tip. d' Amico, 1869. 47.
L'Omu nun avi l'uau di la Ragiuni Cicalata — Messina tipograiin d'Amico,
1869. 48. Studi sull'Intelligenza negli Annali dell' Istruzione —
Messina lUnip. e stereot Capra 1869. - 0
1 1 p INK1M T I 1. Introdottone
alla Filosofia Morab ed ul Diritto Rasiouale, Seconda Edizione migliorata
ed accresciuta pia d'una metà. 2. Dio — Meditazione-.
3. La Legge e la Morale. 4. Il Saluto al Capo d'Anno —
Conferenza '.letta nella R. Accademia Peloritana il giorno J del
!<0. 5. L' Eguaglianza ó il Diritto. ' - 6. Intorno
l'Eguaglianza — Conferenza Poppare. ?. Miscellanea Filosofica. *
t < - • _ ■ OPUSCOLI
EDITI DEL PROCESSORE ANTONIO CA TARA-LETTI ERI
# £ 61 / OPUSCOLI D
I ANTONIO CATARA LETTIERI PROFESSORE INT. DI DIRITTO
NATURALE ED ETICA NELLA REGIA UNIVER- SITÀ DEGLI STUDI1 DI MESSINA,
PROFESSORE DI FILOSOFIA E DIRITTO NATURALE NEL SEMINARIO ARCIVESCOVILE ,
PROFESSORE DI FILOSOFIA E DIRITTO NATURALE NEL MONISTERO DEI RR. PP.
CISTERCIENSI , DI- RETTORE DELLA CLASSE DI LETTERATURA E BELLE ARTI NELLA
REALE ACCADEMIA PELORITANA , SOCIO ONORARIO NELLA CLASSE DI
LEGISLA- ZIONE , SOCIO DELLA GIOENIA DI CATANIA , SOCIO ORDINARIO
DELLA SOCIETÀ ECONOMICA DELLA PROVINCIA DI MESSINA.
MESSINA STAMPERIA IGNAZIO I»' AMICO 1855
Digitized by Google Digitized by Google
COLLEGIO DECURIONALE DI MESSINA CHE CON SENSO CIVILE PBOVVEDE ALLA.
PUBBLICA AZIENDA E NON TRALASCIA L’ INCLORAMENTO PIÙ
NOBILE A PROTEGGERE GENEROSO COLORO CHE INTENDON CALDISSIMI ALLE
BELLE ARTI ALLE LETTERE ALLE SCIENZE VIVE SEMPRE MAI E FIORENTI
NELLA PATRIA DELL’ ANTONELLO DEL MAUROLICO E DI ALTRI
ILLUSTRI ACCIÒ IN ESSA I VEGNENTI NON MANCASSERO DI SÌ
GLORIOSI MAGGIORI QUESTE CARTE A PRESERVAMELO DEI GIOVANI
INTELLETTI DA INVASIONE STRANIERA DI PERNICIOSI ERRORI FIERAMENTE
MINACCIATI ANTONIO CATARA LETTIERA COI SENTIMENTI PIÙ
VIVI DI PATRIO AFFETTO OFFRE F. CONSACRA. , Digitized
by Google Digitized by Google OPUSCOLI
EDITI DEL PROFESSORE ANTONIO CATARA LETTIERI
OC3JC23QD£3r!3t>4*A £3tX>EC£Za®S3rS3 CON CORREZIONI E»
AGGIUNTE DELLO STESSO AUTORE MESSINA STAMPERIA
I)' IGNAZIO 1>* AMICO 1854 Digitized by
Google Digitized by Google RIFLESSIONI
CRITICHE SUL SISTEMA PSICOLOGICO DEL CONTE
DESTCTT-TRACY (') La riconoscenza dovuta a questi uomini
illustri non distrugge il diritto di ret- tificarne le idee , quando si
scostano dal vero. Anzi cresce per cosi dire l'obbligo di
censurarli , a misura die è maggiore la loro rinomanza, giacché
questa suole ’ servire di egida agli er- rori nella mente dei lettori
comuni , più capaci di annoverare le autorità die di pesare le
opinioni. M. Gioja Nuovo Prospetto dello Scienze Eco- nomiche
Tom. 1. nella Prefazione. \ cosa ornai notissima somma
laude dover- si riferire a quegli uomini insigni, nelle cui opere
vi è profondo sapere. La qual sentenza , nel vero significato concepita,
ci spinge a rendere debiti elo- gi a meriti cospicui de' Leibnitz , de'
Kant , dei f) Quest’ Opuscolo venne la prima volta in luce nel
1830 pei tipi di Giuseppe Fiumara. 4 Lock e
consorti, ma non ci arresta di notare i lo- ro trascorsi, perocché la
celebrità di un autore non è argomento delia sua infallibilità. E, per la
veri- tà di ciò che dico , allegar posso le censure che meritamente
sonosi fatte alle opere de’sullodati fi- losofi , censure che se non
piacciono a coloro , i quali son pieni di culto superstizioso ,
piaceranno a coscienziosi amatori del vero , a’ buoni filosofi. Che
in filosofia , come in ogni altra cosa , è da fuggirsi la servitù,
detestarsi la licenza, ed amar- si quella libertà di ragionare die le
opinioni di qualsiasi filosofo sottopone ad una severa critica.
Incomincio adunque a dire alcune parole sul siste- ma delle facoltà dello
spirito dell’ illustre ideologo Destutt-Tracy. §• I.
Per Destutt-Tracy le facoltà mentali sono quattro e nella
sensibilità concentrale. Gli Elementi d' Ideologia fruttarono a
questo filosofo gran plauso, non solo appo i francesi, ma eziandio
in Italia , perocché il dotto cav. Compa- gnoni, recando l’opera in
discorso nella nostra bel- lissima lingua, fe in tal modo ricogliere al
suo au- tore nuove lodi. Ma il traduttore fece di più : e- gli ,
nella prefazione a bella posta dettata , rende elogi all’ ideologo
francese , asserendo che comple- ta ed esatta sia la sua Ideologia ; ma,
per quel che a me ne sembra , in essa veggonsi non pochi er-
rori. Digìtized by Googl 5 E
primieramente il Tracy è di fermo parere, che le facoltà del pensiero
sieno quattro, cioè sen- sibilità , memoria, giudizio e volontà, e che
sieno sentire e nuli’ altro che sentire. Ecco le sue pa- role
: « Ed infatti formare un giudizio vero o falso » è un atto
del pensiero ; e quesf alto consiste in » sentire che vi c una
connessione , una relazione » qualunque tra due cose che si paragonano
in- » sieme. Quando io penso che un uomo è buono, » io sento che la
qualità di buono conviene a quel- » 1’ uomo .... Pensare adunque è un
vedere una » relazione di convenienza tra due idee , è sentire »
una connessione o relazione. Voi dite pure io » penso alla nostra
passeggiata di ieri , quando la » memoria di quella passeggiata viene a
colpirvi , » e , dirò così , a toccarvi. In questo caso pcn- » sare
c dunque provare un’ impressione di una » cosa passata : è sentire una
ricordanza. Quando » voi desiderate , quando voi volete qualche
cosa, » voi non dite già comunemente parlando: io pcn- » so, che
provo un desiderio , una volontà. Que- » sto infatti sarebbe un
pleonasmo, una espressio- » ne inutile. Non è però meno vero che
desidera- » re e volere sono atti della facoltà interna che in »
generale noi chiamiamo pensiero ; c che quando » noi desideriamo o
vogliamo qualche cosa , pro- » viamo un’interna impressione che chiamiamo
un * desiderio o una volontà. In questo caso pensare » è un sentire
un desiderio » (i). c §. IL Egli
incorre in petizione di principio. Tali pensamenti , per quanto io
sappia , sono stati confutati. Si è detto, e non senza ragione, al
Tracy : il giudizio, secondo voi, è sentire, perchè è sentire un rapporto;
la memoria è sentire, per- chè è sentire una reminiscenza ; il desiderio
è sen- tire, perchè è sentire un desiderio o una volontà : al tutto
pensare è sentire , perchè è sentire. Ciò è una vergognosa petizione di
principio indegna di un filosofo. Qual prova è adunque la vostra ?
re- plichiamolo, è un pretto sofisma. Non vi era noto il canone
logico : Definilum non debet ingredi in dcfinitionem ? e voi lo violate,
anzi di troppo. Ol- tre a ciò confondete mai sempre la coscienza
delle operazioni spirituali con le stesse operazioni. Con-
ciossiachè egli è vero che lo spirito sente la ricor- danza, il giudizio,
il desiderio c tutto ciò che av- viene entro di sè , ma è un atto della
coscienza o senso intimo con cui percepisce tali modificazioni ,
atto che non può confondersi colle stesse. Voi dun- que non ispiegate
tutte le facoltà mentali, anzi so- lo date contezza del sentimento che le
svela , im- medesimandole con esso. Che cosa sono adunque il
giudizio , la memoria , il desiderio ? vo’ dirlo a viso aperto, il Tracy
non lo ha giammai dimostro, avendo considerato un sol lato del pensiero ,
cioè il sentimento , e tutto intero in questo Iato lo ha
visto. Digitizoi by Google § III.
7 Im. sua definizione della relazione non si può con-
ciliare colla di lui dottrina sul giudizio. Or io, considerando
addentro la cosa , veggo che lo stesso autore si oppone a' suoi principi
, giacche definisce la relazione in tali parole : » La
relazione è quella veduta della mente , » quell’ atto della nostra
facoltà di pensare, per cui * noi avviciniamo un’ idea ad un’altra, c le
para- » goniamo insieme in una maniera qualunque (a). » Una
relazione non è che una veduta della mcn- » te , c non già una cosa , che
per se stessa esi- » sta » (3). Non imprendo io ad esaminare
, se il Tracy intenda parlare delle relazioni logiche, o delle rea-
li , c dimostrare la falsità o almeno la inesattezza della sua
definizione (4) ; mi contento dire con lui la relazione è una veduta
della mente e non già una cosa che per se stessa esiste ; or , se ciò
è vero, con qual diritto egli asserisce, che il giudizio consiste
in sentire relazioni ? Se è una veduta del- la mente, c non già una cosa
per se esistente, co- me si potrà sentire ? come potrà essere oggetto
del senso ? La sensazione suppone un oggetto esterno clic la
cagioni, ed a cui corrisponda ; la relazione è veduta dello spirito , è
subiettiva , e però non corrispondente ad alcun oggetto ; dunque non
si può sentire, non è una sensazione. Nè si può difendere l’
autore , dicendo clic la relazione consista in sentire , perchè svelata
dal Digitized by Google 8
sentimento , comprendendo ognuno che in tal mo- do si confonderebbe
la coscienza delle spirituali fa- coltà colle medesime facoltà , come si
osservò nel precedente § , o , che vale lo stesso , si confonde-
rebbe il mezzo conoscitivo colla cosa conosciuta. Inoltre, se si
pon mente alle altre parole del- l'autore: quell’alto della nostra
facoltà di pen- sare , per cui avviciniamo un' idea ad un altra, di
leggieri si vedrà, la relazione o avvicinamento non essere una sensazione
, ma un operazione con cui si avvicina o riferisce un idea ad un’ altra ;
stan- techc gli obbietti offroosi isolali, separati , e come
esistono in natura , quando per lo paragone deb- bonsi appressare e, per
Così dire, sovrapporre gli uni agli altri , il che è un atto dell'
attività intel- lettuale. A ciò si arrogo , che la facoltà di
giudicare, consistendo in sentire , dovrebbe essere infallibile.
Perocché quando le due sensazioni , dice il Rous- seau, sono percepite ,
la loro impressione c fatta , ciascun oggetto è sentito, i due son
sentili ; ma il loro rapporto non è sentito perciò. Se il giudizio
di questo rapporto non fosse che una sensazione , e mi venisse unicamente
dall’ oggetto , i miei giu- dizi non m’ ingannerebbero giammai , poiché
non è giammai falso , che sento ciò che sento (5}.
Restringendo adunque la somma delle ragioni son condotto a
stabilire : r. Che la facoltà di giudicare dal Tracy ri-
posta in sentire, non può conciliarsi colla sua de- finizione della
relazione. a. Le stesse parole dell' autore dicono chiaro
Digitized by Googte 9 che nel giudizio vi è un
atto , che non è sentire ; il che dimostra non essere tutte le facoltà
spiritua- li nel senso concentrate. 3. Se il giudizio altro
non fosse che sensazio- ne, dovrebbe essere sempre infallibile.
§, IV. Jl cap. VI. del V.* voi. è in aperta
contraddizio- ne al sensismo del Tracy. Ma dirò di più. Da
per tutto l’ideologo fran- cese dice , e nella formazione delle idee
composte massimamente , che per aver le idee concorrono due
operazioni dello spirito , quella di concretare e quella di astrarre, o
vogliam dire, sintesi e ana- lisi , comporre e decomporre , senza punto
aver presente di aver detto che quattro sieno le facoltà del
pensiero, sentire , ricordare , giudicare , volere e nuli’ altro che
sentire. » Quest'operazione della mente, dice il Tracy, » la
quale consiste in radunare parecchie idee per » formarne una sola , a cui
si dà il nome che le » unisce tutte insieme, viene espressa con una
de- » nominazione propria , eh’ c concretare in oppo- » sizione ad
astrarre eh’ è il nome dato all’ opera- » zione inversa .... Quest'
operazione si chia- » ma astrarre, parola procedente dal verbo
latino » ab trahere , composta dall' altro trahere , pre- » messa
la particola ab, quasi trarre da , » perchè nel caso nostro effettivamente
da due o » più idee individuali si trae tutto quello che le
10 » confonde insieme, rigettando ciò che le distingue,
» e se ne forma un’ idea comune » (G). Parrai vero che le facoltà
di concretare ed a- strarre, sintesi ed analisi, sieno esistenti nello
spi- rito umano , attalchè se ei ne fosse privo , nulla
distinguerebbe , perdendosi tutto in un sentimento confuso. Ma che dirò
del Tracy ? La sua contrad- dizione ( colla riverenza dovuta a cotant
uomo ) è badiale. Perocché se quattro sono le facoltà del pensiero,
come asserire l’ esistenza di altre due, a- strarre c concretare ? Se
nella sensibilità tutte le forze della mente concentransi, in qual modo
con- ciliare 1’ esistenza di esse facoltà ? La potenza di astrarre
, come si sa , non è una sensazione, anzi è una operazione alla
sensibilità opposta , perche questa offre gli obbietti composti, confusi,
quando quella decompone , separa , divide e rende chiara ogni cosa.
Medesimamente la facoltà di concretare o sintesi è una forza dello
spirito, colla quale com- bina gli clementi in isvariatc guise ; non è
perciò nè può dirsi una sensazione. E confondere queste facoltà
colle sensazioni , sarebbe dire clic le mac- chine c gli strumenti , clic
modificando le materie grezze danno le manifatture, sono le materie
grez- ze stesse. Laonde convien osservare , che il Tracy infatuato
a trovar nelle facoltà mentali f unità si- stematica , cioè ridurre tutto
ad un sol principio , non solo vedeva assimilazioni in cose disparatissi-
me , commetteva asserzioni , ma , che più monta , imbattevasi in
manifeste contraddizioni. Tanta è im- mensa la possanza dello zelo di
parte ! ( 7 ) E qui giova riflettere , clic vedrebbe torto
chi Digitized by Google 11 dicesse
1’ Astrarre c Concretare non essere facoltà elementari e ridursi aila
sensibilità. 11 severo ana- lista và immune da tali errori : egli vedendo
che dalla combinazione binaria ternaria ec. delle quat- tro facoltà
da esso autore credute elementari non possa rendersene ragione , le
riguarda elementari. Difatti sensazioni , ricordanze , giudizi e
volontà secondo la sua opinione in sentire limitate , non possono
formare le potenze di Astrarre e Concre- tare , che , come si sa ed ho
dimostro , sono es- senzialmente distinte dalla sensibilità.
Ma, se mal non mi avviso, ho letto nella lo- gica del Tracy le
seguenti parole : » So che molti osservatori dell’ uomo hanno
» notato assai maggior numero di modificazioni » della nostra
sensibilità, eh' essi hanno creduto do- >» ver distinguere, come sono
la riflessione , il pa- » rogane, l’ immaginazione ec. Nè io nego che
non » sieno queste cose tanti stati della nostra sensibi- » lità ,
ovvero sieno operazioni del nostro pensie- » ro , le quali realmente
differiscono le une dalle » altre : ma per noi non risultano da esse
imme- » datamente percezioni di un nuovo genere , che » noi
possiamo chiamare riflessioni , paragoni , im- » maginazioni. Quando io
paragono due idee , io » le sento e le giudico ; oppure non fo nulla.
Lo » stesso è quando rifletto. Quando similmente io » immagino ,
non fo che unire differentemente i- » dee che ho già avute : separo le
une , avvicino » e congiungo le altre, ne formo nuove combina- »
rioni ; ma tutto ciò in virtù di percepirle e di » giudicarle. Sono esse
dunque tante operazioni 12 » differenti , se
così vuoisi, ma non operazioni e- n lementari c primordiali, poiché ri
risolvono tut- » te in quelle che noi abbiamo osservate. Si tro- »
verà la medesima casa in tutti i casi nei quali » si vorrà ben esaminare
il fatto. Concludiamo per- » ciò che noi non facciamo mai altro che
perce- » pire, giudicare, volere » (8). L’ autore qui avrebbe
dovuto provare che le due potenze di Astrarre e Concretare non sono
o- pcrazioni elementari c primordiali o sia si risolva- no in
quella di sentire ; ma siccome ei dice che 1’ immaginazione ( sintesi
immaginativa o fantasia) non è potenza elementare , mentre che il me
im- maginando separa ed unisce e forma nuove com- binazioni , e ciò
in virtù di giudicarle e percepir- le ; si potrebbe perciò dire die 1*
Astrarre e Con- cretare si risolvono per l' autore nella percezio-
ne c nel giudizio. E quantunque ciò sia vano, pu- re trattandosi di un
autore , la cui autorità pres- so il volgo de’ lettori , per usar le
parole dell’ il- lustre Galluppi , ha la stessa forza della
dimostra- zione , dirò ciò che per lettori savi ed imparziali,
sarebbe meglio tacere. Pria di tutto il dire che una facoltà, non
dan- do percezioni di un nuovo genere, non sia elemen- tare, è un’
asserzione. Imperciocché fra le potenze intellettive alcune offrono al Me
gli oggetti de’ suoi pensieri, come i sensi, la coscienza , la memoria
, altre, le meditative , separando e riunendo produ- cono tutti i
tesori dell' intelletto ; c sebbene queste non dieno percezioni di un
nuovo genere che pos- sano chiamarsi composizioni, decomposizioni,
ana- Digitized by Google 13 lisi,
sintesi, pure e perchè senza di esse non vi sa- rebbe intelligenza, e
perchè è impossibile risolver- le nella sensibilità, sono primordiali ed
elementari, almeno rispetto alla stessa facoltà di sentire. Dun-
que debbe soltanto discutersi , se possano risolver- si in altra
facoltà. Per non dipartirmi dal Tracy. « Quando io *
immagino, egli dice, non fo che unire differen- » temente idee che ho già
avute : separo le une , » avvicino e congiungo le altre c forme nuove
com- » binazioni ; ma tutto ciò in virtù di percepirle e »
giudicarle ». Io non intendo come l’autore abbia ciò asserito. Veramente
colle percezioni 1' lo non separa nè unisce, anzi se fosse limitato a
questa ca- pacità di essere passivamente modificato, non vi sa-
rebbero idee per lui, ed avrebbe un’ infinità di sen- timenti confusi
(vedi il §. IV). Il giudizio poi neppu- re separa ed unisce, giacché pel
Tracy giudicare è sentire una relazione, àia si dirà: quando si
giudica è mestieri analizzare dal subielto il predicato, e poi
farne la sintesi. Al che rispondo : tale obbiezione non può farla il
Tracy, perchè il giudizio, secondo lui, è una sensazione di rapporto; e
se fosse dallo stesso fatta, dirci che il giudizio non è in tal
caso facoltà elementare , stantechè si risolve in quelle di
Astrarre c Concretare, le quali in altre non decom- ponendosi , senza
alcun forse sono elementari. Ha dunque lo spirito umano due facoltà
ele- mentari e primordiali. Analisi e Sintesi, o Astrar- re e
Concretare , di combinare e decomporre che non son sentire. Più sotto
farò un’altra osservazio- ne sul luogo teste citato.
14 §• V. Le idee generali ammesse dal medesimo
non pos- sono spiegarsi colla sensibilità , nella quale per lui
consistono le intellettuali potenze. È opinione dell’ ideologo
francese , com’ è no- to , che le mentali potenze sieno concentrate nella
circoscritta periferia della sensibilità ; ma ascoltia- mo ciò che dice
altrove. * Nè è inutile qui osservare , che essendosi »
tratte od astratte certe parti della idea parlico- » lare per
generalizzarla , quando è divenuta ge- » nerale non è più esattamente la
stessa che era, » essendo individuale » » L’ operazione di
Concretare ci serve per » formarci 1’ idea delle cose eh’ esistono ; e
quella di Astrarre ci serve a comporre de' gruppi d’ idee il
modello delle quali non esiste in natura » (9). Sopra le quali
parole dirò : Se pensare fosse unicamente sentire , i prodotti
intellettuali dovreb- bero essere sempre identici alle sensazioni .
agli obietti sentiti ; e perciò. 1. L'idea generale, che non
è più esattamen- te la stessa eh’ era, essendo individuale , il
model- lo della cui idea non esiste in natura , verrebbe meno
; a. Impossibili sarebbero i rapporti , clic, per esso autore
, sono vedute della mente , c non già cose che per se stesse esistono
; 3 . Effcllivar non potrebbonsi quelle nuove com- binazioni
operate dalla immaginativa. Le quali co- Digitiied by Googl
15 se ammesse dal Tracy, cioè rapporti, idee genera-
li , prodotti della immaginazione , essendo diverse dagli oggetti della
sensibilità , e per legittima illa- zione non spiegabili mercè di essa ,
è 1’ autore co- stretto , suo malgrado , ad ammettere altre facoltà
ben distinte dalla sensibilità, onde rendere ragione di questi fenomeni
intellettuali. §• vi. L' uomo , per esso autore , si
distingue dai bruti per la facoltà di Astrarre, di che è dotato,
idea contraddittoria ai suoi principi. Nè metterci fine a
queste qualsiano riflessioni, se tutti volessi scrivere i pensieri che
alla mia men- te affanciansi ; e dirò pertanto un’ osservazione ,
chè il farne trascorrere 1’ occasione sarebbe colpa. Tracy che sì
spessamente asserisce , che pen- sare è formato da quattro potenze , cioè
sentire propriamente detto, ricordarsi, giudicare , volere , e
nuli' altro che sentire, nella sua grammatica co- sì s’ esprime :
» Penso adunque che ciò che manca agli a- » nimali, sia la capacità
d’ isolare un idea parzia- » le, di distaccare una circostanza da un’
imprcs- » sione totale e composta , di separare un sogget- » to dal
suo attributo, di Astrarre in somma e di » Analizzare. E ciò fa che il
loro linguaggio non » sia mai se non una serie di interiezioni c di
pro- » posizioni implicite. Ecco tutto quello che costi- » tuiscc
tutta la differenza tra gli animali c noi (io). 16
Non è questa una contraddizione ? Al certo por- tare opinione che
le facoltà del pensiero sien quat- tro, sentire , ricordarsi , giudicare
e volere , c poi dire che 1’ altissimo intendimento dell' uomo si
dif- ferisce dalla corta intelligenza dei bruti , perchè quello è
munito della facoltà di Astrarre , è pro- nunziare una contraddizione.
Medesimamente ciò non può affatto conciliarsi colla sola nuda
sensibi- lità di che , secondo lui , è dotato 1’ uomo ; stan- tcchè
se pensare fosse sempre mai sentire , io non so in qual modo potrebbe
all’ umano intelletto con- cedersi 1' Astrarre, operazione che non è
spiegabi- le per la sensibilità, sendo il suo officio di separa- re
, analizzare , e dividere : il che è tanto diverso dalla sensibilità ,
quanto lo è 1' attività dalla passi- vità. §. VII.
Riassunto delle Riflessioni Critiche. Pertanto, pria di porre
fine a queste riflessioni, credo non sarà discaro al lettore il conoscere
ad un colpo d' occhio le opinioni del Tracy e le mie osservazioni ;
cosicché rendendo simultaneo ciò che nel discorso c successivo , cogliere
nel tempo stes- so i vantaggi dell' analisi c della sintesi.
Digitized by Googl Opinioni del Sig. Tracy I.
Le facoltà del pensieio so- no quattro: sentire propria-
mente detto, ricordarsi, giu- dicare, volere, tutte e quat- tro
nella sensibilità concen- trate. IL Il giudizio
consiste in sen- tire relazioni. La relazione è quella veduta della
mente , quell' alto della nostra facol- tà di pensare per cui
avvici- niamo un' idea ad un' altra , e le paragoniamo insieme
io uua maniera qualunque. Una relazione non è che una
veduta della mente , e non già una cosa che per se stessa
esista. III. La formazione delle idee è dovuta a
due facoltà. Con- cretare ed Attrarre. 17 Osservazioni
critiche. I. Niuna ragione adduce il Tracy, e ,
quel che eh' è di peggio . con una vergognosa petizione di
principio asseri- sce che pensare è sentire , perchè è
sentire. Confonde spesso il senti- mento delle facoltà colle
stes- se facoltà. II. 1. " Asserendosi
coll'autore che la relazione sia veduta dello spirito, e non giù
una cosa clic per se stessa esista, non può il giudizio
consi- stere in sentire relazioni , queste non essendo
realità nelle cose sentite. 2. ° La definizione della
re- lazione mostra eziandio che nel giudizio evvi 1’
avvicina- mento o Sintesi , che non è sentire ; e perciò falso
che le facoltà dello spirito sieno quattro, falso che si
concen- trino tutte nella sensibilità. 3. ° Se fosse il
giudizio u- ua sensazione, i giudizi del- 1' uomo sarebbero
infallibili , come senuatamenle ha detto ltousseau.
III. L'autore è in aperta con- traddizione coi suoi
principi. l.° Perché le facoltà dello Digitized by
Google 18 Opinimi del Sig. Tracy.
IV. L' idei» divelluta generale non è più esattamente la
stes- sa eli’ era essendo individuale. La facoltà di Astrarre ci
ser- ve a formare dei gruppi di idee , il modello delle quali
non esiste in natura. Il rap- porto è una veduta dello spi- rito, e
non già una cosa che per se stessa esista. Quando io
immagino, non fo che unire differentemente idee che ho già avute :
se- paro le une, avvicino e con- giungo le altre , ne formo
nuove combinazioni. V. 1a differenza intellettuale
fra l'uomo ed il bruto si è, che il primo in preferenza del secondo
è dotato della ca- Osservazioni critiche spirito non
saranno quattro, ma sei. 2.° Pensare non sarà sem- pre
sentire, c nuli’ altro che | sentire, giacché due forze vi i sono
di natura distinte dalla : sensibilità. Concretare ed A- ‘ strane ,
Sintesi ed Analisi , | le quali non decomponendosi ! in altre
facoltà, sono primor- j diali ed elementari , almeno rispetto al
sentire. IV. Le idee generali , i rap- porti, i
prodotti della imma- ginativa, essendo diversi da- gli oggetti
della sensibilità , e non spiegabili perciò per essa, ò mestieri ,
onde esser conseguente, ammettere altre facoltà distinte dalla
sensibi- lità. V. Portare opinione che le
po- tenze dello spirito sieno quat- tro , sensibilità , memoria
, giudizio, volontà ed in sen- Digitìzed by Google
19 Opinioni del Sig. Tracy. j Osservazioni critiche.
parità d'isolare un’idea par- lire riposte, e dire che rin- viale,
di distaccare una circo- ! telletto dell’uomo si distin- stanza da un'
impressione to- guc da quello del bruto, per- iate e composta, di
separare che il primo è esclusivamen- un soggetto dal suo altribu- te
romito della facoltà di A- to , di Astrarre iu somma e slrarre, si è
pronunziare una di Analizzare. palpabile contraddizione. La
potenza di Astrarre è ele- mentare e diversa essenzial- mente
dalla sensibilità: dun- que le facoltà del pensiero non saran più
quattro , nè tutte sentire. Queste sono le principali mende ,
clic il inio ingegno Ita potuto scovrire nel sistema delle facol-
tà dello spirito del Conte Dcslutt-Tracy. E non mi resta a dir altro ,
clic 1’ illustre ideologo francese fu trascinato dalla sua erronea idea ,
cioè clic le facoltà dello spirito sieno quattro , c tulle dall'
an- gusta sfera della sensibilità circoscritte. Digitized by Google
20 ANNOTAZIONI (1) Ideologia Par. I.
Gap. I. (2) Op. cit. Par. I. Cap. IV. (3) Op. cit. Par. 1. Vói.
11. Cap. XVII. (4)
Ho detto mostrarne la falliti o almeno la inesat- tezza, perchè le
relazioni, come tutti sanno , essendo di due modi , si potrebbe dire : di
quali relazioni egli parla ? delle reali , o delle logiche ? Se delle
prime, va errato, dappoiché non sono vedute dell' Io, o, come dicesi,
subiettive, ma reali od oggettive. Sia parla egli forse delle
seconde , cioè delle relazioni logiche ? Si , dirà taluno , ed il
vocabolo veduta sembra ciò confermare. Peggio ; perocché il giudizio non
consiste sem- pre in percepire cotali attinenze , ma eziandio si versa
sulle relazioni reali ; di che la definizione del Tracv, essendo
gene- rale , sarebbe inesatta. E ciò basti onde mostrare la
falsità, o almeno inesattezza di esso autore. Credo utile
avvertire , che in tutta 1’ opera del Tracy campeggia un errore , cioè
che avere due sensazioni sia lo stesso che compararle ; errore oggimai
con somma penetra- zione da un esimio filosofo confutato ; perciò io mi
dispenso farne parola. — (Gali. Fieni, di Filos. V. 2. Cap. X.
Sagg. Filos. V. 1. Cap. 2. §. 32). Parimenti si avverta, che
il Tracy confonde il desiderio colla volontà ; distinzione che era stata
giudiziosamente co- nosciuta dal celebre filosofo inglese Giov. Locke.
(Essai Phi- losophiquc Liv. II. Chap. XXI. §. 29 ) , ed il nostro
pro- fondo Galluppi ha fatto eco al sullodato filosofo ( Sagg. Fi-
los. Voi. HI. Cap. 5. § ai. — Eleni, di Filos. Voi. II. Cap. 6. §. 44.
Filos. della Volontà. Voi. 1. Cap. II. §. XI.) Digitized by
Google 21 eome pure il dotto Pezzi nelle sue Lezioni
di Filos. V. II. Quindi prego il lettore di consultare i luoghi
citati. (5) Emil. Liv. IV. (6) Op. cit. Voi. I. Cap.
VI. (7) Piacemi accennare un mio pensiero onde far vedere la
impossibilità in che furono i filosofi di ridurre tutti i fatti dello
spirito alla sensazione. Tracy , che disse pensare esser tutt' uno che
sentire , ha , siccome ho osservato , incorso in contraddizione
ammettendo le facoltà di Attrarre e Concre- tare. Or Elvezio che pure
Insegnò le potenze della mente esser due , sensibilità fisica e memoria (
la quale è per lui sensazione continuata ma indebolita ) , ammise due
facoltà , quella di decomporre, e di ricomporre gli oggetti , e di
po- terne creare de’ nuovi non aventi esistenza in natura. ( De P
Homrae Set. Vili. Chap. 19 ) ; e perciò contraddisse sè stesso. (Vedi
Galluppi Filos. della Volontà Voi. I. Cap. III. §. 28). Ma che dirò
dell'illustre Condillac? Le sennate cri- tiche da valentuomini prodotte,
ed in ispezialità dal Laromi- guiere e Galluppi , fan chiara fede dell’
erroneità della sua sensazione trasformata. Nella sua logica pertanto
leggo le seguenti parole : » Quando colia riflessione
osservate si sono le qualità , » per cui gli oggetti differiscono, si
possono, colla medesima » riflessione , raccogliere in un tolo le qualità
, che tono se- » parate in molti. A questo modo un poeta si forma ,
per » esempio , l’ idea di un eroe che non ha mai esistito. Al- »
lora le idee che uno si forma , sono immagini che non » hanno realità se
non nello spirito , e la riflessione che » forma queste immagini , prende
il nome d’ immaginazio- » ne. (Cap. VII. ) ». Quando il
filosofo è mosso dallo zelo di parte, vede nei fatti similitudini non
esistenti , trascura cose importantissi- me , e fa violenza a tutto onde
tenersi dietro a quell’ idea , che tanto lo signoreggia. Cosi Condillac ,
il quale vuol darci ad intendere che la potenza di sentire contenga
tutte le altre facoltà dell’ anima , sogna che l’ immaginazione sia
22 sensazione , senza por mente che questa non può
rentier ra- gione di quella. E invero se questa facoltà raccoglie in
un nolo oggetto le qualità che sono separate in molti; se con que-
sta potenza il poeta si forma l' idea di un eroe che non ha mai esistito
; se i prodotti di essa non hanno realità , se non nello spirito, come
potrà dirsi sensazione? Questa ha un og- getto corrispondente, c le idee
effetti della immaginazione non hanno realità , se non che nell’ animo ;
più , per aver luogo una sensazione si richiede 1' azione di un corpo su
1‘ organo, quando per ottenere gli effetti della immaginativa è
mestieri, oltre le sensazioni , ec. l’ azione di raccogliere , combinare
, concretare , sintesizzare , il che dinota la riunione operata
dalla mente. Dire adunque che la collezione dello intelletto sia
sensazione , è dire che 1’ azione dell’ operajo è la stessa materia
bruta. Nè monta il dire , che secondo il Condillac le operazio-
ni dello spirito altro non sono che sensazioni trasformate ; giacché in
tal caso è forza ammettere cause , mezzi , facoltà che operino siffatta
trasformazione, e la differenza allora fra ■ne e lui sarà poca o
nulla. In fine fra i caldi ammiratori del sensualismo non è 1’
ultimo il chiarissimo fisiologo Richerand , il quale ne’ suoi Elementi di
Fisiologia fa la seguente riflessione. » Quantunque Condillac abbia
detto in molti luoghi del- » le sue opere che tutte le operazioni dell’
anima non sono » che la sensazione stessa , la quale si trasforma differente-
» mente ; che tutte le facoltà son rinchiuse in quella di » sentire ; la
maniera con cui egli ha analizzalo il pensiero, » lascia tuttavia molti
dubbi ed incertezze sul vero caratte- » re c sull' importanza relativa di
ciascuna delle sue facoltà. » Il merito di dissipare le tenebre , che
oscuravano ancora » questa parte delia Metafisica , era riservato al sig.
Tracy. » Gli elementi d’ Ideologia che egli ha pubblicati non ha »
guari , non lasciano nulla a desiderare su quest’ oggetto. » ( T. 2. Gap,
VII. Ediz. di Firenze ) ». Ma , colla riverenza a si valente autore
dovuta , mi sia permesso il dire alquante parole. Il Sig. Richerand è
dun- Digitized by Google 23 que d’ avviso
, che il sistema delle facoltà del pensiero del Tracy nulla lasci a
desiderare : ma ciò' è véro ? credo che le mie poche riflessioni abbiano
messo a vivo lume gli erro- ri del Pari di Francia. E poi l’aualisi, che
il dotto fisiologo dà dell' umano intendimento , dimostra che tutto sia
senti- re ? Mai no. Eccone il perchè. Per esser breve al possibile,
nulla dico delle espressioni da lui usate parlando dell’atten- tiva
facoltà, cioè « potenza di concentrare le facoltà intellet- tuali sullo
stesso oggetto » ed altrove la dice « raccoglimen- to dell’ anima » con
le quali parole , come ognun vede, non può I* attenzione riguardarsi una
sensazione ; ma trascriverò soltanto ciò che egli dice dell’
immaginazione. » Questa facoltà creatrice porta il nome d’ immagina-
» zinne; so inventa de’ mostri avviene dacché il cervello pò- » tendo
associare unire combinare , le riproduce in un ordi- » ne di non naturale
successione , le associa a capriccio , e » dà luogo a non pochi falsi
giudizi ». (Tom. 2. Gap. VII.) Che intende- qui il chiaro autore ?
Che in noi evvi una forza combinatrice , che associa , lega, unisce le
idee. E può questa potenza confondersi col sentire? A me pare di
no. Ometto la dimostrazione per non ripetere le idee dette con- tro
Tracy e Condillac ( Vedi §. IV. ) e sicuro che il savio lettore potrà di
leggieri farne 1’ applicazione. È forza quindi dire che nell’umana mente,
restringendomi a considerar 1’ ar- gomento in relazione alle cose
sensibili e nient’ altro, debbon- si distinguere tre cose : sentimenti ,
facoltà , idee , cioè ma- teriali, macchine o strumenti, e manifatture. I
sentimenti non sono idee , ma lo addivengono mercè l' azione della
facoltà , come le materie grezze non son .manifatture , ma si fan
ta- li per le macchine : le idee non sono facoltà, ma efletti di esse
, cioè hanno origine dall’ azione delle potenze sui senti- menti ,
appunto Come i prodotti <T industria sono diversi dal- le macchine
lavoratrici ec. Asserire dunque , come fecero i sensualisti , che le
sensazioni sono idee o facoltà , si è diro che le materie grezze sono
manifatture o macelline , si ò confondere tutto. Dalle quali
cose partili, che il Richerand vada errato. 24
1. « Stimando esatta l' Ideologia del Tracy , e massime 1' analisi
delle facoltà dell' anima , nella quale stanno molti errori.
2. ° Perchè egli non prova che tutto sia sentire , anzi ammette 1'
immaginativa, che non è sentire. Queste riflessioni faranno ad
evidenza conoscere , che i più celebri sensualisti sono stati nell'
impossibilità di sostene- re il loro sistema. Tanto è assurdo che tutte
le forze dello spirito si concentrino nella sensibilità I Per
mostrare ancora, sino a qual segno sia stato spinto lo zelo di parte in
quell' epoca , rispetto alla filosofia della sensazione , ci faremo a
trascrivere una scena avvenuta alla Scuola normale. » Cette philosophic dominait
allors avec une puissance » qui en faisait comme une religion ; elle
dtait non seule- » ment la véritd, mais toute la vdritd : ses nombreux
disci- » ples n* admetlaicnt pas qu' il v eùt possibilità à croire en
» quelque autre symbole philosophique ». » Le spiritualisme essaya
pourtant d' une timide rdcri- » mination. A cette dcole , les dldves
avaient le droit d’ in- » terpeller les professeurs, soit pour les
combattre, soit pour » leur demander de plus amples explications : un
jour par » semaine dtait riserve à ses ddbats. Or , parmi les audi-
» teurs de Garat , se trouvait ce fameux Saint-Martin , au- » teur
mystdrieux de tant d’ ouvrages mystiques, traducteur » et commentateur de
Jacob Boehm , celui que M. de Mai- » sire a nommd le plus dldgant des
thdosophes modemes , » et probablement seul alors à oser professer en
France » une autre philosophie que celle de Condillac. Saint-Martin
» eut d’ abord quelque peine à se faire au langage du jour. » La langue
du matdrialisme ne ressemblait en rien à celle » parlde dans ces hautes
sphères de la spdculation où l’empor- » tait son gdnie. Enfin, le
professeur ayant amèrement blà- » md cette cdlèbre proposition de
Jean-Jacques : La parole » semble avoir 4M fort ne'cenaire à V
inslitution de la paro- » le. — Saint-Martin, de son banc, et du melieu
de la fou- » le, entreprit la ddfense de Ronsseau. Profitant de
l’occa- Digitized by Google 25 » sioo ,
il défendait de mème , contro une autre attaque du » professeur , la
doctrine de Hutchesson sur le sens mora!. » Mais le débat ne tarda pas à
devenir plus important , le » dialogue suivant s’ engagea entre 1' élève
et le professeur : » Vous parahsez vouloir, disait ce dernier, qu' il y
ait dant » f homme un organi d’ intelligence autre que noe leni
exté- » rieun et notrc lentibililé intérieurc? — Oui , citoyeu. — »
Un organo d’ intelligence ? — Oui, citoyen. — Voui avez » pour doctrine
que t entir le chotei et le t connattrc toni dei » choset differente! ? —
J' en tuit pertuadé. — Cependant , » lortque je refoii en pritance du
toleil lei tensaJiont qu e • me donne cet altre éclatant qui échauffe et
qui éclaire la » terre, eit-ce que j’ en connata autre eh ole que le
leniationt » mémet que j‘ en remoti ? — Vani lente z lei scniationt
; » mait le réflexiont que vout ferez eur le teleil, mah ... (1) »
Saint-Martin aurait eu sans doute bien d* autres mah > à ajouter ;
mais le professeur , prenant tout à coup uu » ton solennel : Ce qu' il
importe d’abord de dire, c'eit que » par celle doctrine doni la quelle on
lappole que noi ttn- » tal ioni et noi idéet toni de chotei différentei,
c'eit le pia- ti toniime , le cartélianiitne, le mullebranchiime que vout
ret- ti luicitez. Quand on a une foi, il ett beau de la profeiser ,
» il ett beau de la profetter du haut dei toits ; mah il n’ » ett pai bon
de porter une foi doni la mélaphytique eom- j> me en physiquc. La
philotophie obierve lei failt , elle lei » classe , elle lei combine ,
mah elle ne t’ écarte jamaii dei » réiultati immediati , loit dant leur
timplicité , soit doni » leur combinauon. Ce n’ est point là le procédé
de Maltc- » branche et de Platon : l' un et l’ autre suppoient dant
s i homme dei agent qui ne nout toni connui par aucun fait » tentible, et
dei fatti qui ne nout toni connut par aucune de » noi lensations. De
pareils agent toni préche'ment de cet » idolet qui ont obtenu li
Iung-tempt un culle supentithux (I) Débals, I. 3, p. 18.
26 » de V esprit humain , de ces ùloles doni leu
écoles étaint let » temples , et dont Bacon le premier a brité let statue
s et » let autels. Ce serait t/.v gra.wo ualuevr ti, à V ouverture
» det écoles normale » e dei é colei centrale t , cet idoles pou- » vaint
y pe'ne'trer : tonte Isonne philotophie serait perdue , » tous lei
progrèt det connaitsances seraient arre té t, et e' est » pour cela gue
je regarde comme va Dttroin sjcrè , doni » un profetseur de V anmjse , de
trailer cet idolet avec le » méprit qu’ ellet méritent » (1).
» Peu de minutes avant tette terrible conclusioni , il s’ » en
était falla de fort peu qae la question ne fùt mise aux vois. Nout somme
t ratsemblés ici en Irei grand nombre , di- ». tait le profetseur , nous
tommes deux ou trois mille per- ii tonnes ; je coita invite donc,
citoyens , à vous recueillir au » fond de voi amet , et à cotta demander
ti let sentations » que vous are: recuet et gardéet de la chaleur , de l’
éclat » et du mouvement apparent du toleil , et la connaissance de
» cet éclat , de celle chaleur , de ce mouvement , toni pour » cotta deux
chuset di/ ferenti , (tu ti ellet ne toni pai une » sente et méme chose
tous deux points de ette et tous deux » dénominations (2). I.a majorité
était , sans aacun doute , » au professeur ; Saint-Martin aprés avoir
répété sa profes- » sion de foi , n’ eut plus qu’ à se rasseoir , bien
dfiment » convaincu de ptatonisme , de cartésianisme , de
mallebran- » chisme. Aitisi condamné , Galilée , agenouillé pour confes-
» ser erreur ce qu’ il savait vérité , se relcva pour pronon- » cer le
faineux e pur ti muove ; et pourtant , dit Saint* » Martin en se
rasseyant, let sentations que je refois du to- » leil et 1’ idée que f ai
de cet altre »' en sont pas maini » deux chostt é méne meni différentes ;
et pourtant il y a , » mitre let impressioni éparses de chaleur , d’
éclat , que je » refois , l’ impression compiere où se troucent
confondile t (t) Débats. t. 3. p. 2t. (2) Debals, t. 3, p.
21. Digitized by Google 27 » toulei
cet impretsions de de'tail par une f acuite tout autre » que la
tensilrilité qui a rtpu eellet-ci ». » La question mise aux voix,
et résolae dans le sens da » professeur , n’ eùt pas été un des raoins
singuliers òpiso- » des de 1’ histoire des assemblées délibérantes
». Histoire de la Pbilosophie Allemande depuis Leibnitz
josqn’ a Hegel. — Par le Baron Barchoa de Penhoen Tom. 1. lir. HI. (8) Op. cit. P. III. Voi. I.
Cap. 3. (9) Op. cit. Par. I. V. I. Cap. VI. (10) Op.
cit. P. II. Voi. I. Cap. I. Digitized by Google
28 CENNO (i) SUGLI ELEMENTI DI F1LOSOFU
DEL BARONE PASQUALE GALLUPPI L’Italia deve oltre modo
superbire dacché il Barone Pasquale Galluppi diè in luce le sue
ope- re filosofiche , e massime il Saggio sulla Critica della
Conoscenza; la quale opera fa chiarissima fe- de che la sventura patria
del Galilei , Filangeri , Beccaria e tanti altri , non lo è meno di
filosofi profondi e potentissimi. E son ben note le Iodi con che è
stato levato a cielo. Veramente è d’ uo- po non aver senno per non
conoscere la profon- dità di questo italiano : c chi, dopo aver
meditato le opere dei grandi sapienti italiani e stranieri, non
ammirerà il merito di cotant’ uomo ? Ma se ciò è vero, come è verissimo,
mi sia lecito il dire alcu- ne parole sugli Elementi di Filosofia ( a.d»
edizio- ne) di questo esimio autore. (1) Questo opuscolo
venne in luce la prima volia dai tipi di G. Fiumara nel 1836.
Digitized by Google 29 § I.
Logica Pura. Il primo volume con che egli dà comincia-
mento agli elementi di Filosofia si è la Logica Pu- ra , operetta che
sola, se non ne avessimo altre, ba- sterebbe a farci dedurre il suo
profondo ingegno ; perciocché in essa veggonsi risoluti ardui
proble- mi , e una raccolta intellettuale di preziose verità in
vari autori sparse. Egli nel primo capitolo sta- bilisce la sennata
distinzione fra conoscenze pure ed empiriche (i) , dalla quale inferisce
la differen- za fra logica delle idee e quella dei fatti, cioè fra
la logica del matematico e quella del filosofo. Il secondo capitolo
è pure pieno di sostanzio- se dottrine. L’esame delle verità primitive a
priori, la confutazione della Kantiana dottrina, la quale sti- ma
esservi giudizi sintetici a priori che non sol- vonsi nel principio di
contraddizione, tutte le altre riflessioni sulle definizioni sono con
molto sagace di- scernimento discusse. Ammiro nel terzo
capitolo 1’ analisi che dà del raziocinio. L’ autore volgendo in pensiero
l’ insuf- ficienza dell' esame de’ filosofi su quest’ atto menta-
le , da profondo analista dimostra come un giudi- zio si deduca da un
altro giudizio , e quanti giu- dizi sieno necessari per formare un
raziocinio. E questa sua analisi debb’ esser tanto gradita a’ pen-
satori , quanto più si chiami al pensiero esser le teorie di Locke c
Condillac imperfettissime. Difatti nessuno, io credo, potrà esser
soddisfatto in udire Digitized by Google
30 che Locke reputa istruttiva quella proposizione clic
non è contenuta, nè identica con un’ altra, ma clic è una conseguenza
necessaria di essa. Invero il fi- losofo inglese avrebbe dovuto provare ,
come av- viene clic un'idea clic non è racchiusa in un’altra, possa
affermarsi di quest’ altra ; egli dice che ciò può farsi perchè la
seconda è urta conseguenza ne- cessaria della prima ; ma per f appunto si
cerca , come f idea B che non è racchiusa nell' idea A , possa
dirsi una conseguenza di A. Se fra le due idee A, e B non vi è alcuna
relazione d’ identità , 10 spirito non si vede come possa legarle
insieme. Nè può saziare la mente la dottrina Condillachia- na, cioè
che la dimostrazione altro non sia che u- na serie di proposizioni
perfettamente identiche , e solo differenti nell’ espressione, perchè ciò
supposto non si può comprendere in qual modo il razioci- nio
estenda la sfera delle nostre conoscenze. L’ autore fa eziandio
conoscere in questo Ca- tolo III. i due uffici del raziocinio, e ciò con
mol- ta evidenza ; come del pari mi piace oltremodo la soluzione da
lui data del problema relativo all’ i- struzione del raziocinio, vale a
dire in qual modo 11 raziocinio puro poggiato sull’ identità è
istrutti- vo ; problema che , se mal non mi avviso , è nei
desiderata del celebre Degerando, ed ingenuamen- te dico clic il Sig.
Galtuppi lavorando da filosofo lo ha con molta soddisfazione risoluto.
Stimo con- venevole 1’ avere aggiunti a questa a.* edizione al-
cuni §§. perchè danno maggior lume alla dottrina del raziocinio.
Dopo d’ aver egli considerato il raziocinio nel Digitized by
Google 31 pensiero, viene nel Capitolo IV. a
considerarlo nella parola. Fa un bastevol cenno de' modi di
argomenta- re ; poscia espone la dottrina del Tracy , il quale
opinava il sorite esser il modo naturale di ragionare, c che il
sillogismo debba ridursi al sorile c non già questo al sillogismo. Debbo
qui dire che il Gallup- pi in questa a.* edizione con non poca nettezza
dà a conoscere la opinione dell' ideologo francese. Che dirò della
critica al Tracy fatta ? È eccellente , c veramente degna dello spirito
che f ha dettata. In essa chiaramente si scorge 1’ equivoco preso
dal Tracy, cioè di aver confuso idee elementi del giudi- zio, col
giudizio stesso; il che lo condusse a con- fondere l ordine della
deduzione delle idee con quel- lo della deduzione delle conoscenze ; ed è
ancora evidente come il sorite vada dall' universale al par- ticolare,
e non già viceversa, e perciò il sorite al raziocinio si risolva.
In questo Capitolo IV. fa un leggerissimo toc- co delle regole
sillogistiche , ed i §§, a questa c- dizionc apposti suppliscono alla
mancanza della prima. In quanto all' ultimo Capitolo di essa
logica , il quale ha per iscopo il metodo , per me credo che il
sullodato filosofo siasi bene internato nelle ^®11 analisi e sintesi, ed
il 56 di cui que- sta edizione c adorna , è molto acconcio per mo-
strare le leggi dei due metodi. Giudico pure sen- natamentc inseriti in
questo luogo gli altri §§. sui mezzi logici di passaggio da una
proposizione no- ia ad un altra ignola. Un' all ra lode finalmente
è d' uopo riferire al Sig. Galluppi. Egli comincia lo
32 studio dell'umana intelligenza non dall'origine del-
le idee o dalle facoltà dell' intelletto, cioè dallo stato primitivo
della mente, ma dalle conoscenze, vale a dire dallo stato attuale ; c
quanto questo metodo sia esatto c possa influire al perfezionamento della
scien- za , lo han bene dimostrato insigni ideologi (a). §•
IL Psicologia. In questo volume 1’ autore analizza le
facoltà dell’ anima umana. Discute nel primo Capitolo la quistione
della percezione del me , esponendo lo stato della quistione, le opinioni
de’ filosofi (e bene le ribatte) c con gran sagacilà stabilisce la
coscien- za di ogni sensazione esser congiunta colla perce- zione
del me. Avrei desiderato che 1’ autore nel §. 6. avesse spiegato come per
Condiilac 1 Io è la collezione delle modificazioni che ciascuno prova
; stantcchè nel §. 5. si legge che, secondo questo fi- losofo, una
prima sensazione non dà alla statua la percezione del proprio essere,
immedesimandosi es- sa colia scusazione , ma come poi la statua ba
il sentimento dell’ lo, non si vede. Il secondo Capitolo è
del pari una chiara e sottilissima disquisizione della percezione del
fuor del me : stato della quistione , pareri de’ filosofi ,
confutazione di essi, ragioni che sono la base del- la di lui opinione , son
cose tutte profondamente condotte. É per lui ogni sensazione oggettiva ,
o sia la percezione di un incognito. Digitized by
Googte 3.1 Passa nel ILI. capitolo a discorrere
sull'Ana- lisi. Mi vanno a sangue i §§. io e 11. che ho let- to
nella presente edizione ; specialmente il §. 11. era indispensabile,
perchè un' opera in cui tanto e sì bene si ragiona delle facoltà dello
spirito, è co- sa alccrto non buona esser mancante delia defini-
zione di facoltà. Medesimamente penso dei §§. ag- giunti al IV. capitolo,
nel quale 1 ' autore svolge le leggi dell' immaginazione. Aè
meno eccellente è il V. capitolo in che 1 ' autore discorre della Sintesi
, ossia facoltà di riu- nire le percezioni che * l ' analisi acca
separate. I’’a vedere eh’ essa è di tre specie : reale , ideale ,
ed immaginativa. La prima unisce clementi reali di un oggetto
reale, e gli unisce perchè uniti sono offerti dal senso interno, o dal
senso esterno ; c tali ele- menti possono essere congiunti o colla
relazione che è fra la causa e 1 ’ effetto , o con quella clic
esiste tra il soggetto c i modi, attinenze che sono reali ,
oggettive, essenziali. Dalla seconda prowengono le relazioni d’ identità
e diversità , clic dall’ autore so- no stimate soggettive , ossia viste
dell’ intelletto ; come pure con essa sintesi ideale si formino le
idee universali , le quali sono esistenti nella men- te , c non come han
creduto tortamente Elve- zio, Robinet ec. soli vocaboli. Suddivide , in
que- sta edizione , la sintesi ideale in oggettiva c sog- gettiva:
quella fa conoscere le relazioni logiche fra gli oggetti reali , questa
le stesse relazioni fra le nostre idee. La sintesi immaginativa è la
facoltà di riunire in una percezione complessa, alla (/uà-
34 le non corrisponde alcun oggetto naturale , diver-
se percezioni, che hanno ciascuna un oggetto na- turale. La suddivide in
Civile e Poetica , mostran- do come i prodotti di quella si possono
cfTcUivare dall’ opera dell’ uomo, mentre quelli della seconda
specie nascono dal pensiero, e son diretti allo stes- so pensiero. Con
questa sintesi immaginativa poe- tica personifica il poeta gli accidenti
naturali, ani- ma la natura materiale, c crea in tal modo piace- ri
per 1’ immaginazione. .Non debbo quindi tacere, che questo capitolo è da
vero maestro toccalo , e nessuno, per quanto io sappia, ha così
ottimamen- te ragionato su tal forza corabinatrice dell' intellet-
to. Potrei ancora dire le relazioni che hanno alcu- ne di queste dottrine
della sintesi colla realtà dello umano sapere , ma dirò bensì che questo
capitolo c quello dell’ analisi sono all’ imparziale e saggio
lettore una prova della futilità del sensismo. Tien parola nel
sesto capitolo del desiderio e della volontà, c distingue con Locke l'uno
dall'al- tra ; pure mette distinzione fra volere e deliberare. Nel
settimo capitolo si trattiene sulla memoria, re- miniscenza c
dimenticanza, incominciando a dimo- strare che le sette facoltà da lui
ammesse sono e- lementari. Or io osservo il numero delle
facoltà elemen- tari clic, secondo l’ illustre autore, giungono a
set- te , cioè sensibilità , coscienza, desiderio, volontà ,
analisi , sintesi , ed immaginazione , non è esatto. Egli ha veduto che
il desiderio non è , giusta la di lui dottrina , facoltà elementare o
primordiale , giacche in questa seconda edizione ha detto « può
Digitized by Google 35 non dimeno
eccettuarsi il desiderio , il quale , se- condo la dottrina che
spiccheremo nel quinto vo- lume, essendo uno stato misto dall’anima, può
spie- garsi col concorso di altre facoltà ». Son dunque le potenze
elementari , secondo il nostro filosofò , sei e non sette. Nei luoghi in
che si legge dunque che le potenze elementari dello spirito son sette
, io credo che debbe correggersi e dirsi sei. Buone
osservazioni si leggono nell' Vili, ca- pitolo dove il filosofo discorre
sui sogni : ma il §. 56. a questa edizione aggiunto non mi soddisfa
interamente. Il chiarissimo autore in questo §. si propone discutere , se
lo spirito possa nel sonno esser privo d' ogni pensiero: confuta poi
l'opinio- ne di Locke , c si dichiara pel parere di Cartesio c
Leibnizio , cioè tien dietro a’ sostenitori del pe- renne pensiero.
Trascrivo le ragioni da lui addot- te in conferma della sua
opinione. » Il sentimento del me sensitivo di un fuor » di me
non ci abbandona giammai nella veglia , » e ne’ sogni ; su qual motivo,
lo faremo noi ces- » sare in un sonno profondo ? Non mancano ccr- »
tamcnle allo spirito, in questo stato, gli oggetti » di questo sentimento
: 1’ io c presente a se stcs- >* so: egli è unito al proprio corpo, e
questo non » si sottrae all’ azione de’ corpi stranieri su di es- »
so. Noi non abbiamo idea di uno stato dell’ a- » nima nostra , che sia
diverso dal pensiero. Ri- » guardare l’anima come priva di qualunque
pen- » siero si c riguardarla in uno stato di morte ; » stato che
mi sembra impossibile ». Perche l’ lo è presente a se stesso , c
perche 36 egli è unito al corpo , clic non si
sollrac all’ azio- ne de’ corpi , 1' anima nel sonno profondo ha il
sentimento di sè e de’ corpi : così ragiona il Sig. Galluppi. 3Ja è
facile conoscere che ciò eh' egli dice è senza base. Dacché l’ anima ha
origine è presente a se stessa ; dunque la quistionc se 1' ani- ma
alla prima sensazione percepisca se stessa (qui- slione da lui con tanto
senno discussa ) è inutile , giacche essa sempre percepisce se medesima ,
per- chè a se stessa sempre è presente. Il dire poi clic 1’ Jo è
unito al corpo che non si sottrae all' azio- ne de’ corpi , è nulla dire
; giacché per sentire si richiede non solo 1’ azione degli oggetti sul
fisico , ma ben anco che gli organi di questo sieno ido- nei alla
loro funzione : e tale idoneità , come si sa, manca agli organi dei sensi
che sono, nel son- no profondo spezialmente , in un perfetto
riposo. Il capitolo IX , che ha per iscopo gli abiti
intellettuali , è lavorato da eccellente maestro. Ho letto con sommo piacere,
in questa seconda edizio- ne , come di tutti gli abiti intellettuali non
se ne possa rendere ragione colla rapidità di alcune as- sociazioni
, come la memoria si perfezioni coll’ e- sercizio , 1’ effetto della
ripetizione degli atti sulla sensibilità, c, quel che più ammiro, l'esposizione
c confutazione dell’ opinione de' filosofi relativa a’ giu- dizi
abituali e rapidi , che trasformando le nostre sensazioni, fuori di noi
le trasportano. K all’ ulti- mo grado di convincimento recato, che
l'abito non può produrre una facoltà che non si ha dalla na- tura ;
verità eh’ è feconda di molte illazioni. L' ultimo capitolo è 1’
esame del sistema dei- Digìtized by Google 37
le facoltà dello spirilo secondo Condillac. Il Sig. Galluppi dopo
aver esposto colle precise parole del- 1’ autore il sistema della
sensazione trasformala , profittando de' lumi di altri filosofi , in
ispczialità di Laromiguicre , ne ba con non poca profondità
rilevato gli errori. Per altro non so perchè il chia- rissimo autore
nulla ha detto sulla dottrina del Condillac relativa al desiderio , nè in
altro luogo di questi clementi mi è venuto fatto vederne cen- no
(3). §. HI- Ideologia. Esaminate con tale
e tanta penetrazione le fa- coltà dello spirito , le quali sono i nostri
mezzi di conoscere , passa il dotto autore a vedere 1' origi- ne e
generazione delle idee. Ponendo mente alla varietà de’ pensamenti de’
filosofi, sopra tal proble- ma dell’ origine delle idee, ognun di
leggieri si ac- corge della sua difficoltà. Il filosofo per ben
riu- scire in tal gravissima impresa , è forza che con- cili due
sistemi contrari , quello cioè che fa nasce- re le idee tutte da' sensi,
c f altro clic suppone in noi certe idee inerenti al nostro essere.
Vediamo se l’autore abbia bene risoluto il problema. Locke avea
detto tutte le idee semplici derivare dalla sen- sazione e dalla
riflessione; ed il nostro filosofo con- viene in ciò col filosofo inglese
, ina si allontana quando e' si fa a dire che lo spirito è passivo ri-
guardo alle idee semplici , mostrando in un modo 38
chiaro che le idee sono gli elementi de' nostri giu- dizi, e che
questi elementi sono il prodotto della meditazione su gli oggetti delle
sensazioni e della coscienza. Poi si accinge ad indagare se tutte
le idee semplici sieno il prodotto dell' analisi degli oggetti
della sensazione e della coscienza ; que- stione nè da Locke , nè da suoi
seguaci pensata. L’autore osserva clic la cognizione del sistema
del- le facoltà dello spirito è sufficiente , onde risolvere tal
domanda. È difatti dalla sintesi ideale che prov- vengono alcune nozioni
soggettive , che si chiama- no rapporti , i quali non corrispondono ad
alcun oggetto sensibile. Sono dunque nello spirito idee semplici,
che sono prodotte dalla sintesi. In poche parole la dottrina dell’
autore è la segnente. « Alla domanda, scrive egli, che cosa è idea
? io risponderò : 1' idea c un elemento del giudizio : essa è un prodotto
della meditazione su gli oggetti presentati dalla sensibilità e dalla
co- scienza : essa è un prodotto della meditazione sui sentimenti.
Con queste diverse espressioni io dirò la stessa cosa. Alla domanda : d'
onde ci vengono le idee semplici? Io risponderò: alcune idee sem-
plici sono un prodotto dell’ analisi degli oggetti sensibili ; altre sono
un prodotto della sintesi. Io risponderò ancora : alcune idee semplici
sono og- gettive : esse corrispondono ad alcune realità : al- tre
idee semplici sono soggettive ; esse non corri- spondono ad alcun oggetto
fuori dello spirito , le quali derivano dalla facoltà di sintesi ».
In seguilo 1’ A. distingue le idee universali in due specie; delle
quali una comprende le idee es- Digitized by Googl
39 senziali allumano intendimento, l’altra le idee ac-
cidentali allo stesso. Le prime son quelle, che cia- scun uomo può colla
meditazione sul sentimento del me sensitivo di un fuor di me , formarsi ;
le seconde derivano dal paragone di alcuni individui, che non si manifestano
a tulli gli uomini. Egli con buonissime ragioni stabilisce cosiffatta
distinzione ; ragioni desunte dall' indole delle lingue cc. c , ciò
che più è, con far conoscere che l'analisi stessa del- le idee che Locke
ci diè , conferma essa distinzio- ne. Il filosofo inglese difatti non ci
dà l’ analisi delle idee accidentali all' intelletto, ma di quelle
che si trovano universalmente e costantemente in tutti gli uomini ,
che hanno 1’ uso della loro ragione. L' ideologia debbo dunque occuparsi
delle idee es- senziali. In questa edizione 1' Autore con
fino avvedi- mento fa cenno de’ sostenitori dell’ idee innate , e
ne osserva le differenze che sono nelle loro opinio- ni. I Cartesiani
ammisero nel nostro spirito alcu- ne idee innate, che, secondo essi,
hanno una real- tà obbiettiva. Alcuni di essi le riguardavano come
atti perenni, privi di coscienza, e simili agli amo- ri abituali.
Leibnizio ammise le idee innate , c le stimò disposizioni , non atti :
disse pure clic tali virtualità sono accompagnate sempre da alcune a-
zioni , sovvente insensibili , che vi corrispondono. Il filosofo di
Koenisberg credè coi Cartesiani 1’ c- sistenza delle idee innate, a
priori, ma tolse a que- ste , in se stesse considerate , qualunque
obbiettiva realità. Determinato lo stato della quistione , 1' A.
distingue conoscenze da idee o nozioni ; quelle so- 40
no giudizi , queste elementi di giudizi. Vi sono delle conoscenze a
priori , necessarie , universali , ma le idee elementari di esse sono
ancora a prio- ri ? Il fdosofo di Lipsia risponde di sì. Il nostro
autore non ammette idee anteriori ai sentimenti cd assolutamente
indipendenti dagli stessi, altaiche nem- meno gli suppongano come
condizione ; è per lui r idea il prodotto della meditazione sui
sentimenti, egli ammette alcune idee essenziali all' intendimen-
to, per le quali idee non mancano ad ogni uomo i mezzi per acquistarle ,
cioè il sentimento del me che sente un fuor di me, c le facoltà
meditative. Dunque ci nega 1’ esistenza delle idee innate ,
nel senso di idee anteriori cd indipendenti assolu- tamente da’
sentimenti, ma ammette nello spirito li- na disposizione o virtualità a
formar le idee sog- gettive. È da notarsi ancora clic , secondo
Locke, tutte le idee essenziali sono oggettive , per Kant tutte
soggettive , c perciò distrutta la realità della conoscenza, per l’A.
alcune soggettive altre obbiet- tive. Vorrei dir qualche altra cosa su
questo im- portante argomento , se non in impedisse il mio
proponimento; ma il savio lettore leggendo l'ideo- logia ed il quarto
volume del Saggio Filosofico dell’ illustre Galluppi facilmente vedrà
come egli si allontani dal sensismo. Dopo la discussione
dell' origine delle idee , I A. si impegna ne' capitoli a. 0 3.° 4-° 5.®
6.° a mostrare 1’ origine delle idee essenziali all’ umano
intelletto : cioè delle idee di spirito , corpo, unità , numero , tutto ,
identità e diversità , sostanza e ac- Diqitized by Google
41 udente, causa cd effetto, tempo, spada, universo
c Dio , c nel settimo parla di alcuni errori della volgare Ontologia. Ed
è inutile riflettere che il Ch. filosofo in tutto questo procedimento
analitico è sempre penetrante, e mi sembrano bene esaminate, per
non dir d’altro, le idee di causa ed effetto non che quella di tempo, su
le quali idee son conosciu- ti gli sragionamenti di Hume per le prime ,
di Kant per tutte e tre. Debbo qui dire , che avrei desiderato più
estesi cenni sullo spiritualismo e sul materialismo. Sta bene , in questa
edizione il capi- tolo Vili, dell'influenza de' vocaboli nella
forma- zione delle idee dopo 1* esame delle idee essenziali.
È da notarsi con particolare attenzione, come l’A. in questo
capitolo si studia provare i vantag- gi del linguaggio, cioè eh' esso fa
l’analisi del pen- siero , che rende più facile 1’ astrazione , eh’ è
ne- cessario per la scienza del calcolo cc. Chiude questo
volume coll’ imposizione cd e- same della filosofia trascendentale. Si ,
è d’ uopo dirlo apertamente, è pur vergogna ignorar questa filosofia
per chi vuole spingere addentro lo sguar- do nella filosofia : tale e
tanta è la rivoluzione fi- losofica eh’ essa ha prodotta ! Il nostro
autore con nettezza cd ordine ne distende le precipue nozioni, e ne
osserva con sottilissimo avvedimento taluni er- rori , quantunque avrei
bramato veder qui alcune riflessioni che ho apparato, massimamente
leggendo il terzo volume del suo eccellente Saggio Filosofi- co.
Egli riduce la lite fra la filosofia sperimentale ed il trascendentalismo
alla soluzione del problema: 49 la prima
operazione dell' attività dell’ intelligenza è 1‘ analisi, o la sintesi ?
Egli si determina per 1’ a- nalisi , c però si avvisa il criticismo
onninamente venir meno. §• IV. Logica
Mista. È d’ uopo dir qualche parola sul quarto volu- me.
Imprende il nostro filosofo nel I. capitolo a tener discorso delle verità
primitive di fatto, il che lo conduce ad esporre X idealismo di Cartesio,
Ma- lebranche e Lcibnitz, c di ciò fa una sottile confu- tazione.
Egli , non come alcuni filosofi che credo- no aver confutalo gl’ idealisti
quando han detto son visionari , ribatte i loro sistemi con caldissime
ra- gioni ; ma si ticn sempre entro i limiti di un - ope- ra
elementare. In somma in questo capitolo si ve- dono con gran penetrazione
discusse le principali quistioni relative alla realità delle umane
conoscenze. Ne’ susseguenti capitoli discorre sull’ istruzio-
ne del raziocinio misto ; adduce 1’ obbiezione di Hume contro la
legittimità de’ raziocini , coi qua- li da un’ esistenza che si
sperimenta, se ne deduce un’ altra che non è oggetto di esperienza, c
pene- trando nel midollo della quislionc ottimamente sta- tuisce la
somiglianza fra il futuro ed il passato es- ser una verità sperimentale :
nè omette di esami- nare i sistemi de’ filosofi su le cause naturali.
Am- miro oltre ogni credere ciò che scrive sull’ espe- rienza
primitiva c comparala , sull’ argomento di analogia ; c i §§. che hanno
per oggetto 1’ esame Digitized by Googte 43
dell'origine della scrittura figurativa , geroglifica , sillabica
ed alfabetica son condotti con non poco senno , c , secondo il mio
avviso, utilissimi a co- loro clic volgono 1’ animo alla scienza.
Stabiliti i motivi legittimi de nostri giudizi , cioè coscienza ,
sensibilità, memoria, evidenza, ra- ziocinio , ed altrui testimonianza ,
viene ad analiz- zare i motivi c l’origine degli errori. Stima il
dot- to autore clic i suddetti motivi che conducono lo spirito alla
verità, lo conducano del pari all’ erro- re ; nè ciò favorisce lo
scetticismo , giacche esa- minando egli attentamente l' Origine de’
nostri erro- ri , dà a divedere che 1’ errore nasce supponendo come
motivo de’ nostri giudizi ciò che non è tale. Pon fine alia logica mista
parlando con maturo giu- dizio della certezza, probabilità ed
ipotesi. §• V. Morale. Discusse le leggi
del raziocinio , le facoltà , l’origine c generazione delle idee ed il
raziocinio misto, il clic è lo stesso avere esaminato 1’ intellet-
to, passa 1’ egregio Sig. Galluppi alla volontà , la cui scienza chiamasi
filosofia pratica o morale. Pren- de egli le mosse dal fatto della
scambievole influen- za delle due facoltà dell’ umano pensiero ,
cioè intelletto e volontà, e nel i.° e a. 0 capitolo si trat- tiene
a mostrare minutamente cosiffatta influenza. 44
Senza occuparmi «li tutto quello ebe di buouo con- tengono essi
capitoli, farò alcune riflessioni. Vari pensatori avean definito il
desiderio 1' in- clinazione dell’ anima verso un oggetto ; ma il
no- stro valente filosofo sennalamente osserva clic i vo- caboli
forza , tendenza inclinazione applicati ai cor- pi non destano altra
nozione, se non «juella di una causa ignota di un effetto noto , cosa
potrebbero significare applicati allo spirito? Ciò gli porge op-
portunità di meditare più addentro sul desiderio. Egli dimostra essere il
desiderio uno stato misto dell’ anima di piacere c dolore ; questa
dottrina , per quanto a me pare, è profonda. Ma le sue in- dagini
qui non si fermano , e vanno più in là. I desideri dispongono la volontà
ad agire , c 1’ effet- to di quest’azione c il cambiamento della nostra
fa- coltà di conoscere ; ma ciò è cosi di tulli i desi- deri ? Egli
sembra che alcune volte 1' oggetto del desiderio è di produrre nell’
animo de’ nostri simi- li alcune modificazioni. Così la madre porge al
suo figliuolo la mammella per destare in lui le sensa- zioni
piacevoli del nutrimento dal latte : il padre travaglia per lo ben essere
della propria figiiuo- lanza : 1’ oratore aringa per persuadere e
commo- vere i suoi uditori, il filosofo scrive per insegnare la
verità al genere umano. Quantunque ciò sia vero , bisogna cercare , se il
destare certi pensieri nello spirito de’ nostri simili sia solamente
deside- ralo, come mezzo per aver noi certe percezioni, o pure se
in molti casi sia 1’ ultimo fine del nostro desiderio.
Digitized by Google 43 Non pochi filosofi
dissero la morale essere fon- dala sopra un principio unico: tanto la
madre che piange la perdila del figlio, quanto colui che soc-
correre un infelice operano, solamente per amor di se , per interesse.
Tutto , secondo essi , parte da questo principio. Non àvvi dubbio ,
dicono altri pensatori , che f uomo è spinto ad agire dall’ a- mor
di sè , ma egli è del pari guidato da un in- trinseco amore
disinteressato verso dei soli simili. E qui è da notarsi , che questa
filosofica disputa erasi sì a lungo portata, per non essersi con
pre- cisione determinato lo stato della quistionc. Indi è che il
dotto A. a ciò si accinge. L’ uomo può volere una cosa perchè nè
vuo- le un'altra: allora questa seconda sarà il fine del- le sue
operazioni c la prima il mezzo. Possono esservi mezzi di mezzi , cioè una
cosa può esser mezzo rispetto ad una , fine per un' altra ; latta-
volta in questa catena di mezzi e di fini evvi un termine in cui la
volontà si riposa c che è voluto per se stesso : tal fine addimandasi
fine ultimo. — Inoltre non bisogna confondere il desiderio coll’og-
getto desiderato. Il proprio piacere entra in cia- scun desiderio, come
parte costitutiva dello stesso, ma questo piacere non si deve confondere
coll’og- getto desideralo. Permesse queste nozioni, ecco co- me
determina lo stato della quistionc. L oggetto del desiderio è esso sempre
di cambiare lo stato della nostra facoltà di conoscere ? In altri
termi- ni : il fine ultimo della nostra volontà è esso sem- pre il
cambiamento dello stato del nostro intcllet- 46
to ? Questo fine ultimo può egli essere un certo stalo dell' anima
degli altri uomini ? Stabilito così bene lo stato della quistione ,
e- gli sembra facile darne la soluzione, Quando io ve- do cader nel
fuoco o in un fiume un fanciullo , non penso certamente a me, obbiio anzi
me stesso, cerco di ajutarlo, c sono fuori di me colla mente, colla
volontà e coll' opre. Può egli negarsi che la compassione per l’ altrui
miserie sia un’ affezione primaria e naturale del cuore umano ? Infiniti
e- scmpi dimostrano ciò. — Senza questa originaria disposizione
della nostra natura , in qual modo il poeta potrebbe commovcrc gli
spettatori? — L’uo- mo non di rado ajuta il suo simile con
gravissi- mo pericolo di sò ; egli incontra qualche volta vo-
lontariamente la morte per salvare 1’ amico. Tanto è il potere di
siffatta molle del nostro cuore ! Ma, dicono altri filosofi, i
motori della volon- tà sono il piacere ed il dolore : essa va
costante- mente in cerca del primo , c fugge costantemente il
secondo. A questa ricerca e fuga costante si dà il nome di amor di se stesso,
amor proprio. Tut- te le azioni della volontà han dunque per fine
ul- timo 1’ amor proprio , c noi amiamo gli altri per nostro ben
essere : il proprio me è 1’ ultimo ter- mine di ogni nostra tendenza.
Questa obbiezione nasce dall’ ignoranza dello stato della quistione. Egli
è fuor di dubbio, che i principi motori della volon- tà sieno il piacere
ed il dolore, ciò non di meno è estraneo al nostro proposito , perchè c
relativo al- l'origine e alla natura delle nostre affezioni, mentre
noi cerchiamo 1’ oggetto de' desideri, cioè se 1 og- Digitized by
Google 47 getto di ogni nostro desiderio sia il me.
Quando al vedere un infelice corro a soccorrerlo, la mia vo- lontà
è mossa dal dolore prodotto dalla vista di quell' infelice , ma 1'
oggetto di essa è il cambia- mento dello stato interno del mio simile. Ne
dica- si che prestato il soccorso segue un certo piacere, perchè le
conseguenze che provengono da un’ a- zione non sono sempre il fine ultimo
di quest' a- zionc. L’ uomo non pensa a sè in tali casi , egli è
concentrato sul suo simile , ed opera per liberarlo dal dolore. Aggiungi,
clic se 1’ oggetto del deside- rio fosse il piacere di vederlo sollevato
, egli ope- rerebbe mosso dal piacere e non già dal dolo- re ; la
vista dell’ infelice sarebbe per lui piacevole, poiché ciò , che si
riguarda come mezzo di perce- zioni piacevoli , è piacevole. — Finalmente
tutto il genere umano mette distinzione fra le affezioni be-
nefiche o diffuse, die hanno per fine ultimo il pia- cere ed il bene
altrui, c le affezioni interessate che hanno per fine ultimo il proprio
piacere ed utile. Si rispetta c venera il vero amico , il cuor
benefi- co e compassionevole ; si trascura c disprczza l'af-
fezione dell’avaro, dell' uomo insensibile, dell’ adu- latore,
dell’ambizioso, dell'egoista, cc. Da queste fioche parole è facile il
dedurre , che 1' A. fissan- do il vero stato della disputa , ha potuto
bene sol verta. Non poche altre dottrine di grave
importanza sono ancora ne’ primi due capitoli. Lcggcsi in que- sta
seconda edizione un migliore ordinamento dei principi attivi indeliberati
della nostra natura , i quali sono i.® L'appetito scntitivo , a.® Il
deside- « rio della propria eccellenza, 3.° Desiderio
di cono- scere il vcro'o curiosità , 4 ° Desiderio della glo- ria,
5." Desiderio della società. G.° Il desiderio del- la superiorità su
gli altri uomini, il che compren- de «lucilo del potere e l’ emulazione ,
7. 0 Le Affe- zioni. È d’osservarsi che l’Autore ha dato un nuo- vo
ordinamento, attingendo ai principi di Deaeran- do e dello Stewart.
Il terzo capitolo ha per oggetto il bene c ma- le morale. Sono in
esso esposti e censurali con somma chiarezza il sistema sulla morale del
cele- bre Wolff e (pici lo di Elvezio. Sebbene questi due sistemi
partano da un principio , cioè nel riporre nella felicità 1’ unico
principio motore c regolatore delle umane azioni , pure sono fra essi
importanti differenze. Nel Wolfiano sistema si concede l’uma- na
libertà, la bontà c malizia intrinseca delle azio- ni ec. le quali cose non
sono affatto ammesse da Elvezio che tortamente credè tutte le potenze
del- 1’ anima esser riposte nella sensibilità. Il valente
nostro fdosofo , venendo alla criti- ca, reputa esser due i principi
determinanti la vo- lontà, la felicità ed il dovere; osserva del pari
che vi sono azioni moralmente buone c male ; di’ evvi una giustizia
ed ingiustizia universale indipendente- mente dalle leggi positive cc.
ec. In fine, onde del tutto abbattere la dottrina dello interesse
persona- le , egli dimostra che subboruinando il dovere al
personale interesse, si distrugge la moralità delle a- zioni. Mi piace
offrire brevemente gli argomenti da lui addotti. i.° La
volontà dell'uomo virtuoso differisce Digìtized by Google
49 intrinsecamente da quella dell’ uomo vizioso ; ora
nel sistema del personale interesse le due volontà sono le stesse, perché
vogliono la stessa cosa, cioè il proprio utile. Questa morale è dunque
contraria alla voce dell’ interno sentimento della coscienza.
a. 0 Nella morale, di cui parliamo, la virtù non risiede nella
volontà , ma nell’ accortezza dell’ ope- rare (4) ; poiché con un cuore
il più perfido si può esser cauto tanto da fare il proprio utile.
Ma la virtù , secondo la testimonianza della coscienza, dee
risedere nella volontà : questa morale è dun- que contraria alla vera
virtù ; e perciò falsa. 3.° La legge morale dee essere assoluta ed
u- ni versale; ora la morale poggiata su 1’ utile c fon- data su la
situazione ipotetica dell’ uomo, la quale cambiandosi , cambia parimenti
nell' uomo il prin- cipio di direzione, e la virtù diviene vizio, il
vizio virtù. Dunque, cc. ec. Io voglio dire dunque
apertamente, che la dot- trina dello interesse personale , appo noi
adotta- ta da’ più , s’ insegnava qual verità saldissima , c
oggimai crollata ; c vorrei che i leali seguaci di WolfT od altro
sostenitore di siffatto sistema , me- ditassero gl’ inconcussi argomenti
che vari filosofi, e Galluppi specialmente, hanno al loro sistema
op- posti. È pure gravido di eccellenti dottrine il IV.
capitolo che intende a mostrare le relazioni fra , la virtù c la
felicità. Ira le cose ottime eh’ esso com- prende hanno un luogo distinto
l’ indagine , se la morale sia fondata sul scutimcnto o sulla ragione
, 50 c si fa contro Humc vedere che consiste
nella ra- gione ; la liberti della volontà è difesa dalle ob-
biezioni dei fatalisti ; in ultimo 1’ immortalità dal- l'anima. Laonde
nel V. capitolo dagli esposti prin- cipi deduce tutti i doveri dell’ uomo
, e nel VI. i mezzi per esser felice. Nulla in questi capitoli ei
lascia a desiderare ; vedendosi pure sviluppata la dottrina del bello c
del sublime secondo le dottrine svolte nella Psicologia. Analisi sottile
vedesi nel VII. capitolo delle passioni, dove l’A. fa uso di alcune
riflessioni di I’eder. Dà termine al quinto ed ulti- mo volume con
parlare sulla Religione. Egli esa- mina le relazioni del Cristianesimo
col cuore uma- no , ed il risultamcuto della sua investigazione è
il seguente. La religione è il dono più augusto della
be- neficenza del Creatore , per condurci alla virtù ed alla
felicità. Essa ci annuncia due specie di dommi, clie servono a questo
doppio oggetto , quelli cioè che la ragione può insegnarci , altri che
sono so- pra della ragione. Il benefìcio della rivelazione pei
primi dommi consiste in ciò eli’ ella li conferma , li annuncia in un
modo positivo, li sanziona c di- legua su l’oggetto qualunque incertezza.
Pe’ secon- di ella riempie il vólo, che la ragione ci lascia su di
alcuni punti , e ponendo in armonia le nostre affezioni, soddisfa tutti i
bisogni del cuore umano. Da quanto ho esposto, e più da quanto
ognu- no è capace di conoscere avvicinandosi allo stesso autore,
avendo io detto poco o nulla, potrassi de- durre quale c quanta utilità
possa cogliersi dallo studio degli Elementi di Filosofìa dell' esimio
Gal- Digitized by Google 51 lappi.
E se ciò c verissimo, perchè non porre es- so autore in mano della
gioventù ? Io, che schiettamente parlo, non debbo tacere che
gran parte della gioventù nostra è male av- viata nello studio della
filosofia spettatrice c mo- rale; perocché, tranne qualche precettore,
usano in questo secolo dare taluni autori elementari di filo-
sofia, i quali non rispondono affatto a que' bisogni che dal profondo
pensatore si sperimentano , vol- gendo uno sguardo alle vicende avvenute
in filoso- fia da Cartesio sino a Kant , c da questo a noi. E in
vero non è pur vergogna, che nel secolo di Laromiguicrc, Degerando, Galluppi,
Cousin si fac- cia studiare un Troi.sc, un Capocasalc od altro si-
mile autore? Nulla produrrà sul nostro spirito l'e- sempio di vari luoghi
della nostra Sicilia, ne’ qua- li essa scienza con prospero successo si
coltiva ? Diasi dunque bando a colali autori , si studi Gal- luppi
, c si vedrà fra noi risorta la saggia c buo- na filosofia.
Digìtized by Google 53
ANNOTAZIONI Tesasse^ (1) Il signor Accordino ,
parlando ne' suoi Elementi di Filosofia delle verità a priori , scrive
cosi : » Noi possiamo , egli è certo , percepire molte verità
a » priori , ossia che precedano ogni esperienza; ma ben pon- ti
derate tali verità si scorre , che non tono che «no sommo » di esperienze
già fatte , che somministrauo alla mente dei » dati , che potranno
servire per altre esperienze da farsi ; » non in diverso modo , che la
mente si forma le idee ge- » nerali considerando un numero sufficiente di
oggetti parti- » colati, e si giova poi delle stesse idee generali per
analiz- » zare altri oggetti, che presentatisi posteriormente ». Voi.
/. Cap. XIV, Le verità pure , a priori , speculative sono
dunque , se- condo il detto Autore , una somma di esperienze già fatte
, il che importa non sono a priori, avendo esse origine dall’ e-
sperienza , come l’ esempio delle idee generali chiaro ci fa scorgere. L’
Autore pertanto nel Cap. XVI. dello stesso vo- lume confessa l’ esistenza
delle verità indipendenti da qua- lunque esperienza, e perciò offre una
palpabile contraddizione. » Ogni cosa , ei dice, che comincia ad
esistere esige u- » na causa. Questa verità i speculativa , generale ,
indien- ti dente da qualsivoglia tperienza x. (2) Cousin ,
Cours de I’ histoire de la philosophie lef. 16 . Galluppi , Lez. di
Logica e Metafìsica Lez. VII. In una lettera che l'esimio signor Tedeschi
ha inserito nel giornale del Maurolico , An. I. N.° 14 , 30 Dicembre 1831
, lettera piena di filosofiche dottrine , ha reso elogio al celebre Gal-
luppi , perche nelle sue lezioni di logica e metafìsica adottò tal metodo
, e del pari ha sviluppato con molto senno gl' iu- Digìtized by
Google 54 convenienti in che incorsero vari
filosofi per aver seguito l'op- posto metodo. (3) lo non oso
asserire che il sistema delle facoltà del- l' Autore sia perfetto , ma
dirò bensì esser quello che più si avvicini alla perfezione , o almeno
scevro di quelle mende che spesso aflacciansi alla mente del sensatissimo
ed impar- ziale lettore, meditando le opere di WolIT , Bonnet ,
Condil- lac, Tracy, Stewart, La Romiguiere ec. L’illustre autore ha
saputo trarre molti lumi da questi ed altri filosofi , ma pur tuttavia il
di lui sistema è suo. Egli si è giovato delle Le- zioni del Prof. La
Romiguiere ; eppure quali differenze non sono fra i loro sistemi ?
Omettendo tante diversità, una del- le precipue si è che nel sistema di
La Romiguiere tutte le facoltà ( intendi le attive ) si fanno derivare
dall' attenzione , la quale trasformandosi diviene comparazione ,
raziocinio : e perciò meritamente detto il sistema dell’ attività
trasformata. Tal sistema è stato pure adottato dal Signor Amice nel
suo Manuale di Filosofia Sperimentale ( 4. Dissertazione ]. Ma il
Sig. Galluppi, sebbene con La Romiguiere distingue l’attività dalla
passività, pure con fino giudieio divide quella, quasi di- rei, in due
rami, cioè nell’ analisi o facoltà d’ isolare le per- cezioni, e nella
sintesi o facoltà di unirle; cosicché sono due modi di esercitare 1’
attività distinti, senza veruna trasforma- zione ; sono facoltà
elementari attive. Io poi non senza ra- gione osservo, che i sostenitori
dell’ atticità trasformata non sono alfatto conseguenti ai loro principi
; perciocché conven- gono che presentati all' intelletto i materiali
delle sue cogni- zioni, egli agisce, e che questa sua azione o isola,
decompone, astrae, o pure riunisce, concreta, combina. — Ora
decompor- re è lo stesso che unire ? Dividere è la medesima cosa
che ■ comporre, combinare? Se sono due atti non solo diversi, ma
opposti , come si asserisce che 1' uno è una trasformazione dell’altro? —
E posto che si volesse concedere l' esistenza di questa trasformazione ,
dovrebbe ammettersi nello spirito qualche facoltà trasformatrice. Ed in
tale ipotesi cosa avver- rebbe dell’ attività soggetta ad una forza che
la trasforma ? Da ciò concludo che l’ atticità trasformata è del pari
inso- Dìgitized by Google 55 stenibile
che la tentazioni trasformala del Condillac , c che Galluppi ha bene
rettificato quest’ errore del Professore La Romiguiere. (4)
Ammettendosi per vero che 1’ uomo virtuoso ò spin- to a fare il bene da
un calcolò interessato , non si verrebbe a calunniare Washington e 1'
apostolo Giovanni ? SI , perchè essi in tal caso non sarebbero stati più
virtuosi di Robespier- re e di Giuda, ma solamente migliori calcolatori.
È d’ uopo ripetere col Ginevrino filosofo : te non vi <f un bene
morale , di cui bisogna tener conto , non si spiegheranno giammai
per l' interesse personale, se non che le azioni de’ malvagi.
Digitized by Google ADDIZIONI 56
AL CENNO SUGLI ELEMENTI DI FILOSOFIA DEL BARONE PASQUALE
GALLUPPI Questo Cenno sugli Elementi di Filosofia del
Galluppi è un estratto dell’ opera in discorso. Chi pon mente allo
stato intellettivo del nostro paese in quel tempo , avrà una chiara
spiegazione de' miei tre primi Opuscoli. Gli autori , che qui allora
signoreggiavano, erano Tracy , Pezzi o altro autore di simil tempra e
peggio ; quindi era mestieri mo- strarne gli errori , c biasimarli , ed
esporre insieme le dot- trine del Galluppi c quanto fossero superiori a
quelle domi- nanti, c come una nuova e forte spinta dessero agli
ingegni, emancipandoli dalla servitù intellettuale straniera.
F.ra necessario adunque che colla voce e cogli scritti si mirasse
al nobile intento ; e ciò, per quanto era in mio po- tere , feci. Se non
che , essendo trascorsi quasi venti anni dalla pubblicazione de’ mici tre
primi Opuscoli sin oggi, per- ciò mi è forza apporre qualche nota, fare
alcuni cambiamen- ti ; in somma studiarmi di migliorare al possibile
tutte le operette edite. Tuttavia dichiaro , che se volessi dire
tutto che mi ricorre al pensiero, andrei troppo per le lunghe : ma
il lettore potrà di leggieri supplirvi, svolgendo tutti gli scritti messi
ora in luce , specialmente quelli che ora vengono per la prima volta
pubblicati. Digitized by Google 57 . NOTA
PRIMA Alla Logica Pura. Dapprima nulla dirò sulla definizione
della filosofia po- sta dal Galluppi, perchè in altro luogo ( nei
Contigli alla gio- ventù die volge t'animo alla Filotofia J ne dirò
alcuna cosa. Mi farò ad esporre un’ osservazione sulla distinzione
dei giudizi inpuri ed empirici, argomento di grave importanza.
Che una profonda meditazione , applicata alle umane co- gnizioni ,
di leggieri ci conduce a distinguerle in due classi o specie , è ormai
cosa fuor di dubbio. Perciocché in taluni giudizi si scorge fra il
soggetto ed il predicato , anticipata- mente a qualunque esperienza , una
necessaria relazione , a tal che 1’ opposto è impossibile , è
inescogitabile. Cosi , in questa proposizione: ogni e/felto dee avere una
causa, si per- cepisce un' attinenza necessaria fra effetto e causa , o
che ciò che comincia ad essere, ha di necessità di ciò che lo con-
duce all’ essere. Nè vale il dire essere 1’ esperienza , 1’
abitudine , quella che c’ induce a pensare che ogni effetto abbia la sua
cagio- ne ; giacché se fosse l’esperienza, allora potrei io esser
cer- to che gli effetti finora osservati sieno prodotti da una ca-
gione , ma chi mi assicurerebbe con certezza assoluta , che in avvenire e
sempre e in tutti i luoghi sarà così ? Intanto è fuori della mia potenza
cogitativa il pensare , che vi sieno effetti non prodotti da
cagione. Non così in altri giudizi , ne’ quali l’ intelligenza
più grande non potrebbe anticipatamente a qualunque esperienza
scovrire relazione alcuna fra i termini del giudizio , nè, do- po averla
scorta , impossibilità dell’ opposto. L' uomo non potrebbe conoscere ,
senza la debita esperienza , che il fuoco lia la virtù d’ incenerirlo ,
che 1’ acqua ha il potere di disse- tarlo , o affogarlo. Quantunque sì è
veduto che tutti i corpi sono centripeti , pure si può pensare che un
corpo stii in aria. Dal che è facile il raccogliere esistere nello
spirito u- mano due specie di cognizioni , aventi caratteri non solo
di- .58 versi, ma opposti. Perocché i giudizi
empirici sono sperimen- tali, mentre i puri indipendenti dall' esperienza
: gli empiri- ci sono contingenti , cioè i' opposto è pensabile , laddove
i giudizi puri sono necessari , cioè 1’ opposto è impossibile o
inescogitabile : i giudizi empirici infine sono particolari , e quando
sono generali , la loro generalità è 1’ espressione si- nottica de' casi
particolari, mentre i giudizi puri sono sempre mai universali, o d’ una
universalità assoluta Dalle quali cose è facile il desumere quanto
sia lontana dal vero la scuola empirica , che , per esser logica ,
dovette negare 1’ elemento puro , necessario ed universale che
infor- ma 1’ umana cognizione, senza accorgersi, per non dir d’ al-
tro, che veniva in tal motto a distruggere la scienza , perchè la
scienza, senza l'elemento razionale, è il corpo senza vita ed anima.
Laonde quell’ empirismo Lockiano che muovendo dall’ Albione avea invaso
la Francia , l' Italia e la Germania, grazie alla potente ed autorevole
voce del filosofo di Koni- sberge , cominciò dapprima a tentennare , e
poi per terribili colpi ricevuti d' altri filosofi , venne del tutto
meno. Laude somma nella nostra Italia si merita il Galluppi, per tacere
di altri insigni sapienti a lui posteriori , che primo mirò a si
nobile intento , e f ottenne. Se non che , per mio avviso , questo
non è tutto , giac- ché devesi andare più avanti. Conciossiacchè , se la
filosofia lia rimosso da sè quel cieco e futile empirismo ,
riconoscen- do quell’ elemento razionale , necessario , immutabile ,
essa evitar deve f altro scoglio , nel quale è facile rompere e far
naufragio , intendiamo 1' imperfetto e monco razionalismo : il quale,
coinechè benemerito alla scienza per aver riconosciuto e posto fuor di
dubbio 1’ cimento vitale della stessa , si è ingannato poi nell’
indagarne la sorgente , perchè lo ha fatto derivare dal subbietto. Tale è
f origine di quel subbiettivi- smo , che ha prodotte tante aberrazioni. —
Dal quale chi brama tenersi lontano, è mestieri che dapprima ponga
mente alle seguenti riflessioni : 1 Se I’ elemento razionale
non può derivare dall’ espe- rienza esterna, perchè questa è contingente,
non potrà nem- Digitized by Goo 59 meno
avere origine dall' interna esperienza , essendo questa pure colpita
dallo stesso carattere di contingenza. 2.° È necessario distinguere
nell’ essere pensante stato intuitivo o primigenio da stato riflessivo o
secondario, in mo- do che nello stato riflessivo il pensiero ripiegandosi
sopra se stesso osserva gli elementi razionali nella coscienza , ma
ciò è nel secondo stato , che è quasi riverbero del primo — e
sarebbe assurdo il riferire al secondo ciò , che spetta al pri- mo, o che
siano le cose nel primo, come appariscono nel se- condo. £
forza che la filosofia, degna del nomo di scienza prin- cipe, si
allontani non solo dall’ empirismo, ma anco dal mu- tilato razionalismo ,
e si trasporti con volo sublime in una sfera piò elevata e più pura , che
è base a tutto quanto lo scibile, vogliamo dire nella primigenia
apprensione , dove sta la prima notizia rudimentale del vero.
NOTA SECONDA Alla Logica Pura. Ciò che dicemmo
nella precedente nota rispetto alla di- stinzione delle cognizioni ,
della quale il Galluppi discorre nel 2.° capitolo, può avere eziandio uno
schiarimento , se ci faremo a volgere uno sguardo al principio del terzo
capitolo, ove si tratta di principi , o meglio della loro necessità
nella scienza. • La scienza essendo una catena di raziocini ,
sarà perciò un conserto di giudizi tutti fra di loro legati da costituire
un tutto armonico, compatto , solido in modo che nulla più. Or
tutti i giudizi componenti una scienza non possono essere dc- . dotti,
perchè in tal caso non vi sarebbe da quali cose, o da che sieno dedotti ;
dunque ammesso il giudizio dedotto , vi dee essere quello non dedotto. 1
giudizi di una scienza , che non sono dedotti, diconsi principi.
In altro modo. 1 giudizi che compongono una scienza non possono
essere tutti d' una evidenza mediata , perchè 60
mancherebbe la sorgente di questa ; dunque ammessa 1' evi- denza
mediata si deve ammettere I' evidenza immediata. I giudizi d' una scienza
che sono d’ una evidenza immediata , diconsi principi. In
altro modo. I giudizi componenti una scienza sono dipendenti gli uni
dagli altri , ma non possono essere tut- ti dipendenti , perchè non vi
saria in tal caso d’ onde muo- vere ; dunque ammessi i giudizi dipendenti
si devono ammet- tere i giudizi indipendenti. Questi giudizi indipepdenti
diconsi principi. Saranno adunque i principi quelle
primigenie verità di una scienza, che non sono dedotte , che non sono
d’eviden- za mediata, che non sono dipendenti. Quindi a
ragione si può dire essere i principi quelli, che virtualmente
racchiudono tutte le verità dedotte, altalchè so- no i semi fecondi
dell'umana scienza. Essi principi sono, ri- spetto all' ordineintellettuale
, come il sole nell' ordine fìsico rispetto a’ pianeti , e siccome la
luce si diffonde dal sole in tutti i corpi opachi , così essi, come
altrettanti soli , sfolgo- reggiano d' una luce lor propria che si
diffonde in tutte le altre cognizioni. I principi sono i cardini su cui
stanno le scienze , sono i perni su cui esse si agirano. Essi sono
ne- cessari, immutabili, assoluti , eterni, e perciò per questi
loro caratteri non possono originariamente derivare da qualunque
esperienza sia interna che esterna , essendo proprio di qua- lunque
esperienza il porgerci delle cose contingenti. Adunque essi si trovano
non negli oggetti dei sensi, non mai nel sog- getto pensante, quantunque
si affacciano a questo , che li ri- ceve , gli svolge , ed appariscono
nella coscienza nello stato riflessivo ; la quale apparizione dà luogo
all’ errore di coloro che per questo li giudicano subiettivi. ( Vedi la
mia Orazio- ne Inaugurale §§. 7. 8. 9. c seguenti }.
Digitized by Google f.L NOTA TERZA Alla
Logica Pura. Quantunque questa nota , nella quale si dimostra
ogni raziocinio dovere esser composto di tre giudizi, non contenga
cosa alcuna in opposizione alle idee dell’ illustre filosofo , pu- re
crediamo utile inserirla. Essa venne per noi dettata agli alunni.
Proponendoci dimostrare quanti giudizi debbano forma- re un
raziocinio , noi muo veromo da una semplice verità , cioè che il
raziocinio consiste nel dedurre una cognizione che è compresa in
un'altra, o che è in attinenza colla stes- sa. Or se ciò è vero, come è
verissimo , ne conseguita che la conoscenza dedotta non può essere nè
perfettamente iden- tica, nè del tutto diversa alla cognizione , o
giudizio , da cui è cavata; perocché se il giudizio dedotto o illazione
fosse on- ninamente identico al giudizio principio , in tal caso non
vi sarebbe nemmeno P ombra del raziocinio, ma una noiosa ri-
petizione di uno stesso giudizio per ben due volte. Chi di- cesse : /.’
anima è immortale, adunque l' anima i immortale, non avrebbe ragionato,
ma enunciato due volte la stessa pro- posizione ; egli non avrebbe nè
dimostrato , nè provato cosa alcuna , sotto qualunque senso si assumano
le voci prova u dimostrazione ; egli non avrebbe nè svolto , nè esplicato
ciò che chiudeasi nella prima proposizione, e perciò quel dunque,
aggiunto alla seconda proposizione, è senza alcuna ragione, è
arbitrariamente unito ; adunque la seconda proposizione non è veramente
illazione , quantunque ne mentisca P apparenza. Venendo alla
seconda supposizione , cioè che il giudizio dedotto sia totalmente
diverso dal giudizio principio , chiaro si vede non esservi in tal cosa
raziocinio alcuno , ma una sintesi arbitraria di due giudizi diversi, non
aventi alcuna re- lazione , salvo quella estrinseca posta dal volere di
chi do- vrebbe ragionare , ma non ragiona. Se alcuno si facesse a
dire : Il cerchio ha tutti i raggi eguali , adunque la neve è fredda ,
egli non ragionerebbe in alcun modo , non essendo Digìtized by
Google 62 la seconda proposizione nè compresa ,
nò in relazione alcuna coll’altra; egli darebbe una prova di una sintesi
capricciosa, non fondata nelle idee , ina germinata dal proprio
libilo. Or se il giudizio dedotto non può essere nè al tutto
i- dentieo nè diverso dal principio , se noi legittimamente spes-
se fiate ragioniamo , come pare fuor di dubbio , ne dee se- guire che fra
il principio e I' illazione vi debba essere una certa identità , o pure
una certa diversità , il che significa non dovere l’ illazio ne essere nè
perfettamente la stessa o diversa dal giudizio principio. Adunque l.° se
il predicato del- l' illazione è lo stesso di quello del principia, i due
soggetti di esse proposizioni debbono essere diversi : 2.° se il
sogget- to del principio è lo stesso di quello dell’ illazione , i
due predicati debbono essere diversi: 3.° se il soggetto del prin-
cipio è identico al predicato dell' illazione, allora il soggetto di
questa deve essere diverso dal predicato di quello , 4.° sa il predicato
del principio è lo stesso del soggetto dell’ illa- zione , in tal caso il
predicato di quest’ ultima è identico al soggetto del principio. Questi
quattro casi ben ponderati ci condurranno a dimostrare , che tre giudizi
debbano necessa- riamente formare un raziocinio. In elfetti ponendo mente
al primo caso, cioè allorquando i predicati del principio e dei- fi
illazione sono identici , è facile comprendere clic questo primo caso è
solubile in due ; perocché due soggetti aventi lo stesso predicato , è
necessario che fra di essi corra una tal quale attinenza , ma non potendo
essere perfettamente i- dentici , segue che i due soggetti debbano essere
o due idee aventi identità specifica o generica, o debbano essere lo
stes- so soggetto sotto due forme diverse considerato. Ora se
ci facciamo a concentrare il nostro pensiero sui cinque enunciati casi,
che tutta comprendono la forza dedut- tiva , toccheremo con mani tre
giudizi entrare nella forma- zione di ogni raziocinio. Conciossiaccbò
essendovi in ogni pro- cesso deduttivo due idee identiche, sieno
predicati, o soggetti, o soggetto e predicato, o questo e quello, sarà
gioco-forza am- mettere che fra le altre due idee siavi una relazione, la
qua- le, essendo dalla mente ragionatrice compresa, può essa attri-
Digitized by Google 03 bnire, o negare al
snbbietto dell' illazione Io stesso predicato del principio , o al
predicato dell’ illazione Io stesso soggetto del principio, c cosi via. É
così necessario questo pensiero, che comprende la relazione fra le due
idee diverse che sono una nel principio , 1’ altra nell' illazione , che
senza di esso pensiero non si può dedurre, non si può dir dunque , e
per- ciò noi lo chiameremo la ragione della deduzione. Per ren- der
chiaro ciò che dico , mi studierò ragionar con qualche esempio la
cosa. Se died : l’ animale è sensitivo , dunque il rane è
semi- tiro , ognun vede che io attribu isco al cane la sensibilità
, che ho dato all'animale , perchè veggo che il cane è com- preso
nell’ estensione del genere animale, il che significa che io veggo una
relazione fra cane ed animale. In fatti se ta- luno mi richiedesse : il
perchè dall’ aver io data la sensibili- tà all’ animale , io concludo che
il cane è sensitivo , io non potrei rispondere in altro modo, se non
dicendo : essere il cane sensitivo , perchè animale. Adunque si vede che
il ra- ziocinio riducesi a questo : L’ animale è sensitivo, — Il
cane è animale, — lì cane è dunque sensitivo. Quest’
applicazione della ragione generale , che noi ab- biam fatto a questo
caso particolare , è facile estenderla ad ogni caso , essendo sempre
necessario che lo spirito vegga una relazione fra un’ idea dell'
illazione ed un’altra del prin- cipio , essendo le altre due identiche , e
dovendo egli attri- buire ad una idea riconosciuta identica a quella del
principio un’ idea che è diversa dall’ altra dello stesso
principio. Dalle quali cose ci è facile il dedurre tre essere i
giu- dizi che in ogni caso compongono il raziocinio: giudizio prin-
cipio , giudizio dichiarante o applicativo e giudizio dedotto o
illativo. 04 NOTA QUARTA %
Alla Logica Pura. L’ Autore è d’ avviso che due sieno le
funzioni del ra- ziocinio puro , cioè una che consiste nel legare e porre
in ordine le nostre cognizioni ; 1* altra nel somministrarci delle
cognizioni , che sono 1’ esclusivo risultamento del raziocinio (Cap.
4.°). Or si può domandare : in qual cosa il secondo ufficio
si distingue dal primo ? Si risponderà che nel primo caso la
conoscenza si avea indipendentemente dal ragionamento e sol- tanto mercè
di questo si riduce alla sua classe , mentre col secondo ufficio la
cognizione si ottiene esclusivamente per mezzo del raziocinio.
Ma ancora si può domandare : quando nel primo caso si classifica,
non si ottiene una relazione che pria non si a- vea ? Certo che si. E può
questa cognizione ottenersi senza ragionare ? Non mai. Adunque la
cognizione della relazione che si ottiene nel primo caso è pure esclusivo
risultamento del raziocinio. Se ciò è vero , in qual cosa il primo caso
si distinguerà adunque dal secondo? Può distinguersi in questo, che
nel primo caso la conoscenza dedotta è nota , ma col ridurla alla
respcttiva classe', si ottiene un’ignota relazione fra essa dedotta
cognizione e il principio , a cui fu riferita , mentre nel secondo
ufficio la conoscenza dedotta è ignota , c 1’ opera del raziocinio mi dà
la relazione ignota fra i ter- mini , che la compongono. In somma tanto
nel primo che nel secondo caso avrò una ignota relazione ; in quello
fra giudizi, in questo fra termini del giudizio. Ma, si dirà
per taluno, che il secondo ufficio del razio- cinio , porgendoci delle
ignote cognizioni , ci dà nuove idee : il che è chiaro dall’ esempio
delle monete , problema di pri- mo grado a due incognite, addotto dal
Galluppi , e da quello per lui tratto dalla Metafìsica , nel quale
prendendo le mos- se da questo giudizio , che se qualche cosa esiste ,
deve esi- stere un Essere infinitamente perfetto , c tirando innanzi
il Digitized by Google 65 suo
ragionamento , pmienc a conoscere la realità d’ una vi- ta avvenire ,
nella quale le anime de’ giusti saranno premia- te , e quelle de’ ribaldi
punite. Quanto all’ uflicio del razio- cinio puro, consistente in porgere
allo spirito idee veramente nuove , è mestieri porre mente alle seguenti
riflessioni. Se il giudizio dedotto debb’ essere in connessione
colle premesse ; se l' identità formale necessariamente dee aver
luogo in ogni raziocinio , ciò vale che il giudizio dedotto non può non
essere racchiuso nelle premesse, o nei giudizi dai qua- li si deduce. Ma
se i giudizi principi chiudono in se le verità dedotte, il lavoro della
mente nel ragionare altro non è, che esplicare , svolgere ciò che è
contenuto in germe nei princi- pi. Or se ciò è vero , com’ è verissimo ,
come si potrà mai dire esser nuove le idee , che si attengono mercè la
dedu- zione ì I,e idee sarebbero veramente nuove , se non fossero
acchiuse nei principi ; ma so non fossero chiuse nei princi- pi , come
mai sarebbe possibile il raziocinio ? É evidente a- dunque che col
raziocinio puro I’ umano spirito non ottiene idee nuove , ma solamente
svolge , esplica ciò che era avvi- luppato ed implicato nei principi,
vale a dire rende chiaro c distinto ciò che era oscuro e confuso. Il
raziocinio puro è nel campo ideale, rispetto allo spirito, ciò che il
teloscopio è nel campo astronomico riguardo all’ osservatore degli astri.
L’ a- stronomo, ad occhio nudo, percepisce, per cagion d’ esempio,
la luna avente un palmo di diametro, ma armandosi l’occhio di teloscopio
, la vede di una prodigiosa grandezza. Or 1’ uf- ficio del teloscopio non
è stato in tal caso di creare, o pro- durre nuovi raggi lunari, ma di
estendere, ingrandire, ren- der chiari c distinti quelli , che ad occhio
nudo eran piccoli, oscuri e confusi: cosi lo spirito umano, col
teloscopio meta- fisico del raziocinio puro, non produce nuovi raggi
ideali, ma soltanto rende chiari e distinti , svolgendo ed esplicando
, quelli che nell’ apprensione ideale , ossia nell’ intuito , nella
primigenia rudimentale cognizione , lo spirito vedea oscura- mente e
confusamente. < 66 Se non che conviene
osservare ancora , die nell’ esem- pio, spettante alla vita avvenire,
addotto dal Galluppi, il ra- ziocinio non è puro , ma misto , e perciò ci
dà una nuova conoscenza ; quindi si è non essere esso esempio atto a
pro- vare clic il raziocinio puro conduca a nuove idee. E noi non
sappiamo persuaderci , come il Galluppi, uomo cosi beneme- rito alla scienza
, il cui spirito era fornito di eminenti doti , volendo provare l'
utilità del raziocinio puro, abbia addotto in esempio argomento di
raziocinio misto. Vero è che, nello e- sempio in discorso della vita
avvenire , il raziocinio m’ istrui- sce, dandomi una nuova cognizione,
che non è racchiusa nel contingente, nel sensibile, ma in tal caso il
raziocinio è mi- sto e non è puro , essendo un' applicazione delle verità
ra- zionali a quelle contingenti , mercè la quale applicazione 1’
e- sperienza vien fecondata , porgendoci delle nuove verità , che
non sud contenute in essa. E qui cogliamo l' opportunità d’
osservare la differenza che, secondo noi , corre fra il raziocinio puro e
il misto. Il primo, versandosi tutto nel campo ideale, non può dare
idee nuove nel rigore del termine, ma soltanto svolgere ed espli-
care , estendere e rischiarare : tale è la novità, che può ot- tenere lo
spirito umano che medita sul campo ideale. Il se- condo, cioè il
raziocinio misto , applicando le verità di ragio- ne a quelle
sperimentali , ci dà in risultamene delle cogni- zioni, die non sono
acchiuse nell’ angusto cerchio dell’ espe- rienza ; e perciò il
raziocinio misto porge delle idee nuove , rispetto all’ ordine delle cose
contingenti. Concludiamo adunque non esser vero, che uno degli
uffi- ci del raziocinio puro sia quello di dare idee del tutto
nuove; è questo 1’ estremo opposto a quello scelto dall’ empirismo
, il quale mirando a deprimere la ragione ed innalzare i sensi,
l'esperienza, avea decretato inutili i principi razionali, e tutto il
lavoro mentale , che si versa sull' ordine puro. Le quali due opinioni
sono estreme , esclusive , c lontane dal vero ; perciocché non erra solo
chi nega il valore del potere ra- zionale , ma chi lo esagera ; il primo
pecca per poco , l’ al- tro per troppo ; tutti e due han torto. Se è
dunque errore Digitized by Google 67
biasimevole annullare l' ordine razionale e le sue conseguen- ze,
come tortamente intese il cieco empirismo , è errore pu- re il credere
essere la mente umana dotata dal potere di trarre (non sappiam d’onde)
idee nuove: la novità , di cui è capace lo spirito nel campo ideale ,
altro non è che espli- cazione, svolgimento di ciò eh’ era implicato ed
avviluppato , o render chiaro e distinto ciò che era oscuro e
confuso. NOTA QUINTA Alla Logica Pura. L'
onorevole filosofo da Tropea avea già , sin dal 1807, pubblicato in
Napoli un Opuscolo soll'Ana/m e sulla Sintesi, nel quale veggonsi le
primizie del suo eminente ingegno. Ei si faceva in esso a rettificare
talune mende del Condillac e degli Enciclopedisti francesi, mostrando
ognora la tempra ro- busta della sua mente .- pure noi diremo alcune
parole intor- no all' altimo capitolo della Logica pura , ove si tien
parola dell' Analisi e della Sintesi. L’ argomento è estesissimo ,
ed è I' anima di tutta quanta la scienza ; e però è mestieri toc-
carne alcuni punti capitali , affinchè le menti giovanili si di- spongano
ad accogliere quelle idee , altamente reclamate da’ bisogni attuali della
filosofia, come a noi ne sembra. Il secolo XV1I1 avea levato a
cielo I’ analisi , e ciò ri- spondea a capello alt' esperienza dallo
stesso qualificata base unica della scienza. Galhippi ammette che il sapere
umano cominci colf esperienza, ma vuole che non tutto derivi dalla
stessa : Galluppi ammette f ordine delle verità contingenti , ma oltre a
questo statuisce I' ordine delle verità necessarie. Se non che, ciò che
non deriva dall’esperienza, essendo sub- biettivo e f ordino delle verità
necessarie medesimamente snbbiettiTe , conseguir ne dovea doversi egli
determinare per l’ analisi e non già per la sintesi. Quella perciò
muovendo dal particolare, dal composto per giugnere all’ universale ,
al semplice, comincia dal noto per arrivare all’ ignoto , mentre la
sintesi procede in modo opposto. Or , senza dir parola
68 sulla subbiettività clic a torto si attribuisce all'
ordine ideale, io non so con quauta buona ragione egli possa asserire
che )’ analisi segua sempre una sola legge : cominciar dal noto e
poi passare all' ignoto, il che non avviene della sintesi ; per- ciocché
come la sintesi cominciar può da ciò che s’ ignora ? e 1* universale non
è , a mente di esso filosofo , reale per lo spirito ? come adunque è
ignoto ? Si dirà forse ignoto , per- chè, secondo lui, il sapere cominci
dall’esperienza, a cui se- guiranno, senza dirivarne, le verità
universali ? Ciò non può essere, essendo egli d’ avviso che 1’ esperienza
senza le veri- tà razionali non può costituire scienza , e perciò quelle
sono cotanto note , quanto gli stessi particolari che da esse son
fecondati. Si dirà, in ultimo, ignoto f universale, perchè non è nella
regione dei sensi 1 Ma in tal caso s’ imbattereb- be nell’ empirismo ,
cui l'illustre A. non fa lieto viso. Adun- que, stanilo alle stesse idee
di lui, l’universale è noto quan- to i particolari , e non è esatto
perciò il dire che la sola a- nalisi cominci, dal noto. — Si arroge a ciò
, che lo stesso autore è d' avviso , che 1’ analisi faccia uso degli
assiomi , quando vien costretta da circostanze particolari ,
quantunque non ne usi ili principio , come la sintesi , e per Ispirazione
, ma ove il bisogno lo esige. Or se la stessa analisi fa uso degli
assiomi, che sono certamente universali, in qual modo l’ universale sarà
ignoto ì come la sintesi prenderà comincia- mento dall’ ignoto , mentre f
analisi fa uso di ciò , da cui muove la sintesi ì Ma questo non è tutto.
L' uso degli assio- mi da parte deli’ analisi , ammesso dall’ autore , mi
porge f occasione a fare le seguenti altre considerazioni. Se
1' analisi usa degli assiomi , coi quali risolve i proble- mi , come
nell' esempio addotto dall’ A. , essa adunque va dall’ universale al
particolare. In qual cosa adunque si distin- guerà dalla sintesi , almeno
in taluni casi ? Se 1’ analisi ha di bisogno dell' universale per
ispiegarc tal fiata i fatti , come non riconoscere nelle idee la
spiega- zione di questi ultimi ? Perchè adunque non muovere dalle
idee ? Se l' analisi usa degli assiomi, se l'universale, a cui
può Digitized by Google 69 essere essa
condotta, non va al di là della somma de’ casi particolari , è gioco
forza concludere che in tali casi l' analisi si giova della sintesi ,
ossia il processo metodico è nn misto d’ analisi o di sintesi.
Io non intendo dare un largo svolgimento a ciò che ho detto in
questa nota ; solo devo dire che se l’antore da una parte teneasi dietro
allo spirito del tempo , proclamando 1’ e- sperienza e 1* analisi , pure
da quella non facea derivar tut- to ; e perchè conobbe 1’ elemento
razionale , aggiungeva al processo analitico , quale era concepito dal
secolo XVlil ed anco nei primi lustri del presente , i principi
razionali. Ciò spiega ad evidenza le opinioni dell’ autore e sull’ analisi
c sulla sintesi. Infine coloro che tanto innalzano 1’ analisi
a discapito della sintesi , senza nemmeno porre mente all’ indole
delle scienze, delle quali si tratta , si ricordino del Condillac,
uno dei più famosi panegiristi dell’ analisi , che precede sovente
, senza saperlo e volerlo , sinteticamente ; che Galluppi , oltre
alle cose predette, arriva ad ammettere una tinteti tenti! iva quale
stato primitivo dello spirito ( Vedi ne) Dizionario di Conversazione art.
Anima ). Io non vò esaminare, se sia ve- ra o pur no questa sintesi
sensitiva, quantunque veggo in es- sa espressione che la forza del vero
lo spingea alla sinte- si e quella del sistema al senso , e veggo pure
die essa c- spressione depone a prò della sintesi : il che è bastevole
al mio intento. •se®«?S*S91> 70
NOTE ALLA PSICOLOGIA Oneste poche nozioni
vennero dettate agli alunni in oc- casione degli argomenti relativi e
quali addizioni agli stessi , almeno in taluni casi. Siccome
con le note apposte alla logica, non intendem- mo che accennare di
passata qualche osservazione , cosi le riflessioni brevissime , che
aggiungeremo alia Psicologia , sa- ranno allo stesso modo.
$• I. Che coso sia Psicologìa Empirica. — Che cosa Psicologia
Razionale. — Della differenza che corre fra Psicologia e Psicologismo —•
Fra Psicologi e Psicologisti. La Psicologia , come suona 1'
etimologia della sua paro- la, significa « Scienza dell' Anima » ma , potendosi
f anima studiare in due modi , perciò la Psicologia , avendo sempre
per obbietto 1’ Anima, sarà o Empirica , o nazionale, secon- dochè userà
l'uno, o 1’ altro dei due modi. Nella prima, cioè nell’ Empirica ,
guidati dalla coscienza , studieremo 1‘ anima nelle sue manifestazioni,
nei suoi fenomeni , senza andare al di là dell’ interna esperienza,
faremo tesoro di tutto ciò, che essa riflessivamente ci manifesterà.
Nella seconda , cioè neila Psicologia Razionale, guidati dal lume della
ragione , trasan- deremo i limiti dell’esperienza, offrendo un complesso
di ve- rità , che 1’ esperienza non ci manifesta : tali sono i
risulta- menti, che si ottengono dalle indagini sull’ origine , sulla
na- tura, sul destino dello spirito umano e simili. La
differenza poi clic corre fra Psicologia e Psicologi- Digitized by
Google 71 smo , fra Psicologi e Psicologisti , é
questa : la Psicologia è la scienza dell'anima, ed è una vera scienza. Il
psicologismo è un errore spettante al metodo, che consiste nell'
attribuire alla Psicologia ciò che non le appartiene ; cioè il primato
su gli altri rami dello scibile filosofico. — Psicologi son quelli
che scrivono cose pertinenti all' anima. — Psicologisti son poi coloro ,
die attribuiscono alla scienza dell' anima ciò che non ha.
§• H- Che cota eia la coscienza. — Dei diverti significati , che
re- ta attuine nelle teienze filosofiche. L' etimologia
stessa della parola coscien za facilmente ci conduce all’ intento che
bramiamo ; perocché coscienza , de- composta nei suoi componenti con
scienza , o sia cum scien- ti a, significa, scienza di se stesso, in se
stesso, con se stes- so. Adunque lo spirito umano ha la consapevolezza, o
l'ac- corgimento di tutto quello che in lui succede : ecco ciò che
intendesi per coscienza. — Se non che la voce coscienza suole avere nelle
materie scientifiche altri due significati, cioè, cosdenza riflessiva, e
coscienza morale. La coscienza riflessiva, o come anco la chiamano,
rifles- sione psicologica , si distingue dal semplice accorgimento
in quanto che questo è involontario, mentre la coscienza riflessi-
va è volontaria. La coscienza riflessiva è il ripiegamento del- lo
spirito sopra se stesso , ossia è la riflessione applicata al- la
coscienza: la riflessione psicologica è lo strumento che usa il Psicologo
nelle sue indagini psicologiche. Negli animi del volgo ha luogo la
coscienza involontaria, o sia il mero accor- gimento di tutto ciò che in
essi succede ; ma non mai, o di raro , la coscienza riflessiva. 11
termine adunque della rifles- sione psicologica è lo spirito , il quale
in tal caso è subhiet- to ed obbietto , mentre nella riflessione
ontologica 1’ obbietto è 1' Assoluto. la quale distinzione è di somma
importanza , ma sventuratamente non è compresa da tutte le intelligenze.
72 Li riflessione psicologica è lo strumento del
psicologo nelle indagini che versano sullo spirito , cioè sulla realità
subiet- tiva ; mentre la riflessione ontologica è la riflessione
applica- cata all' Assoluto, ed è lo strumento, di cui si serve 1’
onto- logo, che medila sulla realità obbiettiva. — La coscienza mo-
rale poi si distingue dalla mera coscienza , e dalla coscienza riflessiva
in questo. La coscienza morale non è il solo accor- gimento di ciò , che
avviene nello spirito , non è il ripiega- mento che fa lo spirito in
quanto vuol conoscere se stesso psicologicamente, ma è un riflettere
dentro di sè per vedere se T azione fatta , o da farsi, sia contraria , o
uniforme alla legge. Lo spirito umano adunque , quantunque in tale
stato rientri in sè , ritorni sopra se stesso , non è ciò fatto con
l’intento di notomi/zare gli svariati e misteriosi fenomeni del- la vita
psicologica , ma soltanto ha per iscopo riandare le a- zioni passate , o
slanciarsi in quelle avvenire ; confrontare le unc , o lo altre con la
legge ; e quindi tirarne l’ illazione , che in tal caso è sentenza.
§■ in. Che tota tieno sensibilità interna ei esterna. — E
della re- lazione , nella quale queste due facoltà sono con la
coscienza. Lo spirito umano, essendo riunito ad un corpo
organico, sperimenta i cambiamenti , ai quali esso corpo soggiace.
Ma, poiché questi cambiamenti possono avere per causa una cau- sa
estrinseca al corpo , e senza punto alterarlo , o pure una causa
intrinseca , sia nello stato sano quanto nel morboso , o clic pure tragga
sua origine da cagione estrinseca, perciò vi sono due specie di
sensazioni , cioè , sensazione esterna , e sensazione interna. Cosi , a
ragion d' esempio, i colori , che si sperimentano per mezzo della vista ,
gli odori per mezzo dell’ olfatto, lo stesso dicasi degli altri sensi ,
ci danno degli esempi palpabili delle esterne sensazioni. Ma
il dolore al fegato, allo stomaco , agl’ intestini, alla milza , o ad
altri visceri che alloggiano nella cavità toracica, Digitized by
Google 73 o in quella cefalica , sono esempi d’
interno sensazioni nello stato morboso ; come quello stimolo che precede
lo sterna- to, la fame, la sete, e generalmente tutte le sensazioni,
che accompagnano la soddisfazione di taluni nostri bisogni nello
stato normale , son tutti esempi d' interne sensazioni nello stato
sauo. Da ciò siegne doversi distinguere sensibilità interna ,
e sensibilità esterna : questa ci dà i cambiamenti , che vengo- no
dal di fuori ; la sensibilità interna ci dà i cambiamenti , che
riguardano i nostri visceri, tanto nello stato sano, quan- to nel
morboso. Or che ho spiegato in che consistano l’ interna , od
e- stema sensibilità, mi farò a dichiarare in quale relazione es-
se siano con la coscienza. — E, per dimostrare ciò , ricorro all’ analisi
del linguaggio. Se io dico : lo so che reggo la la- na , 1’ analisi di
questa proposizione , mi dà tre cose : 1° la luna , obbietto della mia
visione — 2° la visione , obbictto del mio sapere — 3° il sapere, o
consapevolezza, che pren- de immediatamente la visione , e mediatamente
1’ oggetto di • questa , cioè la luna. Medesimamente se dico : Io so d'
aver fame, tre elementi mi dà 1’ analisi di questo fatto psicologico
enunciato in questa proposizione ; i quali elementi sono lo stato del mio
corpo, manifestato dalla sensazione della fame, e la coscienza che
manifesta allo spirito essa sensazione. Adanque si vede chiaro che tanto
le interne, quanto le ester- ne sensazioni sono nella stessa relazione
con la coscienza, va- le a dire, che si le une, che le altre vanno nella
coscienza, come nel loro centro, a riverberare. E qui pare
opportuno ventilare una inesattezza del Gal- luppi, e un errore d’ altri
Filosofi. Siccome il Galluppi chia- ma la coscienza eziandio sensibilità
interna , perciò venne in mente ad alcuno dire che esso Filosofo confonda
esse due fa- coltà e i loro fenomeni contro del senso da noi spiegato
di sopra. Ciò è falso, perocché non è vero che il Galluppi con-
fonda i fenomeni dell’ una con quelli dell’ altra ; ma soltanto si fa a
chiamare la coscienza ancora sensibilità interna ; o perciò vi ha solo
confusione di nome , ma non di cosa. In 74
effetti i fenomeni, da noi riferiti alta sensibilità interna , sono
dal Galluppi attribuiti all* esterna sensibilità. Par che questo Filosofo
consideri la fame , la sete, e simili', spettanti all’ e- sterna
sensibilità per essere il corpo fuori dello spirito ; il che non è esatto
, poiché sarà sempre vero che altro è nn cambiamento avvenuto soltanto
nei nostri visceri , ed altro è un cambiamento avvenuto nel nostro corpo
per 1* azione degli oggetti esterni , e del quale cambiamento il corpo è
soltanto il veicolo. 5. IV. Esposizione del
tittema psicologico del Galluppi. Pria d' esporre il sistema di
quest’ insigne filosofo , il dovere di gratitudine mi muore a dire alcuna
cosa intorno allo stesso sapiente. Quando il sensismo
signoreggiava tutti gli spiriti , e la patria di Archimede, Cicerone,
Tommaso, Bonaventura, Fici- no , Campanella , Telesio , Vico e cento
altri era serva del pensiere straniero , allora sursc il Galluppi
richiamando gli spiriti all' antica sapienza , mettendo a nudo i sistemi
, che aveano recato la desolazione e la rovina nell’ impero filoso-
fico, destando gli animi dal vergognoso letargo , in cui erano immersi.
La missione di lui fu nobile, mirando sempremai a sperperare quella falsa
Filosofia , che ci venne propinata dai barbari d’ oltre monte e d’ oltre
mare. Egli è vero che e- mancipato una volta il pensiero filosofico
italiano dalla servi- tù intellettuale straniera, camminò da sé, prese un
corso no- vello , ma è pur verissimo al Galluppi esser dovuta la
glo- ria d’ avernelo sottratto , coni’ è pur verissimo essere egli
stato il primo movente di quest’ epoca di restaurata Filosofia
Italiana. E, dovendo io sporre il sistema psicologico di questo
Fi- losofo. osserverò essere egli stato il primo, che in Italia
trat- tò la Psicologia con senno veramente italiano. Nutrita l’ani-
ma sua grande agli alti concepimenti d’ un S. Tommaso , di
Digitized by Google 75 un S. Agostino , d’ un
Leibnizio , d’ un Kant, non potea far buon viso a quello sterile
empirismo , a quello stomachevole materialismo, che sensualizzano tutto ,
ed annullano la spiri- tuale atiività ; perciò questa ebbe nel suo
sistema quella parte , che la Filosofìa della sensazione le negava.
Quindi è facile comprendere che , secondo la mente del Galluppi ,
due son le facoltà, che offrono gli obbietti in confuso, su cui
ver- sar si dee l’umana attività : queste facoltà sono la coscien-
za e la sensibilità ; la prima che offré il me con le sue modificazioni ,
I' altra il fuor del me , e le sue relazioni col me. La nostra vita
sensibile comincia da questo punto ; e queste due facoltà ci danno la
percezione dello stato presen- te. Ma noi saremmo troppo miseri, se non
avessimo la ricor- danza degli stati passati ; ecco in noi una facoltà
riproduttri- ce, die soccorre a questo nostro bisogno. Or, presentati
al- lo spirito gli obbietti dalle sudettc facoltà , egli può agire
su di essi in due modi, o decomponendoli, o componendoli; ec- co
altre due facoltà attive, analisi, e sintesi , che sono sotto l’ impero
di una facoltà, che è la volontà, la quale è provo- cata all' azione del
desiderio. Dalle quali cose emerge esser chiaro e semplice il
si- stema psicologico del Galluppi. Coscienza , sensibilità ed im-
maginazione son le facoltà , che prima hanno luogo in noi , presentando
al subbietto conoscitore i materiali, su cui spie- gar dee la sua
attività ; le prime due offrono le percezioni presenti ; la facoltà
riproduttrice poi offre lo stato passato. Ricevuti cosiffatti materiali ,
che sono , quasi direi , porti in confuso, 1* analisi decomponendo , e la
sintesi riunendo , pro- ducono tutti i tesori dell' intelligenza , cioè ,
le idee semplici e le composte , le subbiettive e le obbiettive ; ed anco
il concetto di Dio , che l’ insigne Filosofo calabrese stima sub-
biettivo in origine , ma obbiettivo in valore. Se non che è da avvertire
, che i sentimenti offerti dalla coscienza e dalla sensibilità , rispetto
all' idea di Dio , non sono i materiali , ma le condizioni, essendo l'
idea di Dio, secondo l’ avviso del Galluppi , un prodotto della sintesi ,
ma avente una realità obbiettiva. Ma 1’ analisi e la sintesi son poste in
movimento 76 alalia volontà , che esercita un
impero non solo sovra esse facoltà, ma su altre ancora, come pure sul
corpo. La volon- tà finalmente , potenza attiva c libera , è eccitata ad
agire dal desiderio, che c uno stato misto, iu cui hanno luogo per-
cezioni piacevoli c dolorose. A sette adunque riduconsi le facoltà
dello spirito , se- condo il (ìalluppi , Sensibilità , Coscienza ,
Analisi, Sintesi , Immaginazione, Volontà, Desiderio; quantunque quest’
ultimo non sia da lui considerato qual facoltà elementare, come sa-
rà detto nel seguente paragrafo. §• V. Continua V
esposizione (lei sistema del Galluppi. Se nell’ esporre il sistema
dell’ onorevole Filosofo Tre- peano ci limitassimo alle cose dichiarate
nella precedente te- si , mancheremmo di chiarezza ; nè la nostra critica
potreb- be cogliere nel segno. E perciò ora daremo opera a discor-
rere dei segni , pei quali una facoltà è elementare, secondo 1* avviso di
esso Filosofo , e 1’ applicazione eh’ egli ne fa alle facoltà per lui
statuite. Alla domanda che sia una facoltà elementare ? il
Gal- luppi risponde : Noi non possiamo conoscere le facoltà dello
spirito in altro modo, se non per mezzo delle loro operazio- ni. Noi
distingueremo dunque due facoltà dello spirito fra di esse, allora che ci
faranno percepire oggetti diversi, o allora che una operazione può andar
disgiunta dall' altra. Noi ri- guarderemo come elementare una facoltà ,
allora che la sua operazione non può decomporsi , ed in conseguenza nou
può spiegarsi coi concorso di più facoltà. Ennuciati questi
segni , egli scende a farne applicazio- ne. Cosi la coscienza è distinta
dalla sensibilità, perchè quel- la ci dà il me , e questa il fuor del me
, oggetti diversi 1’ uno dall’ altro ; adunque esse due facoltà, dandoci
oggetti diversi, sono elementari. Sono elementari ancora la
coscien- za e la sensibilità , perchè può lo spirito volgere il suo
Digitized by Google 77 pensiero agli
oggetti offerti dai sensi, c formarsi degli stes- si dell’ idee esatte ;
c pertanto si può ignorare il sistema delle facoltà dello spirito : così
un fisico , od un naturali- sta, che non sono giammai rientrati nel
santuario dei loro pensieri , ed hanno rivolto mai sempre la loro
attenzione alle cose sensibili, ignorano le leggi dell’ intelligenza,
quan- tunque sappiano quelle della natura materiale organica , od
inorganica. So adunque il meditare su i sensibili esteriori non è la
stessa cosa che il meditare sulla coscienza, adun- que la coscienza è
distinta dalla sensibilità ; adunque coscien- za e sensibililà sono due
facoltà elementari. Ma 1' immaginazione è aneli’ essa facoltà
elementare, do- manda il Gallnppi ? Al certo che sì ; perocché , su un
ob- bietto non può essere immaginato senz' essere stato perce-
pito, pure può esser percepito senza essere immaginato. Po- tendo adunque
la sensibilità , e la coscienza , o per meglio dire, gli atti di queste
facoltà esser disgiunti dall’ immagina- zione, perciò ne siegue essere 1’
immaginazione distinta dal- la coscienza e dalla sensibilità. Convien qui
notare che il Galluppi applica alla immaginazione , considerata in
attinen- za alla facoltà di percepire, non il segno della diversità
de- gli obbietti , come fece per la coscienza e per la sensibili-
tà, ma il segno della disgiunzione o separazione. Se non che l’
immaginazione, avendo due attinenze, cioè una eoo la facoltà di percepire
, e 1’ altra con la facoltà di attendere ; ed avendo il Galluppi mostrato
che , quanto alla facoltà di percepire, l’ immaginazione è facoltà
elementare , potendosi percepire, e non immaginare, restava a vedere
se 1’ immaginazione fosse facoltà elementare fn riguardo all’ at-
tenzione. Le due facoltà di immaginare e di attendere non possono andar
disgiunte 1’ una dall' altra, essendo necessario per la riproduzione un
grado d’ attenzione ; come' adunque l’ immaginazione sarà , rispetto all'
attenzione , facoltà ele- mentare ? Si risponderà essere 1' analisi una
condizione so- lamente per aver luogo il richiamo dell' idee. Ma, se
l’at- tcntiva potenza si considerasse come cagione deli’ immagina-
zione riproduttrice , questa sarebbe allora elementare ? Il
78 Galhippi asserisce di si. Da ciò si vede che coutenza ,
sen- sibilità, immaginazione, ed analiii, son facoltà elementari.
Quest’ ultima facoltà , cioè 1’ analisi, non solo è distin- ta
dall’ immaginazione, secondo il nostro Filosofo, ma anco- ra dalla
coscienza, e dalla sensibilità, perchè gli obbietti di quest’ ultime
facoltà possono esser presenti allo spirito sen- za esser decomposti,
come possono essere le percezioni de- composte senza essere ricomposte ;
e perciò la sintesi è pu- re facoltà elementare. Lo stesso vale del
desiderio , il quale può stare senza del volere ; dunque volere non è
desidera- re : ma il desiderio, essendo uno stato misto dell’anima
co- stituito di percezioni piacer oli e dolorose , perciò il deside-
rio non è facoltà elementare. A sei adunque si riducono le facoltà
elementari dello spirito, secondo la mente del Filosofo Calabrese : esse
sono la Coscienza, la Sensibilità , la Immaginazione, la Yolonlà ,
V Analisi e la Sintesi, e per usare le sue stesse parole « Ninn- ila
operazione delle facoltà enunciate può decomporsi, nè spie- garsi col
concorso delle altre ; esse son dunque tutte ele- mentari ».
§■ vi. Esame del sistema di esso Autore. Non potendo
stringere in poche parole tutto ciò, che ri- corre al mio pensiero rispetto
al sistema psicologico del no- stro Galluppi , mi occuperò soltanto di
alcune mende prin- cipali, die in esso han luogo. 1“ Questo
sistema psicologico, quantunque ammetta l’at- tività, e perciò si
allontani dal sensismo volgare , pure con- sidera le facoltà cogitative
in relazione coi sensibili soltan- to, cioè con gli stimoli sensitivi ,
escludendo qualunque sti- molo ideale , che eccoti e svolga 1' umano
pensiero ; e per- ciò questo sistema, come altrove vedremo , non può
andare al di là dei sensibili, interiori o esteriori che sieno.
2° Il Galluppi ammette più segui, pei quali una facol-
Digitized by Google 79 tà può esser considerala
come elementare. Ora debbano con- correre tutti , allineile una facoltà
sia considerata come ele- mentare ? o pure due , o uno bastano all'
intento ? E se un segno è in opposizione ad un altro, vale a dire, se una
fa- coltà sia elementare per un segno , e noi sia per un altro ,
sarà essa in tal caso elementare? A tutto questo il Gallup- pi non pose
mente. Anzi pare che egli , non potendo riu- scire con un sol segno, ne
abbia escogitato più d’ uno. 3° In effetti egli considera la
sensibilità e la coscienza quali facoltà elementari, perchè ci danno
oggetti diversi; va- le a dire, perchè la prima ci dà il fuor del me , e
la se- conda il me. Ma il Galluppi non considerò che queste facol-
tà non possono andar disgiunte ; il che egli dimostrò con- tro Leibnizio
, cioè che di ogni percezione lo spirito ne ha coscienza. Adunque, se la
coscienza e la sensibilità non pos- sono andar disgiunte , quantunque ci
danno oggetti diversi , saranno esse mai elementari ? Qui un segno è in
opposi- zione con un altro , a quale dei due convien dare la pre-
ferenza ? 4° Ma la coscienza e la sensibilità , dandoci
percezioni cT oggetti diversi, sono per questo elementari ? Pare di nò
, giacché tutte e due non sono altro che facoltà di percepire
internamente, o esternamente, e perciò si risolvono nella fa- coltà di
percepire. 5° Il dire poi che lo spirito , potendo meditare su
gli oggetti dei sensi , ed acquistare delle idee chiare e distinte
di essi , ed ignorare ciò che riguarda la coscienza, e perciò la
coscienza esser distinta dalla sensibilità , non è un valido argomento;
giacché, se la diversità delle facoltà dovesse de- sumersi dalla
diversità degli oggetti , su cui si può versar T umano pensiero, c dalla
varietà delle cognizioni che se ne ritraggono , allora non una facoltà di
sentire esternamente , ma tante, quanti sono gli oggetti relativi ad ogni
senso ; il che vale che si dovrebbero ammettere cinque facoltà
elemen- tari spettanti alla sensibilità esterna, e non una.
G° Quanto all' immaginazione, rispetto alla sensibilità o all’
attenzione, considerandosi come un prodotto di esse due
80 facoltà, essa si spiegherà per quelle, e non sarà
elementare. 7° Le due facoltà d’analisi e di sintesi, essendo
attive, o volontarie , esse si potranno riguardare come effetti
della volontà , con la quale nascono , ed hanno medesimezza di natura.
8° Del desiderio non mi occuperò, perchè* l’ Autore stes- so
conviene non esser facoltà elementare. Dalle quali poche
riflessioni fatte, cosi di volo, sul siste- ma psicologico dell’ insigne
Galluppi , sono condotto alla se- guente conclusione , cioè che se le
facoltà spirituali si con- siderano in relazione agli oggetti, allora ne
vedremo nascere tutte le facoltà enunciate dall’ Autore, e altre ancora,
e noi siamo lontani dal negarne 1' esistenza ; ma se poi vogliamo
considerar le facoltà non rispetto agli oggetti, ma in se stes- se ,
allora ci sembra chiaro che a due si debbano ridurre tutte le facoltà
elementi dello spirito, cioè intelletto , e ro- lontà, facoltà di
percepire o di conoscere, e facoltà di vo- lere. Questo sistema non solo
è adombrato nella Filosofia antica con Platone e con Aristotile , e nella
moderna da al- tri Filosofi espressamente dichiarato , ma pure è il
sistema del senso comune. §■ VII. Efpotizione
del siitema pticologico del Condillac. Pria di farmi ad esporre il
sistema dell'abate di Con- dillac, è mio dovere dire alcuna cosa intorno
alla Filosofia del sensismo. Questo sistema, detto sensismo o
sensualismo , non è un trovato dello spirito umano nei secoli
diciassettesimo o di- ciottesimo ; ma risale alle prime concezioni, della
Filosofia Indiana, dalla quale passò alla Filosofia Greca, a quella
Ro- mana , a noi. Non intendo io dire che tutti i Filosofi ab- bian
seguito colai sistema , clic anzi i più potenti intellet- ti mai sempre
gli si opposero ; ma intendo soltanto signifi- care che tale aberrazione
ebbe culla appo gli antichi , è Digitized by Google
81 riapparsa quasi in lutto l' epoche ; ed ebbe finalmente
nel secolo passato il suo massimo svolgimento , e la più estesa
applicazione. Senza dunque tener parola dei famosi sensisti, che
ap- parvero appo gli antichi , basterebbero soltanto gli Elvctius,
i Volney , gli Holbach , i Tracy consorti per farci com- prendere le
laide illazioni, a cui conduce la miserabile Filo- sofìa dei sensi.
lilla è Ateismo in Religione, Materialismo in Psicologia, Egoismo
in Morale, il dominio della forza, o il potere ar- bitrario nelle scienze
giuridiche ; in somma il sensismo è l'esclusione dell’Assoluto nel doppio
giro del conoscere e del volere. laonde non sarà discaro
esporre in brevi detti il si- stema psicologico del Condillac ; e poi in
altra tesi fame la confutazione, quantunque dal semplice lato
psicologico. Tutte le facoltà dello spirito seno tentazioni
trasforma- te. ossia derivano dalla sensazione ; sono , quasi direi ,
rac- chiuse in essa : appunto come il ghiaccio si trasforma in
acqua , e questa in vapore , cosi la sensazione si trasforma per divenire
ciascuna delle facoltà mentali ; o come il lino si trasforma in tela , e
questa in carta , cosi la sensazione si trasforma in tutte le facoltà.
Cosi 1’ attenzione non è già F attività in opposizione alla passività , e
soltanto preceduta dalla sensazione, ma è la stessa sensazione ; con la
sola dif- ferenza , che quando lo spirito sente , ha molte sensazioni
; quando attende, ne ha una sola esclusivamente : quindi 1’ at-
tendere è uno stato dello spirito concentrato nella stessa sen- sibilità,
ma che ha una sensazione. Presso a poco la stessa cosa egli dice
pel paragone, pel giudizio, per la riflessione , immaginazione , e pel
raziocinio , facoltà che tutte racchiude sotto il nome d’ intelletto.
Adun- que le facoltà dell’ intelletto sono trasformazioni della
sen- sazione, considerata come rappresentativa degli oggetti ester-
ni , come le facoltà della volontà sono trasformazioni delle sensazioni,
considerate come piacevoli e dolorose. E siccome 6
82 intelletto e volontà con vocabolo comune si chiamano pernie-
rò, perciò tutte le facoltà del pensiero sono sensazione tra-
sformata. Fu tanto e tale 1’ accecamento di quest* Autore, e la
sua predilezione pel sensismo , che 1’ io stesso fece derivare dal
di fuori, essendo l’ io del Condillac a La collezione delle sen- sazioni
, che ciascuno prova' ». §. VUI. Confutazione del
tistema psicologico del Condillac. Noi opporremo al sensismo Condii
lacchiano le segueuti riflessioni : 1° Chi dicesse questo
sistema è semplice , dunque è vero , errerebbe , essendo la semplicità
cosa relativa al no- stro spirito, e la verità assoluta, indipendente da
noi. Sol- tanto si deve dire , essere il sensismo , attesa la sua
super- ficialità, come la buccia della Filosofia ; c perciò ben si afia
con le menti superficiali, e che non penetrano sin nel midol- lo della
scienza. 2° Questo sistema è smentito dalla coscienza
individua, e da quella del genere umano ; dalla prima perchè ognuno
ben si accorge essere il proprio spirito ora passivo, ora at- tivo ; ed
il sistema del Condillac riduce tutti i fatti psico- logici alla
passività. È smentito dalla coscienza umanitaria, perchè le lingue ,
nelle quali si rivela lo spirito dell’ uomo , porgono da per tutto , a
chi ben vi mediti , una distinzione fra vedere e guardare ; fra udire ed
ascoltare ; fra odorare e fiutare , c simili ; in somma le lingue dei
popoli chiaro ad- dimostrano la differenza , che vi ha fra sentire
passivamente e sentire attivamente. 3° È assurdo ancora che
1’ attenzione sia sensazione , perchè 1’ attenzione è raggio dell’ umana
attività , che deter- mina , fissa , chiarifica c distingue ciò che nel
sentire è va- go, indeterminato, oscuro e confuso. 4° Se l'
attenzione fosse sensazione , essa dovrebbe cs- Digitized by Google
83 sere in ragione sempre del sentire ; il che non
essendo ve- ro, mostrandoci l’ esperienza degli spiriti , nei quali è
mas- sima la forza di sentire, e minima quella di attendere, per-
ciò 1* attenzione è tutt' altro che sentire. 5° L’ essere poi la
facoltà attentiva applicata alle sensa- zioni, e in relazione perciò con
gli organi, e con gli ogget- ti, ciò non dimostra che sia la stessa cosa
della sensazione, ma soltanto dimostra il mutuo soccorso, lo scambievole
aiu- to che si porgono le mentali potenze. Anco nelle funzioni
organiche del corpo umano vi ha dipendenza, vi ha ordine ; cosi non può
aver luogo la chilificazione senza la chimifica- zione, e questa senza la
deglutizione, e questa senza il ma- sticare e l' insalivare i cibi ; ma
chi sarebbe cosi sciocco da dire che la chilificazione, e tutte le altre
funzioni digestive si riducessero alla masticazione ? 0° Nè
il giudizio, nè il raziocinio si possono ridurre al- la sensazione ,
perchè non solo nel giudicare e nel ragionare si attende , si astrae, si
analizza , ma si riducono ad unità sintetica i concetti, la quale unità
sintetica è tanto lungi dal- la sensazione, quanto f attività lo è dalla
passività. 7° So le potenze di giudicare e ragionare fossero
ten- tazioni trasformate , in qual modo potrebbe avvenire che i
nostri giudizi , c i nostri raziocini sarebbero talvolta in op- posizione
alle stesse sensazioni ? In qual modo lo spirito li- mano avrebbe potuto
formare l’Astronomia Copernicana, che è razionale , in opposizione all'
Astronomia Tolomaica , che è empirica? Dai quali argomenti ho
il dritto di concludere, essere il sistema del sensismo una di quelle
aberrazioni dello spirito umano, che non hanno alcun valore scientifico ,
senza tener parola delle assurde illazioni , che degradano 1’ uomo , e
nel- le quali esso và a sprofondarsi. 8i
§• nc. Continua la confutazione del seminilo del Condillac.
Nò metterei fine a questa tesi, se volessi enunciare tut- ti gli
argomenti, che annllano la Filosofia della sensazione : solo addurrò
quest’ argomento , che vai per mille ; ma che non mi è dato svolgere come
trovasi nella mia Dissertazione sul Sensualismo. Se pensiero
c sensibilità sono , secondo i sensisti , la medesima cosa, seguir ne
deve che i prodotti tutti del pen- siero devono corrispondere
perfettamente alle cose sentite, e alle sensazioni ; ma 1' esperienza ci
dimostra dei pensieri, il cui tipo intero non esiste in natura , come
avviene nei pro- dotti della sintesi immaginativa civile, e della sintesi
imma- ginativa poetica; adunque pensare non è lo stesso che senti-
re , tutte le facoltà dello spirito non sono concentrate nella
sensibilità. In altro modo: se pensiero e sensibilità sono, se- condo i
sensisti , la stessa cosa, tutti i prodotti del pensiero dovendo corrispondere
alle sensazioni ed agli oggetti sentiti , non potrebbe essere nell' umano
spirito alcun pensiero in opposizione ai portati del senso , o che
trascenda in alcun modo le sensazioni, gli oggetti dei sensi ; ma 1'
esperienza ci dimostra come esistenti negli umani intelletti dei concetti
iu opposizione alle sensazioni , o che trasandano le cose senti- te
, come se ne ha un esempio nell' Astronomia Copernica- na , ed in molte
verità delle Matematiche Pure , e simili ; adunque pensiero e sensibilità
non sono tutt’ uno , tutte le facoltà dell' intelligenza non sono
racchiuse in quella di sentire. Iti altro modo finalmente. Se
pensiero e sensibilità sono la stessa cosa, tutti i concetti umani ,
dovendo corrispondere alle sensazioni , devono perciò essere in ragione
della perfe- zione dei sensi ; c perciò animali aventi pari perfezione
di sensi, dovrebltero avere uguale intelligenza ; e animali aventi
sensi meno perfetti d’ altri animali , dovrebbero avere meno
intelligenza: ma l’esperienza dimostra a inissimo lume., la perfezione ,
o imperfezione dei sensi, almeno sino ad un cer- i by Google
85 to segno, in nulla influire sulla perfezione, o
imperfezione del* f intelligenza ; adunque pensare non è sentire;
pensiero e sen- sibilità non sono la medesima cosa. Che poi i gradi dell'
in- telligenza non corrispondano alla perfezione , o imperfezione
dei sensi , è facile a dimostrarlo ; perocché la scimia ha i sensi
uguali, o quasi uguali a quelli dell'uomo; c pure è im- mensa la : distanza
, che separa quel bruto dalla specie uma- na : cosi il negro ha i sensi
più perfetti dell' Europeo, ed il selvaggio gli ha più perfetti dell’
uomo incivilito ; e pertan- to le loro intelligenze sono immensamente
distanti. E la sto- ria non ci mostra celebri pittori con vista fioca ? e
famosi maestri di musica con debole udito ? e l’ oratore greco non
avea sortito dalia natura imperfettissimo l’ organo della favel- la?
forse diremo che le scoperte dei grandi, come di un Ga- lileo, e di uu Newton
sieno dovute a maggior perfezione sen- sitiva ? Concludo
adunque esser futile il sensismo ; e perciò do- versi considerar 1’ anima
come dotata di facoltà attice, le qua- li, operando sulle sensazioni,
producono quelle idee comples- se non aventi un tipo intero nella natura
; le quali, malgra- do 1* imperfezione relativa dei sensi, rendono 1’
essere, che ne. è fornito, più intelligente d' altri esseri di sensi piti
perfetti. Le quali facoltà in fine , operando sulle primigenie notizie
, che sfuggono ai sensi , e alla coscienza , danno nella cogni-
zione riflessa quei pensieri che trascendono ogni esperienza. §•
X. Sublime sentenza dell' Apostolo delle Centi che annulla il
sensismo. Non si dilungherebbe dal vero , chi dicesse che le
sacro pagine, non solo contengono ciò che è necessario alla salute
delle anime, ma ancora tante preziose verità , che dalla spe- culazione
svolte ed applicate convenientemente, han virtù di condurla ove
ardentemente brama. 80 Ciò diciamo a proposito
d' una sentenza dell' Apostolo delle genti , la quale , comechè da altri
in altro modo spie- gata e bene , pure nessuno ha subodorato che essa è
capace d' essere in altra guisa esplicata : tanto è semenzaio fecondo
di verità I Eccomi alle prove. Sentio aliarti legem in mtmbrit meis repugnantem
Itgi mentis mee. ( Rom. VII. 23 ). In questa verità psicologica, se ben vi si mediti, si
ve- drà a chiarissimo lume la morte del sensismo. S. Paolo
annunzia un antagonismo fra la legge della mente e quella dell’
organismo, fra la ragione e il senso, fra la legge dello spirito e quella
del corpo. Or so ciò è vero , com’ è verissimo, semplice è il raziocinio
che dobbiam fare per mostrare che essa conduce ad annullare il sensismo.
Pe- rocché se ia legge dello spirito è in opposizione a quella del
senso , ossia se la legge razionale è in antagonismo a quella sensitiva ,
ne segue che la legge della ragione non può veni- re da quella dei sensi:
ma se la legge razionale non pud scaturire dal senso , ciò vale che dehbe
essere diversa dalla legge sensuale : ma se la legge razionale é diversa
da quel- la sensuale, ciò vuoi dire che la vita intellettiva, la vita
mo- rale non è la stessa della vita sensitiva : ma se la vita ra-
zionale non è la stessa della sensuale , chiaro ne emerge che tutto non è
sentire, ogni cognizione, ogni atto spirituale non essere acchiuso nella
vita sensitiva , ossia l’ intelligenza non esser la stessa cosa della
sensibilità. Questi argomenti sono inconcussi : essi sono
poggiati sulla sentenza dell'Apostolo, la quale è evidente, annuncian-
do un fatto che ogni uomo può in sé osservare. Ognuno è spettatore di una
serie di combattimenti , che durano quanto la vita ; nc’ quali se la
parte sensuale vince , 1’ uomo va a precipitarsi nelle vie de’ vizi , se
vince la razionale , la virtù riesce vittoriosa. Ciò non solo nella vita
individua , ma vaio eziandio per quella delie nazioni , giacché civiltà e
barbarie son due perìodi, nei quali ha il predominio la ragione sai
sen- so o questo su quella. Digitized by Google
87 Adunque mi par bello concludere : se la legge della ra-
gione è in opposizione a quella del senso, la legge della ra- gione non
può venir dal senso — se la legge della ragione non può venire dal senso,
essa non sarà identica a questo-— dunque l' intelligenza e la sensibilità
non sono la stessa co- sa — adunque il sensismo è distrutto , svolgendo
le parole dell’ Apostolo. Digitized by Google
Digitized by Google 89 OSSER
VAZI0H1 SOPRA IL CENNO FILOSOFICO (1). DEL MERITO
COMPARATIVO DI PASQUALE GALLUPPI E CARLO
ANTONIO PEZZI «s s a mw » Volle il Sig. A. S. dare a luce un
cenno sul meri- to comparativo di Pasquale Galluppi e Carlo Antonio
Pez- zi, sul quale cenno dirò apertamente, ma educatamente , alcuni
miei pensieri. E senza dir altro entro in materia. Dapprima
l’autore si fa a discorrere sulla necessità dell'arte critica, e,
toccando altre cose, dice: » Se riguardiamo I’ opera di quest’
ultimo compresa » in cinque volumi , edizione di Messina 1’ anno 1830
. » osservasi , che raggira nei primi quattro volumi sulle »
facoltà dello spirito e suoi fenomeni, nell’ultimo sull’e- » tica , che
vuol dire quanto basta alla filosofia raziona- li le e morale, con
nessuno o pochissimi cenni sui reci- » proci rapporti, che ha l’uomo
fisico e morale, rappor- » ti che han cagionato la vera filosofica
rivoluzione negli (1) Questo Cenno fa inserito nel giornale dello
Spettatore Zan- cleo ne’ numeri 39. 40. 45. 49 anno primo , e numeri 5. e
6 anno secondo. Digitized by Google
90 » ultimi tempi, di cui ne parla egli medesimo; ed a
sa- » per la quale impegna i giovanetti studiosi ; rapporti » senza
di cui spesso un Glosofo captai nubem prò lu.no- » ne, o si diffonde in
cose vane ed insulse, anziché pro- » ficue all’umana vita; o pur con ali
di cera tenta pog- » giare ove poggiar non lice. Se sia ciò vero,
svolgiamo- » ne l’ indice ». Che i primi quattro volumi degli
Elementi di filosofia del Sig. Galluppi trattino dell' intelletto , cioè
dello spirito considerato essere che percepisce, conosce, e l’ ultimo
del- la volontà , io nel nego , anzi dico che esatta e naturale ue
è la divisione , come il sullodato autore in varie sue opere ha detto
(1). Ma l' espressione del critico A. S. manca di esattezza , giacché ei
dice « raggira nei primi quattro volumi sulle facoltà dello spirito e
suoi fenomeni, nell’ ultimo sull’ etica ». Al che rispondo : non solo
i primi quattro volumi, ma eziandio l'ultimo discute le fa- coltà
dell' anima , perchè esso volume ha per oggetto la volontà, la quale,
come si sa, è potenza del subietto pen- sante. Questa inesattezza essendo
di poco rilievo in con- fronto degli errori, clic a larga mano sono
sparsi in que- sto cenno , credo miglior consiglio applicarmi ed appa-
lesarli. Il sig. A. S. asserisce ancora che I’ esimio Gallup-
pi faccia pochissimi cenni dei reciproci rapporti delle due nature ,
fisica e morale ; e se fosse come ei dice , segui- rebbe che spesso
captai nubem prò Junone ? o che si diffonde in cose cane ed insulse ? o
con ali di cera pog- giare tenta, ove poggiar non lice? Qual logica è mai
que- sta ! Al più avrebbe potuto dire che f autore sia man- cante.
In vero il dire che un filocofo non trattando este- samente de’ detti
rapporti spesso captai nubem cc. cr. ec. si è dire che tutta la filosofia
razionale c morale si re- stringe in tali rapporti , o che ogni dottrina
filosofica si Digìtized by Google 91
spiega mercè degli stessi. Quanto ciò sia falso, è facile di-
mostrare. In primo luogo la filosofia è, secondo il Galluppi,
la scienza dell' umano pensiero , che è all’ uomo svelato dal senso
interno. Difatti è questa facoltà del suo essere pen- sante, che lo
avvisa sentir piacere e dolore, aver memoria, giudizio , volontà ec.
Applicando perciò il raziocinio allo rivelazioni di essa coscienza ,
viene in tal modo a cono- scere le funzioni del suo pensiero : Logica ,
Metafisica , Morale riconoscono questo fondamento. Basta riflettere
, che se i fatti intellettuali e morali dall' uomo avvenissero
esternamente, sfuggirebbero alle operazioni sensibili , non avendo alcuna
qualità de’ corpi , onde renderci chiari die il mezzo di scoprirli si, è
la coscienza. Ma, dirà alcuno , de' reciproci rapporti del fisico
sul morale nulla dovrà dire il filosofo? Ecco la mia risposta. Che
il morale sia dipendente dal fisico , è un fatto che non puossi
trascurare dal filosofo : egli intanto debb' es- sere molto cauto , vale
a dire non dee credere potersi tutto spiegare in si difficile materia ;
perchè questa di- pendenza, quantunque in alami casi di leggieri spiegasi
, tuttavia in molli si nasconde. Cosi farà egli ottimamente
discorrere sulla differenza delle due vite dell' uomo , ve- getabile ed
intellettuale, come pure parlando della sensibi- lità dimostrare che i
nervi sono gli strumenti di questa potenza ; che il moto in essi organi
impresso deve tra- smettersi al cervello onde avere I' anima la
sensazione : in tal modo si aprirà la via a poter agevolmente
parlare delle anomalie delle sensazioni. Aggiungerà al cenno de-
gli organi del senso , un altro al luogo debito , sugli or- gani del
moto. Ancora dovrà , trattando delle passioni , dimostrare com' esse
producono alterazioni sul fisico ec. ma queste ed altre cose entro brevi
ceuni alfine di otte- nere il suo scopo. Veramente analizzare 1’ umano
spirito. 92 senza dire parola del corpo , si è
stoltamente immagina- re esse sostanze fra loro indipendenti, o credere
clic nul- la , dopo tante laboriose indagini , si sappia su tal
mate- ria ; e si la prima che la seconda cosa mostrerebbero , in
chi ciò credesse, pochezza di mente. Ma se il filosofo stima che si possa
in tutti i casi particolari render ragio- ne di cosiffatta dipendenza ,
andrà errato ; ei farà ipote- si, congetture maggiori in numero delle
cognizioni certe, e spesso ridicole , rendendo in tal guisa la scienza
del pensiero un miscuglio d' ipotesi e congetture. Un filosofo
difatli che volesse conoscere lo stato del cervello, quando lo spirito
giudica, o ragiona , ossia decompone e combina le sue idee, o quando è
agitato da desiderio, o passione, o sia che vuol e , tenterebbe l’
impossibile. Facciasi il pa- ragone delle opinioni di coloro, che si sono
addetti a que- ste indagini , e facilmente si vedrà che inutili sono
stati gli sforzi, coi quali si è osato strappare il velo alla
natura in tali cose , almeno sinora. Laonde il filosofo meditando
che l’ oggetto positivo della filosofia , come vuoisi , è l'u- mano
pensiero e che la coscienza nè il mezzo , discuterà le forze dell'
intendimento , I' origine e generazione delle idee, le leggi del
raziocinio, quelle della volontà avendo a guida la vista interna
precipuamente : e ponendo mente poi al fatto della dipendenza dell' anima
dal corpo , egli lungi dalla presunzione di spiegarlo in tutte le sue
parti- colarità , limiterà le di lui investigazioni a pochi fatti
senza imbaltere in ipotesi arbitrarie e stranissime. Questo parere avrà
più sotto maggior lume. Ora venendo al sig. (jalluppi , dico eh’
egli stima il fondamento della filosofia essere la coscienza ; egli
ammet- te il fatto generale della dipendenza del fisico dal mora-
le , ma crede nascondersi interamente ne' casi particola- ri (2). E
quantunque io pensi un pò diversamente riguar- do a ciò , pure mi è forza
dire eh’ egli non caplat nu- Dìgitized by Google
93 bem prò Junone ec. ma die solamente sia alquanto man-
cante. Imperocché se il sullodato filosofo non fa estesi cenni de'
rapporti aventi il corpo collo spirito, pure con- fessa, siccome ho
detto, la di loro dipendenza ; parla dei sensi come degli organi della
sensibilità; che il moto fat- to sui nervi dee esser condotto al
cervello: che negli es- seri sensitivi della stessa specie o differenti
perchè provve- duti di organizzazione diversa, hanno sensazioni
dissimili ec. ; che per effetto della ripetizione le sensazioni
scema- no, mutando lo stato degli organi ; che le passioni produ-
cono notabili alterazioni sul corpo ec. Queste ed oltre i- dee sul
reciproco influsso leggonsi negli Elementi di filo- sofia del Galluppi ;
e comechè ei ne faccia pochi cenni , pure non ispiega tali fatti senza I'
ajuto del fisico. A ciò aggiungi, che Cartesio, Locke, Condillac, ancora
pel cri- tico ristoratori della filosofia, analizzando I’ umana
intelli- genza, parlando de’ detti rapporti non più, se non meno,
del sig. Galluppi , spesso si diffusero dunque , secondo la logica del
sig. A. S. , in cose rane ed insulse , anziché proficue all' umana rila,
o con ali di cera poggiare ten- tarono ore poggiar non lice. Se ciò è
vero , con qual diritto egli asserisce che furono i ristoratori d’ ogni
filo- sofia ? Io poi vorrei sapere dove il Galluppi per mancan- za
delle cose sudettc captai nubem prò Junone ec. e do- ve con ali di cera
poggiare lenta ore poggiar non lice : anzi il chiarissimo filosofo non
imprende giammai a spie- gare l’ unione dell’ anima col corpo , I'
essenza de’ corpi , la natura Divina, la creazione ed altre cose , la
esistenza delle quali , quantunque da lui riconosciuta e con valide
ragioni provata, è pur non dimeno limite dell’ umano sa- pere. Il
filosofo debbo contentarsi di conoscere l’esistenza di Dio, dell’ anima,
de' corpi, ma dee astenersi di pene- trare ciò che trasanda la sua mente
: Dio esiste , ma è incomprensibile ; 1’ anima esiste , ma la sua unione
col Digitized by Google 94 corpo è un
mistero : £' uomo non è fallo ni per lulio sapere, nè per lutto ignorare.
Tali sono gli ottimi pensa- menti del profondo Galluppi, e perciò non può
dirsi che con ali di cera poggiare tenia ove poggiar non lice (3).
Ma il Critico dice : « Se sia ciò vero, svolgiamone 1" in- dice ».
Udiamolo dunque per esser ben disposti al giu- dicò). Scende
dopo di ciò il sig. A. S. ad esporre le dot- trine dell’ ideo logo di
Tropea , ed offrendo la ideologia di lui dice : » Passa
quindi all’ ideologia , si occupa della origine » delle idee, da quali
facoltà esse dipendano, senza però » distinguere nozioni da idee ».
Le quali parole sono evidentissima prova della super- ficialità con
che egli ha letto gli Elementi di filosofìa del signor Galluppi.
Trascrivo le parole di quest’ ultimo. » Si può finalmente riferire
il vocabolo d’ idea agli » oggetti estesi , e quello di nozione agli
oggetti ineste- » si , e dire p. e. l’ idea dell’ arbore , la nozione
della » virtù » (4j. Segue il Critico A. S. » Ei le fa
nascere or dal- » f analisi , or dall’ analisi e sintesi ; che avvi delle
idee » semplici generate dalla sintesi, che i rapporti sono sem- »
plici vedute dello spirito ; e perciò possano dirsi non » idee, ma
sentimenti di esso ». Mi duole oltremodo ch'egli non abbia
concepito le profonde dottrine del Ch. Galluppi. Non và a
dubbio che questi , 1. ° Ammetta idee semplici generate dalla
sintesi; 2. ° Che i rapporti sieno viste dello spirito; ma
che dica che i rapporti possano dirsi non idee, ma sentimen- ti di
esso (dello spirito) ò nella testa di A. S. e non già in Galluppi.
Perocché avendo egli nella Psicologia giu- diziosamcule osservato, eh'
esistono alcuni rapporti ideali, Digitized by Google
95 estrinseci, logici, vedute dello spirito, e non reali nei
cor- pi, effetti in somma della sintesi ideale ; era d' uòpo Ta-
cendo indagine dell' origine delle idee, ammetterne alcune dall’ attività
sintetica originate. E perchè l’ illustre Laro- romiguiere avea detto i
idea essere un sentimento distinto e sviluppato da altri sentimenti , e
perciò l' idea di rap- porto essere rinchiusa nel sentimento di rapporto
; il Galluppi ha per questo con non poca penetrazione osser- to che
l’ idea di rapporto, sebbene supponga i sentimenti come condizioni , da
essi pure non è sviluppata , avendo origine dalla sintesi. Ond’ è eh'
essa idea relativa è nel sentimento, non già in origine, ma bensì nel
risultamen- to, o immediatamente alla sua nascita. Veramente la
dot- trina del Prof. La Romiguiere pativa troppa imperfezio- zione,
essendo in contraddizione coi pensamenti di esso autore sui rapporti (5),
come il sullodato Galluppi ha con fiuo accorgimento rilevato (6). Perchè
non nasca alcun dubbio, ecco ciò che ho Ietto nella sua ideologia.
» Parlando della sintesi abbiamo spiegato la sintesi » ideale, ed
abbiamo mostrato, che i rapporti sono sem- a plici vedute dello spirito ,
a cui non corrisponde alcun a oggetto reale al di fuori. Si deduce da ciò
che non si a possono dare sensazioni di rapporti. Ma i rapporti,
es- » sendo vedute dello spirito, sono reali in lui , e sono a
perciò un oggetto della coscienza ; quindi pare che si » possa dire , che
noi abbiamo il sentimento del rappor- a to , come diciamo di avere il
sentimento del giudizio , » del raziocinio , della volontà cc. Meditando
su questo a sentimento pare che potremmo formarci le idee dei a
rapporti a. a Ma se il rapporto è un idea , per poter avere
il a sentimento del rapporto, fa d'uopo che questa idea sia »
formata, ed abbia esistenza nello spirito a. » Ora si tratta di
spiegare appunto l'origine di quo 96 » sla idea
di rapporto , la quale è antecedente al senti- » mento del rapporto, cioè
alla coscienza di questa idea. » In conseguenza non è esatto il dire ,
che l’ idea relati- » va sia racchiusa nel sentimento del rapporto, come
di- » ce l’ illustre La Romiguierc. Eccovi alcune osservazio- » ni
su quest' oggetto : 1° I rapporti nascono dalla com- » parazionc dello
spirito ; e perciò vero quello che ab- >< biamo asserito di sopra ,
che le nostre idee sono un ì> prodotto , dell' analisi o dell' analisi
e sintesi insieme. » 2° Supponendo la sintesi un analisi antecedente, e
que- » st’ analisi esercitandosi sulle sensazioni , è vero ancora »
quello che abbiamo asserito , cioè che le nostre idee » nascono dall'
azione dello spirito sui nostri sentimenti, » e perciò i materiali delle
nostre idee, ed in conseguen- » za delle nostre conoscenze sono i
sentimenti. 3° Le » idee de' rapporti avendo esistenza nello spirito son
sen- » tite dalla coscienza , esse non sortono dunque dalla sfe- »
ra dell'attività del sentimento; esse sono nella coscien- » za , e perciò
nel sentimento non già nell' origine , ma » nel loro risultamento , o
immediatamente alla loro na- » scita » (7). Dalle quali
riflessioni raccogliesi , che il sensatissimo autore non dice non potersi
chiamare il rap/iorto idea dello spirito, ma sentimento, che anzi dice
idea relativa, sentimento relativo ; e solamente , mostrando l’ origine
di tale idea . effetto della sentisi ideale, stabilisce esser sen-
timento nel risultamento, o immediatamente alla sua na- scita , e già in
origine. Il sig. A. S. come ognun vede, ha dimostrato chiaramente di non
intendere la dottrina del Galluppi, o, se vuoisi, di non averla saputo
esporre ; c si P una che P altra cosa meritano biasimo , che si ri-
ferisce a chi imprende a dettar critiche , spezialmente su materie cotanto
delicate, c su un autore pieno di profon- de dottrine.
Digitìzed by Google 97 Dopo d'avere esposte le
dottrine de' sigg. Galluppi e Peni, viene il critico a darne il suo
giudicio. » Ingenuamente, cosi egli, in prima dico che il
sig. » Galluppi nello enunciare le sue dottrine dà ad esse » tanto
peso che mi fu maggior pressa a riscontrarle ne- » gli Elementi di sua
filosofia per rilevarne f importan- » za. Voglia il cielo che i
metafisici rinvengano verità » sempre conducenti a felicitare il mondo ,
e scemarne i » malanni, c non mai a mettere in tortura le menti per
» leggerissime baje, o per articoli inestricabili e vani ». Non
senza potentissime ragioni il eh. Galluppi dà alle sue dottrine tanto
peso ; perciocché coscio egli del- l'origine delle dottrine che in
filosofia han cagionato ter- ribili rivoluzioni , ed han tanto nociuto al
progresso del- la scienza, introducendo errori mostruosi, e volendo
dare ad essa solida base, ha avvisalo ai giovanetti, che spesso non
veggono lutti i rapporti, della gravissima importan- za delle dottrine ,
eh' egli sempre mai con somma pene- trazione discute. Chi è addentro in
fatto d' ideologia , sa meglio di me quanto importi avere un analisi
perfetta al possibile delle potenze dell’ intendimento. Basti
osser- vare che la falsa idea di concentrare le funzioni dell'ani-
ma umana nella sensazione , la spogliò del potere di co- noscere Dio, la
privò della libertà, condannandola ad una cieca necessità, e per ciò
distrusse la moralità delle azio- ni , ridusse i bisogni a fisici ed ogni
atto dal vile inte- resse originato : il che vuol dire , abbassò f uomo
alla condizione del bruto. Ne son chiaro esempio Elvezio, Tra- cy e
consorti. I filosofi sanno parimenti f importan- za delle quistioni
relative all’ origine delle idee : si trat- ta degli clementi dell’ umano
sapere. É d' uopo esa- minare le opinioni di Cartesio , Locke , Leiboitz
, Kant ed altri filosofi ; questioni che ( agli inesperti )
potrebbe- 7 98 ro sembrare di poco
conto , ma oramai d' altissima im- portanza. Cosi le logiche definivano
le idee, le percezioni per le rappresentazioni , le immagini degli
oggetti , ma che dedusse il filosofo di Kocnisberg da questa
definizio- ne ? L’ io essere un’ apparenza , e noi nell’
impossibilità di conoscere la sua esistenza : strano dcliramento ,
ma legittimamente dedotto da un principio scritto ne' filosofi. Chi
ignora la dottrina di Hurae sulla causalità ? Con es- sa il filosofo
inglese , oltre le perniciose illazioni per le scienze fisiche, ci vieta
di dedurre dall'esistenza del mon- do quella dell’ Ente Supremo ; ed i
filosofi sanno la filo- sofica rivoluzione che Kant formò, prendendo le
mosse dal falsissimo principio di Hume. E chi mai avrebbe creduto
che il sistema di Berkeley, per non dir ancora di Hume, è basato sulla
teoria delle idee di Locke? In fine, dando uno sguardo alle varie scuole
filosofiche, cioè scetticismo, dommatismo, empirismo, razionalismo,
materialismo, idea- lismo ec. agevolmente si verrà a capo di conoscere
l'im- portanza della discussione di quelle questioni, la soluzione
delle quali può mettere un filosofo in istato di cogliere la verità. Al
certo , che farà il filosofo ? Accetterà tutte le opinioni de' filosofi ?
Non già , perchè sarebbe ammettere nel pensiero la contraddizione.
Rigetterà tutti i sistemi? Nou è da savio , sendo in essi delle cose vere
miste alle false. Nè 1’ una nè 1’ altra cosa essendogli permessa ,
ecco il vero mezzo. Egli meditando e ravvicinando tutti i si- stemi
senza studio di parte , ne coglierà ciò che hanno di vero , rimuovendone
le falsità e migliorandone al pos- sibile le dottrine (7). Ecco l’
immensa fatica del Galluppi. L’ignoranza dello stato della filosofia fa
dunque riguarda- re cose vane , leggerissime baje , cose d' altissima
impor- tanza. Il critico ha pure osalo dire inutile la quislione
del modo con che l'anima conosce se stessa ; ma di ciò Digitized
by Google 99 iti appresso. Ma quali sono queste
leggerissime baje? Qua- li gli orlinoli inestricabili e vani ? Eccoli
: » Intanto s' accinge , segue A. S. , egli all' analisi »
delle umane facoltà facendo capo dal raziocinio; e do- li po aver parlato
sui giudizi , passa a quella , per lui e » per qualche altro, famosa
distinzione di raziocini' puri, » empirici, e misti. Ma dico io, se
questa distinzione far » non si volesse , qual danno si recherebbe al
progresso » di essa scienza ? » Queste parole fan chiarissima
fede dell' estesa cogni- zione che ha il critico della filosofìa. É in
filosofia la di- stinzione delle verità pure da quelle empiriche di
tanta importanza, quanto lo è avere buoni elementi filosofici. Non
sa il sig. A. S. che il Tracy per non aver fatto tale di- stinzione ha
adottato I 1 empirismo ? Sa le assurde conse- guenze della scuola
empirica ? Conosce egli che sull’ abuso di essa distinzione è fondata la
filosofia trascendentale ? Ignora le illazioni di quest’ ultima ? Or f
illustre Gallup- pi, il quale quanto estesamente conosca le metafisiche
vi- cende lo dicono le sue opere , principalmente il Saggio
Filosofico , ha senza trascorrere stabilito siffatta distinzio- ne ; cosi
tenendosi lungi e dall’ empirismo e dal trascen- dentalismo, ha adempiuto
le parli che a filosofo suo pari conveuivansi. » Proseguendo,
parla A. S., nella lettura m’ imbatto » al §. 6. ove nou mi soddisfa quel
tuono decisivo, eoa » cui pronuncia 1’ autore , che nelle conoscenze di
fatto , » se non si passa al mondo esterno, neppur sospettar si »
può di sua esistenza. Cosi un negro che non è giammai » uscito
dall’Africa, dice egli, (il Galluppi ) che non ha » veduto altri uomini
che quelli della sua nazione .... » crede fermamente che tutti gli
uomiui sieno uegri : » Che un italiano , clic nou avesse giammai
udito altro 100 » linguaggio che il suo,
crederebbe fermamente che tut- » li gli uomini chiamano 1’ astro del
giorno sole ». Il Critico qui fa dire al Galluppi ciò che questi
non ebbe mai in animo dire. L’ autore, sig. A. S., non dice che «
nelle conoscenze di fatto , se non si passa al mon- do esterno neppur
sospettar si può di sua esistenza » e voi solo lo dite , ed applicando
alla vostra espressione 1’ esempio del negro e quello dell’ italiano ,
credete far scorgere in esso autore un errore : ma chi v’ intende,
sen ride, c ragiona adducendo fatti. Il sig. Galluppi
stabilita nel §. V. la distinzione fra i giudizi puri ed impirici, viene
nel §. seguente a dimo- strare il diverso modo con che si fa acquisto
delle ne- cessarie e contingenti conoscenze; e dopo aver detto del-
la maniera di aver le prime, spiega che, per non imbat- tere in errore
nelle conoscenze di fatto, è mesteri percor- rere il mondo de’ sensi.
Trascrivo le sue parole onde ne giudichi il saggissimo lettore.
» Giovanetti , la distinzione delle conoscenze , della » quale vi
ho parlato, è della più alta importanza. Essa » vi farà conoscere il
diverso modo con cui dovete fur » acquisto delle conoscenze pure , da
quello con cui ac- » quistar dovete le conoscenze sperimentali. Voi non
a- » vele bisogno per le prime di gettarvi nel mondo ester- » no e
di percorrerlo parte per parte. No, queste cono- » scenze sono
indipendenti dall' esperienza de’ sensi u. » Voi dovete discendere
nel fondo del vostro pcn- » siero: dovete contemplare attentamente le
vostre idee; » queste conoscenze consistono appunto nel solo
rapporto » delle idee vostre. » Così per conoscere, che due
quantità uguali ad una » terza sono uguali fra di esse, che i) tutto è
maggiore » di ciascuna delle sue parti, voi non avete bisogno di
fa- » re alcuna osservazione : il vostro pensiero è in ciò
Digilized by Google 101 » sufficiente a se stesso.
Paragonate l’ idea del soggetto » con quella del predicato : la
convenienza del secondo a! » primo noti solo vi colpirà, ma voi
sentirete la necessità » di questa convenienza, e 1' impossibilità dell’
opposto. » Avviene altrimenti nelle conoscenze sperimentali.
» Voi avete bisogno , per farne acquisto , di recarvi nel » mondo de’
sensi e di percorrerlo parte per parte , di » osservarlo attentamente.
Ciò non ostante, se non pren- » derete le dovute precauzioni , correrete
rischio di ab- » bracciarc Io errore che volete sfuggire, e di non
prcn- » dere la verità che bramate conoscere, lo mi son pro- li
posto di nulla dirvi , che non possa spiegarvi con de- li gli esempi di
facile intelligenza. Un negro che non ò » giammai uscito dal mezzo dell'
Affrica, che non ha ve- ti duto altri uomini , che que’ della sua nazione
, e che » non ha inteso parlare degli altri popoli , senza dubbio »
crede fermamente, che tutti gli uomini sono negri, cd » egli ha di questa
proposizione la certezza più forte , » che possa derivare dal fatto e
dall'esperienza. Un gior- # no egli vede uomini bianchi ; 1' abitudine
produce in » lui la sorpresa , ma la sua ragione non soffre alcuna
» ripugnanza; egli vede qualche cosa d'insolito, ma non » vede un
impossibile, e si assuefa al bianco, come si era » assuefatto al nero.
Sarebbe lo stesso per noi , se non » avessimo giammai avuto conoscenza
dell'esistenza dei » negri, e che giungessimo a discovrirli.
» Noi siamo certi , o almeno crediamo di esserlo , » che non vi sia
alcun popolo di color verde. Intanto » che cosa vi sarebbe d’ impossibile
e di assurdo . se si » scovrisse qualche giorno un' isola , in cui gli
abitanti » avrebbero la tinta verde? Se alcuno di voi non uscisse »
fuori dell' Italia , non avesse giammai udito un' altro » linguaggio, che
l' italiano, non fosse stato istruito, che » altre nazioni , parlano un
altro linguaggio , crederebbe 102 » certamente ,
che lutti gli uomini chiamano I' astro del » giorno sole, e che ne
scrivono il nome, come qui sent- ii to lo vedete ; ed io non dubbio che i
ragazzi credano » il proprio linguaggio , il linguaggio naturalo di tutti
i » popoli. » Per evitar l’ errore nelle conoscenze
sperimentali , » bisogna dunque percorrere il mondo dei sensi , e
fare » un numero sufficiente di esperienze » (8). Dove è
dunque quel pensiero al Galluppi attribuito , che nelle conoscenze di
fatto, se non si passa al mondo esterno, neppur sospettar si può di sua
esistenza? Secon- do il solito, nella testa del sig. A. S.
Segue il Critico « Io non veggo il perchè debbesi » così credere, e
parmi che in questo §. abbia fatto l’uo- » mo inferiore all’ arang-outang
, o ad altro bruto me- li no sagace , il quale quantunque non abbia
veduto ani- » male di altra specie , e d' altra forma , pure
sospetterà » clic ve ne sia e se 1’ immaginerà alla fantasia ».
Bene sig. A. S. ! I filosofi ve ne sapranno grado infinitamente. Io
sapea per lo passato che i bruti più vi- cini all’ uomo fossero forniti
della facoltà di sentire , di qualche grado di attenzione , di memoria,
appetiti, spon- taneità , ed eziandio , secondo altri filosofi , di un
grado infimo di giudizio , raziocinio limitato ad alcuni oggetti
entro la sfera dei sensi , al tutto ristretto ai loro biso- gni : ma che
avessero la fantasia n’ era al certo ignaro. E si, che poi V arang-oulang
od altro bruto meno sagace, il quale quantunque non abbia veduto animale
d' altra specie, o d’ altra forma , pure sospetterà che ve ne sia e
se l' immaginerà alla fantasia , è scienza tutta peculiare del valente
Critico : e chi non vede aver egli con queste parole alle bestie
attribuito ciò che all’essere intelligente per eccellenza si conviene? Se
ai bruti non possiamo con- cedere altre facoltà , se non quelle che le
loro operazioni ’Dìgitizec Tby Go egle
103 ci manifestano, io rorrci sapere da quale operazione
ani- malesca il critico è stato indotto a dar loro la fantasia. Ma
se poi si vorrà inventare, credendo esser ciò permes- so, allora fìneremo
col chiamare a nuova vita le volitanti immagini sensibili di Democrito e
di Epicuro, V armonia prestabilita di Leibnitz, e tutte le belle
invenzioni de' fi- losofi antichi e moderni. »... Quante cose
non vedute nè intese l’ uomo im- » maginar si può colla vantata da lui
sintesi ideale ! » Dove avete pescato , sig. Critico , che pel
Galluppi la sintesi ideale immagina ? In Galluppi non già ; certo
nel concavo della luna. « Quell' operazione dello spirito » dalla quale
nascono le relazioni o i rapporti , io la i> chiamo sintesi ideale
(9). — Concludiamo , lo spirito » umano ha la facoltà di riunire in una
percezione cora- » plessa , alla quale non corrisponde alcun oggetto
natu- » rate, diverse percezioni , che hanno ciascuna un ogget- »
to naturale : io chiamo questa specie di sintesi, sintesi » immaginativa
» (10). Cosi il Galluppi. Quindi ad evi- denza conoscesi, che la sintesi
ideale non immagina , ma da essa provvengono i rapporti di identità e
diversità ; cose note ai lettori ragazzi degli Elementi di Filosofia
di esso autore, perchè cose di fatto. Non senza ragione per- ciò
osservo essere quest' errore un' altra prova della su- perficialità con
che il sig. A. S. ha studiato la Filosofia del sig. Galluppi. Ma vediamo
quel che il signor A. S. asserisce riguardo ai giudizi puri.
» Se poi i giudizi nominati puri sieno tali, a prio- » ri e
indipendenti dall’ esperienza, come egli vuole, è un » nodo per me più da
tagliarsi che da sciorsi. É vero » che tali dal più dei metafisici si son
tenuti, perchè si » reputano vedute dello spirito , e nozioni generali ,
che » portano un convincimento sommo per 1' evidenza con » cui si
presentano ; non per un popolo , nè per un’ e- 104
» poca del mondo , ma per tutti i tempi. Pur non di » meno chi ci
assicura, che non abbiano per base ciò che v si vede e si palpa, da die
l'uomo comincia la sua vita » animale colla facoltà di sentire, e che dai
confronti che » quindi ne fa la ragione risultino quali assioni
Decessa- li ri ? Chi mi fa certo che non sia nato dal rapporto »
giornaliero che si fa di cose vedute e tocche , quando » poca è 1'
attenzione , quel giudizio detto puro che due » quantità uguali ad una
terza sono uguali fra di esse ? » 0 che al più altro non vi ha di priori
, se non una » predisposizione naturale a concepire rapidamente siffatti
» rapporti ? Per assicurarci bisognerebbe ritornare alla » nostra prima
età, o pure risovvenirci di ciò, che pas- » sava allora dentro di noi ;
ma, per disgrazia, non ci è » concesso nè 1' uno uè altro. Per me son
fermo die se » 1’ uomo in riguardo a’ sensi fosse una statua prima
di » tali organi, o, se avendoli, non vi fosse mondo ester- » no,
cesserebbero queste vedute di spirito, questi giudizi » a priori,
meuoccliò si volessero ammettere idee, priu- » cipi innati, ed il credulo
pretto idealismo ». Ci ideano altro che queste poche parole per
mette- re in forse una verità sì bene stabilita nell' opuscolo sul-
f Analisi e la Sintesi, nella Logica, nel Saggio Filosofico e nelle
Lezioni di Logica e Melafisica, opere tutte , co- me ognun sa , del
Galluppi. Primamente il critico dice , che tali conoscenze dal più de'
metafisici si riguardino co- me pure , cioè indipendenti dall’ esperienza
, e ciò pel convincimento sommo, per l'evidenza con cui si
presenta- no, non per un popolo, nè per un epoca del mondo, ma per
tutti i tempi e tutti i luoghi; il che è vero. Or es- si metafisici
considerando che altre conoscenze ( le speri- mentali o contingenti ) non
sono per tutti i popoli , nè per tutte le età , che per acquistarle e
mestieri fare un gran numero di sperimenti , come lo provano le
fisiche 105 Tenta, per questo, io dico, hanno
stimato le une a prio- ri , le altre a posteriori. Tolgo a trascrivere i
pensieri dell’egregio Galluppi, onde far chiara la distinzione fra
le verità necessarie e quelle contingenti. » Noi abbiamo due
sorti di proposizioni generali. » Ogni cerchio ha tutti i raggi uguali ,
ceco una propo- li sizione generale. Ogni corpo è grave , ecco un’
altra » proposizione generale. Questa seconda, almeno per rap- »
porto al nostro spirito , è d' una natura diversa della » prima. Nella
prima io trovo nell’ idea del cerchio la d ragione onde affermare l’
uguaglianza de' suoi raggi ; » conosco evidentemente che fra 1' idea del
cerchio , e » quella dell' uguaglianza dei suoi roggi vi ha una
con- » nessione necessaria in maniera , che se si negasse del »
cerchio 1’ uguaglianza de’ suoi raggi lo spirito vedreb- » be in questa
negazione una contraddizione reale. Non » avviene però lo stesso nella
seconda: ogni corpo è gra- » ve , è una verità generale , ma è una verità
, che noi » non conosciamo col semplice paragone delle due idee »
universali di corpo e di gravità , ma col solo rapporto » dell’
esperienza : noi non vediamo fra l’ idea che attac- » chiamo a questo
vocabolo Corpo , eh' è quella di un » essere esteso, figurato ,
divisibile, impenetrabile, c l’ i- » dea della gravità , un legame
necessario in maniera , » che negando al corpo la sua gravità, si
verrebbe a di- » struggere la sua idea di essere esteso , figurato ,
divi- » sibile , mobile , impenetrabile. L' esperienza mi fa co- b
noscere abbastanza , che tutte queste qualità coesistono » sempre in
natura colla gravità ; ma non vi veggo fra » le prime e la seconda una
necessaria connessione (11). É inutile far comenti a pensieri
cotanto chiari. Che poi siffatte conoscenze non abbiano per base , come
vuole H critico , ciò che I' uomo vede c palpa da che comincia la
sua vita intellettuale, non è difficile conoscere. Peroc-
106 chè infinite cose 1' uomo percepisce dal principio
della sua intelligenza , eppure non ne vede un necessario rap-
porto , nè un impossibile o contraddizione nell’ opposto. Vaglia quest’
esempio. Non avvi cosa che dall’ uomo cosi si appara, perchè si sente
incessantemente, cioè il peso de* corpi, pur tutta volta per poter dire i
corpi pesano, quante esperienze furori necessarie ? Furono gli
esperimenti bel- lissimi di Paschal che ci dettero tal diritto. Il che
dimo- stra tali conoscenze essere a posteriori , o 1’ espressione
sinottica de' fatti particolari. Ma nelle verità matematiche, come va la
faccenda? Al certo in altro modo. Il geòmetra per affermare dell’ idea
del cerchio , che il diametro è la massima di tutte le corde, non osserva
tutti i circoli esi- stenti , operazione impossibile , meditando bensì
sulle sue idee ne è colpito dall' evidenza , e dalla contraddizione
dell’ opposto. Egli , io replico , per conoscere che tutti i raggi del
cerchio sono uguali, ha forse bisogno di esami- nare tutti i cerchi possibili
e di misurare col fatto tutti i loro raggi ? Chi oserebbe asserirlo ?
Queste verità , e- sprimendo rapporti d’ idee , la loro generalità non è
de- dotta da' casi particolari : è la contemplazione sulle idee
astratte che somministra al matematico tali conoscenze. E Condillac
medesimo, che nel trattato de' sistemi adotta 1' empirismo , area
insegnato e bene distinto 1’ evidenza di ragione dall ' evidenza di fatto
nell’ Arte di Ragiona- re. Or , tralasciando la contraddizione di quest'
illustre pensatore, io dico, è la riflessione sulle idee che
produce 1' evidenza di ragione. Inoltre io penso che dagli
esempi de’ fanciulli cal- colatori estemporanei possano desumersi molte
induzioni per abbattere l' empirismo. Vincenzo laccato che , per
nou dir degli altri , in età si tenera e , che più monta , inalfabeta,
conosce i rapporti de’ numeri, a tal che appe- na enunciato il problema ,
lo risolve , dimostra il potere Digitized by Google
107 dello spirito di conoscere indipendentemente dall'
esperien- za i rapporti delle numeriche quantità. Quantunque nel
divino intelletto di quell' amabile fanciullo questo potere sia in. sommo
grado, significa sempre, a chi ben vi con- templi, eh’ esse verità sono a
priori e non dipendenti dal- le osservazioni de' sensi. Un fanciullo
fisico estemporaneo, inalfabeta, non è stato veduto, e certamente non
sorgerà giammai , perchè senza molte e molte sperienze c racco-
gliendo fatti è impossibile conoscere il mondo fisico. Laon- de ciò che
si sente, e sia detto in buona pace dei signor Critico, è la base ancora
delle idee che formasi l'intellet- to , e non di alcune relazioni che
vede a priori. È ne- cessario distinguere, secondo il Galluppi, elementi
del giu- dizio da quest’atto mentale stesso. Gli elemeuti, cioè f
i- dee, sono sempre a posteriori, fattizie , non ingenite , le
conoscenze noli sempre a posteriori, come avviene nelle ve- rità
matematiche. Egli fermamente crede, che vari filosofi hanno detto tutte
le conoscenze aver origine dall’esperien- za, la qual cosa è empirismo,
perchè filosofi sommi, i qua- li si fecero a provare le conoscenze
universali, necessarie, a priori, riputarono ingenite, innate, a priori
le idee ele- menti di queste conoscenze. Ma la quistione sull’
origine dell’ idee è indipendente , non ha rapporto con quella se
tali conoscenze sieno a priori o a posteriori ; e I’ esimio Galluppi ha
inteso scegliere una via di mezzo (12). Egli ha ammesso le conoscenze a
priori, ma ha rigettato ben- sì , facendone vedere estranea la
connessione, le idee in- nate credute necessarie da Arnaldo , Leibnitz ,
Kant. Si arroge a ciò che il capo scuola , il celebre Locke , del
quale è oggimai notissima la teoria sull’ origine delle idee, adotta la
distinzione tra le conoscenze di cui parlo (13); e Condillac e Tracy
avrebbero dovuto por mente a ciò. Degerando , fautore della Lockiana
teoria sopra l’ origine dell’ idee, pure ammette essa distinzione
(14). 108 Dopo di ciò ognun si accorge della
futilità de' dub- bi del sig. A. S., se avvi bisogno di ritornare alla
nostra primà età ec. ec. bastava leggere, non dico i Nuovi Saggi
del gran filosofo di Lipsia e le opere di molti altri , ma le opere de'
signori Degerando c Galluppi per cavarsi di errore. Quelle
ultime parole poi del Critico « Per me son » fermo che se l’ uomo in
riguardo ai sensi fosse una » statua priva di tali organi, o se avendoli,
non vi fosse » mondo esterno, cesserebbero queste vedute di
spirito, » questi giudizi a priori, menochè si volessero aromette-
» re idee , principi innati , ed il creduto pretto ideali- tà smo » son
parto, scusi il sig. A. S., di bassa e meschi- na logica. Per Galluppi ,
Signor mio , le idee sono a po- steriori e , come dicesi , provvedenti
dall' esperienza ; le conoscenze sono alcune contingenti, a posteriori,
altre ne- cessarie, a priori: le prime conoscenze hanno origine
dal- 1' osservazione sui fatti , le sccoude dalia contemplazione
sopra le idee operata dalla mente. Se dunque rimuovere- te dallo spirito
le idee elementi de' giudizi , non avrà e- gli più nissuna specie di
conoscenze , mancandogli i ma- teriali su cui agire , ma non perciò potrà
dirsi privo del potere di formare essi giudizi , o che questi sieno a
po- steriori. Ragionerebbe a modo del Critico il sensualista , il
quale per dimostrare che le facoltà dell’anima sono tut- te rinchiuse
nella sensibilità , dicesse : lo son fermo che se 1' uomo in riguardo ai
sensi fosso una statua priva di tali organi , o se avendoli non vi fosse
mondo esterno , cesserebbero queste facoltà dello spirito, menochè si
vo- lessero ammettere idee, principi innati, ed il creduto pret- to
idealismo. E spingendo il raziocinio del signor A. S. sino alle sue
ultime illazioni , si verrebbe a provare non esser necessaria l' azione
delle macchine per avere dei prodotti : perocché per me son fermo, che se
non vi fos- 109 sero materie grezze , cesserebbero
queste manifatture od altro , menochè ai volessero ammettere nelle
macchine o negli strumenti materie innate ec. Nulla dico di più ,
perchè la falsità del ragionamento del Critico salta agli occhi de’
lettori , che appena distinguono cinque da sei. Passa il Critico A.
S. a parlare del famoso proble- ma di Kant, vale a dire, se sieno
possibili i giudizi sin- tetici a priori che non solvonsi al principio di
contraddi- zione. Ei crede non esser soddisfatto dall’ esempio
della neve , e gli sembra andare dritto il sentimento di Kant , che
asserisce giudizi sintetici necessari, sebbene non sie- no a priori, nè di
necessità assoluta , ma fisica, lo vor- rei schiarimenti su ciò ,
sembrandomi che giudizio sinte- tico non sia conciliabile con necessario.
Tutti i giudizi sintetici sono empirici e contingenti ; perchè 1'
essenze de' corpi ci sono ignote , e non possiamo perciò giammai
vedere una relazione necessaria fra i termini di siffatti giudizi. Non è
cosi nel piano ideale della ragione : 1' es- senze degli esseri
matematici son cognite. È dunque l’ i- gnoranza dell’ essenze che fa
essere le verità sperimentali, riguardo allo spirilo, contingenti, nel
mentre le verità pu- re , delle quali son conosciute 1’ essenze , son
necessarie. Ed io penso , che se i filosofi empiristi avessero
posto mente alla ignoranza dell' essenze de' corpi ed alla scien-
za di esse negli esseri ideali , avrebbero portato diversa opinione di
quella, che stima tutte le conoscenze essere a posteriori.
Medesimamente avrei desiderato sapere il perchè non giova
contrastare a Kant il suo problema de’ giudizi sin- tetici puri , che al
principio di contraddizione non risol- vonsi. La distinzione poi della
logica delle idee da quella dei fatti scende dall' inconcusso principio,
che i giudizi so- no di due modi , puri cd empirici ; il che , come ho
di- mostrato , il Critico nou arrivò ad intendere. In quanto
110 alla distinzione fra giudizio e definizione nulla dico ,
per- chè il lettore filosofo sa i sensati pensamenti degli illu-
stri Wolff e Laromiguiere (15) , e Galluppi ha cammi- nato sulle loro tracce.
11 sig. A. S. scende a parlare sopra la distinzione della
definizione in nominale e reale , e cosi conchiude : » Ma Signor a pretto
dire io nulla veggo d’importanza; » altro non iscorgendo che una
conversione di proposizio- » ne , dove l’ attributo può sostituirsi al
soggetto , ed il » soggetto all' attributo , non le converto , perchè
ogni » leggitore può da sé convertirle ». O non si può, o non
si vuole intendere ciò che di- ce il signor Galluppi ; e mi fa pena
ribattere critiche si futili , che al certo son vere baje. Le parole deH’
autore confermano la mia osservazione. » L’ idea di uno è
semplice , ora se io vi fo osser- » vare, che voi potete aggiungere uno
ad uno e formar- » vi così l' idea di un insieme , di un tutto, le
cui par- » ti son uno ed uno , e che a questo tutto potete
dare » il nome di 2 ; io vi presento la definizione del 2. lo
» vi do ugualmente la definizione del 2, se vi dico: il 2 » è 1 + 1
. Ma osservate che nel primo caso io vi condu- » co dall' idea al vocabolo
, laddove nel secondo vi con- ti duco dal vocabolo all' idea ».
» Osservate di più , che nel primo caso vi spiego » distintamente
la generazione dell’ idea, facendovi osser- » vare, che l’idea del 3
nasce in voi dal potere, che ha » lo spirito di replicare l’ idea dell’
uuo , e di riunire » queste due idee in una. Egli è vero , che definendo
il » due nel secondo modo la generazione dell’ idea dei 2 » anche
si vede ; ma vi ha delle definizioni , in cui an- » dando dal vocabolo
all' idea, questa generazione non ap- » parisce. Se io dico : il circolo
è una superficie piana, » terminala da una linea curva , la quale
superficie ha Digitized by Google! Ili »
un punto in mezzo, da cui tutte le linee rette, che si » (trono a questa
curva sono uguali ; allora io vado dal » vocabolo all* idea e non
presento la genesi dell' idea ; » laddove avviene il contrario nella
seguente definizione : » se una linea retta terminala si concepisca
muoversi in » una stessa superficie piana, restando immobile uno
dei » suoi estremi , e movendosi l' altro intorno del primo , »
finché ritorni allo stesso punto donde incominciò e muo- » versi , la
figura che nasce da questo molo , si chiama » circolo. In questa
definizione io vado dall’ idea al vo- » cabolo , e cosi facendo spiego
insieme la generazione » dell’ idea ». » È molto importante
di distinguere questi due mo- » di di deGnire ; allorché avrete fatto
qualche progresso » nella filosofia vi accorgerete di questa importanza.
La » definizione , in cui si va dall' idea al vocabolo , e si »
spiega insieme la generazione dell' idea si chiama defi- » nizione reale
o genetica. Quella in cui si enuncia so- » lamento il complesso dell'
idee , legato al vocabolo che » si definisce, senza occuparsi della
generazione di questa » idea , si chiama definizione nominale. Ve ne do
un al- to tro esempio: Se io, volendo definire la logica, dicessi :
» la logica c la scienza del raziocinio , farei una defini- to zionc
nominale, menandovi dal vocabolo logica all'idea, » che a questo vocabolo
voglio legare. Ma se , per darvi » la definizione della logica , io
procedessi a questo mo- to do : gli uomini fanno naturalmente de'
raziocini difet- to tosi : ciò ha obbligato coloro che si sono applicati
allo » studio della filosofia , di esaminare 1’ atto intellettuale
» chiamalo raziocinio; c di determinarne le leggi del ra- to ziocinio : a
questa scienza del raziocinio hanno dato » per l'appunto il nome di
logica. Così procedendo io vi » menerei dall' idea , che lego al vocabolo
logica , al vo- 112 » cabolo stesso , e vi farei
conoscere la generazione di » questa idea (16j. Da queste
parole ognun si avvede , quanto siasi di- lungato dal vero il sig. A. S.,
asserendo io nulla veggo d' importanza , altro non i scorgendo che una
conversione di proposizione, dove l'attributo si può sostituire al
sog- getto , ed il soggetto all’ attributo. Egli ha , per non dir
di peggio , olla scapestrata pensato che il signor Galluppi creda
definizione nominale, p. e., la logica è la scienza del raziocinio , e
definizione reale o genilica , la scienza del raziocinio dicesi logica :
ma da qual parola del Galluppi può ciò desumersi ? Da nissuua. Le
definizioni dell’auto- re sono evidenti , gli esempi evidentissimi. Nella
defini- zione reale si t-a dati' idea al vocabolo e si spiega la
ge- nerazione dell' idea ; come può chiaramente conoscersi dagli
esempi del circolo e della logica da esso filosofo ad- dotti , ne’ quali
si dà contezza della genesi di tali idee , c non vi ha affatto la pretesa
conversione. Nella definizio- ne nominale si enuncia solamente il
complesso delle idee semplici , senza occuparsi della generazione di
questa i- dea. S' intende il significato della voce generazione ? . .
. Per rilevare in fine la diversità delle due definizioni ba- stava
scorrere imparzialmente, oltre il §. 24 che ho tra- scritto , il §. 52 in
cui f autore dà la genesi dell’ idea del punto ; in tal modo avrebbe
evitato di venderci si bello errore. » Va a ribocco poi, dice
A. S., la mia confusione a » quella per me inconcepibile legge ideologica
da lui pro- » rnulgata. Conchiudiamo che i vocaboli, che
costituisco- » no una definizione possono essere o segni immediati
» d’ idee o segni immediati di vocaboli. In conseguenza » lo spirito può
passere dalle idee a' vocaboli , e da’ vo- » caboli ad altri
vocaboli e questa è un’ osserva- » zinne assai importante. Che
laberinto, donde neppure la Digitized by GoogIe|
113 n stessa Minerva ciò trarmi ! Vocaboli segni d' altri vo-
li caboli ! Sarà cosi ; io però mi perdo in un profondo » abisso
filosofico ». Vi lm di che ridere leggendo queste parole. Il
cri- tico avrebbe dovuto esporre i motivi della sua confusione,
come pure far vedere la falsità de’ principi da cui il Gal- - luppi
deduce cosi fatta legge , o che non scende da essi legittimamente ;
perchè essa non è asserzione , ma bensì illazione. Egli non ha fatto nè
1' una cosa nè 1' altra , e perchè ? . Ecco i principi donde il filosofo
profondo trae la sua legge, e giudichi a suo senno il leggitore
del supposto laberinlo, se avvi d' uopo di Minerva cc. cc. »
Perchè una definizione possa farmi legare al vo- li cabolo definito un
idea complessa , è necessario che io » intenda il senso de’ vocaboli ,
che la compongono : ora » ciò può accadere in due modi: 1° se i vocaboli
di cui » si fa uso sono segni d' idee semplici: 2° se essendo se- »
gni d' idee complesse sieno stati antecedentemente de- li finiti. In
questo secondo caso il degnilo è segno di al- » tri vocaboli , i quali
son segui di altri vocaboli. Se io » dico : il parallelogrammo è un
quadrilatero , » cui » lati Opposti son paralleli ; un uomo che ignorasse
la » geometria, ed in conseguenza le definizioni del quadri- » Intero
, e delle linee parallele , non legherebbe alcuna » idea al vocabolo
parallelogrammo ; ma se questa defini- » zione del parallelogrammo vi
sarà presentata , dopo di » avervi definito il quadrilatero per una
superficie pia- li na terminata da quattro linee rette , e le linee
paral- » lei e, per quelle rette, le quali prolungate, per quanto »
si vuole, non s'incontrano giammai, serbano sempre la » stessa distanza
fra di esse ; allora il vocabolo paralle- » logrammo vi desterà un' idea
; ma osservate che que- ll sta idea non è immediatamente legata al
vocabolo pa- li 114 » railelogrammo ;
questo vocabolo è legato a questi vo- » caboti quadrillatero , « cui lati
opposti son paralleli ; » o per dir meglio questo vocabolo è segno di
questi al- fe tri vocaboli : questi vocaboli sono inoltre segni di
que- » st’ altri superficie piana terminala da quattro linee »
rette ; delle quali le due opposte fra di esse prolunga - » le per quanto
si mole non s’ incontrano giammai , e » serbano sempre la stessa distanza
fra di esse. Questi » ultimi vocaboli sou segni immediati delle idee ,
che » costituiscono l' idea complessa , che si vuol legare al »
vocabolo parallelogrammo. Adduciamo altri esempi. Se » io, volendovi dare
la nozione di Dio, vi dicessi : Iddio » è spirito eterno creatore di
tutti gli esseri : se poi vi » dicessi , che lo spirilo è una sostanza
semplice iutelli- » gente, e che la creazione è la produzione delle
sostan- » ze finite ; e che I’ essere eterno è ciò clic non inco- »
mincia ad esistere, c che non è prodotto ; il vocabolo » Dio sarebbe
allora segno di altri vocaboli di spirilo e- » terno creatore di lutti
gli esseri. Questi secondi voca- li boli sarebbero ancora segni di altri
vocaboli , cioè dei ii seguenti, sostanza semplice intelligente , che non
inco- » mincia ad esistere , nè è prodotta , e che ha prodotto »
tutte le sostanze finite. Questi ultimi vocaboli finalmen- » te sarebbero
segni immediati d' idee. » Concludiamo che i vocaboli , i quali
costituiscono » una definizione , possono essere , o segni immediati
di » idee, o segni immediati di vocaboli. In conseguenza lo »
spirilo può passare delle idee a vocaboli , c dai voca- » boli ad altri
vocaboli, e cosi di seguilo; e può ancora » scendere da un vocabolo ad
altri vocaboli, e da questi » di seguito ad altri e giungere così alle
idee : è questa i> una osservazione molto importante (17) ».
Le quali parole son troppo ciliare, non dico per chi ha mente
filosòfica, ma per chi non è privo di senso co- Digìtized by
Google 115 munc : in grazia intanto di colui che
non ha concepito le dottrine del Galluppi, mi sia lecito dire un nonnulla
, senza offendere perciò la sagacità del lettore. Non può
mettersi in dubbio che per intendere un vocabolo deGnito , ò mestieri
conoscere il senso de' voca- boli che compongono la deGnizione ; cosi per
legare 1’ i- dea al vocabolo logica debbono intendersi le parole
scien- za del raziocinio , le quali formano la definizione , senza
della quale intelligenza la mente ignorerà l' idea della logica siccome
da principio. Parimenti è certo , che può coucepirsi il senso de’
vocaboli costituenti una deGnizione. in due modi : primamente se i
vocaboli di che si fa uso son segni di idee semplici , come 2 è 1 f 1 ,
nel qual caso è chiaro che le parole 1 f 1 non essendo definibili ,
perchè segni d’ idee semplici , eccitano immediatamente le idee , che
dallo spirito son legate ni deGnito due. In secondo luogo, o essendo
segni d' idee compiesse, sieuo sta- ri antecedentemente dcGuiti : in
questo secondo caso i vocaboli, de' quali componesi la deGnizione, sono
segui di idee complesse , e suppongono , per essere dall'
intelletto legata un' idea complessa al vocabolo deGnito, la loro
de- finizione , il che vuol dire, essi vocaboli son segui , cioè
eccitano , altri vocaboli , e questi l' idea che al definito congiungesi.
Difatti è evidente , anzi evidentissimo , che nell' esempio della logica
, se io ignorassi la definizio- ne del vocabolo scienza e quella della
parola raziocinio , nullo saprei dopo la medesima definizione dalla
logica ; stnntcchè i vocaboli che formano la definizione predetta
son segni d'idee complesse, e debbono essere definiti on- de legarsi f
idea complessa al vocabolo definito. È dun- que in tal caso che i
vocaboli ec. , e la legge del signor Galluppi , anziché confonderci , è
chiara e ottimamente stabilita. Viene, dopo di ciò, il sig.
A. S. alla esposizione del- 116 le dottrine del
Pezzi per rilevarne il merito. Egli è fuor di dubbio, che alcune
cognizioni relative al fisico umano, secondo che io credo , sono
indispensabili alla completa cognizione dello spirito ; ma è errore
grande il credere che le dottrine del signor Galluppi debbano riputarsi
di lieve momento , e , come tortamente asserisce il Critico ,
leggerissime baje , articoli inestricabili, cose inutili , fra- sche d‘
inette quislioni metafisiche. Io ho di già aperto il mio parere sulla
loro importanza , e dirò ora che co- lui , il quale si avvede la Glosofia
intellettuale essere alla morale, olla politica, alla economia, alla
legislazione, alla letteratura ciò che le matematiche sono alle scienze
fisi- che , e conosce lo varie scuole filosofiche , darà biasimo
alla opinione che inutili stima quelle minute indagini , e ne riconoscerà
l' altissima e grave importanza. Il Pezzi ha pure inteso la necessità di
ricerche sottili. » Ma la » dultrina semplice e saggia di Federico , che
pure fu » quella di Socrate , non può serv ire di base alle nostre
» istituzioni , da che si sono moltiplicate le dotte ricer- » che ed
assottigliate le indagini a segno tale , che gli » stessi articoli
fondamentali della morale sembrano di- » venuti problematici. Perciò la
piò temperante filosofia » ò presentemente costretta ad intraprendere minuti
esa- » mi, onde scoprire la verità smarrita tra il laberinto di »
inestricabili controversie e di sottili raffinamenti (18). Quantunque il
dotto Pezzi si mostri qui conoscitore della indispensabilità di minuti
bensì , ma oggimai interessanti esami, pure non mi è venuto fatto di
vedere cenno nella sua opera di molte quislioni di non lieve
im|>ortauza , e la cui soluzione può formare la base inconcussa della
fi- losofia. Ila dunque molla ragione , e sia detto per sem- pre ,
il Galluppi di scendere a sottili discussioni , perchè in tal modo si può
dare solido sostegno alla scienza , al- lontanandosi da qualunque scuola
, mcnochò da quella che Digitized by Google 117
raccoglie ciò, che in ogni sistema ovvi di vero c si stu- di a
tutto potere di perfezionare la scienza. Per chi ha fior di senno le mie
parole som troppo evidenti. Inoltre il profondere elogi al Pezzi,
perchè « la vi- » ta dell* uomo sia vcgitabile , sia animale , la
riconosce » da un sol principio detto anima » è rendere laudi ad
una contraddizione di esso autore. Imperocché egli stabi- lisce prima la
distinzione tra la vita vegetativa e P ani- male , e con buone
osservazioni appoggia detta distinzio- ne , poi dimenticando ciò che area
detto , asserisce una sol vita esser nell’ uomo. Ecco per disteso le
precise pa- role di esso filosofo. » Un vegetabile si
sviluppa , cresce, si mantiene, si » riproduce , invecchia e muore. Tutti
questi fenomeni » compariscono derivanti dalla simultanea azione degli
or- » gani, suscitala da qualche agente meccanico, nel che è »
riposta la vita vegetativa .... » Ma sia inerente nei vegetabili
questo loro prin- » cipio vitale , oppure sia estrinseco al loro
organismo, » ho detto eh’ è un agente meccanico , perchè nelle
loro » funzioni i vegetabili ubbidiscono essi pure alle leggi
fi- » siche universali della natura : per cui si possano pre- »
sagire i loro fenomeni senza timore d'inganno. Ma ben » diverso è 1’
aspetto sotto cui un animale si presenta. » Oltre gli accennati
fenomeni, che in voi ed in lui pure » scorgete , vi compariscono i
mirabili effetti della sensi- » bilità nervosa. Siete convinti di sentire
, di pensare , » d' imprimere il moto spontaneamente, e vedete nei
vo- » stri simili i segni non dubbi' delle medesime operazio- o ni.
Fi è dunque in voi ed in essi un altro principio d attivo diverso dal
primo che le produce : principio » costituente la nostra essenza ; che vi
fa autori delle » particolari vostre funzioni ; che può sottrarsi alle
leggi » fisiche universali , del quale perciò non si vorrebbero
118 » con certezza a vaticinarne gli effetti :
principio cha » non traiuce nei vegetabili; ed appunto alla sua
presen- ti za meritamente si ascrive una seconda vita, quella che »
dicesi vita animale ». v Qui 1' autore , come ognun può da sè
rilevarlo , distingue 1° la vita vegetativa dall' animale ; 2°
attribui- sce la prima ad un agente meccanico, da cui provengono i
fenomeni comuni a’ vegetabili , 3° riferisce la seconda ad un principio
attivo diverso dal principio meccanico , principio attivo che non traluce
ne’ vegetabili , il quale produce i fenomeni del sentire, pensare, volere
ec. Quin- di fa nel §. 39 vedere i punti di contatto fra queste due
vite ; poi nel §. 40 cosi scrive : » Se abbandonato il corpo dui
principio animatore , » spariscono ben presto i fenomeni della vita
vegitotiva , » e gli organi senza moto e perciò inetti a riparare
le » perdite , cedono agli agenti che gli riducono materia »
inorganica ; è indubitabile altresì , che sospeso codesto » moto e quella
vita perduta, vengono pure a dileguarsi » talmente i fenomeni del
summentovato principio da non » potersi dubitare aver egli cessato di
appartenere più a\ » corpo. Dal che vi è forza il conchiudere , che in
noi » sopprattutto tanta è la promiscuità delle vite di cui vi »
parlo, che in onta ai manifesti indizi della precisa lo- fi ro
distinzione , possono considerarsi come costituenti » una vita sola
». É qui certamente il signor Pezzi si contraddice. Se egli
ammise per la vita vegetativa un principio meccani- co, e per la vita
animale un principio aitino, detto anima, diverso da quello , come ora
asserisce che una sol vita cvvi nell' uomo ? Come ora dice che qualunque vita
, sia vegetabile , sia animale proviene dall’ anima ? Non avea
detto nel §, 38 che la vita animale non è confondibile colla vegetabile ?
E quantunque abbandonato il corpo dal- Digitized by Google
119 r anima spariscono i fenomeni della vegetazione, e
sospe- so il moto della vita vegetativa dileguatisi le funzioni
dcl- I' essere pensante , non segue da questo che una sia la vita
dell’ uomo, ma che ciò avvenga per legge di unione dell' anima col corpo
; unione costituente 1’ uomo. Que- sta osservazione dovea farsi dal
Critico. Nè sembrami da buon filosofo il §. 39 del VII. ca-
pitolo , dove il signor Pezzi si fa a dimostrare le diffe- renze Gsiche
tra 1' uomo ed il bruto. 11 dotto autore in tal modo scrive :
» L’Orang-outang, che pur sovente cammina su due » piedi, oltre di
essere peloso per modo che il suo tatto » non ò squisito, ed aver mani
per ruvidezza e per for- » ma mollo inferiori alle nostre , ha eziandio
il sommo » svantaggio che non può articolare parola , perchè un »
doppio sacco membranoso , situato presso la faringe , » soffoca la sua
voce. Se 1' organo di qualche volatile gli » concede di pronunziare
alcuni nostri vocaboli , non si » può dire per questo che parli. Parlare
non è già sol- » tanto pronunziare parole , ma conoscere altresì la
re- » lazione che passa tra ognuno di questi suoni c l' idea , » la
nozione , 1' affetto di cui è esso segno ; ed appunto » questo
conoscimento manca a quei bruti che ripetono » le nostre parole , perchè
non ne intendono il signifi- » cato , nè sanno usarne come segni espressivi
dei loro » pensieri o bisogni ». Chi considera bene queste
parole , si accorgo facil- mente che il Pezzi nulla diee confacente allo
scopo del suo capitolo. Egli vuol mostrare le differenze fisiche
fra l’uomo ed il bruto, e dopo averne accennato alcune, vie- ne al
§. che ho trascritto col titolo — Privilegio della favella — dice che 1’
orang-outang non può articolare pa- rola pel doppio sacco membranoso
presso la faringe, e ciò è esalto : poi, quasi prevedendo l' obbiezione.
Se l' orga- 120 no di qualche volatile cc. cc. É
vero anzi , verissimo , che gli animali, i quali pronunziano alcune
nostre parole, non parlano , perché non sanno il rapporto fra il
suono e d' idea, di cui è segno, ma, Signor mio, non ò per la
mancanza di organi, ma pel corto conoscimento della loro anima : il che
importa non essere più una differenza fi- sica fra l'uomo ed il bruto, ma
bensì intellettuale. Spie- go ciò più largamente. L'autore, per rispondere
al titolo del suo capitolo, avrebbe dovuto concludere in altro mo-
do. Se alcuni bruti ripetono alcune nostre parole , pro- nunziano alcuni
nostri vocaboli , ciò prova 1' attitudine de' loro organi vocali, c per
questo non vi ha differenza fisica fra 1’ uomo ed il bruto. Che poi essi
non parlano , cioè, non conoscendo le relazioni fra le parole e le
idee, stupidamente le rq>etono , dimostra la loro corta intelli-
genza ; e questa è una differe nsa intellettuale. Il parlare perciò nell'
uomo non proviene dall’ avere esclusivamente organi vocali , ma dall'
essere munito , oltre degli organi a ciò idonei, di altissima
intelligenza, quando qualche bru- to , sebbene possessore di tali organi
, non parla per di- fetto delle sue mentali potenze. Quindi i pensieri
del Pez- zi buoni, a mio avviso , per far vedere che non agii or-
gani soli della voce debbe attribuirsi il parlare che fa l’uomo, ma bensì
al suo sommo intendimento, nulla gio- vano al di lui scopo, anzi lo
contraddicono. Ma lasciamo l’esame delle dottrine del sig. Pezzi, perchè
sarebbe di- lungarci di troppo, per ritornare al Critico. »
Mi si opporrà a tal parlare, ed io il credo : sig. d Critico non siete
più certo degli atti d i vostra coscien- » za , quando riflettete su di
voi, che del vostro fisico ? » Sì il confesso , e so esservi stalo chi
negò I' esistenza » de' corpi , ma non vi fu stolto che abbia negato la
se- » rie de’ suoi pensieri , de' suoi giudizi, de’ suoi razioci- »
zi. Qui però altro è il punto della quistionc: è il pre- Dìgitized
by G 1*21 » sumersi da alcuni di spiegare si fatti
fenomeni , voler- » li analizzare minutamente , e saperne il come con
a- » stratte ed ipotetiche sottigliezze. Or questo per me è » 1’
islimum fodere degli antichi , è tentar 1' impossibile. » All’
incontro, se non tutti, alcuni fenomeni dello spiri- » to cogli ajuti
delle nozioni fisiologiche si spiegano , e » si perviene, se non al grado
di certezza, a somma pro- li Labilità e lucidezza ». Su
queste parole rifletterò : 1° É falso che Io spirito sia più certo
di sò che del fuor di lui, perché nella certezza nou vi ha più e
meno, ed il suo parere può condurre all’ idealismo. 2° Se 1'
umano spirito è fornito della facoltà di sen- tire , o sensibilità
esterna , cd applicando ai dati di essa facoltà il raziocinio discopre le
leggi di corpi, perchè, a- vendo la coscienza , vista interna , facoltà
che lo rende consapevole di ciò che in lui avviene , non possa
mercè l' induzione conoscere le leggi del suo pensiero ? Come ,
sig. Critico, sapete che voi sentite piacere e dolore, che giudicate ,
ragionate , volete , avete memoria, in somma pensate ? É la coscienza ,
senza alcun dubbio , che ve lo svela. In qual maniera , signor mio ,
conoscete le leggi del raziocinio, quelle delle idee, della volontà ?
Meditando sulla coscienza si ottiene, se non altro, la Psicologia
em- pirica. I sensi esterni danno le percezioni de corpi e delle
loro qualità essi ce li offrono colorati, molli o du- ri, aspri o lisci,
di tal odore e sapore, ma quale di que- ste proprietà appartiene al
pensiero ? Nessuna. È dunque falso interrogare ai sensi, onde scoprire le
funzioni dell' u- mana mente. Ma intanto ogni uomo che una
sensazione, un desi- derio, un volere, un giudizio, un raziocinio, sa che
que- ste cose esistono in lui , egli le sente col senso interno. Fa
d‘ uopo dunque a questo rivolgere la riflessione. Qui
122 non vi sono astratto ipotesi ; il metodo è sperimentale
, quello cioè proclamato da Cartesio , adottato da Locke ,
Condillac, Tracy ed eziandio da vari materialisti. Il Criti- co ha detto
essere impossibile , ma senzu alcuna prova. Ed io vorrei sapere come
senza i lumi della coscienza si possa pervenire alla cognizione delle
funzioni dell' lo ; e parmi tanto impossibile che la filosofia si serva
del meto- do della fìsica , quanto è impossibile spiegare i
fenomeni del mondo materiale colla coscienza. Ma sento dirmi
: I' anima non dipende dal corpo ? SI non 1’ ignoro , ho detto il mio
parere su tale dipen- denza. Un savio contegno è forza usare in siffatte
inda- gini per non incorrere in astratta ed inutili ipotesi. In
primo luogo egli è necessario adottare le rivelazioni del- la coscienza ;
ma essendo fra il morale ed il fisico dei reciproci rapporti , procede da
ciò la necessità di alcu- ne cognizioni relative al fisico dell' uomo ,
senza però la mania di voler rendere ragione della predetta
dipenden- za in ogni caso particolare , o voler dare contezza di
ciò, che sfugge ai sensi coi sensi. Dcbbe ancora aggiun- gersi I' analisi
del linguaggio appo i vari popoli , perchè dai segni, cioè dalle parole,
possono cavarsi molte dedu- zioni sulle cose significate , vale a dire
sui pensieri ; co- me pure la lettura de’ poeti ed oratori eccellenti ,
veri dipintori del cuore umano, non che la storia dell’umano genere
.... In tal modo polrassi pervenire in parte alla cognizione dell'
intendimento dell' uomo; dico in par- te, perchè non si esce dal cerchio
sperimentale. Proseguendo la lettura del Cenno Filosofico del
sig. A. S., m’ imbatto in una osservazione critica da lui fatta al
Pezzi ed al Galluppi. Crede il signor A. S. che non possano aver luogo
nello spirito sensazioni simultanee, ed adduce in prova della sua
opinione la similitudine del tiz- zone acceso c velocemente aggirato ,
che rappresenta in Digitized by Google 123
un circolo ignito contemporaneamente più volte se stesso. Ma pormi
che questo paragone sia del tutto fuor di pro- posito , come il dotto
Pezzi ha detto (18). Quindi, per dimostrare la fallacia dell' idea del
Critico , ragiono così. Voglio conoscere in che la percezione A.
sia simile o diversa da quella di B : percepisco queste due idee ,
quindi le confronto e discopro che sono identiche. Or se 1' lo non avesse
coutemporeamente sentito A e B, non sarebbe venuto giammai a capo di
giudicarle ; perchè se egli sente solamente A, conosce questa e niente
altro, se sente B, sa quest’ ultima sola e non potrà mai portar
giu- dizio, cioè non conoscerà l' identità o diversità delle due
percezioni. Nel giudizio debbe dunque I’ anima aver si- multaneamente
presenti le idee. Credo perciò che negare le simultanee sensazioni ,
percezioni , idee, si è negare i fatti evidenti che osserva ognuno uel
santuario del suo pensiero. » Cortesissimi Soci , segue il
Critico , debbo dirvi » alla schietta che gli ultimi 4 capitoli della
Logica pu- » ra del sig. Galluppi mi saziarono di dottrine. Egli
ap- » profonde con sagace e sottilissima mente 1' essenza del »
raziocinio , scrutinandone i più intimi recessi per rile- » vame gli
elementi e le diverse specie di argomenta- vi zioni, in cui si trasforma;
e posso senza esitazione af- » fermare che ne ha fatto una profonda , non
meri che u una ben ordinata disquisizione ». Io credo sig.
Critico che se aveste la pena di leg- gere e rileggere attentamente gli
Elementi di Filosofìa , il Saggio , le lettere Filosòfiche , e tutte le
oltre opere del Galluppi, vi accorgereste della falsità di molti e
mol- ti vostri pensieri , esclamereste ad ogni momento : Gal- luppi
è veramente profondo filosofo ! Ma , per condurre ad effetto ciò è d'
uopo , oltre alle buone disposizioni incutali, spendere molto
tempo. 124 » Ma che poi il raziocinio, come egli
vuole nel §. 33 » capitolo 3. , oltre le conoscenze che si ottengono
dalla » di lui indole analizzandolo, e dandogli tutte le possibi- »
li forme, di cui è capace , ci conduca a conoscenze di » altra specie,
non mi accordo ; poiché esso serve a di- » mostrare bensì la verità, ma
non già a scoprirle; poi- » chè dal semplice passa al composto, ed è di
norma al » metodo sintetico che non ci fa scoprire, ma dimostrare »
la verità ; mentre 1' induzione ed il sorite , che dui » composto ci
guidano al meno composto ed al semplice » discoprendole servono all’
analisi , senza di cui non al- » tro che cognizioni intuitive avrebbe 1’
uomo. Intanto » l’autore reca, in conferma di quanto asserisce, un
pro- » blemn algebrico tolto, se mal non mi appongo, dal cor- » so
degli studi del sig. Condillac ( cui si bene e tanto » volte staffila).
Egli la soluzione di questo, messo in e- » quazionc, riconosce da un
raziocinio , il di cui princi- » pio è I' assioma : se a quantità uguali
, $' aggiungono » quantità uguali, la somma sarà eguale. Alto sig.
Filo- » sofo, non è quest’ assioma che mi conduce a sciorre il »
problema ; poiché dopo di averlo per mezzo degli ol- » gebrici artifici
sciolto , veggo che per dimostrarlo pos- » so adattargli quest’ assioma ,
altrimenti le idee univer- » sali per intensità equivarrebbero alle particolari
». » 1)' altronde egli stesso, nel §. 53 cap. a°, s'espri- »
me così : 1' analitico non fa uso degli assiomi , se non » nel momento in
cui le circostanze delle sue ricerche » l'obbligano ad usarli, or ciò fa
nel metodo istruttivo, » non dirò punto in quello d' invenzione ; poiché
l’appli- » razione de’ principi generali vien dopo la soluzione del
» caso particolare ». Con queste parole nulla si prova.
Primieramente é mestieri, secondo il Galluppi, distinguere conoscenze
univer- sali da idee universali: le prime, cioè le conoscenze, sono
Digitized by Google 125 df due specie,
necessarie che hanno origine dalla riflessio- ne sulle proprie idee
astratte , e la loro generalità non è perciò dedotta dai casi
particolari. Ancora è necessario av- vertire, che la mente si forma le
idee universali, partendo dalle idee particolari. Quindi è chiaro, che
trattandosi del- l’ordine cronologico delle idee, conviene che lo spirito
va- da dal composto al semplice, dal particolare all’universale, ma
nell’ordine della deduzione delle conoscenze non è cosi, perchè le verità
pure o necessarie sono formate, non già dall'esame de 'casi particolari,
ma paragonandole idee uni- versali. Lo spirito inconseguenza , dopo aver
scoverto al- cuni rapporti immediati fra le sue idee generali ,
applica queste sue conoscenze ai casi particolari. E il sig. A. S.
che crede esalta la critica fatta dal Galluppi al Tracy , non ha veduto
eh' essa ha per base la differenza fra l'or- diue della deduzione delle
idee c quello della deduzio- ne delle conoscenze. 11 dire poi che il
sorite conduce dal composto al semplice, ossia dal particolare all’
universale, è falso: perocché esso si risolve al sillogismo, cioè al
ra- ziocinio , il quale va dall’ universale al particolare ; ed i
filosofi sono stati di accordo su ciò, tranne Tracy, il qua- le, come fra
poco dimostrerò, è stato compiutamente con- futato dal Galluppi.
In secondo luogo è l'assioma che mi conduce alla soluzione del
problema , perchè senza di esso non potrei avere de' risultamenti
generali, il che vuol dire non avrei sciolto il problema. Se voi, sig.
Critico, credete che col- V esempio particolare il problema sia sciolto ,
v’ inganna- te, giacché in matematica non si ammette regola o pro-
posizione alcuna che, come dice il Celebre La Croiv, non sia la
conseguenza necessaria delle prime nozioni sulle quali si è appoggiato ,
o la cui verità non sia stabilita in generale, in seguilo di raziocini
indipendenti dagli e- sempi particolari, che non possono giammai formar
prò • 126 va , e che non servono, che a
facilitare al lettore V in- telligenza de' raziocini., o la pratica delle
regole (19). Dopo di ciò il sig. A. S. scrive : « Ho dichiarato
» che ottimamente 1' autore conduce I' analisi del razioci- » nio , e
quell’ osservazione che fa non poter essere per- ii lettamente identici
il principio coll' illazione , nè asso- li lutamente diversi è condotta
ad evidenza . e come tre n idee principali , altrimenti nomati termini ,
e non più » possono entrare io esso , è recata al massimo grado di
» convincimento ; come del pari la genesi degli assiomi » che nascono
dalle definizioni; nè crede che altri, come » lui , sia riuscito in
questo processo logico ». Mostra qui il Critico di aver concepito
alcune os- servazioni dell' autore , di cui è parola : ma egli ,
prose- guendo, dice cose che son valido argomento di non averlo
sempre inteso, » Dissentisco, dico A. S., intanto dal più de’
meta- » fìsici, quando asseriscono che nei raziocini puri dall’u- »
niversalc si va al particolare , senza negare, secondo il » linguaggio
scolastico, che la conseguenza debba seguire » la parte più debole ; cioè
se havvi premessa particola- » re o negativa , tale debba esser la
conseguenza. Ma » perchè non hauno indagato , se potessero darsi
razioci- » ni costanti lutti di giudizi universali ? Jl sig.
Gallup- » pi, che tanto a lungo discute la natura del raziocinio, »
non si è occupalo di ciò, contentandosi di riferire sol- » tanto la legge
scolastica: se una delle promesse è par- ìa ticolare ; anzi se mal non ni
appongo ha dello , che » nei raziocini puri dall' universale si conchiude
al par- ìa ticolare ». Signor A. S. avete letto , non dico
tutte le opere del Galluppi, ma la logica di esso autore ? lo porto
opi- nione , che voi o non avete studialo la logica pura , o , che
è probabile, di volo ; giacché è falso che il Galluppi
127 non siasi occupato d' indagare , se possano esservi de'
ra- ziocini costanti tutti di giudizi universali. L'esimio filo-
sofo , dopo aver ad evidenza provalo che il principio e I' illazione non
possono essere nè perfettamente identici , nè diversi, cosi parla :
» É necessario dunque che vi sia un’ identità, o nei » predicati o
nei soggetti de' due giudizi di cui parlia- » ma. Supponiamo il primo
caso , cioè che il giudizio » dedotto abbia lo stesso predicato del
principio. Uno » stesso predicato suppone una certa identità nei
sogget- » ti ; vi ha dunque identità nei soggetti del principio e »
dell’ illazione ; ma non potendo essere, per quel che si » è detto,
perfettamente identici, rimane, che vi sin fra » questi soggetti quell’
identità , che passa fra la specie » ed il genere , fra la specie e I'
individuo , o pure che » questi due soggetti sieno lo stesso soggetto
riguardato » sotto due aspetti : esaminiamo il primo caso a.
Viene quindi all’ esame del primo caso , cioè quan- do i predicati
del principio c dell’ illazione sono identici e tra i soggetti ovvi 1'
identità , che passa fra la specie ed il genere, fra la specie e
l'individuo, e da profondo filosofo dimostra il soggetto del principio
dover essere in tal caso più universale di quello dell’ illazione, come
pure che debbono essere tali raziocini di tre giudici composti, e
conclude in queste parole : » La legge generale di questi raziocini
si è : ciò che » conviene al genere, conviene anche alla specie, ciò
che » ripugna al genere ripugna alla specie » (20). l)a
quanto ho detto si fa chiaro la legge di tutti i raziocini non esser pel
nostro autore quella , la quale prescrive che dall’ universale debba
concludersi al parti- colare , ma che tal legge sia di alcuni raziocini ,
perchè egli dice la legge generale di questi raziocini. Nel
§. seguente imprende a parlare del taso, in cui 128
il principio c l' illazione hanno lo stesso ollrilmto e i lo- ro
subbictti sono uno stesso soggetto riguardalo sotto due aspetti- Ecco le
sue jwrole : » Nel caso in cui il principio e 1' illazione
abbiano » lo stesso predicato , ed i loro soggetti sieno lo stesso
» soggetto riguardato sotto due aspetti , per concludere » si richiede un
giudizio, che dimostri l' identità de’ due » soggetti , ed il raziocinio
è composto anche in questo » coso di tre giudizi : 7 f 1 è 8 : 6 + 2 è lo
stesso che » 7 + 1,0-5-20 dunque 8. Il secondo [giudizio (5 f 2 » è
lo stesso che 7 + 1 , enuncia I' identità de' soggetti » del principio, e
dell' illazione. Vi fece altrove osserva- » re ( §. XX. ) che 7 f 1 è la
deflnizione di 8 ; questo » raziocinio è fondato dunque sul seguente
principio ge- » iterale : a chi conviene la definizione, conviene il
de- » finito, e viceversa ». Or in questo caso il principio c
I’ illazione hanno lo stesso predicato , ed i loro soggetti sono il
medesimo subbielto sotto due vedute riguardato ; c perciò le pro-
posizioni sono uguali in estensione , e si può affermare del secondo
soggetto ciò che si è affermato del primo. Inoltre quando, nel
secondo caso, il principio ed il giudizio dedotto hanno uno stesso
soggetto ed un diver- so predicato , sono eziandio universali. Ecco l’
esempio recato nel §. 29. » 7 f 1 è maggiore di 7 ; ma
7 è 6 + 1 , 7 + 1 6 dunque maggiore di 6 + 1 ». Altri
esempi, che confermano ciò che iodico; leggon- si nello stesso jj. dove
I’ autore mostra che in alcuni ca- si il soggetto del principio è
predicato nell' illazione , c viceversa. Ma il sig. Critico, se mal non
mi avviso, non ha letto 1' opera , cotanto celebre del Galluppi ,
titolata Saggio Filosofico sulla Critica della Conoscenza.
Digitized by Google 129 Cosa dice il nostro filosofo
in esso opera ? Ei, discu- tendo il raziocinio, dà un analisi severa di
quest’atto men- tale , e con somma penetrazione parla di tutti i rasi ,
e conclude così : » L’analisi che ho fatto del raziocinio, è
molto im- » portante, io ho creduto esser questo il vero mezzo di »
illuminarlo , e di dileguare qualunque dubbio. Questa » analisi fa conoscere
1° che nel raziocinio astratto si » conclude dall’ universale al particolare
, non già vire- » versa ; 2° che tutte le proposizioni possono essere
u- » qualmente universali » (21). Quindi il valente filosofo
dimostra l’ inesattezza delle leggi dei logici de orniti et nullo , e
quella una conlineat, altera conlentam dcrlaret con dire tali parole. «
L' analisi, che ho fatto del razio- cinio , dimostra dunque che le regole
da’ logici insegnate finora non sono universali ». Dirò
ancora esser falso che il Galluppi siasi conten- tato di riferire la
legge scolastica , perchè essa , secondo il sulloilato filosofo, è questa
: » L' analisi, ei dice, clic ho » fatto del raziocinio, mi conduce a
stabilire questo prin- » cipio. Nel raziocinio vi dee essere un’ idea
comune al- » l’ illazione ed al principio , ed un giudizio che
affermi » l’identità delle altre due idee, parziale o perfetta »
(22). E la stessa legge stabilisce 1' autore nel §. 8Ò del
suo Saggio Filosofico. Aggiungi a ciò che il Galluppi de- duce tutte le
leggi scolastiche (inclusa quella se una delle premesse è particolare ,
I’ illazione debb’ esser tale ) dalia legge testò trascritta (23).
Il critico dunque ci ha venduto due errori con po- che parole, che
ha detto, relative all'analisi del raziocinio fatta dal sig. Galluppi. io
concludo. 1° E falso eh’ esso autore non abbia indagato, se possano darsi
ragionamenti composti di proposizioni universali ; 2° È falso ancora
di essersi contentalo riferire lu legge scolastica ec. , che an- zi
egli desume tutte le regole de’ logici da un principio generale da loro
non conosciuto. E chi , dopo di ciò, si ostinerà a non voler biasimare la
critica del sig. A. S. ? àia quel che ho detto non è tutto, giacché egli
ci ha dalu altre prove di conoscere o intendere poco o nulla le
sensa- tissime dottrine dell' esimio sig. Galluppi. 9
130 Eccole : » Da generoso, cosi A. S., e con piè
fermo calcan- » do il polemico campo brevemente combatte, nel §. 43
» cap. 4., il signor Destutt-Tracy, che ridurre pretende » tutte le forme
del ragionare al sorite ; facendo all'op- » posto eijli vedere esser il
raziocinio contrario al sori- » te ; e posso qui dire di averlo attaccato
On dentro le » sue trincee , e d' essersi avvalso delle stesse armi
dei- » l’avversario per finirlo. Egli facendo capo dall'equivo- »
co preso dal sig. Tracy fra idee c conoscenze, le qua- » li ultime ,
sebbene non I’ ho vedute dall’ autore nostro » definirsi , pure scorgo
esser significate verità di giudi- » zi. Quindi, dopo avergli appalesato
lo equivoco, a chia- » re note gli dimostro , che il raziocinio
incomincia da » conoscenze universali , e quello all' incontro nella
ca- » lena de’ suoi giudizi dal particolare va gradatamente »
progredendo alle universali nozioni ». Tracy portò opinione il
sorite esser il modo natura- le di ragionare del!’ umano spirito, come
pure che in es- so sorite si vada dal particolare all' universale ; e
che perciò ei crede il sillogismo debba al sorite ridursi , e non
già, siccome i filosofi avean detto, il sorite risolver- si al sillogismo
: ciò è vero. Galluppi espone lo dottrina dell' illustre francese
ideologo , e con mollo senno la ri- batte , cosa ugualmente vera : ma che
poi Galluppi fac- cia vedere esser il raziocinio contrario al sorite, è
falso; pure che esso filosofo dica che il sorite nella catena dei
suoi giudizi' proceda dal particolare all’ universale , ò fal- sissimo.
Perocché il Prof. Galluppi dopo aver svelato l’e- quivoco preso dal Tracy
fra ordine della deduzione delle idee ed ordine della deduzione delle
conoscenze , cioè fra idee clementi del giudizio e quest - atto
intellettuale stes- so, e la differenza fra verità speculative c verità
empiri- che, cosi s’ esprime : » Ritorniamo all’ esempio
recato di sopra. Io do- » mando la ragione di questa conclusione : Pietro
è una » cosa mortale , essa nel sorite rapportato , consiste in »
queste due premesse : ciò che ha un corpo, il quale na- » sce e sparisce
dalla terra, è una cosa mortale. Pietro » ha un corpo, il quale nasce e
sparisce dalla terra. La Digitized by Google
131 » premessa: Pietro ha un corpo, il quale nasce e spari-
ti tre dalla terra, è taciuta nel sorite enunciato; ma seb- » bene sia
taciuta, essa esprime un giudizio, che lo spi- » rito dee fare necessariamente
|>er poter concludere, che » Pietro è una cosa mortale. Inoltre qui si
conclude dal- li I’ universale al particolare ; poiché il principio :
ciò » che nasce e sparisce dalla terra è una cosa mortale, » è una
proposizione universale, laddove l' illazione Pie- ri tro è una cosa mortale,
è una proposizione particolare, n Se domando di nuovo la ragione di
questa premessa , » taciuta nel sorite : Pietro ha un corpo ii quale
nasce n e sparisce dalla terra, essa consiste in queste due pro- »
posizioni ; ciò che ha un corpo organico , ha un cor- » po il quale nasce
e sparisce dalla terra. Pietro ha un » corpo organico , La seconda
proposizione : Pietro ha » un corpo organico, è taciuta nel sorite, ma
essa espri- » me un giudizio , che lo spirito è obbligato , per
con- » eludere , di fare necessariamente. Similmente , se do- li
mando la ragione di questa premessa taciuta nel sori- » te , cioè di
questa proposizione : Pietro ha un corpo » organico ; essa si spiega
nelle due seguenti proposizio- » ni : Ogni animale ha un corpo organico.
Pietro è a- u nimale. La seconda proposizione è taciuta nel sorite
; » ma il giudizio da essa espresso è nello spirilo di colui » che
ragiona. Affinchè la conclusione del sorile sia in » connnessione colla
prima proposizione è necessario, che » lo spirito giudichi convenire al
soggetto della prima » proposizione tutto ciò clic successivamente si
trova con- » tenuto nel predicato di questa stessa proposizione.
Ciò a fa si , che un’ esatta analisi di un sorite lo risolve in »
tanti sillogismi. Il sorite è dunque un compendio di » sillogismi, ed è
il sorite che si riduce al sillogismo; non » giù il sillogismo, che si
riduce ni sorite (24). Non farò chiose a parole si chiare ; ma dirò
che il sorite non è, pel sig. Galluppi, contrario al raziocinio: c
solamente diverso nell’ espressione, perchè taccionsi alcune
proposizioni, che han luogo nella mente di chi lo forma, e senza delle
quali non vi sarchile alcuna conseguenza. In somma distinguendo I’ alto
intellettuale , detto raziocinio nello spirilo e nel discorso, siccome ha
detto il Galluppi 132 in vari luoghi della
logica , si conoscerà che non solo il sorite , ma eziandio gli altri modi
di argomentare , sono nel pensiero raziocini , sebbene nel discorso
diversamente enunciati. Dirò per conseguenza che il sorite nella
cate- na de’ suoi giudizi va, come il raziocinio, dall' universale
al particolare. Or io non so persuadermi, non tanto per- chè il A. S.
dissenta in molte cose dal signor Galluppi , ma come egli incorre in
errori di fatto sì badiali. E se egli erra sì facilmente trattandosi di
cose di fatto , nel conoscere cioè qual sia la dottrina di tal filosofo,
che sa- rà poi discutendo il merito di qualche dottrina ? . . . . ognuno
giudichi da sè. Dopo di ciò il sig. A. S. si accinge a far
qualche cenno sulle dottrine nella Psicologia contenute. » E
tempo ornai, commendevoli Signori , fare qual- » che cenno su le dottrine
del sig. Galluppi in riguardo » alla Psicologia. Costui pretende, da che
l’iiomo pcrce- » pisce un fuor di sè, percepire se stesso distinto
dagli » oggetti esterni. Primamente dico esser questa una del-
>< le inestricabili quistioni , ed il parteggiar clic fanno i »
gran filosofi, chi per Cuna opinione, chi per l'altra dà » a divedere la
difficoltà di sciorla; secondariamente dico » esser futile, e vana la
ricerca di tal soluzione, poiché non » mi giova punto saliere, se nel
principio della vita ani- » male, quando non era che bambolo
cinguettante, avessi » la coscienza del me, e del fuor di me; in terzo
luogo » mi dichiaro dell’ avverso partito del signor Galluppi , »
menochè ammettessi, che nel principio della vita tutte » le facoltà
insiememente si sviluppano nell' uomo ». Non si potea peggio
esporre la dottrina del Gallup- pi; giacché i filosofi contrari ol di lui
parere convengono nel dire « da che 1’ uomo percepisce un fuor di sè
per- cepire se stesso distinto dagli oggetti esterni » ma tutta la
quistione consiste in conoscere qual sia 1’ atto che ci svela il me ed il
fuor del me. Perchè alcuni credono che la percezione del me sia un otto
del giudizio ; altri filo- sofi che la coscienza di ogni sensazione sia
congiunta colla percezione del me.... Galluppi è di quest' ultima opinio-
ne. In quanto alla percezione dell’ esistenza straniera, pu- re vi ha tre
opinioni : quella che stima alla facoltà di Digitized by
Google 133 giudicare appartengasi il rivelarci un’
esistenza esterna , una seconda die del solo tatto sia tal istruzione ,
la ter- za , eh’ è quella del Galluppi , ogni sensazione essere la
percezione di un’ esistenza esterna , ossia oggettiva. È dunque evidente
che invece di asserirsi , che secondo il precitato filosofo, « da che
l'uomo percepisce un fuor di sè percepire se stesso distinto dagli oggetti
esterni » do- vea il Critico dire : Il Galluppi pretende da che 1'
uomo ha la percezione di una sensazione percepire se stesso , come
pure che ogni sensazione rivela un’esistenza esterna. Ma è esatta
1’ asserzione del sig. A. S. , cioè esser vana e futile la ricerca della
soluzione di tal quistione ? Dice il vero il Critico , Candidar, Tracy,
Degerando cc. ed anco il Galluppi furono sciocchi, perchè volsero
l’ani- mo a cosa inutile ; era riserbato al signor A. S. svelare
ciò ; ed i filosofi gliene sopranno grado. Ma , buon Dio, si sanno i
sistemi de’ filosofi ? Si vedono le relazioni fra le conoscenze ? Ora
siffatta quistione essendo intimamen- te legata alt’ idealismo e allo
scetticismo , ec. è perciò d' altissima importanza. Vediamo intanto le
ragioni con che egli confuta la dottrina del sig. Galluppi.
Primamente dice qualche parola sulla simultaneità delle percezioni
, e stimo inutile trattenermi su cosa che ognun sente , e che ho di sopra
provato. Quindi viene alla confutazione. » La stessa maniera
sua di ragionare mi convince » del contrario. Udiamolo. Ei dice, io posso
provare più » sensazioni, e sieno pure, soggiungo io,
contemporance. » Ma dove appoggia, gli domando, lo posso aver
coscien- » za nello stesso tempo di tulle queste modificazioni. Ed
» anche che sia possibile . è certo che a posse ad esse » non colei
consequentia : ma ecco , signori dove 1’ ap- » (foggio nel §. 9. È
incontrastabile , egli dice, che nel » momento in cui vi parlo coi avete
la percezione del vo- » stro me; ma se l'avrete in questo momento, è
necessa- » rio che i abbiate avuto fin dal primo istante della vo-
to sira vita sensibile; ed è necessario che questa coscien- » za abljia
accompagnala ciascun vostra sensazione ». Qui il sig. A. S. mostra
ad evidenza che il prin- cipio che lo muove ad agire è tutt' altro dello
amor del 134 vero : egli è accecato dallo zelo
di parie , e mette in o- pera mezzi irregolari ed inefficaci. Dico
irregolari, perchè non si censura I’ opinione di un autore, prendendo
alcune linee di un paragrafo , altre di un ultro , e di paragrafi
dove 1’ autore che si vuol criticare non stabilisce la sua dottrina. Dico
inefficaci, perche Galluppi si legge da tut- ti, e massime da coloro che
sono addetti alla filosofia , e confrontando le parole del Critico cou i
testi del Cele- bre autore, si scorge 1’ errore di chi censura. Eccomi
al- le prove. 11 primo capitolo della Psicologia del Galluppi
che ha titolo — Della Coscienza o della Sensibilità Interna — è
formato da nove §. pag. 17. Ne' primi tre §§. del pre- detto capitolo l'
insigne autore si fa a dimostrare, come la scienza del raziocinio lo
conduca alla Psicologia, e che il metodo da lui seguito è perfettamente
analitico. Nel 4° §. cosa sin la coscienza, e nel quinto mette a chiara
lu- ce lo stato della quistione della percezione dell' lo non che
l' opinione di Condillac, Degerando , e quella di altri filosofi coi
quali il Galluppi è d’ accordo. Nel sesto con non poca profondità abatte
l' opinione di Condillac , il quale credeva l ' Io essere la collezione
delle sensazioni che ciascuno prova , facendo quasi palpare che
cosiffatta opi- nione dà T lo in apparenza c lo toglie in realtà. Il
set- timo §. è unu solida risposta al sig. Degerando, provando
nello stesso tempo che la coscienza di qualunque sensazio- ne è
inseparabile dalla percezione del me. Ognun vede che 1’ A. S. ,
dichiarandosi di avverso parere del Galluppi, avrebbe dovuto a que' §§. indirizza-
re la sua critica, nei quali l’autore appoggia il suo pare- re : il
Critico non ha detto cosa alcuna su questi §§. e quali sono i §§. da lui
confutati ? Alcune parole del §. 8. altre del 9. Ma, signor mio, in
questi il Gal- luppi uon stabilisce la sua opinione , cioè che l’ atto ,
il quale rivela la propria esistenza , è un atto del senso in-
terno , ma solo stabilisce nell’ ottavo che lo spirito inco- mincia le
sue operazioni dalla percezione del me non già dal giudizio sul me, e nel
nono fa un corollario delle ma- terie spiegate. E poi perchè alcune
parole di un §. altre di un altro ? Io ben veggo ( e chi noi vede ? ) che
egli Digitized by Google 135 non
potendo criticare la profonda dottrina del Galluppi, si è avvalso, siccome
ho detto, di un mezzo irregolare ed ineffi- cace. Onde il lettore vegga
chiaramente ciò che dico, tra- scrivo i testi, ne’ quali leggousi le
parole riferite dall' A. S. 11 Chiarissimo filosofo dopo avere ,
siccome ho det- to , nei sette primi di questo capitolo ben
discusso la quistione del me , viene , nel §. 8. a far vedere che
quantunque si abbia dalla prima sensazione il sentimento del me , pure
non può farsi giudizio su di esso , cioè sul me. » Ma sebbene
, ei dice , «dia prima sensazione lo » spirito abbia il sentimento del
me, pure fa d’ uopo av- » vertire , che un tal sentimento ritrovandosi
nel princi- » pio confuso col sentimento della sensazione , non può
» nel primo istante esserne distinto. Lo spirito non può » separare al
primo istante due cose , eh’ esso sente iu- » sitine : egli non può
dire : io provo la sensazione » dell' odore. Lo spirito non può
incominciare dal giudi- » zio, ed egli incomincierebbe dal giudizio , se
al primo » istante potesse dire : io provo la sensazione dell" odo-
» re, o io sono una cosa che ha la sensazione dell" odo- a re. Le
operazioni del nostro spirito incominciano dalla » percezione del me, non
già dal giudizio sul me. Rendia- » mo più chiara questa importante
dottrina. » Allorché lo spirito guarda semplicemente un og- »
getto , e vi vede riuniti i suoi diversi elementi , egli » non ha
ancora , che una percezione ; ma allorché pre- » sta
successivamente la sua attenzione a questi diversi » elementi , decompone
quest' oggetto , divedendolo , per » dir cosi , ne’ suoi elementi diversi
, cioè in un sogget- » lo , e nelle sue diverse qualità. Ma lo spirito
non de- li compone , che per ricomporre di nuovo , egli dopo di »
avere osservato separatamente le qualità, le riunisce al » loro soggetto
, quest’ atto dello spirito chiamasi giudi- » zio. lo posso provare nel
tempo stesso molte sensazio- » ni, vedere molti oggetti , udire de’
suoni, provare de- li gli odori , gustare de’ corpi saporosi , toccare
de' corpi » caldi ec. ; io posso aver e coscienza nel tempo stesso
» di tutte queste modificazioni ; in tal caso io ho la per- ii cezioue
del me , e di molte sue maniere di essere ; 136
» questa coscienza non è ancora altra cosa che perce- « zinne
» Noi abbiamo , cosi nel §. 9 ed ultimo del capi- » tolo , trallato
sotto tulli i punii di veduta una que- ll slione fondamentale nella
Psicologia ; è utile perciò di » passare in rivista le verità, che
abbiamo stabilito. Noi » proviamo diverse sensazioni ed affezioni: è
questo un » fatto ; queste cose sono in noi , e le percepiamo ir» »
noi , è questo un altro fatto. Voi percepite il sole , e » voi sapete che
percepite il sole ; o per dir meglio : » voi avete la percezione della
percezione stessa del sole, » la quale è in voi. La facoltà di percepire
ciò che ac- » rade in noi, chiamasi coscienza, sensibilità interna,
sen- ti so interno, senso intimo. V esistenza di questa facoltà » è
dunque un fatto incontrastabile. » Le nostre affezioni interne sono
in un flusso con- » tinuo, noi cangiamo incessantemente le nostre
maniere » di essere ; la coscienza di questi cambiamenti si risol-
ti ve in due percezioni interne , nella percezione di una » cosa costante
e che dura e nella percezione di 8lcu- » ne cose che cessano di essere c
si succedono vicende- » volmcnte ; la prima è la coscienza del me, la
seconda » la coscienza delle sue modificazioni ; o per dirlo altri-
o menti , la prima è la coscienza del proprio essere ; la » seconda la
coscienza de’ modi di quest’ essere. È dua- li que incontrastabile , che
nel momento in cui vi parlo , » t'o» avete la percezione del vostro me.
Ma, se i avete n in questo momento , è necessario che l abbiale
avuta » sin dal primo istante della vostra vita sensibile, è ne- ll
cessano, che questa coscienza abbia accompagnato cia- ti scuna vostra
sensazione. Vi ho fatto sentire l’ eviden- ti za di una tal verità di
fatto, e perciò abbiamo conclu- » so, che sin dal primo istante della
nostra vita sensibi- li le , abbiamo avuto la percezione del me e che questa
» percezione è , in conseguenza, primitiva, non seconda- li ria. Ma qui
non ci siamo arrestati : vi ho fatto osscr- » vare , che la percezione
del me , la quale accompagna » la nostra prima sensazione è confusa colla
percezione » della sensazione , non già distinta, che in
conseguenza » lo spirito incomincia dalla percezione del me , non
già Digitized by Google 137 » dal
giudizio sul me. Io vi prego di rendervi familiari » queste verità; esse
sono fondamentali nella Psicologia. Le quali parole del sig.
Galluppi mettono in chiara luce il mio pensiero, cioè che il Critico non
potendo in al- cun modo ribattere le profonde ragioni di esso autore,
pre- se alcune parole del §. 8, dove l’autore non dimostra af-
fatto la sua opinione , c dimenticandosi a bella posta dei sette §§.
antecedenti, ti trasporta al §. 9 lin. 28 toglien- do, eh' è più, la
parola dunque , e con dire che qui l'au- tore appoggia la suo dottrina.
Ognuno si può di leggieri accorgere che il §. 9. è un corollario del
capitolo ; in fatti le parole dell’ autore che succedono a quelle dell’
A. S. Vi ho fatto sentire l' evidenza di una lai verità di fatto,
chiaro danno a conoscere essere la dimostrazione di già data, e non
appoggiar qui egli la suo prova. E poi, perchè togliere la parola dunque
? Non senza ragione il Critico ha ciò fatto : non rimovendo il dunque
ognuno si sarebbe accorto essere un’illazione e non poter 1' auto-
re poggiare le sue ragioni. » Dopo la discussione delle due
percezioni del me , » che 1’ autore, come dissi , vuole contemporanee al
pri- » mo vagir dell' uomo, entra nel secondo capitolo a trat- »
tar del come , essendo modificazioni dell’ animo non di » meno lo
conducono a conoscere un fuor di me ». Co- sì il Critico A. S.
L’ autore non discute nel 1° capitolo la percezione del fuor del me
; egli come può vedersi dal §. nono da me citato , in esso capitolo,
esamina soltanto la percezio- ne del me. Nel capitolo secondo poi entra a
parlare del- la percezione del fuor del me : la prima ò un atto
della coscienza, la seconda della sensibilità. È poi eziandio
frivola quella critica della percezione del fuor di me. » Il
nostro autore Galluppi , egli dice , senza sgo- » meritarsi del diffìcilissimo
problema, nel §.12 afferma » che ogni sensazione è di sua natura la
percezione di » un’ esistenza esterna. Per provare la sua dottrina ,
ra- » giono così : Noi diciamo lutti io perno ciò ; io sento »
questa rosa. Allorché voi dite , io penso , posso tosto » domandarvi ,
che cosa pensate eoi ? Allorché dite , io 138 »
senio , sono anche nel dirillo di domandarvi che cosa » sentite ? Qui
parrai che 1’ autore si scordò di dover » trattar con bamboli , e tratta
perciò con adulti , che » ragionano , e che anno un linguaggio che fa I’
analisi « de' loro pensamenti. Convengo con lui che 1' oggetto »
della sensazione è diverso dell' oggetto della coscienza , » eh' è la
sensazione ; convengo, che 1' oggetto della sen- » sazione è fuor del me
; ma non nasce da ciò , che lo » spirito dell’ infante debba pure
percepir 1' oggetto co- » me cosa fuori di sè; giacché, come sostenni
dapprima, » s’ immedesima coll’ esterne cose , finché il tatto , e
le » non volute sensazioni di dolore lo rendano avvertito dei » suoi
falli », L’ autore , sig. A. S. , non si scordò di parlar con
bamboli ; egli esamina la sensazione e lo fa mercè 1' a- natisi del
linguaggio , mezzo acconcio, perchè sviluppando le parole si viene alla
cognizione delle operazioni del pen- siero. Se egli deducesse che ogni
sensazione ò oggettiva , perché lo è attualmente, allora sarebbe in
errore; ma e- gli da profondo filosofo discute la sensazione, e vede
che essa, come sensazione, debba ad un oggetto riferirsi, giac- ché
altrimenti non sarebbe sensazione, e sarebbe un nulla. » Ogui
pensiero , ei dice, ed ogni sensazione si ri- ferisce essenzialmente , e
di sua natura ad un oggetto quale che siasi. Il dire io sento, ma non
sento cosa al- » cuna , è lo stesso che dire : io sento e non sento
in- » sicme , è pronunciare un evidente contraddizione. La »
sensazione è dunque di sua natura relativa all' oggetto » sentito ; essa
o è sensazione di qualche cosa, o non è » sensazione adatto » (25).
Chi si fu a meditare attentamente queste parole del sullodato
Calluppi , scorge che la dottrina di esso autore ha per base questo
principio : sentire e non sentire in - steme, è una contraddizione. E
cosi quei filosofi che ne- gano I' oggettività di qualunque sensazione ,
come pure coloro che la concedono al solo tatto , commettono una
contraddizione, perché per essi lo spirito sente , ma nul- la percepire
di esterno , il citò è lo stesso , sente e non sente insieme.
Ma dirò dippiù. 11 Critico conviene che 1’ oggetto Digitized
by Google 139 della sensazione e diverso dall'
oggetto della coscienza , che è la stessa sensazione ; conviene ancora,
che l’ogget- to della sensazione è fuor del me : ma ei dice , non
na- sce da ciò , che lo spirito dell’ infante debba pure perce- pir
l’ oggetto, come cosa fuori di sè. E facile rispondere al sig. A. S.
colle stesse parole del Galluppi del §. 12. » L’oggetto della
coscienza è la sensazione; ma del- » la sensazione deve esservi un
oggetto diverso dalla sen- » sazione medesima , poiché altrimenti la
sensazione non » avrebbe oggetto, il che è assolutamente falso. Da
que- » sto principio incontrastabile segue, che ogni sensazione »
in quanto sensazione ha necessariamente uu oggetto e- u sterno al
principio che sente. Di fatto se ogni sensa- » zione dee necessariamente
avere un oggetto ; se tutti » gli oggetti non possono essere diversi dal
me , dalle » sue modificazioni, e da ciò che è esterno al me. Se l’
io » e le sue sensazioni sono 1’ oggetto della coscienza , egli »
non rimane altro oggetto per le sensazioni che un og- « getto esterno al
me. Ogni sensazione dunque in quan- » to sensazione è la percezione di
una esistenza esterna. Io per altro non scorgo , perchè debba al
tatto solo attribuirsi 1* ufficio di svelarci 1’ esistenze esterne ; anzi
^ se mal non m'appongo, nel §, 13 il signor Galluppi ri- sponde
all'abate Gondillac, sostenitore di questa opinio- ne, facendogli
evidentemente vedere che la di lui opinio- ne è contraddittoria al
principio da cui parte, e che tut- ti i sensi potendo al tatto ridursi ,
niun privilegio debbo concedersi al tatto propriamente detto. Altre
ragioni ad- duce il nostro filosofo contro i filosofi d' avverso
parere del suo , nel §. IH. Nè qui poli fine alla discussione ,
giacché nel capitolo IX di essa Psicologia, e precisamente ne' §§. G9 e
segg. del medesimo capitolo dimostra con somma chiarezza e profondità la
percezione del fuor di me non poter essere 1' effetto dell’ abito, ed
esser chime- re i giudizi abituali e rapidi che, associandosi alla
sensa- zioni, le alterino. Quindi credo che il sig. A. S. leggen-
do attentamente i §§. da me citati, e farà meglio insie- me col secondo
volume del Saggio Filosofico, appieno sco- prirà le potenti ragioni di
tal filosofo , e la verità delle mie parole. Egli , è d' uopo ripeterlo,
nulla lascia a de- 140 siderare su tal materia
colaute importante , mettendo il lettore in islalo a poter giudicare con
cognizione di causa. Ma, prima di chiudere queste riflessioni ,
parmi es- ser mio debito paragonare il merito del signor Galluppi
con quello del signor Pezzi, lo non farò questo paragone estesamente, e
ciò per molti motivi, il primo de' quali è la brevità : mi contenterò di
offrire in poche parole la somma delle cose importanti de' due
filosofi. Qua/ìro dimostratile il merito comparativo di
Pastinale Galluppi e Carlo Antonio Pezzi. Pezzi
Molte idee anotomichc c fisiologiche. Pochissime parole
sulle leg- gi del raziocinio, ossia quasi assoluta mancanza di
logica. Mancanza di dottrine re- lative all' ideologia : per
e- sempio non si vede esame — della teoria di llume sulla
causalità, non discusse le i- dec del tempo e dello spazio secondo
Kant ec. General- mente l'autore non tien con- to delle quistioni
che sono a- gitatc da’ fìlosoG. Nemmeno veggonsi cenni
sull'Idealismo, Trascendentalismo, Empiri- smo ec. Quanto alle
facoltà dell'anima, sebbene non trat- tate con profondità ,
pure qualche lode ò da riferirsi al- l'autore pei rapporti di
che spesso fa cenno, aventi il fi- sico col morale. Insomma
io avrei desiderato che l'autore fosse piti profondo ed
esteso in logica e metafisica. Galluppi Poche
idee anotomichc c fisiologiche. Analisi completa del
razio- cinio con sensatissima discus- sione d'interessanti
quistioni. Laboriosa indagine sull'ori- gine dell' idee con
esame di problemi di grave importan- za. Analisi diligente delle
fa- coltà dell’ anima, e confuta- zione del sensismo. Mede-
simamente esposizione e pro- fonda confutazione dell'ldeali- mo ,
Trascendentalismo , ed Empirismo. L’autore in som- ma nulla lascia
in dietro , per quanto un’opera elemen- tare il comporta, di
quelle ricerche di che in Pezzi ev- vi penuria, e, che più
mon- ta, con grande penetrazione sempre le ragiona. Più este-
si cenni sulle relazioni fra le due nature si desiano nella sua
opera. by Google 141 Questo confronto ,
clic ognuno può istituire avvici- nandosi ad essi autori , fa vedere che se
il Pezzi abbon- da di alcune conoscenze , è mancante di moltissime
indi- spensabili alla solida base della scienza ; nel mentre il
Galluppi, se scarseggia di alcuue idee, siccome da taluni si dice,
tuttavolta i suoi clementi sono un corso comple- to di logica ,
metafisica c morale. Nulla dico della pene- trazione di spirito , perchè
è oggimai risaputo da tutti che Pasquale Galluppi ad istesissiraa
erudizione GlosoGca, congiunge profondità di mente tale , in guisa che
non solo dagl' italiani , ma eziandio dagli stranieri è stato a
cielo levato. Fo Gne a queste osservazioni con una ingenua
con- fessione. lo rispetto fra gl' italiani filosofi moderni Pezzi,
Soave ec. ma ammiro e venero oltre modo Genovesi , Galluppi e 1' Autore
del Nuovo Saggio sull' origine delle idee, perchè tre grandi filosofi
(’). (‘) Quest’opuscolo vide la prima volta la luce nel 1836 pei
ti- pi del Fiumara. ANNOTAZIONI 142
*««833. S®» 1 * (I) Opus, d* Introd. alla Filus. Cap. IV. —
Elcm. di Filos. voi. V. cap. I. §. 1. — Filos. della Voloutà, voi. 1.
Prcf. (2; Elcm. di Filos. voi. 4. cap. V. §. 78. (3) Il
sig. Critico sarà compiacente indicarmi il volume, il cap. il §. in che
il sig. Galiuppi impegno i giovanetti studiosi a saper h fi- losofica
rivoluzione , di cui Io stesso Critico parla , perchè non mi è venuto
fallo vederla in esso filosofo. Il sig. A. S. dovrà pure dirmi perchè la
rivoluzione di cui ei parla è nera. Perchè l’nddicttivo vera ? (4)
Eleni, di Filos. voi. 3. cap. 1. §. 8. pag. 18 e 19. (5) Lezioni di
Filos. tom. 1. Lcz. 3. tom, 2. Lez. 2. (6/ Saggio Filos. voi. IV.
cap. 1, $. 4. (7) Elcm. di Filos. voi. 3. cap. 1. §. 6. pag. 14 c
15. (8) Op. cit. voi. 1. $. VI. pag. 15, 16 e 17. (9)
Op. cit. voi. 2. cap. V. 35. pag. 82. Vedi il 4. voi. cap. V. §. 31 del
Saggio Filos. (10) Elementi di Filos. voi. 2. cap. V. 8* 39 - “ s
«8B io ™ l - 4 * cap. V. §. 32. (II) Opuscolo sull' Analisi e
Sintesi §. IX. (12) Chi vuole approfondirsi in questa materia
legga, oltre alla lo- gica, all* opusc. sull’ Analisi c Sintesi) il
secondo cap. del 1. voi. del Saggio sulla Critica della Conoscenza di
questo illustre ideologo. Egli in questo cap. solve sei difficili ed
importanti problemi , alcuni de' quali sono desiderata del celebre
Degerando. lino di questi quesi- ti si è : Il sistema che ammette l' esistenza
e l’ utilità de’ principi a priori , è esso compatibile eon quello che
rigetta le idee innaie ? (13) Essai Philosophique chap. 6. $. 16. (14)
Hist. Comp. Des Sist. liv. 2. chap. 4. (15) Psyc. Rat. scoi. 1. cap. 4. §. 398 , 399 e 400. — Lcz. di Filos.
voi. 2. • (16) Eleni, di Filos. voi. 1. cap. 2. §. 24. pag. 55, 56
e 57. (17) Op. cit. voi. 1. cap. 2. $. 25. pag. 58, 59 c 60.
(18) Voi. 2. cap. XLV1IL §• 361. (19) Troité Elcmeniaire di
Arilmétique par la Croi* §. 28 — Vedi » capitoli IL IH. VI. del 1. voi.
del Saggio Filos. sulla Critica della Conoscenza. (20) Cap.
3. §. 28. (21) Voi. 1. cap. 3. §. 85. . {Ì2J Elem. di
Filos. voi. 1. cap. 3. §. 30. (23 J Saggio Filos. voi. 1. cap. 3.
§. 86. — Elem. di Filosofia , voi. 1. cap. IV. §. 44 c s*gg. del
cap. „ (24) Voi. 1. cap. IV. 43. (25) Psicolog. cap. 2.
12. Digitized by Google u fisiologìa calunniata
di materialismo Animus gaudens acmtetn floridam facil ,
spirilus tristis cxiccat ossa. Prov. xvu. 22. Corpus
eniro quod corrumpilur, aggravai animam . et terrena inhabitatio
depri- mil stogimi multa rogitanlem. Sap. li. 15. (vedi H
Cor. r. ^ Bom. ni SS) §• i. Le indagini de' fisiologi
sii, relative alle attinenze dell' or- ganismo colle facoltà pensanti ,
sono utili e necessarie al psicologo e non conducono al
materialismo. É ormai valico più d’ un lustro, che io sentivami
da uu tale sussurrare all’ orecchio : volgete l animo alla At-
tornia , alla Fisiologia ecc. e conoscerete esser chimera platonica lo
spirito; c poi da uu altro, che uditami dire un che sulla immaterialità
dell' io : se foste medico, non ragionereste così. Alle quali cose
quantunque io rispondes- si, pure per dar pace alla mia coscienza , e perchè
avea conosciuto, avere il me delle attinenze coll'organizzazione,
la cui cognizione è essenziale alla Filosofia , mi rivolsi alle predette
scienze — studiai gli organi e le loro fun- zioni , studiai .... ma qual
fu la mia sorpresa in vede- re , che il vantato materialismo della
Fisiologia è un so- gno, anzi un insulto fatto a si bella ed utile
scienza ! La Fisiologia, attenendoci alla parola, significa
scien- za della natura , c dovrebbe occuparsi di tutto che è in
natura ; ma essa anziché spaziarsi in campo tanto esteso, si è ristretta
alle funzioni, alle leggi degli esseri organiz- zali nello stato sano, lì
siccome questi sono o vegetabili, o animali , o uomini , però è nata la
litotomia o Fisica vegetabile, la Zoonomia o Fisica animale, dottrina
dell’e- conomia animale , c Fisiologia Comparata , se indaga le
dilTerenze fra gli alti vitali dell' uomo c quelli degli ani- mali , e
finalmente Antropologia o Fisiologia Medica, se Hi
ha per obbietto gli alti vitali dell’ uomo (1). Laonde era
naturale, che quest' ultima sì occupasse delle funzioni in- tellettive ed
affettive dell' uomo , che sono atti vitali e i più nobili ; e dopo aver
durate non poche fatiche conobbe- si alla line, il cervello esser lo
strumento principale di sì nobili facoltà, dico principale, perchè non si
può escludere il concorso degli altri organi inservienti alla vita
relativa, come sensi, ossa, muscoli ec. Il (ìsiologista di mente
de- bole può qui dire : ogni funzione ha i suoi organi , il
pensiero è una funzione , ha dunque il suo organo, che è il cervello ; or
se accordiamo al cervello un’ anima per agire , dobbiamo concederla agli
altri organi ; e però lo spirilo è una chimera da' metafìsici ideata. No
, io ri- spondo ; è una realità, e voi v'ingannate negandola. Di-
temi , come sapete che il cervello è l’ organo delle fa- coltà pensanti ?
perchè 1' esperienza vi ha mostrato , che tutto ciò che altero, o
distrugge il cene.lo, altera, o di- strugge il pensiero, che dopo lunga
meditazione la fron- te dà segno di speciale calore e la testa duole ( il
che è conforme a quella legge notissima per cui cresce il calo- re
, aumentando I' oziane di un organo o si sviluppa il sentimento di
fatici), che negli animali ver trinati la per- fezione graduale delle
industrie, degl’ istinti è in propor- zione del perfezionamento graduale
del cervello ec. avete adunque conchiuso, il cervello è il principio
efficiente del pensiero. Questa conclusione è illegittima : due
fenomeni, che costantemente si veggono congiunti , non segue per
questo solo, che l'uno sia causa dell’altro; è questo quel sofisma che
nessuno ignora : cum hoc, ergo propter hoc. — Adagio, risponde egli: c’è
i analogia, perchè nelle al- tre funzioni riguardandosi gli organi quali
cagioni efficien- ti, dobbiamo in quelle pensanti riguardare il cerebro
cau- sa efficiente. No , quest’ analogia , non c è affatto. Nelle
nutritive funzioni voi avete qualche cosa di più, che non si ha in quelle
pensanti : ed in queste è una particolari- tà, che non si ha in quelle.
Così, in quelle digestive, voi avete veduto non solo che I’ alterazione,
o distruzione del tubo digerente è seguila da disturbo , o nullità nella
ri- rispettiva funzione, ma avete eziandio osservalo la sostan- za
introdotta cambiarsi in passando nelle diverse porzioni Digitized
by Google 145 di detto canale , c quindi assorbirsene
una parte, cioè la chilosa , e I' altra , le lecce , espellersi. Lo
stesso dicasi della respirazione, i cui organi , i polmoni, sonosi osser-
vati pieni d’ aria , c parimenti della circolazione , di cui le arterie e
le vene hanno offerto il sangue, c cosi delle altre automatiche (unzioni.
Ma, quanto al cervello, voi sa- pete, che i 9ensi trasmettono mercè i
nervi allo stesso le impressioni , quindi si mostra il pensiero , la
volontà na- sce , la quale mercè i nervi trasmette ad alcuni organi
de’ movimenti ; che le alterazioni avvenute nell' apparato cerebrale sono
da rispettive alterazioni nel pensiero segui- te ec. ; ma non avete osservato
le sensazioni , le idee e qualsiasi prodotto mentale, nel cervello, come
il cibo ne- gl' intestini , 1' aria ne' polmoni , il sangue nelle vene.
E ciò debb' e«ser cosi , perocché evvi una diversità fra il mezzo
con che prendesi cognizione degli atti del pensiero e quello della vita
nutritiva, (ili atti di qucjta si perce- piscono coi sensi , quelli della
vita intellettiva , invisibili ed intangibili, son conosciuti per
coscienza. Essi non aven- do alcuna delle qualità de' corpi, cioè non
essendo duri o molli, freddi o caldi, lisci o scabrosi, colorati, sonori
ec. non possono conoscersi co' sensi. Chi col senso tenta co-
noscere il mondo intellettivo , opera I' impossibile , com- mette
peggiore errore di colui che vuol conoscere gli o- dori colle mani, o
cogli occhi, o colle orecchie. Possibile che la mente senta sè fuor di sé
? o trovi se stessa , ove ella non è? Non abbiamo adunque l'asserita
analogia. Dal che deducesi , che il saggio fìsiologista , conoscendo ,
che gli atti intellettuali non offrono gli stessi caratteri degli
atti automatici, vai quanto dire, quantunque soggiacciono alle
alterazioni del loro organo , pure non se ne osserva- no in esso i
prodotti e sfuggono alla sensibili- esterna os- servazione , e si
manifestano all' interna soltanto , terrà conto insieme di ciò che è
fisiologico e di ciò che è psi- cologico, o per dirlo in altri termini,
userà I’ osservazio- ne esterna e la interna. Si, è mestieri applicare la
rifles- sione a qualunque specie di fatti positivi , e gl’ interni
non sono meno positivi degli esterni : anzi son tanto po- sitivi, quanto
che senza di essi non sapremmo che esistes- ti) Digitized by
Google UG sero gli esterni. Si dirà per taluni : il
fisiologo / rroccde coi sensi, coi quali nulla vede di s/nrito, e perù
per lui quesl' essere intelligente immateriale è una chimera. Deb-
bo , o no rispondere a si futile argomento ? Il farò per te. Giovinetto,
cui intendo istruire — altri non avrà forse bisogno delle mie istruzioni.
Cbe diresti di colui, che in- tendesse alla investigazione delle
nutritive funzioni colla coscienza, e perchè in essa non le vedesse,
neghercbbele ? Diresti ha perduto il ben dell' intelletto ; cosi dee
dirsi dei pseudo-fisiologo. Sì , perchè osserva per metà , ed in
questa sforzasi ridurre I' altra metà , che in quella non trova, nè
trovar può , e perciò nel suo pensiero distrug- gete. Ma da chi egli ha
tal potere? Da nessuno. L'uomo con tutta te sua ragione non può creare
una facoltà , nè annientarne alcuna , solo può percepire e ragionare
.... Se fosse lecito sopprimere una facoltà per negarne le i-
slruzioni , grandissima ragione avrebbero gli idealisti di* sciogliersi
da ogni uso de' sensi, e perciò dire, come han detto , i corpi non sono.
Ma chi è quell’ uomo di buon senso , che voglia acconsentire a' sogni di
questi visiona- ri? Nessuno. — Nessuno adunque farà buon viso a'
sogni del pseudo-fisiologo. Se poi egli vuol limitare te
Fisiologia ai sensi , fac- cialo pure a suo senno , ma non avrà diritto
in (al ipo- tesi discorrere delle mentali funzioni, perchè da' sensi
non rivelalo : sarà in tal caso la scienza della vita ristretta
alle vegetative funzioni, e niente altro, ed allora non sarà nemmeno
conducente al materialismo. Ma no , ei dappri- ma ammette la coscienza ,
apparandone da essa la realità delle spirituali funzioni, che non vi ha
altro mezzo a cui ricorrere, e poscia, per ridurre il morale al tisico,
ponen- dola in non cale, abbandonala ; vuol conoscere il subbia- to
a cui esse appartengono coi sensi, i quali non potendo mostrare che
materia, osa dire: lo spirilo non è — come se te coscienza l'osso guida
infedele: e se tale, perchè am- metterne le istruzioni ? come se fosse
lecito ammetterla in un caso e a capriccio rifiutarla in un altro —
come se te coscienza ben meditala non isvelasse quell’ io sem- pre
identico, sempre uno in mezzo alla farragine ili diver- se modificazioni
alle quali soggiace. La coscienza riflessiva. Digìtized by
Google 147 conviea ripeterlo, è la stella polare di
chi intende alla co- gnizione del pensiero dentro il cerchio della
empirica psi- cologia ; è la fiaccola che dee guidarlo nel santuario
dei suoi pensieri. K simile il raziocinio del supposto fisiolo- go a
quello di un idealista , il quale dopo essere istrui- to da’ sensi dei
fatti esterni , si volge alla coscienza per conoscerne l' essere , a cui
appartengono , ed in que- sta non vedendolo , perchè veder noi può , lo
nega , an- zi lo immedesima col me. Fra 1’ idealista e il pseudo-
fisiologo lo intento è diverso , ma il metodo è lo stesso. Nè pur monta
il dirmi : coi ammettete il sopradcllo me- todo, perchè credete I' anima
spirituale , ma se questa è materiale, cadrà la coscienza, e dovremo
ricorrere a’ sen- si : anzi fate ma petizione di principio, ammettendo
lo spirilo per la coscienza , e questa per quello. Al che è facile
rispondere. Io non ho detto : 1’ anima è immate- riale, la coscienza
dunque esiste, e ad essa bisogna rivol- gersi , ma ho detto, e dirò finché
mi basti il fiato : che da natura avendo l' uomo due modi di percepire ,
1' uno coi sensi , I' altro con la coscienza , e clic le funzioni
del pensiero essendo impercettibili co’ sensi, non puossi ad es- si
interrogare , se vuoisi vera risposta , ma volgersi alla coscienza. La
Psicologia non adotta adunque la coscienza, deducendola dalla semplicità
dell' io. Clic tal metodo poi opra al psicologo la via allo
spiritualismo, è un'altra cosa, perchè coi sensi non verrà mai fatto
scoprire ciò che ad essi si sottrae ; e l’ errore nel metodo conduce a
falsi ri- sultamenti. La petizione di principio non ha dunque luo-
go. Ricorre perciò il psicologo alla coscienza, seuza porre 1’ anima
semplice , quantunque siffatto metodo lo conduca olla cognizione della
metafisica unità. Ma se il filosofo pro- clama base precipua della
psicologia empirica la coscienza, non dee arrestarsi ad essa soltanto,
ehè debb' avvalersi di altri mezzi , che servono a sviluppare e rendere
com- piuto I' esame del pensiero. Invocare in tutto c soltanto la
coscienza , invocare in tutto e soltanto i sensi , si è essere esclusivo
, si è svisare brullamente la scienza. È perciò mestieri al mezzo del
senso intimo congiungerc, ol- tre alla ideale visione , i mezzi
esterni. L'uomo è veramente il capo d’ opera della creazione;
148 in esso , per chi ben Io contempli , risplende a
vivissimi tratti : • La gloria di Colui che tutto muove
». Ma questa stessa complessione di fenomeni , che in lui
osservansi e i loro reciproci rapporti, ne rendono ma- lagevole c f
analisi e la sintesi. Cosi guardarlo da un sol luto, è poco, ridurlo a
questa qualsiasi veduta, è errore ; convien dunque conoscerne i
costitutivi e complessivamen- te guardarli. Se volgete il pensiero a
quella vita dell’io, che fenomeni maravigliosi si appresentano al vostro
sguar- do 1 studierete non il mondo che sta rimpetto a voi , ma il
«ubbielto e i modi con che lo comprende ; eppure ciò non basta. Quest' io
è unito strettamente al corpo orga- nico, e quantunque da questo distinto
per natura , pure, vivendo in esso, ha reciproche attinenze con lui, la
qua- le cognizione relativa è tanto importante , quanto quella
dell’ io e delle sue funzioni. Perocché chi si propone stu- diare una
cosa, che ha de' rapporti con un'altro e trascu- ra cosilfatle relazioni,
imperfettamente la studia, se pur iioii incorre in gravissimi falli,
attribuendo esclusivamente a quella ciò che è prodotto per l’ influenza
di questa. Il quale errore de’ metafisici muove dal timore d’
imbatterò in materialismo; ma questo timore é panico, perchè egli-
no stessi confessando f uomo esser costituito di duplice sostanza, fisica
e morale, interna ed esterna , materiale e spirituale, deve perciò in
esse aver luogo vicendevole re- lazione, e la lilosofia non può, senza
mutilar se stessa, o- mctter la cognizione di cosiffatti reali rapporti.
Fa al cer- to meraviglia vedere (die i filosofi conoscano, die
l’anima ha per lo mezzo de - sensi le sensazioni , esegue per lo
mezzo di taluni organi i suoi voleri, e poi credere che sia materialismo
ammettere le vicende, alle quali l’essere spi- rituale soggiace per
taluni cambiamenti nella stessa orga- nizzazione avvenuti. Diicmi, mi
volgo a colali lilosofì, da dii avete apparato die f anima ha pe’ sensi
le sensazioni? che essa, mercè taluni organi, mette ad dTelto i suoi
vo- leri , che le alterazioni avvenute negli organi sensori e
motori soli seguile da alterazioni nelle relative facoltà di sentire e
volere ? — Dall’ esperienza , diranno , abbiamo avute tuli istruzioni —
Ebbene , io rispondo , non è la Digitized by Google
149 stessa esperienza quella firn mostra a' fisiologisti le
relazio- ni del sistema nervoso coll' intelligenza ? Nessuno,
purché abbia studiato alcun che di Fisiologia, può negar ciò. Ho
detto purché abbia studiato le dottrine fisiologiche, perchè si
disprezzano, si grida al materialismo, perchè s’ ignora- no. Qui non si
tratta di conoscer l ' io e le sue funzioni, ma le attinenze che
l'organismo, e principalmente il siste- ma nervoso, ha con esso. Vedi
curioso fenomeno ! i psi- cologi accusano la Fisiologia di materialismo,
e i pseudo- tisiologi ne convengono : e perchè ciò ? perchè quelli
la ignorano, questi, rinegando la coscienza, voglion conosce- re
l’anima co' sensi. Ma se lo studio della Fisiologia con- duce il savio ed
imparziale filosofo a purgarla dell’ ingiu- sta taccia di materialismo,
lo rafforza pure nell'idea che allo elemento psicologico dee congiungersi
il fisiologico. Il Glosofo che trascura l’elemento fisiologico
commet- te grave errore. L ’ io esiste ed opera : chi oserebbe ne-
gar ciò? ma nell’organismo esiste e mercè di esso opera: è questo pure un
fatto , o se vuoisi deduzione legittima d’ infiniti fatti : ma il
psicologo astrae I' io dall’ organis- mo , e dandogli un'esistenza
indipendente, esamina l'io, non qual è in realità, ma idealmente: ecco il
suo errore. Il volgo cammina diversamente, perchè esso percepisce l ’
io ma insieme all’ organismo il percepisce, e ciò per associa-
zione o sintesi necessaria operata sin dai primi istanti del- la vita
mentale, e non analizza ; ecco il suo errore, il suo materialismo —
quando il psicologo non sintesizza , ecco il suo idealismo. La deficienza
di analisi produce l’errore del volgo, quella di sintesi I' errore del
psicologo. E, sul difetto di sintesi, siami permessa questa riflessione.
È me- stieri insegnare a coloro che noi sanno, e ricordarlo a co-
loro che non lo ignorano, ma non ne fanno debita appli- cazione, che la
divisione dello scibile in vari rami è sta- ta operata per nostro comodo
, per sorreggere la limita- zione del nostro spirito, per conoscere
meglio la natura ; ma quando questa divisione subbiettiva si trasporta
asso- lutamente negli obbietti , anziché aver guadagno . si ha
grande discapito. Vo' dire che gli esseri tutti hanno delle relazioni,
tutti sono legati , divedendo adunque le scienze non dovete credere che
gli obbietti di esse sieno per ef- 150 letto
della vostra divisione slegati, divisi, essi sono sem- pre ciò che erano
pria della divisione, cioè aventi le stes- se connessioni. Che bisogna
far dunque per evitar lo errore ? Aver sempre presente, che lo divisione
dello sci- bile è artificiale e subbiettiva , nata dalla nostra
pochez- za ; e perciò bisogna , nel discutere f oggetto speciale di
una qualsiasi scienza, guardarlo non isolatamente, ma com- plessivamente,
nelle sue relazioni; bisogna io somma sinte- tizzare. Applicando questo
discorso al nostro argomento si vede ad evidenza d’ onde proceda l'errore
de psicologi, i quali immersi nella loro astrazione , non conoscono
che quantunque la loro scienza si occupa dello spirito, ed altre
scienze del corpo, in cui quegli è ed opera, pure f io a - vendo rapporti
col corpo , la scienza psicologica non dee trascurarli. Credo
non aver detto quanto basti. La scuola di Sco- zia che si avvisò, la
Fisica doversi includere nella Filoso- fia, nou pose mente che con più
ragione la Fisiologia do- vrebbe esservi comp.esa, giacché ciucila (la
Fisica) si occu- pa delle leggi generali dei corpi , mentre che questa (
la Fisiologia ) dà la cognizione delle leggi degli esseri orga-
nizzali, ed il peusiero obbictto della psicologia appartiene agli esseri
di tal natura. E poi la Fisiologia si giova dei lumi della Fisica. Ma il
principio , d' onde muove detta scuola, è falso. Perocché il porgersi due
scienze degli aiu- ti, non importa che debbano ridursi ad una, purché il
lo- ro oggetto sia diverso. E pere» la filosofia giovandosi del- le
idee dell' Anatomia , Fisiologia , Fisica ec. non è nè I' una, nè altra
di esse scienze : e ripeto che essendo gli esseri tutti legati con
iscambievoli relazioni , le scienze tutte debbano fra loro esser legate.
Tutta la differenza sta in questo, che talune relazioni sono immediate ,
altre mediate e prossime, ed alcune rimole. Cosi la Filosofia che
si occupa delle funzioni dell' intelligenza , questa avendo relazioni
colf organismo , perciò essa scienza è congiunta immediatamente colla Fisiologia
, ma questa avendo dei rapporti colf Anatomia, Fisica, Chimica cc. la
Filosofia è mediatamente legata con quest' ultime scienze.
Dalle quali cose è forza dedurre che, essendo oggetto, non unico,
della Filosofia f umana intelligenza , pure alla Digitìzed by
Google 151 completa cognizione di essa non si perverrà
giammai , se pur non s' imbatterà in molti e gravi falli, senza
giovarsi dei lumi che son porti dalla Fisiologia, Anatomia,
Zoologia, Fisica ec. cioè senzu legarla ad esse scienze ,
quantunque non possa confondersi colle stesse (2). Imitiamo I’
anda- mento della natura nel produrre le ricchezze, delle quali se
la divisione dei travagli ne è una causa, l’associazio- ne ne è pure un’
altra. Proseguiamo il nostro argomento, anzi interniamoci in
esso a tutt’ uomo. Il volgo stesso per significare che uno ha, o pur no
giudizio, suol dire che ha o non ha cervello, che ha lena furie, se ha
mente elevata. Gli antichi facea- no le loro pitture , o sculture degli
eroi con fronte spa- ziosa e prominente, e la favola fece Ercole con gran
cor- po e piccola testa, fece escir Minerva dal cervello di Gio-
ve. Eran questi , simboli di una gran verità all’ ingrosso concepita; ma
gli autori n’eran materialisti? No, e perchè debb’ esserlo il fisiologo ?
Egli non fa altro che internar- si negli organi e scoprirne le più
recondite azioni , ossia rende scientifico , sistematico , ragionalo ,
dimostrato ciò che era puro sentimento. Eppure quanto tempo è
passato, affinchè si prendesse la vera via ! Si traviò co' sistemi
fi- siognomonici del Porta e del Lavater , sistemi oggi pre-
cipitali nella dimenticanza , ma che sempre movean dal vero concetto di
esistere nell' organismo relazioni colle intellettive ed affettive
facoltà — eran false soluzioni di un esatto problema. E se spingiamo il
nostro sguardo presso gli antichi e taluni moderni , quantunque in
di- verse sentenze , li vedremo sempre occupali ad assegnare nel
corpo la sede dell’ anima. Se Pitagora , Platone, Ga- leno stimavano sede
dell' animo il cervello ed altri altre parti di esso, come Erofilo i
grandi ventricoli del cervel- lo, Servetto 1’ acquidollo di Silvio,
Àuranli il terzo ven- tricolo del cervello, Cartesio la glandola pineale.
Varthan e Schellhammer la punta della nascita della midolla spi-
nale , Drelincourt, Malacarne il cervelletto , Benlekoè, Lan- cisi,
Lapeyronnie il corpo calloso o grande commisura del cervello, Willis i
corpi striati, Viecesscns il centro ovale della sostanza midollare,
Ackcrmann i tubercoli dei sensi (strati ottici e corpi striati) pure
Aristotile, Ippocrate e 152 «li stoici ne
collocavano la sede nel cuore , ove I' animo pastosi <T una materia
pura e luminosa, separata dal san- gue, Erasistrato nelle menitjgi, Yan
Helmont nello stoma- co ec. Quantunque diversamente Tra loro opinassero ,
pu- re convenivano in quest’ idea ; nel corpo essere una par- te,
ove il principio pensante ha seggio, e però tal parte detta
impropriamente sede, essere in attinenza col pensie- ro e concorrere al
suo sviluppo. Chi oserebbe dirli ma- terialisti ? Ma come conoscere le
funzioni di quest’ orga- no, se la sua anatomia sino a Fracassati e
Rolando con- sisteva a tagliarlo verticalmente , orizzontalmente , e
ri- durlo nelle più sottili feltoline ? Se tutta la scienza di es-
so consisteva nel dare un nume vago , e talora bizzarro alle sue parti ?
Cercavasi in esso ventricoli, corpi striati, corni d' aminone , piedi d'
ippocampo , volte, ponti, pila- stri, salteri, natiche, testicoli, e die
so io! Quanto a’ ner- vi , prendevano tutti origine dal cervello , ed il
sistema nervoso della colonna vertebrale, non ne era che uu pro-
lungamento. Foco innanzi a Meckel e Soeramering , si credeva che non
restassero a farsi altre scoperte sul cer- vello, die quelle che hanno
per oggetto l’origine dei ner- vi. E dopo le fatiche di Vicq d’ Azir , di
Prokaskà , dei Vènzel, tutti riguardano come presunzione il cercare
qual- che cosa di nuovo , o un ordine di organizzazione diffe-
rente io questo molle apparecchio, già ci eduto a sufficien- za
perlustralo. Lo stesso Pietro Frank con questo consi- glio invitava Gali
a desistere da’ suoi lavori. Ma nè Ro- lando nè Gali vollero arrestarsi
(3,i; il che fu sommamen- te utile per la scienza. Ma torniamo al nostro
assunto, da cui sembra esserci alquanto dilungati. Se è fuor
di dubbio die il sistema nervoso è I’ or- gano dell’ intelligenza, è lo
strumento principale delle fun- zioni istintive, affettive , intellettive
e de’ movimenti , le indagini dei Fisiologisli non solo non conducono al
mate- rialismo, ma offrono al psicologo quei materiali, coi qua- li
può compiutamente innalzare f edilìzio dell’ umana in- telligenza, 1
filosofi prendono dai Fisiologi che i nervi sono gli strumenti delia
sensibilità , non possono perciò , senza contraddirsi, rifiutare le altre
istruzioni. Si è pure imputato di materialismo il sistema dei
ce- Digitized by Google 153 lebre
Gali , ma agli occhi del pensatore tale imputazione è calunniosa. Si
posseggono in primo luogo quelle idee, che solo possono mettere in istato
il sapiente a portar ve- ro giudizio sur esso sistema? Si ha in secondo
luogo stu- diato ? Chi è privo d' una di queste due condizioni non
osi dirne parola — Ma Gali , si dirà, ammette venzette organi destinali
ad altre tante facoltà , come la musica , la poesia ec. ognuna delle
quali è fornita di sensibilità , memoria, giudizio ec., e, secondo lo
sviluppo di taluno di questi organi, nell'individuo avrà luogo lo
sviluppo d' un talento particolare — Benissimo , io rispondo , ma
non veggo il materialismo, che voi gli apponete. Perocché gli
organi, nei quali Gali divide il cervello, sono strumenti e niente altro
che strumenti, e la perfezicne, e lo sviluppo di essi metterà lo spirito
in istato ad esercitare quelle sublimi facoltà di die è dotato. E si sa
che un abile so- natore eserciterà tanto meglio la sua abilità , quanto
lo strumento di che usa sarà più perfetto , e per tanto non si derogherà
nulla alla sua abilità , facendola dependente dalla perfezione dello
strumento. Facciamo per poco astra- zione delle idee galliane. Quei
fdosofi e fisiologi che pria di Gali, riguardando il cervello, quale
strumento del pen- siero, si studiavano stabilire norme materiali, quali
misu- re della intelligenza, eran materialisti ? Certo nessuno ri-
ferirà la taccia di materialismo a que’ filosofi e fisiologi antichi, o
moderni che la dimensione assoluta del cervel- lo credevano dovesse
rappresentare i gradi delle intelligen- ze, o il peso del cervello
relativamente al peso del corpo, o la proporzione fra il cervello e i
nervi , o il rapporto tra la midolla allungata ed il cervello, o il
rapporto del- le parli del cervello fra di esse , o I' angolo facciale
di Camper, o 1‘ occipitale di fktubenlon , o il numero delle
fagliene del cervelletto di malacarne, o in fine la propor- zione tra il
cranio e il viso. Essi credean certo che la perfezione dell' organo
intluisse sullo spirito si riguardo alle facoltà, come a' talenti
speciali, essi intanto per que- sto solo non eran materialisti : perchè
adunque il sarà Gali? Egli non ha fatto che considerare il cervello, o
me- glio massa encefalica, non qual unico strumento, ma com- plesso
di strumenti ; ei non solo ha preteso determinare liii
il grado dell' intelligenza, il che erosi tentato pria di lui, ma
lo scopa, egli, mi si permetta l' espressione, ha par- ticolarizzalo ciò
che altri diceau in generale. Or se il considerar I’ encefalo non unico
organo, ma un aggregato di essi, se I’ assegnare non il grado soltanto,
ma lo sco- po dell' ingegno, è dottrina materialista, io non so
allora come potrò ogni sapiente, che fa 1’ anima dipendente dal
cervello, scusarsi di materialismo, non so se i filosofi ra- gionano , o
farneticano. E sì, sragiona al certo colui che ti crede non materialista
, finché ammetti in generale il fatto della dipendenza del morule dal
fisico , specialmente dal cervello , ma che poi ti grida al materialismo
, se ti farai a par titolari szar e. Ma dicono taluni : nel
sistema dell’ organologia per ogni organo dovrebbe esservi un io fornito
di sensibilità, memoria ec. mentre la coscienza ci dice uno esser l ’ io
: il sistema frenologico si oppone adunque ai fatti di co- scienza,
che provano la metafisica uttità — Vi chiedo scu- sa, il vostro
ragionamento non mi va a genio- Dovrebbe- ro esservi tanti io nel caso
che il Gali non ammettesse anima, il che non è, chè anzi dichiara che gli
organi so- no meri strumenti dello spirilo. Sta bene perciò che mal-
grado la rooltiplicitò degli organi l'io, è uno, perchè gli organi non
sono che strumenti. Non si oppone dunque ai fatti di coscienza, se non
nel caso che noi lo crediamo ma- terialista , ed allora il materialismo è
in noi , e non già nel gailiano sistema. Ma soggiungono : Gali fa I'
anima troppo dipendente dagli organi, perchè un individuo, che
dalia natura ha sortito la disgrazia di avere lo sviluppo di un organo
delle basse e ree tendenze, sarà da inevita- bile necessità tratto a'
delitti — Rispondo a ciò che sarà la frenologica dottrina in tal caso
conducente al fatalismo, e non al materialismo , e si sa che ogni
materialista è fatalista, ma ogni fatalista non è materialista. In tal
ca- so sarà d’ uopo correggerne il fatalismo. Sia insorgono : le
idee di Gali sono state rimbeccate sì riguardo alla mol- tiplicità degli
organi, che al numero, al sito ed alla cor- rispoudenza delle
protuberanze nel cranio, anzi taluni su questo ultimo punto han gridato
al ciarlatanismo , e qui faran sentire molti nomi benemeriti alla
Notoroia e Fi- Digitized by Google 155
siologia — Come ognun di leggieri conosce, qui cambiasi lo stato
della quistione , giacché io non pretendo che tal sistema sia vero, ma
voglio purgarlo dalla taccia di ma- terialismo. lo ho mostrato che la
cranioscopia non condu- ce al grossolano materialismo ; il tempo farà
vedere se sia vero o no; ma, qualunque siane l'esito, son certo che
non precipiterà si presto nella dimenticanza , in cui sono i sistemi del
Lavaler e della Porta. Chiudo questo §. colle parole dell’ egregio
professo- re di Fisiologia Martini « Gli autori di psicologia, quei
» medesimi che levarono grido di sé, errarono più volte, » perche
trascurarono gl' insegnamenti della Fisiologia. » Non si può per niun
conto avere un’esatta cognizione » dell'uomo, senza conoscerne la
struttura. Sinché vivia- » mo guaggiù 1’ animo abbisogna dal ministerio
del cor- » po, e perciò non solo giova, ma è necessario aver col- »
tirato lo tisiologia per trattar profondamente la psico- » logia a
(4). §• Il- Genesi della calunnia apposta alla
Fisiologia. Conoscere il modo della generazione degli umani
er- rori è tanto importante , quanto lo evitarli , e però non sarà
discaro che dica alcun che sull' origine del pensiero, oltre modo
ingiurioso , alla fisiologia apposto : cosi sare- mo in istato di tenerci
lungi da cosiffatto errore, che ha prodotto f esclusione nella psicologia
dello elemento fisio- logico, il che significa, ha dimezzato, mutilato la
scienza della vita mentale. L’ uomo ebbe da natura largiti
dei modi di perce- pire : uno gli dà la cognizione del mondo esterno ,
ma- teriale, l’altro del mondo interno, intellettuale. ...Se egli
coi sensi percepisce i fatti esterni, cioè i corpi colorati , caldi,
freddi, odorosi, saporosi, estesi, in moto ec., a dir tutto in poche
parole, ciò che fuori di lui avviene, colla coscienza prende cognizione
de’ fatti interni vule a dire , delle idee , de’ giudizi , de’ raziocini,
desideri', risoluzioni ec. in somma di ciò che intimamente in lui
avvieuc. Or, siccome 1’ uomo munito di sensi non è per questo solo
lofi fisico, chimico, naturalista ec. cosi, quantunque
dotato di coscienza, non è perciò solo filosofo: è mestieri volgere
la riflessione a ciò che porge il senso , a ciò che svela la
coscienza. Quindi è che egli applicando la riflessione o meditazione a'
fatti esterni , cioè a quelli manifestali dai sensi, forma le scienze che
han per oggetto i corpi; con- centrandola sui fatti interni , su quei
svelati dall’ intimo senso, e mercè I' apprensione intuitiva , dà vita
alla psi- cologia propriamente detta : si , questo ritorno che fa V
io di sè in sé e con sè , fonda la scienza del pensiero. Ida gli nomini
fanno cgual uso dei sensi e della coscien- za? meditano tutti sulle
rivelazioni di q .elli e di questa ? No certamente, perciocché avvi
taluni uomini che sin dai loro teneri anni han rivolto il pensiero agli
obbietti posti di fuori ; essi lutto ciò che sanno, io conoscono pei
sensi, perchè la loro riflessione bau concentrato esclusivamente
sugli obbietti di questi. Dal che segue che ei danno im- portanza solo
alle scoperte che ottengono pei sensi, e ciò può giugnere al grado di
credere che non possano otte- nersene altre, in altra maniera, e di non
lieve importan- za. Ciò è semplice e naturale, giacché i bisogni dell'
uo- mo attirano la sua meditazione all’ esterno , 1’ esercizio
frequente rende facile siffatta inclinazione , c si forma quindi 1' abito
di conoscere per mezzo dei sensi. É per- ciò necessaria ferma e risoluta
meditazione , c per molto tempo, affine d' interrompere tal abito ed
acquistare l'op- posto , cioè quello di ripiegarsi in se stesso. Hanno
tali scienziati il senso intimo , per non dir d' altro , ma non
riflettono sulle sue rivelazioni. Quindi è che tali uomini associano
finalmente la certezza a ciò che viene dai seu- si. e, sopprimendo in tal
modo la coscienza e l'ideale vi- sione, credono fermamente che nulla
possa sapersi, se non quello che si vede o tocca, ossia si statuisce nei
lor pen- siero, come verità inconcussa : ogni idea viene da' sensi,
o pei sensi. Per troppo esclusivo meditar sui sensi, si fi- nisce con
dire: lutto l'uomo sta ne' sensi, ogni certezza viene dai sensi. Tale è
la genesi del pensiero, di cui parlo. Souo simili a quegli
idealisti, che quantunque muni- ti de’ sensi, pure meditando unicamente
sulla coscienza, si stringono a questa, nò reggendo più in là di essa,
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desi ma no V oggetto conosciuto al subbietlo conoscitore, co- me
quegli scienziati il subbielto Tanno ad immagine del- l' oggetto. Tutti
han torto, perchè abusano, quelli dei sen- si, questi della coscienza.
Tutti han torto , perchè muti- lano l’uomo, quelli materializzandolo,
questi spiritualizzan- dolo. Tutti han torto , perchè sè stessi
contradditori , i primi sentendo l’ atticità interna, i secondi non
interrom- pendo le pratiche esterne. S- "f- Alleanza
fra la Psicologia e la Fisiologia. Se alcun fisiologista (o)
pretendesse troppo ? non do- rrebbe aver negato il giusto poco. Che
diresti di un giu- dice che ti nega a, che ti appartiene, perchè hai
chiesto a •f 6 ? Noi chiameresti ingiusto ? Ebbene tal rimprovero
deve a' più grandi psicologi diriggersi. Che se questi si dolgono del
materialismo della fisiologia, questa è pronta e non senza ragione, alle
discolpe da noi riferite in que- sto scritto. Non furon tutti
materialisti, ella ancora dirà, e qui farà sentire gl’ illustri nomi
degli Mailer , degli Stilai, dei Foderè, de' Maltliey, de Berard, de’
Vircy, dei lluisson, de' Hartmann ec., e per torre d’inganno ognuno
Bonnet il primo Psicologo-Fisiologico, o Fisiologo-Psicolo- gico. Al
certo se colpa non lieve è l'abuso, non lo è me- no il non uso. Ma cosi è
l'indole dell'umana mente, gir sovente per opposti sentieri, e cosi dal
vero disviarsi. Or se è errore materializzar lo spirito, è del pari
errore spi- ritualizzar la materia. Spiritualismo assoluto e
materia- lismo sono sistemi esclusivi, incompleti , mancanti che or
ti trasportano alle nubi, or ti gittano nel fango, come se non vi fosse
luogo di star bene fra quelle e questo. L’uo- mo non è tutto sensi, nè
tutto coscienza, dee dunque av- valersi e di quelli e di questa ;
rifiutare I' uno de’ due 6 render l'uomo monco, è bruttamente svisarlo.
Fisiologi e Psicologi è tempo ornai che vi diute il bacio delia
conci- liazione , unitevi come nell’ uomo i sensi sono uniti alla
coscienza , e cessi alla fine lo scandalo che I’ uomo separi ciò che
natura ha strettamente unito, che voglia distrug- gere ciò che natura ha
creato. Vero è che non tutto si- nora ci hanno insegnalo i fisiologi
sulle funzioni del cer- 158 vello, ma non
dobbiamo per questo dolerci con essi , pe- rocché la somma difficoltà del
soggetto ne ritarda i moti progressivi , ed è stoltezza rifiutare la
parte, quando non si può ottenere il tutto. Le quali
considerazioni ben si addicono a que’ filosofi, che proclamano il metodo
sperimentale, la filosofia dell’e- sperienza , ed intanto si stringono
all' anima unicamente. Oso dire, che sin ora non hanno conosciuto in
tutta l'e- stensione il vero spirito del loro metodo sperimentale.
Han creduto far bene dare per base alla filosofia la co- scienza (
quantunque non unica , nè principale ) senza di questa la riflessione non
potrebbe volgersi in sé e non si avrebbe quella notomia psicologica che è
esclusiva al- 1* uomo , ma si fa veramente male, fermarsi
unicamente a ciò. Voi , direi a tali filosofi , rendete monca ed
im- perfetta la scienza , perchè non comprendete in tutta la
estensione il metodo che adottate. Voi poggiate sull' in- terna
esperienza , ma , questa essendo legata all’ esterno ammettete il fuor
del me , altrimenti restereste soli nel- f universo : in altre parole
ammettete la coscienza qual motivo immediato e medialo: cosi vi tenete
lungi dall'i- dealismo. Ma ragionate meco. Se I' indole della
coscienza è di prendere ciò che con essa è connesso , se su tale *
fondamento statuite il non me, se in tal modo etitate lo sconsolante
idealismo , perchè adunque rifiutate I' altre i- struzioni che la
coscienza, guidata da’ sensi, vi porge? Am- metterla iu un caso, e
rifiutarla in un altro, è evidente contraddizione. Le relazioni fra
l’organismo ed il me son manifestate da’ sensi, la coscienza le prende ,
il rifiutarle adunque è rifiutar la coscienza, è contraddirsi. Ecco
l’al- leanza fra il senso e la coscienza , fra 1’ uomo esterno ed
interno , insomma fra la Fisiologia e la Psicologia ; ecco la vera
estensione del metodo sperimentale , il quale pec- ca non solo , perchè
vuol far senza del lume ideale , ma perchè mutila la stessa esperienza
(*). (•) Quest’ opuscolo (u reso di pubblica ragione pei tipi del
No- bolo nel 1812. Digitized by Google
A NNOT AZIONI ISO •sC«sS3J8"i^®J' ì
’ (1) Taluni autori hanno alla parola Fisiologia, sostituto quella
di Biologia, che significa scienza della vita, cd altri Biosofìa quasi
ana- loga ucl senso a quella. (2) Ho spesse fiate nelle mie
lezioni avuto eziandio bisogno della Botanica. Non so, come possa
rispondersi scientificamente a chi ti di- ce, che la Buia graveolens (L.)
, la Sjiarmannia Africana (L.) , In Val/isneria spirali s (L.l , V
Amuryllis aurea (L.) , In Diaamia mu- scipula (L.' , la 3fgmosa pudica
(L.) godono del privilegio di senti- re, hanno de’ movimenti spontanei,
senzà le risorse di detta scienza. E si noli che lai dubbio elevasi
facilmente nel pensiero de* giovanet- ti , apparando essi dal bel
principio delle filosofiche lezioni la distin- zione fra esseri sensitivi
e non sensitivi. Prendo qui occasione per mani restare i miri sensi
di vera senti- ta gratitudine verso il sig. Natale Aloysio sotto la cui
scorta appa- rai alcun che di Botanica. Questo rullo ed abile farmacista
è molto innanzi nelle naturali scienze , e specialmente nella Botanica ,
inteso alla cui scienza fra non molto darà un saggio delle sue durate
fati- che. E come avrei potuto dimostrare le cere fisiche differenze
fra l'uomo e gli animali, senza i sussidi delle naturali scienze? Per
fi- nirla dirò, che in una mia Opera, che spero in breve pubblicare
col titolo Elementi di Ideologia Comparata ossia Saggio sulle
differen- ze fra Vvomo e gli animali, opera che ini è costata lunghe c
peno- se meditazioni , ho colla ragione e col fatto dimostralo le vere
atte- nenze fra la Filosofia c le Naturali Scienze. (3) Lcz.
sulle malattie nervose del prof. F. Puccinolti Lez. ni. Però in Italia
due aulii prima che Gali e Spurzheim pubblicassero la loro grande opera
sul cervello, aveva 1' italiano Rolando dato in luce le sue ricerche
anatomiche sullo stesso organo, e devesi a lui assolu- tamente la prima
scoperta delle ramificazioni cerebrali de’ processi fi- brosi , e del
nuovo modo di trovarle c sezionarle. Dietro queste trac- ce del nostro
Italiano , Gali non In fatto che perfezionare il nuovo sistema anatomico.
Così V illustre Puccinolti, e ciò sia detto ad ono- re dell’
Italia. (4) Manuale di Fisiologia, par. 11, cap. xxvi.
(5) Il sagace lettore ha conosciuto che in questo mio discorso so-
vente ho confutate le idee madri del dottor Brussais, sparse nel primo
volume della sua opera. — Bella Irritazione e della Pazzia — sen- za
citarlo , perchè avrei dovuto scrivere un volume e non un cenno per
seguirlo nei suoi sragionamenti declamatori mossi da manifesta bile. In
vero sapessi pria di lui che esistessero delle rclazomi fra il
Digitized by Google 160 Esico «1 il morale, e che i
materialisti stresserò opposto tal argomento agli spiritualisti, e le
risposte, sovente dall' autore omesse, di questi, ma nessun vero e
coscemioso sapiente , per quanto io sappia , crasi Patto lecito dire
dell’ immaterialità dell'anima » Frattanto i’ uoatomi- » co comparisce
col suo scalpello : egli squarcia 1’ uomo morto ; fa » esperienza sull’
animale vivente ; il paragona coll' uomo sano c in- » fermo , che ne
possa dire il metafisico , il quale crcdesi disonorato » di una simile
comparazione, e gli dimostra il di lui preteso sonalo- » re da esso
gratuitamente stabilita nella glandola pineale, o nel pon- » te di
Varnlio , non essere altra cosa se non 1* insieme dell' apparec- » chi»
encefalico ( Op. eit. v. 1, rap. v, sez. 1.) ». Quando si han- no le
traveggole agli occhi pretendesi auco veder 1’ anima o toccarla ( si
rirordi il mio lettore di ciò che per me venne detto nel §. H. ).
Veramente quest’ opera oltre una noiosa ripetizione degli argumenli che
il materialismo ha fallo allo spiritualismo , contiene non poche
asserzioni, omissione de’ ragionamenti a prò dello spiritualità dell’ io,
soventi declamazioni , ove era moslieri dimostrare , rd un ultra sen-
sismi) da me confutato nel mio quinto Opuscolo — Dissertazione sul
Sensualismo ; ma, facendo astrazione di tutte queste mende dell'opera del
snllodato medico, si coglie pure un bene dalla sua lettura, quel- lo cioè
che io ho dimostralo , 1’ alleansa fra la Psicologia e la Fi- siologia. L'OMU NUN AVI L'USU DI LA
RAGIUNI CICALATA DI LU PROFESSURI CAV. A. CATARA-...
Antonio Catara Lettieri m
!f»o*Coogl[ L OMU il HI L ISI DI
LI Ridili CICALATA HI 1,0 UOrXMDBI
MESSINA TIPOGRAFIA d' AMICO 1860
Digiiizcd by Google ALI/EGitEflIU CITTADINI;
SIG.' VINCENZI! CHEMI Olii- olitili a Vul stu
povlru ts t; l'Iti u min , olii m andii alla stampa pri Hoellwrax*!
In desi- derili eli l'amici, spora olii Vul l'accoltli-ltl cu elela
sasso, bona volimi ;\. olii vi fa os»lr*i distinti! patrioti» .
.saggiti patri eli famig- isliia oel amlou sincera — Oun- tinuatl
In vostra afrotm a In vostra amlcn A.
Catara-Leitiebi. Un pensiero ho ruminato per parecchi
anni in mento, quello cioè di offrire al pub- blico un ragionamento sul
tema: L'uomo non ha H uso della ragione. Più io vi meditava, più
vedeva l'attuazione doverne riuscir facile — più tempo iva scorrendo,
nuovi materiali nel mio intelletto e da questo sì riunivano. Se non
che tante e si svariate cagioni ognora mene allontanavano dalla
esecuzione. Quando pochi giorni addietro mi sentii punto da
vergogna, comprendendo che lo svolgimento di tal tema, nel modo da
me ideato, mirasse al bene dell'umano consor- zio — adunque, senza
metter più tempo in mezzo, mi feci a distenderlo in dialetto no-
strano, che giudicai (iiù opportuno a colorire il mio
disegno. Gli uditori imparziali, che mi onorano, ai (piali è noto, il
processo, il mo- vimento attuale degli spiriti e delle umane associazioni,
giudicheranno della santità del mio scopo, e «e io fui da tanto a
rispon- dere allo stesso. Se taluni amici, a' quali lessi
alcun Urano del presente cicaleccio, non mi avessero in- cuorato
colla loro non sospetta approvazio- ne, io me ne .sarci rimasto senza
farne un motto (1). Lo mie armi son contro del vizio,
dello orrore, dell'arbitrio, sotto qualunque forma si
presentino. Dirò con Tommaso Campanella: la nuqqi ■
àeUilu tre nidi «Irnnì, (1) Qn»(o laverò fu lolt-> nei
giorni 11 e 21 FeMnw, in due Irmnte furiali slrii'inlmarin (HI» li.
Ari'nJi>nùn IVIoritunn. Digitized by Google
In sugna piruccuni, mi tegnu strilla, attaccati! cu la Santa
Scritturo, L'omini tutti presenti, passati e pura fatali mi parimi tanti
ibddi — hi dici la vìntali oh' infiniti! è In numera di li foddi. Oi si
vanta lu prugrcssu, la ragioni, la civiltati, o chi saecìu icu ! ma
iu puvircddu nun ci cridn un flou — pri mia c' 6 sem- pri rigressu,
disragiunì o pazzia. Nun ci crìditi? Vi cumpatisciu ,
anehi ìeu era foddu na vota — avia china la testa di sti paratimi , e mi
paria già chi putia sfunnari lu celli cun pugnu. Ma la scola di la
c spari eli za , e lu sludiu profumili di H sapienti cadi di tanti omini
summi mi ficiru a la fini cunusciri la granili viriti, chi 1' omini nun
ànnu 1' usu di ]a rogiuoi. Bastiria la Kanta Scrittura pii
cunvincìri ognunu di la pazzia dill' omu, di la mancanza di
ragioni. Ma oggi mio cai o Professore , mi sentii diri di na
vuoi 'inpurtuna, oggi mio caro Professore, non ti penta più come si
pensivi! una volta — oggi si 7ii fede ntl progresso, ni erede alla
ragione, ed i ami detti sono oracoli. A quali ragioni
vuliti ca leu mi siiti unici) la ? a cliidda di li dotti, di li filosofi?
o a chidda di l'iimnnità ? A mia pari, e vi lu mustru cu nrgmncnli
lampanti, comu quattri! e quattru famiu otta, chi li filosofi tutli
ìnsemmulft , e l'omini tutti pari jiari nun ùnnu mai ragionato.
2. Fermrru cu la menti tutti L'ejroohi, tutfu In nummi,
orientali, grecu, rumano, e Cristiano, e sempri erruri, sem p ri
pazzia. Kun vi vogghio scnnzari tanto , Signuri mei gar- bai
ibs imi , ricurdunduvili tutti — basta dirivi chi In granili Ciciruni a
li so' tempi dici: Nihìl tam absttrdum dici potasi , gitoti no» dicatur
al aliquo philosopJwrum. Ora immaginativi voi chi s'avi pvilutu diri
'ntra nautri vinti secoli — Mirabilia I Lassarmi duuea in
paci a Fitagnro, cu lu Boi ipse dixtt, nfttu criseiutu e pasciutu 'ntra
sotti anni di nsso- lutu silenziu, a lu quali ohbrìcava li so' sculari a
stari muti, e a sìntiri li so' lizioni a la scum, e a raancìari
orbi a ova, e a hiviri acqua frisca — daunuci pri su- praiavuln la musica
e la ginnastica. E 'ulra sfu moda a In fìlosufii di Sanili ci paria chi
avissi a rifiinnari lu ninnnu, e cauciannu li tiranni, e distruggennu la
mala siinenza. I.assamu punì a Piatimi cu In so' bedda
Repub- blica, chi ò na 'naalaledda di tutli pititti — c'ó robba cu
la pala pri tutti — pei cu voli riviri a spiai d'autru, o spassarisi cu
tutti li fimmini , o viviri senza liggi e senza Din , ci trova In so'
spassu. La Repubblica di Platani ù In, veni cuccagna — un la
cuccagna chi facla lu Re Ferdinandu Nasuni , oiiannu lu Diavulu ci
mon- dava quarchi figgliiu — ma na cuccagna di novu geniti —
è In spasali cu lo robba d' autru , e cu la Veniri comuni . . .
basta. Lassaniu di parti ad Arislotili , lu filosufu di Sta-
glia , cu la so' schiavitù naturali ! St,' autru affniutu ci yulia
a la povira umani tati 1 (Jlii bcdda cosa clii riga] io a lu mulina sta
filosofimi — divisi lu geniri amami in dui parti, in patroni
c servi. Cu pri casu avi Da schizza di mìdudda di cliini, ò palruni
; ddu svinturalu chi appi na fidduzza menu di ciriveddu, è cundanuatu a
la schiavitù. A mia pari chi Fiatimi ed Arislotili, lu mastro
e lu fiadarn, ponnn tutti dui tiniri un carni. a
A munti dunca li pagani filosofi — parramu nieg- gliiu di li
muderai. E la solita vuoi in sentu — I tedeschi , i tedeschi
eoi Padre della Filosofia Alemanna, Eliminimele Kant, e laccherete con
mani di che possa 1' umana ragione da voi calunniata. E via, signor
Professore, fate senno : la filosofia tedesca da Kant sino a noi è tal
periodo storico sì luminoso da lasciare indietro assai C antichità
tutta quanta. Basta il solo Kant a Ciò. Ci rispunnu ? Ci aju
a rispanniri pri forza. Beddu meu, lu to' alimamm Kant, lu zozza di
li filosofi Tidischi, nun ragiunau mai, o si iddìi ragiunan, hi
geniri umanu è privu di la rngiiuii. 10 Cu avi lellu
l 1 opiri di lu filosofi! di Conisberga , sapi mpgghìu di min li beddi
proinissi obi iddu fa a li so' lettori. Nun pari ohi iddu vi fari luccari
cu li marni e vidiri cu l'occhi Ut stissa virila? o paoificari
tatti li scoli, ehi sunnii seinpri a lichiledissi, chi onnu seitipvi
pareli avanti la sciarra? E mnudari a casa di lu diavola lu brutta o
Utenti scctticìsimu ? E cn lu bo' mctudu criticu, chi dici min essiri ne
scettica, nò dummaticu , mandar! 'nzcmmula e scettici e dunimatici
Vi pari gii ehi hi Prussiani! filosofi! vi darà la scienza vera,
solida, inconcussa, o pri usar! li so' et issi paioli, coma la Geometria,
stabili e ferma chiù di na rocca, chi min canoia culi' omini e ou H
tempi. Già vi pari chi addiventirili naulra divinila I Po-
VÌru vui ai ci «riditi I Liiti cn mia li panini di la so'
Jìiuldtica trattiti- diniatì cliiu avanti I Chi vinni pari?
Chi l'umanità tutta inscnimula nun ha mai rngiunatn , a min
po' ragionari, pirchl la raglimi 6 in idda stissa sufistica, o 'ntra la
so' 'ntrinsica natura. Si la ragioni si applica all' anima, a lu munnu, o
a Din, nun dugna autru chi apparenti, sofismi, illusioni, chi iddu
chiama, cu lu so' liugu;i:rgui sapienti, ^ni-nloijismì, antinomie,
ide- ale — Umica stu munnu chi cosa è pri Kant? Illusione. —
Dunca st' anima chi cosa i pri iddu ? Illusione. — Dunca stu Diu ,
chi tuttu lu geniii umauu adura e timi, e chi tutti li cosi di la terra e
di lu cela mani- festami cu la so' favella? Illosiani — Nsumsia la
umana raglimi ohi po' dori , chi dugna di risultati ì Illusioni a tuttu
pasto. Wapiti comu ò la ragiuni pri stu guarnii
filosofi!? È coma cllidda chi avia Giufà, obi nspittava cu li mani
aperti chi chiuvissiru ficu sicchi, passuli e ova mundati; ma li ficu
sicchi , li passuli o 1' ova mandati non dilu- verà mai , nnn caderu di l
1 aria — occussl la ragiuni umana ehi cerca, aspella a braaza aperti lo
vero, min arriva mai a Denti dì veru, di certo, d' incontrastabili
— chini la rapinili si sfura, cliii'i la rinlifii si nlluntana, conni 1'
acqua chi sfai di li labbra Biechi di In sitibondi! Tnntalu. E si pri
casa iddìi dici quarohi vota iti e fon- ia, sumiu supposizioni, dici
Galluppi , li pigghia a Inerì dici Giuberti ; e in ini permettu di
inneiri , chi sunnu gtardiueddi di dilinìa 'ntra lu so' sistema,
ca- steddi 'ntra 1' aria, menu di li busciolii ili sapuiii.
Ohi cosa è sta filosofila Kantiana? & na filosofia a
va]iuri. Cotichiudemu. 0 vui voliti chi Kant ragiona , o nun
ragiona: 'ntra lu prìmu casu, cioù si iddu ragiuna, 1' usu di la
ragiuni ; passandu poi a lu secundii casu , cioè si Kant nnn ragiuna, si
la so' Dialettica Trancia- dintali è idda glissa sufistìca , la anatri o
la nanna di tutti li sofismi, allura cu quali facci di cantunera di
spitalì sustiniri ehi Kant fu un granni filosofa ? Vurria dirivi
qaarchi mitra cosa di sin aliinamui sapientuni , e ferivi vidiri , coma
quattro e quattro fannn ottu , chi iddìi nun fu chiddu chi ei va pri
In nummi dicennu da chiudi tali chi vonml darì a cridiri chi lu
Buli spunta d'intinna ammari — sulu vi dicu chistu. Boppu aviri
fattn (anfu fracassìi, e terrimotu, doppu aviri tantu ditiu e riditta,
friltu e rifritti! chi la ra- la fini qnannu sci nni u a panari
di li dorili, di la mu- rali, alluni dissi; e chi dissi? Chi la radium it
ragi uni, non ò gonna , non ó favilla , nun duglia illusioni.
Iu fazzu un cunfruntu , un paragoni tra Kant o lu monaco. — Lo
monaca aria na manu longa e 1' autra corta; cu ima pigghiava, cu
l'autranun dava. — Kant 1' avia tulli dui longlii , giacchi chiddo ehi vi
aria li- vaio cu na mano, vi la risfitnisci co l'autra. — Cliisto
vi mostra Kant aviri cori hono , ma poco cirivcddu , pirchi sani' cranio
unn 1 cramu. Avia dunea ragioni lo so famusu scoloro Fichto ,
(joamiu dicia chi tul{<t è somm di sannu, ma sema chiddu chi 'nconna;
era lu ligitimu discipulo di Kant , lu quali non accunsintcun o a la
spicenzìoni di lu so' Aniidco , avia torto granni c sfaeciatu.
Mi ricorda d' aviri lettu 'ntra un filosofa tìdisco , Voltai si nun
sbagghio, chi Deus cui l'hilosophus abso- lulae tummut. Ora si iddìi ò
vero chi Diu è lu filosofa assulutamenli sommo, lu maslru ili li
filosofi; si ìddu 4 vera chi Diu, comu dici lu Mumalisi filosofa,
quannu cria ci duglia jochi , chi lu Miceli chiama ludi , ja ndi
cimeli i odo , chi si lu filosofo divino non pò fari nutro cu la so'
onnipotenza chi jucari , li filosofi orna- rli tutti 'oscillinola non
hanno dato c non potrannu ilari chi jocareddi. E si li
jocareddi di Kant ficiru lu giro di lo mimmi, poro la so pirocca giriau
pri tutta la terra. E sì li jocareddi di Kant haonu avutu tantu
va- lori , poro ca la so' pirocca s 1 insaccava beddi dinari , chi
nisninnu li cariasi chi hi vujiann ridiri , e si la
□igìlìzed by Google ir. vnliauu inculili
supra la so testa! Nuu sauna ohisti pazzti saprà parali P
4. Giacchi purramu di tidisclii , vi vngghiu
cantari ila sturiedda eh' avvinili a mia. Ju non mi renda ri-
snuiisabili , comu oggi sntmu li ministri cuslituziunali e li gerenti ili
li giornali, ili chìddn chi mi dissi n' ami- di min, orna dotln pri
davc.ru — ma vi prega di midi- Iddìi dnnca, lu min amica, mi dicia:
oggi li cosi di lu mulina vanmi a scapitai», a ruttura dì codilo. E sai
cu i'u la causa di tutti li mali chi ci sunmi stati 'atra tri
peculi? Luteri, ddu monaca, e sempri li monaci fora neiddazzi di
malaugurio, Lulcru chi misi avanti lu cri- leria Individuali a damiti di
chiddu universali di la chiesa tutta 'nzemniulu. — Da chistu ndi viimi uà
libirtà di pinz.iri c di opirari chi nun avi limiti , — lidi viimi
la morti di F autorità, e Tarda conni ndi nascili cliistu. — Tassalu slu
principiu di la religioni 'iitra la politica , chi putia produci ri ? Lu
dannu e lì guai di tutta l' umanità. La ragiuni umana , chiamanti!»
allui-a a sindacata tutti l' auturità, pri mala vintura , conni si
rampi un faseiu di virghi, l'ima doppu 1' antra, lì vosi rampi ri tutti,
ma si rompili idda si issa. Oh pazzia! É tanta tempii olii lu principiu
di l'autorità, lu principiu ■lì lu dritta sinn' annuii a fimdu , lì non
c' ù ama ehi lu pò piscarì. Ndi vuliti ita prova bedda e chiara? Vi
la dagiui subita. Digitizod t>/ Google
14 llubbis vidennu tulli li danni chi eurginn .li la
sfri- nuta libertà, e BOantatn di tutto chiddu chi vitti 'ntra la
rivoluzioni 'ngrisa di li so tempi, si cnntintan meg- gliin di
trasformar! l' omo il) seccai , e dissi obìirdienm 2iassira ; nccussl
furmulau (ulta, la vita politica di li popoli. La potenza di lu Suvranu,
cu fossi, fossi iddo, o irrisistibili, iddu eumanna a bacchetta, o guai a
co min fa conni lu sccceareddu ! I.n Suvranu ù chiù di Domioaddiu ,
pirchi Dio voli 'ozò eh 1 iS giustu , e pirch! è giustn lu voli — ma 1»
Suvrnou di Masi Ohbisi ò proprio chiddu chi voli risto chi ci piaci , c
di la so pi.'iciri non avi a renditi onntu a nudilo, — Almenu aju
'olisu diri di taluni, chi lu Sovrano avi Arrendi ri conta a Diu , ma pri
Obbisi min avi a rcndiri cnnfu manco a lo Pinvulu 1 K Continuava
1' omo doftu dicennu : cu cridi chi lìussò 'nzirlnu, lii sha^'liia ili
;rmin Iddo ò vitii chi 1' autori di lu Onolrallu Sociali noo trasforma 1'
omo in sccccu , oomu avia fattu Olhis ; voli Russò truvari na cosa
stabili, ferma, e punì, sì volili, murali; ma chi voliti chi vi dicissi,
vi 1 lussò scanna lu c.rapicciu di lu tirannu e 1' ubbidienza passiva di
1' asiou , sbatti 'ntra naufrii scog^hiu, i; .si fracassa lutili In
eiriveddu, pircbl vi duglia lo piacili, la erapicciu ili lu populn : iddu
6 vero chi P uuluri di lo sociali enotrattu vi metti avanti dda
bedda frasi SuvranSà Papillari , ma li frasi non cao- ciani! la natura di
li cosi, o lu ninniti! non si pasci e campa cu li frasi. La Sovranità di
Ohbisi o V arbi- traria vidimi à di non siili). — La Suvranità di
Russò è 1' arbitraria volontà di lo populu, La Sovranità di
Digitized 0/ Google lo Oubist è un mostro
individuali , ohidda di Russi è un mostra pupillari. — L' Obbesiana 6 un
nrostro cu na te- stasusa, cliidda di Japìon ù mi mostra cu niigghiara
di tosti , grossi e picciriddi , di tutta tagghia. Leggi sta
pagina di Russò, mi dioia lu meu annui sapienti, e vidimi olii V auturi
di 1' Emilia motti a principili di la so Sovranità popolari In crapicciu
di lu populu. Un popolo A mai sempre il padrone di cangiare
le sue legni, anche k migliori, perocché se gli piace far male a
lui sitwo , chi ha il diritto d' impedirm-lo ? Quannu durica Petra
Loroux dissi , chi Russò era cliiìi di Gesù Cristu, non ghiastiinava? Oh
qnanlu jastimi sannu dittu punì 'nfra li nostri tempi, chi pas-
sami pri 'lluminati 1 Ju cridu olii Luronx dissi ddn ba- vorau , pi rcH
avia prisenti ddi paniluni di Japicii — Chi chiddu chi lu prìmu dissi
'ntra stu munnu: sta cosa 6 mia, fici un delitti! di Iosa umanitati. A
mia pari chi ohista !i la lastima di tulli li povireddi , chi vonnu
vivili u scialarsi cu la robba d' autru. Ed ò la lastima di tutti
li tempi ! Non vurria essiri mala lingua — Russò facia sti
Instimi e chiagnistei contra li ricchi e li proprietnrj, pir- oni campava
atfrittu , ma rittu, copiannu cacti di mu- sica a Parigi.
Dunca è chiara chi Ohhisi, Russò, Leroux s' impi- gliavano a
riabilitari lu piacili, lu orapicciù, hi libiti! — cosa vecchia u ridilla
di 1' anahalisti, ma da clliddi traspurtala 'nlra hi eanipu
sociali. E siccomu di cosa nasci cosa, e l'emiri pari sem-
pri bvddu, pura Carili l'otiricr, l'inventai di lu Fala-
16 stero, dissi ehi li passioni veninu di la nutrì natura,
li duviri di 1' omini — dunca guerra a lu duviri , minte- mu
'nlronu li passioni. 5. A stu locu lu bravu miu amico
si firmnu — nisciu la tabaccherà, jiie/^hiriii latiaecu. poi addnmau la
so' pipa — Seguitati iu ci dissi — E iiidu a mia — Ohi vi ftju a
diri ; tutlu è negazioni 'ntra la scienza, c pur ciò 'ntra la società chi
si specchia oli idda è in iddo. I,u drittu, lu duviri, la ligio murali
slissa, chi duvria tssiri la sovrana assulula, ò muli, c poi nenli, e
seni- Pari chi ddu filosofa Green, chi dissi chi la tiggi È coma la
Minia di la tarautula, la quali fa cadiri 'ntcrra li corpi pisauti, ma
tratteni chiddi leggi comu la paghivi», dissi na granni verità. Comu
Spinosa e Obbisi chi dissìru chi lu drvltu è la Btissa cosa di la forza,
disdirà ria bedda verità di fallii. Iddi, e vero, ficiru sbagghiu assai
grossu 'ntra 1' ordini radunali, ma pri lu fattn e pri la storia
'nzirtaru. l'ri mia la forza avi a essiri lu meuzu pri fari
valili li nostri dritti, pri difendirli, tutelarli, o ricupe- rarli —senza
forza min ci poti essiri csereiziu di drittu, couia senza pinneddu min ei
pò essiri pittura, senza pinna scrittura. Ma viditi d' undi e coinu ndi
vinili l' orrori chi cunfumìi lu drittu cu !a forza. Siccomu pri figura
si dici di un bonu pitturi chi ò un bonu pintieddu, e d'un bonu
scritturi chi è na bona pinna; accussl cu avi chiù forza ai dissi, o si
dici, e bì dirà sempri, chi avi drittu. 17
Senti, amica min, la forza è compagna di lu drittu, ma 6 na
oumpngna poriculusa, infidili, chi apissu ammazza lu stcssu dritta.
Si Cesari min dispania di tanta forza, nuu ci vinia lu siila di
passari lu Rubicuni. Si Napuliuni Primu nun aria dda granni forza non
cacciava a culazzati di fucili li cincucentu. Si lu Terzu Napuliuni n'
avia dda forza chi sapemu, lu seculu nun aviria vidutu lu dui dicembri
; et sic do singulis. Granni forzi avianu Cesari e li dui
Napuliuni; dunca avianu drìttu. Uedda, ma fatali figura rettorioa!
SÌ nun obagghia lu coi-pu di statu di lu dui dicembri fu lodata
'ntra lu Parlamenlu ngrisi da Lordu Palmiston, e n l avia ragiuni, pirchi
lu mali cuntngiusu putia passari lu strittu e 'mpistari l' Inghilterra —
Fici beni dunca la Prisidenti di la repubblica chi l' ammazzali.
Avia ragiuni lu Diprumalicu 'ngrisi, lu diavulu fa diavulicchi ! E
puru ddu granni Ministra, ohi avia l'occhi di Argu, nun vitti o nun
s'addunau pri notiti, chi la limuta posti ci trasia 'ntra In regna di
nautra parti cu lu Fenianismu ! Cosi di lu 'nfami munnii ! L' i
ngrisi chi scialavanu e ridianu di li rivuluzioni di l'antri paìsi, e
iddi stissi ci li attizzavanu o ii stutavanu a so' piaciri — di sti
tali 'ngrisi quantu cosi si putissi™ diri! Senta parrari spissu di
giuramenti, di cuntrattu, di pattu sociali! AiniÈ ! fulinii di tarautulal
si, fidimi dì tarantula , senza dda liggi suprema chi Ciciruni
dici» Santina Ratio, e l'Aquinati nec ejus lev est aliud al ipso,
unde celerità non ordinato ad aìhm finem (1), e (1) Uwl.r irillll ■
I Si'l M.iM.ili- [iFl.i! .-si ■ Jll-.t.. ti l.nliu ] -|- «terna in
raliouali crcaliira - ijouuu. IW. lf a, ll.uuMi. Sii, nrl. 11.
Digitizod by Google 18 Dante divina
roluntas sii ipnmjtu; la quali riverbi- ranno 'atra l' umana cuscenza \<ò
parlari fcUoementi l' animi 'mporlu, coma la vila servi di guida a la
navi. E cca si zittlu lu mia amica — e segui tu ieu. u
li rimproviii olii ci odìotìqd d'ogni bandai Si na vota un filosofo
tidìsohn dissi a vuci furti di la oatUdra: Oggi creeremo Dio'. Jn Faccio
cLi naulru filosofo viventi, italiano, avunt' cri tlissi poro di la
cai- lidra , isandu lu vrazzu ritlu all' aria , e strincciinu lu
pugnu: Dio ritirati! e pri tri voli. vSi Fichte si mnstrau, coma un
chimicu, chi voli ri- cumpoLiiri chiddu chi avi decuinpostu, o di un
furnaciara chi dicissì: oi facemu ria pignatedda o un lìganedàu— lu
nostra ilaliami Ferrari chi ci dici, chi manda a spasso Dio, mi pari un
pattimi chi licenzia lu criato — almeno ci avissì dato la benservita
! Poni la Convenzioni francisa, Irasfurmannusi in Cnnoiliu
Ecumenica , dicritau na vota chi Diu esisti , coinu chi s 1 arissi
trattata di na liggi civili o criminali chi fusai. Oh , <3<1Ì
iranoisi n' haunu fattu pura grossi assai 'etra menu d'un seculul Hannu
distrutta dinastii, altari, liggi, statuti, ed hannu crìatu principi,
religioni, liggi. Hanno mandati! a diavulu re, repubbliehi,
cunsulì, presidenti e ehiddu ehi niaudivainiu appressi lu sapi
19 Diu I Eppuru, mischini ! sunnu ancora comu l' anima
di Si sbirri 1 Fri mia vi dicu uhi tutti 1' omini sunnu foddi
, ina chi lì chiù foddi sumiu li sedicenti filosofi; e si chistu
nun lu dici la Santa Scrittura, vi lu dicu ju, chi macari, si min autru,
aju sfuggliiatu quarchi carta di Platuni, di Aristotili, di Agustinu, di
Vicu, di Gioberti, di lìosmini, di Galoppi , o paru di chiddi chi si
fannu 'neiuriari fi- losofi, o sunnu foddi 'ntra la carni e 'ntra 1'
ossa. Hi ricordu chi Fidi ri ou lu filosofu dieia: Qiiannu
vogghiu punirì li mei popnli, ci mandu pri gu viro arili li filosofi. Ah
chi beddu spezienti sestieri ddi filosofi di dda tempra di Lamathric, chi
oripau ahi so tavola riali cottu comu un jammaru c nbbuttalu comu un
porcu! Oli chi beddu espedienti , chi dhuuslra chi lì filosofi
sunnu li chiù foddi 'nlra l'omini! Lassamu di parti li
filosofi chi sunnu d' autri paìsi, parramu na picca di cliiddi
nostri. Oggi poniiu spajari tutti pari pari Anzelmu, Tuni-
wasi, Bonavintura, Danti, Vicu, Gisrd.il, Galoppi, Gio- berti, Eosmini, o
tutti li so sculari. Chi ci vasi ad Anzelmu essici lu funnaluri di
l 1 On- tologismo 'ntra lu Alediu Eva cu la so famosa prova a
priori, accittata dallu stissu Aquinati, c a Bonavintura lu so'
Itinerario di la mente a Din, chi superò lu stissn Platuni — a Danti chi
nellu concetto filosofieu di lu dritta lassù arreri lu stissu stagirita,
e tutti li filosofi chi foni e chi nasciraunu a lu munita , comu dici
ed affirma lu filosofa lidiscu Stilai — Chi a Vicu l'assiri
acclamali! lu fondatori di la so bedda u sublimi Scienza
20 Mova, chi mancu diluisciti Sant' A gustino 'atra la so
sur- prìndenti Città di Din, nò l' insigni auturi di lu Discurat
stilla Storia Generali — iddi, sti dui Viscuvi, trattami l'arguiuentu
teolcgicamenti. Già puru lu stissu summu Eoraagnosi avia
avrriu paroli prima di la sciarra cu Vicu, chinuiandulu anturi li'
un presentimenti! fa ni astiai, o tanti autri beddi paroli. Ma oi ?
Oggi di Vicu bì arrivò a diri , chi iddìi lu granili napolitani , min
avia filosofia. Nun mi cri- diti? Lìggiti Augustu Vera, e vi convincati
chi tutti li filosofi Buona Denti , raaoari lu bIìbsu Vicu , anturi
senza filosofia. A Rosmini o a Gioberti nnn ci must rami li
nostri moderni filosofi tanta 'ncagna , aniri mi pari chi volimi
l'ari 1' ani u ri cu iddi pri lirarili a la so' parti. Tri Gioberti
, placatimi lu valenti Spaventa 'ntra 1' Opiri Postumi di In Turi ni si
quarchi i'rnsi nun svilup- pata , quarchi concetta nun chiara, ci voli
rialari la Bumìgghiania 'atra Gioberti o lu so' prediletti! Hegel,
senza accor{ririsi chi V Opiri stampati di lu smnmu auturi di hi Prima tu
stallini ehmiituli snpra lu principili di la CrìamoDÌ, chi si la fa a
caaKotti cu la filosofia pantiistica di Giorgi. 'Nfra P italiani!
filosofu e chiddu alimannu e' ò n 1 abissu chi li dividi, o chi tutta
la |>otcnza di la nienti di Spaventa min pò culinari. Nun
panni di Giurdauu Brunii, a iddu l'alliffenu , pirclil 1' bannu nautru
Kpinosii; aii^i, mentii p ri mia, Spi- nosa esaltali!, chi uuarchumi ha
dittu Spinosa 'inbriacu t l'ovini monacheddu di Kola fu iireu viva
comu un pinci! Din ci avia datu tanta 'utellottu, (anta fantasia
Digitized by Google 21 c
(nata cori, c la fantasia, lu focu di la passioni , c chiù In traili in
ondi a li farisri,... lu lìc-iru bruciar! vivile 'ndi ficiru spargiri li.
cinniri a lu Tenta! Qunnnu li ju- dici ci annunziavanu la sintcnza di
morti trimavami , comu na fogghia di canna — c Giurdanu cu (Ida
forza chi veni di l' innuccenza e di la superiorità chi sin! ìn
'ntra iddìi in cuufruntu di ddi carnifici , cu la forza di nn liuni o
tisu coma tin taddn di Giuda, ci dissi : Jlfii- jori forsaii con timore
seiitatiitim in me tìkctis, guani aio accipiam. Chistu mi ricorda, chi
'ntra ddi tempi jittnri 'ntra li Gammi un omu era conia flmiarisi oi un
sicarru ! Ju Din pozza loitari la cundutfa di Brami, di Vn-
nìni, di Arnaldo, di Paleario e d'autri, ma darili a 1» loca sulu pironi
pinzavami a modu so', ah ebisdì no, «un è agiri di cristiana , manca d'
omu 1 Pri mia cridu chi Din misi'i-icimliiisii uvirà faltu
chili bona cera alli vittimi 'nfilici chi ali carnifici spietati !
Vcru iddu i ehi bisogna guardari li cosi e l'avvini- menti cu V
occhi di ddi tempi, comu in grazia di esempi ir, a ddi tempi e 'ncostu ad
iddi, li stissi rcpubblichi famusi, lu sacchi ju, avianu liggi veri
barbari: cu allibava na junta di liri avia tagghiata na marni, cu 'ndi
ranfuliav.i lu duppin, o era rieidivu, senza misiricordia oi
taggiiiavann tutti li dui manu — si sciiirhnvanu allura l'omini,
comu 'nzinavantcri si li varano l'occhi cu la ferru 'afucatu a li
cardiddi, rappareddi, zumi e spunzuni. — Allura lu vas- salli! chi
ammazzava la palamma di lu so' princìpi, en cundanuatu a morti, ma si lu
principi ammazzava lu vassallu, eh' era un 1 nomo, comu tulli li principi
di la terra, si la passava pagannu pochi liri. Chi liggi di Draouni
qnannu lu tagghiuni era inlerpelratu material- 22
menti! Racchi elusili c sacchi ani ni m acari , ma chi voliti ,
bruciari un orna vivu , pirehl pinzava a modu so, era na barbarli
inqualificabili. Ma tant'è Bninu fu arsii vivo, mentri tra Pontifici
Clementi Vili, chi li storici imparziali o min sospetti , ci di\nnu di
bona pasta, e cu la direzioni di li Cardinali San Severinu ,
Aldobrandino , e Bellarmino , quantnnchi cìùstu era ge- suita , e si snpi
chiddu cbi successi 'ntra lu Conclavi , quannu lu vii liana erinri Papa —
sì jìsau un Cardinali c ei dissi a vuoi forti, corau un spiritatu a li
so' cul- leghi : Digmts , sed Gesuita. Jfa chi valiti erann
accosti ali ir.it i l'omini 'ntra autri tempi, chi hi stissn San
ltinnardn, lu locllifluu duttnri, cnnsigghiava di brueiari viva ad
Arnaldi! di Brescia 1 Quannu jeu penzu alla lini di Brunii , chi la
elo- quenti o sapienti parola di Cousin inzcrfa dicennu , la trace
Imnineuse et simulante 'ntra la storia di la ci- vilizzazioni , ni' acci
liana hi dìavulu I Como Adamu nun putti agghiuttiri ddu grossu
pil- lilo , accussl 1' omini di ddu (impazzii nun pettini oolari
ddi piunuli chi Bruno ci dava, o chiui chidda grossa grossa , di Lu
spaccili dì la Bestia Triunfantì. Ju non fazau ecu a li so' errori,
ma comu talianu vi vogghiu ricurdarì ddi so' btddi palori.
Italia, Napoli, Nola, quella regione gradita dui cielo , e posta
insieme inh-oìta capo e destra di questo globo, governatrice c
dominatrice de le altre generazioni, i sempre da noi et altri stata
stimata maestra, nutrice e madre di tutte le virtiuti , discipline ,
nmanitadi. E poi cu qual' impigna mi putiti nigari cbi l'
omi- ni sonni! pazzi, sunnu privi di l'usa di la rngiuni ?
□igiiized by Google 23 Ju sugnu cntolicu,
min mi virgoguu, anzi punì mi vantu di dirilu, c l'aju »t:iiii]):iln. mi
dispiaci, e quandi, dì l 1 erisia; brainiria e vurria vidiri 'ntra tutta
la terra un pasturi sulu ed un covili — ■ preju pri li traviali e
li raccumandu a Dia — ina ju min fussi capaci alli eretici , sulu pirchl
eretici , sciupparici un pilu di la barba. Ju mi tegmi forti
cti la Santa Scrittura o cu li Patri — ju aju 1' occhi all' istituzioni e
non all' omini. Ju sugnu cu In gran Viscuvu d' Ipponn, chi dici :
Dili- gile homines, inlerfietìe errore*. — Sì, amuri all'omini,
morti all' emiri. . 7. Ma villania la facci di l'errori
e virgogui di l'omi- ni , e turuamu arreri pri vidirinni aulri.
Ju vi dicia chi li nostri filosofi siimi ponnu andari a eogghiri
cauliceddi, o procchia, o peaza pri li strati, i) mozzoni di sicurri pri
la via. Voliti sapiri cu 1* avi ditta ? l'avi dittu lu signuri Augustu
Vera, a cui sempri ci leni la birritta. Wdu dici, chi lu filosofu
veramenti filosofi!, hi filosolu chi tuccau la cima di dda sapienza
, a cu nuddu avia pututu arrivar! e Giorgiu Hegel. E nun o' è nutra
filosofia chi chidda so'. Ju mi ricordu di na proposta di llgu
Fosculii ijual- menti velia tirati tutta lu sucu di tutti li libbri ,
e ficcarilu 'nfra un miggliiaru di volumi — n liruciari pui tutta
dda riibb.i//,;! v. ci hia chi listava. Ma megghiu fannu pri nui li
paioli di iu nostra siciliana Mnanmeci , chi tantu foddt pri I' opira sni
dì 24 la Gran Teoria di la Cunserradoni, ci
dicia un ghiornu ii n' amidi so 1 a Napuli , mentri cranu 'ntra la
lucanna ; Bruciali tutti li libbri di tuffi l 1 anturi , chi ci
sunna Stati a lu mimmi , pirehl sunnu pari pari tutti 'nipu- Bturi
— 1' opira mia è la siila viriti ! Chi vìndi pari, nun c'azaicca? E
si ali palori di 1' Onorevoli Vera si junci punì chi Michelet ,
filosofu tidiscu, parranmi di Oiurgi, di la sa' catrida a Birlinu,
i sanno l'occhi a lu oda c junoenda na marni cu l'autra dicia: Giorgia
Hegel era un santo! E quasi quasi nun chiancia ddu affemonalu scularu pri
la santità di lu so mastra ! Viditi , ora mi vaju pirsuadennu
megghìu , elii la filosofia di Hegel nun ò eludila ehi va spacciannu lu
si- gnur Vera. — Nun avi tonta tempo chi certi filosofi pri
'usitiuari li duttrini di 1' anturi famusu di l'Etica, di 1' oechialani
d'Amsterdam, dìciann chi idilu era mu- rigeratu, tanta murali, chi iddu
era 'nsumma un sanili! Viditi chi lu stissu Vittoriu Cousin si fici
licitu para- gunari Spinoza cu 1' autori di l' Imitazioni di Cristi!
! Mi pari chi a stu moda sinni va a Diavulu la li- bidi di
pinzar! o qualuiujiii discussioni libica, 0 senza preoccupazioni —
s'arriva a la infallibilità di lu mastra pri naiitra via !
Poviru Mariu Nizzoliu chi prima di Cartesiu avia proclamata ntra la
nostra Italia cu l'opira so' — I)e vcris principila et vera rutiuiie
philowphandì — la libertà di filo- sofarli dicennu 'ntra tanti beddi
cosi, coisti chi vi vogghiu ricurdari : ■ Generali: piiiu ipium voritatis
est libertas i et vera licentia sentieiidi ac judicandi de omnibus
rebus i ut veritas ipsa remmque natura postulai. Uoc est,
25 • ut is qui mete phiiosophandi studet, ante
omnia ■ libertini se conservet ac solutam ab croni
philosopho- ■ rum aecta, nec alla cujuspnam viri quamlibet
magni • dottrina) fama Sfa teneatur ast rictus , et quasi
com- ■ peditus , qui quia ipsi prò rei veritate probanda nut
> improbanda videbantur , ea libere , et sino ullo im- ■
pedimento probaro , aut impvobare • (1). E pura li so scalari, di
Hegel, min ci cridiim a tutta cliidda , chi si va cliiacchiariannu 'utra
di noi , pivelli ognuno d 1 iddi penza a modu so'. Si haimu divisa
in destra e sinistra, conni 'ntra na cammira legislativa, 0 poi bì
la fannu a cazzotti , o cu poti chiù si la porla. Ndavi difattu
'ntra li so sculari alii, materialisti, fatalisti, panteisti, o tutti
figghi di la stissu patri! Lu quali, dicemu la viriti, aria ditta, olii
la so' dottrina era tanta profunna chi nuddu di li so' discipuli 1'
avia caputo — farsi uniiidu sulu, ina min beni. Banca ju
cunchiiidu : la filosofia di Hegel min era pri 1' omu da nui cunusciutu,
ma forsi pri nautra razza nova , o meggliiu , pri nautra specii. La
nostra è trop- pi! assai foddi, chidda chi venirà di la dilaniata
tra- sformazioni, sarà meggliiu organizzata — e perciò mena
Ora cumpreridu H paroli di Kan Paula, quannu dici: Guardativi chi
quarchidunu nun v' inganna cu la filosofia, E dicia beni Paulu, si
li filosofi smura 'ntra 1' omi- ni li chiù pazzi ; era giusta e sanu 1'
avvilimento. E poiobl la lingua dissi Paula , e li palori
sunna coma lì eirasi , voggkiu diri punì chi Paula senza (1)
Lib. I, rap, Do thi nt. pilli. Diaiiizcd by Google
20 vantatisi filosofa, pridicau 'mncnzii li filosofi
'ntra l'Areu- pagu , e li so' beddi o sublimi cuncetti passami chi
gonna di chistu o di ohidda ! E ilda fratìllanza universali 'litri
lutti 1' omini e li populì di la terra — la solidarietà 'ntra iddi,
pirchl sunnu membri di mi stissu eoipu , chi avi nn sulu a stissu
capii , o si unu d' iddi sì doli , 1' nutru udì pati. E accusai vìa dice
nnu... sunna farina di lu gru nni sacca di Faulu , c non di li sacchi di
tanti antri chi dannu a cridiri mari e munti , e poi finiscimi cu
manifistari la so' pazzia. E sapiti midi è la pazzia di tali
o quali filoso- fimi ? È in chìstu , chi scurciaru di 1' Apostulu di
li genti ddi granili viviti , oi livaru la parli positiva, li fkiru
astratti e peju, c li vannn pridicannu pri la mimmi vecchiu e novu senza
autorità, senza liggi o BCtiza Din, conili pazzi chi sunnn o sarannu,
muslrunnu nun a viri 1' usu di la bedda ragiuni. 8.
Basta pri lu municntu di li politici o di li filosofi, videmu si
putemu 'nzirtari la casedda unni si trova am miicciata la bedda vantata
ragiuni. Mi votu a lu campa ecunomicu, e a mia pari chi mancu cc& c'
è spirnnza di truvari la tana o lu jazzu di sta crìduta rigina di li
omini. Quanuu si parva di riccliizzi !Ì muderni 'ndi vonnu
ccntu a majorca. A mia pari chi cca punì la ragiuni ha futtu
fiascu. Ju lu sneciu chi oi la summa di lì ricchizzi, di li
menai di godimenti! , di li cosi pri sudisfari li bisogni
Digitizod t>/ Google 27 6
granili rissai, c supira in quantità, pian e misura BOCCU avianu
l'antichi nostri patri. Oggi un arripezEaturi e un cuslureri liannu
chiù cum- muditati di lu granili Agamenmini, di lu ro dì li ve — a
lu quali 'ntra li jurnati d' inverni! tuccava stari 'ntra li so cammiri a
lu scuru — quannu avia la flussioni o forti catarru 3' avia a siujari lu
nasu cu li jdita, o cu lu manta riali. Senza cammisa di fila 0 di
musulina stava 'mmnggluntu 'ntra la lana di slati e d' invcrnu;
scnaa fari pinitenza era un veru cappuccina Un cus turi rie
chìu avi la so' 'nvitriata, c godi di la bedda luci puru 'ntra li jurnati
chiù scuri — avi lu so fazzulettu pri lu nasu — avi la so cnmmisa di tila
o di mu sul ina, e rebbi pri lu friddu c pri lu caudu. Lu
granili Àgnmenmmi 0 un so pari, re, magnatu, 'mpcraturi, quannu
c'indehulia la rista, nun avia chi furi, mandi si piilia illii !n
insanii, piivliì n-miu turchi 0 brei. Quanti beddi cosi ci sunmi
ora? Vai li s api ti, e perciò vaju avanti. E puru cu
tuttu chistu l' orali min avi avanzata, s' avi 'mbrugghìatu pen, e
ruvinatu. Eecurai a li provi. E quanti provi e riprovi
pulirla dorivi ! Si ecidi chi quannu si junci a mcntiri
ricchtzzi , supra rioehÌBzi, d'aviri cliiu 'ndnstria e traficu, chi
s'avi fattn tuttu. Gnirnò, gnirnò pri ecntu milia voti. Auniin-
tannu li suli godimenti, li siili utilità, piaciri c eom- modila, cu
chistu sulu l'omini s' imbriaeann 'ntra H piaciri di li senni , min
sentimi chiui o pocu li nobili aspirazioni pri lu beddii, pri lu veni,
pri la santu, e pri lu giustu, e Vangati 'naina a la gula, comu li
porci, 28 '□ira la materia, sentimi! sul u li
cosi materiali, e ma- cari 'ntra In sonnu, conni 1' annnluzzu di Kant'
Antoni , 'nzonnanu la ghianda. E aconssl, accusai a picca a picca, di
mali in peju, 'ridi veni ddu spaventi villi regressu, chi Diu mindi
libira. E pirolil (uliii «Mutui' l'i ioli! ([iiamiii li
beni, nialcrjalì crisi-imi in abbini' danaa , si timi si leni forti 'ntra
la so fi olii na granili dosi di giustìzia, di bontà, di bòni costumi, o
chi sac- ciu jn, sindi venirla couiu tanti diavuli li discordi, na-
scimi tatti li gilusj, e tutti li passioni «satinati cusler- nanu la
povira umanità. Chidda chi ju vi dicu e In vangeliu di la
Santa Mi B8a — E si non aviti fidi a mia, sinlitulu pam di la bucca
di dui omini granai, non di lu lielgiu, o l'antro Italiana.
Dici lu primu, lu Signori Ah arena: ■ Il materia- ■ liamo
disapprovalo in teoria, regnt geueralmentc nella ■ pratica: la
novella potenza industriale, senza contrap- > peso morale, ha
favorito siffatta tendenza, 0 la cor- > ruzioiiu si accrebbe coi
due estremi dell' opulenza c ■ della miseria : ogni cosa attcsta
una scostumatezza , ■ una corruttela che invaso tutte lo parti del
corpo ■ sociale • (1). Chi vindi pari?
Sintiti ora lu sapienti Conti T. Mamìani di la lio- veri: > Ella
è una verità confessata oggimai da quanti ■ col pensiero innovano
in traccia di un rimedio o di • una correziono efficace a guarirli la
nostra generazione (]} Alunni . Curi» di Dritto Kitantt, vii. 1 ,
p. I , rap. Il . ! X. □igifeed t>y Google
29 • da quel!' anarchia morale ed intellettuale , ondo
gli ■ animi sono pur troppo afflitti o travagliati, the il
■ malo attesi; le profonde radici che ha messo prima- » mento negl'
intelletti e nei cuori, poi di mano in mano • nei costumi c udì'
ordinamento civile medesimo ■ (1). Ju varria chi tutti avissuru
prisenti li paroli di li dui citati sapienti, olii sunmi verità
vangolichi. Ahimè ! L' omini Boriati fatti accusai storti e
mala- rettehi, chi s' abbagghianu di l'apparenti, vardanu la la
forma, e no la Bastanza, vardanu la parti acciden- tali e nun chidda
essenziali, e tutti 'ncan ti simati di li 'llusioni di cosi fausi chi li
soiorbanu, cunfunnunu la vera civiltà cu cliidda fausa, chi si spaccia
pri chidda vera. Ancora aju ntra 1' oricchi li paroli di lu
Bummu Eomagnosir ■ Quando tu ini mostri solamente scritiure,
■ pitture, sculture, so io forse se un popolo sia prov- ■
veduto di vitto, di vestito e ili abitazioneV Quando mi » mostri armate,
corteggi, consilii, feste, conosco forse > so egli gode pace,
equii» e sicurezwi, mediante buono ■ leggi , un' equa amministrazione
, ed un potente or- . dinamento ? . (2). E pura smura digni
di ricurdarisi st' antri ditti di n 1 autru auturi, li quali sunnu
accussl beudi, chi panniti fatti a posta pri nui. . Il falso
oolle apparenze del vero, il malo collo > apparenze del bene ,
scuoto 1' occhio volgare , ma > alla vista penetrante del
sapiente ò la cronica infer- ii) Snjy-i .li Filusutn Ui«lc tolti
di^li /Itti jtcMdnuri d. Hku/n /fot™, o IHllMirali ,h\ sa» H^lari» l'rof.
CI. Itoqcirdo _ Cuora 1SW, l«g. 3- (2) DilITnJMh e dei VMatì
dell' IjwmtimHLte, p. 1. Digitizod t>/ Google
30 • miti della vita degli stati con il lieto colore
nel ■ sembiante <li florida salute ; è un vizio organico
del > corpo sociale, clie ne consuma la vitalità, mentre
■ clie i sintomi estcriui-i a e eoli nano vigore di libbre e
• di nervi ; ì> un moto retrogrado , o mal diretto della •
società, che si avvicina alla morie politica, e copro > la
ritirata o il traviamento con artefatti splendori , ■ che agli
occhi del filosofo sono i presagi dei suoi fune- ■ rali. E cosi
brillando, si estinguono, a similitudine > della fiiimma
artificiale, che, mancando dì alimento, . più crepita o brilla, quanto 6
prossima a perderò la . sua vita splendidi» ■ (1). Sintistu?
Jeu spera chi li cosi 'ntra sin munnu nun andassiru accussì di mali
inpoju.echi avanzwmu cu la pala lu beni matiriali inizi si vidissi vinili
menu chiddu murali — 'nsunima chi nun fussiru in ragioni
'nversa. 0, Sperami] ! la spiranza , dissi un filosofi!
chi era poeta, forma parti di l'umana filisi t a. — L'anturi di
!' Antodi» di Firenzi dissi chi era la in di la vita — pri
mìa è na ddiccafa di meli obi Jiannu li veleni di la vita — All' omu
ngghiulfuinu veleno , ci pari cu dda ddicata di moli , di manciari cosi
duoi. Nun finiscimi cca li mali di lu munnu economicn cu
tutti li granni Economisti , aceuminzannu di Serra , Ortis ,
Ginuisi , Smith o finennu a lu viventi nostra siciliana Ferrara, e
poni a lu min valenti amico Maja- rana Calatala tana. (1) Ve*
Àntokigi» dì Tmaa, n.' 11 M 2.* decennio. 31 Vi
ricordu lu misi di Giugnu , quanuu 'ntra Parigi lu repubbli cairn
Gcnirnli Cavìgnac appi a ncsciri cu 11' armata dì stintali e on tanti
cannimi pri elim- inati iri ; chi cosa? li ligitlimisti ? gnirnò — pri
cum- ìnattirì a cni ? lì Orlianisli ? gnirnò , gnirnò. A cu dorica
la Repubblica Fraticisa vulia distruggili ' J Vui lu snpil.i , lu
Sucialismu , lu Cuuiunismu. Ttun ei trattava chiui di ddu campirai chi
avìa fattu llicu Saint Simon, chi bastaru na curupagnia di gronateri a li
tempi di Luigi Filippu a sdirrignarilu non lassanna petra supra
petra. Iddu già Sansimuni, comu prnfeta, mentri stava rinnennu l'anima a
Din o a lu diavulu, ci l'avia dittu a littiri di scatula a li so'
scolari: La poìre est mure, iwtó la adìicres, ohi vi vogghiu traduoiri
accasai: Beddi figgili mei, ju moni, mmdi occhiami leggiti leggili,
badali a rvi, la pira è fatta, viti min sautu la pittiti cogghiri,
Sa- jiiti vui chi 6 la pira sansimuiiiana ? 6 la robba d'antro.
Nui semu 'nnuccenti assai 1 robba d' autru , vali a diri ubi la
propietà è un drittn , ma si idda e un furi li , allura li propietari su
tanti latri — (tanca ù logicu, ad iddi ! ad iddi 1 ! !! Ju
min cuntu favuli, ma ricordu verità dulurusi e di fattu. Cu
assaggia ddi liggi fatti supra dda basì, cu ddu spiriti!, psu dì chiddu a
prova di pruvuli, comunista si addicca li idita. Simun pri menu mali
tassì non supra li frutti chi dugnami H propietà, ma sopra la pro-
pietà stissa, cioè, mi spiegu uiegghiu, nun sonno tassi sopra Iti fruttati!
, ma sopra la cosa stissa, livannuc- oinni na ritagglùa; c na ritaghiedda
oi , imulra doma- ni.... Ah chi brullii jocit, chi laida iindenza chi
vili! Si, diciti a chiù min pozzu chi I' omu avi l'usu
di E poi vutamu naulru fogghiu. Comu vuliti chi a vissi
1' usu di la ragiuni chidda chi chiamasi vulgu , si vui aviti latta ogni
cosa pri purtarilu al a guerra con tra Dia, centra li ricchi, li
pro- pietarj , li capitalisti. .. -sirvennuvi di dda inalintisa
eguaglianza e fralilliinza , pri nu riourdari autru ? Chi spiegati a modu
vostra, lu renninu salvaggin, barbara o quarchi cosuzza di chiù tinta. Hi
vui ci aviti ditta para chi iddu è Diu ! Lu puvireddu ripensa a li
vostri ditti , chi b' avi agghiuttutu , e ci cogita supra pirchi
fannu pri 1' utili so', e dici 'ntra iddu stissu : si ju su- gna Diu ,
coma lu ticou , comu lu propietariu , lu ca- pitalista , coma lu rocu
gnuri, chi ragiuni ci ìs chi jeu aju a travagghiari lultu lu jornu o li
ricchi starìsinni a spassi! ? chi ragiuni ci 6 chi jeu aju a caminari
a podi scausi, mala vistutu, tuttu tipizzata, e iddi 'ntra li heddi
carrozzi chi si paparianu , vistati cu lussu a la Lion? Chi ragiuni chi
iddi sì annu a fumar i li heddi sigarri di la vana , o jeu, a quamiu mi
tocca, un muz- zuni di sigarru scarfidutu ? c pri iddi In tiatru, li
festi o giochi e jeu «enti '. J chi raglimi chi a mia avi a tnc-
cavi un pezzu di pani e formaggio e un hicchcri di vinu acitu, e ad iddi
li beddi pitanzi di carni, pisci, caccia, jaddini, e picciuirì,
pastiniti, vini d' ogni sorti e d'ogni man era, e tutti li piaciri '<
.tVrcUi iikli limimi a cuman- nari e miatri povireddi a servili ? Sunuu
forai figgili di la jaddina bianca ? Unii' è chi lu siili quanuu
nesci iddu nesci pri tutti? E chi l'acqua cld clùovi è man- naia
pri tutti? E 'osino a eoa ci summ pinzeri o nenti autru chi
pinseri. Ma si lu Diavulu ci ispirassi ? Jeu dica lu veru chi ci
hannu fattu perdiri lu ciriveddu. E guai cu la pula ci saranno, si tutti
li sonni e l 1 er- rori , si pri malasorti si andassi™ allargannu , pri
poi viniri avanti 'ntra la povira società, chi avi a essiri
serupri, o si voli o nun si voli, fulidata su la riligioni, la famigghia,
la propietà — e perciò supra Umorali, sopra lu duviri, supra lu
Guvemu. Poi ju dìcu, chi è na vera 'mpirtmenza e na granili
'ingiustizia suffriri a vidi ri un Diu morlu di fami, tutlu strozzata c
tuttu lorda , o chimi di mali e chiù scemi di li scecchi t Cu
quali curnggiu oi putiti diri : Stadduni ignobili Oh foddi, foddi ,
si sta divinila poviredda si ri- svigghia, e senza misericordia, unni
andirannu li ricchi V Jeù lu sacci ti , e 1* aju sjrittu , chi
trasfurmari la plebi in populn è cosa giusta.... ma dda
riabilitazioni chi Tanna chiaccliiariannn min avi chi fari cu la
Irasfur- m azioni , sunnu cosi di romanzu. E iddu li romanzi o li
giornali, tali e curili, hannu vastatu la menti o lu cori di la povira
genti ! Hannu vulutn alcuni auturi rivilari quarchi chiaja, comu iddi
dicinu, di la società, o pri mala vintura senza dari rimediu, hannu
'nchi/ijatu tutta para pani, 'ni ra tldi paisi maggiurmentì, l 1
afflitta società. Ah, si fttssi oca lu min amicu Masi Gullu,
chi dici chi la ragioni, la quali scinniu di 1' aulu, lu purU autu
autu a trnvari in motu perpctuu — ci dina valenti omo, und'ò sta ragiuni
chi tantu magnifichi, si tutti l'omini sunnu pri lu menu foddi? mi
suppogim la so' risposti SI clii saria
coniti chidda di Archimedi , senza 'mpirìi an- dari a la nuda pri li
stradi — V aju Iruvalu , C aju franate V Ju fazzn un dilemma
: 0 Gullu lia travata o non La travata lu mota perpetui — Hi iddu 1! avi
truvatu, 1' umanità ndi aviria un beai ; si nun 1' avi travata ,
allura pri lu miu arguiuentu ci saria un beni , pirchi eviriamo, nautru
foddi di chiù. Ju disìdiru stu casu. Chi voliti tini bracia pri
In min cudduruni ! Dunca ù pazzia, min darici 'ntisa.. Spora
chi finissi sta cunieddia di In uiotu perpetua, c chi li ine' partili
fnssiru ben ignam enti ascultati , pir- clil quannu si voli, senza fari
na nova liggi a posta, si po' truvari lu menzn di sintirilu senza
pregiudiziu di nuddu. 10. Continua la mia
cicalata, ma triniamo, pirchi via tanti omini dotti , mastri mei e di
chiddi chi gonna saputi. Sunna così bernischi li nostri paroli, jucamu,
o nenti aulru chi pri jucari acchianu cca supra. "Vi prega non
piggbiari la cosa pri lu seriu e pri daveru. Oi ed ottu ci
aggiustai li cusluri a Pitagura, a la repubblica di Platnni, ad
Arislotili, e poi a lì soli tidisohi, a lu filosofa di Coenisberg cu la
so' Dialettica Tras con (1 intali — Poi mi la piaghisi cu li giuristi e
li politici — e ci desi dui scoppoli a Obbis, a Russò, a Pietra
Leroux e ad antri sapientuni. Poi . passai a li i'Vmininisti , e cca
dàlia chi dàlia, e quanta! Ora a cu pifffihiu , a cu afferru pri
dimustrari megghiu lu miu arirumentu ? C'è robba assai — ma
ju strinciu quanti! pozzu. Chi vuiiti li pazzli di l'emini sunna
tanti e po' tanti, chi semprì nun rostu cuntentu di chiddu chi
dicu! Ci fu cu dissi 'ntra 1' antichi, chi Y animali hannu 1'
usu di ia ragiuui ; ju pri mia la negu puru all' omu, e 1' aju
diniustratu. Ju nun vidu beni chiddu chi tanti autori,
maestri di color che sanno, hannu vululu diri di li diffirenzi
'ntra 1' omu e 1' animali. Vaja finitila! 1' omu è n'ar- roalazzu , comu
tutti 1' autri , o vi lu mustru cu tanti beddi auturi sani e chini di
vita, e puru cu tanti ar- gomenti mei. Si guardati 1' omu di
la parti di la menti , chi ci viditi chi vt pozza fari diri : chi iddu è
quarchi cosa di ehi al di li best'ii? Prì mia Denti. Iddu è
vera cbi tanti autri dissiru viirabilin, mari e munti, nautra picca
dìoìanu ehi l'omu fussì Diu, si nun lu dissiru — ma chiaccbiarì,
Tan'.asf, llnsìoDÌ, nutrì pazzi! , autri provi chi ad iddu nun ci
durinoli la ragiaui. Ri vantami li oasi e li palazzi suntuusl , chi
avi fattu 1' omu, nun e' bannu a siurdari li casiceddi di li
castori, li cupigghiuni di 1' apozzì, c li nidi di 1' aceddi; lì «piali
opiri di 1' auimalozzi sunna accussl beddi, fatti cu tanta maistria c
talento , chi hannu fattu la di li zia e lu stupuri di tutti 1* omini ,
accnminzannu di Sala- muni , Teufirastu , Virgilm . . . 'nzina a nui. E
si iddi nun migghiurnno 1' opiri soi , chistu succedi , o pirchl
pri saggizza e pri moderazioni si cuntentanu di fari quantu ci basta pri
li so veri bisogni , o pirchl hannu tanta abiliti o granili 'ngegnu chi
senza stentu e cu 36 un rara periria ranno 1'
opirì soi perfetti di priniu ac- chitta — qaannu l'omo avi lantti a
stintari, sbagghìannu, e poi rlfocennn e curreggennu, c scmpri ristanno
scun- lentu 'ntra 1' nnimu su', chi è uà pigliata, chi scmpri
vugghi , e nini eocì nentì , ma si distruggi idda stissa. Si iddi
min hanno fn lui strumenti e ìnachini ed autri stìgghi di casa, chistu è
effetto di la perfezioni di 1' animali , chi nun avenno bisogno di na
cosa, non la fa. Accussl iddi suunu un terni uni il ni, un baroni
tru, un sismografo , sapennu prima assai di l 1 unni chi avi a
chioviri , e hi oauda , e lu friddu , e V umidu , e la t impesta, o li
terremoti, e lidi avvertimi 1' omu dista so sdenta , cu li mozziconi , cu
li gridi e li fracassi ed antri sigili. Misuranu lu tempo e
cerniscimi li stagiuni, oomu lu gaddu, li rinnineddi, li quaggiù ed autri
aceddi di passa. Hnn è veru chi nun cancianu inai li so'
opirazkmi, chi sunuu in perfetta stasi , giacchi quannu la natura
ci 6 contraria, fanno cu prudenza all'opportunità li giusti e saggi
canciamenti. Accussl lu struzzu , 'ntra li paisi caudi assai, pri fari
sai vari 1* ova, opira di na mancra , mentri 'ntra li chiù timpirati di
nautra. Li quaggiù olii pasanu 'ntra li nostri paisi a lu tempu di
la primavera, quii si movimi mai di li diserti di 1' Africa, nun sulu 'ntra
dda stagiuni, ma quannu spira lu ventai sud-est — accussi fauno tanti
autri aceddi d' acqua, pri passari di na spiaggia a nautra,
apprufit- taunu di la rema, si fanno strascinar! di 1' acqui.
Fannn puru di 1' ammassi , hannu capitali — comu li castori , li
furmiouli chi si sanno fari tanti beddi mogoscui sutla la terni. Vado
adfomkam, o piger, d considera rias ejtis et discc
sapkniim». E si iddi cog- ghinu furmenlu chiù di In bisogna, s' intra Iti
'uvernu restarm assidìrati , non è curpa so , ma di la stagiuni. E
poi min ci aunnu 'ntra V omini 1' avari , eh' ammas- sami pri tanti anni
immenzi ricchizzi , c Bucami la sarda e montili dì misoiaciu ?
Qttantu cosi hannu apprisu 1' omini di 1' animali ? Vi lu dici la
cicogna cu lu so' beecii longu , chi ìnsignó a V ornu a farisi li
cristeri — P api o li [or- miculi a sapiri beni guvemari cu li so
ordinati asso- ciazioni e beddi governi — li taranluli a fari la
fila — li castori cu li casi a due o tri appartati ci (lettini lu
mudellu di l'abitazioni — ii quatrupìdi ci insignarn a natari — lu
Nautillu 1' arti di navigali , di maiiiarì li rimi , di riciviri P urtu
di li venti. Ah di quantu casi non sunnn capaci li animali!
zzi li chiù picoiriddi ! Vi lu dici la tarantula di Pellisson
, a ohidda di Pellicu — - chi di Vanta di la prigioni a lu sonu di
lu bicchieri , chi tuccavanu ohiddi cun firruzzu , scinnianit supra
lu filu di la so' tila, ed andavanu a pusarisi supra li yrazza di ddi
'llustri prigiuneri, o poi si accustavanu a la so' vucca, ci la
basciavanu, e ci sucavanu la saliva. Cu T occhiu Buttili di la
sapienza tanti cosi granili si vidimi 'ntra 1' animaluzzi — ma bisogna
studiati o jttari sangu supra li libbri e supra 1' animali stissi ,
saponmili intirrogari, chi iddi a cu li sapi intirrogari ci rispunninu.
Rispunni la natura bruta a li fisici , c non vnliti chi rispundissi
ohidda animata a noi ? Vi vogghiu ora diri li beddi risposti chi
bannu avida tanti granni anturi — Kintitili pri pìaciri. Digitizod
by Google Eraiimu Darwin ci dici citi l' animali , comu
li cani, filtrati contratti '"Ira d' iddi, o cu 1' omu puru —
iddi li bistioli hanno 1' idei iicddi c netti di la giusti- zia e di 1'
onestà — Sulu ci jtmci sta clatisula , chi li cuntratti chi fanno lì
bestii cu imi , stimiti comu chiudi chi fatimi diti omini di liuguaggiii
diversi!, chi nuli s' intendi mn. Li cavaddi 'ntra nui , dici
lu stissu anturi , niu- strami pocu signi d' aviri comuni regulamonti —
ma 'ntra la Tartaria o la Siberia, undi suniiu cacciati di li
tartiri, fannii na sorli di società, mettimi min sulu li .siutinelU ed
hanno capi chi li dirigenti e li sullicitunu a curriri , o andari oca e
dda — Punì 1' apuzzi hanno un regulamcntu clii uni nini cimusccniu, è
vera, ma chi esisti — Hannu nsumni.i 1' animali na specii d' arami-
lustrazioni, chi nun è ccrlu chiiìda di l'omu.nia l'anno si min autrii in
germi — pri quanta ad iddi ci basta — soma cummettiri ddi emiri chi pocn
onurauu la no- Etra specii. E Gioja acconsenti , c ai firma
ut sopra ! Vindi dicu nautia. Si dicina tanti cosi di
lu putiri tradizionali di Tornii, comu patrimonio esclusivi! di la so
specii, o chi forma un granni titulu dì la so grannizzo t Nenti
, non ci criditi , 'ntra 1' armaluzzi e' ò pam la tradizioni di generazioni
in generazioni , comu 1' os- servarti hi Sig. Adanson , lu nostm M. Gioja
'ntra li gaddini d'India, 'ntra li enniggliia nostrali e 'ntra
chidili di 1' Isula di Sor vicini! a lu Senegal , e famiu trasiri
puru a Linneu pri testimoniti (1). (1) Vedi Giojn, Idwloji. ; Tom.
1. Fir. 1- p.g 13. 39 E la S
ig. Dupont da Nemours , faccnno pr meditazioni
sopra In canta di li Corvi , cumisci iddi hannu na
lingua so cu diversi desinonzi , qu di pari uniformi e
monotona. Sin litigi di li Corvi è composto di 25
paroli , vicini l 1 c » uno li stasi, e una confundirisi
| Kdi 70 liti sapiri nautra, clii sarà comu la
bu Si Darwin avia raauifestatu chi l' animali si
dilet- tanti puro di fari cuntralti , senza 1' incommudu di li
nutari e lu pisu di li tossi, ed autri cosi ehi aju ditto, c Gioja
l'appoggia, e quanta, 'Ntoni Coste, lu tradut- tori trancisi di Look,
dici, chi iddi scntunu virgogna e pintimcntu , Adanson ci dugna lu putiri
tradizionali e Dopont do Hemonra la lingoa a li Corvi — Pliniu dici
a littri di scalula chi 1' Elefanti nanna idei di Reli- gioni , sunnu
riligiusi , ma senza aviri chiesi , altari o panini. Ch'
ingegno profumili di st' anturi, chi hannu aocossi beni saputo leiri
'atra 1' animali , la giustizia, l'oiòstà, la tradizioni, lu pintimcntu,
la virgogna, la riligionit Jeu non vi lo dìcia chi qoannu ei sanno
intirrugari, si vidi chiaro e beddu chiddu chi sfui a 1' autri , o
si vidi comu quattro e quattru fannu oentusissantaquattru ?
Ju vi parru cu 1' esperienza 'ntra li marni , o non pozzu
shagghiari. llitiniti comu certu ehi tottu sannu fari
l'animali, e cu chiù ordini e mudirazioni di 1' orou. Si quarchi
cosa nun la fannu , chistu soccedi a pirchl non vonno , (1)
QualqiiM ÌIsrnoirts sui jiJtrail;» njL-ts, Ir. pina pari il'UiiUiire
imlurollc, c de ['hi-hi'ic ^upillIl' ci [':uti' iiIiotc . ~. É OÌÌ1ÌY1I in S.V
Pa- ri* 1S13, 228 40 a pirchl la gnuranza
di I' omu lutti ci la sapi eomuni- cari o risvìgghiarì 'iitra li so'
spiriti, min dicu brutali, cani JVi/t* chi Uggia , scrivia , facia
1* abbacu c jucav* di lutti, e pri virgogna ili chiddi chi min
salimi Irggiri e scriviri 'ntra di nni, chi assumili anu almcmi in
Italia a IT milinni. Fu tanta hi frncasau c lu stupuri chi facia lu
sapienli J'ìViti, undi andava e dava prova .tesassi bedda di la so'
sapienza , chi quarchi Viscuvu 'ntra li Calabrj hi proibiva, e hi fici
Cacciari, conni opira 'lidi- moni afa e poju. Era beddu e
purlintusu vidiri Fidu , quannu avia a mirili na parola cu duppia
cunsunanti — andava 'ntra 1' alfabeti! pigghiava la prima cunzunanti ,
poi tiirnava e nun vidennu ia secunda, bajava, si dispirava, faoemm
chiarii a comisciri chi cindi vulia nautra — ai miltia dda cunzunanti a
nautm locu di l'nbbizzc, e iddìi cu rari! accurgimcnlu c cu l' ali i
grinza, chi e figghia di li seuverta di lu veni, la picchiava, e
ciimpunia la parola. E oca min fini» 1' opira di hi mastra di Fidu,
lu signuri Farina Italiani!, giacchi lu rara 'ngegnu di iddu
rinisciu a sapiri BVÌgghinri la sapienza di autri dui cani, pri nonni
unii Moniiti , V Mitra Biantu. — Di Monitu min vi pana, piretri vili
scrittu chi facia a Parigi ile* cìioses inci-oyables — ju criu ehi appi a
dari quarchi lezioni a la Sorbona, o pura 'ntra lu Culloggiu di
Luigi il Orando ! 0 calli sapienti, o sapienza di li
coni! /'ì<ri< cumpunia tutti li parali di la lingua
italiana, chi ci vinismi addittatì. e traducili cinquanta paruli in
41 sei lìngiiì, cioè fra nei sa , italiana, latina,
'ngrisa, ali' manna e greca. Lu sapienti Fìdu facia Y
addizioni, la suttrazioni, la moltiplicazioni e la divisioni accussl beni
e cu tanta sullioitudini , quanta lu caia esercitatu 'ntra la
scienza di li calculi. Fidtt e Bianca jucavanu a li carti
'ntra iddi e cu qualunqui pirauna , comu li megghiu jucaturi.
Iddi cupiavanu tutti H Boriiti chi ci vinÌBsiru pri- sintati.
Cunusoianu tutti 1' oggetti , tutti li cosi , tutti li culmi ,
tutti li sciuri , lu valuti di li muniti Si pruvaru a jucari cu
Fidu tanti bravi jucaturi franciai, e foni abbattuti, pura un giovani
eullcgiali, chi avia beni studiatu 'ntra lu libra di li quaranta fogghi
! Quanti dumandi ci fioim, a tuttu rispuairu! Un dottn
naturalista ci dumandau l'epoca di lu regnu di Franciscu Primu, e chidda
di lu regnu di Er- ricu Quartu e ci 'martori tutti li dui epuohi.
0 cani sapienti, o sapienza di li cani ! Nun vi maravigghiati
di chiddu chi dicu , chi è virità lampanti. Ddi cani nun
facianu chiddu chi aju ditto pri si- gnali di In patruni, chi non ndi
facia affattu — mane» l'armali lu guardatami, chi di rara.
Dunca? Ndi veni chiddu chi ajn dittu, l' animali o nun vonnu fari
na cosa, o l'omini 'gnuranti nun ci sannu fari nasciri la voluntà di
farla — Iddi hanno la sapienza in putenza, ma videndusi chiusi 'ntra ddu
carpii pilusu e laidu si siddiami, si pigghiaiiu di malincunia, o
min 42 danna provi di la so granili intilligenza
, o fannu sulu quanti] ci basta pri li so' stritti bisogni.
Qnannu 'nipìro hannu simpatia prì qiiarchì onta, chi si l'avi
saputu aflizzìunari e» li boni trattamenti e cu li boni maneri, allura li
cani fantiu vidirì la grannizza so qnanta è purtinttisa. Ndì
vttliti quarclii autra prova ? Non vi ricordu li cani di li: munti
San Birmania , nè di obiddo chi vitti la l'isico Signor Aragu 'nlra
n'albergu, quattri! leghi lnntanii di Montpellier , ohi è rifiata
di Monzù Bureau do Lamallc nentì di chistu e d'aulru, ma chiddu chi
vitti In Filosofa di Lipsia, e Leibniziu. E obi vitti? Vitti
pressu Zcitz 'nini la Mismia nn cani di pasturi chi parrava — Un giovani
alimannu si avia tantu saputu affizzianari ad iddu ddu cani , chi
chistu risponnennii all' amuri cu n'autru omuri ci pro- nunciava na
trentina di paroli beddi e chiari, qoantu chili Ei pozza
imagginari. E riflittitì chi avia tri anni lu cani quannn
parrai! — giacchi, ju oriu, chi si lu stuzzicavanu di picciriiidu,
e la bestiedda si ci mittia pri daveru , arriuiscia un poliglotta di
putirsila fari a pam o sparu cu lu colibrì cardinali Mezzofanti.
Oh, lu mcgghiu mi scurdava ! . Va l'omo tantu superbo pri la
musica! Ebbene quau- nu li caui vomiti, sunnii punì musici! comu fici
vidiri lu dutturi Bennati, abili 'ntra la musica, cu na so
barbetta; iddn , a la prisene* di la so scolara , passannu sopra
sette campani diufoiiiehi n' archiceddo faciaci vibrali di
43 li soni , e la 30 canicedda In novi jorna di lezioni
cantò la Solfa. No eoa iìniu la sapienza musicali di la barbetta,
chi arrivali ad esequiri di li terzetti e accumpagnari correttisaimamenti
lu cantu di lu so patruni, chi avia una di li vuoi chiù estesi obi si
cunuscissiru (1). Nò na vota Buia si hannu vidutu caci musici —
M. Guerry fa testimonìu puru di chiddu chi facia. un cani spagnola
— la quali portava tantu amori e rispcltu a la so patrona, chi quannu la
dama vulia iddu canta- va na sorti di solfa cromatica. . .
Ora vaju cumprinnennu pirohl l' animali sunnu stati tantu onorati.
Pirohl li poeti l' hannu misu 'ntra li fa- vuli — cumprennu pirchi l'
antichi, chiù sapienti di nui, consultavanu lu volu di 1' aceddi, o li
vudedda di V a- nimali... o si iddi manciavana o nun manciavanu chi
era bonu o malaggurio... o pirohl quannu niscennu di casa e vidianu na
baddottula, sindi turnavanu a la casa cumprinnennu la disgrazia chi l'
avia a cogghiri — 0 si ralligravanu quannu certi aceddi aliavann supra la
te- sta di li so figgili... Li principi e li republichi 'ntra li so
bannerj ci hannu misu a stampa qnarchi animali , corou acali, cu na
testa, cu dui, niri, bianclii, o liuni, e puru 'ntra li decorazioni —
hanno 'ntra stu modu volu- tu fari n'omaggiu a 1' eccellenza di li
bestii. Fri chistu mutivu 1' antiohi sapientuni incheru hi cclu di animali,
corau a' avissiru volutu signifioari la so' origini cilesti. Cumprennu
pirchì l' Evangelisti hannu macari li so animali — pirchi 'ntra l'Indi!
c'eranu spitali pri l 'ani- ci) Domi de Limila, lUaain aur It
temlvpptmint &i faoitu nUìhttvtUu éu niti'tintu: lauro jm ir tWl,.K
T.u aV Intlìlnt , le S ■ai ISSO, A™. d,a Sciata KatunUa, i. XXII,
ISSI. 44 mali Ora cumprcnuu pirclil In. sapienza
'ntra dui poptili Orientali si facia significati cu lu sirpenti, e
'ntra E , acchiananmi chiù autu, univa a cumpremiiri Un- ii
cosi, chi si leino 'ntra li sacri carti. Comti quannu si dici di
essiri prudenti coma ti ser- penti, e simprici eoiiiu li palummi (1).
Pirchl min si curò la divina Anturi, pri In diaideriii di cunvertiri a li
pic- caturi, di prisintarìsi iddu stissu sutta P immagini di n/i
gaddinedda (2) — La bedda parabula di lu pasturi e di li picurcddi (3J.
Ddi beiìdi pareli di San Petra , quannu parrà di chiddi chi abbannunano
lo liggi di Cristu, li paraguna a li cani , a li porci e peju (4).
Quannu Isaja si paraguna a la rinninedda o alla pa- lomma (5) —
Beni cumprennu pirchl la salmista si cun- franta a lu Pillicanu (6), e a
lu passareddu supra li tetti (7) , — ed autri sublimi massimi arrivu a
pir- ciari cu la mia povira monti, chi si ammirami 'ntra lì Salmi,
'ntra Gcrimia, Isaia, Giobbi, 'ntra li Proverbj. Pura chiddu chi
chini vi surprennirà, comu a mia mi fa diri chi nun jocu, ma parru cu lu
sangu all'occhi, sunnu Bti paroli di li Proverbj chi vi vogghiu tutli di-
ri in italianu. Quattro cose delle più piccole sono sulla terra,
e questo superano in sapienza i sapienti: Le formiche, (l) s.
Mattai x. 18. (S) S. HuUeo una. 37. S. Luca XIIL Si (1)
S. GiennnJ X. 1. 2. 8. ■!.
5.) (1) n S. Piai™ IT. 22 Frov. XXVI 11. {5] SXXVI11.
u. i«) Sai. CJ, 7.
17) 1W- 8 46 popolo debolissimo ,
il quale al tempo della messe si prepara il suo vitto : I conigli, razza
paurosa, la quale pianta il suo covile nei massi: Le cavalletta non hanno
re , e si muovono tutte diviso ili isquadroni : Lo stel- lione, che si
reggo sulle sue mani, e abita nelle case dei re (1).
11. Oh quantu ndi vurria diri di l'animali! Quotimi li
Pittagorici didar.u dda metempsicosi, chi oggi tanti si loeltinu a
bufliniari, tcctftu ddi tilischi chi vonno lu cìrculu 'ntra la vita
mondiali, li pitagorici tbafrghiavanu pirchl fac ianu passari l' anima di
I omini tra li : di . animali, mentre è all' oppostu, qoaooa Dia
castiga l' animali, li fa passari 'atra li corpi di l'o- mini.
E na bedda pmva di chiodo ohi dira s' avi in chiddo, chi aju ditta,
ma pura 'ntra ehiddn chi vaju a dirivi. E' prova di faftu, chi
sompri l'omini hanno quar- anta di lì qualità di li bestii, d'undì
derivaru. Ci sunnu omini cani , omini accechi , omini vurpi ,
omini lupi, omini ticri, omini liunì, omini tarpi, omini ecìdi» — 'nsumma
ci sunnu ntra 1' omini li signi evi- denti di l'origini umana, chi si
cunfunni cu chiddu bru- tali — Quannu l' uomini s* imbestialisoinu vera
vcru renuinu n'omaggio a l' eccellenza di li bestii. Vuru S. Pau-
lu cunfessa chi sintia ntra iddu atissu la liggi di l' ani- mali. E nun
era na ritagghiedda di sta liggi stessa di 1' animali chiddu , chi sintia
in iddu stissu ddu beddu [1) Prof. XXX, Zi, 25, Cu, ^7. 38.
Digitized 0/ Google 46 santa di
Giara Borromeo:, chi la raaliditta natura 1' a- viria purlatu acmpri a
ranfuliari V Alinenu a Borromeu ci bastati la forza di la
rili- lìgioni a frinarilu di dda brutta tindenza — ma pri nser- ti
tali e quali non v 1 è riligioni chi teglia, nò camiuni chi ponnu ali
untoli arili di fari snnlu liuffndi] E chiddu ohi è pejn, chiù ndi
robbanu, chiù non si saziami, e Bem- pri li divora la fami dill' oro pejp
di prima. Viditì quantu la sbnggliiaru Ferecidi e Pereira e
tutti poi lì Cartisiani, chi calunnimi tantu l' animali 'nzina a
diri chi sunna automi, chi min sentunu, nun cumpren- nunu, nun
desideranti , f orsi stirimi na picca chiù slitta di la nolimitangerì e
di la pigghia muschi. Eranti accussl foddi ddi omini , chi lu
stissu Cola Malebranche nun si fici scrupulu di tirari ddu ranni
cauoi a la cani gravida di dda 'micu bo, sulu pirchl dda povira bestia,
chi di tantu tempu nun lu vidio, ci anda- va di slitta e ci sbattia la
cuda tra 1' ancb.it Lu povirn patroni mandali un gridìi di duluri!
ma ddu filosofuni fridda frìddu, senza scumponirisi, ci rispusi:
Mi mararigghiu di vui , chi nun Bapiti chi li bestii non sentunu,
nun annu scntutu mai, e nun sentiranno mai 'nzinu a chi lu muunu sarà
mtinnul Oh pazzii di l'omini quannu finititi ? Ju
parrannu d' animali nun cridu ricurdari l'angulu faciali di Camper, o
maucu chidda occipitali di Dauben- ton, quantunqui iddi ai siryeru pura
di In studiu pro- funnu di l'animali, e ntin rinisceru a dimostraci chi
l' omu di la parti di lu citiveddu è quarchi cosa di chiui di tutti
1' animali — Nù divu parrari d' autri nonni mate- riali, comu la massa
assoluta ciribrali, nè di hi pisu di la lidi chìdda di
lucorpu, tutti . camprisu Ju stissu numiru di li fogghiceddt
di lu e leltu,chi CU tanta pacenza cuntau Malacarni, e f
ficiru li signori Porta e Luvater, e poi Gali — cu la diffi- renza
chi chistn esaminava l'internu ciribrali e lu craniu, e chiddi l'esterna
di V orna, paragunandulu cu chiddu di l'animali. Porta e Lavator, si nun
m' ingannu, mustraru la vera grannizza di li bestii, pirchl vittim la
samigghianza 'ntra naso, occhi, manu, frunti, varvarottu... di l'omu
co chiddi di l' animali bruti — coma poi lu dutturi Gali vitti
'ntral'internu di l'omu, cioè tra lu cirìveddu-e oirividduzzu, dda
suraigghianza di li so 27 organi, chi poi Spruzzeim assommò meghio, o
rinisceru 3f>, cu chiddi di l'animali. E chistu chiurli musini
chi ai l'omu ò quarclil cosa di la parti di lu corpo, iddu lu è pirchl
avi lu pregio d'aviri dda parti, chi liannu lì bestii. Dunca
avia ragiuni jeu chi dicia, chi ci sumiu omini gattumamuni, omini cani,
omini asini, omini vulpi, omini tigri, omini liuni, e acoussì aimamra
discurrennu — grazii a ddi omini sommi ohi aju citata nun bì po' chiù
dubi- tari di chistu. Pirciò dioinu 'nsoccu vonno «Idi dotti
naturalisti, chi l'omini tutti pari pari li vonnu figgili di lì signi,
giacchi pri mìa ci sunnu omini figgili di li signi, omini figgili di
li Bceeohì, di li cani, di li boi, di li vulpi, di li lupi, di li tigri ,
di U becchi , di li camilionti , e di liuni o puro di li porci — pri mia
starnai a □igifeed t>y Google 48
fatti Gustatali, l' omini sunna figgili di tutti 1' animali, e coma
si dici pri matta di un bastarda, di na picca a l'uno. Ju nun possa
e non divu vinili a dispula cu la famusa teoria di 1' onorevoli Signor
Darwin di la trasformazioni di la specii , pinseri olii nun è so; tua fu
di Lamarck , Herbert, Grant e tanti autri, e olii si nun sbagghiu,
puru Laiuulrio andau dcoramandu cu la so' profunna scienza, chi lu
purtò a fari lu burlimi a lu ru Fidino» e a cri- pari di ddu modu chi
videmmu, chi lì omini rtasoiaa di li bestiì 'ntra sta ninnerà.
L' animali faoonnu porcarii 'ntra iddi, ndi vinni a la fini e
nasciu lu beddu mostru chiamatu omu. Monca aiu a vinili a sciarra
cu lu sig. Lyell cu la so 1 antichità di 1' omu, chi macarì sustcni dda
teoria, chi avi puru 'ntra la Svizzera li so' sequaci; e 'ntra la nostra
bedda Italia lì signuri Mollescott, Schifi", De Filippi A
tatti chisti ju ci manda c ci assiu di supra tanti antri dotti
naturalisti — comu p. esempiu D' Archiac e l'iourens chi fici a posta un
beddu libru contra l' idei chi Dar viti manifesta 'ntra la so opira De V
origine de» éspcces, dioennu c ripitennu che Darwin tra la so Opira
di luttu parrà o chiacchiaria, fora chi di l'origini di li specii.
Ci putria puru, e oi li divu mettiri avanti Godron, Quattre-fages ,
Malebranche, Feo, Ewdards.... e li nostri italiani Stoppali! e Biancone —
Liggitili, si puru nun l' aviti studiati!, a vidiriti chi iddi nun
diuramanu, nun fannu gratuiti asserzioni, ma ragiunanu o dimustranu
cu li fatti a li manu. È beddu a vidiri lu colibrì scienziato
Biancone, nostra Italianu, fari cundannari lu Daruanismu dalla stissa
osteo- logia comparata 'ntra l'omo e li bruii!
40 Putria parrari di na t'amusa donna, Ulureima foyer,
chi pura difendi a spada tratta li pinseri di Darwin, a fa tutti li
sforzi pri prupagarì per urbeni et orbem lu Daruitiaismu — ma olii vuliti
di fimmini littrioutì o scienziati , senza pregiudizi» di sia dotta
signura, ndi aju na coppaia china. Jen l'uiumiru, pivelli
ouura lu so sessu ! Ma aernpri rumili lìmmini , u finiscimi cu cosi di
fimmini. Mi ricordu di la Blomor chi giriau hi ioannu aiiticu
a chiddu nova , vistuta d 1 omu 'nsemmula a so inaritu, pii fari nubili
tari la donna. Chi ottinni e ricavau di li so viaggi ? Chi li signuri
l'istaru seuipri fimmini, it mcg- ghiu, niellai uomini a menai
fimmini. Pirelli lu cappiduzzu all' oniinina ailu misuru , lu
jppuni punì ; ma la faudedda ? Ali cbistu no , dissiru tutti li fimmini a
coni ! Ha la lilomer gridava, coma na disperala, dicenuu ;
pezzi di sceechl l'istinti dilnoil ermafroditi? Voi ini diriti,
guadiignaru li fimmini uduttanmi lu cappidduz7.il all' ominiiia e la
giacchi! teddu? Chi sacciu jeu?ISnlu vi dicu chi oca, min c'è ohi diri,
ci fu e c'è na vera trasformazioni, non di .■•pedi, ma di scssu, quiuiUni-
qui non futili , ma menzli , lu ivslu appressu , secimdu lu liggi di lu
continuità obi rogna min sulu 'ntra li cosi naturali , ma 'ntra la
sooietfc macarì. E ragginnannu di fimmini olii sunmi l 1 onuri di
lu so sessu, vogghiu riourdari la fiignura Maruhisa Fiorerai, chi è
digna di la vostra attenzioni. Iddu ha traduttu beddì operi di Filosofia
tidisoa , o s 1 ha iinpegiiaUi di propagati l' Egeliaiiismu 'ntra la
nostra Italia — c pari 50 f;lii avissi
ii"ngpgmi virili filosofici] — e ognuna la loda, pirchi onura In
beddu sessu. E po.ru vi dico no, rosa, cbi nu:i la cridirili. Idda,
sta dotta signora, finisci fin mostrarisi limmina: giacché 'litro
l'ultima libro > ; ou lu (itola lmmortaOà deWamma, titolo chi ò tanto
giostri, qnantu chiddi. d' Klvcaiu L'c- tprit, pri coi Voltaire andava
dicennu : lu libro di El- vczin ? opra lo sparito senza spirito - dnnca
ju dico la FIomiizÌ 'ntra afa libro sopra l' Immortalità di
l'anima, Bensa ìminorlaliià di l'anima, da vora AmmaEzwii ci dujrna
cu la mazza d' Krculi un (.Tanni corpo a t'uerWh, r 'mina a eco lo corpo
fu d' rmu; nia idda non s' avvidi, chi omnia /.za mio a lu nemico, lo
corpu ribbommaii tanto, clii r' nmniaz7.no irida glissa: o. cca fu
lìmmina. Nstnoraa li fimmini sempre ninno (immilli: I)i coita
ritmi menti nn Iòsa t ta, l'alia conni voi saiijiri è ciiciccn, r portami
In piccato di Adamo. 13 la parola Adamo mi ffvigghia nautra vota
la Signora (IlarcnKa lioyor e lo Burnanismu. (Jliindi avia a
fari ddo guardiano di pecuri di Mosi di seri viri dda tienisi e ficcarici
ad Adamu di limo ! L'omii di fango vcramimli min si In polliru
ngirìiiuUiri, ed tra na pnreberia, piroió si voli fìggimi di la
signa. Iddìi ó la nobiltà di sinliri, ohi porta ddi valorosi
uiiiini a ricumisciri meggltin pri proto-parenti la scinda, c no lu
fango.. È inutili obi lu min illustri amiou lo Oav. Garbi-
glieli! dicissi, obi mm hannu potata li paliantologi sco- prire l'ancddii
paleo zologicu 'ntra l'omo e li pchnii, conili atleslanu li celebri
Fruner Hay e lu Professori □igìfeed ti/Cooglu
Bianconi (1), lì Daruiuisti sunna surdi, e lu vera su ò chiùdi chi
nun voli sentiri. Nui ora ridewu, ligonnu ddi attacchi olii ci
ficii la Scrittura, sirvennusi di la chiù antica e di !a c
i a la v ti r . ohio ini cunvinciu
di sta granili Oh obi minchinnaria chi die Iddu voli andari avanti,
voi E sapiti chi cosa ò lu prog, sacciu diri. Forai pirchl
nun mi 1). Torsi pirchl È na cosicedda si. l'acqua di li
laaooarruni? Gnirni Pirchl aviasi a ohiaoohiariar la testa
chiù di chiddn olii aju f Sia vui ndi vuliti pri forza su
parola e fuju. avanti si ci sumiu oiuotagni a rocchi
chinatali ili tanti sconti ! Dunca prima coiidÌBÌoni di
progredir! e ohidda di Bohiantari e distruggiri 'nziuu a l'urliinu tutti
li osUculi. Digitized by Google Quali
tmnnu ddi cosi chi ostaoalanu pri andari avanti, e pri la megghia ?
Chiddi chi sunnu chiù vecchi, chiù antichi. Dauco guerra all'
antinu, a lu vecchiumi e rancidumi. Tutta chistu è logica, non è
voto? Ma viditi comu scinni sula, idda pri idda, la con- chiu
sioni. Lu chiù vecchia di tutti È Diu , e pirciò ti pinci
'atra la Chissà latina cu na varvazza bianca , poi veni l'anima, la
famigghia, la propietà... Dunca cacciamuli na vota pri sempri,
Hindi 'ndassiru a diavulu Din, animo, famigghia e propietà chi s'
avi 'ndari avanti, s' avi -a progredirli Pirciò viditi, ohi
rngiuni nd' lumnu di cu marni ari a Diu chi s' arritirassi cheta, ohatu,
chi ndi livassi 1" inco- modo , chi 'odavi data pri tanti
seculi. E st' autra cosa vecdiiu ili In pnipiel'i, antica
qunntu lu marnili, chi puro, comu Din, avi l'ardiri d' aiFacc ir-
risi 'ntra tatti li populi min sul», ina puru 'ti tri la genti Barvnggia,
st'aut.ra nanna di fanti mali — di l'egoismo, di li liti e soiarri, di li
discordii, e ehi alimenta ou lu so sciatu 'nvilinalu ogni manera di
piccati e di disparità 'ntra l'omini, chi sunnu fratelli — sindi 'ndassi
a dia- scacci comu lu ventai La propielii 'nscmninla a la famigghia
sunnu n' antri dai croci di l'umanità, la qiuvl i min po aviri rifrisen
si non quando si li leva dinooddo. Cu la faniighin ci va
riessa e connessa la propietà, la s accessi oni , cose diabotiohi, chi lu
tumnu, l'abìtu- dini o la tirannia fanali stari 'untili.
53 Oli, tiliui V omini qniinnu 'ndavann cuggliieunu
ramu- razzi prì H vnsclii, nza ci" i^.-.siri lift to nÈ mcu, senza
re, senza pari-ini, sfilza jiulici, senza avvocati, senza matri-
moniu civili cccnicsiasticu... e gudianu la paci di t 'anelli.
Tutto chistu, già s' intendi, cu la pirmissu di Masi Hobis.
Oh, mi scurdava In megghiu ! E l'anima? idda si nd' avi punì
andari, e scumpariri di la scena di lu munnu. Nun pari veni quantu
voti à stulu cacciata sta brutta magara di lu munnu , sempri e Co facci
di na pctra di sciara nun senti nenti, siudi torna frisca frisea,
La caccìanu di l' Indii, e cumparisci 'tilra la Grecia; la caccianu
fora a eanci l' Epicurei ili la Grecia , o e torna bedda, sana e china di
vita '«tra lu Medio Evii — Si junceru finalmcnti tri seonli, avenuu
L'urtimi! un battagghiuni di Enciclopidisti , cuiuannaln di Vol-
taire cu lu nervu 'ntra li manu, e a via di cauci , di beffi , dì
sputaazati , di sucuzzuni , tirapulati , di Ugnati c corpa di nervn e cu
la corda 'nturciniata e 'ncatara- mata...... o scnmparisci l'anima.
Oli, quantu cindi foru, chi allora cantaru vittoria, dicennu pressu
a pocu sti pardi : Cu lu cridiria, ehi doppu sta sullonni
cacciata, chi nautra vota s'affacciassi viva viva e fiatami 'ntra
lu nnstru sccnlu ! Dipzed by Google
Olii fari! pacìenza cu li penarli molesti! Ma cì sunna li
chiù amili , chi sacaru lu latti di lu senza — e da capu all' anima
dalli, cu dalla, ad idda ad idda ! Mi ricorda d' un Medica Trancisi,
colibrì pirclil tutti lì raalatii vidia nasciri di lu stoinacu c di li
budedda, e li curava cu sancisuchi a tuttu pasta ; 5 tu dotlu oiuu
pri fatila andari a mauu a uianu, senza tanti cirimonj , jnpriu c
sciaccau cintinara di crozzi di morti , chini forsi di qaanti ndi a via
aperta Gali pri la so Craniologia, ebbi la filici prova, firrianmi tutti
li pirtusa e li caseddi c casidduzzi di lu ciriveddu, di min avirla
viduta, e nun- chiusi: si l'anima nun si vidi, dnnea l'anima nun c'
è. E iloppn tuttu chistu, cacciata cu li farcini, comu dici
Oraziu, idda sindi torna catainiuari calammari. Chi nun ci hannu
dittu pri t'arila andari ! chi e venti) t aria, foou, nenti, e chiù sutta
di' lu aeriti... fmalmenti ci dissiru nautra cosa.... 0 sapiti chi ci
dissiru ? Ci dissiru chi lu fosfora è idda stissa, o chi lu
fosfora ù na granili cosa, È chiddu chi 'ntra lu ciriveddu fa chi
csistissi 'ntra l'omu un gradu autu e sublimi d' intelligenza, e cu 'ntra
V animali ndi avi chiù o menu, È chili o menu intilligcnti.
Ma chista era fantasia, e li stissì senzi niegghiu 'nterrugati da
li valenti professuri Sgarzi e Borsarelli dettini un risultatu chiara,
comu la ìuoi di lu siili: o chi lu fosfora nun havi alcuna 'nfluenza pri
lu gradii di ì"ntelligenza, 0 chi tatti 1' animali hannu lu stissn
gradu intellettuali. E sapiti conili s'arrivò a sta bedda c lucida
con- clusioni ? □igifeed t>y Google
I.'h 1' jii'iIhi p*J in' l.i •.uyrt ■ in.< J-li ■! -iihih li
diversi razzi c d'animali, offrcnim di li tamii ehi farina vìdiri
li risultali di la diversa quantità di fosfora òhi cunteninu li direni
ciriveddi (1). Maleschott — min mi senlu ala valia — iddu è Jugiou,
coma Hroussais o tutti li sinsisti, 'ntra li so pinseri — Sia la
logica aula, sulìdda, rum basta! Giacchi postli citi lutili e nenti
autru chi sonai, ò loico di circari I' anima, o Villi- rila tuccari cu li
maini, 0 vidimila cn i' occhi ajutati di lenti iiiicrosopica la chili
pirfutta, chi l'arti pui dari, ed è logici! paro conni dici In stinsi!
anturi di La CiradfUion rie la Vie: chi la cìrietddtt nwt è un Menati di
cu l' anima si aerei pri jrfnanrt, tua chi 'atra In seum chiù
rigurutu di la parola, idilli è V orbami rli In pinseri, chi l'
attività intcUetluali i uà wuiijt'.fUi-i'nii diii-niiiai
iiidixsntlubilmaiH iigata a un stistratu materiali (2). Ma
iddu è vera, chi tutta lu pinseri amano è chiusi!, strìttu è '«catinaio
'ntra li acuzi, comu un carcìratu 'litri li gradi di la prigioni, o un
ferra 'ntra la morsa di lu firraru? Nuddu lu polti sioora dimostraci (3).
— c lu stissu Malescott la dimustra accussl evidenti, comu quat-
tro c quattro fanno centu quarantaquattro {Douxiéme lettre pag. 0).
Hi iddu mustrau na gran forza pri acchianari quarchi vota supra di
Liebig, e vitti chiddu chi ci sfuiu a stu (Il II Cerv^i 'li 'in
V,-n> rMl. filli.] '. .U I>,i'lor> 1. B-Tnanl,. D»«a — Rllazime
Ititi utili •,.[,■(., .!,)ril. I), biv l-i, S. .Mia R. Accadami" ili
Malicim di Tetino da] Sc»:ij D-jtn.r Cu-. Autoniu «arl>i B lietti. |>»6-
S. T. (2) Lì CircnLition do li vis. Tom. 2.' Dil — UtiSmo
Ittita (3) Vali i mia Opnwoli Sditi ed insilili Vsl I, II,
IV. P anim qnanni beddn
Coinu a mia pari clii ri successi nvanl ' ori a il.* Don- de» cu li
sol dui sfrumenti, li quali serrino a mujurari li cilirità relative di li
percezioni e chidiln di 1» pinscri. Oh, li granni progressi olii
s'anno fatto 'nlra In Psicologia cti la potenza di li fisici 1
Si iddi oggi misurano la eilerifà di In pinseri, ap- pressi! ndi
daranno In pisn, la granni&sa o lu cnlnri di 1' anima pinsanli
sfissa! Cu tutta hi X<iniatocho<!rnphe e lu
Nóéfìialochométrc, aju 1' omiri di diri a M.° Donders chi mi consola
assai, annamu avanti corno lu curdaru!!! 13.
Quannu mi metto a leggiri accussì pri spasso, qitnr- obi
lìbricedda, e viu scritto chi sfo Becolu 6 lu secala dì li vapori c di li
felegrifi elettrici, e chi saccio jn ! mi pari chi si sbagghia in generi,
in numera e casu la formula vera di l' indoli e geniu di stu tempu.
Pri mia sentimcntu la formula di lu spirito di lu nostra secala è
chista — Seoulu Divoraturi I Attenti a li provi. Cu li
vapuri e li telegrifi elettrici ha divorata lu toropu. o la — cu li
focili ad aoa a rptrunarica e cannoni di nova 'nvcnjioni ha
divorata I' omini — cu li rivoluzioni ha liivoraln lì diimlu e li regni —
cu li CT|)i di stalli ha onorato li rcpcbblicìii — co lu Daghcr-
rotjpo a la Futografia ba dìvoralu la loci e certi arti — ... 'ndi vuliti
chiù provi ? 'atra quarchi naziunali Congresso. BÌ ha la ìiedd' arti di
divorari a cliiu nun pozza ii caparli :Y sui! abilità, e tutta lu joniu
si studia In moda oomu aghiuttirisiuili quaivhi autra. 15 'rutilili a eoa
è divo- raturi in atta — è divoratori 'n potenza chi tenta di mettìri
in att.u, ma nun ci ha potutu rinesciri giuslu giuslu di manciarisi Diu ,
V anima , la fainigghia , la propietà. Oi sì divorano li
miliuni, coma ogghiu pitrolu I E pircià fu saggizza fari scnnipariri 1'
argenti! e l'ora, e darioi in cancia carta. Almeno ca divora la carta,
nnn mancia la mitallu, chi nun po' digiriri. Ch'ista fu na sag- gia
previdenza e pruvidenza! U. Sogna jantu quasi alla fini
di la mia cicalata — naa- tri dui paroli pri la nostra Italia, e finiremn
sta storia dalurusa. Tatti li temi chi aju trattatu
meriliriann na longa dioiria , ma chistn di la bedda nostra patria chi fa
la saspira di Danti , Macohiavelli e tanti sommi omini chi snpiti,
e chi fn addivata e crisciuta oo li lacrimi, li torturi e lo snngu
binidittu di li martiri , meritiria pri Digitizod by
Google idùa sola un discnrsu chiù lunga di la
misiricordia di Diu. Lassami! la Finanza, l'Interim o
l'Esteri, la Guerra... lassamu l' Istruzioni pubblica e lu bcddu codici civili,
dignu monumenti! di la sapienza italiana... Lassamu tuttu chi c'è coni
ch'abbruciami, e tuccaniu di tro omini chi iiunnu signu di tanti dicurii
e di calumili, di tre omini chi la fami canina si vurria ìn.mciari c
divurari tutti sani sani. Ju non saccin si 'nsoccu dici lu prufeta
Mazzini avrà loca oi, dumani, nautrn misi, 'ntrii nautru annu, o a
gghiri dda nautru ledila™ mi dichiaro nun aviri la domi di la
profitti a ! E sta mia simplici cunfessioni, min fa torta a In
min poviru talenta, ninznudu chi quannu lu nostra La Farina si
prisintau di notti, amniucciuni, ammucciuni u lu Conti di Cavour pri 1'
affari di la Società Nazionali, lu Conti Beoni, chi era ddu grnnni
politicnni chi sapermi, puro ci dissi a lu nostru insigni l'ippino, chi
iddu nun sapia si 1' Italia si facissi 'atra nautru misi, o n' annu,
ovintanni.. Dunca pri mia dicu; a lì postiri l' ardua sintenza —
iddi risolvirannu e vidirannu di l'idea Mazuiniana! Ju nun
saccìu nimmenu si 'idra li pinseri di Mazzini cindè di chiddi chi fnnmi
scìauru o fetn di sucialismu — Nenti sacciu e vogghiu sapiri di stì cosi
— ma sac- ciu chi tutti fummo so scolari cu la so' Giovìni Italia e
l' Apostolato popolari ■— e pri dirla chiù chiara , tutti bivemmu a ddu
so fonti, tutti respirammu l'aria Maz- ziniana chi era allara la aula aria
criduta, respirabili. Hacciu chi iddu sulu pinzau all' Unilà d'
Italia 'ntra ddi tempi , chi paria on sonnu d' iiifirnm , o si
sforzati 59 cu li scritti, cu li pareli e
cu li fatti a prupagarla per urbem et orbem. Sacciu punì tuttu chiddu chi
avi fattu, e pensa sempri di fari ddi so' noliti Sacci u....
e quantu ndi BacoìuIM Ma nun è giustizia, nun ù ragiuni furi conni
1' asìntt, chi doppu d'aviri bivutu 'ntra lu sicchiu, si vota e ci
duglia na pa ricci Lia di cauci. Piggbiamu lu beni d' undì veni;
semu giusti cu tutti, pani cu lu diavula I Nun nigamu li pregi di na cosa
sulu pirchl avi punì difetti — lu difettu nun havi amuc- ciari lu
pregiu, né chistu sì avi a fari sorviri pri distrug- giti lu
difettu. Avanti, fnicm uh! Eppuru. quantu c' 'ndè chi vurrianu
fari sosizzeddi di Peppi Mazzini ? D' iddu sulu 1 E di Peppi
Garibaldi ? Tutta si scurdaru I e Marsala o Calatafimi , e
Palcrmu o Milazzu e..... e tutti 1' 'mprisi eroici di lu Capi- tana dì la
populu! Nun ci basto pri saziari l'animu crudili di ddi tali
ilda nfamuna padda d' Aspramunti ! Si iddu nun avi na granni menti,
avi in cumpenzu un cori granni assai ! Qnannn Jeu penzu chi
l' Eroi di Caprera andau a Londra, pirchl ci fu chiamatu; li granni
priparativi; li festi di lu populu 'Ngrisi pri la vinnta di
Garibaldi — chi un postu pri vidirilu si pagava cintinara di Uri...
e chi tattu chistu finiu pcju chi a coda di surci, o meg- ghiu comu la
scena dì Don Basiliu 'nlra lu Varveri di fìivigghia, mi cunferniu 'ntra
lu raiu propositu, ohi l' omii min avi V iisu di la ragiuni.
Digitizod t>y Google Oli E quitti! u
nuii u' indi dicinu punì e iteli 1 nfust occli ianu pri Vittoria
Kiuanui'lr, indirti He?' Tutti li gu;ti citi hannu, (tiliu chiddu
citi patiscili!), lullii 1' imputano a Vittoriu I A lu
Parlamenta, a lu Cimsigghiu Provinciali, a chiddu fuma itali.... mai ci
penzaiiu , mai ci dicinu nenli, coma sì non csistissiru !
Addirsti e crisciuti sulla 1' assolutismo , undi ogni boni vinia di
lu re, ogni mali d' iddu pura — citi la vita di lu popola, sipuuru allora
avia vita, vinia pri motu miccanicu. òhi scinnia di l'aulu a lu vasciu,
min cum- prennintt, clii la cosa oggi procedi diversamenti.
Dunca min hannu l'usa di In ragioni. Un Re chi fa ncchianari
la rivoluzioni 'ntra lu tronu, c, quasi saria pri diri, si l'abbrazza —
Chi fa supra lu I umulu di so Patri ddu fmnusu giuramento, e lu
man- tini a costu di tuttu, anchi spargennu lu sangu soi e chiddu
di li so beddi figgili , comu lu surdato lu chiil valurusu — Chi nini
vota facci a tutti li pericoli , ohi min si scanta di nenti.... un Re
democraticu 'ntra hi veru senzu di la parola. Nun po'
apprizzarilu beni , nun po' ammiruri li so' virtù, cu min avi studialu
l'educazioni ehi si dugna a li principi reali. Iddi avvezzi a lu
sic volo, sk jubco Kppuru lu nostra Vittoriu, sunun già rintaniti,
c mai si è mnstratu nun essiri ddu Ite, chi regna c nun governa.
Si poi lu diavtilu chi s"mmisca 'ntra tutti li cosi di stu
'nfami marniti, ha futili pigghiari lu capii stomu a chiù d' uno di ddi
li barai uni, di co è la curpa ? Quannu acoliiananu ddi scanni
ministeriali omini sa- pienti, chi hannu strascinato un cantari! di
maggbi di ca- Una a li pedi ini tinti anni 'nlra li galeri,
a hamiu futili la muffa nlra li sultirranii, o limosinata jiri lu munnn
— ti sti torri chi hannu ainniututu , bla unirti chi hai uni
cugghiulu jooti juoti, e bla fami chi bannu suppuri il u. .. tutta
è statu pei causa di la liberta quamiu sii tali at ninni 3 lu
Pptiri , di cu è la curpa, ai l'affari O ragiuui , ragiuui , buJdu
raggia divinu , pirebì l"nunucoiasti, unni si mai Wnata? Quali
furettu ti po fari Desoirì a lu chiauu ? 'Nlra li filosofi
min ti trovu — 'nlra li pulitili min ti viju — firrianmi rvcuuumisti
mandi 'ntra iddi cindn na lagrima di la to' essenza — di li naturalisti
faci sti sfiauffii — di li populi spiristi. Unaoa aju uju
raglimi dianmu, nhi l'omo min avi I' usu di la ragioni '/ A
sta dumanna rispunniruum nautra vota, mualramiu : chi la suiti oiKK avi
l'usa di la raglimi. yen DigitizGd t>y
Google <g. 7 fik I In leggi Jn 7 . fi in .
Ju 8 ■ 1 shunti filosofi
g • C Giorni fu filosofo 10
10 caudda cauda 11 11 i 2
mani mnnn 11 G brano 13
siMdilKKMi wmm 11 15 lilosotìia
ti lo «olia 12 5 In Ju
13 1 mentfri molli ri 15
min 4 In • ioli
20 14 lima filosofi 4
covili > ovili 21 monliri >
mei tiri 32 15 moli 32
20 jaddini 32 20 jniMina
ynddiiu 38 17 N..11 13 »
hiihmk ■ Lflibnidu ifi 15 ranni
47 2'.' W Antonio Catara Lettieri. Antono Catara-Lettieri. Antonio Catara-Lettieri. Lettieri.
Keywords: implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Lettiere: la ragione conversazionale” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lia: la memoria conversazionale – filosofia napoletana –
scuola di Castrovillari – filosofia cosenze – filosofia calabrese – filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library
(Castrovillari). Abstract. Grice: “When I applied Locke’s
mnemonic theory to Gallie’s ‘Someone is hearing a noise,’ I was somewhat anware
that the Italians had built careers on the idea of ‘memory,’ L. being my
favourite!” Filosofo. Filosofo italiano. Castrovillari, Cosenza,
Calabria. Frate minorita. Nato a Castrovillari da Amostante L. e una
Gesualdo, assunse il cognome materno in quanto di più antico e nobile
casato. Entrato ad appena dieci anni come oblato nel convento cittadino di
San Francesco, ret- to dai frati minoriti, fu ammesso al noviziato. I
Minoriti si presero cura della sua formazione, mandandolo a studiare a
Roma, Treviso e Padova. In quest’ultima città Gesualdo prese gli ordini
sacerdotali egli venne affidato un lettorato presso lo studium. La sua
attività didattica si protrasse per un ventennio in vari collegi
dell’ordine e il capitolo generale gli conferì il titolo di Maestro.
Venne eletto ministro generale dell’Ordine, di cui perseguì una radicale
riforma. Il generalato del Gesualdo è dunque volto al rinnovamento dei
voti di povertà e di vita comune, spesso disattesi dagli stessi frati.
Tra l’agosto e il settembre dello stesso anno, egli fissò i Decreta de
casuum reservatione, con i quali venivano abolite tutte le deroghe ai
voti, s’introduceva l’obbligo di rendicontazione e conservazione dei
documenti amministrativi e, infine, veniva isti- tuita l’obbligatorietà
dei seminari per i novizi. La carica a Generale venne riconfermata per
altre due volte, grazie all’appoggio di Clemente. E vescovo di Cariati e
Cerenzia. Muore a Cariati. Su di lui e la sua opera si veda Busolini; Russo;
Keller-Dall’Asta; Cipani. Iofepbus Tamplorut. PJJ
>. PLVTOSOFIA di FILIPPO GESVALDO MINOR CON. Nella
quale, fi (piega l'Arte, della Memoria con altre cole notabili
pertinenti, 24. ì> . 31.. ‘ ... i r, } /T'4 T"V
t'f - ì -A S. ^ v-« 'w->' X i ' li A \h ' IJ A
V 23 f "7 ? J r T iù i -a X o 3 ;. o A 1 t/i
ÈiottfiW. r.'!sb su k'I II : XX Q - l t br: ii;v, ; o H
: d ti ic . 1 5)03 oi -A ì >1 J W 4 i4 A 4 J A O 1 ;3 A T J A jl v
t a h -, V.I.V. x - x ; r », .IO '•• r&v. V»*
'MCa V,. •- > Vt et. ^•.... *T /
m V > f?£ ' 1 c£$é . - w. r-^iL
>«r 'v-.'vr^ v r :x’ J \ i-ì à • : * oliif ! oì)o:r*q
A «Violai a: 7 * 4. a Ai .XXXV.v^ *&$gij,x. 41 ALLILLVSTRISS ET
REVERENDISS. SIGNOR arnolpho vchanskii, CONTE DI SLVZEVVO j {
*1 ABBATE DI SVLEOVIA. Signor mio Colendisfimo. cn
> o Divotissimo servo r : > 3 j 'Z\nii*r-Pi s Paolo
Meietti. ALLA GLORIOSISSIMA HABITATRICE DEL
CIELO CATERINA VERDINE ILLVMINATRICE, ET PROTETTRICE DI
S^TlEJ^Tl&c. I € H E gli antichi fapienti appende nano in Sa
c/e Colonnt le compite Opere .loro, egli Moderni qlii nomi dì Fa mòfi et
lllujlr tifimi Trencipi cort e crar le fogliano : però battendo io dato fine
hoggi all utilis fimo Compendio della memoria artificiale, quale
per esser tesoro e ricihc^a d'ogni bimana fapienza, mi parue intitolarlo
con parole greche plutosofia, hò no luto raccomandarlo alh MeJJaggieri
angelici, che colonne fono del Cielo, e confecrarlo al nome di te che
feiuna delle più care Spofe di Chrifìo, et una delle più fauorite
Tren cipejje del' Taradifo t Serenisftma per fangue, Illuflrisfima
per lapidila, purisftma per virginità, Santisfima per gratia t Con
ftantisjima flantìsfìma per Martìrio, felicìsfima per gloria . JE fe
tate non è il dono, quale ric ercar ebbe t importane del foggetto
t e meritarebbe la dignità dello tuo fiato ; è perà tale quale fi
può da me pre/entare, in qucHa fua prima delineatura. Ideila quale t fe
ui è co fa di lode, lariconofco dalle tue gratic, col le quali ni impetra (li
gratta apprefjo il tuo e mio Signo re di formarla . E fe cofa ui è di
biafimo ( coni io {limo di certo ) ante s' attribuita, che
tmperfettis/imo mi ricono fco. Spero che accettando tu il dono, et
aggradendo per tua pietà il Donatore ; ti digneraì ancora ( di che uiuamente
tiprie • go ) ottenere à me lume, ch'io pojja col tempo illufìrarla
di quella chiarella e perfettione, che con la prima mano non Jho
laputo e potuto darle ; et à quelli che la leggeranno, gratia
dinteUigen'^a,fi che poffano arricchirli felicemente in quello foblime
The loro di Memoria Ex fi come io tenacemente ten go fcolpito il tuo gran
T^ome nella mia Memoria, E femprc uiuol tuo culto fra gli diuotipcufieri
della mia Mente ; coti ti fupplico che mi tengbi uiuo, tra le tue
uiuaci et efficaci Intercesso, inaila. ghriofa prefenT^a del Tadre delle
mifericordte Dio, c •j diOieùi tuo Spofo,& dilla M«drc
ielle gratie Mar (adergine, 1 ' J XX ., alli quali con profonda
fima humiltà 1, di CH&rt
t ‘ C- a X-L per me%p tuo faccio riueren^a. Dì
Palermo ÌV, Tuo Diuotixfimo Sento Fra Filippo Cefualdi Minor'
Conuentoale. TAVOLA delle colè notabili contenute nella Plutofofia.
Innumeri moftrano li fogli, la Intera a. moftra la prima et il b.
moftrala feconda facciata :uu 1 I. . 1. Memoria
è Teforo et Erario. Necessità dealermo ÌV, '. Tuo
Diuotixfimo Sento Fra Filippo Cefualdi Minor'
Conuentoale. TAVOLA delle cose notabili contenute nella Plutosofia. Innumeri
moftrano li fogli, la Intera a. moftra la prima et il b. moftrala feconda
facciata* :uu 1 I. . 1. Memoria è Teforo et
Erario. Necessità della Memoria. Titolo di qutft Opera, i^c 9.
Guide allukezza delle Mule* Encomij della Memoria • Memoria
diumità Humana. Memoria nona Sfera Cclcttc et angelica No«e ordini Angelici
nell’Huomo. Memoria perche nuda nell’Origine. Memoria come fi
uefte. Memoria prima parte dell'Oratore Memoria rara e
difficile. Pcrfonc illuftrisfime nella Memoria. Pci/onc infelici di
Memoria . LETTIGHE. SIGNIFICATI della Memoria. ^Se nell
Huomo fia Memoria intellettiua. Se nella parte lènfitiua ui fia
Memoria. Se li Bruti hanno Memoria. In che qualità confitte la
Memoria. Tre forti d'ingegni. Caggione della tenacità della
Memoria. Co'i e fi caggionano li fimolacri perla Memoria. Detti
fimolacri imaginati . LETTIGHE. III. A Tto di Memoria qual
fia. Due atti di Memoria. Differenza tra Memoria e
Reminiscenza. Come posfiamo ricordarci di colà dimenticata •
Documenti per facilitar U Memoria. Muodi di facilitar la Memoria C me fi
aiuta la Memoria otturale Rimedi j per la Memoria J t.u
i. b; a.a. 14 . a a. a. ai а.
bu j. a. j.b. j.b. 4
4 «a. 4 .b» a ff Accora
/Aceorgùncntr per aiuto della Memoria Dcirefftrrcitio. neceflario alla
Memoria. Nome Hebraico della Memoria mifteriofb • Dell’Arte della
Memoria. Inuentore dell’Arte della Memoria. Auttori c
Scrittori dell’Arte della M emoria» Muodo d’infegnar
queft'Arte. L ETT I 0 7^E. ITi C He colà fia Memoria
artificiale • Nomee titolo di queftfArtc. Soggetto di
qucft’Arte.. Parti tionc di qucft’Arte. Delli Luoghi perla
Memoria.’» Dclli luoghi imaginati (è fumo per l’Arte. Deili luoghi
Naturali fepofiono ulàrfi Delli luoghi Artificiali ottimi
Conditioni perla formatione di luoghi Del Doue, prima conditionc del
luogo Del Sen/àto, feconda conditone LETT l V * A
D Ella formatione di luochi til Dell’ufo di luochi
ai . s ini jqt: E. V. iDb
uxa/ vM ti cruoiiE j CU adì E VU
l / . f.X Della 10. a. 10. a.b.
iò.a. xo.b. 11. a» 1 IUU x i.a» X i.b,
n.b. ri.bt 1 1.b» ia,b. a>.a.
Ijb* l£.b. ì^b. X 15.
su I/Jéb.. lòa. 16. b» 1 7.8»
J7.b. i8.a. 18. b. ip.b» ao.a. ao.b.
ao.b. ai. a. ai.b. 11. a. Detta Perfona (labile
neìluocM LETTfO'KE lEtti taoCirinmiTc raTr Vili . a 6 .
a. 26 ai » 7 »a* D Lh* Detti
lunchiperckittwiayaf Detti luochi alternati Luochi (opra la perfona
humana Q T* E IX, L Voghi perprogreflfo rigreffo et alternati
a8. 29- 30, Luoghi perla Circolatione limoli' jt.
D Elle Imagini per l’Arte Due muodi di collocar imaginiDel
collocar mediato in due muodi Del collocar Concetti Del collocar le
parole Della collocatone di uerbi Della collocatone delle
cole L E T T 1 0 ìi É /^Ottocatione dette cofe figurate
formabili Collocatone delle cofe naturali eccedenti Collocat one
delle perfone. MetHt do dì collocar cofe no figurate»
Collocar per limili longilinea tio ne. L ETTI 0 ^ E X T
T, C ^Oilocarper Mmiimiùmeui vu^ A “ X A tv lUHVf m
Collocar per aggiungimento. Cotto Collocar per il
nuolgimento . rTT " r_rT 7 L
h x — 1 j u e X 1 71. C ollocare
pei ta uaiiabonc Collocar per bittitci Collo
la com linone Collocar perla diuilione
Alfabeti per la diuiuon E X J V. nocar pe ma di uppoin Collocar
perii uolontario Mcto che quello fi può intendere da tre cole,
Complesfione, Età, et alteradone. quanto al primo, eh 'c la
Complcfììone,dico fecondo lifìlofofi, che dalle due qualità
humidità,etficcità,fi argomentano e concludono l’apprcn fiua,c la
retétiua-.poiche 1 numido è atto all’app renderceli fèc "co al ritenere.
Colsi fi uedel Acqua, che facilmente appréde, malamente ritiene;il Salso
difficilmente apprende, tenacisfimamente ritiene; l’Acqua per l'humidità, il
Salso per la licci* tà.Parimentc l’apprenfiua in noi confille nella
qualità humi* dada retentiua nella qualità lecca del ceruello . £ fi
trouano tre lord d’ingegni, alcuni nel predominio de? lécco, c
quelli difficilmente apprendono; ma tenacemente ritengono, com’il
Saffo. Altri nel predominio delThumido, e quelli prontilfimamentc apprendono;
ma puoco ritengono, à guila dell’Acqua. Altri confiflono in una mediocre
qualità d humido, et lecco, e quelli
mediocremente apprendono, e mediocremen te ritengono.La caggione dunque
della cattiua Memoria, è il flulftì, et il fouerchio humido del ceruello
. Quanto al fccó do dell'Età dico, che dall’Età fi uedel'augmento et il
mancamento negli organi fènficiui; l’augmento nclli Fanciulli nelli quali
ui c l’alteratione del nutrimento che lèmpre crelcc: fi co me nelli
vecchi ui è il mancamerto; per la quale alteratione, li fimolacri
fenfibilifonoimpcdid,e periicono ; àguilà, che la forma del uolto,che fi
uede ftapataaiell’Acqua penice, per l'alterationc, c mouimento dell'
Acqua. Di piu dall’iflcfaEtà li uede, cheli Fanciulli fon teneri et
numidi ; li Vecchi duri c fecchi: per lo che, quelli facilmente,nceueno
li fimolacri ;et in quelli ; per la durezza e ficcittàdc gli organi
intcriori, difficilmentc .,7 film erteli Gmolacri trapassano: tome fi
nedc,c'hel lume trapala per l’Aria, thè ha del fottile è puro ; non però
trapala pef il Marmo, che ha del grò (so, duro,c, fecco. Quanto al
ter 20 dico, che l'alteratione può naScere, ò da pasfionc di timo
re,ò d’infermità, ò d’imbriachezza ; perle quali alterationi per turbati
gli organi, non riceuono ; ò Se riceuono, non ritengo noli fimolacri
Sòmmiftillrati da Senfi, E Semi dirai che li Fan ciulli hanno tenace
Memoria; poiché creSciuti in età fi ricordano delle prime co/è, che appre/èro :
e parimente li Vecchi fi ricordano di molte colè antiche. Rispondo quanto
alli Fan ciulli, che per due raggioni hanno quella tenace
Memoria.La prima Secondo Arinotele et Auerroe; perche alli fanciulli,
le prime cole ch’apprendono sono nuouec mirabile però con attentionc
apprendendole, tenacemente le ritengono. La onde li fanciulli meglio fi
racordano d’una semplice favola, che pargoletti intcScro dalla nutrice;
che di cento altre ch’esfi medesimi huomini fatti leggano ne i Poeti.
Veggiamo eSfer ciò cònaturalc à noi, che lecoSenuouc prime, e rare ci
appor tano marauiglia;la marauiglia porta Sèco gagliarda attentionc
nellapprendente, ilqualc inten/àmente attendendo, tenacemente ritiene.
L’ifteSlo ci rroftra l’eSperienza, che più ci ricor damo d’vna Cometa
apparta, che de mille Stelle cadenti nel notturno Cielo; più d
vn’Eccli/Te del Sole, che di dieci della Luna; come che la Stella
crinitica, ò il Sole Eccli Sfato hanno men del frequente, c piu del nuouo
e raro ; e per confequcnza piò marauiglia apportano. La feconda ragione è
d'Auiccn na, ilquale dice che li Fanciulli tenacemente ritengono
quel che apprendono nella fanciullezza; perche in quell’età Sono
alieni da penfieri, cure, affanni, c trauagli : perlochc, come fgombrati
da ogni impedimento fbn’attisfimi à riceuere,per ritener tenacemente le
prim’apprenfioni. E quella ragione d’Auicenna, è rifiutata dal
Sig.Porta,nel fuo trattato della Me moria nel capitolo vndecimo. Mà
perche la ragione di AriSlo tele mira I oggetto mouentc;e la ragione d‘
Auiccna mira il fo* getto riccucntc : lolodola prima ragione mirante la
dtfpofitione oggettiua; e non rifiuto la lèconda ragione, laquale ma rala
difpolìtione del riceuenteipoiche la nouità dell’oggetto, Ja purità del
Soggetto, fanno ch’il Fanciullo tenacemente ritenga;
rìtenga;oue per cagione di qualità complesfionale non potrei be
tenacemente ritenere. Al fecondo dubbio delti vecchi fi ri Iponde, chè
quella facilità di Memoria nafee, per la moltiplfcatione delle meditationi, Se
eflercitio, Se vfo dell'intenderej Però dice Arillotele nel fecondo capo
del fuo libretto della Memoria, e Remini feenza, che Meditationes
Mcmoriam confer uant reminijeendo. E quello, perche l’Intelletto viene ad
habi tuarfi colla frequente meditatone; è queflhabito poi,viene à
facilitare l'atto del ricordare . £ quello balli quanto al primo
lignificato della Memoria,chc è la potentia memoratiua. E • paflfando al
fecondo lignificato della Memoria, che c il fimolacro dirò due cofe; prima,
comcfi fà in noi quella Memoria; fecondo fe oltre latro del Senio, fi polla in
noi far Memo ria. Al primo dico, che il fimolacro in noi fi caggiona
prin cipalmente da Senfi, li quali riceuono lifimolacri Icnfibili,
e per quelli Senfi, come per tante Finellre, e Porte, paflàno al le
llanze interiori Senio comune e Memoria, doue fi ftabiliIcono e fermano : li
quali fimolacri fono da le potenti muoue re la potentia cognitiua,per
l’atto del conofcere . E quelli fimolacri, idee, Se imagini fono da Filofofi
chiamati fantalmi, li quali depurati poi per l’intelletto agente diuentano
fimolacri, e fpccie intelligibili. E quelli limolacri intelligibili fi ri
ceueno neU’Intelletto posfibile; poiché come diceuamo l’Anima lepacata, pure
ritiene li fimolacri conofoibili ; il che non irebbe, fe fidamente nella
Memoria finfitiua li fimolacri fi ri ceucfTero. Al fecondo
dico, che la Memoria, non fidamente riceue li fimolacri, li quali
intieramente fumo nei Sentì; rnà ctiandio li fimolacri imaginati formati
dalla nofira Cogitatiua, la qua lehauendo li primi fimolacri nella
Memoria contemplandoli, puolc congiongcrc uno fimolacro con 1 altro;ò uero
racco gliere dalTifiefio fimolacro nuoue imagini, e quelli
fimolacri et imagini poi fi riceuono nella Memoria. Per clcmpio
nella Memoria ui è il fimolacro del Sole, Se il fimolacro del verde
villi dal Senfo; prefentandofi quell» due fimolacri al a Cogitatiu ;li
congionge, è dice, il Sole verde, Se nidi la Memoria riceue quello fimolactodel
Sole verde. È parimente fi fa de gli altri imaginati fimolacrij come del
monte d’0.o,ckll’B*p ‘pocctuc. p© cerno, e della Chimera.
Forma ancora delle prime figure, et idée, ò arguitiuamente, ò per ragione
di fbmiglianza altri nuoui fimolacri; li quali fi chiameranno imaginati;
perche non comprcfìda fenfi. Liquali fimolacri imaginati fono necef
fari j all’Arte della Memoria: nella quale ci {bruiremo, non fòllmente de gli
fimolacri hauuti da gli Senfi ; ma ancora degli raccolti dalla Memoria,c
Cogitatiua. E quello balli perla cognitione del fecondo lignificato della
Memoria,& anco per quella Lettione. Douendo raggionare del Terzo
lignificato delia Memo ria,ch*è l'attoal recordatione, quando attoalmente
ci ra cordamo, ( il qual’atto propriamente fi chiama ricordare, fi
ben’ anco li chiama con nome generale, Memoria ) diremo tre colè. Prima,
come fi fa quelt'atto.Secondo in quanti muo di fi fa auefl'atto.Tcrzo in
che modo fi può facilitar quell- . atto, al che mira l'Arte della Memoria,
della quale noi trattando. Quanto al primo dico, che quell’atto fi
fa, quando la potè za cognitiua fiumana drizzata al Tesoro della Memoria,
fé li offerifeano fpeditamente,e prefentano li fimolacri, con li
quali ò contemplai raggiona,ò infegna,ò predica, fecondo l’ufo
delle forze interpretatiue. Quanto al fecondo dico, che l’atto
della Memoria paragonato all’impedimento antecedente, prende due nomi,
l’uno chiamato ripigliamento di memoria^’ altro Rcminifccnza. Il
primo quando fi frapone interrompimcnto di tempo.ll fèco do, quando fi
framette interrompi mento d’obliuione, e dime ticanza. E che quelli due
atti fiano differenti, appare per due ragioni Arifloteliche. La prima
dall’attitudine, La feconda i dai fòggetto.Quantoalla prima chi è pronto
ad apprendere^ capire, e ueloceadimpararc;è pronto, e uelocealla
reminifeenza.E chi è tardo ad imparare et apprendere; è pronto alla ri
membranza « Quanto alla feconda, la rimembranza o ricordarsi; è atto dt molti
Animali: mila reminileenza ddTHuotr» lolamente,comc dirò piu inanzi . £
per darui vn cflcmpio di quelli due atti, prendo qucll’auttorità,
Sapientiam fine fi filone* 0 didici, et fine inuidia communico,& bone
fìat era illitts nonabfcon do . Haueudo hoggi riporto nella Memoria quell
’auttorità, e domani volendo recitarle, le inticramctela Memoria me la
ra prefenrarà, quell’atto di Memoria li chiama ripigliamcnto di
Memoria: perche tra l’atto d'hieri, c quello d’hoggi fidamente ci ètrapollo
interromptmento di tempo. Mi fcdelvcrfb che hieri m’albergai in Memoria,
hoggi io mi ricordo la prima, e la feconda parola, e non mi ficordcrò la terza,
ò quarta; e pcnlàndo, eripenlàfldo, dopò quella obliuione,è dimen ticanza
mi lòuiene la parola dimenticata; qncfl’atto di ricordarmi colà /cordata, li
chiama atto di reminileenza ; perche vi fi c trapolla dimenticanza et
obliuione.Sichela reminilceiT aa none ogni atto di Memoria, dopo qual fi
uoglia interrom pimento; mà lolamcntc l'atto di Memoria dopò
l'interrompimento di obliuione. £ quelli due atti fecondo Ariflotile fono
coli differenti, che >1 primo è communc à gli Huomini et alti
Giomenti; mà il fecondo, che di reminileenza conuiene lolamcnte à gli Huomini:
perche la reminileenza c vna reflesfio f ne dell'Intelletto difcorrcnte,
per ricordarli la colà dimenticata; fiche la reminileenza è atto dell
intelletto, ò della Cogita ciua lènfitiua,congionta
all'Intelletto. Quanto al terzo principale, in ch$ muodo fi può
facilitar l’atto della Memoria, dico che ò pariamo dell’atto della
reminileenza, ò del repigliamento della Memoria. Se del primo atto, racoglicndo
da quel che dice Arillotcienel libretto della Me moria c reminileenza,
dico che in tre muodi noi postiamo ri cordarci di colà dimenticata. Primo
hauendo l’occhio all'ordine delle colè; Secondo al tempo; Terzo al luogo .
Quanto al primo, dico che dobbiamo mirare alle cole antecedenti, ò
iòflequenti alla colà che noi ci fiamo /cordati ; che coli ci Ibuenirà la colà
mezzana; ilche fi vede per elperienza di quelli p che làpendo molti
uerfi, e /cordandoti del terzo, ò quarto; recitando il primo, e fecondo,
li louiene il terzo, et il quarto. Da quello nalcc dice il filosofo, che alle volte
ci ricordiamo d’vna colà pafiàta d’?n gran tempo ; et una cola
del riftcflfo gjornojA d’vn’altro innanzi fatta, non «i
G>uiene:per» che quella cofa fouucnutaci nouamente,hà qualche
collegaza et ordine có quella cofa, che noi prefcntialmcnte
penfàuamo. Et il procreilo in quella colliganza fi fa in tre maniere,
come dice Ariliotilc; dal limile; dal contrario : dal propinquo.
Dal Amile, come le mi ricorderò di Socrate; ricordandomi di Platone,
ìlquale c limile à quello nella fapienza. Dal contrario, come fe mi
ricorderò di AchiIIc;facendo mentionedel fuo au uerfario Hettore. Dal
propinquo, fe mi ricorderò del Padrementre fò rimembranza del Figlio. Il
fecondo muodo è mira re al tempo;perche volendoci ricordare d’vna colà
paflàta,diftinguendoli tempi, e conAdcrando d’hora in hora potremo
ricordarci della colà dimenticata. Il terzo muodo, è mirare al luogo:
perche conAdcrando diparte, in parte, i luoghi ne’qua li habbiamo fatto
dimora et operato, potrà louuenirci il fatto che vogliamo . Quelli tre muodi di
ageuolare la reminiIcenza, lon fondate nell’ordine, ilqualc è ottima guida per
la facilita ancora del recordare. Indi A traggono d’Arillotilc a.
documenti per facilitar la Memoria, e la reminilcenza. Il primo, chele cofe da
collocare in Mcmoria, Aano ben ordinate, diftinte, e ridotte in capi :
perlochelc colè malamente ordinate, tardamente ci lbucngono.Il lècondo, che le
gli porga vna gagliarda attentione di mente: perlochc alle uolte ci
ricordamo piu d’vna cosa villa una sol volta ; che un’altra villa piu,
volte. Il terzo che frequentemente Aano meditate, et repetite con ordine.
11 quarto che nel volerli ricordare colà dimentica . ta, li Riabbia 1
occhio al principio della colà, ilqualc è atto atra her a fe il nello, per
la colligaza et ordinejcome A tira vn luco filo, da chi prende il capo.
Se pariamo del ripigliamcnto della Memoria, et vmuerfalmentcd ogni atto di
Memoria dico chem tre muodi posAamo haucr faciltà in quell’atti;
primo per natura; fecondo per clfercitio; terzo per arte. Della
natu ra noi non posAamo farci maeftri; poiché c dono di Dio, ilqualc dono
l’habbiamo An da forigine; et cflendonenoi dotati eccellentemente, dobbiamo
renderne lode a l’auttor della natura ; et eAèndonc bifognoA, dobbiamo
ricorrere a fua diurna MaeAa per aiuto: poiché ìnitium omnù Sapienti,
timor Domini e/t . E ben vero, che la Memoria naturale puoi elfer
C aiutata aiutata dalli Medicamenti, dairE{Tcrcitio, e
dall’Arte. Dell’Arte, e dell’Effcrcitio diremo poi. Quanto alli Medicamenti,
no reiterò di dire*, che per lo più fogliono riufcire perigliofi, e
par ticolarmcntc le vntioni, che li fogliono tare alla poppa del
cerucllo ( chiamata l’occiput ) per ingagliardire la Memoria. Lequali
vntioni fogliono effer di qualità calida,c fecca; e per che il caldo
accende li fpiritidel cerucllo, e quelli (piriti aceli et infiammati
alterano, muouono, perturbano, dilordinano li fimolacri; ne fiegue che
quelli liquali vfano imprudentemé te limili vntioni bene fpelfo diuentano
frenetici, e pazzi. E fè pure non incorrcfiero in quello danno ; non
polìono fuggire qucll’altro: perche fi sa bene, che l’ingagliardimento
d’vn còtrario,rende debole la forza dell’altro contrario; à guifà, che il
calor che fubentra nell’Acqua, quanto più prende forza, tan to più fi
feema e, và mancando il freddo ; c perche l’ingegno e l’acutezza
dcllapprenfiua confitte nell humido; la tenacità della Memoria confitte
nel fccco ; però li Medicamenti calidi, è fecchi; mentre ditteccano la
Memoria, chiaro è che ingagliardendo la retentiua, debilitano l'apprenfiua .
Laonde quefti tali mentre cercano d’hauer felice retentiua, diuentano
roz' zi, (tolti, c tardi, nell’apprenfiuaj intanto, che non
fon’attimè da fe fare inuentioni; nè ben faper’ imitar l’altrui; habili
folamente à leggere l’altrui fcritti, e quelli parolatamente riporli alla
Memoria, Ne per quello intendo negar affatto tali Medicamenti: mà concedo bene
poter effer vfati,col configlio d’vn efpertisfimo Medico, ilqualc
conofccndo la qualità e forza par ticolare del medicamento, la qualità,
la complesfione, l’età, il bifogno
delmcdicato,potràopportunamenteordinare,& indi con ficurczza vfarfi
l’ordinato medicamento. Fra gliremedij vniuerfali,fi recitano, Il moto,
Il lauare; La tenebra, e la mediocre attcntione. La onde fi formano quelli
quattro quefiti. Il primo perche caufa quelli, che fi vogliono ricordare
muouono il Capo. 11 fecondo, perche caufa il lauare del Capo gi.o ua alla
buona Memoria. Il Terzo, perche meglio ci ricordiamo nella tenebra, che nella
luce.ll Quarto, perche fapendo noi recitar vna cefi, udendo darci molta
diligenza, et attcntione; ci feordiamo di quella. Al primo rifpódo,che
alle volte nell’organo della potéza Mcmoratiua,vi è qualche oppilatione,
laqua IO le impedifceil libero paflaggio dell» 1 (piriti
fenfitiui: e mouédoì noi il capo, s’apre quell’impedimento, et aperto
pa/Tano li Spiriti, c ci ricordiamo. Al fecondo dico, che per tal
lauamen to s’aprono li pori della Tcfta, perii quali cleono fuora li
fu mi, che ingombrauano il ceruello, et impediuano illuogo co
fèruatiuo dclli fimolacri; la onde ufciti quelli fumi,reftando libero
l’organo, facilmente ci ricordatilo. Al terzo ri/pondo, . che ne.
la luce li moti de l’oggetti lenfibili efteriori, come piu gagliardi,
impediuano il moto delli fimolacri interiori, che fò no men gagliardi.
Per lo che fi da regola, che l’huomo per ricordai fi, e per collocar in
Memoria, li può feruire dellatenebra,ò naturale, ò uolontariamaturalc del luogo
o/curo;uoloa taria, chiudendo gli occhi nella luce. Al quarto dico, che
la fi> uerchia diligenza^ attcntionc,preci/àmcntenclli fimolacri
bc ne habituati, perturba li /piriti, c muouc gagliardamente li fimolacri
riporti nelforgani ; c quefta pcrturbatione ecommo uimcnto alterando, dilfordinando,
e confondendo li fimolacri, impedi/ce l’atto perfetto della Memoria- Ma ponendo
mediocre attentione,e diligenza : non ne fiegue quefta perturba tionc,e
di/ordinationeje però li fimolacri meglio fi ripigliano. Quanto all
c/sercitio dico, che ottimo rimedio, per facilitar l’atto della Memoria,
è l’clcrcitio mentale, e uocalejpcr Io che fi riferilee di quel Filo/òfo
lettore, il quale più e più uolte ri chiefto da’Difcepoli,chc
uoleflelor’infegnare l’Arte della Me moria : dopò molte preghiere,
all’vltimo con Metafore di Me tonomia figurando l’e/èrcitio difse,chc fi
riccucflc Scarpa fa na,c Scanno confumato.Volendo inferire, che lo
Scolaro, per far buona Memoria, fuggendo li fuiamenti; debbe /edere,
c uigilando /Indiar molti Libri, E chi non sà,chc fedendo affai lo
Sc-nno, ouc fi fiede fi confuma ;ele Scarpe, perii ripo/ò rimangono
lanc.E qudfto forfè, uolfe dire il Filo/ofo in quel fuo detto fedendo, e
ejuiefcendo,Jinimns fit prudens. Indi credo, che Adamo /àpientemente impor endo
li nomi alle co/c, chiama/Tc la Memoria con parola hebrea, Zecher. Il
qual nome, c comporto di trelettre; Zain,che c Interpretata oliua.
Caph,chc interpretata,curuati funt: Res, ch’e interpretata Caput. Volendo
dire, chelaMemoria confifte nel Capo curilo^ per Io cheuolendoci noi ricordare
d’una cosa dimenticata, curuamo et inarcamo il Capo; perche ri fedendo la
Memoria nella parte deretana del ceruello, chinando noi il Capo al Petto,
con quello moto s’aprc l’organo, e fasfi più atto, e fa cile alla fua
operatione. E di più la Memoria dice Capocuruo; perche dobbiamo curuar il Capo
à lludiar li libri ; e da qui nalce poi(come dice il filosofo)cheli
Studenti per lo più, hanno qualche poco di Gobba ; perche non piegano
pigri il Capo alle (palle fopral'otiofe piume; mà diligenti I'incuruano
al petto, fopra gli aperti Libri . E di più il nome della Memoria
contiene l'Oliua, dalla quale fi fa foglio, udendoci moftrare,che l'uomo
per acquillar buona Memoria, debbe uigilare, non folamente con la luce
diurna del Sole ; màcon la notturna dcll’oglio.Oltra che il lume
dell’oglio,è più atto di quello del Seuo,ò graffo, il quale col noiofo
fumo, e feto re appanna gli occhi, c difturba affai il cerudlo. Auertendo
per fine di ciò,che in quello capo curuo non fi prenda fred do
nell’occiputjmà fi mantenga col fuo calor naturale, non ec ceduto, nè
alterato da calor eitrinleco : acciò il calor’acciden tale, non perturbi
l’ordine de’fimolacri :& il freddo nonag giacci,& induri
l’humidojfi che fi rendano poi l’organi tardi, pigri, e difficili
all’operatfone.Disfi dell’efercitio uocale, inté dendo di quelli li quali
ripongono in Memoria, per recitare leggendo, predicando, od orando;
perche lappiamo, che non folamente l’Intelletto è habituabile; mà ancora
la Mano, eia Lingua; quella à fcriuere, quella al recitarejpcr
chchauendo noi imparato uinti,ò trenta uerfi,& affoefacendoci in
recitar li molti, è molti giorni, la Lingua uiene ad habituarfi, intanto,
chefenza penlarci ò darci mente recita, e feorre diuerfo in uerfo
ottimamente.Dunque, perche la Lingua è cosfi habituabile,e porge aiuto alla
Memoria in recitare;è molto ben fatto alloggando nella Memoriale colè, e
repetendoleper Ha bilirle in quella, fare che ancorla Lingua le reciti,
el’efplichi con uocc quanto più fi può intelligibile ; e quello fi
uederì con elperienza,'chc apporterà grandiflimo giouamento alla
Memoria. Quanto aTArte da facilitar l’atto della Memoria ;
quella farà la parte, che s’ha da trattare diffufamentedanoi .
Della quale, come uoglionocommunementcli periti de quell’ Arte
e P 1 1 e precifàmente CICERONE (vedasi), e Quintiliano, nc fu
primo inuento re Simonide Melico Poeta Lirico, il quale hauendo uifto
mol ti fedenti in unconuito,& efsendo poi caduta la ftanzadelcó
uiuio;& vccifi, c dislìpati li cóu tati di maniera, che nó poteua no
elTerconofciuti diflintamcte dalli parenti et amici, che vole uano farli
gli honori funerali, Simonidc Poeta fbp radette, hauS do per prima
riporti nella Memoria licóuitati, fecondo l’ordine de’luoghi oue fedeuano;
diftintamente vno p vno li rico?- nobbe . Metrodoro feeptio fece perfetta
qucft’Arte, Cicer: adHercnnio ne trattò efquifìtamente, cort Quintiliano,
Sene c a, Petrarca, Rauenna ne fa un trattato ih titolato la
Fenice. Fra Lorenzo Guglielmo debordine minor conuentuale, pienamente ne
tratta nella fua Rhettorica. Fra Cofma Rortellio dell’ordine
dc’Predicatori, ne fà un libro intitolato, Thesàurus memoria: artificiose . E
prima di lui ne trattò pienamente F.Gio. Romberch, Iacopo Publitio,
Matheolo Perugino, Francefco Monleo et altri nelle opre della Retorica.il
Sig.Dolce in forma di Dialogo, uolgarizò il Trac tato del Romberch. E
finalmente il Sig.Gio:Battifta la PORTA (vedasi), n’hà fatto un bellissimo
trattato, Io mi sforzerò, et imitando inuentando; ridur queft’Arte, àquel
compito Metodo, che fi potrà maggiorc.Notando, che due colè iidefiderano
in qucft’Arte; primo, Il ucro Methodo della Dottrina; fecondo la
Voce uiua di chi bene l’infègni.Per difetto del primo, mol tireftanopriui
di queft’Arte; per difetto del Secondo Tariffi mi ne riefeono; perche
queft’Arte, à mio giuditio,è limile alla Mathematica,c Notomia ; le quali,
mentre fi fpiegano, bifo gna ch’il Mathcmatico habbi la fua tauoletta
ingefsata, fbprà la quale difegni, e moftri le Figure Mathematiche: et il
Noto mifta habbi dinanzi a gli occhi, e /òtto le Mani, e tagli di
Prattici, il Corpo humanojfòpra il quale infegnando con la Lingua; moftri con
il Dito di parte in parte, tutte le membra hu manc.Cofiì il Lettore d»
que/l'Arte,bifogna che feelga uinti,ò trenta luoghi, e quelli uifti dalli
Scolari, c ben polli in Me moria, come preamboli; fiuadipoidi parte, in
parte, esplicando il contenuto dell’arte. D Alle cofc fopradette raccolgo,
c concludo quattro colè; la diffinitionc della Memoria Artificiale, il
titolo dell'Art, il foggetto, la partitione. Del primo dico, che la Memoria
Artificiale^ vna forza acquiftatacon arteficio ingeniofo, perlaquale
tenacemente li fimolacri di cofe ò di parole fi ritengono, c viuacemcnte
alla virtù contemplatiua, cnarratiua fi rapprefentano. Dclfecon do
dico, che queft’Arte fi chiama, Arte di Memoria ; e chi la volcfle
chiamare Arte di Memoria vdita, non errarebbe ; poiché è vn’Artc, che
conuienc,non folamentc efler iftudiata nel li Libri; ma vdita ancora da
voce viua ; nella guifà che forfè Ariftotele (fecondo alcuni) intitulò li
primi Libri della Fdofòfia,de Phifico auditu . Indi credo, che tra gli
Ieroglifichi, l’Orecchia fi troua confccrataalla Memoria . E fi bene
dottamente Porta, intitulò queft’Arte, l’Arte del ricordare : poiché la
Memoria Artificiale mira, et attende à facilitar l’atto della Memoria, che è il
ricordare; non però ne ficgue, che il titolo antico, e communc
diqueft’Arte debbia edere rifiutato; poiché e da Filofofi, e daThcologi, tanto
la potenza della Memoria; quanto il fuo fimolacro, c l’atto, son chiamati
memoria. E fe ben affermo, che queft’Arte mira anco la
reminifccnzajquando ne i limola cri albergati, foccedeffe obliuione:
nondimeno conuenientemcnte fù chiamata da gli antichi Rettorici, Arte di
Memoria; non fedamente dal fine, come dice il Sig. Porta: poiché il
tutto fi fa per accrefcere la Memoria; ma perche ogni atto di ricor
dare, e chiamato Memoria, com’io disfi. Del Terzo dico, che il foggetto
di queft’Arte, c il Luogo ideato per ricordarci;inté dendoper l’Idea il
fimolacro,la fimilitudine,I’imagine, la quale fi colloca nel Luogo ftabile:
acciò viuacemcnte ci raprefèn ti la co(à,ò parola della quale vogliamo
ricordarci.E da que» fto foggetto, io prendo la partitione dell'Arte,
laqualc è diuifa,in Luoghi, et Imagini.E fèbene il Signor Porta
aggiongala Perfona,tra il Luogo, e l’Imaginc j nondimeno diremo al
fuo luogo,fe quefta Perfona, fi deue ammettere in queft’Arte .
Et ammettendofqla redurremoal Luogo, ò allTmaginctfi che re
ftafofficientela partitione,in Luoghi et Imagini.il luogo è come Materia;
l'imagine come Forma; Il Luogo ca guifa del la carta nella quale li
fcriuc: L knaginec à guifa della (cattura che fi (tende (òpra la carta, e come
dice Quintiliano con CICERONE (si veda) il Luogo c come tauoletta
incerata, l'imagine, come lettera. Si che il Luogo, è quella parte materiale,
(labile, diftinta, e proportionata, laquale c bafe della Imagine,
Figura, è fimilitudme della cofa,ò parofa,come vn’Angolo d’vna Cella. L’imagine
c la Forma,!* Figura, la Similitudine, ó Segno di quella cofa,ò parola,
che noi vogliamo ricordarci, come la forma d’vn’Huomo, ò d’vn Leone,
quale con la noftra Mente, noi collocamo nel Luogo.Del qual Luogo, e poi
dell’Imaginctrattarcmo. Delli Luoghi. Dirò
ordinatamente tre colè delli Luoghi, ’la Partitiotie, le Conditioni, ò
Regole, et il muodo da formarli nella Memoria . Quanto alla
Paninone, ò diuifionede i Luoghi, dico che il Luogo c di tre (orti ^
Imaginato. rti, il primo Reale, il j. imiginato. Il pri roo e
quello, che nel Luogo ucde il Senio,comc nel primo Luogo ci troua la
Porta, nel fecondo l’Angolo,nel terzo la Fi ncllra. Iinagmato c quello,
che ut formala Mente; per clfempio le da Angolo ad Angolo di una danza ui foffe
uno fpatio troppo grande per un luogo, ecapacedt due Luoghi, c‘ che
non ci foffe in tale fpatio niunodidintiuo ; io pollo formarcene uno, con la
mente, collocandoci una Pcrlona, una Fi gura, un colore, un’altro limile
fegno ;ò pure le uoi hauede commodtcà, farebbe bene farci un fegno reale,
come làrebbeà dire prender un Banco ò Caffa,ò altro artificiato, e por
10 in quello fpatio per fegno ; ò pure appendere nel Muro qualche
colà con un chiodo, come un Quadro, una Figura, ò ergerui un’Altare, fè
pure non uiuolede (bruire del Muro per carta di pazzi, dipingendoci un
legno col carbone, o altro co lorante. Equedi fegnifian uidi, reuidi,e
maneggiati; c poi fermati,e repetiti nell.; Memoria. E fc bene fi
rimouinoqucl 11 fegni da i luoghi, fi ritengano però fempre nella
Memoria, come la prima uolta ui fi uiddcro.Auucrtendo (opra il
tutto, che il fegno del didintiuo, non fia troppo piccolo; perche
nó darebbe quella uiuezza che fi dcfidcra . Seftò, Del
Numero. Il numero di Luoghi, mira il bilogno di chi li forma; perche chi
uuole Luoghi per li Concetti, un mediocre numero li bada; chili uuole ufare
anco per le parole di molto numero n’ha-btfogno, fi come colui,che
fcriucpoco, di poca carta hàbtfogno; mà chi Icriue molto, di molta è
bifrgnolbr J 6 Il Raaenna fi uanta d’hauerne formati cento diece mila
. Il Rolfellio ftima, che il gran numero offende alla Memoria .
Cicerone ftimò,che fidamente cento luochi baftalfcro. S.TomafTo con Teglia ad
hauerne molti. Il Petrarca, il Rauéna,Gio: di Michiele, Matheo Veronefèò
Perugino, ìsibuto, e Chirio, et con quelli il Romberch fi dilungano da
Cicerone. Voi formatencne prima cento, per rclfcrcitio j e poi di mano in marno
formatene dell’altri, hor collocando vnaChiefa,hor un Palazzo, hor
un’altra Chiclà, finche haueretc la lèmma d’un mille luoghi. E le quelli
non ui baftalTero, potrete formarne, de gli altri; purché non pasfiatc à
formar li Luoghi della feconda Chiefa, ò Palaggio;fe prima non haurete molto
bene Ila biliti nella Memoria li luoghi formati nella prima Chiefà
ò Palazzo, ch’altrimente facendo, offendcrelle la Memoria, e con la
confu fione, e con la fatica. Settimo, Della Diuerfìtà. Non è
colà doue fi ricerca tanta uarietà,c diuerfità, quan toin queft’Artc; per
lo che l’uniformità, ò Gmilitudine delle colè, c diametralmente opposta
alla Memoria di Luoghi. Però in un Clauftro,doue fi ueggono Archi, e
Colonne tutte limili, non fi polTono formar Luoghi;!! come nc meno
nelle Celle di Dormitori; di Rcligiofi, parlo di quelle che tutte
ha no le porte, e diftanze fimili. Si ben’ alcuni uolcndofi feruire
di tali Luoghi fimili, diano Regola delli Diftintiui imaginati; come
legnarcon la mente le Colonne, una con una Croce, un’altra con una Mano,
vna Cella con un Santo, l’altra con un’altra Figura;non dimeno quello mi
pare uano c fuperfluo, si perla difficoltà, che s’aggiongealla Memoria,
come per ha ucr noi ampia commodità da poter
cIegger’aItrfLuoghi,qua li per la dilfomiglianza,c diftintiui reali fon
più atti, e facili al la Memoria, lènza lottomcttcrci Se à quella nuoua
fatica, et à tal pericolo di uacillarnclli fimili. E ben uero, che le noi
nel formar di Luoghi, doùesfimo palTar da Luogo Commune ad altro
Luogo Commune, come palfarda una Cielàad una Sacreftia; e per congiongcr
quelli due Luoghi Communi, ci conuenilfe palTar, per un Clauftro
colonnato, e che le Colon ne fu nefuflero poche in numero,
come tre,ò quattro ; non negarei il palTat per quelle, e diftinguerle con
qualche legno reale pofto ad tempus^com’io disfi nel Capo quinto del
Diftintiuo, ò collocandoci perfone familiari, fecondo le regole che fi
di ranno delle perfone ftabili, ò almeno diftinguerle con fegni
imaginati. Delle Celle fimih di Dormitori, s’auerta,che ce ne potiamo
lèruirc,ò palpando, ò entrando; le palTando,e tut te le Porte, e le
dirtanzc,tra Porta, e Portalono uguali, e fimi li: è difficoltà a i
oprarle, àchi non le li fàprattiche,diltinguc dole per diftintiui
efficaci, c particolarmente per Peritane che ui habitano, quando lon
molto ben conolciute dal Formato . re. Se entrando è gran commodità ;
perche col diftintiuo ef ficace ritrouata la Cella, fi portono dentro di
quella ordinatamente formare alcuni Luoghi, et ufeendo da una paflarc per
lo fpatio tra mezzo alla lequente Cella. Ocrauo Dell* Lumi,
DErche forniamo fi Luoghi,per collocarci l’Imagini, e talmé *•'
teli raprelentano alla Mente l’Imagini, quafi l’hauesfimo dinanzi à gli
occhi: però bilogna,che il Luoco fia illuminato; acciò Mangine fi
posfimortrareallofguardo. La onde il Luo go oleuro, non catto per queft’
Arte; perche fèpelifce, uela,& acceca Tlmagine.E fi come l’Imagine
porta in aperto Luogo, perii fouercnio lume fi rende all’occhio
fbuerchiamentefplc dente, d’occhio irtelso s'offulca in mirarla, ne può
diurnamente, e commodamente contemplarla; cofi la Mente non ef
fìcacemente apprende, nè uiuacemente la Memoria csfibilce qucll'Imagine,
cheda foucrchto lumeè illuftrata . E però le Strade aperte; le Piazze, le
Muraglie, che fono dalla parte di fuori dell’Edificii, non fono troppo
atti per quert’Arte. E qua to aH’ofcurità,il Sauona dice,cheil Luogo
oleuro, fi può far luminolo: le fi confiderà, efi forma con un lume di
Lucerna, e Tempre fi mantenga nella Memoria cosfi illurtrato,come
fu uifto con il lume quella prima uolta.Ma quello io l'ammetto,
quando quel Luogo oleuro forte neccrtario all’ordine di Luo ghi, per non
interromperli; fi che per continuarli bilognaflc palfar per un Luogo
oleuro. Il limile dico dclli Luoghi aper ti, che per cotinuar
Luogo Còmfflune, al Luogo Comma ne, mi bi/bgnaffc pattar per vn'Andito, ò
per vna Strada,ò per vn Cortile': potrei in tali Luoghi aperti, formar i
Luoghi diftinti.E quando fodero /ouerchiamenie luminofi :fitormino i
Luoghi in tempo nuuololojò nell’hore, quando s’itn bruna il giorno la
/era, ò quando fi chiarifce la mattina. E nel modo che furo vidi la prima
volta che fi formaro ; così fiano Tempre ramcntatt. Et auertail
Formatore, di non eflcr troppo fcrupoloio intorno alli Luoghi aperti;
perche cttendo aperti uerio il Cielo, e per il progretto, nondimeno fono
chiufi a faccia, con mura et habitationi non troppo dittanti» come
/bgliono ctter le ftrade per le Città;e s’ofl'crui quelche fi dirà della
folitudinc,e fic detto di lumi, di formar i luoghi in certe hofe del giorno,
quando e men frequentati, e men luminofi fi veggono; non c dubbio che
permisfibili fono alfArtè. Nono Della Quantità. m P Erche ne gli Luoghi fi
collocano l’Imagini corporali, diftefe per larghezza, et altezza;però bifogna,
che li Luoghi habbino la loro debbita grandezza. Et perche il Luogo
trop po piccolo, non potrebbe capir l'Imaginc ; e fe fotte troppo
grande fuiarebbe lo /guardo, et confequentemente la Mente # laquale ila attenta
alla Memoria, che è fondata nel fenfo: però fi attegna la larghezza di
otto ò noue palmi, òpiedi;per che in tanta larghezza, fi può à braccia
aperte, e fpiegatediftender vn’Huomo.Nó meno, acciò nello fpiegar delle
brac ciad’vna perfona,noningombratteilLuogointanto: che nò reftatte
fpatio per l’altra Per/ona, quando per occorrenza del l'Imaginc
bifbgnatte fimilmcnte fpiegar le braccia.Non più» perche noi uogliamo
feruirfi delti Luoghi, non /blamente per li Concetti: ma anco per le
Parole. E fi come malamente leggiamo le parole, quando le lettre, fillabe, ò le
parole an Cora /on'troppo dittanti l’vna dall’altra: così tardamente
/om minittra la memoria, quando li simolacri non hanno tra loro vna
cofiueniente vicinità» come diremo nelfeguente Capo della
Dittanza. E Decimo Della Diftantia.' CICERONE (vedasi) vuole,
che un Luogo Ila dittante dall’altro trenta Piedi, ilchc lìcgue ilMonlco.
Il Rottcllio vuole, che 30 . Piedi, s’intenda del Luogo ampio; ma del
particolare, quindici ò vndici Piedi. Il Sig. Porta dice, che Cicerone vlàua
i Luoghi per li Concetti giudicali, douebifognaua hauer fpa tio
grande, per depingcrci gran fatto: ma per le noftre Regole batta la diftanzadi
otto palmi . Alche fottoferiuo io di ccndo y col detto Sig.Portarche le
per calò ogni otto palmi* non s’ihcontrafle Angolo^Porta^ Fineftra, ò
dtftintiuo nel Muro ; mà il dittintiuo fotte puoco amati, 11 che
bifognal^ fc dittender’il Luogo altri due palmi, non importa che la
didimi Ila di dieci palmi . Si come incontrando il dittintiuo nel lètti
mo palmo, e nelfottauo non ci fette ; non farebbe er rorc, il fermarfì
nel dittintiuo.E la dittanza s’intende, dal cétro,e dal mezzo del Luogo, al centro
dell’altro Luogo : lì che ne fìegue,che li Luoghi habbino ad etter
fbccesfiui, e contigui . Il Rauenna adegua la dittanza di cinque ò Tei piedi :
il che le ben potette pattare,nondimcno è più lìcuro darli la Iar
ghezza d'vn huomo,con le braccia (piegate e diftefejaccio occorrendo
farli Ipiegar le braccia non s’ingombrino le Per ione tra loro.URomber eh
oltre che (lima ottimala Regola dclRauenna,aflegna ancora la dittanza di
due piedi quando l’Angolo,ò altra cola lègnalata,abbracciafle i luochi.Ilche
le s’i mende da centro à cétro, forfè pattarebbe, per la
collocano ne immcdiata:ma non è congruo perla cJlocatione mediata, la quale
ricerca Pcrlone Se Imagini, lequali dovendosi spiegare per larghezza, non li
ballano due piedi; le pure per piedi, non intendefle due moti, e pasfi. Ma
s’egli intende della di flanza,tra il fìne di vn Luogo, et il principio
del feguente : fe la necessitaci conftringe à far quello* c permetto
com’io dif fi con Porta.-, Icttioiic La soccessione di Luoghi,
ò s'intende tra Luogo Comma ne,e Commune:ò tra Particolare, è Particolare
. Quanto alla prima foccesfione, (irebbe bene in vna Città, hauendo
più Luochi Communi:chc il Formatore (ì sforza (Te ordinar li, conforme al
(ito ideilo che fi trouano;paflàndo da Luogo Comtnune al Luogo Commune
ordinatamente:cioc da un Luogo Commune, li pas(i all'altro Luogo Commune
più ui cinoje co(i poi al terzo, c poi al quartoje girando, ò
caminaa do per dritto ordinatamente, pauarall altri foccesfìuamente.
E non potendoli ciò fare di tutti; (i faccino in due ò tre par* tite.Et
perpaflar da vn Luogo Commune, ad vn’altro Com mune, coinè da vna Chieli
ad vn Palazzo, da quedo ad vn altra Chicli: (irà ben’incatenar quedi Luoghi
Communi, con alcuni Luoghi Particolari;purche il uiaggio da brcue,cli
Luo ghi fi posfino formare commodamcnte, come disli nell’otta
uo.capodelli Lumi, e nel (èttimo della Diucrfità. E queda (òcceslìone tra
Luoghi Communi c vtile: perche collocando voi vna T*redica,od Oratione, e
li Luoghi Particolari d’vna Chieli, non ui badalsero, perlochc ui
bilognalse paflar ad vn’altro Luogo Commune:gioua il paflirci,per un mezo
con tiguatojaltrimente la Memoria fuariarcbbc.È notate, che que fio
paflagio li fà in due modi nel recitare, primo conpaulà, fecondo lenza
paufa.Con paula c poli, per elfempio hauendo finito il Prohemio, il dicitore
prende fiato, epoi ripiglia la Narratiua:in queda polita, può il dicitore
far paesaggio da Luogo Scontiguato,ad un Luogo Dilcontiguato ; c non
(blamente da Luogo Commune, ad vn’altro Commune, che lia in unaidefsa
Città:tna ad un’altro Luogo Commune, che fia in vn’altra Città.Pcr
efempio, hauerò collocato il Prohemio, nclli Luoghi della Chiefa di San
Francefcodi Palermo; polso collocar la prima Parte della Predica, nclli
Luoghi di San Domenico di Palcrmojò nelli Luoghi della Minerua di
£ a Roma, e la feconda parte, in vn’altrà Chicli . E così, non è
inconucniente pattar da Luogo feontiguato,à Luogo feontiguato;& ctiamdio
lontano, quando li prende fiato . Mal nel fecondo muodo,tjuando bifogna
farpaiTaggio lènza paulà, e fenzapofata: è pericolofo,il pattar da Luogo
Commune, à Luogo Commune, lènza qualche mezo. Per eflempio,la prima
parte d’vna Predicabile va fcguita lènza pofata ; bilbr gna collocarla in
un Luogo Commune. E fé un Luogo Com munc non baftaflè ? Dico che
collocandola tu ledeui daraitergo in un Luogo Commune, che fiacapace:e così
fuggiti pericolo.E le per mancamento di Luoghi, ò per inauertenza
te la troui collocata in un Luogo Commune, e poi fei forzato pattar ad vn’altro
Luogo Communc:dico chedeui pattare advn’altro Commune vicino, quale però
fia contiguato per Luoghi Particola ri, co m’io diceua. E le quello non
fofic có modo difarfi? Dico che bifogna adoprarl’allutia, fingendo
qualche coliche ti dia tanto di Paulà; quanto commodamc te la Memoria,
con la Mente uoliiio al principio dell’altro Luogo Commune, e trouato il
principio lèguir la Narratiua. Per efsempio predicando, quando
farògiutoal finedelli Luo ghi Particolari d'vna Chiela,c douédo pafsar ad
vn’altraChie falontana;fingerò che mi venghi vnatofse, ò cheti Compagno
michiama;c mentre ltarò,ò à tosfire e purgarmi, ò uoltandomi parlar, ò
attenderai Compagno; pafserò con la Me moria, e con la Mente, al
principio dell’altro Luogo Comma ne, e trouatolo e ben polsedcndolo,
ripiglio il ragionamento, e così con l’Arte, e con l’allutia cuopro il
difetto . E quello fia detto della lòccesfione de’ Luoghi Communi, che
della lòccesfione di Luoghi Particolari, non occorre dir altro: poi
che quella li conchiude dalle due Regole antecedenti, Quanti •tà, e
Dillanza, alle quali necefiariamente ficguc la contiguationc,e
lòccesfione. L’Ordine del Moto, s’intende dell’ordine che li de
tenere dilcorrcndo per li luochi : fe fi deue cominciare da man
delira, c campando finire nella man finillra; ò difeorrere al v - --
contrario.il Raucnna parche cominci dalla delira. Si bené il Rombcrch r
duca il Rauenna al mot* perla deftra;ma cominciaudo dalla liniftra.il Roffcllio
vuole, che lì cominci da man finiftraj (è bene non rifiuta il contrario. Il
Porta lodai’* rn’è l’altro;purchc li fèguiti l'ordine, che cominciando
dallyna,fi Unifica all’altra.Che dalla delira fi de cominciare, cc Ioperfuade
il Filofofo diccnte, ch'il moto comincia dalla parte delira. Che dalla
liniftra lo proua il Rofcelho: perche queft*Arte,è poco differente dall Arte di
Icriuerc, come dice Cicero ne:e perche noi lcriuendo,e
leggcndo;fcriuemo,è lcggemo,Co minciaudo dalla f!niftra,e cammamoalla
dcftra;però li de ca minar. per i luoghi dalla Anidra alla delira. Alcuni
ftimano, che quelli che ucggono bene col l’occhio deliro, come lon’io; e
poco e niente coll’occhio lìniftro, Icofrefsero dalla delira alla finiftra;
quelli che vgualmente ueggono, con ambedue gli occhi, pofsono indifferentemente
di /correre dall’ vna, e dall’altra parte. Nódimeno l’elperienza moftra,
che ècosì facile cominciar da vna parte, e finir nell’altra : come cominciar
dall’altra, e finir nell’vna.EIa raggione,non è, nè l’vna,nèl’altra asfignata
dal Rofsellio : perche l’vna, efclude l’altra. Che fe fofse,pcr il moto dello
fcriuere: non farebbe facile vgualméte il leggerete i Luoghi al rouerlo, come
l’efperienzaci moftra. Se fofseil mote, che comincia dal deliro : ci
farebbe difficile il cominciar da man manca,ilchenon c vero: fi che ne
l’vna nel altra raggione, elattamente,& elquifitamé te ci quieta.La
ondeùn quello fatto ftimo, che ò pariamo de la collocatone dell’Imagini :
ò della formatone di Luoghi. Quanto alli Luoghi, vgualmente è facile
rallentarli, per vn verlo;comc per l'altro . Quanto airimagini,ò fono
Imagini intere e Iole, di concetti, ò di parole intiere i E così, perche
ogni Luogo hi la fua intiera Imagine; parimente è così facile i
difeorrere per un uerfo,come peri altro.Mà fel'Imagini fof lerodi parole,
et Imagini fpezzatc, cbilògni leggerle, nel muo do è uerfo,che fi leggono
le fìllabe al dritto non al riucrlb : così è più facile difcorrer’à quel
verfo,chc fon collocate. Per elsempio,nel primo Luogo ci metto quelle parole,
te Ibl’ado ro. per T. ci metto vna pei fona chiamata Tiberio,
alqualc dò in mano un Tridente, colquale fora una fòlad’oro . e
così da da Tiberio, hòilT.dal Tridente l'E,e dalla
fclàdioro,que* Ile due parole fol’adoro,e tutte tre quelle figure
fanno,te fol* adoro.Qucde tre figure le pofso collocare in due
muodi,pri mo all’vfo hebreo, che legge dalla delira alla fmiftra, fecondo
all’ vfo greco, ò latino, che fcriue,e legge dalla fin idra alla dedra.Se
io le colloco al primo muodo, 'più facile farà proce der poi, dalla dedra
alla finidrarperchccon quclVordinc io tengo albcrgatcncllaMcmoria.Se le
colloco al fecondo muo do;più facilmente procederò, dalla lìmdra alla
dedra parte . Mà feillmagincc intiera d’vna fola figura, come fe nel
j^ri- ’ ino Luogo ci metterò queda parola Geronimo, 1 eper quedft
parola ci colloco l’Imagine di vn San Geronimo, colpetto ignudo, e col
fallo alla dedra mano : pollo ugualmente ben ricordarmi queda parola, ò
dalla dedra, ò dallj linidra parte, ch’io cominci.E la raggionc, perche la
nodra Memoria, et al dedro,&
all’oppodo muodo vgualmcntc esfibifee, credo che fia: perche non mira
l’ordine del moto di nodripiedi;ma l'ordine che ritroua nelle colè uide
dall’occhio. E perche nel le cole uide, non /blamente ui c l'ordine dal
primo al fecondo, e daquedo al terzo,ecofi loccesfiuamentc fin’ull’vltimo
j ma vi è parimente l’ordine dall’infimo focccsfiuamente fino al
primo:pcrò ordinati ncU’idelTò muodo li fimolacrì, puole la Memoria fondata nel
lenfo,&al dritto,& al rouerfo esfi birh fenza difficoltà alcunaifi
come l’occhio con l’ide/fa faci lità,che mira gli oggetti dalla dedra
alla finidraj puolc mirar li dalla finidra alla dedra. Della
Solitudine. Non parlo di quella solitudine, chefinfe Cicerone della Città
da formarsi da noi cò l’imaginationein vn De (èrto, per darli tutte le
conditionidi Luoghijperchc di queda ne raggionaiyquando disfi delli
Luoghi imaginati : ma intendo dclìi Luoghi artificiali reali, liquali fecondo 1
ide/To Cice fonedeuono efler eletti, in Luoghi folitarii, non
frequenta» da gcnte;pcrche la frequentia.il pa/feggio,lo drepito delle
gé ti,didurba, e debilita li fegni delFlm?gini, che all’incontro
la sòlitudinc conlerua integre llmagioìdi fimolacri.il
Rauenni dima ftinuuana ropinione della fblitudine, ciocche non fi
eleggano Luoghi,d >uec frequenta di gente, come le piazze publi che,
le ftradc della Città frequentate: perche balla hauer uifti quelli Luoghi
qualche uolta lolita rii, e lènza gente. loftimo che quel che dice il
Raucnna fia uero delle Chielè,e Tempii, liquali in certe horelòn uacue,e
lènza gente: et inqucll’bore noi poslìamo formar li Luoghi;!! che balla la
prima uolt.i haucruilli tali Luoghi uacui. Ma delle piazze, e llrade
frequentate d’ognihoradiurna, non so come le poslìamo ueder folitdrie,e
uacuejeccétto che lèm’empilTe l’orccchiedi bombacc,ò cottone,pcr non lèntir’il
tumultojc con 1-occhi facef fi un’eftàfe mctaphilìcale, e non attendere
ad altro con gli oc chi Cc non à ucdcr’e formar i Luoghi; ò pure formar
iXuoghi, nella prima hora del giorno, quando tali Luoghi fogliono elfer quafi
igombri di gentc,com'io disfi nel cap.8. à propofito di lumi. Et in quella
maniera, potresfimo ancora formar Luoghi in tali Luoghi frequentati; Ma potendo
hauer* altri Luoghi più com modi, io non mi metterei à quella im«
prelà faticofa, e periglio là. Dell’Altezza. I L RauennauuoIe,
che li Luoghi non fiano alti:ma coli iti lpofti,che mettedoci l’Imagine
dcll’Huomo, tocchi il Luo go dcfignato.& à mio giudicio, poiché
haueteintelo della Iar ghezza del Luogo, douete anco hauer Regola dell’
Altezza, che mira la !ommità,ela baie del Luogo. La lommità,e bafe,
ftabilitcla con l'altezza d'una perlbna humaua:fiche il piedcye balè del
Luogo, fia il tcrreno,ò l’aftricatOjò il mattonato, ò folaroda fommità
fia. (òpra il capo, tanto quanto può gionger col braccio dirtelo insù, e toccar
conia fommità della ma no.E quello,pcrche occorrerà alle uolte,dar gefto
alla pérlo na di braccio alzato uerlb il ciclo, ò darli qualche colà in
mano, quale per fila conditti one ricerca TAltezza;comelè tenef. fè una
bandicra.Et il piede l intendo in Luogo, che l'occhio poflà mirar tutta
la perfona albergata . E fe nel Luogo ui fia banco, poggio, ò grado, fi
potrà ftabilir la perlbna, con li pie- * di fopra di quellijsforzandofi
però per quanto più fi potrà. che li Luoghi fiano pari, e di
fimile altezza, quando la {labili tà di Luochi,non ricerchi
far’altrimcnte, come nelle fcalc, nel li afcenfi Src.Epcr la parità di
Luoghi, che da cofc mobili fuf fè impedita: fi potrebbe, o ad tenipus,o
con 1 imaginatione fi muoucrc quelle cofe,& formar nella Memoria li
Luoghi pa Dei Sito. ; • Z N On balla hauer il Luogo
particolare: mabifogna conofeer la parte del Luogo, douc s’ha da fituare
rimagi ne;e quella parte deuc cller’il mezzo del Luogo particolare.
E (ebene il Roflcllio dubita, e difputa fiele Figure fi debbono colle care ne
gli Angoli, ò nelTlnterflitii tra Angoli, Se Aa go!i; non dimeno noi
hauendo asfignata la quantità, e la diilanza de’ Luoghi particolari, con la
mifiira della larghezza . d’vn’Huomoj confequcntementc concludiamo la
Figura, e l’Imagine doucr effer fituate, nel centro; difendendole poi dal
l*vna, e l'ajtra banda, delira e finiftra, tanto quanto ricercherà la
grandezza et quantità delle Figure, et Itnagini. E fé in un Luogo
occorrerà collocar più Figure: fi potranno collocare proportionataipentc
compartendoli Luogo, fi che ciafcuna Figura habbi il filo didimo, e
conueniente Sito.il Romberch non loda gli Angolitperche la ftrettezza,che
farebbero le col locate Imagini,&l’ombra et ofeurità, impedirebbero
la didin tione,& chiara uifta. Nondimeno quello impedimento fi
toglievo! giuditiodel collocante; mentre non ingombrerà fo4i erchiatnente il
Luogo; ma in tal mifura, che le Imagini fi modrino all’occhio lueidee
didime. Della Signatione Numerica. V Volc Cicerone, che per
ogni quinto Luogo particola re; fi ponga un fegno numerale. Per efiempio,
al quinto Luogo mettere una Mano d’oro, che con le cinque dita moftra un
cinque, e così (occcsfiuamente . Il Signor Porta (lima quella Regola di
CICERONE (si veda) /uperflitiofà, e
difiutile. Ermippo, come dice Iacopo Supplitio,uuole che ciafcun Luoco è
SEGNATO col numero. Alberto, che ogni decimo Luoco habbi U j ~ ' fuo t
ir Tuo mimero, Qulntiliatio con CICERONE (si veda) .chc ogni
quinto. Que flinumeriòli pongono per dirtimiui, ò per recitartele
per diftintiui fon fuperflui: poiché cialcun Luoco hi il fuodt(lintiuo,
fenza far quella terza fatica. Se per recitarli, il numero è parte d lmagine,c
pero mobile, non immobile ; poiché nè à tutti li Luochi fcrue, ne in ogni
occafione . L per le occafioni, bada ad hauer li Luochi numerali dclli
quali dirò poi. E quella Regola Ciceroniana – CICERONE (si veda) -- fia
da me riferita, più torto, per non lafciar cofa intatta, per la intiera
notitia di que {l’Arte; che ci habbia* o à lèruir di quella. E perche
molti Scrittori quali Dilcepoli Pitagorici, feguendo chi prima
fcrif fe c dille, empiono le loroprc di dottrine fuperflue, mutili,
et alle volte nociue, con poco profitto di chi le Icgqe;laonde per
auertirui rtn conftrctto alle volte trattar di cofe à fuga, non a
lèquela. Comc anco firn sforzato dirui di quella rego ia'che dà il
Roinberch, che li Luoghi non liano circolari : perche il Circolo non hà
principio, ne mezzo, ne fine. Nulla è quella Regola; perche parlando noi dclli
Luoghi perii quali li dilcorre; le ben c’incontramo in vna danza
Circolare, cffendoci la parte per la quale s’entra; bilogna, che ci fia
la faccia dcringrello, &. indi la parte delira, e limftra ; e dalle
parti dell’ingrediente, c caminante lòcccsliuamente, li formano li Luoghi
con li fuoidirtintiui. Della Proporcione' . I L RolTcllio affegna
quella condittione nelli Luoghi, che habbmo proportione con le cole
Iocate;perchc volendo ra contar Panni di Sacrcrtia,più colimene
collocarli in Sacreftia; clic in Cantina, ò in Cocina. Io rtiinarei quella
Regola efler bona, quando com meda mente fipotefle lare: perche le
racconterò molte cofe,c l’albergarò in vn Palazzo;c gtongcn dpal mezzo,
non conuiene, douendo idear colà Sacra, lenza paula lalcia r li Luoghi
locccsliui, per entrar* in Sacrertia ; ma fi deue continouar nelli Luoghi
cominciati ; perche col lalto ad altro Luogo communc, non loccesliuo,
fuariarebbe, e li perderebbe la Memoria . Oltra che la cola in lolita,
F apporta apporta con la nouità maggior atttntione: Uche
fuppli&e, » quel che manca della proportionc. Letti one
VII P Ropofi la Partitione,e le Condittioni di Luoghi, et an co
laformationc di quelli} hauédo à baftanza detto del primo c del fecondo ;
reità che breuemente tratti del terzo, e poi dica dcU’vfo di Luoghi, c delle
Perfòne, coni io prumilì • • i t >* i r .1 . > ;)} Della
Formationo di Luoghi . H Auendovoi ben iftudiateli foprapofti d ieci fette
capi, an darete alli Luoghi communi;& iui conforme alle Conditioni,e
Regole aslignate, formarete i Luoghi. Laqualformationc, nura tre cole,
IlDengnare,U Colli care, et il Rcpc tere Primo, con l’occhio ben mirate,
e rimirate il Luogo » col foo diftintiuo; edifcgnato il primo Luogo
particolare, defignate il fecondo, e coli focccsfiuamente
procedendo, finche giongerctc al fine del Luogo communc. E fatto
que Ito al dritto, ritornerete àriuedcrli alrouerfo, e tante uolte
ciò fate, finche habbiate perfettamente il difegno di Luochi. Secondo,
ben difegnatilt Luoghi, con le regole fopradette in mano,cominciarcte a
collocarli in Memoria, uno per vnc; collocandone una uolta dieci, poi
altri dicci, e così di uolta in uolta in più giorni collocaretc tutti.
Terzo li repctirete, più e più uolte, dt à dritto, et à rouerfo; fin
tanto, che fenza alcun’impedimento, c difficoltà, da per uoi lontano
dalli Luoghi, li fàprctc così ben recitarejcome felhauefte attoalmente
dinanzi à gli occhi. E non ci rincre(ca(dice il Signor Porta) recitarli
trenta è cinquanta uolte il giorno ; poiché quello c il fondamento dell
opera. E come diccilRauenna, quelli Luochi coli formati, li
repetano,tre,o quattro uolte il Mele: perche la repctitione di Luoghi, non
è prezzo che Rimar la nosft . che le dimoftrino, e faccino
parere; dunquegran facilità farà à tutti quefti bifogni, il
ritrouar ne i Luoghi le Perfone . La quarta perche con grande allegrezza^
chiarezza li viene al Luogo,oue fu una Persona, la- quale dii porga
merauigl!a,ò II apporti diletto. La onde le tn Muronud >ò altra
Pcr(oua>nt, n così circonlìantionata, ci fa ricordare vna fola parola;
quella ci porgerà vn veri© m tiero,come chfcfe ci preferita chiara»
lumino!*, desiderata, amata, diletteuole,"e : lrabilita.E le bene
per vn numero con ucnicnte e mediocre di Luoghi, comedi cento, ò ducano,
lì potrebbe far quella diligenza delle pecione inondimene in un
numero grande di cinqueccnt, e mille, e più Luoghi, lì tratta co fa molto
difficile il vler aggeauar la Memoria di quella doppia fatica. Gkrachc
farebbe vn’empir i Luoghi di perfbnc communi, lcquali non farebbono ni
una gagliarda motionc, come le foprapolle,e però a colui, che ha nume ro
grande di Luoghi, ne li reftano molti nudi. Olirachc in certe
occafioni*fon più atti li nudi, che li pfònati;come in ro ler recitare
vinti, ò trenta Santi, ò eflemptgò Auttomà lóro* et effondo note à noi
lelor figure ; più facile ci farà albergar ne i Luoghi nudi, quelle
figure grandi proportionate,e quali Ttue,che il uolcr addattar la
perlòna,chc fìanel Lu' go,chc prenda figura di quel Santo: perche in
collocar quel Santo, nò lolo letica d: colVcarlo;mà far che la Pcrlona
del Luogo, me lo rapprclcnti,hò due fatiche, la pr.ma di fpogliarmi della fila
qualità, è pervadermi, che lia un’altro, e poi datali quella figura, a
llocarla nella Memoria; fi che con l’cIpcricnza, riefee più facile il primo
muodo . Il limile dico, in uolcr recitare molti nomi di
Pcrfoneconofciute;chepiù facile mi làrà,fubbito nel Luogo nudo collocar
la Pcrfòna cóno!ciuta,che m ler con l'imaginationc, formar’ altra
Ima gine,ò Figura nella Perfona (labile del Luogo. li fimilc dico di
molte Imagini, che lì formano dalla conuenicnza del la lcrittura,ò
pronuntia, come diremo al fuoLuogo;lc quali imagini, più fpeditamenre et
cfijuifitamente fon raprefenta te.ptfrle proprie imagini delle Pcrfonc,
che dalle aliene. • InoItrc,fc uorremo ufarc I Alfabeto perlonalc del
Rauea. na, che ogni lettera hà la fua Perfona,come A Antonio B
Bifliano C Carlo ecc., fàrà un metter Perii ma nella perfo-na,fe il Luogo none
ignudo da altra Perlòna.Oltra cheuofendo noi effigiare la Pcrlona flante,non
Icmpre conucrrà à lei l’effigie dcliderata : che te uorrò l’effigie
d’Androtnc Ja,ò di Lucrerò)» trouado nel Luogo un‘huomo uecchio,' molto
ben da.mé coup Aiuto, come lo fatò Donna, fenza «he gran repugnanza mi fi
dia, e nel Collocai la, e nel ramentarla-ln olircela Perfona,per la Aia
friabilità, è inetta à rollar Tempre col luoco; perche à quella Perlòna,che fi
trou collocata, puole Tuccedere alla giornata cafo di morte, e di
morte orwbde,ilcheal formatore, come amico, apporterà difgufto et borrorp,e
difturbo graude ogni uolta, che Te li tara incontro rimembrando, llqual
difturbo, quanta fu nociuo all’ufo della memoria; la elperienza
l’infegni. Per quefte caggioni dunque c per lelpericnza iftefla
conclu do, che non conuiene,haucr tutti li Luoghi perfonati.E le
d’alcuni lo concedo, non oftaranno leraggioni, che fi po£ fono addurre in
contrario, Non ofta primieramente eh? gli Antichi, non deflero quello
Mctodo:perche l’Arti col tf po fon crefciute, migliorate, augmenrate,c
fatte lèmprepii); perfette, con le nuoue raggioni, inuentioni,
Scelperienze, Nc olla fecondo, che il Metodi della Perfona, aggionge
fa ne;poiche l’efperienza, laquale r uerace maeftra delle cole c*
infegna,che quelle Perfone apportano all Arce merautgliofogiouamento, et
inelphcabiJc ageu dezza, c facilità alla Memoria, e chi noi crede, ne
facci lc(pcricnza,e poi parli. E quello balli delle Perfone. Per
compimento della coguitlone di Luoghi, voglio m quella Lcttionc
raggionaredi alcuni metbodi Angolari degni da saperli, il primo di
Numeri, il fecondo dell» Luoghi per dritto, e per riuerfo, il terzo 'per ogni
verfo dal capo, dal piede, dal mezzo, quinci, e quindi, il quarto Luogo
per la circjlationc color rettoria? («li..; Dclli Luoghi Numerali t
..d -’-O* J • *>- ‘fj ... fi* * i Essempio. r,
-mi)! •un ijl *5 ESSEMPIO
.’*> Parole che s’han da collocare làran XX.
Videlicec. 0 *i L L ( 9, Morte. ’UI CliO' io.
Porta. li. Inferno. i2.Cie'o. iflitfD •: 1 3.
Sole. u sA iy -iì 14. Luna. ; HHli'l
if.Orizonte. ' o ( ina3i iil j O .5
ip.Marc. • oq «fati ao.Tempio. 1
&i>Oili 0. ./od i\ »OT 3 t 5 ;i ;, -
>• b " • ’J • l«- i* /(. li 1. 1 L pftiarri (.1
f|o r j 0 i> ; .V .1k /.'Vc-mb ù Riti -sxapaiibnu
tlkuaiaiip tlciSOlU T -il 3.1 . Modo di Collocarle. 1 11 1 1Tr'mo le finità e Decine, I.
Rota. io.Porta. ao.Tempio. Secondo per le Cinquine, 5.
Luce. ij.Orizonte. fi Terzo per li Tari a. Pena. 4 Pane 6 Vita
8 Verità 12 Cielo 14 Luna 16 Raggio 18 F»gho, >1 t
e P tt 1 tO’j-Ó lì XtJDii starno? 1*1 noa
oiu' xi « • t ' * . .u / ;>q ìm si
sr » * 4 £. Pietra. 7 -V^ 5.
Morte. ^ >,oìtìi. 1 li. Interno. etnico >1 IJ.Solc.,. n,
jp.Marc. G Oltre « .1 Oltre di ciò nel collocarle parole,
bifogna collocarle immediatamente fenza imagincima folamente fiano quelli
numeri come la carta neHa quale Hanno ferine leproprieparo le, fenza
Imagini.E s’aucrra che collocando à memoriali nu n eri con le parole, non
fi fermino ò dabililcono in Luoghi ò nella carta:perche v’apportarebbe
confusone col ricorrere à duebande,& alli Luoghi imaginati, et al luogo
ou’cra fermo il numero, e la parola. Ma folamente prendete il lem
plice nome ò parola col fuo numero, e collocateli in memoria. Et di più nel
recitar bilogna non (blamente recitar le pa role, malinameri congiouti
con le paiole, perche hauendo noi familiari li numeri, dicendo il numero
lubito ci rapprefenra la parola collocata nel numero, e con esplicar il numero
si prende tempo tra pareli, e parola, fiche lì può commodamente e pensare, e
pigliare la paro a fcguente.E per far quello bifogna al principio
proporre tutt’il numerò intiero dclli titoli, ò nomi,ò cofe da recitarle,
e cofi propofte poi condì numeri ordinali recitarti, per eflempio dirò.
SanMat theo che (criue la Genclogia di Chrido con. quarantadue
perlonaggi, il pnmo è Abramo, il fecondo Ilàac, il terzo la cob, il
quarto Giuda, il quinto Pharcs, e così Seguiterai fino al 42. e poi volendo dir
concetti, ò fpiegar vno per vno, ù coimnci dal 42. retrocèdendo linai
primo.E quello badi quanto alli Numeri, per Luoghi numerali, quali
àmerielco no facili per il cotid ano edcrcitio che ci ho latto.Ma
perche noi non lodainolt luoghi imaginati potendo haucr li reali;
però potrete fcruiruid’vn’altro modo numeralc,ilqualcèdi neceslità che fi
facci in queft'arte, cioè che lì habbi uno, ò due Luòghi communi,
chchabbino cento, ò ducente Luoghi, e quelli tutti lianb ordinatamente
fegnati con li numeri.1.2. $ .4. c così procedendo, c quelli Luoghi liano
podi in memo ru con li fuoi numeri, fiche lappiate recitarli al dritto,
et al riucr(o,e làppiatbàll'tmprouilopigliar qual lì uoglia numero contenuto
ndccmo, o nclli ducento . Le note numerali £ di riino nel trattato
dcllìmagini.E quando vorrete recitar molte cole numerate, collocarne le
parole con l'imagini in detti Luoghi, e potretc-lermrui di quelli ad ogni
verlb. mio w Peni Dclli Luoghi per dritto, e riucr fo
. .* n. r.: • ., . (} (r I L recitare al dritto>& al
riuerfo fi può Far in due modi, ò con le parole fole,ò con le parole e
numeri, del primo le io Uoglio recitar lènza numero, li patri della
Gcntlogu dirò, Mactheo racconta (antenati di Chrifto,ehe fon quelli,
Abra mo,I/aac, Giactb, Giuda, Fares,&c. quelli nomi li
collocale rò per-via d’Imagini nelli Luoghi ftabih nudi,ècon
l’ifteffa facilita li diro al dritto che al, riuerfo . Del foco n do le
io voglio non folamentc dir quelli nomi; ma h numeri ordinali dicendo
Abramo il primo,il fecondo Ifaac, il terzo Giacob» il quarto Fares, Sic.
per quello recitare io mi fornirò dclli Luoghi numerali, quali fon
neccllarij in quell’arte, e quelli lou di due forti come diifi nel
palfato capo, li Luoghi di nu meri foli,ò luoghi {labili fognati con li
numeri, l’vm, e l’altri poflono foruir à quello effetto, li ben li fecondi fon
mU ghori. Dclli Luoghi Alternati. '»L recitare non fidamente
à dritto, et al riuerfo, ma ancora f dal capo e dal fine alternata méte,
per effempiod1rel142.no mi della Genclogia di Chrilto cominciando
d’Àbramo fino a Chnllq,ficondo far regreffo cominciando da Chrillo e
ri tornando fino ad Abramo, Terzo prendere Abramo, e Chri do, Ifaac
eh e il focoudo,& il penultimo, e cosìalternatamé te pigliando vno al
dritto, Se vn’altroal riuerlb,uno dal pria cipio, l'altro dal fine: fi
può fare in tre modi, primo con li Luoghi d’vna perfona humana, fecondo
con li Luoghi dabili fucceslìui, terzo co li Luoghi dabtli che danno à
faccia . Quanto al prun> della pcriòna humana fi uede l'effehi
pio apprefio, doue fono numerati 4 Luoghi . Il primo alla punta del piede, tl
ai calcagnoli £. al ptfoione della gam ba,il 4. al «inocchio, e così il
5. alle cofoie, alla Centura il 6 . al fegato il /.all’afoella 1 8. Al gomito
il 9. alla giuntura della mano il x. al dito auncularc l’i i* al duo
anolarc il 1 a. al 4i G x to to mezzano il i $. al dito indice i! 14.
al dito police il r y. allofTo tra la mano, e’1 gomito il 16. nelloflo
tra il gomito, C la fpalliil ^.nclla altezza della fpalla il i8.nella gola
il ijfc Yiell’orccebia il 20. nelli capelli il 21.& altri tanti
aU’aliro lato procedendo di maniera, che li Luoghi liano fegnati
l’vno di 1 impetro all’ altro nelli lati, come lì vede, l’orecchio con 1
al tro orecchio. £ praticati nella voftra ifteifa perlona quelli
Luoghi, volendo collocare li nomi, partiteli per metà,& Vna parte
méttete da vn lato, e l’altra metà dall’altro lato, comm ciaiido à
cóllocar dal capo difendendo al ballo finche ui (a ranno nomi, e poi
prender 1 altri dall altro lato fin al capotac ciò il primo nome li
rincontri e llta di rimperto coll'vltimo, et il fecondo col penultimo, et
in quella guifa potrete reci tarli al dritto, al riucrfb, c d'ambe 1?
parti alternatamente. Notando che quelle parole si pongono lènza Imagine,
et im mediatamente à guifa che fanno le parole fritte fopra la
Carta. E di quella perfona cosi difpofla,vi potrete anco fruire nelle parole
con li numeri ordinali, udendoli recitare per ogni ucrfo,e col proceflò
alternato. •idsnflitn lt ^ ; ^*i:l>i 0 o r,. . .1
.ili* 7*4} 'HO n taf 040! 7
Gratia 13 18 Piena 1 4 1 . Nel quale esscmpio
appare come è cofàfacilisfima far quelli progresli,e regredii, et
alternati; Te ben all auditii te appare gran cofa quel uaj-iare, come
quello che non sà l’Arte: che yòi dicendo al nucrfo, e prendendo in qua,
et in li le parole, tutte nondimeno le recitate per la drittura, è
foccesfioue ord nata di Luoghi. Anzi dico di più, che po« trete. far n iT
medclimo; eoo xij. Luoghi, che /ararono un terzp manco, e faranno
èflfcttojdixviij. Luoghi, c quello fi fi, collocando l’vlti ma parola
njcl primo Luogo, e nel fèllo ui', fia la prima, enelli figucriti vi.
Luoghi collocateci le parole alternate # e recitando cominciate dal fèllo Luogo
i ritornando al primo: poi ripigliate il primo Luogo, c fegu ite
fia' al xij. e così ha ll. r o : il uerctc
dette le 6. parole tre uolte, peti dritto, per riucrfo,&
after^ natamente, eme appare inqueflo et l I i i - il } I
io. DI n •a ' Fi
i r»-i r vi /Si, . - 1.. j> j
sn*M j t r • ^ììgj'^ìc va l :,1 -4
stv>n 1 «» ! I ; £,; I
1 LVOCHI x. lanieri di Luoghi, che in tutto fono XII. »!>
' LVOCM 1 1 4 .li . Tcctlljl
0 lfr! » i Dominus 5 ?
ii|' • Piena 4 Progteflo
OJP jS 4 -,n Grada 3 il
-ri: 5 Maria i i Auc
i 7 Aue ( -a 8
• Tecum os 1 1 0 o
o 9 Maria l o
1 tu ro Donvnus 5 ni -i
a 1 1 Gratta 3 tu
rt II Piena 4 H RegrefTo /?\
Vanto al muodo delti Luoghi {labili,' che danno à fap eia. Dico che
quello fi potrà fare, quando il forma* tore potelfe incontrarle in vna
corfia di Luoghi, ò camere dentro Camere, che habbino quelle Conditioni.
Siano i Luoghi dalle Bande l’vn contra Palerò. I Luochi di quà, c di là,
non funo troppo dittante; e fe folfc* ro diftanti o'jò, ò diesci piedi,
làrebbono ottimi. Da no li Luoghi particolari àiuerfi, 6 che per la
fimihtudìne, non fu.irij la. Memoria. Perq le camere dentro camere,
quando le porte danno nej mezzo, e Tvna di rimpetto all'altra, fon atte,
sì perla dmerlità J come ancp perche fi Ipoflonq formar Luoghi l’f n
contro l'altro, per 1 Angoli, Se. i Interdici). Quar^oifiano dedgnàti li
Lqo^ ghi particolari, t che l’vri dia dirimpetto' all’altro; fiche
dando tu in mezzo, pof tr
riveder li y j Luoghi, fenza troppo giro doc^ chi. Comcapparc nel
te- r guentc edempio . „ [tz «IjVÙ) CI 1 i
j t -r i V>« -Si
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imagini . ob.'*; : l . Q S 1 orr.tiu !. CI v! a ù ut I O t
Ill^> ; étagenus,Sul tri pi iciter 1 intédo, dalle tre dita della ma
Zioalzate.il fccódo muodo, ponedo la prima parola fola, p laquale il
recitate hi legno di tutte le parole fequcti ( p elle po)p raccordarmi
quella femeza. Specie» eft qu* predica tui,3ic. porrò nel Luogo fola mente la
parola Ipec.e», dando in mano d'vna perfora un ncartocc-o, o un tacchetto
di fpetie,ò pure una piperà. Auertcndo per co p mcio di tut to
quefto,ci.equando nelle parole, li vainueft gaiidoffcUi fi troua attionc;
nò loio intendo 1 attuane immediata éte ftgnifì cata per la parola; ma
anco 1 anione, clic (i j otti, e med atamente rurarc dalla parola . Dell’
Attiene immediata fu queflo esempio. Voglio metter quella fcntcnza, Sede
e cft verbum infinitum . La parola federe immediatamente può
cfTer’ideata,pcrvno che licda m vno Scanro: mà fe dirò, Aue giatia piena,
Se benedilla, quell Aneli può ridurre all'attione d’vno che faluu vn'altro;e
coli la parola bened Figurate, j p cr Volontà. Per Ingegno.
Le cofe figurate per Natura, ò sono uomini, ò altre co I i fc fotto
fc fottocelefti . Per Arte lecolc materiali formate dell’Arte. Per
Volontà come gl’Angeli, e ii Demoni j, che in certe oo cafioni piendono
forma Humana; e le Diurne perfone che vna lì vede d Humanità, che fù il
Figlio che fi riè huomo in tempo, lo spirito santo appare in forma di
colomba, e il padre ancora ci vien dipinto in forma Maieftofa d’un vecchio
sedente nel trono reale. Per ingegno come fono le £» magini figurate, e
fìnte di tanti Dei, con li loro Pegni, et im> prelè, Giquc con li
fulmini, Saturno con la falce, MARTE con LA LANCIA, Venere col fuo Cupido,
Amore arcicro, Dia naia Fonte, Mercurio con l’Alce’! Caduceo, Apolline
col Parrò, e cofi de gli altri . Così anco le Imagini, delle virtù
Morali, e Theologali, delle fcicnze, et Art» hberali, delle Muie, della Morte,
della Vita, e filmili. Delle figurale per ingegno, e per volontà, dò
unacoirmune Regola, chcoccorren dori fintili cofc, le potiamo collocare
con le loro Imagini, nel muodo, cheli formatore 1 ha utile, depinte; e
conforme a quel che bà letto, le fonnacon la imaginatione talmente,
quafi che rhaueffe dinanzi à gli occhi Delle colè Artificiali fi dice il medefimo,
eccetto fe fodero eccedenti, che in ta^ calò bifogna ricorrer’ al limile
ritratto ; conte fi dirà poi in altro propofito,che farà delle cofe
Eccedenti, nel lèguen ie. Delle cofe Nariuali > et eccèdenti.
Le cose naturai, o son uomini, o no. Trattamo delle seconde, quali ò
fon proportionate al Luogo ; ò sono improportionate, ed eccedenti. Se nel
primo modo, quelle iftelfe colè fi poffono collocare. Se fuflcro
eccedenti, bisogna ò con la forza della mente invaginarle piccole c
propor nottate; ò attender alla foitanza della colà, lènza far
troppo penficro della grandezza; ò uero ( ilche meglio mi pare, e
più fccuro) collocar nel luogo la imagine di qualche figura artificiale
dipinta, o scolpita di quella cola Pcreflempio, mi bifogna collocar una
Città, un monte una gran torre, una naue, una Chicfa, un palaggio, una
lèlua, una uigna, una quer qticrcia'& altre cote fimi!!
naturali et artificiali. 11 collocar nel luogo cofe tali, è una
improportione grande ; peròbi» fógna ricorrer’ alle tre regole adegnate,
cioè ò {limandole piccole, ò non attendendo fé non alla fi>llanza,ò
feruendofi delli ritratti loro, Il che lèrue ancora, per le cote
cclefticor forali; et per qual fi uoglia alrra coti troppo eccedente,
E te quello non bafta,ò non piace; fi ricorra alle ^regole del le parole
non figurate. Nel collocar le persone ne 1 luoghi ; io miro à tre
colè, al proprio, aH'Imaginc,al limile. Chiamo proprio la
j>erlona propria tale dame mila, e conolciuta facialmente, E
quello farà il primo muodo di collocar Ieperlóne ; quan do ci metterò le
proprie perfone,perloro diede. Per eflem piouorrò dire il papa, il re,
1’mperadore; porrò nel luo go l'i(let(ì, Papa Rè, &. Imperadore da me
uilli ecopolèiutl 11 fecondo muodo è, quando la perfona io non l’ho
uill* facialmente; ma fi bene per ritratto, e pitturalo fcultura, c
quello muodo lèrue, per collocar li Santi, li Profeti, li Patr j archi, e
tutte quelle perfone, le quali ci fon note per piuu «,ò fcultura II terzo
muodo è dal limile, che mancandomi 1 Imagini delle perlonc uilte facialmente, ò
per ritratto 1 di pittura, ò fcultura ; io ricorro al fimilc( per
elfempio) udendo dir Papa Sifta, collocherq.un papa da me uifio,
che per habito papale, mi rapprelenta il prefèntc Papa, i Coft uolendo
metter quelli tre nomi, Pietro, Martino e Francesco; io metterò alii luoghi tre
perfone, che hanno fimile nome, e fon da me conol’ciute. Le quali fc bene non
fono. Ti delle perfone, delle quali fi raggiona; fono nondimeno fintili
di nome. Enel collocar delle perlóne bi fogna sforzar fi, per quanto p ù
fi potrà, collocar delle perfone più note, e conofciute; perche più
efficacemente mucuono.Nemi Icor. do delle perfone, quali dieesfimo douer
eflèr’ in alcuoàLuoghi ; non mobili, mà immobili ; che eflèndoui tali perloue
immobili, bifjgnarcbbe dar à loro il tutto, e trasformar ', ~ "
l«>per D fc, per p«rcp.«rcl fi nomi che noi uoghW * ben l «e
rnre che nel particolare di nomi nefea piu fac.Ie,& cfped»
«b,il metter Ie P propne,d dipinte, à fintili p(one,delchcinl rimetto
all’efpertenza, e quello baRi per hora. Delle Cofe non figurato.
Jsfi abattanza delle parole di anioni, e delle cofe fìgtl -Jratc*
refta trattar della difficd.siima parte delle Im agirla qulle confitte intorno
alle cose non figurate E prefupponco una diftintione.chc le cofe non figurate
lono in due modi.Le prime non figurate dallocchio, le feconde no
figurate da mun fenfo, Le prme fondi oggetti dell. quac. tro fenfi,
vd.to.gutto, odorato e tatto;come.l duro, A gol le, il caldo, .1 freddo,
l'amaro, il dolce, 1 odore, il fuono.Q^c fte colereali, e perccpute dagl,
alm leni», non pcio fon^ fte da gl. occhi, li chenepasfi Idea perla
Memoria at tttic.a le. Come dunque collocaremo no. .1 do ce, tamaro, 1
odore, il fuono, e limili > R.fpondo che b. fogna ricorrere alle
Caufe,airelfet. ice, alla materiale, et all, getticeli,ftesl. fenfi.
Primieramente b.fogna uederc,dachi natte, e procede, “ fa; c così fi
porrà l’efficiente F cr 1 effetto; cosi la can pana, per il fuono, li
cantanti per la uoce. fecondo mirateti oggetto, e la materia in cui f. troua
quella colmici f ggeto ponete, per la cofa Aggettata; e cosi porrete ^^co
per.l caldo, la neue per il freddo, .1 P ;,mo per 1 odore,.l fatto
per ilduro, l’acqua per il molle, il fauo per .1 dolce, I per
l'amaro, e così d. fimili, sforzandofi di Pender .l fogget to in cui
eccesfiuamcntc fi troui quella qual.tà fcnfibile.l er 20 mirate li getti
di fenfi patienti, e così il capo piegato coir Parecchie erfe, moftrail
fuono; le nari ritratte col pomo in, nanzi, moftrano 1 odore, &c. E
fe mi d.ra. come (. formerà Immagine del tuono Celefte, ò del Lampo ?
R.fpondo dh .1 Tuono lo formo, con poner un Arteghana dinanzi a
Gio-, ue, ilquale con la Saetta llda fdocd je così hauerete Lan
po; Fulgore, et fracalTo del Tuono. Quello fi* detto delle co
ft, che non hanno Irnagme daU’occhio; fe bene dall altri tta fu Dell’altré
co Teglie da neflun fenfola Memoria Artific/a le prende le Tue
Imagini,dirò eoa quella .maggior facilità, c Mcthodo> che làrà
posfibile. Quelle Imagini fi formano io In Significa- i.Ina
rei J tione. * » : "4i il Si- i a.In Vo primo quando auuiene
che la uqcc tutta intiera lignifica cola, disfunilem colà, limile in noce
• Per cflempio, incontrandomi in quella parola auuerbiule. Àncora,
metterò nel Luogo l i nagincd'un’Ancora di Nauc; poiché quello nomee quell
auueib.o han limile fcsétttt.* r i fa, Te ben son dissimili ih
SIGNIFICATO, e accento. Cosi ìncoii tran domi in quella parola “porrò”
(cf. Grice, ConTENT) : metterò nel Luogo in ma no d’yna persona vn
“porro” (cf. Grice, CONTent). E fe la parola tutta ioticra'non c Amile ad
un'altra parola, che SIGNIFICA cosa figurata; bisogna ricorrere al secondo
muodo della similitudine in voce, fecondo alcuna parte, e quello com'io
proposi si fa in varij muodi. DcU’Aggiongimento. Per ritrouar
rimagine in parola Amile in parte, conuicne alterarla con aggiungerli
qualche fillaba o lettera. Perciò fèmpio, uolcndo collocar quella parola
Per. ui aggiungo un'A. nel principio, e fi forma la parola Aper, laquale
figni fica colà Figurata, e cosi pongo nel luogo un Porco lèluaggio,e mi
raprefenta il Per. E quello aggiungimcnto fifa in tre muodi, nel
principio, nel mezzo, e nel fine . Liquali tre muodi, fon le tre Figure
allignate da Grammatici, e Poeti, la Protefi, laquale aggiunge nel
principio . L'Epentefi, Che aggiunge nel mezzo. LaParagoge, che
aggiungenel fine. Si che hauendo parola di cofa Infigurata, fi dilcorra
perle lette re, e per le fiUabc, aggiungendo nel principio, poinel
mezzo, poi nel fine: è riufeendo parola che fignifìchi colà
figurata, quella fi collochi nel Luogho . Della prima figura
alTegno quattro elTempi,il primo elfempio del per, 3t Aper, detto
dì /opra. 11 fecondo elfempio del Che, alla quale parola aggiun
gendo un’o,farà la parola oche. Laonde mettendo in mano d’uua perfona due
oche, mi rapprelènterà il che. Il terzo e£ /èmpio di quella parola,
Scire, ui metterò il Sarto col fuo cufure; perche allo (ciré aggiungendo
la fillaba cu, fà cucire. 11 quarto elTempio di quella parola Amo, allaquale
aggiungendo la lettera h, fà la parola hamo di pefeatore . Della feconda
figura, che aggiunge al mezzo, fia il primo ef /èmpio, quella parola,
pena, allaquale aggiungendo la lette ra n, fi fila parola penna di
fcr;uerc,ò altra. Il fecondo c£ fempio ila quella parola, Alium,
allaquale aggiungendo un 1, fi fa la parola Album, fiche dando una penna,
ò Aglio in K mano mano d’una perfòna, mi rapprefenterà
la parola pena,© ali u m. Interzo eflempio di quella parola, forme,
aggiungen do'oci linaio la Intera A, fila parola, foramejficbe la
perfò na inoltrante il forame dun muro, mi rapprcfenter4 quella
pacala forme . Della.terza Figura,cheaggiimgenel fine, fia. per eflempio
quella parola, ò articolo, uolgarejAH», à cui aggiungo la lìHaba um, e farà
album. II fecondo eflèmp : o diquetta parola Vcl, allaquale giungi un’o,e-farà
Velo. Il terzo di quella parola, Vdut,aggiungafi un’o,c
fifaràla parola Veluto . Mà bi fogna hauerla Regola della coltoca*
none delle parole, cosi figurate coll’aggiongimento, et è, •che fi ponga
legno aila.cofa, perequale fi conofca, clic bifogna tome qualche colà dal
principio,© dal mezzo, ò dal fi ne. £ lidie per lane fi farà, con la
nudità: nelle bcftié, con li fccwtitdtura, ò troncatura di membra ; nelle
piante, con la fcorticatura, ò inedionc; ncU’attioni, col mancamento
nclliilrumenti,ò coliègno nelle perfonej nelle cofc tenute dalle
perfone,con uelami,ò fógni nella perfona tenente. E quelli fegnidi
faccino ordinatamente ; fiche per la prima figura, xhc aggiunge al
principio, fi facci il legno al capo, ò princi pio della colà, per la
feconda al mezzo, et per la terza al fine? Per eflempio alfApcr, li
tronco, ò fcorticoilcapo, che mi moflra douerfi torre la prima Intera, e
fillaba; alloche pari mente le ‘faccio moflrare lenza Telta;al cufcire
fnudo il brac ciò al Sarto. Alla penna la'nigrcggio nel mezzo, all’Aglio
lo fò tenere e coprire Con la mano nel mezzo; e così la penna, dirà
pena; c l’allium, alium. Al uclo, farò che uno lo tagli dal piede, e co ì
dal uelo, haurò uel. Marni dirai, ieoccorreficychc il nome hauefle quattro, ò
cinque fillabc: comefa rò à conofccr fc dal mezzo deuo lcuar la terzi, ò
la quarta Ti rifpondo, che quello fi può fare, con dillinguerla perfò na
in lette parti, capo, petto, Ucntre, uelo, colcie, gambe, piedi, et in.quelle parti ordinar le lillabe, la
prima al capo, la fècóda al petto, la j. al neutre, la 4. al uelo, la
j.alle cofcie,la d.Jallc ga ’ be,la 7 .àib picdi;(ìcbe perla prima
fiaséprealcapo,el’ultinia fillaba all* piedi. (è la parola è di tre
fillabe,la fècóda al petto, le c di quattro, la terza al uentre. le è di
cinque la quarta al uel 0,' c coti lcguendo>L douc fi fàl’aggiuntione,
là fi pon ^ il'lègno.E le quello fi FI nd T eBefliV, fi “diifidalà
bdH* •infette parti, in capo, pcttó con piedi d’innanzMj-feen tre,
groppa con piedi di dietro, Coda, Es’olferui! iftéflò òfrdinc,che della
perlona. E quello dico ddle Bcftie di debita et atta grandezza; perche nelle
Hdlie ò inette, ò ptecòlc;i legni li faranno nella perlona. 11 che fi oflèrui
nellipt ante, tir altre cole, che commodamente non pòflono ricelie
're tale dillintione. PerelTempio uogliodiré fante, e prendo •
un’elefante; lo trouo col capo tronro,c collo (corticato* 8c ho légno, che
leggendo lafcio le due prime fillabe, e profèrifeo fante; Se uorrò dire
l’amaro, darò in mano della pcrfona,un caIamiro,c farò comparire la
perlona,;con la tèda e barba ra(à,il che mi fegna,ché fi debbe tor la prima
fil laba. Volendo dir polue, pongo in mano della perlona un
poluerino,e li fnudo il uentre con tutto ilreftòin giu, e cò sì leggendo
; leggo le due prime fillabe, e trouando Tallire parti nude,m’arrcfto . E
(opra I tutto la facilità di qneftì fegni,nafce dall’atcentione della mente
deftgnatricc di eslr; là quale hauendo dcfignaro,coH >cato nella
Memoria, e ftabilftò il tutto con la repetitione,fenza intoppo riefee nella
con templatione,ò narratone, precifamcnte «eirAggiurigimcnto delle
lettere. Del Mancamento . C OrrilponJe il Mancamento al filo òppofto
aggiungimi? tò*fi che camina con l’iltclsc reg le ; perche
nòh’rìufcé da di ritrouar, parola figurata per raggiungi tódntóy
ricorre mo al mancamente), togliendo dal principio, ò dal mezzo, ò
dal fine. Indi le tre figuri dd'm'ahcànìcrtto,chramaté, Afe4‘ relì >
Sìneopa,& Apocope, la'prifrfa* che tòglie dal principiò,!! 1' feconda
dal mezzora terza del fine. Del primo hò da coi-, locar questa parola,
malignojtolgo uia la prima lìllaba,emì' reità hgno, et un legno colloco
in fpalia ad una perlona. CoìÌ di quella parola, doue; li tolgo la prima
lettera, creila oue. Coli di quella parola, dementa, li tolgo eie, e
rella mé ta; e da quella paioli contingi t,leuo uia il con, e rella
tin K a gir, git, petli quali ponendo rimagm!, il legno mi
darà maligno, la menta dementa) un cedo d’oue il doue, un tintore .che
tinge il panno mi dara il contingit.E (èmi domandi, co me li conoscerà
che il legno uuol dire maligno, la menta eIementaPci rifpondo che lo conofccrai
in tre modiche ti fèr ueranno per Regole, la prima per la prefìssone
della tua mente, che così ttabili, del che tu ti ricordi . fecondo
per quel clic manca, tu puoi collocar lettere, ò altre figure ; onde per
dir maligno, ui colloco una pcrlona chiamata Antonio, che mi rapprefental’A,
per la Intera MJi dò nella man delira un tridente, colquale percuote un
legno che flà al la to iìniftro. fé ben quello muodo partienc piu rollo
alla diuilìcne,che al mancamento.terzo per quel che manca, li può dar un
fegno alh luoghi afsegnati già di fopra, nella perfona,ò corpi di beftie; come
al tintore dare in fronte un tumore,© una gonfiagione. per le quali fi conofce,
che bilògna aggiungere. Della feconda figura y quando fi toglie dal
mezzo, per elfempio udendo dire caulà, ui metto una cala, per conolcie
cdcie;& il légno del mancamento fi può formare conforme alle tre regole,
aflegnate di sopra nel mancamento dal principio. Della terza figura che toglie
dal fine, volendo collocar principiti, ui métterò principi, per
fblemo Iole, pcrcanit due cani. E peraflegnar li SEGNI GRICE SIGNIFY da
conoféer il mancamento, el’aggiungimento, che fi de’fare; fi
ofTeruino le tre regole di sopra, uar>ando 1’ordine j perche nella
prima figura, pella terza regola, li SEGNI si danno nel capo, nella seconda
nel mezzo, e nella terza ideili piedi. Il tintore hà'l tumore nella
fronte; chi indirà la cafa l'hà nel petto, h cani nelli piedi, per
liquali légni al tingit dico contingit, a cafa caulà, a cani canit ; alli
principi li darò le podagre Belli piedi, per li quali intendo, che ci
bilògna aggiunger qualche colà . E quello badi dell aggiungimelo, e
mancamento . Et fiano ben notate le Regole aflegnate, per intrichi,
aflegnati d'alcuni in quelli proponti. Del Riuolgimento . S E bene ogni
tralponimento irebbe al proposto; nondimeno della fola Riuolutione, hò fatta
mcntione; Rimati do quella tra gli altri e flcr men difficile. Io tre
muodi fi può trafporre ma parola, ò riuolgendola dal fine al
principio» come Amor, Roma, fecondo cangiando fito delle fillabe,co
me core, reco. Tento variando fito delle lettere, come alto, lato . Siche
per il primo muodo,in luoco di Roma, porrò Amore.pcr il fecondo per reco,
porrò rn core.E cóforme al terzo.per alto, porrò lato. La regola delriuolgimento
è, che la colà fi ponga al riuerlò ; accio fi conofca che al riuerfo
li proferifee la parola, cosi per Roma ponendo Amore, porrò Cupido col
capo in giù, e con li piedi in sù.E quella Re gola del riuoIg!tnento,non
è trpppo familiare, nell'ufo dellArte. La variazione, è quando la parola
lèrbando rifleflo ordì ne delle parole, fe li caogia qualche
lettcrajcomeper que Ila parola, mente, cangiando 1 m. in u. dico uentre,
et per mentre colloco nel luogo un uentre. E quelle parole fi tro
uano,col difeorfo delle lettere dell’Alfabeto, rimouendo le confonanti,
et in uece di quelle ponendo dell’altre, ò nella r ima,ò nella
feconda.ò in altra fillaba, finche riefea paro- . che lignifichi
cofa atta da poter cller collocata. Per cficm pio dirò mentre, poi
rimofso l’m. comincio à decorrere per le lettere confonanti, bentre,
centre> dentre, fentre, genttc, ientre, »entre, uentre, pentre, rentre,
fentre, tentre, uentrc. Ecco che fri tutte quefte paro le, non
ritrouo altre, che centtc * CU£n trc, fiche ò ui pongo un uentre, ò molte Centre,
fe io intendo quello uocabolo di centre, per quelli chiodct ti piccoli
chiamiti, «iure, A centrcBc.o tacce.o uccietw. E re timone, >do la
prima Confonante non, mi fufte nuli., ta parola lignificante, haurci
rimolfo I n. e fatto 1 iftcflo dl tHHVu L’agnominazioné, e
Bifticcio,i!qnale è uno fchcrzo/di parole, per uariationc di Lettcrejè
regola molto al prò polito per formar l'imagini. Li bifticci fono per elk
mpio; ponnoj panno; benché, banca; palla, perla ; lagg'a» menica,
manico; ora, ara; pena, pane; loco, luto, e limili. Siche, per pena, porro
pane, per faggio icgg'a» P cr benché ba che, per parla, perla, per ponnò,
panno, o penna. Pcr liqua li Bifticci li notino tre cofc, primo come li
formino, fecon do 1 vfodi quelli, p la memoria, terzo il fogno, che 'e li
dà per nò cófoivkrf, nel ramétarli Quanto al pruno, vedete, li mici
Methodi di moltiplicar i Cócetti; doucio a degno il n-.uo o db fori ar li
B.fticci.E qùì balli fapere, che tale formaturne,!» fa fcccrédo.ple 5
.vocali;p cficpio m’incótro in qiicfta parp h>póno,difcorro per le
quattro uocah, panno, penna, pinna, puuuo;duedi quelli nomi fon' al
propofito, cioè peqna, p panno; poiché lignificano cole figurate, et atte
pcr cfler fol locate. Quanto al fecondo dico che in i qucft'A myion
fola mente fi riceuono bifticci regolati, ma anco di quelli che fon
goffi; anzi piu goffi, e feonfer ati fono, purché habbinòi la fomiglianza
della uoce) maggiormente muouono .come fece colui éhe per l’Ariosto pone
un pezzo d'Arrofto. Quanto al terzo dico, che nelle cofe collocate, ùi fi può
tot mar fegno;còme fi formang, nclli Age.pnglmènti «i df fa . prà,
ponendo il lègBÒ ; àl'lùógo-doiie e latta lùlictàtione, o nella primari
nella lecouda lillaba. La composizione congiunge le parole, che li
douerebbo t no diuidcre, e questo non folamente fi fà delle parole
intiere;mà delle litiabe. Per elTempio,quefte fon due parole, qui, es,
componendole faralfc la parola, quies, e coli per quelle due parole,
metterò vn che fi ripofa, E Erto rcifta. E fi, U. ; ' r *1
! F Fabro F Fondcchiero G Gouernatore
G Geometra H Hofle H Hisloriografia I Imbiancatore P
Poct*. 3 Q Quo «aio. (£ R JL-’. ;1 R
Ricamatore S Spedale S Sartore T Trombettiere
T Tcslitorc V Vcfcouo V Vaiato X X rrj'.-Arf
J z Zeccatore z Zoccolaro. M A à quelle perfonc,bi
fogna darli vn fcgno:acciò non fi prenda il nome della pcrfona, in vece
del nome deilane, dell'officio, ò della dignità . Quanto al Terzo
Alfabetto fia per elfempio K Aquila A Agnello B Bue.
y B Bufalo C Cane C Cerno D Drago
D Delfino E Elefante. E F Falcone. ' 'r
F Fagiano G Gallo G Gatto H Harpia H
1 Iftrice . I L Leone L Lupo M Montone
M Moietta N Nottola N Nibbio O Oca O
Orlò. PpjCO p Porco P Pallone.
CL, Quaglia. i R Rinocerote, Ródmclla
R Regolo s Simia S Satiro T Tigre T Toro.
ì V Volpe. ‘ i V Vacca X X .i y yj
z, rii • z iof/.-. ibi.uirt s Idbntniii r
z * ' . . J * u E Perche le medefime co fir, fi
potrebbono prendere anco ra per Imagi ni: però bi(ogna chc’l Formatore,dia
uh (e gno à quella colà, che fi determina per lettera, come il Leo
ne con vn monticai collo, fia per Lettera; lenza monile, fia per
Imagine. Quanto al Quarto Alfabeto . Q Vefto Alfabeto, non fi
prende dalle Lettere delle paro ^ le, come li tre precedenti ; mà dalla
forma, e figura della cofa, laquale é limile alla figurac carattere della
lettera; per lochc ridee più facile di tutti li altri, come che alla
prima occhiataci rapprefenta quella figura di lettera, quale fia mo vii
di veder con l’occhio legendo. Delquale Alfabeto no ftro latino, fi
reggono le figure nel Rombcrch, nel Dolce, e nei Rottdho, le ben da altri
anco lono ferirti. Et io nc fa rò qua vna feelta delti più noti . •
t/l Vn Archipendolo di Muratori . Vn comparto grande di legno, con li
ferri in terra, quale vlino i Legnaiuoli . B Vn Liuto col manico
verfo il Cielo, e conlecorde alla finiftra. Vn Acciaiuoleò focile da gittar
fuoco. C Vna Comma di Pottighom. Vn ferro di Cauallo.Vnà •
Luna piccola, quale fi mira di fette giorni. D Vna mezza Luna. Vna
tetta di Toro, con vn còrno in terra, c col mulo alta delira . Vna tetta
di fanciullo, col nafi> alla delira». Vn t$?zzo circolo, con l’arco
alla L a dcftia. i delira. . .
M £ Vn pettine caualliiio di denti larghi dritto.Vna
metta rota, col rotto a man delira. Vna lega dritta, con li tre
legni alia man delira. F Vua falce di mòrte, col ferro in sù . Vna
fcfmitatra f con la. punta in terra, e col pendente del manico à
man delira. G Vnacornamufa, ò ciramella e Piua di pallore
.Vna falce col piede in terra, e col taglio à man delira. H
Due colonne larghe, e con un trauerlo che li lega f e llringenel
mezzo, come li uede l’Imprclàdel Plus 'ultra. J Vna Colonna, Vna
torre, Vn campanile, tali quali li ueggono dipinti. Vna uerga. Vna,
candela. I Vna accetta grande, col ferro in terra, e manico in
sù, Vna Zappa nel medefimo muodo . Vn capo fuoco. ' Vn tre
piedi di caldaia . Vn tridente di Nettuno. Vn paro di forche, cól
fuotrauerfo. Vn paro di mol lette di fuoco. Vn paro diBilancic. 0
Vnallrolabio circolare. Vn cerch o di tauerna . Vna Corona. Vna Girlanda.
Vna medaglia. 2» Vn Palio rale di Vefcoui. Vn uentagho.Vn manico
di forbice di Cimbatore. Vn pozonctto,ò padella col manico in
giù,& alquan to pendente ; ò un ramaiolo nel medefimo muodo.
R Vn paro di Tenaglie. . S Vna Tromba torta. T Vn Martello.
Vn Succhiello,© triuclla grande di Le gnaiuoli. V Vn rafolo mezzo
aperto in sù. Vn compaflo aperto in sù. X Vnacroce.
VnaSeggia. Z Vna Zappa col ferro in sù uolto à man
finiftra,&alqua to ripiegata. Le figure di quello
Alfabeto fi ueggono nel RolTclUo, c con miglior intaglio nel
Sopplitip, nel Romberch, et nel Dolce. Doler. Se bene alcuni
ih cambio di quelle figure,adoprst no l’iflesfi caratteri di Lettere,
invaginandoli grandi, come li capitoni ò maiufcole.E farebbe anco bene
formarli la pri ma uolta di cartone, e tali quali fi uiddero, collocaro,
c re* pctiro la prima uolta le invagini di quelli caratteri ; tali
rollino lempre nella memoria. Quelli quattro Alfabeti fatti familiari dal
formatore, le he fornirà nelle parole non figurate, auertendo prima
che è beneiluariar le lettere et Alfabeti, ordinandole con giudi
ciò, fi che habbino corrifpondenza infieme, e particolarme te ordinandole
con le perfòne . Per efiempio uorrò dire. Anima, prendo dal terzo
Alfabeto l’Agnello, dal fecondo il Notaro,dal quarto una uerga. E per
ordinarle infieme, pó go il Notaro,chc con una fune tirai’ Agnello, nell’altra
mano tien la uerga, c dinanzi à lui ci fia Antonio, che con un tridente
ribatte ilNotaro.Dall'AgnelIo hò l'A. dal Notaro IN. dalla verga IT. d’Antonio,
hòl’A.e dal tridente l’m.E Umilmente fi faccino l’altrc figure da
collocarli, per uia di Lettere. Auertail formatore, che il primo et
fecondo Alfabeto, fc li potrà formare anco di nomi Latini, fecondo
li ucrrà più commodo: purché fimoflri la lettera, per cui flabilifce la
perfona’. Il terzo Alfabeto Io può formare, ò dell’ Animali podi per
effempio da me, ò di altri qyali più aggradiranno ad efTo; purché fiano
noti,&atti fecondo l'ar te. E parimente il quarto Alfabeto, fclo
potrà formare ò delle figure polle da noi, ò di altrcjpurche uiuamentc
Iirap prefentano il defiderato Carattere. E fè occorrerà fcriucre
in greco, in hebreo, ò in altri idiomi,che uariafTero caratteri e figure, il
formatore fi formi le figure conforme all’Idioma. :iij u 'ìojafti uy ovint**-f . D lfsi che fi
formano l’imagini dalli firodi, e dalli diflimi Iij se hauédo detto à
ballaza delli limili, retta che breuemente diciamo delli diliìmih,e primo
dcUVppofiti. Non ftarò à riferirui la molciplicita dell oppofiuonc :
poiché mi pare fuperfluo in quello luogo* non douendo noi adoprare, (e
non alcune cole in certe uolte, quando ci mancatici perfetta notitia
dello ppofiti. Et à mio giudicio,ci posfiano f ruire delli relatiui,come porre
il feruo per il patrone, quando quello mi fufè noe* »e quello m c ignoto
; porre il Dtlcepolo peni Maftro, il Figho per il Padre, quando
quel li mi fuJlero noti,e quelli ignoti. Màbilogna darli legno, per
ilquale s’intenda, che non eslì per fc ftesfij mà per rapprefen Urei
altri, in quel luogo lon collocati . Del Volontario . Q
Velia Regola fu molto commendata dagli antichi Greci; fc ben CICERONE (si veda)
par che la rifiuti. Il modo uolon torio è far una leelta di cento, ò
ducento parole, che più lon frequentate nella profeslione del formatore, c
parole che nò hanno lignificato figurato, come le coniuntiorii, le
disiuntio ni, h fincatego remati, li articoli, aduerbij, e fintili, e
pcrciafeuna di quelle parole a (legnarli vna cofa materiale, et occorrendo poi
la parola, ripor fubito nel luogo quella cola . Per elTempto, quelle
parole. Et. Àn. Vel. In. Quia. Ad. Per A, pongo vn melone; per An, vna
Zucca; per Vel, un Cedro; per In, pongo un Granato; per Quia, vna Noce;
per Ad, vn Cocomero, c così de gli altri. Quello modo vfato nelle
poo. parole infigurate prendo ducento colè materiali, che ftanno fempre
per quel le parole, io diuento pouero dlmagini; perche le perla pa
rola vcl, tengo vn Cedro, e per vn’Et, vn Melone; fo m’occorrcllc fcruirmi del
Melo ne, e del Cedro per altra Imagine, che per le dae parole Et, e Vel;
io fon priuo di quelle colè à poterle collocare. E (è pur le uorrò
collocare, mi confonderò, mentre il Cedro nou (blamente è imagine del
Cedro; mà del Vcl Se ben per torre quella confulìone, potresfimo fegnar
la figura con vn fogno diftinguenre la parola dall’Imaginè; noivdimciio io à
quefto effetto mi forno delle per iòne, perche (bruendomi fempre di
cento, ò ducento perfo ne, (blamente i quefto effetto, io non
m'impoucrifto d’ima ' gim, non mancand-uni d'altre perfonc da ftru’nni in
altri btfogni.N.- miti genera confufione, poiché quelle pfone nò mi
(eruono ad altroché |> tal’effetto.Dunq; li olferuino que Ile Regole,
per riufeirehonoratamente in quefto modo uoló tar o. Pruno, fi cófideri,
in che arte, ò jpfesfione,ò eifercitio,vi uorrcte fornire del modo
uolontario,fo in latino fo inuolga re,fo in Logica, fo in Grammatica,
foin Filofofia,fo in Theo logia, fom predicare die: e da quella
profestione et eflercitio,(ì prendano le parole più ufitate e manco figurate.
Secondo, quelle parole lì formano in un libretto ordinatami te; c
dirimpetto àciafouna parola,!! fcriua la perfona . Terzo, fiano collocate con
frequentato elfcrcnio nella memoria, in tanto che indire ò incontrarli
leggendo, ò in udir imparando quella parola, Tubilo ui fi raprefonn la
perfona. Per cllempio nella Grammatica, prendo quelle
parole,dan dolile Tue Pcrfone dirimpetto. Et Antonio.
n; • ?;i o/licp orto In Vincenzo. N.
i» nifi vilkitnoq Ad Tornado. N. un ti -di
Sur» Ab Piero. N. ì.litorali zìi: ni
:-5 Quia Paolo. N. ir. Jirioa t!
'lijj’.UI Cuna Francelco. N. •rmioil-i ìwi De
Sempronio ' N. .snclvjq ^tab Ex Natalitio. N. -•conrjph
clqrvq Propter Lorenzo. -N. D Ol pioT.
ql?! Per Filippo. N., E così dell’altre parole,
facendo il'fimile in altra prorcslìo-* re et eflercitio. Ne fi Igomcntila
pcrlona al primo incontro, quafi il far quello lìa fatica grande: poiché è cola
mira bilisiimamcnte utile e gioueuole, et una fatiga fola di otto
giorni, in pratticar qucfte parole e pcrfone, dura in eterno^ e con
apportar mcrauigliofii facilità alla ipemoria,iog le la fatiga grande,
che fi ha informar l’imagini^ alle parole infigu rate; poiché in
fentirquclla parola, ò trouàdola, fubbito col loco la perlona, quale mi
rapprelenta uiuamente la parola. Quello modo lerueacoljro,che udendo
lettione, ò predica, ò altro, collocano con merauigliofa preftezza . Et
quelli che fanno profesfione di fcriucre ad uerbum, fotto lauiua
uoce di Lettori, Oratori,ò predicatori; li termino con 1 iflelTo modo tre
cento, ò cinque cento parole, ò più o meno delle più ufitate in
queUcflercitio ; et a quelle dianoli luoi fègni,
ecarattcriuolontarii,liquali fatti tamiliari allo fenttore,làrà men ueloce i'
dicitore à recitare, che lo fermare à fcriuere. E chi uolelfe far quella
profesfione, olTerui l infra Icritte Rcgole.Pri no fi fcriua in un libretto le
parole piu ufitate in quella facoltà, et eflercitio . Secondo, lormi li
legni, ecaratteri dillinti per cialcuna perlona.Tcrzo,licaratte rifiano
breui,edi pochi tratti di penne; accio nonuadi piu tempo a Icriucre il
carattere, che la parola. Alle parrole breui e piccole, si diano li caratteri
più piccoli; alle parole più grandi, si potranno dare li caratteri maggiori,
man co grandi però, che fi potrà. Laonde fc non faranno futficienti li
caratteri d’vn Ibi tratto di penna, bifognando leruirfi di Caratteri formati di
più tratti di penna, quelli lì dia no fio allupatole
maggiori. Li caratteri potranno clfere lettere di Alfabeti, latino, greco,
ebraico; caratteri di nutnèri, tratti Geometrici et altri legni
volontarij ad arbitrio del formatore. Sello, potrà formar caratteri dalle prime
lettere delle parole; auertendo pecche vn carattere nq fia fimile
all’altro. Settimo, lipotran formar caratteri, per abbreuiaturc, Icquali
lon familiari alli Greci,& anco all» La tini, Logici, c Filoli-fi.
Ilriufcirin quello particola re è cofa diffìcile, per la gran fatica che
bifogna à farli fami Ilari li caratteri; nondimeno, perche è vna
profesfione particolare, allaqualc alcuni totalmente lì dedic .no;
pcròlcirer citio grande li farà facile il tutto. E lederemo fi facci con
pi gliar (critturc, Latine, e Volgari, et quelle traferiuendo per
Caratteri elfercitarfi ; intendendo che li caratteri liano non di tutte
le parole, mà delle più frequentate comedislì. Con quello Methodo flimo fulìe
notata tutta la oratione, che hebbe Catone in Senato, contro i Congiurati
di Catilina, e contra il voto di Cesare, come racconta Plutarco . £
Tuo Vcfpafiano, comeriferifce SVETONIO » raccoglieua velocisti*»
mameute le altrui parole. Del ConnefTo. I L terrò modo propollo delli
disltmili» c il ConnefTo»ilqtu ic riduco à fei capi. i, Ugello. 1 i.
L’Etimologia . M j. Il legno. w; - l- ’ q.. L’inlegna, et
imprelà. >•' ( J j.L’inllromento. e quelli teruono per
formar 1 Imagini delle Arti,, et Ariette» di qual li soglia forte;
onde per il Zappatore fi ponga la «appi, perii Notaro la penna, per il
Soldato la Spata, e l’Elmo, per lAr* tore l’aratro con li buoi. Il folito
di dire c vn contingente, che mira qualche perfona, laqualc
frequentemente dice o una parola, o una sentenza [cf. UTTERER’S MEANING,
UTTERANCE-MEANING, SENTENCE-MEANING, WORD-MEANING]; laonde incon randomi poi
in quella parola ò fentenza da collocarvi metto quella perfooa, laquale c
lolita dir quella parola ò fentenza . Indi per- il Quamquam, pongo una
perfona, che lèmpre comincia il fuo parlare, con il Quamquam. Per quella
sententia, Auaritia «Il Idoloru n feruuus; pongo vna perfona, che in
tutti li prò pofitil'hà in bocca, ccofì li intenda dell* altre Umili
parole, o fèntcnze.É quello balli delti Conncsfi,3c inficine di
tutto il Methodo di formar l’Imagini, ilqualc con ellrema fatica, c
molte vigilie, e flato da me inucntato,e prolequito; fe bea quanto al
fatto, in qualche parte fi ritroui dottrina diciò ap predo h Scrittori di
quell’Arte. Retta mò,chepasfiamoaUc Regole deU’Imagini. Regola per
rimaglili. pRopofi di trature delle Regole dcll’itnagini, per compii
JL mento dell’Arte della memoria Artificialejlc quali Rcgo le io le
ridurrò ad alcuni capi, quali confiderà» c ponderati, daranno compiu notitia di
quanto fi defidera fopr» Ciò, in Collocar le persone, fi habbi
auertenza di dar li quelle attioni, che conuengono alla fua
qualitàjpcrchc no Corni iene ad un muritore darli atto di predicare, ne
ad un predicatore darli atto di murare, quando fi poffono haue* re
le perfine appropriate; e parlo dcUi luoghi nudi, lènza perfone
immob.li. li. L’imaginehabbia qualche moto, e (è fufTc cola immo
bile, fi ponghi nel luogo perfona, che la rapprefenti . E per colà
immobile s’inreude colà, che non è animale. Le imagini non filano odo fé;
perche non moucreb bono con uiuezza; pcrò,clTendoui nel luogo un
Cauallo» fate che con la zampa zappi il terreno, ò tiri di calci ; il
lupo, che dcuori pecora; il pallore, che minacci l'Agntllo .Et eflcndo
imagini congiunte con altre cofc; con qucllliftelTe facciano li atti c
gedi. Se la cola è animata, mà c piccola, comeFormica Mofca,
zenzala,pulice; bilogna metterai pcrfona, cheli mo dri. Mà come li farà,
per uederlc? Dico che lì ucdrà primo perla prefissone delia mente.
Secondo perle cofeannefi» le àtali animali; come, fe fbpra un piatto di
mele la pcrlo na (tenderà un paramediche, lì cnnolceranno le Molche;
et come le formiche, nel mucchio di Grano.
Terzo perii appropriati di alcune perfone; come fece il Raucnna, che hauendo
uifto uno die ftropicciaua un puhee, lo chiamaua e colloca ua per pulice.
Così fi potrebbe far degli altri. Mà fe uorrò dire Formica,e non
Formiche; come farò, (e tante e non una fi mette nel luogo? Rifpondo, che la
perlona nuda,moltrail (ingoiare; 1; cpme ucllita, il plurale, come
fi dirà poi al fuo luòco. Se molte Imagini fi collocano in uno delio
luogo, ò pure perla continuationc della parola didima in piuluo chi
c ben fatto per quanto più fi può, darle continuatone di attionefra loro.
Per efiempio, udendo collocar per lettere queda parola, Deus, pongo nel luogo
Dominico, i! quale con un pettine, pettina un uitello, tenuto da
Siluia. Da Dominico hò il D. dal peuine l’E dal vitello I V. da
Silula l.S. L’Imagini liano proportionate al luogo non ecce-denti; e c fodero
eccedenti, già disfi che modo s’hà da tene re. Il che s’hauede
confiderato il Monlco, non harebbe riprefo il Supphcio, il quale nell’Alfabeto
d’artificiati, pofè per 1. una torre, c per X. una naue; poiché le colè
eccedenti, ò per liinaginanone,ò per le figure, fi rendono proporticna:c,come
disfi. Vii. Le perlonc che fi collocano nclli luoghi habbino
del grande, del uiuo, dell efficace quanto più fi può ; perche più
efficacemente muouono. La Figura et imagine,non (la /olita à (tare in
quel luogo dòuè fi colloca; perche eflendoui /olita, non muoué
efficacemente ; attento che giungendo nel luogo, crederai che tal cofa
non fia indagine; mà parte ordinaria di quel lùo go, E per ouiarc à
quello inconueniente, olferua la regola di uariar quella cofa con
l’imaginatione, dandoli qualche ua riatione inlolita; per eflempio
giungendo ad un luogo doue fia una feggia,e uorrò in quello luogo porre per
indagine una feggia, io metterò quella feggia trauerfatain terra, per lo
qual fegno efficacemente conofcerò,che la feggia nò fi troua nel luogo,
come cola ordinaria; ma come Cola for mata per imagine. Nel collocar
all'improuifo, bada metter una ima" gine per luogo; ;icl collocar
pofatamente le cofe che fi ftu diano à bel agio, non è inconueniente,
porre molte imagini in un luogojpurche fiano didime, c commodamcnte
fiucg ghinoc rapprefentino. Vogliono comunemente li profclfori di
qucft’Arte, che le imagini fiano collocate in atti fporchi, laidi, c
ridicelo fi ; perche quanto più fi uederanno goffe e fporche, tanto
maggiormente meucranno . Il che potendofi Tare lènza fcrupolo di
mouimento indegno nel formatore; nuderebbe molto utile all’Arte . Per lo che
non laudo la dishoneftà delle imagini. Dottamente difeorre Cicerone
intorno alla viuezza delle imagini ; perche quelle cofe, che noi per
efperiqhza co nolciamo, che ci muouono à conofccrle attentamente fc
à ucderle anfiamentc, quelle lon’al propofito di moucr cffica
cernente e uiuamcnte la noftra Memoria, in ricordarli. Però le cofe nuoue,lc
cofe merauigliofe,le cofe rare, le cofe di letteuoli,le cofe brutte,
fporche, e ridicolofe, le cod horribih e fpaucntcuolijlc cod di gran uarictà,
le cod eccesfiue in bellezze, eccesfiue in brutezze, come una faccia
tagliata, vn nafo grande, vna gobba monftruolà. Così le cofe eccclfiuc in
degniti, come vn Rè, vn Impcradorc,vn lommo Pon tcfice; e limili; le colè
eccesfiue mpouertà è mendicità, come un pouerello ftracciato ccncioIofo,e
fimili oggetti, (cmattislìim alla viuezza deil’Imagiai. Et à fimili accidenti
deuc hauer » li uadi (èmprè ri . perendo; per elfcmpio
polla la prima figura fi pasfi alla feconda, e poi fi ripigli la prima
recitando, c contcplando, c porta la terza fi ripeta di nuouo c la
feconda, e la primate portala quarta fi repctano l’antecedenti, e porta
la x.fi repe tano le antecedenti per folto, la prima, la fèptitna.
lanona.la Tetta la quarta, per le fpari per le pari, al dritto al
riuerfo,chc cofi tenacemente fi (colpirono le Imagini nella Memoria.
Sehoggi hauete collocato per imaginc una cofa ; auertite dimani, non
collocarla per'Imagine d vii altra cofa diuerfo. Come le hoggi per quefta
parola Agnus, hauete porto vn Agnello, dimani non porrete l’Agnello per
l’inno cenza; perche vi potrebbe apportar confuhonc, mentre ui
rapprefenta due parole; le pur non fufte dimenticati della prima
fignificationc,ò pure forte variata 1 Imaginc con legni, ò bene rtabilità con
li dirtintiui della mente, c con la prefisfione della ripetitione.
Quando fi ha da collocar à memoria vna oratione, ò periodo,parolatamentc;
prima fi legghi due e tre volte pia namente,e diftintamente,come vuole
Cicerone, ilchc appor (a non poca vtilità. Collocando le parole, fi dia
proportione al Genere col fèllo; perche fe uoglio dir ricchezza, eh e di
Genere feminino, meglio è collocarci vna donna ricca, chevnhuomo
ricco. Se vorrete collocar periodi intieri ò parole, et occorrendo di
ritrouar otto, ò dieci, o piu, ò meno parole, quali noi fiprece molto ben
recitare, fcnz’akra collocatiohe; non occorre far fatica d’Imagini interno alle
parole che voi fopetej mi balla collocarne una principale, quale
ricordata u apporta cohfequcntcmente tutte l’altre. Et quello intendo, nelle
coltocationi delle panie, lcquali recitate, noa curamo chccì reftino à
memoriamo ne delle Orationi, Prc diche, Comedie, ecc. Le Figure, e
Imagini habbino proportionata altezza, fiche l’occhio. 'non habbi fatica d
alzarli troppo, pc® vederle; nè all'incontro abballarli ioucrchiamcnte
per contem- fuuer l'occhio il formator di quefl’Artè Nel collocar le
Figure, et Imagini lem piarle. Indi fiate cauti nelTordirfàtione,
che fa il Roi»: berch dellìmagroi l ena fopra l’altra, peiche hauendo
noi luoghi commodi da far progreffo per la.go, non occorre
aggrauarla memoria, laquale memorando procede con lo ftabdimento
del fenfo. Formando rimagini, non fiate prefittoli m rubilo collocarle, quando
agiatamente potete formarle e collocarle* pche occorrendoui poi vna Imagine piu
atta,& elquifita della prima ui irebbe difficile in collocar la feconda,
ha uendo collocatala prima; ò vi farebbe graue tralasciar la fe
concia, elTcndo miglior dcllaprima. Dunque peniate, e ripense prima, fe altra
miglior u occorre, e poi collocate le Imagini formate. Sopra il
tutto fate, chele Itnagmi fiano di cote ja *oi note, è notisfime;e però
ui douete attenere dalle imagini finte, potendo hauer le reali » e dalle ignote
hauendo le note, e dalle men note haueodo le piu mahifcftc. Si come nuoce
la fotniglianza tra li luoghi, nella for mattone di luoghi; cosi la
fomigltanza tra le figure, nelp formationc delle imagini. Però ui
sforzerete di farle, quando più fi potrà diuerfe e di filmili; accio non
u’ingannatc ntf la fomigltanza di elle; perloche hauendo à dire tre
Franccfchi, dtllingueteli perle Cicatrici, ò per gli atti,e gelti, un
gobbo, un monoculo, un fenzanafo,e cò altri limili accidcn ti
Eccesfiui. # . . VT . Siate cauti nelti sinonimi ed equivoci.
Nell’equivoci, accio ponendo il cane, per IL CAN CELESTE. Non diciate
cane, che rode l’olio. E nelli sinonomi, come pietra faflo^ accio una
ftcflfa cosa hauendo piu nomi non li
dichi 1 un nome per l’altro, il che fi può diitingucre, per
l’attentione della mente, nel collocarle e ripeterle, piuiiolte; o pure
co qualche altro diftintiuo, pollo neUa cofa, o di lettera o d’- »le
picolc,e quello per non ingombrar tanto il luogo, e per (farlo più capace
Onde ne fiegue, che minor numero di luoghi farari neceflarn ; c li così
picm. per la diversità, rie* /cono più efficaci. Per cflempio per quella
parola ffauentc, pongo nel luogo un’uomo chiamato Nicola, il quale nella
man delira tiene Un piatto di faue, che lo porge ad un fuo Figliolino che
li Uà alla delira, e nella man finiflra tenga un Martelli, cól quale
minacci e fcacci una fanciulla chiamata Emilia . E così legerete dal
piatto Fauc. Dalla persona. Nicola, N. Dal Martello, T. Da Emilia, E. e da
tutti l'intiera parola faucnte. Laonde larà benfatto, tra gl’alfabeti di
perlòne, hauerdue Alfabeti, vno di Fanciulli, l'altro di Fanciulle, oltre
li due di Huomini, e di Donne. Nel collocare, prendendo le parole ò
concetti dalla carta,e riponendo nelli Luoghi, non fi facci memoria nel
la carta e parti fue; Mà (blamente nelli luoghi; perche làrebbe doppia fatica
in ricordarti è delti luoghi, e della carta. Oltra che apporta gran
confusione, perche la mente uedea do, e. nella carta, e nclli luoghi
uacilla, e fi confonde ; mentre a due parti fuggelo (guardo,e quella Regola li
noti molto bene. Nel collocarc,e ripetere l’Imagini, fi auertifca,
di non far’altri geflr, chc quelli che fi ricercano opportunaméte
fecondo l'Arte della pronuntia nel Recitatore. E-fi guardi il Formatore
dinonappKarfi, ò collocado, ò ripetendo ; à qualche geflo intcnlàmcntc
fuor dell’Arte, come il contar con ledita^ener il capo faldo et erto, mirar in
sù,piegar fi in giù; ma indifferentemente redi libero d’ogni intenfa
applìcatione di fi nifi atti; perche alrrirrt^nte facendo, il recitatore
recitando farà poi l’iftcsfi gclli inconvenienti, c periglio li j
inconucnicntij per che concro l’arte; periglioli, perche le in qualche
accidente muta gesto li fuiarcbbe la memoria, e fuariarebbe la mente. Per
mancamento di quella regola, hò uillo alcuni recitanti, Ila re come che hau
elferoin giyctita una fpada, inflasfibili Hi erti; c con gli occhi fitti
al ìjjuro, che Ila lor dirimpfctto, quali che fuiferò fiatar.la
/quii Uò.fanon (blamente difdicc aitili; ma fciiopre l’arte, il che
èflifettuo(b, làpCndo elfer principal dell'Arte, il làp'ec celar l'Arte,
intanto che quel che l 'Intorno fi per Arte,coiU ’ libqrfa dd’li gclli,
e' domiiniò de gli atti, moliti che lo facci per f.TI
I W M M per felicità di natura. £ quello piace affai,
e giuramento de piacere, e dilettare ; poiché nell’Arte fi fcuopre
l’ingegno notro, e nelli doni della natura la bontà influente del 1
Auttor della natura. E conuieneohe piu. ci aggradi l'opra di Dio, chela
notraje che la prima laude, honorc, e gloria fia di Dio, non della creatura,
laquals fc per Arte, ò per ingegno fa, ò sà, ò può cofa, il tutto
ultimamente de riferire à fua Diurna Maeftà. R icerca queft’Arte
della Memoria per fila compita perfettione,chc hauendoui trattato delle
fueprencipi par ti, Luogo, et Imaginc; tratti alcune cole particolari,
vtili, e neceflarie da làperlì. E tralalciando l'altreal giudicio,
ingc gno,e fatica del Formatore; tratterò preedàmente, delmodo di
collocar li Libri, li Numeri, li Generi, li Tempi, li Cali, li Punti, li
Argomentale Quotationi. Dirò poi delle Dittature, della Libraria,e dell
vfo della Memoria, e fògillaro alla fine il tutto, con l’Arte dcll'Oblmione
Della Collocatione di Libri. Occorrendo collocar Libri di qual li voglia
profesfione, è di necesfijp haucr l’Imagini formate di cialcun di loro.
Laonde cftrtcuno fi potrà formar l'Imagini dclli Tuoi Libri, intorno a quali
vcrlà;comelo Scrtttorale formi immagini dclli Libri della Sacra Bibia, Il
Thcologo delti Scolatici, IL FILOSOFO DELLA FILOSOFIA, il Medico della
Medicina, Il Canonifta di Canoni, Il Giunta delle Leggi, il Logico della
Logica, ecoii faccino tutti gli altri. E nel formar l’Imagini olferui quete
Regole . Primo fi fcriua in vn foglio tutti li Libri, intorno a quali
uerla il Formatore . Secondo formi, l’Imagine da vn fatto principale di quel
Libro, ò dal titolo, ò dall’agente, ò dalla prima parola del Libro, ò di
qual’ altro capo fi yoglia;purche Ila reprefentatiuo del nome del
N Libro* Libro.Terzo queft’Imagìnc ò la ponga (opra vn
Libro, ò la ponga nel luogo col Libro» ò vi metta la perfona che
rap prefènci il nome del Libro . Quarto nel collocar li Libri » può
il formatore. Icruirli dcirAuttore di quel Libro, come fe in citar Paolo,
vi metterò S. Paolo col Libro in mano, e per faper qual libro Ha, vi
metterò la fua Imagine,come le fard illibrodi Corinti, ui metterò vnCore
. Coli le uorrò collocar l’auttorità dell'Euangelio, vi porrò
l’Euangcltrta, col libro, e fua figura, Giouanni con l’Aquila, Mattheo
con FHuomo alato, Marco col Leone, Luca col Vitello . E le
vu’Auttorc hi comporto più labri, vi pongo i fegni per di ftingncrli, per
dTempio, Giouanni hàfcritto l’Euangclo, l’Epiftola» l'ApocahlIc; per l'Euangclo
lo pongo ledente, predicante, per l’Epiftola lo pongo Icriuente,
pcrl'ApocalilTe lo pongo con gli occhi merauigliofi alzati al Cielo, come in
atto d; ueder colèi aulita te e noue. San Luca che ha. fcritto rEuangcto,
egli atti Apoftolici ; per l’Euangelo lo pongo con Chrilio, per gli Atti
lo pongo con gli Aportoli. Mole che hà comporto, e le ritto il
Pentateuco, Geneti, Efo* do, Leuitìco, Numeri, Deutoronomio ;nel primo lo
pongo con Adamo, Se Eua, nel fecondo con Faraone, nel terza col
Sacerdote, nel quarto con gl’Elìcrciti, nel quinto con le Tauole della
Legge. E pattando à gli altri Libri, li Libri di Reggi li formarctecon li
Reggi, il primo con Saul, et Da uid Fanciullo, iUècondo con altri; ò pure
balia hauer libro c Rè, e poi li numeri porli per caratteri nu.i erali,
come fi dirà poi. Coli il L bro di Giofuc con Gi^lue, di Giud ci
con Sanlbnc, di Ruth con Ruthapprcflb i mietatori, Efter col Rè Alfuero,
Giudit con Oloferne, li Profeti con loro medelimi, Efiua con la Slega,
Geremia ch’è porto nel Lago, Daniele fra Leoni, Ezechiele fra Rote,8c
animali alati, Giona nella bocca della Balena, e h libri di Machabei con Giuda
Machabco, di Solomone con elfo in fedia Regale giudi cante,& il.
limile degli almLibri fi facci in qual li uogUafcic za e profesiìone
. Per numeri, altri adoprano caratteri formati da varij inftromenti.
Altri adoprano perfone, dando loro li nume ri. Altri. adoprano cofe
Materiali,allequali volontariamente attribuirono li numeri, come che il Melone
lia vno,il Ce druolo due, la Zucca tre, il Cedro quattro. Quello modo
l’hà.per mirabile il Monleo,il fecondo lo fieguc il Rauennaj il primo mi
pare piu atto di tutti. Oppone il Monleo al primo modo dicendo, che li
caratteri non fi muouono. Alche Rilpondo,chc tali caratteri fi pongono in
pcrlona morente, come fi dirà poi: per loche Reità che fiano attisfimi
tali ca ratteri. Il modo delle perfone c bello; ma è alquanto
diffici Ic,& intrigato. Il terzo mi pare che apporta poucrtà c
con-fufione al formatore; poiché fc li tolgono le cole materiali delle
quali potrebbe liberamente fcruirli, per imagini. Ne è il fimilcdelli
caratteri noflfri ; poiché noi ci feruimo loiamente di noue cole, dou’egli nc
prende cento. Il modo e fecondo, c terzo lòn belli, e chi li vuol leguire
ved i li lopradetti Auttori; à me balla darui le Regole, per lèruiruidcl
primo modo. Si prendono dunque noue colè materiali, c quelle lèruino per
l’vnità, e per gli otto'primi numeri, per cllcmpio I. Vn Spiedo, ò vn
Pugnale a. Vn paro di Forbici. 3. VnTriangolo. ' •
4. Vn Quadrangolo, j. Vn Serpe ritorto. 6, Vna Lumaca,
ò chiocciola grande marina col capo fuor del gufeio. Vna Squadra di
Muratori. Vna Zucca a fialco, che ha due ventri lWn lopra l’altro. 9.
Vn’Alciadi Legnaiuolo. Quelle Figure noue, ò altre noue che parranno al
formatore, lèruono per tutti numeri occorrenti’, olTeruando
l’infrafcrittc Regole. Primo per fuggirla confu (ione di que N a fte
ite Soue co fé, perche potrebbonò eflcr prefe tal uolta per Imagine;
Ciano diftintc ; per elTempio Io Spiedo che fta per cola fu con carne,
quando (là per numero dia con vcello; il pugnale quando c cola lia nudo,
quando numero lia fodra to; li forbici percola fiano con panno, per
numero lènza; il triangolo per colà lia di legno, per numero lia di ferro
; cofi il quatrangolo ; il lerpe per numero lia nero, per colà fia
pinto; la chiocciola per colà habbi il capo ritirato, per numero lo
Sporga in fuora;la Squadrali vari jjcon legno e fer re; la Zucca fi vari;
in figura, ^perche non mandano delle Zucche, e tonde, e larghe da poter
feruire per colà;l'A(cia fi vari} con manico ligneo, e ferreo, e cofi fi
friggerà la confusione. Secondo perche li numeri altri (on d’vnità, altri
di decine, altri di ccntenaia, altri di migliaia; l'ifteftè figure
icr uiranno per tutti li numeri, con quell’ordine, che quando la figura,
è nella man finiftra, dice vnità; quando nella Spalla finiftra, dice
decine; quando nella fpalla delira, dice ccntenaia; quando nella man delira f
dice migliaia- Per elf^mpio vorrò dire “1345,” “1.345” pongo alla delira
mano della pcrlonalo Spiedo, che infilzi il triangolo che Uà alla Ipalla
delira, e paf Ando per fiotto il mento infilza il quadrato, che Uà alla
Ipal la finiltra, e co la punta trapallà il Serpe che Ila alla man
finiflra. Terzo quelle figure filano polle con la perlòna, laquale S
uanto più farà posfib ile, habbi e facci qualche attione,còle ette
figure, come ho mollrato có lo Spiedo, triàgolo quadra to, e lèrpe.
Quarto le li numeri limili fi moltiplicano, Ciano anco moltiplicate le
figui e limili, come fie uorrò dire “1551” porrò due pugnali; uno alla
man delira, e l'altro alla. man finiftra, e due Sèrpi uno alla fpalla
delira, e l'altro alla Spalla finiftra della perlòna, la quale con
pugnali impugnati, e co braccia curue ferole Sèrpi. Bisognando
moltiplicar le migliaia per decine, e centenaia; bisogna per le decine
por le figure alla Centura delira, per li centinaia allo Ginocchio
deliro. Onde udendo dire “182659”, “182.679”: “cento ottanta due mila sei cento
cinquanta nove”; porrò nella cintura delira d’un Eremita la fialchetta,
et al Ginocchio un Fanciullino, che con uq pugnale ò Spiedo, fora la
fialca ; e nella man delira della perfiona un paro di forbici colliquali
tronca le corna alla alla lumaca, quale ftl alla /paHa
delira'; é con l'A/cia dell» man Anidra percote il Serpe, che ila alla
/palla fmiftra . £ Infognando moltiplicar per migliaia, fi ponghino le
figu. te alla piedi; onde «olendo dire,518265 aggiungo fra li piedi
dell’Eremita, che portailfiafco, unferpe,chcuà amor der’il fanciullo il
quale fora con lo Ipiedo il fufco . E bisognando aggiungere altri numeri (i
ponghino ordinatamente nel poggio, c fcabello della per/ona del luogo ; ò uero
fi ponghino nel luogo antecedente, nell’altra pcrlòna. Eque ilo
badi quanto ahi Numeri aritmetica!!, che quanto alti numeri grammaticali
/ingoiare e plurale^ dira nel capo dell» Cafi. J J f
d ili | .r ' M Dclli Generi
k s poiché li generi fi nominano con li nomi di/esfi, perii genere ma
Tedino farete che la perfòna fia mafchiaje per il genere feminino fia
donna. E per didinguer IL MASCOLINO e feminino dal neutro, quando occorreflc,
per quelli generi MASCOLINO e feminino, Alcuni fanno che le persone
habbino fuelati li uafi GENITALI; e perii neutro l'habbino uelatij/c ben
io li didinguerei col variar vela e, dando per l'unoe l’altro fedo le
mutande ò codiali, e perii neutro il velo aggroppato. Delli Tempi, habbiamo da
fàpere il modo di collocare l'Annijli Mefi, liGiorni, rHore, il prelente,
spallato, il futuro. Per l’anni si collochi un fcrpente, che fi morda la
co da, al modo che faceano gli Egitti; significando che l'Anno fi
rincuruae ripiega in le defiò, mentre fi congiunge il fine, al
principio. Li Meli fi podono figurare in tre modi . Primo per li fogni ò
caratteri delti dodici legni del Zodiaco, ponendole figure idede, un
Montone per Marzo, Toro per aprile, gemi su tu per Maggio, ò li
Caratteri ufati la man delira il Geniti no, la fimltra il
Dattilo,]! petto l’Acculàtiuo, il piede e gara ba delira il Vocatiuo,il
fimftro l’Ablatiuo.Si che, fc la parola è in calo nominatiuo, fi ponga in
telta; le ablatiuo fi ponghi al piede fimftro.E per faper anco li numeri
s’oflerui,chc la parte nuda rnoftra il numero (ingoiare; la parte ucllita
mollra II numero plurate. Per esempio uorrò dire, Ego fum panis. Porrò un cello
di pane in capo alla per fona, e che il capo lìa (nudato ; il capo mi
mollra il noinimtiuo, c la nudità mollra il numero (ingoiare. E le l'ima
gineè perlòna,li puòconolcereil cafo,ò per la parte, ò per il Pegno, per
la parte > Te Francclco hauendo tutto il redo uellito, (blamente mi
mollra la manfiniftra nuda, intendo il dativo. per il legno, fètutta la perfona
è nuda, che midi il (ingoiarmi rnoftra la man finiftra ferita, al qual
legno intendo il caso dativo. Conuiene che le parole habbino i Ior
PUNTI, per non ap portar contusone al legente [JOYCE], come li punti
finali, pcr fine del periodo, li mezzi ponti per prender fiato; così
conviencchc anco in quella collocatione della scrittura della Memoria ui
fiano le diftanze debite, non (blamente tra leu tenza e Temenza, n.à anco
tra parola c parola: accio le lettere duna,non paslìno alla compofitione
dell’altra parola E quello oltra che fila, da una certa diftanzache fi de
da realleimagini, nfulta ancora dalla repetitione del Formatore, il quale
collocando prefigge con la mente, douefi comincia, e doue fi fini Ice. E
fecondo, quello lì può Tare con alcuni geftì, per ellempio, nel PUNTO
FINALE [il clistico di R. M. Hare – H. P. Grice], fare che la perlo na
ultima del periodo dia di fianco, con la faccia rivolta al rocchio del legente.
Enel mezzo punto fare, che feafid con le spalle al luogo, riuolti
fidamente la faccia alla delira, yerfol’occbio dellegentp. Nella
diftintione delle parole fi può fare, che la perlona donde cominciala parola,
facci qualche gcflo, contro la perfona dell’ antecedente parola, e quella
perfona fi ririti in un certo modo, dandoli quella ò con un pugno, ò con
vn calcio, ò con altro fecondo che occorrerà, per l'opportunità
dell’magine, e dell’annesti* -!iJ L’argomenti, che si fanno
universalmcnte, si riducono alli sillogismi, e alle consequenze d’entimeme,
delli quali balla qui dire della formatione dell’imagini, e del modo
di collocarli. Quanto alla formatione si tenghi il methodo universale, o
formando immagini per li concetti, ò per le parole, e fi sforzi il formatore
formar 1 In aginc del mezzo termine. Quanto al modo di collocar l’argomenti, o
son syllogismi, o entimeme. Li Sillogismi, che hanno tre propositioni, la
maggiore si colloca alta man delira, la minore alla man siniftra, la
conclulìone al capo. Se bisogna provar la maggiore, le prove fiano collocate al
lato deliro ordinatamele. Seia minore, fiano collocate le prove nel lato
fini(lro,e feoc corre fare un prosìllogismo dalla conclufionc, che enei
ca-, pórli tiri la minore nel petto, la conclufione nel ventre. Se
l’argomento ha in confequcza; l’antecedentc llia nella ma de fera, il
cófequcte nella finiftra. E se bisogna provar consequenza, si collochino le
prove alla faccia, petto, e ventre. E felatcce détcs’ ha da ^puare, si
collochino le prove al lato suo deliro, e quelche bilògnafle per ile
conseguente, si collochi nel lato fini(lro, haucndo memoria delti luoghi, ch'io
formai ordinatimente nell! lati della pedona fiumana, e quello Modo balla
per fiatelligenti, à quale fofficicnte in tal propofito collocar
Immediatamente, mà ehi uoleflfe collocar ogni colà mediatamente per
imaginipotrà (cruiriì dclli luoghi {labili ordinatamente. Per
citationi intendo quel riferire che si fà delli Libri, delli Numeri de Libri,
ò di capitoli, ò di titoli, e di limili. Lequali si uariano, secondo la
uarietà delle profeslìoni; onde il Theologo cota dift. par. ar. memb. Il
Filosofo tex. com. Il Lcgillaìeg. glof. tit. $. confil. Il Canonista
quell, can.&c. c tutte le Cotationi, io le riduco a tre capi, Libro,
Nome di Libro, et Aggiunto, dclli quali dirò didimamente. Della
Cotationc di Libri, c Nomi di libri, mi riferifeo à quel ch'io disfi,
nella Lctt. 1 5. della collocatone di Libri; aggiungendo, che li Nomi di
libri, ò titoli di libri, si pollono ideare con l’iflcsfi libri; quali noi
vlàmo gornalmcnte,c di quali damo polfcfibri. Laonde fc uorrò citare Ai
ili. nella Metafilica, io pongo nel luogo, in mano d'Arifiotcle il mio
libro della Mctafifica . E le vorrò citare il Macllro delle fentenze, vi
pongo l'iflcflo mio libro delle fentenze del Mae ftro. E cosi fi può far
de gli altri libri, in qual fi voglia prò fesfionc. E di più, fe li nomi
di libri d’vna profesfionc tufi, {èro pochi, come tre ò quattro, fi
potrebbono diftingucre con li colori, vn nero, vn bianco, vn rollò, vn
giallo, &c. co me San Giouanni che ha fcrittotre libri, Evangelo,
Apocalisse, et Epillola, diftinguerò quelli tre libri con tre colori
rofTo,ncro,uerde, per l'Euangelo colloco il libro rollo, in mano di San
Giouanni, per l’ApocalilTe il nero, per FIEpiflolu il verde. Con fimil muodo
facci il Filosofo, il Legilla, c qual fi uoglia profefiorc. Dclli
Aggiunti della Cotationo. S ’Aggiunge al Libro, c Nome del libro, il
capitolo, il nu* meiOjò limili. Quello aggiunto alle volte precede il
nome del libro, alle volte fosfieguè ; precede quando l’Autto rehà
comporti molti libri in vn medefimo (oggetto, come fe diccfte, Agoft.
lib. 1 2. de ciuitate Dei, all'Auttore dò il Libro, fieguc il numero,
quale precede il nome dell’opera e libro. Alle volte lòsliegue,& è di
due (òrti, immediato, mediato. L'aggiunto immediato c la particolar cotatione
di ca pitoli, di dift. di terti,e limili, come s’io dicelle, Aug. de
Ciuitate Dei quella parola cap. è aggiunto im mediato, fi come il numero
4. c l’aggiunto mediato. Eque rto aggiunto mediato, alle uolte fi fa per
numero; come nel J'addutto elfempio . Alle uolte fi fà per parola, come
vfa il Legifta,c Canonifta, che adduce la prima parola della legge,
Pan. in c.tua nos. e con l'ifteftb progrefi'o, ò di numeri, ò di parole,
fi fanno molce Cotationi mediate, fecondo ladiuer fità delle profesfioni
. Per le cotationi di numeri s’auer a, primo, difarle ordinate, il numero
del libro fi ponga alia parte del libro, et il numero del capitolo
ail’altra parte ; accio il formatore non fi confonda, per elfempio dicendo
Au- { ;uft. Iibr.a.de Ciuitate Dei cap.7. nella man delira li dò il
ibro, e con fiftelTamano li fò moftrare due dita fpiegate, che mi
moftrano li due, e nell’altra mano li dò lo sguadro » colquale tocca U
capo; e coli hò dal capo il capitolo, e dallo sguadro il 7. Si noti fecondo,
che quelli numeri fi poP fono formare, con l’irtelfe dita della perlina ;
e quando il numero trapalfa il cinque, fi pongano l’imagini di nume
ri alle parti del corpo della pcrlona, conforme alle Regoli date di
numeri. La Cotatione della parola, del capitolo, del titolo, ò della
legge, tkc. fi formi con le Regole deljlmagini delle parole figurate, ò non
figurate. Laonde per la parola de vfu ns, quel formatore poneua vn
Hebreovfuraro. De gli aggiunti di capitoli,.di tedi, com. gioii leg. $.
e limili, fi pollino formare in tre modi; primo, per Imagini, conforme al
Methodo allignato della formatione dell’Imagini. Secondo, dipingendo, ò
(colpendo nel libro, in lettere maiufcole quelle Cotationi; o ponendoli
caratteri del quarto Alfabeto nella perlina . Terzo, per via Notariaca
dal nome, che principia con la prima lettera della della Cotationè,
fcruendol! ùell’irteffa perfoha j Laonde! >er cap. coiti, can. conf. tocchi
il cappello, o’I capo, o’I col o, ol cigl o ; per tit. tex. tocchi la
tempia j Per dirti Dub, tocchi li denti; per legg. Iett. tocchi la
lingua, ò le labbia ; per Glof. la guancia; per num. tocchi il nafo. In
fimil modo fi formino laltre, con li nomi ò volgari, ò Latini della
perfona humana . Mi lì guardi ilfoamatore di non feruirli d’vn’iftelfa parte
humana, per due Cotationi, quando nell'ufo l’occorra l’una, c l'altra
Cotatione;perche l’apportarebbe confu (ione, fe pure non la dirtingueilecon
qualche legno, come fe il labbro corallino dica Legge, il lmido c nero dica
Lettione ; il capo biondo dica cap. il nero com. il bianco confi e coli
de gli altri. Delle Dittature. Per dittature intendo lo
rtupcndo dittare d'alcuni profeffori di queft’Arte, hquali in vn medefìmo tempo
han dittato à cinque, ò dieci e più acrittori, con dire dieci parole di
dieci (oggetti ordinatamente, e poi fèguitare le tralafciate di mano in mano,
fenza errar un iota dal propofito foggetto di ciafcuno. Il far quello perdono
sopra naturale (GRICE: NATURA) c sopra nostro humano, non cade sotto le
regole dell'arte (GRICE: ARTE). Mà il farlo per arte, in quanto poslìamo
noiafeendere, mi pare (i facci in qucfto modo cioè . Che il dittatore formati h
(oggetti diuerfi, ò di Lettioni,òdi Prediche, ò di lettere milione, ò di qual
(ì voglia altro (oggetto, e difpofte le parole in tanti fogli, quanti fon li
soggetti ; prenda ordinatamente le parole alternatiuamcnte da ciafcun
fogl o, He le alberghi nelli luoghi. Per essempio, la prima parola del
primo foglio nel primo luogo, la prima del secondo foglio nel secondo luogo, la
prima del terzo foglio nel terzo luogo, e coli di mano in mano
finche faran collocate tutte le prime parole delli dieci fogli. Poi si
ricominci, e la seconda parola del primo foglio, sìa collocata nell’undecimo
luogo, la seconda del secondo foglio nel duodecimo luogo, e eoli sequendo.
E finite le seconde, siano con l'illesso ordine collocate le terze, poi le
quarte, poi le quinte, finche fitran finite tutte le parole. E udendo
dittare facci distributione delli soggetti alli scrittori, secondo l’ordine
delli fogli scritti, già collocati. E facendo scriuere una parola per uno
ordinatamente, alla fine ciascuno scrittore ritroverà il suo soggetto compito.
E quell’ordine che si tiene delle parole, si può tare ancora delli
concetti, o delle sentenze – GRICE UTTERER’S MEANING, SENTENCE-MEANING,
WORD-MEANING; se bene il primo delle parole pare più stupendo. E chi volesse
dittare per ogni verso, primo dal primo all’ultimo, poi dall’ultimo al
principio, potrà con simil modo collocar le parole, che giungendo all’ultimo
non si ricominci dal primo, ma dall’uItimo. E chi di quello modo si servisse
per raggionare, sarebbe un modo di raggionare allo spropofito; se ben’ordinate
poi le parole, ciascuna al suo soggetto, ri ufeirebbono al proposito li
raggionamenti, come j appare in quello essempio di quattro dittata- E-tv,
Per quello verso si collocano, e dittano. Ci i-i i
Aue Benedid Ti Nunc Magnificat 'o pp
0 o ' Gratia Deus I Scruum Mea c rp
-i Piena 4 Ifrael s Tuum DominCi u> n
ciT c • o
•no Dominus Quia Donnine Et £0 •*t 0
o 2 I Tecum Vifitauit Secudum Exultauit, Li numeri
mostrano li luoghi successivi. V'. i .Quello (la detto del dittare 1 molti per
Arte; lafctamfo di qqcl che si possa per felicità d ingegno, come credo
facesse Giulio Cesare, Uguale ditta à quat o, et egli per qutn. to scrive
altro suggeto, come credo, anco lacelle Origene Adamantio (non però lenza superior
dpno) il quale di continouo ditta à lètte scrittori; pello che non e incredibi
Icy ch'egli compone dei milia volumi, qluli tellifica hauct Midi San
Geronimo. Della Libreria della memoria. E tanta la forza di quello ricco tesoro
della memoria, che divenca anco biblioteca o Libreria, e con
maggior felicità e facilità delle librerie, nelle quali si gloriano
communemente gl’uornini studiosi. Non attendendo che 1 ha ucr libreria,
non è perfezione per leità; ma imperfetta, che sopplilce all’imperfetto degl’uomini.AIli
quali mancando la memoria feconda piena ed adorna, colla tenacità
e permaenza perpetua dei simolacri, (bn conllretti tener copia
dij'bri dalli quali posfmo riccucr i primi CONCETTI delle cose, e nuocar li
dimenticati. Per lo che Iddio, ch’è perfettissimo, non ha quella che da
noi è chiamata pcrlettiotiej poichc neH’illeira essenza sua, come in terlislimo
specchio vede e contempla ogni cosa. Gl’angeli ancora non han bisogno di
libreria; poiché pella cognizione vespertina, che è delle creature nelli lor
proprij generi, hanno la memoria perfetta, fin dalla lor creazione, quando
è'or data ogni pienezza di simolacri, così tenacemente impressi,
che tempo non può scancellarli. Simile dono è fatto a primi nostri
primi pro-genitori; la onde non averebbono avuto bisogno di libreria, poiché
nella lor memoria per dono gratuito albergano tutti li simolacri. E perche
il peccato, quali ladro ei spogha, e tra gl’altri beni ci lolle ancora
què Ho dono, ed introdulTc per peggio nostro l’ignoranza. erim hebecillita;
pell’ignoranza ciascuno nasce colla memoria no. da, come ingelfata parete;
e pella imbecillità alle fatiche dell’acquillati simolacri bene fpeito
foccede oblivione. In- 1 di per fouenir’ He all’ignoranza ed all’oblivione; l’arte
hi. introdotto l’aiuto delli libri. Li quali ancora soppliscono a
due imperfetzoni, distanza, e morte; perche non essendo presente la voce
dell’auttore o maestro, sopplisce la scrittura del suo libro; ed essendo egli
morto, vive nella scrittura del libro, pello che li Rudenti mentre studiano,
come si dice per proverbio, parlano con li morti. Se bene dunque li libri sono
utili, e neceirarii al nostro stato imperfetto; non dimeno studiati che si
sono una volta, meglio è aver la memoria per libreria, che 14 libreria di carte
e scritture; poi che la libreria è fatta, per sopplimento della memoria.
C se così è, meglio è aver la memoria, che è il principale che la libreria
che è il sopplimento; si come meglio è aver la gamba e piede di carne e d’ossa,
che di legno. In oh ire quella libreria apporta fatica, spesa, peso,
travaglio; que (sa non è d'altra fatica, che di ufiria. Di più la libreria
è in uno o alcuni luoghi 1, non in tutti senza grandissima incorri modi
ci; quella l’avete dove vi trovate, e senza pagar altro nolo che della vostra
persona la portate vo seo dove vo lete. Quella conviene (blamente à
ricchi, ed à chi abbonda in denari; quella è commune anco à poveri. £ se
quella vi fa uomini, quella vi fa simili all’angeli, ed a Dio, li
quali ogni seientia hanno sempre feco. Echi non sà che le cose quanto
più s’avvicinano al perpetuo e necessario, tanto più son perfette ? l'universile,
come che aftrahe da tempo e luogo e più astratto, e consequentemente più
perfetto del singoiare, il quale è immerso nel tempo e luogho; la
memoria ha ptù dell’asratto che la libreria; poiché li libri coll’uso e
tempo s’invecchiano e consumano, la memoria coll’ulb e tempo si perpetua;
quelli periscono, quella sempre resta; nè sì puole commodamente aver per
ogni luogo quella biblioteca come quella, che vive e dimora sempre col
formatore. L’oracoli parlano a voce presentialmente, e oracoli sono (limati
quei sapienti, li quali all'improviso, senza girar l’occhio ai libri, rispondono
elquiiitamente ad ogni proposto della lor profesfione; Come fi fa quello
Te noti coll’aiuto della libreria della memoria, la quale toglie
quel rinconuemente, che dille una uolta UN FILOSOFO di quel Me dico
equivoco EQUIVOCO GRICE, il quale refpexit librum, et mortuus est aigrotus. E se
ben io ammiro l’industtra di Gordiano imperatore, il quale lìima camole lettere
eie scienze, che più atte (èall’acquillo di libri, che al tesoro
d’argenti, d’ori, e di gemme. La onde li legge, che raccolte nella sua libreria
tef tenta due india volumi. Lodo la diligenza di 1
irannione Grammatico, che uilTeà tempi di POMPEO magno, il quale liebbe
in suo possesio tre milia libri. Stupifco delle pergamene librerie, le quali,
come riferifee Plutarco, aucano ducento milia volumi. Ofieruo grandemente
Tolomeo Filadelfo, il quale per compir la sua libreria, quale ordina in
Alelssandria, ottenne dalli Gerofolimitam tettanta delli più teuii ed esperti
nelle l'acre lettere, e pr «felibri dcllVn’e l’altro Idoma, acciò li
traducelfero la bibia (aera d’ebreo in greco. Mi più ammiro, lodo, celebro, ed
oflervo la libreria della memoria, che hvbbe Lsdra, il quale come
riferitee Eulèbio, avendo li reggi caldei prelì li libri tecri di Mose,
egli tutti ad verbum h recita, e dal suo recitare furno dittati in quella
maniera, che poi la sinagoga l’adopra. E perche non me chia&o, se quella libreria
di Etedra, folte artificiale, mi balìa amteporui I’essempio di Ravenna, il quale
tanto fi gloria di quella libreria della eemoria che dice, Cum patriam
relinquo, ut peregrinus urbes Italia? uideam, dicere possum, Omnia mea mecum
porto. E perche non mancheranno di quell’che uoranno formarli quella
perfetta libreria; però allignera alcuni capi, dalli quali potrete
raccogliere il modo. È di necessità aver m’gliarac migliara di luoghi,
quali si potranno formare alla giornata, secondo che col1’occasione dello
(India. re, creile il bisogno del formatore. Quel tanto ch’il formatore
alla giornata ordinatamente, secondo l’ordine della Scicntiaò Artc, studia
della sua profesfione; gtornalmente collochi il tutto nell 1 formati luoghi,
non tralafciando cosa che Ila necessaria. Quelli luoghi pieni firn pre
rellano piente per aver la fermezza e tenacità della Memo- M€nàona,
cbe 6 dcfidcra eotitrtl’óbliul olle > tH« e il Urlo e. la poluè, che
rode e dftirugge quella libreria; bisogna rivederla coll’uso della ripetizione.E
quello si può fare con pigliar un giorno di vacanza della settimana, e ripetere
quel che novamente si è collocato in quella settimana, 3c in un'al
trhora ripetere una parte cominciando dal principio, e forzandoti che sia tal
notate compartita la ripetitiope, che per ciafeun Mefc fia npetita e
rcuifta tutta la libreria. Pella qual ripetizione ancora si potrà dare
quell’ora, eh il forma torc si trova disoccupato dall’essercitij diurni,
ne i giorni fc ftiui. Sicomc nelle librerie fogliono alcuni tener quadri
dipinti, con ritratti d’auttori, di sapienti, o potenti, di se medesimi, o
d’alcun'altre pitture bene spesso vane, e lascive – GRICE THE SWIMMING POOL
LIBRARY – WHAT BOOKS DO YOU KEEP THERE? -- ; il formatore di quella libreria vi
ponga quadri di San»tif eleggendoti un certo numero di prencipi del paradilb, angeli,
ed uomini, e quelli si constituisca per protettori di quella bella impresa,
raccomandando à cialcuno di loro un libro, o una sentenza, o una materia, secondo
che meglio pare al divoto formatore, ed a quei santi il formatore
oiicri Ica, voti, digiuni, orazioni, secondo la sua divozione, ecc. La libreria
come scrive VITRUVIO (si veda) deve esser fatta di rimpetto all’oriente, poiché
l'vlo di libri ricerca il lume mannaie; e perche la libreria della memoria
adopra lume interno, però io aucrtilco il formatore, che li sforzi d ha
ucr r. oriente spirituale che è christo, chiamato oriente d’un profeta, Ecce
vir oriens nomen eius. Anzi Christo è il sole, come di ife un’altro profeta,
Orietur vobis timcntibus. nomen meum SOL iustitiat. E 1’oriente di quello sole,
quanto alla deità è il padre eterno, e l’oriente quanto alla temporale umanità
è Maria Vergine. Di rimpetto à quelli oric ti c lumi deve il formatore
drizzai la sua libreria; sforzandoli di fuggirli peccati, e conseruarsi nella
grazia di Dio, poiche, Imtium Sapientia: eli timor Domini. Sello, sicome
nelle librerie li libri (on possi con ordine, fiche in una parte son ripossi
quelli della logica, in un’altra quelli della filosofia, in queiraltro canto
quelli della geometria, ecc. coti bisogna ordinarli LUOGHI COMMUNI, che
trà P loro i toro siano distinti. Per esemplo, neHI luoghi
tTvft* Ciftà -cojloco la logica, ed in quelli d’vo’aitraJi Filofofia, in
quelli della terza la theologia, ed in un luogo comniune della seconda città
ei colloco il primo della fisica, nel secondo il secondo, e cosi
procedendo nell» fequenti libri della FILOSOFIA. E quest’ordine è necessario,
per poter subito ri tcoaara li libri, e li soggetti, che A desiderano. E se
mi dirai che quella biblioteca ha del fa ti còlo affai. Pare che la memoria,
non porta soffrire tanto peso. Pare un chaos di confttAonfc» Ache l’uomo
non puole à Aia voglia ritrovare le materie e soggetti. Come A farà, in voler
formare un raggionamento da questa libraria. Se occorrere all» giornata
aggiungere alli soggetri albergatrnuo ui concetti j' non A potrà far
quello senza confusione delle prime imagini. Sedo, come A potrà
contemplare in questa libreria. Come porrà il formatore servirsi di luoghi
va coi. Se conviene a padri di famiglia £ar che, IL Figli studiosi Aano
arricchiti di questa libreria. Rispondo didimamente a quefti otto capi,
per compimento di questa libreria. Come il pefeatore non pup aven pefei senza
bagnarA, nè l'auido trovar The Airi senza romper Terra e làsli; coli non può
l’uomo far’acquifto di quc-t ft'inclphcabile vtdità, senza gran fatica.
La quale pare grande, perch’è insolita e non possa in uso. Ma cominci il
forma torè con le due guide, diligenza, e patienza, a farne
dpcrien 2 a, e conofeeri che, mi dithcile volenti. Fingono li poeti, che
Giasone con fatato di Medea acquista il vello d’oro; mi non però senza
vincer e domar Tori, arar terra, feminar denti, armarse contrafchierearmate, superar
draghi « Medea c 1 arte della memoria, Giasone il formatore,
Tori Draghi, dicroti son le fatiche, li pudori, le vigilie, l’impcdimenti,
li patimenti, che s’offerifeono alle frontiere di questa impresa, quali però dcuono
esser soffriti, e vinti da colui, che aspira alla palina e corona d’una
tanta felicità. Al secondo, dico che la memoria, quando con
bel’agio, ed à poco à poco vien’alla giornata ripiena, non sente pelb e
disturbo, anzi diletto e follcuamento; poiché col riccuer nuovi nàoui
simolacri. Jr, che coll’esperienzartegionano -dr quella utilissima e
ne diària ptofesilone. Nc chiami inutile ingombro, e fatico» fo impacciò,
il teloro utilissimo, elucidissimo di simolacri. Poiché li luoghi ed imagini
sono come penne ciuanni, che aggiungendo pelo all’uccello, rapportano
facilità ed agilità, inerauigliola al aolojcosi mentre s'accolla la memoria
luoghi, 8t imaginiycon qacfti come con due ali vola con facilità stupenda pell’altezza
della contemplatione, ed attione interpetrativa JE J se quelli mezzi son
difficili; fegoo à che il fi N ie è di gran preggio -E chi mira l’asprezza del
mezzo follmente non l’agcuola colla dolcezza del fine, e incauto ed impcudenccv
poichc fauio, e prudente è colui che contrape’ findoiljialore &: il
preggio del ficee dell’acquisto, dispone con prudenza, intende con sapicnza j abbraccia
cori' rorezza, lìegue con patienza li debiti mezzi. E non peflo fi 1 non
maravigliarmi d’Ippoino, il quale biafima l’arte della memoria, e pur fenc scrive;
perche si non è cieco, quand’egli collocai un’gratnone a memoria, non fa egli memoria
locale, nelli fogli delfi carta feri nailon de prende le parole o
concetti, elic gli colloca ?e fibene questa memoria locale, non cl’ arte spiegata,
è nondimeno arte confa magini, delle tpia li diccsfm.o; ìSc ii> parte averli
pofiono, da quel che sìegue. Per utilissimo documento, hab >i il
formatore qualche parti coiar divozione, pelli luoghi, pella collocazione dell’imagini,
e pel recitare. Pei luoghi formandosi abbia l’occhio se vi trova figure di santi,
altari, crocifissò imagine di Maria Vergine, e per ogni luogo commufcc fi
a-, legga tre, quattro, o cinque, più ò meno, secondo la copia di
luoghi, e secondo la divozione del formatore, di quelle finte figure, ed
alli lor figurati, con effetto pio raccoman- x dela tutela della memoria,
sforzandoli che il primo e l’ultimo luogo siano figurati. E quando ripetendo i
luoghi uipalla Culi la mente, li facci il formatore riverenza, con
qual chfc divota orazione. Il simile facci prima cbenelli luoghi; collochi
l’imaginij C prima che recitile collocate; diodo un S, ro 6i
giro con ti mente, per quelle designate figure sante, è eia-' leuna
offerendo calda orazione, o mentale o vocale. Averca il formatore di non esser
fcru polo fo intorno al veder lume prima ch egli vadi à recitare;
perche quantunque; sia ben fatto dimorar in tenebre, ed in luogo
rictirato, e solitario, e lontano d’ogni strepito, mentre ripone l’imagini
a memoria, e cosi in quel tempo che è immediato il recitare. Non dimeno star sempre
cosi, e non veder mai lume, senò quello ch'egli vede quando recita, è colla perighofà;
perche i’insolito apporta dirturbo e confusione. Però stimo ch'il f
amatore dove una volta a luce aperta ripeter le Tue cote. Ripeter fra
strepiti e fragori giova: perche assicura la memoria intanto, che per qual fi
voglia strepito ò caso che avenghi poi fra’l recitare, non fi (marritee IL
DICITORE. Indi è da esser notato, ed imitato l'essercitio di Demostene, il quale
per telleuarsi d’alcuni difetti di natura, come r.fe ri tee VALERIO
MASSIMO (si veda), combattendo colla natura, la vince con i'artificial essercitio.
Imperochc essendo egli Bacco di fianchi, e debole di lcna, e perciò IMPOTENTE
AL DIRE, s’ingagltardì colla fuica, ed essercitio; auczzandofi à recitar molti
ucrii ad un stato, e pronunciando mentre con ncloci paf fi (àliua per
uiefaticolc, ed erte. Ora dirimpetto alli fra gori marini che pcrcoteuano
li (coglie li lidi; si per fortificar la lena, come anco, acciò afluefatte
l’orccchie a quel rumore e strepito del ripercotimento del mare,
potettero patientemente al rumore della ragunata moltitudine perfeucrarc,
non sgomentandoli nel (ènte, nè vacillando colla memoria. E per aver LA
LINGUA piu spedita e fciolta alla loquela, ulàua pariarea lungo, con te
pictruzze in bocca; accio uacoa folte poi più pronta, ed espedita. Ed avendo la
voce tettile e molto aspra, e noiofa all’AUDIENTI; col continuo effermio, e
grande industria, la ridusse al maturo, grave, e grato suono. E perche nel
principio della sua gioventù, quali fu linguato, non poteva ben esprimere
la lettera che noi chia marno R. la qualo principia il nomò dell'arte rettorica, che
egli imparbua; usa tanta diligenza che muno di poi la PROFERIVA meglio di
lui. Bisogna rifuegliar le tepitc, e Ranche forze deli i> Q^. te
I le potenze, quando fi ua 1 recitare, con raiutl spirituali e
corporali. Li primi d’oratzoni a Dio, ed a santi, li secondi con alcuni ristorativi,
come nell’estate rifrescarsi il volto, e mani, nell’inverno prender
un’alito di fuoco, odorar cole grate, purché non fiano dieccessiva
qualità; toccarsi le narici e polli, con odorifero vino, e simili, secondo il
coniglio del perito medico.Abbi l’occhio il formatore di lenirli della memoria,
non come fine ultimato, mà come fine ordinato ad altro fine, cioè seruirsi
di quella all’ultimo fine dell’orare, eh e il persuadere, e ricordili che
non li trova la maggior per ucrfità, che pervertir l’ordine, e seruirsi
del mezzo per fine; Il che accenna Agostino in quel detto, Summa perversitas est
frui utendis. Le parti oratorie sono fini, mà però ordinati all’ULTIMO FINE DEL
PERSUADERE [GRICE INFLUENCING AND BEING INFLUENCED BY OTHERS]; però non conviene
affettar tanto quelle parti, che all'ultimo L’AUDIENTE lodi quella ò
qwe fi altra parte, senza che relli vinto, prcfo, e MOSSO DELLA
PERSUAZIONE INTENTA. Dedalo vola per mezzo, nè col gelo baffo soggiaccia,
nè col calor soprano si liqueface; mà ICARO INCAUTO, il quale invaghito delle
nuove, ed inlohte penne, affetta con troppo alto eccelso il volo; sapete
che ruinoso cade nell’onde falle. Cosi quelli ch’allontanandosi dalla
prudente mediocrità, pongono tutta la lor mira nell’eccelso di memoria;
cadono pell'imprudenza, perche non mirano il fine che dev’esser fine ultimato; e
perche mirano il proprio onore, ed una vana pompa, non l'onor e gloria di Dio,
di quali può ben dire il falmeggiante Davide. In fecuri, ed
Afciade iecerunt eam. Parla il profeta di quelli, che dislìpano la Chiesa,
COL PAROLARE, e memorare, che sono parti di chi raggiona. La secure e LA LINGUA
O PAROLA, pello che Dimolline fi> lea dire che il suo aversario ORATORE
Fedone è una fecurre; perche con breve mà acuta orazione molto li refifieva, e
contradiceva. L’Afcia come fi dilfe mollra la memoria, per lochenci sepolcri
gl’antichi scriveno quell’elogio. Sub JVfciam dedi vetuit. Con quelle
armi; gl’eretici cercano dissipar la chiesa, e li vani oratori poco frutto
l'apportano, mentre s’aggregano al numero di quei maestri; di quali predille
Paolo. Ad sua desideria coaceruabunt magillros prurientcs auribus.
Dilettano l’orecchio, con puoco frutto J del 6 % détto
rptrito: vogliono parer stupendi, còito felicità di memoria, 6t AFFETTAZIONE DI
PAROLE, nè curano d’esser fruttuosi à convertir gl’animi à Dio. Dunque constituifcasi
l’oratore per fine quel che dee esser fine cioè, l’ACQUISTO DELL’AUDIENTE S
ual’è feopo, per cui è ordinato il suo officio; e per quello ne poi; senza
affetiatione, fa lecito adopr.tr come mezzi le nobilislime parti della memoria. Verte
in dubbio tra gli formatori, (è è meglio ripor a memoria LE PAROLE O LI
CONCETTI – GRICE GELLNER WORDS AND THINGS -- nell’uso dell’orare, predicare, e raggionare,
in diverse professioni. Collocar parole e quando li scrivono cento o ducento
parole in un foglio, e coli scritte si ripongono in memoria, e le iflesse
collocate e scrittc poi si recitano. Collocar concetti è quando il formatore si
forma il concetto, ed cfphcandolo poi COLLA LINGUA non s’obliga a PREMEDITARE
PAROLE; m^ lo spiega con quella FAVELLA, che all’irpproviso la maestra
natura gli somministra. Chi ha tempo da farlo, e senza dubbio meglio ripor LE
PAROLE: perche l’oratore humano o ecclesiastico non direbbe cosa e PAROLA se
non PREMEDITAT, secondo il detto dì David, che dcscritle le parole del signore
essèr premeditate cfà minate, e raffinate sette volte. Eloquia domini,
eloquia carta, argentum igne examinatum, probatum terrac,
purgati septuplum. E come premeditate farebbero proprie, fcclte, ORNATE
D’ELOQUENZA, abbellite di COLORI RETTORICI; non uaneggurebbe IL DICITORE fuor
di termini designati, non discorrore con digressioni lunghe, e noiose,
ollcruarebbc L’AMATA BREVITÀ, AGGIUNGE DI PARTE IN PARTE AL DIRE SUTILI
GESTI DEL CORPO, E TUONI DELLA VOCE, che richiede un'esquisita PRONUNCIA. Mà
perche non tutti li soggetti ricercano quert’OBLLIGO PAROLATO; nè tempre à ciò
fare il tempo è commodo c (officiente; t brache in alcune occasioni, fom-
Kninirtrando lo spirito celerte nuovi pensieri e nuovi colori in premeditati,
non deve il dicitore farli reftrtenza, oporsi impedimento: però il collocar
concetti ancora non è, da esser biasmato. Nel collocare e prccifàmente i
concetti, per facilitar la memoria ALL’USO DEL PARLARE,!! sforzi il dicitore
d’m ftttitfef efquifuamenre IL CONCETTO, e diffonderlo anco in carta; e
prima cheto spieghi in publico x 1 esplichi da se solo, ì z
uocc noce quanto più li puu intelligibile: perche possedendo bene il
fatto, con facilità e abile a narrarlo. E scrivendo, e recitando
uien‘ada(Tuefarf), ed abilitarsi maggiormente; e affuefaccndosi, s’apre la
firada alla CHIAREZZA maggiore del soggetto, ALLA QUAL CHIAREZZA SEGUE POI
PRONTEZZA E VIVACITA maggiore NEL DIRE. Larto di fcordarfc/. \rA
i‘ ;i:> .) i il ii. t atti _>t Se bene, oppositorum
eadem disciplina, ir. tanto che ha vendo noi detto a badanza della
memoria, potrebbe eia feuno da se (ledo intender che cosa sia il suo opposto
eh’ è l’oblivione. Non dimeno perche dall’oblivione lì
prendono alcune utilità in qued’arte, è bene a trattarne, non inquanto e
disruttiva, ma in quanto per certa consequenza accidentale è perfettiva della
rimembranza. Perche avendo fcoggi RECITATA UN’ORAZIONE, e udendo din ani scruirmi
del rdleslì luoghi, trovandoli in gorobrati dalle precedenti
ima ginij come me ne potrò io servire, senza grandissima difficoltà e
confufione? Dirò tre cose, primo a che cosa serve qued’oblivionc. Secondo,
a chi è facile per natura. Terzo, se per arte si può far dimenticanza.
Qiiant’al primo dico che noi collocamo della memoria tre sorti di cose, le
prime delle quali vogliamo sempre ricordarci. Le seconde delle quali vorressimo,
se potessimo sempre ricordarci. Le terze delle quali vorressimo subito
fcordarccne. Le prime sono i luoghi dabili, e quell’imagini di dottrina, quali
noi collocamo, acciò sempre diano vive nella memoria, pella felicità del sapere,
come fa Ravenna che tutto quello che auea dudiato, lo colloca nelli luoghi
intanto, che non avea bisogno d’adoprar libri, e per chiarezza di ciò, noi
abdaino dato il modo di far la libreria della memoria. E rispetto a queda
memoria, noi non vogliamo oblivionfc 9 dimenticanza; e se pur se ne
tratta, l’intento è di trattarne come fà il medico dei veneni, il grammatico dell’incongruo –
My neighbour’s three year old is an adult -- o il logico del falso, per
fuggirli, non per feqnirli. Le seconde cose sono quelle delle quali fe fu
lfe possibile vorreffimo sempre ricordarci, come sono le prediche o le
partì principali di quelle, le quali aueresfimo molto caro che
ci feftafleno sempre nella memoria, mentre dura l’essercitio del
predicare; accio dovendo farle, e recitarle altre volte, senza ugual nova
fatica di collocarle, ci reftalfero tenaci, e urne nella memoria. Mi
perche quello è difficile, però fatte e recitate una volta, non curandoci che sian
sepolte nell’oblivione, desiderando li luoghi vacuoi – GRICE VACUOUS NAMES
TRUTH VALUE GAPS -- , desideramo metodo da poterci dimenticare di quelle, e a
quello scruel’arte dell’oblivione. Le terze cose sono quelle che le collocamo
alla memoria per fcruircenc una volta sola, e poi delide raresfimo che subito
ct ufciflcro di mente; come sono le comedie, ed altre cose simili
collocate da recitatori. A questo anco serve l’arte del’oblivione; si che non e
inutile il trattarne, accio non abbiate a lamentarui, come fa Temistocle con
Simonide, che più torto desidera l’arte di dimenticarli che del
ricordarli. E sìa sempre lodato GIULIO (si veda) Cesare, che così facilmente
fifeorda dcl fingiurie riceuute; ove nel reftantchauea felieissima memoria, la
qual arte è più torto cristiana che pagana; pello che dicca. Nulla laudabile
oblivio nisi iniuriarum. Quanto al secondo, dalle cose dette nelle prime
lcttoni della memoria naturale, in qual temperamento e qualità e fondata, lì
trahe pep consequenza, che quelli liquali sono felici nell’apprensiva pell’umido,
facilmente all’equiscono l’effetto di quest’arte; ma con molta difficoltà
quelli che sono pella complefrfione secca tenaci et aridi. Quanto al terzo dico
che l’arte giova aliai, per farci feordare; se bene nefee più
difficile che il ricordarci, e quello per mancamento del tempo,
il quale e padre dell’oblivione. La doue volendo noi in un subito, e senza
lunghezza di tempo dimenticarci, si tratta via estraordinaria, e potenza
maggiore si ricerca, per ottener l’intento. Oltra che essendo la memoria
perfezione della natura, l’oblivione imperfettione; più inten fan ente è
quelli riccuuta, e più caramente ritenuta. Ma quale sìa quello modo di far
l’oblivione non e facile di mostrare. Li poeti ci mandarebbero à ber
l’acqua di Lethe fiume dcU’Abifio, del s cui cui fiumare gufando fS
dimenticare tutte le cose paflàtcj onde e detto Lethe da lithis, che vuol
dire oblivione. Li cosmografi ci manderebbono o nell’ilbla di Zca, o apprelTo
Cli 1 tone città d’Arcadia, douc son’acque delle quali chiane
bc- ucdiuenta smemorato; ò pure vi condurrebono in Boetia, ove son
due fonti, l’un de quali fa buona memoria e Tal tra fa scordare ogni cosà.
Rombercli dice, il professore di quest’arte abbi molti luoghi: accio possa
uanargior-, nalmente, fi.che palTa col tempo la memoria dell’imaginni. Mà
quello scordare non e per arte, essendo per via del tempo, il quale per il corso
naturale apporta oblivione. Il Mó lco rifiutando molti mod'jftimache balli
il tralalciar il pea fiero dell’imagini; perche così vanno in oblivione.
Mi, chi non s'accorge che quello eaiuto piu tolto di natura, per via
del tempo; che regola d'arte PIo tralafciando quelli aiuti nali, che sono
manifelli: fa raccolta d’alcuni aiuti artificiali, li quali congiunti
insieme, porgeràno facilità all’oblivione. Li quali aiuti e modi, lon
nftretti nell’ifralcritti Capiò Regole, Primo, avendo recitate, e udendo
mandar in oblivione l’imagini; òdi giorno con gl’occhi chiusi, ò di notte
fra le tenebre, lì uadi colla mente girando per tutti li luoghi ideati con
invaginarci un’olcurisfuna tenebra notturna, che cuopra tutti i luoghi, e
cosi procedendo, e retrocedendo piu volte colla mente, e non vedendoci
imagini facilmente suamfee ogni figura. Secondo, si vadi correndo per
tutti li luoghi colla mente, dritto, à roverso, e si contemplino vacuoi e
nudi, tali quali la prima volta senza alcuna imagine turno formati, e quello
di? Icorlò fi facci più volte. Se le peritine tacili luoghi sono
llabili, si riucggtó no colla mente per ogni verlo più volte, e si
contemplino nel modo come prima ui furo llabiIite, col capochino, colle
braccia pendenti, e senza imagini aggiunte. Si come il pittore ingclfa e
di di bianco alle pitture, per cancellarle; così noi con colori polli sopra l’imigini
possiamo cancellarle. E quelli colori, o sia il bianco o’l verde, o’l
nero; imaginando sopra li luoghi, tende biantche, o lenzuoli verdi, o panni
neri, condiscorrer più uolc«, per li luoghi, con tal velo di colori. E lì
poflono ancora imaginare gtnare li fuòchi, pieni, che virtute u po fu
e re Dii fudore parandam. Alla qual arte le voi con patienza uigilia e timor di
Dio atttenderete; avendo per metodo quello mio trattato, mi rendo certo, che voi
nufciretc pierauigliofi nell’uso StclTercirto della memoria, col
favor del divino nostro signore, alli cui piedi, e della sua Clvefi santa
catholica e apostolica romana gitto me'ltellb, e lòttopongo ogni mio detco e
scritto, ora e sempre. Nome compiuto: Filippo Gesualdo di Lia. Keywords:
implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lia.” Lia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Libanio: la ragione conversazionale e la setta di
Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “When Oxford insittuted the 39
articles as part of the matriculation, I opposed on the grounds that a teen-ager
cannot possibly understand them! In this respect, the Romans had it easier. The
Roman religion is very easy to conceive: Jupiter and the top and the rest follows.
This explains why L. found the Roman ‘pagan’ philosophy – with Jupiter at the
top – as ‘not so extravagantly different from’ those who conceved of a jew –
Jesus Christ – as the son of Jehova!” -- Filosofo italiano. Supports Giuliano
in his attempt to revive paganism (a charming letter survives) – “but he is
also a friend and teacher of many Christians, can you believe it?” – Loeb. Libanio.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Libanio.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; Grice e Liberale: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Abstract. Grice: “At
Oxford, unlike Cambridge, philosophy is a sub-faculty – therefore anything
classical is second nature to us!” -- Filosofo italiano. Not to be confused
with Liberace, he is staying at Lyons (Lugdunum) at the time it was destroyed
by fire. A dear friend of Seneca. L. follows the Porch. In his eulogy, Seneca
declaims: “While he is accustomed to dealing with everyday difficulties, a
catastrophe, unexpected, and of such magnitude,
is more than he could handle.” Nome compiuto: Ebuzio Liberale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Liberale.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Liberatore:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’ULIVO DELLA
PACE filosofia campanese – scuola di Salerno -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Salerno). Abstract. Grice: “I would call L. a proto-Griceian,
but he probably would not!” -- Grice: “In my talk on meaning to the Oxford
philosophical society, I made fun of Italians using ‘senno,’ a corruption of
‘signum’ but then I realized that they were translating Aristotle’s semein, to
signify!” -- Kewyords: senno. Filosofo italiano. Salerno, Campania. Grice: “One
could write a whole dissertation – especially in Italy: their erudition has no
bounds – about Liberatore’s choice of the sign being conventional, ‘ramo
d’olivo’ = pace. It’s so obscure! Aeneas held one, against the Phyrgians – but
did the Phyrgians know? And if Mars is often represented wearing an olive
wreath, one would not think there is a ‘patto’ between Aeneas and the Phyrgian
commander about that!” Grice: “I like
Liberatore – a systematic philosopher, as I am! His logic has the expected discussion
on ‘sign.’ A conventional sign he says is a branch of olive ‘signifying’ peace
– as opposed to smoke naturally meaning fire – As a footnote, one should note
that in Noah’s days, the signification of the dove was ALSO natural – although
not strictly ‘factive’ – but then not ALL smoke (e. g. dry ice smoke) signifies
fire, as every actor knows!” “Ma il difetto molto comune degl’economisti è il
mancare di giuste idee filosofiche, e con ciò non ostante voler sovente filosofare.”
Entra nel collegio dei gesuiti di Napoli e chiede di far parte della Compagnia
di Gesù. Insegna filosofia. Fonda a Napoli “La Scienza e la Fede” con lo scopo
di criticare le nuove idee del razionalismo, dell'idealismo e del liberalismo,
dalle pagine del quale venne sostenuta una strenua battaglia in favore del
brigantaggio, interpretato come movimento politico contrario all'unità
d'Italia, ovvero: "La cagione del brigantaggio è politica, cioè l'odio al nuovo
governo". Fonda “La Civiltà” per diffondere AQUINO. Uno degl’estensori
dell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Studia Aquino. Pubblica “Corso di
filosofia”. Membro dell'Accademia Romana,. Combatté il razionalismo e
l'ontologismo, così come le idee di SERBATI. Sostenne che il brigantaggio e
la legittima resistenza di un popolo a una conquista non solo territoriale, ma
soprattutto ideologica. Difensore dei diritti della chiesa e studioso dei
problemi della vita cristiana, delle relazioni tra chiesa e stato, tra la
morale e la vita sociale. I filosofi della sua scuola mettono in evidenza
a acutezza dei giudizi, la forza degli argomenti, la sequenza logica del
pensiero, la stretta osservazione dei fatti, la conoscenza dell'uomo e del
mondo, la semplicità ed eleganza dello stile. All'inizio professore e
giudicato da molti nella Chiesa cattolica il più grande filosofo dei suoi
tempi. Si ritenene che vive santamente, e si scorge in lui un profondo spirito
religioso. Considerato uno dei precursori del personalismo economico.
Altri saggi: “Logica, metafisica, etica e diritto naturale, e in
particolare: “Dialoghi filosofici” (Napoli); “Institutiones logicae et metaphysicae”
(Napoli);“Theses ex metaphysica selectae quas suscipit propugnandas Franciscus
Pirenzio in collegio neapolitano S. J. ab. divi Sebastiani Quinto” (Napoli); “Dialogo
sopra l'origine delle idee” (Napoli); “Il panteismo trascendentale: dialogo” (Napoli);
“Il Progresso: dialogo filosofico” (Genova); “Ethicae et juris naturae elementa”
(Napoli); “Elementi di filosofia” (Napoli); “Institutiones philosophicae” (Napoli);
“Della conoscenza intellettuale” (Napoli); “Compendium logicae et metaphysicae”
(Roma); “Sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma);
“Risposta ad una lettera sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale
dei corpi” (Roma); “Dell'uomo” (Roma); “La Filosofia di ALIGHIERI”; In Omaggio
a Aligh. dei Cattolici ital. (Roma); “Ethica et ius naturae” (Roma, Typis
civilitatis catholicae); “Lo stato italiano” (Napoli, Real tipografia Giannini);
“Della composizione sostanziale dei corpi” (Napoli, Giannini); “L'auto-crazia dell'ente”
(Napoli); “Degl’universali -- confutazione della filosofia di Serbati” (Roma);
“Principii di economia politica” (Roma, Befani); “La proposta dell'imperatore
germanico di un accordo internazionale in favore degl’operai”; “Le associazioni
operaie”; “Dell'intervenzione governativa nel regolamento del lavoro”; “L'Enciclica
Rerum Novarum di Leone XIII”; “De conditione opificium”; “La civiltà cattolica
spiega nei dettagli il clima di "difesa" in cui la chiesa si sente. Il
ritorno ad Aquino dov’essere orientato alle sue dottrine originarie. Convinto
che dopo di lui ben poco di nuovo ha prodotto il pensiero umano. Brigantaggio. Legittima difesa del Sud. Gli
articoli della "Civiltà Cattolica" introduzione di Turco (Napoli, Giglio); “Per
l'atteggiamento arroccato in difesa della Chiesa vedi ad esempio Sillabo # La
"cupa scia" del Sillabo
Nardini, Manca di verità e si oppone ad AQUINO la soluzione di un alto
problema metafisico abbracciata da L.” (Roma, Pallotta); “Lettere edificanti
della provincia napoletana della Compagnia di Gesù, in La Civiltà cattolica, Civiltà
cattolica:, antologia Rosa, [ma San Giovanni Valdarno] ad ind.; G.
Mellinato, Carteggio inedito L. Cornoldi in lotta per la filosofia di Aquino (Roma,
Volpe, I gesuiti nel Napoletano, Napoli, Dezza, Alle origini del tomismo,
Milano, Devizzi, La critica all'ontologismo, Rivista di filosofia neo-scolastica,
Mirabella, Il pensiero politico di ed il suo contributo ai rapporti tra Chiesa
e Stato, Milano, Scaduto, Il pensiero politico ed il contributo ai rapporti tra
la Chiesa e lo Stato, in Archivum historicum Societatis Iesu, Serbati, Roma G. Rosa,
Storia del movimento cattolico in Italia, Bari ad ind.; Lombardi, La Civiltà
cattolica e la stesura della "Rerum novarum". Nuovi documenti sul
contributo, La Civiltà cattolica, Dante, Storia della "Civiltà cattolica",
Roma Nomenclator literarius theologiae catholicae, Grande antologia filosofica, Milano, C. Curci,
Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum Novarum Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana., presentazione del libro su La Civiltà Cattolica e
il brigantaggio. Segno – SENNO -- è generalmente tutto ciò che, alla potenza
conoscitiva, ra-ppresenta alcuna cosa da se distinta. Perciò tal denominazione
ben si addice al concetto il quale esprime al vivo e ra-ppresenta alla mente
l'obbietto intorno a cui si aggira. Ma il concetto è interno all'animo e per
pale sarsi di fuora ha bisogno di un segno SENNO esterno. Questo segno SEENO
esterno consiste ne' voicaboli, i quali tra tutti i segni ottennero la
preminenza iq.ordine alla manifestazione delle cose, che internamente
concepiamo. Così il termine mentale, cio è il concetto, e d il termine ora le
cioè il vocabolo, convengono tra loro nella generica ragione di segno o SENNO. Ma
si differenziano grandemente nella ragione specifica. Imperocchè, primieramente
il concetto è segno naturale; il vocabolo è segno – O SENNO -- convenzionale. Dicesi
segno naturale quello che di per sè e per sua natura mena alla cognizione di
un'altra cosa -- come il fumo, per esempio, rispetto al fuoco, e generalmente
ogni effetto, riguardo alla CAUSA. Dicesi segno convenzionale quello, che
ARBITRARIAMENTE o PER PATTO vien
destinato a di-notare alcuna cosa; come il ramo d'olivo si ad opera per il termine
orale, benchè prossimamente significhi (E SENNO DI) il concetto, non dimeno
mediante il concetto significa (E SENNO DI) lo stesso oggetto. Anzi, poi chè da
chi parla è ad operato per di-notare il concetto non subbiettivamente ma
obbiettivamente, cioè in quanto è espressione della cosa percepita. Ne segue
che, quanto alla significazione (SENNO), esso si confonde quasi col concetto, dicuiè
come la veste e l'esterna apparizione. E però la logica a buon diritto tratta
per ora ni un vocabolo è di sua natura connesso con un determinato concetto;
e però tanta varietà di loquela si scorge presso le diverse nazioni. Al
contrario, il concetto di per sè e necessariamente rappresenta l'obbietto, essendo
ne una natural rassomiglianza; e però il discorso mentale è lo stesso appo
tutti. Inoltre il concetto è segno formale; il vocabolo è segno (SENNO) istrumentale.
Ad intendere questa differenza, è necessario osservare, che il vocabolo
permenarci alla conoscenza della cosa significata, ha mestieri d'esser prima dạ
noi compreso. E pero appartiene a quel genere di segni (SENNO), a a cui può
applicarsi la seguente definizione. Segno (SENNO) è ciò che, conosciuto, adduce
alla conoscenza di un'altra cosa. Ma del concetto non è così: giacchè esso, senza
bisogno d'esser prima conosciuto, col solo attuare la mente, ci mena alla
conoscenza del l'obbietto, sicchè questo appunto sia il primo ad essere diretta
mente percepito. Ciò di leggieri apparisce, tanto solo che si consideri che il concetto
non può percepirsi, se non per cognizione riflessa e pel ritorno della mente
sopra sè stessa. Laonde quello che si percepisce per prima e diretta
cognizione, non può essere esso concetto, ma necessariamente è una qualche cosa
diversa dal medesimo. A di-notare per tanto una tal differenza, venne
introdotta la distinzione del segno (SENNO) formale e del segno (SENNO) istrumentale.
Viene l'abuso del linguaggio che è il mezzo dato all'uomo per esternare ad
altrui gl’interni concepimenti dell'animo. L'analisi de’ vocaboli è
ordinariamente un grande aiuto allo spirito per rischiarare le idee, merce chè
essi sovente tengon chiusi sotto la loro spoglia. Ma accade altresì che si
arroghino più di quello che loro di ragion si compele, e tentino non di essere
esaminali e giudicali dall'intelletto, ma manciparselo e deltargli legge a capriccio.
Per diverse maniere principalmente i vocaboli introducono falsi concetti
nell'animo. Per la loro ambiguità e confusione, imperocchè ci ha delle voci
d'incerto significato, le quali han bisogno d'esser determinale nel senso in
cui si tolgono, altrimenti ingenerano concetto vago e mal fermo da cui procedon
poi fallaci giudizii. Tale è a cagion d'esempio la voce natura, la quale suol
prender sia d’esprimere or l'essenza di una cosa, or il mondo sensibile; or
l'autore dell'universo, or tull'altro a talento di co foi che l'usa. Parimente
le idee significate pe' vocaboli sovente sono assai complesse e complicate; e
pero ove non bene si risolvano per via d'analisi ne’loro elementi, son cagione che
si formiun assai confuse ed informe concetto. Secondo, tal volta i vocaboli
vengono ad operati a significar mere negazioni o prodotti arbitrarii della
immaginativa, o semplici ASTRAZIONI ell'animo; come la voce “cecità”, “fortuna”,
“centauro”, “località”, e somiglianti. Oravviene che per difetto di debita considerazione
si cada nella credenza ch'esse esprimano cose positive e reali si nell'essere
che nel modo onde sou concepite. I vocaboli delle cose immateriali son formati
d'ordinario per analogia presa dagli obbietti materiali, e quindi avviene che
talora si confondano le une cogl’altri. Ne'nomi derivati sebbene spesso
l'origine e l'etimologia del vocabolo coincide col senso in che comunemente si
prende, tuttavia non rade volte se ne dilunga. Nel qual caso per mancanza di attenzione
può avvenire che l'una coll'altro si scambi. A queste cause può aggiugnersi la novità
de’ vocaboli di che taluni stranamente si piacciono, e l'uso incostante che
fanno di quelli stessi che fuor di ragione introduceno. La filosofia per quanto
può nell'ad operare il linguaggio non deve scostarsi dall’uso comune, nè
cambiare a capriccio il senso delle voci ricevute o da sè stessa una volta
determinate. Una indebita applicazione de’ mezzi di conoscenza è radice mal nal
ad'errore. Accadecia in prima dal non bene distinguere con quali facoltà dove
l'oggetto concepirsi; come a cagion d'esempio in chi con la fantasia vuole comprender
ciò che allrimenti non si può che con l'intelletto. Dippiù si bada talora più
alla vivacità e felicità della RAPPRESENTANZA, che alla fermezza del motivo che
spinge all'assenso. E così le cose che vivacemente e prestamente feriscono
l'animo più di leggieri si ammettono che allre non fornite di questa dote, ma
più salde per forza di argomenti. Inoltre si procede temerariamente a giudizii
senza prima considerare se l'obbietto è debitamente proposto giusta le leggi e
le condizioni volute dalla natura. Quinci le fallacie de’ sensi, lo scambiarsi
per i principii proposizioni arbitrarie, il formare assiomi illegittimi, il dedurre
conseguenze erronee da sofistici ragionamenti. E perciocchè lo schivar questi mali
richiede la conoscenza del dritto cammino che deve tener la mente per le
vie del vero, passiamo a trattar diligentemente questa materia, alla quale
premettiamo il seguente articolo, che ad essa valga come
d'introduzione. Cum animi nostri sensus cogitationesque animo ipso
lateant, nec per sese ceteris patefiant; homo, qui ad societatem cum aliis
coëundam e nascitur, idoneis mediis a provido naturae Auctore instructus est,
ut ideas suas aliis, quibuscum vivit, manifestet. Haec media SIGNA (SENNI) quaedam
sunt. Sic enim nominantur quaecumque ad res alias innuendas sive natura sive VOLVNTATE
sunt INSTITUTA. Omnibus vere signis, quibus conceptus nostros et affectus animi
patefacimus, maximopere vocabula praestant. Etsi enim suspiria, gemitus, nutus,
sensa animi nostri significent; minime tamen id efficiunt eadem facilitate,
perspicuitate, distinctione ac varietate, quae vocabulorum propria est. Quam
quam non diffitear gestuum loquelam, si vivax sit, vehementius commovere,
propterea quod imaginationem vividius feriat, et rem veluti ponat ob oculos.
Vocabulum definiri potest: vox articulate prolata ad ideam aliquam
significandam. Ex quo intelligitur, ope vocabulorum proxime et immediate
conceptus, vi autem conceptuum ipsa obiecta significari. Ad originem sermonis quod
spectat, nemini dubium est quin, etsi vis loquendi ingenit a nobis sit,
verborum tamen determinatio ab arbitrio generatim pendeat. Secus si quodlibet
determinatum verbum determinatam rem natura sua innueret; qui fieri posset ut
verbum idem apud diversas gentes, quibus certe eadem natura inest, non idem
exprimat? De hoc nulla est controversia; at quaestio in eo est utrum absolutae
necessitatis fuerit ut sermo aliquis primis hominibus a Deo communicaretur, an
homo sermocinandi tantum virtute ornatus sermonem ipse repererit vel saltem
reperire potuerit. Qua de re in contrarias sententias FILOSOFI distrahuntur. Non
nulli enim non modo possibilitatem, sed factum etiam tuentur, atque hominem
sermone destitutum sermonis auctorem fuisse autumant. Alii id neutiquam evenire
potuisse arbitrantur, cum sermo sine usu intelligentiae. efforinari nequeat, et
ad usum intelligentiae sermonem necessarium esse putent. Equidem sic existimo: ad
absolutam possibilitatem quod at tinet, hominem per se potuisse ex insita
propensione et facultate loquendi, quam accepit, determinatum sensum vocibus
quibus dam tribuere, et sic sponte sua efformare sermonem. Quid enim
repugnasset ut homo rem sensibus occurrentem nutu aliquo com mopstraret aliis,
atque ex innata vi loquendi sonum syllabis quibusdam distinctum proferret et ad
commonstratam rem significandam libere determinaret. Expressis autem rebus
sensibilibus, ad insensibiles significandas gradatim pervenire impossibile sane
non erat; cum ad has exprimendas nomina quaedam ex rebus materialibus,
propter analogiam, quam homo inter utrasque per spicit, transferri facile
potuissent. At si non de
absoluta et abstracta possibilitate, sed de facto loquimur, rem aliter
contigisse certum est. Nam ex sacris
litteris indubie colligimus elementa sermonis primo homini a Deo tributa esse,
quantum saltem sufficeret ad domesticam societatem, in qua ille conditus est,
retinendam. Cuius rei congruentia vel inde patet, quod si, ut supra dictum est,
ad divinam pertinuit providentiam opportuna scientia instruere protoparen tem;
hoc multo magis de usu sermonis dicendum sit,cuius longe maior necessitas
imminebat. An sapienter cogitari poterit totius generis humani parens et
magister, qui quasi principium et fun damentum constituebatur futurae
societatis civilis et sacrae, sine actuali copia illorum mediorum, quae ad
munus hoc adimplen dum tantopere requirebantur. Accedit, quod eruditorum
vestigationes, qui de origine linguarum tractarunt, huc tandem concludendo
devenerunt, ut omnes linguae tamquam dialecti linguae cuiusdam primitivae, quae
perierit, habendae sint. At si sermo inventio esset humana, singulae familiae,
quae diversis populis originem dederunt, linguam sibi omnino propriam atque ab
aliis radicitus discrepantem creavissent. De utilitate vero, quam ex sermone
pro rerum intelligentia mens capit, permulta fabulati sunt FILOSOFI quidam, in
primisque Condillachius. Putarunt enim illum esse necessarium ad analysim et
synthesim idearum habendam, nec sine ipso ideas generales efformari posse. Quin
etiam eo progressi sunt, ut dicerent ipsam intelligentiam non nisi ex usu
loquelae progigni. At enim haec esse ridicula optimus quisque iudicabit, modo
cogitet non posse loquendi usum concipi nisi iam antea intelligentia sub audiatur.
Non enim quia loquimur intelligimus, sed viceversa quia intelligimus loquimur.
Unde bruta, quia intelligentia carent, id circo loquendi facultate privantur.
Quod si intelligentia e sermone non pendet, poterit illa quidem suis uti
viribus ad ideas sive dividendas sive componendas sive etiam abstrahendas, quin
id circo sermo velut causa aut instrumentum adhibeatur. Sed de hac refusius
erit in Metaphysica disputandum. Vera igitur emolumenta sermonis his
continentur. Prae terquam quod ad ideas communicandas inserviat, ac proinde ve
luti vinculum sit societatis; intellectui subvenit, quatenus loco phantasmatum
verba ut signa sensibilia in imaginatione substituit. Memoriae opitulatur ad
ideas semel habitas revocandas. Mentis attentionem figit detinetque in obiecto,
quod exprimit, quae secus ad alia contemplanda statim raperetur. Mentis
opificia conservat, efficitque, ut illa postquam contemplationis suae partus
vocabulis scriptura exaratis ad retinen dum tradiderit, soluta curis ad nova
speculanda impune progredi possit. Hae potissimum utilitates e sermone in
hominem proficiscuntur; ceterae, quae a nonnullis nimium exaggerantur, sine
fundamento ponuntur, et animo humano sunt dedecori. Denique ad dotes loquendi
quod attinet, sermo sit perspicuus, usitatus, brevis; non ea tamen brevitate, qua
obscurior sententia fiat; sed ea, quam rite descripsit Tullius CICERONE, ubi
inquit brevitatem appellanda messe cum verbum nullum redundat, velcum tantum
verborum est, quantum necesse est 1. ANTICHITÀ PER L'INTELLIGENZA
DELL'ISTORIA ROMANA E DEI FILOSOFI LATINI DELL'ABATE DECLAUSTRE Wwwna IN
VENEZIA CO'TORCHI DI GIUSEPPE MOLINARI MITOLOGICHE SLIEHE HE KOS
WIEN HOFBIBLION KA 1 eeeeeeeeexe
erele cele ; egli Ateniesi lee ressero delle statue. Ella fu ancora più celebra
ta presso i romani, i quali le innalzarono il più grande ed il più m a goifico tempioche
fosse in Roma. Questo tempia, le cui rovine ed anche una parte delle volte
restano ancora io piedi, fu cominciato da Agrippina, e poscia compiuto da
Vespasiano. Scrive Giuseppe, che gl'imperadori VESPASIANO e Tito deposero nel
tempio della pace le ricche spoglie, che aveano levate al tempio di
Gerusalemme. In questa tempio della Pace si adunavano quelli che professavano
le belle arti per disputervi sopra le loro prerogative, acciocchè alla presenza
della dea restasse bandita qualsi voglia asprezza pelle loro dispute. Questotem.
pio fu rovinato da un incendio al tempo dell'imperator COMMODO. Presso i greci la
Pace veniva rappresentata in questa maniera. Una dono aportava sulla mano il dio
Pluto fanciullo. Presso I Romani poi si trova per ordinari o rappresentata la Pace
con un ramo di ulivo PACIFERA. In una Medaglia di Marco Aurelio, Minerva viene
chiamata “pacifera”; e in una di Massimino si legge Marte puciferus, qmegli, o
quella che porta la pace, PACTIA.Suddito dei Persiani, al riferire d'Erodoto,
essendosi ricoperato a Cuma città greca, i Persiani non mancarono di mandare a
di mandarlo, acciocchè loro fosse consegnato nelle mani. I Cumeifo . dea
P Pace. I Greci e di Romani onoravano la Pace come una gran qualche volta colle
ali, tenendo un caduceo, e con un serpente ai piedi, Le danno ancora il cornucopia,
el'ulivo è il simbolo della Pace, e il caduceo è il simbolo del Mercurio Negoziatore,
per additare la negoziazione, da cui n'è seguita la Pace. In una medaglia di
Antonino Pio tiene in una mano un ramo di ulivo, e colla sinistra dà fuoco ad
alcu di scudi,e corazze, j PALAMEDE . Figliuolo di Nauplio re
dell'isola d'Eubea, coman daya gli Eubei nell'assedio di Troja. Vi si fece
molto stimare per la sua prudenza, pel suo coraggio, e de sperienza nell'arte
militare; e dicono che insegnasse ai Greci il formare i battagliopi, e lo
schierarsi. Gli attribuiscono l'invenzione di dar la parola delle sentipeļle, quel
la di molti giuochi, come dei dadi e degli scacchi, per servire di trat
tenimento ugualmente all'ufficiale e al soldato nella noja di up lungo
assedio. ΡΑ1CHE tott an que 9 be 8Q CO 32 ti 8 $1 AL sto fu çerp ip contapepte
ricercare l'oracolo de’ Branchidi, per sapere come doveano contenersi; el'oracolo
rispose, che lo consegnassero. Aristodico, uno dei principali della città, il quale
non era di questo parere, ottenne col suo credito, che si mandasse un' altra
volta ad interrogare l'oracolo, ed egli stesso si fece mettere nel numero dei deputati.
L'oracolo non diede altra risposta, che quella avea data prima. Poco sod
disfatto Aristodico, penso nel passeggi. The branch of ‘ulivo’ is represented
in the reverse of a coin of Antonius Pius --. Matteo Liberatore. “Segno e cio
che, conosciuto, adduce alla conosence di un’altra cosa” – cf. Eco’s tesi su
Aquino. Nome compiuto: Liberatore. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Liberatore” – The Swimming-Pool Library. Liberatore.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Licenzio: la ragione conversazionale e il filosofo poeta
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “Agostino was not an Italian, but an
African – his friends, however, like Licenzio, were Italian thoroughbreds – and
he discussed philosophy with them quite often! – except when he was meditating!’
Filosofo italiano. – A pupil of Agostino. L. achieves a reputation of a poet. Licenzio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Licenzio.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO! GRICE LIGURE!; ossia, Grice e Liceti: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale – filosofia ligure – l scuola di Rapallo --
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Rapallo). Abstract. Grice: “We
don’t have anything like Liceti and Oxford, but I wouldn’t be surprised if some
English – and indeed Oxonian – philosopher found his philosophy inspiring!” Fortunio
Liceti was a prominent Italian philosopher known for his wide-ranging
publications. It is HIGHLY probable that his writings reached England and were
available at Oxford during the 17th century. The Bodleian library
was a significant reporisitory of knowledge, attracting scholars from across
Europe. During the 17th century, it receivd numerous gifts of books
and mnuscripts, including from individuals like the Earl of Pembroke, Sir
Kenelm Digby, and Archbihop William Laud. This suggests a welcoming environment
for acquiring foreign scholarly orks. Wile Liceti isn’t explicitly mentioned in
the context of the Ashmole collection – focused on English
political-theological controversy and the history of science – Licet’s works on
topics like anatomy, monstruous births, and light, could have easily found a
place in the general library collection or in the personal libraies of Oxford
scholars interested in those subjects. Liceti’s s research spanned various
fields, from genetics and reproduction to gems and animals. This broad appeal
could have made his works interesting to a wide range of academics at Oxford. A
catalog record from the British Museum library, referring to Licet’s ‘De
Lucernis antiquorum recondites libb. sex’ indicates his writings were present
in at least one significant English library. While the provided snippets do not
offer definite proof of L’s writing being explicitly listed in Oxford library
cataloues during the 17th century, the context of the Bodleian
library’s collection growth and the intellectual environment of the time make
it highly probably. The presence of at least one of his works in another major
British library further strengthens this likelihood. To definitely confirm the
presence of Liceti’s works at Oxford, a detailed examination of the Bodleian
library’s acquisitions records and the library catalogues of ndividual Oxford
collleges from the 17th centry would be necessary.” Filosofo
italiano. Rapallo, Liguria. Grice: “Liceti is a fascinating philosopher; must
say my favourite of his oeuvre is “Geroglifici,” which as he knows it’s a coded
message – the old Egyptian priests kept this ‘figurata’ away from the plebs!” –
Grice: “Alice once wondered what the good of a piece of philosophy is without
‘illustrations;’ surely Liceti’s beats them all!” Allievo ed erede di CREMONINI (si veda). Nacque
prematuro (6 mesi), venendo alla luce su una nave presa da tempesta lungo le
coste tra Recco e Rapallo. Sempre secondo la tradizione orale suo padre, un
medicoo, lo mise in una scatola di cotone dentro un forno, come si fa per far
schiudere le uova, inventando così il prototipo della moderna incubatrice. Dopo
aver compiuto i primi studi letterari a Rapallo, venne inviato a Bologna per
compiere e approfondire gli studi legati alla FILOSOFIA. Insegna a Pisa. Padova,
e Bologna. Ascritto ai “Ricovrati” (oggi
i galileii – degl’Accademia Galileiana di scienze, lettere ed arti. Quando comparve in cielo una cometa, si
riaccese una controversia analoga a quella suscitata dalla stella nova ma questa volta le difese della teoria
aristotelica furono assunte da L. ed il compito di attaccarla, partito ormai
GALILEI (si veda), e assunto dal suo successore sulla cattedra di matematica,
GLORIOSI, che se la prese appunto con L.. Questi risponde pubblicando un suo De
novis astris et cometis, in cui, oltre a difendere il LIZIO, critica
scienziati, tra i quali anche GALILEI, ma con espressioni molto rispettose e
lusinghiere. A questo saggio GALILEI fa rispondere dal suo amico GIUDICCI col
Discorso sulle comete. Srive saggi di filosofia, tra le quali “De monstruorum
causis, natura et differentiis”,
(Padova), con aggiunte di Blaes, nei quali riprese le soluzioni del
LIZIO sul problema delle anomalie genetiche, e “De spontaneo viventium ortu”
nei quali sostenne la generazione spontanea degl’animali inferiori. Altri saggi importanti per la ricerca sono
“De lucernis antiquorum reconditis” apprezzato da Berigardo, e la “Silloge
Hieroglyphica, sive antiqua schemata gemmarum anularium.” Tratta inoltre la
questione dell'anima delle bestie nel “De feriis altricis animae nemeseticae
disputationes.” I suoi saggi sono chiaramente ispirate al LIZIO, in particolare
gli studi sul problema della generazione vivente e sul cosmo, entrando talvolta
in contrasto con GALILEI, specialmente per quanto riguarda la struttura dei
cieli e della Luna, che L. considera una sfera perfetta e trasparente la cui
luminosità non e un riflesso della luce solare, ma veniva generata al suo
interno. Al centro di questo dissenso cosmologico, c'e, infatti, il tentativo
di spiegare il fenomeno luminescente della pietra di Bologna, che L. considera
un frammento di materia lunare. Alcuni saggi di L. rimasero inediti a causa
delle ampie discussioni riportate sulle novità astronomiche. Nella congerie
immensa dei suoi saggi e commenti va notata la difesa della pietas
d'Aristotele; quella pietas così vivacemente messa in forse alcuni anni più
tardi dal platonicissimo cappuccino Valeriano Magno, che taccia d'a-teismo il
sistema dello Stagirita. L. invece disserta «de gradu pietatis Aristotelis erga
Deum et homines», e nel saggio sua «Philosophi sententiae plurimae, fidelium
auditui durae, salubribus explicationibus emollitae, ad pias aures
accommodantur, illaeso genuino sensu Aristotelis». E ad epigrafe dell'opera sua
si compiace del distico Vulgus Aristotelem gravat impietate, L. Doctorem
purgat. Numquid uterque pius? La città di Padova ed Spinola di Roccaforte
rendeno omaggio al filosofo facendo erigere una statua in marmo scolpita da
Rizzi. A Rapallo vi è dedicata una via. Gli è stato dedicato il cratere “L.”
sulla Luna. Altri saggi: “De centro et
circumferentia”’ “De regulari motu minimaque parallaxi cometarum caelestium
disputationes”Vtini, Nicola Schiratti, Vicetiae, Amadio, Bolzetta, Encyclopaedia
ad aram mysticam Nonarii Terrigenae, Patavii, Crivellari“ Allegoria
peripatetica de generatione, amicitia, et privatione in aristotelicum aenigma
elia lelia crispis. Ad aram lemniam Dosiadae, poëtae vetustissimi et
obscurissimi, encyclopaedia, Paris, Cottard; Ad Syringam publilianam encyclopaedia,
Patauii, Pasquato, Bortolo, “Ad Epei Securim Encyclopaedia Genuensis FILOSOFI
ac medici, Bononiae, Monti, “De centro et circumferentia, Vtini, Schiratti, “De
luminis natura et efficientia, Vtini, Schiratti, “Litheosphorus, siue De lapide
Bononiensi lucem in se conceptam ab ambiente claro mox in tenebris mire
conservante, Vtini, Schiratti, “Ad alas
amoris divini a Simmia Rhodio compactas, Patavii, Crivellari,“De lucidis in
sublimi ingenuarum exercitationum liber, Patauii, Crivellari “De Lunae
Sub-obscura Luce prope coniunctiones, “Hieroglyphica”, Patavii, Sebastiano
Sardi, “Hydrologiae peripateticae disputationes”, Vtini, Schiratti, Ad syringam a Syracusio compactam et
inflatam Encyclopaedia, Vtini, Schiratti, Baldassarri, La pietra di Bologna da
Descartes a Spallanzani. Sviluppo di un modello scientifico tra curiosità,
metodo, analogia, esempio e prova empirica, Nel nome di Lazzaro. Saggi di
storia della scienza e delle istituzioni scientifiche, Garin, La filosofia,
Milano, Vallardi, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del
progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto
Museo di Storia della Scienza di Firenze, Bartholin, Institutiones anatomicae,
Lugduni Batavorum, Riolan, Opuscula anatomica nova, in Id., Opera anatomica, L
Pombaiae Parisiorum, Bartholin, Epistolarum medicinalium centuria Hafniae
(lettere); Vesling, Observationes anatomicae et epistolae, Hafniae, lettere a
L.; Dallari, I rotuli dei lettori legisti e artisti dello STUDIO BOLOGNESE,
Bologna ad ind.; Edizione delle opere di Galilei, Firenze ad indices; Acta nationis Germanicae
artistarum, Rossetti, Padova, ad ind.; Rossetti, A Gamba, Padova, ad ind.;
Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata, A: verbali delle adunanze,
Gamba, Rossetti, Trieste ad ind.;
Salomoni, Urbis Patavinae inscriptions, Patavii Facciolati, FASTI GYMNASII
PATAVINI, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Renan,
Averroès et l'averroïsme, Paris Taruffi, “Storia della teratologia” Bologna,
Favaro, Amici e corrispondenti di Galilei, Gloriosi, in Atti del R. Istituto
veneto di scienze, lettere ed arti, Favaro, Saggio di dello Studio di Padova, Venezia, Ducceschi,
L'epistolario di Severino, Rivista di storia delle scienze mediche e naturali,
Castiglioni, Storia della medicina, Milano, Ducceschi, Un epistolario inedito
di dotti padovani in Atti e memorie della R. Accademia di scienze lettere ed
arti in Padova, Alberti, La prima incubatrice per prematuri, Minerva medica
varia, Boffito, Battaglia di marche tipografiche di Bella e l'ultima memoria scientifica dettata
da Galilei, in La Bibliofilia, Pesce, La iconografia di L., in Genova. Rivista
del Comune, Geymonat, Galilei, Torino, Rossetti, L'opera di L. in un manoscritto
inedito della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova, in Studia Patavina,
Bertolaso, Ricerche d'archivio su alcuni aspetti dell'insegnamento medico
presso Padova, in Acta medicae historiae Patavinae, Ongaro, Contributi alla
biografia di Alpini, Tomba, Gli originali di Galileo in Physis, Ongaro, L'opera
di L., in Atti del Congresso di storia della medicina, Roma, Ongaro, La
generazione e il moto del sangue in Liceti, in Castalia, Rizza, Peiresc e
l'Italia, Torino Simili, Una dedica autografa di Galilei a L. e il clima delle
loro concezioni scientifiche e relazioni epistolari, in Galileo nella storia e
nella filosofia della scienza. Atti del Symposium internazionale, Firenze-Pisa,
Firenze Mirandola, Naudé a Padova. Contributo allo studio del mito italiano, in
Lettere italiane, Castellani, Marangio, I problemi della scienza nel carteggio
con Galilei, Bollettino di storia della filosofia dell'Università degli studi
di Lecce, Marilena Marangio, La disputa sul centro dell'universo nel "De
Terra" di L., Soppelsa, Genesi del metodo galileiano e tramonto
dell'aristotelismo nella Scuola di Padova, Padova, Agosto et al., Rapallo,
Berti, Galileo e l'aristotelismo patavino del suo tempo, in Studia Patavina,
Ongaro, Atomismo e aristotelismo nel pensiero medico-biologico di L., in
Scienza e cultura, Galilei e Morgagni, Padova. Brizzolara, Per una storia degli
studi antiquari in Studi e memorie per la storia dell'Bologna, nZanca, L. e la
scienza dei mostri in Europa, in Atti del Congresso della Società italiana di
storia della medicina, Padova, Trieste, Padova Re, "De lucernis antiquorum
reconditis": il capolavoro calcografico di Schiratti, in Ce fastu? Lohr,
Latin Aristotle commentaries, Firenze, Basso, erudito ed antiquario, con
particolare riguardo agli studi di sfragistica, in Forum Iulii, Basso,
"Fortasse licebit". La marca tipografica di Schiratti e l'impresa
accademica di L., in Quaderni Artisti Cattolici Ellero, Ongaro, La scoperta del
condotto pancreatico, in Scienza e cultura, Poppi, Il "De caelesti
substantia" di Ferchio fra tradizione e innovazione, in Galileo e la
cultura padovana, Santinello, Padova, Kristeller, Iter Italicum, ad indices.
Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. sapere, De Agostini, Dizionario
biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ruff. L.. Beerbohm: “Send me
a letter; I live in Rapallo.” “How should I address it.” “Beerbohm, Rapallo”
“Do not worry, there is only one Rapallo.” “Vico L., Rapallo” – “Statua a L. da Rizzi, Spinelli
Roccaforte, Padova.xstril. minnstiii UAiTiO Stjftdsb iupon Ratfatia in IV
libros De his, quidiuvi- P uunt fine alimento. P1?- 1 in quo
eaptobatissimisautonbus afferuntur obferuationes eorum, qui vitra biduu . ab
omni obo potuque abftmuere. Abstinentiae vana: intra fepumam diem conclu-
.ffaec. Abfimenu, a iepfmo ad decimum diem extenfj. Abftmentixi decimo ad
vigefiraumdiera protc- fe.cap.£. Abstinentii ad mensem produAfe. Abstinentiae a
primo ad tertium mensem produ-. Ax. c Iehmium populorum Lucomonae ad quinque me
des quotannis mire productum. Abstinentia Oftimeftns in muliete Patavina.
Abstinentia pueli Tufer ad feitumdec unum- Spiritus non aliaere. Aerem in mitto
vivente non ali aere intrinlecus quoraodocunqucattra Ao.lenem in mitto non
abfumerc acrcm. Partes animalis 4 przdommio aereas non ali aere inspirato. nui
Aerem hunc, quem inffiramus, non efle alendo et creari c 'i t. fpintus. Ad
nutricationem metaphoricam non semper cd- sequi veram Rondelctij difficilis
alfertio. Soluuntur argumenta quibus nititur pnor opinio, mensem protradla.
Abstinentix ad II annos produAx. Ablhncntix ad III annos protenf. Historia
puellæ Spirenfis quadriennium abftinen- . tiscap.it. Abftinentt a quarto ad
duodecimum annum de- duAx. Abstinenn vitra duodecim annos longissime pro duA
varia exempla. Abstinenti $ diuturnae incerto temporis spatio adi' mentr.
Difficultatem negotii nos retrahere non debere a proposito. Curante omnia
oporteatnos aliorum dogmata de Chatnxleontcm, ac Viperas non ahaere propol i t
c tpeudere. inqua omnesaliorum opiniones examinand breui catalogo numerantur.
tn quo examinantur sapientum virorum opiniones de natura et caudis tam diu-
turni lciumj. Opinio Argenteoj et aliorum exiftimantiu abstmcntcs nomos nutriri
aere inlpirato. Cancmlcucm et Manucodiatam apud Indos non alucrc.Secunda opmio
Medici Clariflimt ex Augento, Si . M a nardo contendentis abstinentt ncftrosalf
odoribus, fle exhala tione aerem obfidente car Examinatur propofita fcntenua,
&: primum often diturnon elfe in topi acre vaporem, ac cxhalationcm.cap.a».
Exhalationem infpiratam vi calori? humant non pofle cogi in fanguincm.St^
alimentum. Exhalationem non alere 1eiunantcs. Expenditurallata opinio
demonttrando primum Non omne fapidu111 alere. caloris aAionein humorem non elle
conti- nuam ;caqueiugi, nonidco affiduam clfc debe- re nutricationem, cap.i.
intus in animali aereos non efltjfcd igneos. C. J. aimores proprie non
ali.Spmtus in viuenni corpore r,ou nutriri.Odores non alere,quia non funt
miftorum fpccits, prima ratio Arifiotchs aduerfus PITAGORICI c1phcatur.cap.2d.
Secunda ratio Anftotclis LIZIO demonttrans odores n6 alere, quia per coAioncm a
calore non podint ex odoribus excrementa lcgrcgan. Omne genera sed vnicum
ottcnditurj nec ali omnia qiuecu que diffluunt in viufnteA^" reftauritionc
indigent. Acrem ml piratum pon efle miftum, nec adeo ut fit alendo corpori.
Explicantur allata dogmata Galeni de eo quod ctt ipiritus aere nutriri, J.
Alexandri, Nicolai, CICERONE, ac Thcophraflirii- fla confiderantur.de eo, qupd
eft att:m alerem fpiritus,& calorem; et ad A rittotclis, ac Hippo- cratis
ccnfuram rediguntur.tf. Hippocratis afiettio dc triplici alimento illuftra-
tlir Olimpiodori. ic Platonicorum dogma 'de horni mbus acre, ac radijs
folartbus enutritis expendi tur.cap.primo noridari trianutrinientorum trrfs T
Omnealimentum, feuexternum, feuinternumco coqui deberc, coftioneque
aberctementispur- Odorem n aloris ita concoqui non poffe, vcab excrementis
dicatur expurgari quia limplicem, l'eu nutriendo corpori omnino diflimilcm
naturam obtineat, Ab odore vi caloris concoqnenris nec tenue, nec craflum
fegregari excrementum.cap.j». Tertia ratio Arillotelisoftcndcns odorem nonale
requiacoftionea calorenonincraffatur.cajt Quarta ratio, qua Ariftotcles probae
odorem non Ci£,& quandopropemare ambulantes falfura. re fenrianr, et alsarum
faporem quos prope ab- finthii fuccus agitatur. Tertia opimo doitiilimi Co/lii
prxeeptoris exiftf m.mns abflinente» nofttos aqua enutrita» primumofle- Propoli
ta sententia confideratnr, ac Ari ditur ex autorita te Platonis ^Haiqpupoacmrantoins
a,lere, ftotehs, Galeni, &Auicennp cap Aquamvi
calorisnoncraflefcere,ideoqu-everH ahftinentemalerc. Pvrauftas non ali
exhalatione illi connmili cremento arugmeri fine ten^ imminutione, o. Plantae
non Canemleucm non ali rore, Manucodiatain rore non pafc1. Argumentum duci non
polle a brutomm alimen- to ad nutrimentum hominis. Quo fcnfu verum fit Quod
ftpit nutrit, Exhalationem acri permiftam efle fapidl t Exhalationem non efle odoriferam, et Allomos
noneffe, quiod oribusnutriantur, quicqurdFici nusfenfcnt. Democritum, Homerum
odonbus vitam libi prorogafle ceu medicamentis, non vt alimentis. Animo
delinquentes odotibus recrearr non ut ali- mentis,fcd vt medicamentis
Hippocratis dogma vulgatum de ctlcir nutncatio Aqua nihil inefle lcntiatur,nec
epota ne per odoratum lUuitratur non poffc in alendi fubflantiam.
effealendocorpori, quianonferaturadmem- Aquam coflione non fienfimile malendo
corpobra nutrimentis dicau. Quinto confirmat Ariftotcles odorem non alere, quia
nonnifi per accidens fertur w fontem ali- menti. Odor effe medicamentum, non
alimentum texta ratione probatur, Ccnfurare fponfionum dcraonftratiombus Antro
telicisab Argcntcnoallatarum. Respondetur ad argumenta, quibbs nititur fenten
fupenor, ac primum oftendirur exhalatione de terra Turgentem non ubique pntfto
fuiffe abftinentibus, nec effe milium, cap.jd. Bxhalationetn odore tciro
afferam efle, lapidam ri,vt decet alimentum cap.do. effe Aquam non effe tale
mtftom/juale oportet ali roentum.capdr. Aquam effe vehiculum alimenti,
alimenniracap.dx. Satisfit rationibus quibus nititut et propterea non aliquot
primoque decernitur cur ablhnentium hu- aquam potarent;
quoniarmadpiocualbeihc,afpm^c3- mido inftauretur huraidum Aqua nec plantas
ali,nec aquatdia. campf.t Arfu.mcnto, Vium non feruartccaalloroirse
pvarbualnoi:mc*alorem vtcon- humorem non efleaquammec aqueum. Aqua non reftmn
quod aqueume corporibus ef- fluxerit.cap.dd. alimento, &cauf carnem, 5tlac;
quxpluatpoftca. AquaexAnflotelcquomodofit obigratia,fi noneffe.Exhalationem a
calore non condenlan. Exhalationem in acre cogi non poffc infanguine Qua
ratione potuerit animalia pluere,ac fpeciatim vitulum, pifces,ranas,atque
lemmer. Hippocratis dogma illuftratur de cxhalatrone ve Solis attrafta ex
animalium corporibus. Rorem non effe vaporem vi caloris c6crctum,ncc alimentum
cicadarum.Mannam non fieri ex vapore vi caloris dentato in aere,nec folam alere
poffc ad Hxbraic mannas difcnmcn.Mei non effe purum rorem concretum, nec tale
quid fine alio nutrimento diu pofle hominem fa ftcrilitatis,& pilobus
affumatur non vere alit adeo ex igno,
Animatu quomodo conftituantnuurtriantur aqua et aqua,vt moucanlur nigonee,ft
vere alimentum. Hippocrati; cui aqua cap. femper ex morbo intermitti funiiiones
vitx: quxue operationis lilio morbum fequatur. cVigelimaquinta opinion
Qucrcetanireferendsab- ilinenttx caudam in petrificationcm partium . ventrisimi,
& nutricatumaliarumexaere,ac odoribus.Expenditurallata lentenda offendendo
longum ieiunium haud ortum ede a pctnficatione par- tium naturahum,& a
nutricatu aliarum cx aere in vlkiabdinente. Soluuntur allatx rationes hanc
opinionem robo- rantes, de dilcriminc inter Ecdafim,ac fom-
num;VinterEcdafimgrauem, acleuema- gcntes.cap.aoo. viralianonaerenutrita,
necalijsvitamcommu- Vigcfimapriraa opinio Podhij afferentis homines diu ab
alrmemo abdincre, anima illorum pec cataphoram,& intendorem fomnum vacante
a proprijsofficijs. cap.ioi. Examinatur, et improbatur opinio decernes ab-
ftincntiam diuturnam abalto,&t_ profundiori fomno prodirc. Refpondctur ad
argumenta de (omni differen- dis, et de longum tempus dormientibus,
Vigefimalecunda opinio Benedilti, Montui,& Mercuriales dicendum caudam
longi iciunij ede condri&ionem cutis, pororumque occlu- fionem quidquain
ecorpore diffluere non per- uri ttentem.cap.2a4. Expenditur allata lententia
demondrando vfum, ac necelficatem alimentorum non ede abfolute indaurationcm
deperditi, fcd m alium finem : nec ita meatus omnes occludi pode,vt nihil ef-
fluat ccorpore.Soluuntur Beucdifli, et Montui radones, oflendendo cur cxlum
alimends non egear; et quo- modo corpora, c quibus nihil effluat, ali vanicade.
Vigefimafcxta opinio decernens abdinantes no- ftrosdiufinecibo,
potuqueviuercviherbx, ac medicamendcuiuldamfamem,fiumquepellen tu. Expenditur
allata fentenda offendendo abdinentesnodros nullius hcrbx, autmcdicamenu vir-
tute adeo longum pruduxideiciumum. Occurntur argumentis allatam fentenuam
corfir- manubus, confiderando naturam herbarum,& pharmacorum fitmem dumque
pellentium Vigclimaicptima opinio ex Valeriola referens caudam aiuturnxabdinendxin
puram confue tudmcm.Expenditur propofita fentenda, offendendo contuet udinem
non patere tam longam abffinentiatrc r.
Satisfit rationibus viri Clariffimi, offendendo qua rarione medicamenta,
&venenanonagantin. aduetos;&quomodofc habeat confuctudo ad cibum, et potum,
cap.aaa. Soluuntur argumenta Quercetani odendendo ab (linentis vilcera
naturalia non fuide petnficata; libri Capita centum Prifatio, inqua& difla
dicendis attexuntur, tam mitti Diftnbuitur viucnrium genus m fuas fpccies fupre
Ariftotcli mus.cap.r. minem Quomodo fe habeant ad alimenta propofira vi-
ucntiura fpecies vniucrfim. cap.z. Semen animalium St in vtero, extra vtrmm .
femper viuere fine alimento, In animalium mortalium genere aurelias, 8r nym
phas appellatas nunquam vllo alimento vri: co. paraturque generatio infefli ex
verme cum ge- LIZIO in tex- pofle Ariflo neratione hominis. Semen plantarum non
tota fui vita, fed tamen fine alimento viuere.Oua diu fine alimento viuere,
quamuis non diu peratione viuere ex definitionibus nflotcle promulgatis,
Deducitur hoc ipfum cx tngefimo De anima. o- animae ab A- fexto fecundi vitam
fine alimento viuant. cap.tf Ligna,fcu ramos,&arboresextra humum totam diu
fine Adijcittir his definitio vira in Tamis exarata propofitam iniermiflionem
nis adftruens. naturalibus nutricatio- alimento viuere. Stirpes terra infixas
diu, ac fpeciarim tota fine alimento viuere pofle. cap.8. Brutorum
imperfeftioris naturi plurimas hieme Ariftotclihocidemplacuiflcin Moralium,
primo Magnorum diu fine ali mento viuere pofle: ac fpeciarim icuinio, &ortu
brutorum viucnrium intra ioli- diflimos, imperuiofquc lapides copertorum.c.
Aues quampluresdiu abftmere incolumes, c.ro. Pifces diuturnam
tolerareabftincnriam. cap. Tcrrcftrium brutorum perferorum plurima tumumagere
ieiunium. cap.r Homines diu a cibo,potuque abftincrc pofle.c.r Quotuplex,quique
caufla dc propofito nobis inquirenda fit. Quotuplex,quiquefitcommunisidea
vniuerfa-, lilque forma diuturni abfhncntra. y. E quibufnam fontibus hauriantur
argumenta caufla efficiens urqs abftinentes non ali confirmantia, Homines in
diuturno ieiunio nutriendi Quid.dr' quomodo radicalis humoris a calore nanem
intermittere pofle ratione aninra. Nos diuabftinctes pofle a nutricatione toto
co tf- penitus prohibere peffit. ponstraiiuociari corporis habita rarione. De
differentia originis xt 8. citra vitfdifpendiuhabitaquoqj ratione caloris.c.
jr. iqualitatum mifli, deque Homines diu pofle nutriendi munere priuari ongtne
radicalis humoris. Differentia cflentu tnum squalitatum eflcntia natiui calonsfliumidique
dicalis explicatur. Pofle diuturnam nos agere vitam citra nutrica- tumex
ratione vira, fcu viuentis totius, quod ex anima et corpore mediante calore
conftitui. tur. Diu intermini pofle nutricationem abhomine ra- propofi-
tioneipfiusmct nutricationis. Diu pofle intermitti funrtionem alendi ratione
peramentorum, miflorumaqualium tcfcunt; a quibus feiungirur aequalitas humoris
primigeni;, Differentia promulgatarum ipecierum hu,, om- natiui mons
quicalorifubditusefledicitur nino ratione fpirituum. Confirmatur diu fine opera
nutneatus viuerepoffe homines dc lententia principium autorum, ac pnmum
Hippocratis, Nutricatione diu intermitti ex decreto Ocian diu nos pofle 3
nutriendi munere penes durationcm. cap Qui fitiqualitas impediens confumptionem
Celfi.c.14, ad aures Galeni ex illuftn fentcnria m opere it lotis ait hu-
natiui, SC humidi radicalis reperiri pofle. . et humoris naturalia Quomo-
ffir.- caloris, I tvi dicendorum ratio, naturaque proponitur. Liber Tertius,
inquoexrei natura difquiruntur caufisephyficx tara longum ieiunium confti-
tuentes, efficientes, conferuantes, terminantes, ac diftinguetcs cum generarim,
tum fpeciarim. fpecies Hominem diutius nutricatione intermittere pof- no- 1 6.
funflio- diutunra huius abftinentii. ' Aequalitatem virium in homine diu
fcruari pofle. de lc de mente LIZIO in
y. problemate prtmit 1 j. diu-
frOionis.aif.j6. LIZIO fuppofuifle,ac potius exprefle 3. Laurentio
nutricationem vira ncceflariam non fe.cap.3p. ef- Idipfum confirmatur ex eodem
Galeno Corrtcli/ fententiam approbante, propofi- Confirmaturhomincmfine aflione
alendi ftercpofle conii- diu de mete Galeni excorni 1 feOionis. t.a'phor.
Operationem virtutis nutririuse in atrophia ex Auicemra fententia. quoque
pnuatum aflionc nutriendi viuere pofle intextuij.hb.i.dc Confirmatur id ipfum
ex eodem tu -e1ufdcmoperis. Nutricationem inviuente intermitti ho- anima.
teleautorein yltimo problemate dteimtt fOiorir. Confirmatur hominem
pofleabfquenuiricndi dccreuif- fe viuentia funflionem alendi poffeintcruutte-
re, quod ena notauit Auerroes s.dcan. Marcello nutricationem in viucntibus
pofle. intermica Colligitur forma, 8 idea vniuerfaJit abftincnrra noftrum
iciunantium. Quptuplex,qu*qile fit vniuerialis riuo confumpeionem. Quotuplex
efle pofllt qualitas in mifto. ?. tarum; ra Difcrimen trium earundem
xqualitatum ratione leuradicah. squalitas quantitatis diferera; vnde mnumcry
fpecies moris radicalis a calore nanuo. Æqualitatem caloris quoad virtutis in
homine inter- teinno- caloris Quomodo aequalitas virium caloris natiui, er fe
fitim procreent Vt allinentis per fe non refrigeretur vlla ratione-, calor
nauuus.Anflotclis difficilis locus explicatur de refrigerio calor.s ab
alimento.Galeno nem alimentum non refrigerare calortm natiumn, nili per
accidens, fed per fcilluin au- gere. Vtalimentis augeatur caloris innati
gradus, feu qualitas;nonfolamateriacalida exercitatio ; cumdortilfimo Fcrnelio.
do. Vt alimentis non pofiit caloris virtus mtfdi abfq; Vt verne melerei de
ventrtenld, inteftinis f» gant alimentum non expertato fine cortioms. Vt folia,
ttores, frurtus, et femina plantarum pars tes vere non fint, fed excrementa
potius, Vt cx co, ouod oua,& femina
citra nutricatum vi uant,colligere polfimus perferta quoque anima lia vitam
polle traducere ablquc alimentorum vfu. co quod fubicrta calori materia
augeatur. Vt anima nutriens artum habeat immediatum, et Curnonfintfrequentioresnofiri
abfiinentes, fed proprium, in quo edendo no v tat ur organo cor» porco. Calorem
natiuum in nobis,quin etiam ignis riam- tnamapudnos, non indigerencccllario
humoris,quo vcluti pabulo nutriatur, Cur calor humorem in milio, et in viuentc
prxfertim d:palcatur,& intentum procuret, exercita- tio cum liibtililfiino
Scaligcro. Vttn Ecllali ceffct anima nutriens ab alcndimu- nei4.Vt Ecftafis non
Iit priuatio munerum animi intcl ligeutis, exercitatio cu virodortiliiino, ex
Sca- ligero.dd. Vehementi fiupore^hjsque plurimis de caudis de 1.
Jertabanimopolle omnes nouones, et habitus, c Vtalimentivfusnon
fitadrefiaurationemde per- di ti,fcd ad auocandum calorem a cita conlum- tione
humons: exercitatio cum Magno Al- crto.cCur femen maris in vtero femina:
concipientis no alatur.Vt IcmcnnonIit parsanimati, inquoeff.Vt ou»iubutntancaliat
ammata. Digil qt fit mK cuerti naturae
lr| Calor, definiendo^ non^UfrAr.Vt calor iniitus igneo pro| iCrefpondcnscoi
cum femetipfo coUlgaturitluod vcgcticficak.re,&hieme tiamehushabeant. aa,.:j)
mi Ha.t.gMUlCi fsklJlli l"v'i fcwnq..4,..V«m .t {}.{ioli 1. :S utrori'' 1
1 ) r tluf. tvi. 11 . 5 . un. l M-k 'V' t -'iiklia^. Ohtvn.i, i!,» lRttift j 1?
' m. .j.j.il r.cvt .1 r4 .1 a» c ii t.ojSjva nm.iinhijjafc. Btiftt remtr.il
buUma ttiu^ bi' iV. min vituentCe fiuniftionecs
UDt inirn^» marica Mntehumorem abfumert.dicatur. BnOoniidoaw» rf.u.
bkrAt^natnitii\«i>.tthtij . t .1 Sei.t e«10»rilrurfvht 1 ? 9* i >v fp
wuiMe''•{! a.l8-t. aavttt '»wj.iW'i'i :.!.wtvers qiRt . J.vrf>u.*-c tiVa
humorem \ .s-u.-ue. K.,i .1 i/.XIA'VtrQ\i,' "i'l 9\a.1r’.av.iii.pi iA.ivr1
As.ftla,i),at;yi juajm.ih. i1riumdicaviipfuiacunfuaitre
Yalcat.0^.1^AwimtarUiAnti«naV.v,?y..«ri*a:Trium Cupidinum; Voluptuofum tyranni
demin Animæ facultas, concupiscibilisvtin anima vin Amotescur Alatifingantur.
Cur Amores Nudifingantur. De Amoristergemini pulchritudine. Amor curnoncæcus
inSchemate fidus. sa, gercnsincacumine volucrem, et caueam De fructuarboris sapientiæ,
nostroinSchema Inter.viros altafapientiaprestantes, efequi
nonvocedocerefintapts, fedtantum, Schema Gemme. Sapientium,sciendi cupidos edocere
valentium, tresesseclasses.Coruicumviro fapientiæ scriptore detegitur analogia.
Schematis Amorumtrium explicatio Medica. Devolumine Mufices, invnguibus Coruimy
ab Alciato, consideracur. Schema Gemma. Explicatio viri eruditi de Amore
nocturnas Amoris origo mirabilis; a Platone polica,de Defrondibus Aoribus
hwnanæsapientiæ. claratur. Amor voluptuolus veergabellicum, et litera Amor
fapiêtiæcúrnuduse fictus. Decer gemina significatione ftellæ prælucen. Amor
sapientiæ curalatus, et quænam finteius cisin Schemate poni caput
viripsallentis. Alæ. Quomodo fapientiæsymbolumsitarboranno Amoris
Emblemanoftroperfimile, propofitum voce tantumodo docere valeant. Schema primç
Gemma. De arboris in Schemate piata coinparatione 16 busomnibus, modo fcriptis.
geminos Amoresprobaspassomexercere, çatirascibilem, et rationalem, Amor cur a
veteribus Diuinitatc donatus, Explicatio Schematis ab incerto propolica
consideratur. Yeiundas. Depriscis Anularium Gemmarum Sche maribus cxplicandis.
Amor sapientiæcur, præteralas,adhibearetiam brachiamanusque geminas,
quibusfuniculo riuin impcriolam tyrannidem exerceat. Sapientiam apprehendi ab
Animo Doctrinę Humanus animus crga sapientiam cur se habeat sermone vocali
discendi cupidos crudi. ente :primumque de biformis inferoa parte fticicanentis,
repræsentat (1.. Inter viros dostos inueniri, qui non fcriptis Amor sapientiæ
cureffictusingemma puellus Supremamonftriparshunana declaratur. Vt Amor
pusio,corporepusilo imocens, arq;moribusfimplex gallum referente. Pientia
comparatur. ad arborem scientiæ boni et malı, dudum a De fru&u arboris
scientiæ boni et mali, primæ uæ in Paradiso cantilenas ad amicam personante
perpen duplicisecollarinaltum. Responsio de Veterum Gemmarum ex- Demagnoconatu,
ingentiquelabore, quofa plicationcadcunda. Amoris differentiæ tres cxplicatæ.
Cur Amores ætate pueri fingantur a veteri sedulalectione, acintenta
Aufcultatione. Schema Gemme. ditur. Propria proponitur explicatiode viro
fapien. Amor fapientiæ curingem mafi Ausefteffigie DeBarbito,
seulyradigitishumanispulfara pusionis,acinfantis. Deo in Paradiso creatam .
cedelincatæ. Pror Proposito Schemati
comparauraliud Fabij Septentiam Viricl. hocsensusunprám, nocon cundiatoris,
exterminatione confiftere, Schema Gemmę. uenire Schematis imaginibus,
oftendirur. Propria Schematis explicatio prior eft, de Amico veromọitain Amaci
et defunctime. De Armış offendentibus, Heroico Amoribel licodatis in Schema re.
De Cun&ationebellicaper Amoremftantem Proponiturexpofitiopropriadeamorę Ca.
indicata, tofis: cap.xlvi. postulan. Amicum verum inaduerfitate dignofces, cile
fót: vél Tetbydis, aut Veneris Amores:vel Ægyptusludens ditur. Prima cxplicatio
noftra moralis, de formola Peleum, velVencris ad Anchisen delatione,
formofitas, do oscaffo, Şecunda Schematis explicatio, de Amico Pulchra mulier,
permarevitavagarsadare De Amoris bel lici clypeo hieroglyphicum, Cur Amor
istebellicus Pedes,non Equesef, Super incrementa Nili. Amici de funéti memoria
femper in corde confer. raptaproponitur, &adhistoricamfidemrc digitur,
Amoris bellici, ro, qui dignoscitur in aduersa fortuna, Schema Gemma, exarmati,
pendicur. indignacionem.cap.liv. Coniugalis Amor armis offendentibus expolia.
Proprja sententiaproponitur,quæ’est,obocu losooni Schemate noftro proprietares
Amoris irascibilis, fiuemilitaris: primumque de Schema . Gemme. Index
Titulorum, De Amoris bellicivultufæuo, seuero, actan. Explicatio
Schematisacl.Viropropolita, de cumnontoruo,minaçique. De propria significatione
Galeæ incapito dicitiam Matriş-familias. Schema Gemm &. De Amore civili,
qui vocatur Amicitia, vt a tri muliere,quæ nimium extra domum vagans ad
arbitrium,vel eft,vel euadit impudica, yanda;& Amantem non
redamatum,indi- Propria explicatio Gemmæ
proponitur, de gnabundum extinguerequam affectionem, Schema Gemmx .
Triconepulchram Nympham marinam yo, Aliena Viri cl.explicatio,de Amore monftran
lentematq; lubentemcomplecterte, perqs maria ferentc. redamato, syum Amorem
extinguente per Amorem Heroi cummilitiamagisin conferuatio Secundus eruditi
viri sensus explicatur, et ne Ducis, et Exercitus oportune celeris, et cunctantis,
quaminhoftium expenditur, moriam eonseruante, Opinio, dicenshocese
hieroglyphicum Amo Secunda Şchematis explicatio, de Amantenon ris
concupiscibilis per visam negociofam corpore milicis generatim. De Amoris belli
ciceleritace, perAlaşindica- CupidineindigneferenteSibifpiculanegari a
Venere,proponitur et expenditur, filius in Schemate noftræ Gemmulæ, IN
SchemąGemma Smithi anaexplicatiode Nereideper falum Amicus vs que ad Aram Amico
illicila busantea declaratis, Concupiscibili, Ra. Secunda explication fabulofa,
vel Tethydisadrionali, et irascibili contradistinguitur. Opinio ponons hoc esse
symbolum Amorisvo- Terrinexplicatio physicade Ægyprolafciui luptuosi,
expenditur, entesuperincrementa Nilio Rapina puellas dealiasrespulchras exponit
Propria declaratio prima de Amico vsque ad Aras., Fur et pudica Maire-
familias. piugali, exarmatospiculisoffensjonisperpu bitrium, velimpudicaeft,
velimpudicafa. equo marinoveda, proponitur, et cxpene Sententia virieruditide
puella vere a Tritong tccun&ashumanasr esessevanas, proponi- Secunda
cxplicatio,deTijroneraptāpuellam tur, et explicatur primosensu
noftratélubvndasasportāte, Tertia Capicum Operis. Tertia moralis eft
explicatio, depiratis,acpræ- Deoratione Mentalisubhieroglyphiconudæ mortali.
Propria Schematisexplicatio, declarans spe tem et faciem interga versa in,cumligneum scipionem.
cDe forma templi Delphici in Schemate. De consulentis Delphicum oraculum baculo, Mundi Systema,
partesquevniuerfuminte. grantes, explicantur. ASTV'S DEV DITVR ASTV. In cogniti
viri explicatio indicata ex senis datotibus, aliisquemaritimaclasserapienti-
mulierisgenuflexæ,sedentis, et vicumque busresalicnas. Sententia C l . viri, de primo quadrigarum inuentore
proponitur ac expenditur. Oraculorum Diuinorum propriumest, homini,
deEricthonioaPallade, ceu filiofpurio, et tanquam presentes. Schema Gemma. De
Papauere, simulachrosomni,aquoprima De rupe templo Delphico subiect:. Propria fententia proponitur primumquecal
sumitexordia et inquodimidiumsuædura
giliapatratarum, perenneinin conftantiam. Proprialententiaproponitur, et confirmatur,
impuro proicãobus euentus futuros demonftrare Schema Gemme. Aliena
declaratioproponitur,& explicatur. ciarim arborem in lacus propeod ntem,&
hominis cõsulentisoraculum cumpailijpar De Papilionc, significante breuitatem
humanæ vitæ. De Simulachro in templo Delphico. De Canopo, Deo Aepytiorum,
superante Iouis figura vesitaptum Terræ hieroglyphicũ. OratioVocalisatque
Mentalisvnacon pirantes Pallas nuda ve fignct ignis Elementun . Deum flectunt,ob
efficaciterexorant. Schema xiv, Gemma. De Mercurij ligno, Elementum Aeris repræ
de Detribus orandi modis antiquis: ftatario,ad Beneficij,
velabrutisaccepsi,Deumefegratum remuneratorem geniculato et sedentario. decoreftantis, ambabusmanibus Deocor
offerentis. Deque antiquo more tenendi Pallijmotus in terga declaratur.
Explicatio noftrade Mundi Syftemate,parti tumAquæ.cap.xci. uariælymbolummedium
explicaturdevita Dc Rota,lignantehumanarum actionum, invi. Schema Genoma.
Tionis habet humana vita. De Vrna sepulchrali, ad quam terminantur a&iones
omnes humanæ vitæ mortalis. Schema Gemme. Deum Chaldæorum Ignem, viâorem omnium
aliorum Numinum Gentilitatis. buiqueintegrantibus, proponitur; primum que
Zodiaci declaratur imago, pro toto Cælo.D e oraçione Mentali vereres profanos
egisse. Facici mira versio in tergus explicata. Schema Gemma, corroboratur.
Voca- De Nepturo, repræsentantetotum Elemen D e viribus et proprietatibus
orationis lis, atque Mentalis, Deo
Accendo p orrigen . sentante, Poeta HEROV M FILII NOX £ . autoribus proponitur
et Humana vita eft morsvndique miserysobfella. expenditur. De oratione Vocali,
fignata per mulieremic. miamittam, quædexteralacinian tenet,fini- Schema Gemma,
Explicatio Viri Cl. re&taproponitur, et latius ftraserpentem porrigit. Aras
ab orantibus. Poetabonus, ad Lgraincanerenescius: vel Propria Schemaris explicatio proponitur, de
canere nescio. Secunda Schematis
explicatio depromitur ex pium natura generica, Proserpinæ Schema Schema Gemm
&. ponendis apre
facilequedislidijstum ánimo rum dilceptantium, tum corporca violen:. Noftra
explicatiode Ducisexercituumeripli- Sacrilegus Brenus ad Altaresempli Delphici
ciproprietate. Tertia declaratio nultra de Amoris genitabilis fcibilis et
Rationalis, explicari Schemare. Produnturin Schemate. mortem fibi metipfi
sponte conscisceredebuis, Auroranettens Atheraterris,prouchit oria diem .
Schema Gemma. Aurora diejnuncia, celeriterorbem terrarum circuit. .
tiabelligerantur, setranfuerberat. absolute, frustra laboráns. Hesiodo poeta
bono carmita sua ad lyram adagio veçusto
de viro fruftra laborante. PRINCIPATVS ANIMALIVM, Ducis exercituum
proprietates: Amorisgenitalisimperiosapotestas, G Amoris tres differentia,
Elementa vitalia. imperiosapotestate.
vel Ampli il regna benegubernantur, Explicatio viri Cl. de Principatu
animalium. altronomo Lunæ, liderumque seruante, phasesob- De Ajace semetipsum
interficiente, gladiodu dum ab He&ore sibi donato terramcum
Plutoneraptoremanente,totie dem supracerráapudmatremdegente,my. Num
Sahemapossitintelligi.dam fra&tam supplente,affertur,& expen ditur,
Schema Gemma. De Cererisfilia Proserpina,sexmenses intra Amoris
tresdifferentias,Irascibilis,Concupi Elementa viuentium fcracia,& altricia,
terna Anonymisententiade Decio proponitur et
cxpenditur,obferuatoris hieroglyphicum. Schema Gemme, numpoflicimago
Schematis interprecari.Explicatio fabulosa, seu poetica viri do &i de
Schema Gemme. De Mercurio Canicipite, Regnum Acgyptium optimegubernante, Schema
Gemench. De viribus Sapientiæ, ac Eloquentiæincom. Ajaxfurens, ob Achillis
armfaibi negata, Schema Gemma. De Catone Veicense, semetipfum cõfodiente,
Proponitur explicatio propria,de Brenno, Proditoremnunquamplacereviroforti,
etiam cui sot vtilis prodirio nesati hoftis, Schema Gemm. Explicatiovirido
&ideCicada, citharæchor Pulchra fæcunditas, a terracalore rapta, fex
menfeslater intra terra viscera, totidem. que fupra terram in aere degit, C.
Sapientia, don Eloquentia litigantes, atque pugnantesanimos apsefaciley,
componit. Aftrorum Lunariummotuum et phasium Endymione a Diana ad amato.
Propria Schematis explicari o proponitur d e Gallorum Duce facrilego, qui
semetipsum confecerit ad Aram Apollinis in templo Index Titulorum, thologia
cómunis explicata. Propria explicatio de vegetabilium, feu stir te,
fabulisquerepræsentata, Sapientia, et fortitudine,fagaciqueprudentia De Bruto,
separiter pugione confodiente, Delphico Schema Gemme. De off Au Cæsaris
accipientis caput Pompeij Magni a proditore, qui virum interfecerat, Schema Gemma. Larma. fiueperfona Dramaticum
Poctamoftendit. Sue prijci sacrificabantvbigfingulisfere Dijs
vitaprecellentibus, ta vetusta. AftNo .
Schema Gemma, Schema Gemma. Virtute fortunamsuperari. Dc Qliadrigain
Anulosignatorio PlinijSca cundilunioris,& Rana fignatoria Mecæna eis.
tasmaximoperedecet. Schema Gemme. cultatibusin columem. Martiales virimulierumraptor
esprimi, par: Centauri cuerentis, et fagitcantis tergeminum novelfatuplenum, et
excrinsecusoleolisi. Generofasindoles educaridebereab Heroibus ujoueperundum.
Lætarin eminemo porterefraude; quum et ipse consimili capi valeat. cPropriæ
fententiæ declaratio, devitæconcemAmpli Dominij splendor non ofuseatsidera viro
Virumingenio, probitate, fortitudineque polen? thiuminbono Principe, Magnoque
Mini, Stro,quem taciturnitas atque celeri. sememergeredefawienrisfortunediffi
Gerimis Anulorum insculpiconsucuisse vultus gemina, fugax, dprocax,
mysticerepre. Jenialacalefti Sagittario. Insignium virorum, adillorummemoriam,
cultum, et imitationem. De Hominisin Alinumtransformationeper maleficā libidine
abutentem myfteriumexplicatur,primumquedeScr monishumanidifferentia,&
velocitace. Veterumsaltatio Iudicrasupervtresplenos, et
extrinfecusvnitosexplicaia. Eodem Hieroglyphico denotari humanæ vitæ naturam
fugacem, geminaquc differentia De vererum ludicra (alcationesuper vtrem vi.
Schema Gemms. Personam non attribui PoetæLyrico,vel Epi- Chiron Centaurus,
vtviruina&uofæfimul& contemplatiuæ vitæperitumindicet adomnia:jeaprecipue
Veneriadpuritatem coniugý; dfæcunduarem prolisinNuprijs. Schema Gemma. Furum ex rapto viuentium antiquitus
condi Schema Genome, De SacrificioSuisapudantiquos. Fraudulenti pari
fraudecapiuniør: do Vitecontemplatricisverumacgenuinum hieroglyphicum. Schema
Gemma. Gandium& Mæror viciffomfibifuccedunt. Schema Gemme. Anonymi
sententia perpendicur de Psyche Pyralidisalasbabente, ansit Animesymbo
fomquediffamati. Humani Sermonis ; do bumana vite natura in actuos apariter et incontemplatrice
Schema Gemmt. Furacisrapacitatistypus,& inftrumen. Virorum infignium
imagines Anulis in sculpifo: litas,adeorum memoriam, culium,
Mulierumraptoresprimos,& paffim fuissevi ros bellicolos. imitationem.
Libidinis atque Magia prauapoteftasingens, Schema Gemma, virtutis, et vitijdistinctam,maximeque
libi. dinosam. Cole delle proprium symbolum Dramatici. aprum cducaregenerosa
indolis adolcicencs. De Marlya geminatæ tibiæinucntorc fabula menio
latjusexplicato. Schema Gemme. Schema Gemma. tionesexplicatæ. lum absolute.
Platricisintimis attributis. Atuosa vita prima species Bigisinludorum Alia
Panos explicatio devniuerfo proponitur. Circensium Schemare currentibus
hieroglyphice interpretata. Aftuofa vita secunda species, Moralis&Actiua
lufta Zelotypamulieris indignatio, familjema eft: nuncupata, Quadrigarum
fpectaculomy. ftice representata. Schema Gemme de Equo
Troianoproposita,&expensa: Propria Schematis explicatio primumque Darctis
Phrygij deNaturalicu narratio. piditatesciendi. Virorum Heroica virtute
preftantium vultus Potentiorum præde opulenti: Telluris occupatio apud antiquos
merorieac imitationis ergo Dilly's Cretensis Ephemeridum inuentio communis
receptio. veterum, Achillisi mago qualis, et curin Schemace. vltionem, Bigarum
cursus in stadio ve indicet Artificum vitam effe&ricem. comprehendere
fatagientis. Responsio LICETI denneac formasuisymboli Schema Gemmik.
Sophiftaperimitindocius, adoctisinterficitur in literario mundo. Quadrigarum
cursu signariviram Adiuam, Naturalis cupido sciendiqu. erielatentesrerum
præcipueque Milicarem. que Aduerfus hoftesinbelloiusto,dolis Schema Gemma,
expenduntur. cap.cxli. paratur, ac de singulis tribus censura pro mulgatur.
interitus, Schema xlvij. Gemma. pafjem effigiatos. haberi. a fortioribus:
Agraria Legis occafio, do ego Amicitia cogens ad iustam
PerfeisimulacrocurfignaueritAlexander, cur vsiveteresin Numis. Multiplexænigmatis explicatio:
et primade potentioribus diripientibus aliorum opes. De Anulis, quos
adsignandum habebat Magnus Alexander. Secunda Schematis explicatio nostra est,de robustioribus,terræ
dominium, acpofsef Panos Hieroglyphica, deSermone, deque Vniuerfo declarata. Tertia explicatio politica noftra Schematis, de terræ
distributionem ilitibusvi&toribus, per Schema Gemma Platonica Panos
explicatio, de conditionibus, Legem Agrariam, affertur. Quarta Schematis
explicatio noftrae ftphysi. Auctarium. Schema Gemima. ca, de typo Agriculturæ.
Hostium donfau fpecta fempereffedebere.nam. Poetarum et historicorum
communisopinio, Veriores fententiæ deSphinge proponuntur exalijs,cap.cxlij.
Tertia sententia PLINIO, Pausaniæque de Troia Equo proponitur, et allatisanteacom
Arcana Numinis, et edifta Principumnonime telligentem, acnonobferuantemmanet
Schemaxlij. Gemme. vis:
Agriculturetypus: Ægyptus: Schema xlvii. Gemma, et PROPIA NATURA SERMONIS
HUMANI proponitur. QuintanoftriSchematis explicacio, de regione fionem fibi
occupantibus. licerarij. inuentis ingenia macerat. Schema Gemme.
aqueacviribusvtendum . Aliorum opiniones de Sphingereferuntur, et Propria
Schematis explicatio proponitur de Troiano Equo secundum senfa poetarum
Principum,& nonintelligentesoracula. Index Titulorum, De Schemate noftri
Mercurij Pana fugientem caufas, quibus inuentiscellat, non Sphinx curinterimat
non obseruantesedi et a Ægypti. Postres i Poftreina Schematis explicatioest, de
Amici- . Crucifixi Predicatores, Pifcatoreshominum: ciæ, ad vindictam
injuriarum cxcrcitum. co. Chiorumantiquain Homerum obseruanti apu Explicatio
prima Smethiæ Gemmæ de Crucie c Explicatio primæ Gemmæ Rhodianæ, rife, Propria
Schematis explicario de Mula Thalia rentis obseruatores cæleftium luminumn
proponitur et comprobatur. Curanti quis acerdotes offerrentali quando la
Secunda explicatio Gemmæ, dehomineforcu crificia Numinisedentes, licibello
Cælaris Augusti nata, Belisarja. Afferturgenuina declaratio Numi Comitis11
Comica lafcime gaudet fermone Thalia: vel Sccunda nostra Schematis affertur
explicatio dia gentium comparari. Salute
patratum natomarehumanævitænauigante ventose chariftie Sacramento.Schema Gemme.
ad veritatis imaginem. Felicishominis,feu formuaritypus, Nawigans cum ventis in
V'tre conclusis. culo. gentis, hieroglyphico, c UniuersalisIudicijtypus:
Mirabileconuiuium in Deserto; Viros fapientes publicismonumentisefe colendos
Schema. Numifmatis, Schemą liv, Gemm. De Smithiana gemma.cap.clxii, Animo
pacato sacrificandum et fupplicandum, Fructuum atque frugum vbertatem concors
Schema Gemma. Concordia, et fidedata, feruataquçmirificam Miles atrocibella
fuper ftes in ærum nofam incidit inopiam fæpiffime duobus piscibus mirifice,
Quarta explication Gemmæ, de Sacrofan&oEu Schema Gemma.
cundoadarbitrium,fincracionis guberna blica.cli, Comparantur Numismati
de-Lazara duo ali Numiab Augustino propositi. rá curba in deserto quinque
panibus et explication viri eruditi de Venere, loco, et Cupidi neproponitur,
cap.clv. Schema Gemma, De Amore fơecundante criainferaelementa. apud homines
promoucri bonorum ome niumybercarem, Schemalvý, Gemma Belisarij et Horatij
[ORAZIO] poetæ paupertas, exinfc Fortiondinis audar facinus, pro patrie næ
calamitatisfere çoinpar exprimitur. Digreffiode Cicuræ medicamentis,
&veneno. Mutij Sczuolæ Romani grande facinus et inli- Responsio
deCicutæviribus: et pri mum, cus non habeat vim ex purgandi cor et eucharistia
symbolum. Fixi prædicatoribus hominum piscatoribus. Schema Gemmila luftriss,
loannisde Lazara, De sepulchrorum differentiis et Homericu. Secunda explicatio
Gemmæ, finale iudiciuin mulo, cap,cliii. Poeta Comici, Lyrici uelafciuiori
sactus, Gemma celestium obferuationivacandum animo curis vacuo, quies centeque
corporeprorsus Expendunturalları Schematis imagines, &
sensaViricl.cap.clvi, Aftronomio blernaca, et Aftrologiludicia, vc
exarretieridebcant. cap.clxvii. myftice referentis.Tertia explication Gemmæ,
desaturatainnume de Poerafcu Comico, feulyricolafciua fupidoMaria,Terras
doAeremfæcundans: carmina pangente, cap.clviii, gnis erga Patriam Pictas atquc
fortitudo detegiturinGemma cap.clxi.
pora çiçuræplanta: deque duplici genere Cicutarum, Sale. beat molliendi.
etiamproba, plerumque multum nocet sibi, dum viro coniugi, Cupido au olans a
Psyche fibi non morigera, Amaritudomunuscælitus datumhumanænaty. Ra ad
procreandas multasbonasactiones. Schema lix. Gemma. Quatuor Nouissimorum
explicatio in gemma de mortis memoria, per anulum schematis De
secundonouiffimo, quodeftludicium Dei poftobitum hominum, perperdentis corum
post ludicium luendis a vita de f u n et is per perenni poft obitum, aut
purgationem in cælis possidenda, per Stellam, lunam et cicadam hieroglyphice
signata. Per oratio totius Operis,Caputvlcim
n quo agitur de Monftris generatim. CJ Onflri varia ftgnijicatio 5 (02
propria efi, ac noflri inflituti^. deteoitHr, Monjlri etymologia vulgaris,
quaft res eventnras monjiret^confiitatidr; vem (^ propria proponttur»
DeMonjlroriim Hnmanorum reali existentia, Realts extftentta Monjlrornm
irrationalium naturam non eoredientium patefit, OBenditur in fiirpibus etiam
revera MonBra contingere, De Mon''hor Hmcauffis generatim ijtiot ^qu^ecjue
fint, Monflrorum caujfa Hnalis generatim (jtiQtupLex^qucec^He fit.
DeMonflrorumcattffaformaligeneratim, quotuplex quaquefit, De Moniirorum caufia
ejfetirice generatim, quotaplex, qu& quefit De MonflrorHm caiifia
effeflrice generatimtquotuple Xiqucequefit, Propria Alonfiriffeneratim accepti
definitio investigator. Inventa Monfiri definitioexplicatur.CMonfridivifioin
fuas fpeciesfupremasmtiltiplexaffertur, fedaptior eltgitur In quo fpeciatim
agitur de Monftris
tjumanis.Attexensdi6iisdicenda^&dkendorumordinempromulgans.ORige canjfd
Mon^f OYPimh manorumcomm Hmsqti<e^ "wplexejfe valeat. Monftrorum in
humana f^ecie mutilorum realis exiftentia ex Uifloricis elicitur, Origo, (
prima caujfa monBri uniformis mutili educitur ex propria materits defeu.
Secunda caujjfa^ C=f orfgo MonHri mutili oHenditurejfe ex dehilitate, ac
defe^uvirtutis formatricis, Tertia causa, ( origo
MonBrimutilijlatuiturinangufiiauteri, acloci f(stum continentis, uarta mutili
Monjlricaujfa^(origoadmateriaineptitudinem redigitUY. Quinta Mon(iri
mutiLicaujja^ (£ origo eft ex parente itidem trunco. Sexta causa 3 origo
Monflri mutili admorhumfoetus attinere dicitur, Monflra muttlaex imaginationis
parentum viexoririnonpojfc Monjiri uniformis excedentis redis exifientia ex
hiHoricis item compro- batur, (tajia, Monjiriexcedentisnatura, G?caujfa. prima
elicitor ex parentum phan- Secunda causa, (^ origo Monjlri excedentis in materics
nimio excejfu ejje perhibetur. Non omnia A^fonjlra excedentia ex
materi^srednndantia ex oririiJed aliquaexcedeniiumfuicaajfamtertio locoin una
materiae penuria obtinere. ^jiarta canfa, (^ oriuo Monjlri excedentis infk
perfcetattone collocatur, .^inta caujja, origo Monjlri excedentis rejolvitur in
iteratam ejfu^ Jionem maternifeminis in uterum citrafispeYfQ^tattonem.
Sextacauffa, £? origo Monjtri excedemis pertinet ad anguHiam uteri Septima
caujfi, c^ origo Adonftri excedentis ex parentibus monjirofts elicitur. OUava
origo, ^ caujfa Monftri excedentis in vitio nutricationis confiftcre
perhibetur„ Nona ratto, (^ canfja Monftri excedentis monftratnr in
animipajfionibus parentes aJJicientibHS : ex^rciiatio cum Cavdano, (^ Parxo.,
Decima causa origo MonjiriexcedentisinviolentafKaternicorpo^ ns concnljione
reponimr, .U/idecimacmjpi, ^origo Mon riexcedentisrefertnradmorhnm fœtus,
Monjlrorum ancipitis natur^efHbfillentia realis demonflratnr, Jldonftrianctpitisorigo, Causa. Communis
injtntiaturj ermturque prima. ex ?nateriet diverfce dcfe^H, ac excejja. Secmda
Alondrfancipitisorigo, caujjaextiteriangufiia, (de" feSiu
virtuttsformatricis explicatur Tertia Monjtnancipitis origo, cau^ainmorhofmtm,
^ffiperfce' tatiom deteqitur^ ^iarta Mon^ri ancipitis origo, caujsa refertur in
materi<e ineptitudinem, iteratammaterntjeminis,
(fanguinisejjluxtoftemaduterum, citra fiper fostationsm,
intaMonjlriancipitisorigo, causa de promitur ex parentum corpore Monjlrojb.
Sexta Monjlriancipitisorigoy Ccaujfaex vehemenii parentum imaginationei vitio
nutricationis in faetu enucleator Mofiflri ancipitis origo, Cscaujja feptima
reponitur in arte, peccata JSfatura imitante, ac nonfine ai^ilio Naturiz
operante. Mon^ridijformisexi Bentiaexhi Horicispromalgatur. De Monjlri
dijformis natura, caujfis; primaque illius origo refoU vitur in malam uteri
conformationem Secunda Monjlridijformisorigo, &caujfaJpe5lat ad malumjitum
placenta nuncupatas: cujus ufns explicatur, Tertia dijformisMonfhicaujfa,
(^origoexmoladepromitur. arta Monjiridiffhrmisorigo,
(canjfaofienditurexmotu, inta Monjlri
dijformis origOj (caujfa flatuitur imhecillitas fa- cuttatis difcretricis, yi.
Sexta origo, (caujfa Monjiri dijformis ad nimiam materiie vifet- ditatem
rediaitur, f^lI. Monflra informia, dehitam memhrorum figuram non retinentia
reipfa inveniri. Cde Ad onflrovuminformiumorigine,&caujfa; qu^primlmde
ducitur ex imbecillitatefacultatis formatricis. Secunda Monfirtinformisorigo,
(^caujfj,exanguliiautericolli" gitur. Tertia informium monfirorum caujfa,
(origo in motu inordinato repO nltur„. arta informis Monflri origoi caufpi
d(?prmiturifi mola (fLicema, tumore utm^concuTYmie virtHtisform^trkn
imhcilliime, acmatem tertceweptimdifie,inta informis Monflri orlgo j ($'
C(^0jj4 ex imMgimtio^e parmtum vehementiexi^ltcatHr» Cap, Sexiatn formis
Monftricauffa origo innsonflrofo parentedete* gttMY, Septimainformis
Monjlriorig QcaajfnrefertmadmenflrmYHm fliixum tempore conceptus,
Monjirienormisexi Hentiapatefit, Monjlra enormia et omnino monfira mn ejfe
infantcs candidos e fareKtibus JEihioipibws ortos necviciffm iEthiopum
moremgros e cmdidis: (^decolore Aadromeds.
Monflri enormis origo, caujfa prima ejje in imaginatione paren»
tHmperhibetur: ^miiltadeaureocri^re Pythagorse confiderantHr, Secunda
Monfirienormisaureofemorecaujfa, origo reponitur tn
exhalationeigneadecorporeviveniis efliMente, Tertia Monfirie normisameofemore
caufia, origorefblvitHYin morbum regium, ana Monfiri enormiter pilofi caujfa i
(origo ex craffitiei (fuligi num copia extruditptr; ubiplura de cordepilofo
Ariftomenis, inta Manflri enormiterpilofi origo, causa ex parentepariterpih» Jo
petenda eft. Sexta Monflri enormiter Upi defcentis origo et causa ex
intempefiei tic materiae ineptttudine dedudtur Mon^rimuiltt
formtsineademfpeciefnbf Mentiapatefit; ubidecapi-'le ytrtli mulieris corpori
ajfixo de Hermapbrodttts mira quadam explaviantur. Monfirimultiformisin eadem
fpecie^muUerisnempevirite caput habenits origo, ej" cauffa prima ex
hetero^e»ea feminis natura educitur j
defemi» nis' Vulgo tnwiafculosmutatts; Qfdemn fculisefieminatis,
Secund.canfia ejufdem moftlhi multiformis ( ori<To excutitur ex de jtdu
fminis m^fcpilei Tenia Monjiri multiformis in eadsmfpecie origo (£
cauJfarefertHf i,id pdrentumimairin Mionem..t^ariuorigo,
(^cauffaMonfirimuliiformisin eademfpecieadpa rent^s conjimilem natnram attinef,
monfira mnltiformia ^diverfas animulium species in ecdem genere proxmoreferemta
fnonefie figmsnta ^jed in rernmnatura reperiri J^donjlYt midti formis diverfas
animali Hmfpecies in eodem geneYepYO^ ximo referentiSy canjfa c origo frima
depromitur ex apparentia. Secunda causa, G? origo Jkfanflri, mtiltiplicis
fpeciei animalia referen' tts, ex imbecillitate generantis pendere
demon(lrattir, Tertia canjfa, Cs* origo
Adonflri multiformi animalium fpecie elicitur ex deirenerata fsminis anima in
nattiram alienam.arta Aionflri mnltiformis varias animaliam species referentis
origo causa ermtm ex materialifostus principio, jtinta Monflri lotimani
hrntalem effigiem habentis orioo scattjfa ex virtnt is alentis vitio elicitptr,
Ssxta hominis monflroseferinaspartes habentisoritroj caujfain altmentaris
materiis vitio reperitar, Septimacanjfa,(^origo Monflrihitmaniferinam effigiem
habentisex morboelicitur. O avacauffa, origo Monflrihnmaniybrtitorumejfl
gieminmem' bris habentiSfjx imaginatione parentum defttmitHr Nona caufja,
corigo Alonflri varias animalitim effigies habentis agnofcitnr ex parentzbfis
monflrofs, Decima causa origo Monflri partes habentisbrtitorum membra (hnmana
referentes, explicatur exfeminum miHione, ac nefaria venere. Dttbitafiones
propofltam theoriam. urgentes diluuntur (prima edn a ex ARISTOTELE, alicubi
n^gante monjlrtim fieri ex animalibus diverfs fpeciei. AlteradubitatiQ
Maniliana, G Lucretiana diluitur, negans qtiiA ejfe nobis commune cum feris,
plantis ad invicem {nam Caftronianam ver^ bistemer efttffttltam, non
autemrationibusinnixam, latedif cujfimusinopett de Feriis Aitricis Anim3?,
difputat. Tertia dubitatio viri eximii negantis ex variis fpeciebus poffe ejuid
uni tantum parenti congeneum nafci. Exercitatio cum acutiffimo Delrio. Di in le
magis explicatur origo humani monflri ex fera nafcentis,Vndecima causa et origo
Monfiri y varics speciei anirmliumi partes habentis, ex cacodamonis opera
elicitur, Monflra muhiformia fuijfe conflruUa ex partibus referentibus animantia
diversl generis, Monflrihttmani membravHiorumanimalium habentis origo caujfa
prima in apparentiam refertur. Secunda
Monfira diverp generis origo S cauffa ex imbeciUitatsj vtrtutis generamis
colligitur. Tertia Monflridmffigemi origo, emffain Milifate fcrma- tricis
repomtnr artacmujfa c origo Monflrimnln gemie cimbecillitatcviv
tmisfeparatricis dedHcttm. inta causa,
erigo Monflri multigenei referturad femims degeneranoncm. Sexta caujfa
Monflri poligenii materice ineptitudo ejfe offenditur. Septima causa origo
Monflri multigeneidejumitur ex debilitate virtmis alentisfoetum, Octava causa origo Monflri diverft genii ex
inepto partium alimento educitur, Nona
cauffa, origo Monflri multigenii ex morbofostus adducitur, Decima caujfa, G?
origo Monflri multtgenii ex parentum imagi' natione hauritur. Vndecima cauflaj
Gf origo Monflri diverft generis adparentes
mon Yofosrefertur, Duodecima causa y origo Monflripoligenii habetur
infemitium permifiione, Decima tertia causa originis Medufaei tapitis in
ovogallin s...Decima quarta caujfa origo Monjirimultigeniiadvim mali Diemonis
refertur, Monftricacodamonis origo
explicatur ex causis prius adducis.
Vewv&tio totius operis. Licetus. Nome compiuto: Fortunio Liceti.
Liceti. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liceti” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Licone: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Taranto). Abstract. Grice: “Cuoco calls
Pythagoras, a non-Italian, the father of Italian (or Magna-Graecia) philosophy,
just because after his school in Crotona was vandalised by the vulgus they all moved
and rebuilt their secret heterodoxies in Taranto and evirons!” -- Filosofo
italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean according
to Giamblico di Calcide. Licone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Licone.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Licoforonte: all’isola -- la scuola siciliana – Roma – filosofia
siciliana – scuola di Leonzio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Abstract: Grice: “Oxford has this stupid tendency to
think they can teach ‘Greek philosophy’ – it’s evern worse at Cambridge! – The thing
is, most of the so-called ‘Greek’, or ‘Ancient Greek philosophers’ were as
Greek in the same way as we can say that William James – the Americo-Irish –
was English! My favourite example is Leonzio, from Leonzio – as Occam was from
Occam – and especially his pupil, Licofronte. We have to remember that this was
before Oxford, or Bologna, so that the idea of a ‘scolaro,’ or pupil, or
disciple – was to be taken, as the Italians say, with a ‘pinch of salt.’ At
Oxford we repudiate discipleship – even though Austin was once heard as saying,
‘If they don’t follow me who are they going to follow?’” -- Filosofo italiano. Leonzio, Sicilia. A pupil of GORGIA (si veda) di
Leonzio. Primarily a
sophist, he takes positions on philosophical matters. For example, he declares
that being from a noble family is worthless in itself, as its value depends
solely on the esteem in which the family is held. Licofronte. Licofronte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Licofronte.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Liguori:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- implicatura
critica – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “At Oxford, we had a common ground –
we university lecturerrs would only teach what other mmbers of the faculty
would understand, since we don’t’ grade our pupils – the board of exminaers
does --. On the other hand, in Italy, there is L., who teaches what he feels
like!” Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Personally, my favourite of
Liguori’s metaphors is ‘the abyss of reason,’ since Speranza has elaborated on
this: it’s Gide’s ‘mise-en-abyme’ no less, which breaks my principle of
‘conversational perspicuity’ – a mise-en-abyme text is just untextable!” -- Grice:
“Liguori has studied the metamorphosis
of language in one of his philosophical noble ancestors!” “I like Liguori: he has the gift of the gab for
metaphor: ‘i baratri della ragione,” “la fucina del filosofo,” “l’alambicco
dell’anima,” “la condizione del senso” ‘il razionale dello irrazionale” o “le
ragione dell’irrazionale” “le ambiguita della ragione,” “Trasimaco ha ragione”
“Giustizia e carita” Ritratto. Frequenta il liceo classico dell’Istituto
Massimo di Roma. Studia alla Sapienza. “Scherzi della memoria.” Si laurea con
la tesi “La scesi giuridica.” Insegna a Lecce ed Ostuni. Si dedica alla storia
della filosofia. Insegna a Bari, Urbino, Ferrara, Trento, Salento, Torino,
Firenze, Lecce, Cassino, Napoli, e Noceto. Con “E il vero baratro della ragione
umana” – cf. H. P. Grice, “Mise-en-abyme conversazionale” -- viene riconosciuto come uno studioso di Kant,
Graf, LEOPARDI (si veda), e Cartesio. Tratta Positivismo di Sergi, Lombroso, Morselli e Vignoli; della scesi di RENSI
(si veda) ponendolo in critica relazione tra LEOPARDI (si veda) e PIRANDELLO
(si veda). Scrive di de' Liguori e di Benedictis, detto l'Aletino. Collabora con
l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli. Tenne rapporti epistolari
con GARIN, BOBBIO, Augias, Binni, Donini, Ferrarotti e Timpanaro. Fonda ad
Ostuni il Circolo Culturale “Sic et Non”, cui aderiscono e collaborano
note personalità della politica e della cultura quali Donini, Fiore, Radice, matematico e fondatore e direttore di
“Riforma della scuola” e docenti delle Bari, Roma e Lecce. “Sic et Non” si
impegna in complesse battaglie civili come quella per un dialogo tra marxisti e
cattolici, ed altre incombenti questioni sociali come la campagna per il
divorzio. Stringe intese, oltre che con moti uomini politici e studiosi di
chiara fama, con il gruppo dei cattolici del Gallo di Genova e coi fiorentini
seguaci di Giorgio La Pira, i quali si riunivano intorno alla rivista “Testimonianze”
diretta da Balducci e Zolo, nonché con i ragazzi della Scuola di Barbiana,
diretta da Don Lorenzo Milani. Manifesto editoriale del "Sic et Non"
è la rivista Presenza, da lui diretta, che testimonia questa attività politica
allora pionieristica per una piccola provincia del Sud Italia. I sette numeri
pubblicati della rivista Presenza, e altra documentazione di tale impegno
politico, sono attualmente depositati presso la Biblioteca di Ostuni intitolata
a Trinchera e comunque ampiamente documentati nell'unico saggio autobiografico
dello stesso autore. Critica e commenti sull'opera di L. Carteggio con
illustri studiosi Bobbio: Il saggio mi pare di grande interesse, per l’ampiezza
e la serietà della ricerca su un tema, se non sbaglio, mai scandagliato a
fondo, eppure importante nell'ambito più vasto della storia della filosofia
positiva, della critica letteraria e della cultura torinese (argomento a me
particolarmente caro). Sono convinto che si tratta di un lavoro di prim'ordine,
che rende giustizia a uno studioso e a uno scrittore (e poeta) che è stato sì,
ricordato più volte dai suoi discepoli, ma è stato poi dimenticato dagli
storici. Credo che questo libro sia un effettivo contributo alla migliore di
quel periodo della nostra storia che la cultura idealistica aveva disdegnato:
un contributo di cui soprattutto noi piemontesi dobbiamo essere grati».
Sebastiano Timpanaro: «Mi sembra, e non lo dico per adulazione, ma con piena
sincerità, un'opera di livello davvero eccezionalmente alto, per la caratterizzazione
del protagonista e di tutto il suo ambiente, per tutto ciò che finora ignoto
essa porta alla luce. E’ venuto fuori cosi un lavoro che molto di rado accade
di leggere». Donini: “Mi pare, ad un primo esame, fondamentale per la
conoscenza del periodo ancora poco conosciuto. Apprezzo moltissimo tale metodo
di indagine e la serietà della documentazione. Uno studio di questo genere è
certamente costato decenni di intensa documentazione. Oldrini: ho letto subito il volume su Graf
così ricco e con non poco profitto. Quando l’autore, in un punto se la prende
con gli storici della filosofia italiana che trascurano Graf, anzi noni
menzionano affatto, mi sento in colpa; e tanto più in quanto io, studioso della
cultura napoletana, mi son lasciato sfuggire quei nessi di Graf con Napoli che
il volume di L. illustra con tanta passione». Contorbia: “poche volte accade di
fare i conti con un libro così fatto, stratificato, totalizzante; ad apertura
di pagina si avverte l’impegno, il grado di coinvolgimento appassionato con cui
lei ha condotto avanti negli anni una così impegnativa ricerca peculiare, quasi
il centro della sua esistenza intellettuale, il punto di arrivo (e a un tempo
di partenza) di un confronto che è culturale ma anche morale e politico.La
qualità di un tale lavoro, mi pare, fuori dell’ordinario». Valli: «L’autore ha
consegnato alla critica e alla conoscenza uno studio così complesso da poter
essere considerato un esaustivo panorama della cultura del secondo Ottocento
italiano e non solo italiano]». Recensioni di illustri studiosi Rossi, “L'autore…
ha fatto emergere un quadro ricco e articolato dove accanto alle ombre brillano
alcune luci importanti». Recensione sulla rivista «Panorama» riguardante
il di de Liguori Materialismo inquieto,
edito da Laterza. Cosmacini, «Il lavoro di L. è largamente meritorio oltreché
ampiamente documentato». Recensione uscita su «Il Corriere della sera»
riguardante il di L. Materialismo inquieto,
edito da Laterza. Marti::Dalle appassionate e diuturne indagini dell’autore su
Graf e il suo tempo è venuto fuori il ponderoso, massiccio volume, che ho
ricevuto come caro e preziosissimo dono. Davvero lusinghiera la “presentazione”
di un grande Maestro come Garin, e accattivante e simpatica l’”Avvertenza”.
Tutto il resto è da leggere». Recensione al volume di L. su Graf, Giornale
storico della letteratura italiana. Augias: «Quella di De Liguori è infatti una
storia meridionale che parte da una finzione narrativa di gusto classico ma
così classico da poterla ritrovare in alcuni capolavori tanto celebri che non
vale nemmeno la pena di citarli. Saggi: “Trasimaco ha ragione” (La Rassegna
pugliese); “Giustizia e carità” “fra filosofia e vita” Ivi “Lo scetticismo
giuridico di Rensi” (Rivista di Filosofia del diritto); “Una moderna
enciclopedia del sapere, Rassegna pugliese, II“Efirov e la filosofia italiana,
«Problemi», “Un Leopardi anti-progressivo” (Dimensioni); In tema di materialismo
comunista, Ivi, “Gioberti e la filosofia leopardiana -- momenti del conflitto
tra l’ideologia cattolico borghese e la protesta leopardiana” (Problemi); “Un
episodio di solitudine. Rassegna di studi su Graf,” Ivi “Leopardi e i gesuiti
-- appunti per la storia della censura leopardiana, Rassegna della Letteratura
italiana, Quel povero “Diavolo” di Graf, «Giornale critico della Filosofia
italiana», Le «Scandalose razzie». Scienza, politica, fede in Graf Ivi, Scetticismo
e religiosità in una rivista militante: «Pietre» in, La filosofia italiana
attraverso le riviste, A. Verri, Micella, Lecce, “La condizione del senso”; “Per una
riconsiderazione della lettura grafiana di Leopardi” «La Rassegna della Lett.
It.», Il mito e la storia” – “Le ragioni dell’irrazionale in Graf, «Problemi»,
Quella «dubitante religiosità». Graf e il modernismo, «Giornale cr. della fil.
It.», Doria tra platonismo e riformismo, «GCFI», Il sodalizio Labriola-Graf negli
anni della loro formazione «Studi Piemontesi»,
Un anti-cartesiano di Terra d’Otranto: Benedictis, in, Miscellanea di
Storia Ligure, Genova); “Materialismo e positivism -- questioni di metodo” (Facoltà
di Filosofia, Bari); “Aletino e le polemiche anti-cartesiane a Napoli” (Rivista
di storia della filosofia); “L’araba fenice: ossia la filosofia nella
secondaria, «Idee», “E il vero baratro della ragione umana” – “Graf e la
cultura” Prefazione diGarin, Lacaita, Manduria,
“Le ambiguità della ragione” – cf. Grice: ‘the equi-vocality of ‘reason’
Grice: “Liguori has a taste for unnecessary plurals: the abysses – the
ambiguities -- ” -- «Idee», “Per la storia della psico-fisica in Italia”; “Il
materialismo psico-fisico e il dibattito sulle teorie parallelistiche in Italia
-- Masci e Faggi «Teorie e modelli», “Di una rinnovata attenzione al
materialism” (Idee); “Mito e scienza nell’antropologia e nella storiografia del
positivismo italiano”; “La filosofia tra tecnica e mito, Atti del Convegno
della SFI, Assisi, Porziuncola); Dimensioni»,
Livorno, Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del
positivism” (Laterza Bari); “Tommasi e la filosofia zoologica di Siciliani,
Rileggere Siciliani, G. Invitto e N. Paparella, Capone, LecceI Presupposti
epistemologici e immagine della scienza in Morselli e Graf, Filosofia e
politica a Genova nell’età del positivismo, Atti del Conv. dell’Associazione
filosofica Ligure-- Cofrancesco, Compagnia dei Librai, Genova, pMaterialismo e
scienze dell’uomo; Kant e la religiosità filosofica di Martinetti, iA partire
da Kant; L’eredità della “Critica della ragion pura”, A. Fabris e L. Baccelli.
Introduzione di Marcucci, Angeli, Milano, Materialismo e scienze dell’uomo -- Il
dibattito su scienze e filosofia, Lacaita, Manduria, La fondazione razionale
della fede in Martinetti, Dimensioni, Livorno, Darwinismo e teorie
dell’evoluzione nella prospettiva monistica di Morselli, Il nucleo filosofico della scienza, Cimino,
Congedo, Galatina, L’immagine della
donna nel paradigma positivistico della degenerazione, Morelli. Emancipazione e
democrazia, G. Conti Odorisio, Scientif. Ital., Napoli, La cultura filosofica in
Torino, Rivista di filosofia», Presupposti torinesi della singolarità
filosofica di Martinetti, «Studi Piemontesi»,
E’ possibile la storia dello scetticismo?, “Segni e comprensione»”; “
filosofi delle bancarelle». Per la critica della storiografia filosofica, «Lavoro critico», Il sentiero dei perplessi -- scetticismo,
nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, La
città del Sole, Napoli, La reazione a Cartesio in Napoli, Giovambattista De
Benedictis, «GCFI», La revisione della storiografia sul mezzogiorno, «Segni e comprensione»,
Positivismo e letteratura. Antologia di testi, con Introd. e note, Graphis
Bari, La lezione scettica di Rensi, Critica liberale,- La psicofisica in
Italia, La psicologia in Italia, a cura
di Cimino e Dazzi, Led, Milano, Vignoli e la psicologia animale e comparata,
Ivi, Pensatori dell’area torinese --Percorsi», Quaderni del Centro Frassati,
Torino, Il ritorno di Stratone. Per la collocazione del materialismo
leopardiano, in Biscuso e Gallo, Leopardi anti-italiano, Manifesto libri, Roma,
Kant e le scienze della natura -- in margine alle lezioni kantiane di Geografia
fisica, in Filosofia, Lecce, Lacaita Manduria, Cattaneo, Psicologia delle menti
associate, G. de L., Riuniti, Roma, Antropologia, psicologia comparata e
scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli», Geymonat, Treccani. Antropologia e tassonomia
in Kant. Da Blumembach a Buffon, Atti del Convegno sulla Geo-fisica kantiana,
Congedo Lecce, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli,
«Teorie e modelli», Cronache di
filosofia del diritto in Italia. Sforza e i suoi corrispondenti, in «Quaderni
di Storia dell’Torino», Per Mucciarelli:
positivismo psicologia e storia, «Segni e comprensione», Geymonat e il
“materialismo verso il basso”, GCFI, Il materialismo di Timpanaro, «Critica
liberale», Lettere di Timpanaro a Liguori,
in Il Ponte, Da Teofrasto a Stratone. L’itinerario filosofico di Leopardi,
«Quaderni materialisti», Labriola e Graf -- Principio e fine di un sodalizio di
vita e di pensiero, in Labriola e la sua università. Mostra documentaria per
settecento anni della “Sapienza” Aracne, Roma, A. Graf, Memorie, Introduzione,
commento e cura, “Gli Arsilli”, Edizioni dell’Orso, Alessandria Un catalogo per
Labriola, «Critica Sociologica», Utilità dell’inutile. Dalla elaborazione
concettuale alla programmazione e alla costruzione di un catalogo, «Itinerari»,
I Gesuiti. Le polemiche sui riti confuciani tra l’Aletino e i missionari
domenicani, «Studi filosofici»,Le «imbrogliate bestemmie germaniche». Moleschott
e la medicina materialistica, «Physis», La fucina del filosofo. «Segni e
comprensione», Filosofia teologia e fisica di Cartesio nella Difesa della Terza
lettera apologetica dell’Aletino, «Il Cannocchiale», Liguori e la filosofia del
suo tempo: Spinoza, Bayle, Hobbes e Locke, Rivista di Storia della Filosofia, “Libido
Sciendi”. Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento
(da Magalotti a Valsecchi), GCFI, Scherzi della memoria. Mappa di un itinerario
non turistico tra politica e cultura in una provincia del Sud, Prefazione di Ferrarotti;
Postafazione di Cumis, Salvatore Sciascia, Medicina e filosofia in Italia tra
evoluzionismo e scientismo. Da Tommasi a Morse, «Il cannocchiale»,, L’ ”il lambicco dell’anima”.
Note sul Mind body problem in Italia nell’età del positivismo, in Anima, mente
e cervello. Alle origini del problema mente-corpo, P. Quintili, Unicopoli, L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e
del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Le Monnier
/Università, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, Romanzo con pefazione
di C. Augias Movimedia, Lecce, Pensatori dell’area torinese tra i due secoli,
in Quaderni Noce, Marco, Lungro di Cosenza, Ateismo e filosofia.
Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e sul rapporto tra
fede e ragione, «Il Cannocchiale», Le metamorfosi del linguaggio nella
controversistica e nella pratica missionaria, Le metamorfosi dei linguaggi, Borghero
e Loretelli, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma, Dannazione e redenzione dell'Eros. Soggetti e figure
dell'emarginazione: la donna come oggetto determinante nella invenzione
cattolica del peccato di lussuria in «Bollettino della Società filosofica
italiana», Le cose che non sono, in
«Critica Liberale», Prefazione di E. Garin, Manduria (TA), Bari,
Roma, Lacaita, Gemoynat Treccani, Le Carteggio privato (corrispondenza
autografa) tra L. e i singoli autori citati
Rossi, Viaggio nel Positivismo, in Panorama, Arnoldo Mondadori, L.,
Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del
positivism, Bari, Roma, Laterza, Giorgio Cosmacini, Povero medico condannato al
materialismo, in Corriere della Sera, Marti,
Recensione a I baratri della ragione in
Giornale storico della letteratura italiana, Le sorelle Vadalà. Quattro storie
più una, [Romanzo], Prefazione di Augias, Lecce, Movimedia. Dannazione e
redenzione dell’eros. Soggetti e figure dell’emarginazione: la donna come
oggetto determinante nell’invenzione cattolica del “peccato” di lussuria di L. Il
Cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l’amore. L’atto vario e
molteplice nei modi, ma uno nel principio, per il quale le creature si
riproducono e a cui gli antichi avevano preposta una della maggiori fra le
divinità dell’Olimpo, è, agli occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e
turpe e la malvagità e turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura
d’Adamo, essere emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non
altro in teoria, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il
coniugio e la continenza è virtù che va tra le maggiori. A. Graf1. L. examines the
story of Eros, from ancient Greece to the age of Enlightenment, and tries to underline
relevant connections with other events of thought and religious traditions as
well as European popular customs. The ideological conflict with Christian
ethics and Catholic church is particularly highlighted thanks to a specific
textu- al analysis, particularly during 17th and 18th centuries. Keywords:
Subjects and Figures of Marginalization, Woman Condi- tion, Ethics and
Christianity, St. Alphonsus M. de’ Liguori. 1 A. Graf, Il Diavolo, Treves, cur. Perrone,
introduzione di Firpo, Salerno, Roma. Avverto l’eventuale lettore che il saggio
che segue ha natura meramente divulgativa e di mera indicazione didattica nei
confronti dei docenti di discipline storico-filosofiche. Nasce
dall’assemblaggio di appunti per il canovaccio di uno spettacolo tenutosi a
Parma al Teatro del Vicolo, dal titolo Eros e Poesia. M’è d’obbligo infine
rimandare sull’argomento che qui espongo, agli interventi di alta e corretta
divulgazione, curati per Rai Educational, di Argentieri, Curi e Moravia, in
Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. Raccolta e catalogazione
dei materiali Non partiamo dalla consueta e abusata presunzione ontologica; non
diciamo che le cose sono, piuttosto ci limitiamo, cartesianamente, a scoprire
in noi il pensiero e, col pensiero il corpo e la sua capacità di rapportarci ad
altri corpi attraverso quelli che chiamiamo i sensi. Ci hanno preceduto i
sensi sti: nulla è dentro la nostra mente che non ci viene fornito dai
sensi. E così la fantasia, la logica, la ragione, la fede altro non sono che gli
strumenti più raffinati di un corpo tra i corpi (materia) che, come l’infima
creatura che emette pseudopodi, procede dal coacervato all’ameba e arriva
all’uo- mo, cuspide di presunzione, anelito più che sensata pregnanza di vita..
Non lasciamoci impressionare dai prodotti di questo strumentario intellettuale:
arti, religioni, presenze invisibili, futurologie improbabili, paradisi perduti
o escatologici disegni, virtualità effimere come sogni, denunciate già dal fol-
le di Danimarca una volta per tutte. Sono sirene lusingatrici di contro al cui
canto ammaliante hanno ancora buona validità i tappi di cera nelle orecchie
usati da Odisseo, navigante curioso, per escludere i suoi compagni2. Qualcuno
sostiene che le cose non sono se non create. Qui noi non soste- niamo
l’inesistenza delle cose: in tal caso dovremmo postulare e ammettere la
trascendenza, laddove noi riteniamo l’oltre una autonoma creazione (se vogliamo
mantenere il termine) del nostro pensiero. Abbiamo raggiunto (a livello di
pensiero puro, non certo di pensiero soggettivo) un tale grado di evoluzione da
creare dal niente, come aveva, in termini tutti romanti- ci, spiegato Fichte
enunciando i tre celebri principi della sua dottrina della scienza! Ma gli
sviluppi delle neuroscienze, in particolare, hanno reso sterili tali tentativi
di esplicazione del reale. Idealismo e religione fanno a gara a rincorrersi
nella loro foga di raggiungere la verità eterna! Meglio perciò rinchiudere i
filosofi nel trittico che si sono costruiti con secolare pazienza della
Metafisica, Teodicea e Ontologia. Che farnetichino in eterno sull’ori- gine
dell’anima, sul rapporto col corpo e sul destino futuro della umanità. Si
potrà, una volta sgombrato il terreno dalla zavorra, procedere in modo più
lineare, ordinato ed onesto alla diagnosi del male di vivere: del nascere e
morire. Tolta di mezzo la pretesa razionalità e la scientificità teologica (e
teleologica) con la sua saccenteria, gli strumenti dei sensi come la fantasia,
la fede, la ragione potranno riprendere legittimamente la loro funzione di
guida o di orientamento. Se partiamo dalla nostra “condizione umana” (senza
scomodare Mal- reau) vera e concreta, viene prepotente in ballo, la nostra
sensualità, prima ancora che la nostra sensitività. Avvertiti da Freud, che va
ascoltato con la 2 Vedi quanto scrive, Berto, L’esistenza non è logica. Dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma. 30 dovuta prudenza
filosofica, ci accorgiamo facilmente che è l’eros la molla privilegiata delle
nostre azioni o inazioni. Tanto è vero che sul terreno della storia è con
l’eros che il Cristianesimo ha ingaggiato fin dalle sue prime origini la sua
battaglia aperta, dagli erotici furori degli anacoreti fino ai ra- ziocinanti
dogmatismi teologici dei nostri giorni. Conviene delinearne un breve profilo.
Profilo storico dell’Eros in Occidente. Dal mito di Venere a Maria Vergine È
proprio nel mondo romano, e in quella che gli storici designano come età
tardo-antica, che si compie una storica metamorfosi della mitologia pa- gana: il
suo graduale trasferimento da religione delle classi colte e dominanti a
religione dei campi (pagi = pagani), della plebe rurale. Indicativo tra tutti
il passaggio di Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fecondità, da un
canto, a quella di Demonio, Lucifero (portatore di luce), stella del mattino,
per i suoi referenti legati alla sessualità, e, dall’altro, a quella della
Vergine Maria, madre di Gesù Bisogna ricordare che mentre avanza il
Cristianesimo, il mito di Roma non solo permane ma, sotto mutate spoglie,
cresce e si svolge fino ai nostri giorni. Perde la sua valenza politica, la sua
forza sugli eventi immediati ma guadagna nell’immaginario. Entra a far parte
del grande patrimonio del- la memoria collettiva. Ma in tale processo, se perde
i suoi caratteri storici, obbiettivi, acquista una rinnovata immagine
fantastica, rispondente alle esigenze delle masse. Soprattutto il Medioevo
trasforma Roma, i suoi dei, la sua cultura in nuova mitologia sincretica, mista
di elementi tradiziona- li e di apporti nuovi conferiti dalle differenti
popolazioni d’Europa, attinti soprattutto alla nuova fede cristiana che diventa
l’amalgama di germane- simo, usanze barbariche, romanità, orientalismi, ecc.
Roma continuava ad avere un suo primato nell’immaginario o mondo incantato dei
miti e delle leggende3, come l’aveva avuto in quello, storico, politico
culturale e civile. Ricordiamo l’accorato rimpianto di Rutilio Namaziano
Fecisti patriam diversis gentibus unam. Urbem fecisti quae prius orbis erat
Nella cultura illuministica, tra Settecento e Ottocento, il mito di Roma si
veste di forme neo classiche. Goethe, Winkelmann, e Byron che 3 Cfr. F. Denis,
Le monde enchanté,. Cosmographie et histoire naturelle fantastiques du Moyen
Âge, richiamato da Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, 2 voll.,
Loe- scher, Torino. Ma vedi, dello stesso, Roma nella memoria e nelle
immaginazioni del Medio evo, 2 voll., Loescher, Torino ne fa la patria ideale delle genti Oh Rome! My country! City of the soul!
The orphans of th heart must turne to thee, Lon mother of dead impires! Tale trasformazione della mitologia classica, porta
con sé naturalmente un radicale cambiamento della maniera di concepire l’amore
e di vivere l’e- ros. L’amore tra uomo e donna acquista differenti valenze e si
prepara quella teorizzazione dell’amore tutto spirituale che verrà dommatizzato
e praticato per tutto il Medioevo e, nella forma più angelicata e sublime, da
Dante al Petrarca, ...quel dolce di Calliope labbro che amore nudo in Grecia e
nudo in Roma, d’un velo candidissimo adornando, rendeva in grembo a Venere
celeste. Dilagheranno per tutta Europa fenomeni di sessuofobia completamente
ignoti alla società greca e latina, quale ad es. il fenomeno dell’ascetismo.
Sorgerà la figura, del tutto nuova e inconcepibile per il mondo classico,
dell’anacoreta e, d’altro canto, l’immagine del peccato prenderà aspetto dia-
bolico orripilante, venendo a popolare tutta una nuova mitologia di presen- ze
infernali che accompagnano e turbano la vita degli uomini del Medioevo. Molte e
varie le rappresentazioni tipiche della diabolicità mostruosa, frutto, in
particolare, del peccato di lussuria, quali il mosaico nel Battistero di Fi-
renze, opera popolaresca di Coppo di Marcovaldo che tanto impressionò Dante
fanciullo, il poema predantesco di Bonvesin della Riva, Il libro delle tre
scritture o il De Babilonia di Giacomino da Verona e i vari “precursori” di
Dante, fino alle allucinate raffigurazioni de il Giardino delle delizie di
Bosch al Museo del Prado4. Ma che accadeva? Venere, scacciata, veniva
ugualmente a tentare gli sciagurati che volevano sfuggirle, quali monaci ed
asceti; e, come ci ricorda sempre Graf, «invadeva le loro celle ugualmente,
immagine vagheggiata e detestata a un tempo». Siamo nell’epoca delle
tentazioni. Ecco l’autorevolis- sima testimonianza di San Girolamo, il grande
dottore della Chiesa, autore indiscutibile della Volgata, l’edizione ufficiale
della Sacra Scrittura, in una sua lettera alla vergine Eustochia: Si ricordi,
Villari, Alcune leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia,
«Annali delle Univ. Toscane», Pisa. Soprattutto, A. D’Ancona, I precursori di
Dante, Sansoni, Firenze. Per ulteriori e dettagliati riferimenti, cfr. il mio,
I baratri della ragione. Graf e la cultura del secondo Ottocento, prefazione di
Garin, Lacaita, Manduria. Oh quante volte, essendo io nel deserto, in quella
vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione,
immaginavo d’essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l’anima
d’amarezza, vestito di turpe sacco e fatto nelle carni simile a un Etiope. Non
passava giorno, senza lagrime, senza gemiti e quando mi vinceva, mio malgrado,
il sonno, m’era letto la nuda terra. E quell’io, che per timor dell’inferno
m’era dannato a tal vita e a non avere altra compagnia che di scorpioni e di
fiere, spesso m’im- maginava d’essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti.
Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l’anima ardeva
di desideri e nell’uomo, quanto alla carne già morto, divampavano gli incendi
della libidine. E qui l’iconografia sacra ha lavorato sul santo, riempiendo di
San Girolami, atteggiati in guise diverse, tele, altari, absidi, pale, trittici
per tutto il medioevo e il Rinascimento. Da Dürer a Caravaggio, da Cima da
Conegliano a Masolino, da Masaccio a Tiziano, dalle tentazioni di Giovanni
Girolamo Savoldo al Perugino, fino alla compostezza gotico-geometrica di
Antonello, ecc.Si assiste ad una evoluzione storica dell’eros, che si
arricchisce, per così dire, dell’idea stessa del peccato. Simboleggiato dal
frutto proibito, l’atto carnale tra Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre viene
stigmatizzato come peccato originale, una sorta di marchio che da quel momento
in poi mac- chierà ogni creatura. Homo vulneratus est naturaliter, sanziona
definitiva- mente San Paolo! Anche se la dottrina della chiesa troverà il modo
di recu- perare in positivo quella ferita, quella malattia costituzionale, con
il concet- to dell’agape, nel quale l’eros si diluisce in amicizia includente
la mediazione del Cristo. Ma la cosa più sorprendente è che Venere, simbolo
dell’amore carnale, cantata da Lucrezio, poeta epicureo, come colei che
presiede alla bellezza della fecondazione sia di piante che di animali, e
perciò come voluttà d’uo- mini e di dei, subisce nel corso della storia
differenti e impensabili metamor- fosi. Da un canto, come quasi tutte le
divinità pagane, trapassa a popolare la mitologia cristiana di nuove figure
positive e negative, arrivando a iden- tificarsi dapprima con il Demonio in
persona, poi con la stella portatrice di luce, (Lucifero, angelo caduto e
stella del mattino); infine, fattasi mite e mise- ricordiosa, gradualmente
perdendo i suoi più accesi caratteri erotici di beltà voluttuosa, assurge
addirittura al ruolo di Maria Vergine, concepita senza peccato, Madre di Gesù,
figlio unigenito di Dio! Siamo di fronte a un fenomeno storico noto agli
storici e agli antropologi come sincretismo religioso 5 Trad. fedele di Graf da
Gerolamo, Epistolae, in Patrologia latina, cur. Migne, Parigi. Cfr. Graf, Il
Diavolo, cit.,per cui le divinità pagane continuano una loro vita, si direbbe
più dimessa e quasi nascosta, nei pagi, nelle campagne tra la povera gente,
trasformandosi, e sovente confondendosi, coi santi e le divinità della nuova
religione ebraica e cristiana. Ne è un esempio la favola di Tanhäuser, il
cavaliere francone di cui la dea Venere si innamora. È nel mondo romano in
sfacelo che gli dei di Roma – GIOVE CAPITOLINO -- si avviano alla loro
metamorfosi -- quello che non e accaduto agli dei ellenici. Da un canto si
rintanano nei pagi, nei campi, tra la povera gente di campagna e ne continuano
a propiziare raccolti, a combattere carestie ad aiutare la gente misera nelle
quotidiane disgrazie che affliggevano gl’umili e gl’indifesi. Dall’altro lato,
in questa storica trasformazione, raccolgono in loro tutto il male esecrabile
del mondo antico: il turpe, il diabolico, l’illecito, il peccaminoso del mondo
romano. Soprattutto l’osceno -- ciò che è dietro alla scena e, pertanto, non è
visibile -- e il sensuale nei rapporti amorosi. Gli dei di ROMA si trasformano
così in demoni. Si passa dalla celebrazione dell’amore fisico, cantato dai
poeti, da OVIDIO (si veda), Catullo (i neoteroi) a LUCREZIO (si veda), che lo
inserisce nel fluire e divenire dei fenomeni naturali, alla definitiva
divaricazione della sessualità dall’amore spirituale, come aspetti di una
passionalità di differente e contrapposta natura. Si ricordi l’inno a Venere di
LUCREZIO: AENEADVM GENITRIX HOMINVM DIVOMQVAE VOLVPTAS ALMA VENUS CAELI SVBTER
LABENTIA SIGNA QUAE MARE NAVIGERVM QVAE TERRAS FRUGIFERENTES CONCELEBRAS PER TE
QUONIAN GENVS OMNE ANIMANTVM CONCIPITVR VISITQVAE EXORTVM LVMINA SOLIS. Ma ecco
come espone Graf, storico dei miti romani, la sottile trasformazione degli dei
di Roma -- quelli stessi che VIRGILIO, guida d’ALIGHIERI, chiama falsi e
bugiardi -- in divinità o potenze
demoniache. I numi che hanno altari e templi non muoiono, non dileguano. Si
trasformano in demoni, perdendo alcuni l’antica formosità seduttrice, serbando
tutti la gravità antica, accrescendola. GIOVE DEL CAMPIDOGLIO, Giunone, Diana,
Apollo, MERCURIO, Nettuno, Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al
culto che loro e reso, ricompaiono fra le tenebre dell’inferno, ingombrano di
strani terrori le menti, provocano fantasie e leggende paurose. Diana, mutata
in demonio meridiano, invade i disaccorti troppo obliosi di lor salute, e la
notte, pei silenzi dei cieli stellati, si trarrà dietro a volo le [6 G. Paris,
Legendes du Moyen Age, Hachette, Paris, dove esamina la storia e la diffusione
della leggenda (La légende de Tanuhäuser). Fonte delle varianti della stessa
leggenda resta Guglielmo di Malmesbury. Vedi Graf, Il Diavolo] squadre delle maliarde, istruite da lei.
Venere sempre accesa d’amore, non meno bella demonio che dea, usa negli uomini
l’arti antiche, inspira ardori inestinguibili, usurpa il letto alle spose, si
trarrà fra le braccia, sotterra, il cavaliere Tanhäuser, ebbro di desiderio,
non più curante di Cristo, avido di dannazione. Scienza, filosofia e fantasia:
il pensiero femminile e la ”teoria e pratica della dimenticanza”. Il rapporto
latente tra il sapere e il credere. Ogni proposta gnoseologica parte
opportunamente da quelle ben note premesse che GALILEI (si veda) autorevolmente
chiama la sensata esperienza, anche se le pone in relazione con la certa
dimostrazione. Così, prudentemente procedendo, ogni teoria della conoscenza,
pur restando legata alla dimensione esperienziale, per così dire, non esclude
né puo escludere l’elaborazione successiva di ipotesi con l’ausilio della
fantasia, della fede, dell’intuizione oltre che della facoltà razionale con la
quale da sempre la mente umana prova ad elaborare i portati sensoriali, di
volta in volta vari e complicati. Proviamo a valutare, ad esempio, non le
nostre idee, o i nostri elaborati razionali ma alcuni particolari sentimenti o
pulsioni come l’amore, l’erotismo, o, addirittura, la poesia con cui ci
accostiamo ad una persona o ad uno scenario naturale quale, che so? la volta
celeste di kantiana memoria. Gl’eroi greci per comprendere una verità nascosta,
scendevano nell’Ade, entrano nel regno imperscrutabile delle ombre. Da altra
prospettiva, sub specie feminae, da quel che oggi chiamiamo pensiero femminile,
ci viene incontro, spalancandoci una diversa rinnovata visuale, un modo
solitamen-te desueto di scrutare l’imperscrutabile. Abbiamo davanti un
continente dissepolto, il nostro Ade, tutto da esplorare. È così che – s’è
detto e sostenuto da parte delle donne – le poesie vivono delle voci narranti
che, appassionatamente, riflettono su un passato da abbandonare. Quel che
sembra finito e nascosto entro i luoghi del cuore. Da tale prospettiva, per
giungere a tanto bisogna scendere all’Ade, come fa il viaggiatore Odisseo:
provare i dolori più cupi e le delusioni più cocenti a cui seguono le
esperienze. S’entra così nell’universo del senso fantastico senza ripudiare la
possibilità razionale di elaborare non [Graf, Il Diavolo. Utilizzo in questo
paragrafo, frammettendone brani a mie riflessioni e commenti, il testo
originale inedito, cortesemente messo a mia disposizione, dalla filosofa della
mente Bussolati, Teoria e pratica della dimenticanza.] più ciò che è nei sensi
ma quanto ribolle nella fantasia. Un esempio potrebbe fornircelo LEOPARDI
dell’infinito laddove dalla esperienza sensibile -- la siepe, il vento, lo
stormir delle foglie -- che non si lascia elaborare razionalmente, sale, quasi
spinozianamente, ad un sapere più complesso: una sorta d’amor dei
intellectualis che s’apre al mistero sia della poesia che dell’amore. E come il
vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio e questa voce
vo comparando e mi sovviene l’eterno e le morte stagioni e la presente e viva e
il suon di lei. E, ancora, entrando nel campo intricato del male di vivere,
addirittura nelle patologie del comportamento, delle ossessioni, delle
schizofrenie, laddove ci siamo chiesti, con l’angoscia nel cuore, se questo è
un uomo, proviamo a proporre la teoria e pratica della dimenticanza:
l’obliviologia. È certo come un lavoro di scavo; ma non abbiamo da riportare al
celeste raggio nessuna sepolta Pompei. Non procediamo, in senso freudiano, a
rimestare nella memoria, nel sogno, recuperando oggetti rimossi, tutt’altro. L’oggetto
è diventato uno scheletro che va dimenticato, ritenuto per non posto: mai
esistito. La dimenticanza è dapprima una sola pratica; quasi l’abitudine a
dimenticare le chiavi di casa. Poi assurge a tecnica e, infine a teoria e
pratica dell’oblio. Corre, in un certo senso, parallela alla terapia
farmacologica del sonno, indotto da dosi opportune di psicofarmaci. Si tratta
di togliere le fissazioni tramite la dimenticanza: di riportare il conosciuto
agl’elementi puri ma allo scopo di favorire un intervento di maggior forza
ectoplasmica sugli oggetti e sugli eventi esterni, e per eliminare il noto
processo di invecchiamento e, infine, di morte mentale. Scendendo al piano
sperimentale, abbiamo cancellato i sovraccarichi delle impressioni
mnemonizzatrici e fatto sparire le figure retoriche fantasmatiche, i “mostri” o
“giganti” che si fissano e si ripetono continuamente, oberando la mente
affralita. Dimenticare diventa così l’ausilio migliore del vivere senza alcun
sforzo il presente. Non è la panacea, non si raggiunge il Nirvana; non si
recuperano paradi- si perduti. Si vive riconquistando un più corretto rapporto
col corpo, i sensi, la natura. La memoria deve servirci, non turbarci. Se è una
soffitta ingombra rischia di confonderci nel suo disordine; dobbiamo far
pulizia perché la vita va vissuta non sopportata E arriviamo infine a una
considerazione alquanto complessa ma di facile comprensione. Quella stessa
nostra propensione che chiamiamo fede altro non è, finanche nella sua forma più
umile, che sempre e soltanto costruzio- 36 ne della ragione, in quanto
ogni fede presuppone sempre un giudizio della ragione. Da tale considerazione
deriva la plateale conseguenza che la fede non è altro, alla fin fine, che la
nostra visione più o meno razionale della realtà; pertanto quella fede nel
numinoso e nel fantastico che è la fede re- ligiosa dei fedeli e che alla
nostra razionalità più sofisticata ripugna, è solo un puro e semplice equivoco
EQUIVOCO GRICE, imposto dall’educazione, dalle convenzioni e mai può derivare
dalla nostra libera scelta intelligente che in tal modo si contraddirebbe9.
Credere, altro non è che atto razionale; in quanto, rigoro- samente, non c’è
fede senza il sostegno della ragione. Ma, ci si chiede, fino a che punto? Il
limite è il sano buon senso. Oltre c’è la follia e l’assurdo; ma follia, sempre
ed esclusivamente della ragione stessa, unico vero soggetto di quanto chiamiamo
fede! 4. Emarginazione femminile e non. La donna da oggetto a soggetto di
pensiero Da differente angolatura l’oggetto del mistero che chiamano la verità,
si svela gradatamente, di sotto il velame delli versi strani. Del resto, a ben
pensare, quando penso, penso al maschile, ho sempre pensato al maschile. La
storia, la civiltà tutta, occidentale e orientale, hanno pensato soltanto al
maschile. Non solo: per secoli, il vero, il bene, il bello sono stati visti, si
al maschile, ma ancora nella implicita insignificanza oltre che della donna, di
altre figure sociali di grande rilevanza: del bambino, del disadattato o del
diseredato o escluso dalla comunità, dell’alienato o del demente. Interi uni-
versi come continenti inesplorati si sono schiusi appena abbiamo provato a
visitarli. Erano emersi, nella dannazione dell’inferno dantesco, nei mosaici e
negli affreschi allucinati di Coppo, nei battisteri, nelle chiese medioevali,
nelle allucinazioni di raffiguratori fantasiosi fino al paradosso come in Bosch
o in Goja, nei racconti favolosi delle mitiche origini di intere popolazio- 9
Cfr. Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a cura
di Agazzi, Ed. di Comunità, Milano, dove tra l’altro si legge: «Anche LA
FILOSOFIA è sotto certi rispetti una fede; in quanto essa è uno sforzo verso
l’unità sistematica che in ogni grado raggiunto si pone come una visione
definitiva della realtà; ciò che non può fare che trasformandosi in una fede
razionale; la fede nella dottrina kantiana. D’altra parte la fede comune non è
assolutamente irrazionale; è una razionalità adatta alla mente comune, ma è una
forma di razionalità; non v’è sistema di dogmi così assurdo che non tenti
subito una razionalizzazione. Ogni esposizione d’un sistema di filosofia è,
sotto questo riguardo, l’esposizione di una fede. Non ha quindi ragion d’essere
la contrapposizione della ragione e della fede (come qualcosa di irrazionale):
la fede è l’espressione stessa di una formazione razionale; ogni grado della
vita razionale in quanto si esprime, si fissa e diventa una realtà operante, è
una fede». Più analitica esposizione della questione si trova nel mio, Ateismo
e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e
contempora- neo e sul conflitto tra la fede e la ragione, Il Cannocchiale, ni, tramandate oralmente nei miti e nelle
leggende che correvano per l’Eu- ropa come fiumi carsici, uscendo di tanto in
tanto al “celeste raggio”, dove l’oblio di secoli li aveva
segregati....Soltanto oggi cominciamo a prenderne consapevolezza, filosofica e
scientifica: scopriamo un nuovo continente speculativo, il pensiero al
femminile come rinnovato modo di guardare la vita, la storia, la natura.
Proviamo a riandare di qualche secolo addietro. Le cosiddette scienze umane ci
si erano accostate per via di quel loro par- ticolare porsi dalla prospettiva
del diverso, ma solo l’assurgere di quell’og- getto alla dignità di soggetto
pensante e determinante trasforma del tutto la prospettiva. La partecipazione
del femminile come quella del diverso, del disadattato alla ricerca della
verità completa veramente il mondo storico della cultura portandolo al suo
stadio più alto, fuori da ogni gilepposo pa- ternalismo o indulgente
concessione caritatevole. Del tutto trascurati o stipati alla rinfusa nella
soffitta anodina della eru- dizione, alcuni sprazzi di consapevole
disponibilità al diverso erano emersi già nel passato, in ambito borghese
progressista, presso spiriti particolar- mente sensibili. Ma restava un fatto
isolato che non ha vissuto significanza o storicità. Sentite questa: siamo: E
dei disadattati all’ambiente non è giusto parlar con tanto disprezzo. Ol- trecché
esercitano alcune funzioni non esercitate dagli altri, essi sono un lievito
sociale utile e necessario; tengon viva nell’organismo collettivo
un’inquietezza nemica delle stagnazioni prolungate, e non avvien mutazio- ne
alla quale in qualche maniera non cooperino che se i geni fossero pazzi davvero
bisognerebbe riconoscereche i più disadattati fra i disadattati, quali son per
l’appunto i pazzi, resero alla misera umanità più di un buon servigio. Da altra
banda è da considerare che un perfetto adattamento all’ambiente farebbe gli
uomini supinamente contenti e tranquilli e porte- rebbe fine al moto della
storia, per la ragione potentissima che chi sta bene non si muove. Lo direi il
vademecum per l’onest’uomo del nostro tempo! Ma molto an- cora resta da fare: e
questa è la vergogna del nostro tempo. La chiesa cat- tolica ad es., che ha
chiesto, solo di recente, con un pontefice tormentato e disponibile al dialogo,
perdono al mondo islamico, ha ancora da chiedere scusa alle donne, ai bambini,
alle coppie di fatto, agli omosessuali, agli atei, agli agnostici, agli
scienziati onesti e laici che dalle dottrine e dai dogmi della chiesa vengono
quotidianamente offesi, respinti e vilipesi. I libri proibiti e il rapporto
sessuale come “peccato” contro il sesto precetto del Decalogo Tra i compiti
primari che si assunsero al loro tempo gli apologisti catto- lici e i
controversisti, figura subito in primo piano quello della lotta ai libri
proibiti, che è come dire a tutta la prodizione libraria moderna. Prendo an-
cora ad es. emblematico il santo teologo moralista e dottore autorevole della
Chiesa: L. Ne La vera sposa di Gesù Cristo10, a dimostrazio- ne di quanto possa
essere pericolosa la lettura in genere, sconsiglia alle Mo- nache addirittura
lo studio sia della Teologia Morale che di quella Mistica. Parimenti libri
inutili ordinariamente sono, ed alle volte anche nocivi per le Religiose, i
libri di Teologia Morale, poiché ivi facilmente possono inquietarsi con la
coscienza oppure apprendere ciò che lor giova non sapere. An- che nociva può
essere a taluna la lettura dei libri di Teologia Mistica, giacché può essere
che ella si invogli dell’orazion soprannaturale, e così lascerà la via
ordinaria della sua orazione solita, in meditare e fare affetti, e così resterà
digiuna dell’una e dell’altra. Vige, come una sentenza inappellabile, il motto
lapidario di San Paolo: Sapienza carnis inimica est Deo. L’amore del sapere
viene paragonato ad un vizio, alla libidine sessuale: libido sciendi11. Circa i
classici del pensiero che pur contengono delle verità, si domanda con San
Girolamo: Che bisogno hai di andar cercando un poco d’oro in mezzo a tanto
fango, quando puoi leggere i libri devoti, dove troverai tutt’o- ro senza
fango?». La lettura è importante, fondamentale anche alla via della salute, ma
ha dei rigorosi limiti. Quanto è nociva la lettura de’libri cattivi,
altrettanto è profittevole quella de’buoni. Il primo autore de’libri devoti è
lo Spirito di Dio; ma de’li- bri perniciosi l’autore n’è lo spirito del
Demonio, il quale spesso usa l’arte con alcune persone di nascondere il veleno,
che v’è in tali suoi libri, sotto il pretesto di apprendersi ivi il modo di ben
parlare, e la scienza delle cose del mondo per ben governarsi, o almeno di
passare il tempo senza tedio. Con determinate categorie di persone,
l’esclusione si fa radicale. Alle suore scrive così: Ma che danno fanno i
romanzi e le poesie profane, dove non sono parole 10 Cito dall’ed. Remondini,
Bassano, Vedi l’uso di tale espressione nella denuncia controversistica cattolica
(aristotelica) della filosofia cartesiana e moderna nel saggio di chi scrive,
«Libido sciendi». Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e
Settecento (Da Magalotti al padre Valsecchi), Giornale critico della filosofia
italiana, immodeste? Che danno voi dite?
Eccolo: ivi si accende la concupiscenza de’ sensi, si svegliano specialmente le
passioni, e queste poi facilmente si gua- dagnano la volontà, o almeno la
rendono così debole, che venendo appresso l’occasione di qualche affezione non pura
verso qualche persona, il Demonio trova l’anima già disposta per farla
precipitare12. Contro il risveglio delle passioni e contro la concupiscenza dei
sensi, i controversisti scagliano i loro dardi infuocati e avviano le loro
sottili disqui- zioni teologiche su quanto vada considerato peccato mortale. Ed
è questo un fardello che la chiesa si porta dietro così come uno ster- corale
si rotola la sua palla di escrementi. L’ossessione del sesso: la cura me-
ticolosa con cui si prova da secoli a disciplinarlo, legittimarlo,
canalizzarlo, evirandolo della sua essenza: la ricerca del piacere e
costringendolo alla sola funzione riproduttiva. Ci serviremo non di un semplice
scrittore di opere di pietà ma di un autorevole moralista della chiesa
cattolica, santo per giunta, dottore della chiesa, uomo di grande pietà e
d’erudizione: che CROCE define il più santo dei napoletani, il più napoletano
dei santi. Ecco cosa scrive il nostro moralista sul sesto precetto del Decalogo
e in che modo espone le sue precauzioni con cui anticipa una minuziosa tratta-
zione di quanto potremo chiamare la fattispecie del peccato mortale. Il peccato
contro questo precetto è la materia più ordinaria delle Confessioni, ed è quel
vizio che riempie d’Anime l’Inferno; onde su questo precetto parleremo delle
cose più minutamente; e le diremo in latino, affinché non si leggano facilmente
da altri che dai confessori, o da quei sacerdoti che in- tendano abilitarsi a
prendere la Confessione; e preghiamo costoro a non leg- gere né in questo né in
altro libro di quella materia (che colla sola lezione o discorso infetta la
mente) se non dopo tutti gli altri trattati e quando ormai sono prossimi ad
amministrare il Sacramento della Penitenza. Affronta perciò subito lo scabroso
tema della fornicazione, e dei rapporti carnali con l’altro sesso con minuta
casistica sessuofobica: de tactibus, de muliebre permittente se tangere, an
puella oppressa teneatur clamare, an possit unquam permittere sua violationem,
de aspectis, de verbis, de audientibus verba turpie, ecc. Ma non manca di
precisare: Ante omnia advertendum, quod in materia luxuriae (quidquid alii
dicant de levi attrectatione manus foeminae, vel de in torsione digiti) non
datur par- vitas materiae; ita uti omnis delectaio carnalis, cum plena advertentia,
et consensu capta, mortale peccatum est. La vera Sposa di G.C., L., Istruzione
e pratica per li Confessori, Giuseppe Di Domenico, Napoli, e sgg., anche per le
citaz. successive. 40 Il pio moralista, scaltrito nella casistica
giuridica, sa che bisogna scende- re nei minimi particolari per trovare la
situazione peccaminosa: se grave o lieve o poco rilevante o, addirittura, del
tutto inesistente; perciò distingue gli atti sessuali compiuti nel matrimonio o
extra matrimonium. In situazio- ne extra coniugale, tutti i toccamenti, oscula
et amplexus ob delectatione, mortale sunt. Vi sono numerosi casi dubbi da
esplicitare: ne va di mezzo la salute delle anime, calate in situazioni mondane
sempre diverse e comunque sempre a stretto contatto con le tentazioni della
carne. Ad es., la donna o il fanciullo non peccano se si fanno toccare secondo
la consueta pudicizia dettata dalla simpatia o dalla buona affettuosa
disposizione; peccano invece se non si op- pongono a contatti impudichi, o a
baci insistenti (morosis) e furtivi. E anco- ra: la fanciulla aggredita allo
scopo di usarne violenza è tenuta a urlare ad se liberandam a turpitudine? Nel
caso non invocasse aiuto con la dovuta forza e insistenza lo stupro si
cambierebbe facilmente in consenso peccaminoso. Ma la questione resta
controversa se debba ritenersi consenso il non aver gridato o invocato aiuto,
secondo un’antica sentenza per la quale, praesume- batur puella non clamans
consentiente. Perviene infine a definizioni accurate degli atti turpi,
differenziando quelli compiuti naturalmente da quelli innaturalmente. Ecco la
definizione di fornicazione e di concubinaggio, quali peccati mortali:
Fornicatio est coitus intersolutos ex mutuo consensu. Concubinatus autem non
est aliud quam continuata fornicatio, habita uxorio modo in eadem vel alia
domo; [e quella di stupro, come:] defloratio virginis ipsa invita, et ideo
praeter fornicationis malitiam habet etiam injustitiae. Attraverso una
minuziosa casistica quasi boccaccesca, buona – si direbbe - ad arricchire la
documentazione erotica di un romanziere libertino, il moralista passa in
rassegna le svariate forme di rapporti sessuali, da quelle legittime a quelle
addirittura più strane e peregrine, come l’accoppiarsi in luogo sacro, quali
una chiesa, il cimitero, l’oratorio, il monastero, ecc. Pone addirittura
questioni dubbie sulle maniere e le condizioni in cui tale rap- porto potrebbe
verificarsi. Pur ammettendosi il peccato, sorge la questio se si tratti o meno
di sacrilegio. Ad es. «an copula maritalis, aut occulta abita in Ecclesia, sit
sacrilegium?» Vi si potrebbero emanare tre sentenze differenti: una che ritiene
irrilevante la condizione di coniugi, un’altra la situazione occulta (che
l’abbiano fatto di nascosto) e una terza che ritiene essere sacri- lego l’atto
in ogni caso. Addirittura se si tratta di marito e moglie, secondo alcuni
teologi, l’atto consumato in chiesa potrebbe essere scusato, si ipsi sint in
morali necessitate coeundi, puta si ipsi in pericolo continentitiae, vel si diu
in Ecclesia permanere debeant. Il lettore ne trae l’impressione che l’autore
(più che dietro suggerimenti letterari coevi) vada ad estirpare direttamente
dalla vita, dalle lussuriose esperienze dei peccatori, dalle situazione più
impensabili, apprese nelle lun- ghe ore passate al confessionale ad ascoltare
ed a sollecitare le confessioni più intime dei fedeli, tutte le forme, i modi
che la secolare ricerca del piacere ha suggerito di epoca in epoca all’uomo,
dalle più rozze e volgari maniere di accoppiamento fino alle più raffinate arti
di amare e trarre godimento che proprio I LIBERTINI andano perfezionando e
praticando in forme sempre più sofisticate. La stessa lingua latina – ma qui
dovrebbe- ro dirla i linguisti – si fa molto particolare fino all’uso di
neologismi non presenti nei classici. Parlando della sodomia distingue quella
propriamente detta da quella impropria ed eterosessuale coitum viri in vase
praepostero mulieris esse sodomiam imperfectam, specie distinctam a perfecta.
Si quis autem se pollueret inter crura aut brachia mu- lieres, duo peccata
diversa committeret, unum fornicationis inchoatae, alterum contra naturam. An
pollutio in ore fit diverse speciei? Affirmant aliqui, vocantque hoc peccatum
irrumantionem, dicentes quod sempre ac sit pollutio in alio vase quan naturali,
speciem mutat. Sed probabilius sentiunt quod si pollutio viri sit in ore maris
est sodomia; si in ore feminae, sit fornicatio inchoata, et in super peccatum
contra naturam ut mox diximus... Arriva addirittura ad ipotizzare il coito cum
femina morta, che non rien- trerebbe nella fattispecie dei rapporti bestiali ma
nella polluzione e in quella che Alfonso chiama fornicatio affective. Dalla
sessuofobia all’erotismo peccaminoso: Cortigiane poetesse e libertini filosofi.
L’Eros redento Prendiamo due secoli di storia molto emblematici. Dall’Italia
delle corti signorili alla Francia della grande rivoluzione. Due secoli in cui
l’eros vive una sua storia illustre, tra cortigiane raffinate poetesse e abati
filosofi e libertini. A dirla franca alla sua maniera sull’eros e a dargli
veste poetica disinibita, ci pensa subito Pietro Aretino: ma sempre da una
angolatura tutta maschile. Nonostante si salvi la dignità della partner che qui
giuoca un ruolo attivo di co-protagonista del rapporto amoroso, in cui l’atto
sessuale si trasforma in una sticomitia drammatica non priva di poetica
oscenità. Soltanto nel petrarcheggiare delle cortigiane, come la soave Franco
che riceve sotto le sue lenzuola di tela d’Olanda finanche Enrico III di
Valois, la donna trova finalmente il suo primo vero riscatto sul maschio, con
un suo modo raffinato (di alto erotismo) di 42 pilotare la barca
dell’Amorosa Dea; ad esse, tra principi, sovrani, alti prela- ti, pontefici
gaudenti, spetta il compito di riscattare dall’eterna dannazione l’Eros e fargli
recuperare il valore perduto colla tradizione ebraica-cristiana. Un recupero,
tutto al femminile, del paradiso perduto. Così canta il suo ufficio amoroso,
guidato da Apollo, la dolce Veronica. Febo che serve a l’ amorosa Dea E in
dolce guiderdon da lei ottiene Quel che via più che l’esser Dio il bea, A
rilevar nel mio pensier ne viene Quei modi che con lui Venere adopra Mentre in
soavi abbracciamenti il tiene. Ond’io instrutta a questi so dar opra, Si ben
nel letto, che d’Apollo all’arte Questa ne va d’assai spazio di sopra E il mio
cantar e ‘l mio scrivere in carte S’oblia in chi mi prova in quella guisa Ch’a
suoi seguaci Venere comparte. Nel Settecento, cui ora vogliam far cenno, sia
pur per sommi capi, le cose stavano in modo ben differente da come ce le hanno
rappresentate quando a scuola ci hanno spiegato quel periodo. I libri del
Marchese de Sade rap- presentano, ad es., una nuova filosofia morale e non sono
la pura e semplice invenzione di tecniche erotiche pervertite, come comunemente
si crede. I recenti studi hanno sfatato quella immagine del divin marchese. “La
filo- sofia deve dire tutto”, egli ha affermato: tutto senza ipocrisie e
fingimenti. Egli non fu né il primo né il solo a sostenere i diritti della
carne, che grida la sua legittima soddisfazione contro le assurde costrizioni
della cosiddetta civiltà. Il celeberrimo sadismo: ricerca del piacere
attraverso il godimento per la sofferenza del partner, ha ben altre origini che
le sole discendenze da Sade. Bisognerebbe intanto rifarsi alle meticolese
ricerche di Skipp, di Leeds, che ha schedato tutti i testi erotici inglesi scoprendovi
come l’uso educativo della frusta e le sculacciate a pelle nuda sui ragazzi,
era praticato dai gesuiti in chiave educativa e correttiva, ma finiva per
confinare molto spesso con l’erotismo portando addirittura all’orgasmo vero e
proprio. Nacque un termine: “orbinolismo” che vuol dire “smania di frustare”
(Cfr. Rodez, Memorie storiche sull’orbinolismo). Né si dimentichi, oltre la
pratica, anche l’elogio cattolico, presso non solo l’ordine dei gesuiti ma
anche di Scolopi e Salesiani, fatto in termini pedagogici della frusta e della
sua frequente pratica a scopi educativi e correttivi: virga tua et baculus tuus
salus mea fuerunt!.... A tali osservazioni sul costume del secolo va aggiunto
che la proverbia- le sporcizia che caratterizzava il ménage domestico
dell’epoca anche tra le famiglie nobili e abbienti, non era poi così
generalizzata. Soprattutto le donne avevano introdotto l’uso davvero innovativo
dell’erotico bidet (che ha la forma di violino e, al tempo stesso, quella dei
fianchi femminili) che permetteva loro di mantenere igiene e pulizia in quelle
parti del corpo che ne avevano più bisogno. A tal proposito restano molto
istruttive le pagine dei romanzi erotici e libertini, tra i quali spicca Restif
de La Breton con il suo Anti Justine dove si nota l’uso frequente e
generalizzato di tale strumento da toilette, prima e dopo gli incontri
amorosi.. Perciò, una volta sfatata l’immagine stereotipata del Settecento
illumi- nistico, astrattamente razionalista, irreligioso e dai costumi
depravati, pro- viamo a riguardare sotto diversa luce e angolatura, libere da
pregiudizi e remore moralistiche e confessionali, la letteratura erotica e
d’amore di quel secolo che, oltre tutto, fu di Mozart, di Kant, di Bach, oltre
che di Voltaire, di Rousseau e di Goethe e ci lasciò in eredità non soltanto la
grande rivoluzione dell’89 ma anche quella che fu la più colossale e universale
summa di sapere moderno: l’Enciclopedia, ovverosia dizionario ragionato di
tutte le scienze, le arti e i mestieri contro la quale pullularono subito una
serie di Anti-Enciclo- pedie anche da noi in Italia per porre un argine
all’avanzata di quelle idee di libertà e di progresso civile. Il ricordare LEOPARDI
è qui d’obbligo: Così ti spiacque il vero, dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè, per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il
fe palese... Insomma lo zelo sessuofobico, la guerra dichiarata all’istinto sessuale
porta il sacerdote, il ministro del culto cattolico, il confessore a scendere
nei particolari della vita sessuale singola e della coppia, sia entro che fuori
del matrimonio: a scoprire i più segreti momenti dell’intimità delle coppie
fino a scrutare e distinguere, entro le fantasie erotiche più raffinate, i
comporta- menti più o meno peccaminosi, cioè conformi a canoni tutti da
verificare di volta in volta (casistica). Una sorta di filo invisibile lega
pertanto il pio cen- sore al libertino e al peccatore o la peccatrice (lo
denuncia la stessa corrente espressione possessiva: il” mio” confessore!) tanto
da diventare complemen- tari, avvincersi in un legame indissolubile fino a non
poter più fare a meno l’uno dell’altro14. Ma il legame tra religiosità e
libertinismo, così come tra l’erotismo e la religione cattolica in particolare,
si fa sempre più stretto fino a dipendere l’uno dall’altro: come, in regime
capitalistico, domanda e offerta. Il cattoli- 14 Cfr., infine, “L’Asino” di
Podrecca a Galantara e le critiche positivistiche e anticlericali alla morale
alfonsiana, Feltrinelli, Milano] cesimo deve disciplinare a suo modo il sesso
e, in genere, tutta l’attività e la fantasia umane; l’eros deve trovare entro
una nuova coscienza storica la sua rinnovata voluttà. Ecco allora il piacere
stesso trovar vie differenti rispetto al piacere degli antichi, allor quando
quella ricerca non veniva combattuta, non era un tabù, anzi era apprezzata come
uno dei più ambiti doni della na- tura. Vengono a far parte del piacere anche i
marchingegni e i sotterfugi per eludere le prescrizioni correnti e i limiti che
le norme religiose impongono dall’esterno. Finanche i pregiudizi siano di
ispirazione cattolica o meno - diventano materia di raffinato erotismo.
L’esecrabile peccato della lussu- ria, prodotto tipico del Cristianesimo,
diventa perciò stesso fonte di piacere (la Jouissance illuministica), proprio
perché vietato e esecrato: soprattutto quando l’atto viene compiuto di
nascosto, cogliendo quello che è diventato, dopo la mitica cacciata dal
Paradiso terrestre, il frutto proibito, il godimen- to raggiunto di soppiatto e
contro la legge o la morale corrente perciò più seducente e ricercato per la
sua illegtittimità! La letteratura è piena zeppa di esempi e finisce per produrre
un genere di scrittura narrativa particolare che chiamiamo “erotica” o
“pornografica”: di libri che s’han «da leggere con una mano sola», un genere
che non si spiegherebbe prima del cristianesimo e della dannazione dell’eros e
del piacere e che va dai canti carnascialeschi al Decamerone, al Ruzante, all’ARETINO,
ai poeti dialettali: da BAFFO, veneziano, al grandissimo BELLI, romanesco, al
dimenticato TEMPIO, siciliano, nato a Catania, per arrivare alla letteratura
erotica del romanzo libertino francese in cui confluiscono le innumerevoli
forme e modi di estraniazione, di sogno, di fuga dalla realtà che delineano
l’universo fantastico che sarà la base della letteratura romantica europea e
soprattutto del romanzo e della grande narrativa ottocentesca e contemporanea,
da Balzac a Flaubert, a Hugo a Dumas, dal romanzo russo al nostro MANZONI, a
Zola, a VERGA alla miriade dei narratori dei nostri giorni. In conclusio-ne, ma
in una maniera tutta nuova, possiamo ritenere avesse davvero visto giusto il
grande saggio napoletano CROCE quando affermò che non possiamo non dirci cristiani.
Se persino l’erotismo è stato, malgré lui, influenzato e raffinato dal
cristianesimo. Se ne stanno accorgendo anche in Francia dove nasce la
letteratura libertina e la illuminata filosofia del piacere: dal materialista
La Mettrie all’esecrato marchese De Sade16. 15 Emblematico, per quanto qui si
va rilevando, il romanzo libertino, non ancora tradot- to, D.A.F. de SADE,
Alina et Valcour, ovvero il romanzo filosofico. Cfr., la Mostra: BNF, L’Enfer
de la Biblioteque Nazionale. Eros au secret, Paris, 2 Ricco di titoli, è venuto
alla luce un significativo numero di opere e autori soltanto ad opera di specialisti che li vanno pubblicando
e illustrando. Intanto segnalo l’originale antologia da Mettrie e Diderot,
curata da Quintili, L’Arte di godere. Testi dei filosofi libertini, Manifesto libri,
Roma. Nome compiuto: Alfonso di Liguori. Girolamo de Liguori. Liguori. Keyword:
“Associazione Filosofica Ligure” – Keywords: implicature critica, ‘… is the
true abyss of human reason” – “il baratro della ragione conversazionale” –
l’anima distilata – il lambicco dell’anima”, redenzione dell’eros, la lussuria,
la degenerazione, la metamorfosi dei linguaggi – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lilla: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Vico – la scuola di
Francavilla Fontana -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Francavilla Fontana). Abstract. Grice: “We don’t take Vico too seriously at
Oxford – unless you are Stuart Hampshire, who has a penchant to take seriously
any philosopher who the rest of us Oxonian philoosphers do NOT take seriously!”
On the other hand, some Italian philosophers have based their philosophical career
and reputation on re-vindicating Vico, such as Lilla!” -- Filosofo italiano. Francavilla
Fontana, Brindisi, Puglia. Grice: “I like Lilla; for one, he ‘revindicated,’ as
he puts it, the philosophy of Vico, which, in Italy, is like at Oxford
‘revinidcare’ Locke!” Formatosi nelle
scuole dei Padri Scolopi aderì alle idee cattolico liberali divulgate dai
filosofi della prima metà dell'Ottocento: Gioberti, Minghetti, Balbo e SERBATI
al quale dedicherà molteplici studi subendone una marcata influenza. Lascia
Francavilla per l'ostentata contrarietà di tutto il clero alle sue idee patriottiche d'ispirazione
giobertiana, manifestate apertamente nel "Programma d'insegnamento
filosofico" pubblicato sul giornale il "Cittadino leccese",
decise di trasferirsi a Napoli ove ebbe modo di confrontarsi con le idee di Sanctis,
Spaventa, Settembrini, Tari e Vera. Si laurea e insegna a Napoli. Durante
questi anni videro la luce "La provvidenza e la libertà considerate nella
civiltà", "Dio e il mondo", e "La personalità originaria e
la personalità derivata" (Nappoli, Rocco), nei quali getta le premesse
degli studi filosofici e giuridici in cui si cimenterà per tutta la vita: la
storia della filosofia, la filosofia teoretica e la filosofia del diritto;
sviluppando altresì e precorrendo una moderna concezione del rapporto tra
"diritti umani e progresso scientifico" sin da “La scienza e la vita”
(Torino, Borgarelli) -- titolo paradigmatico del suo saggio – cf. Grice,
“Philosophical biology,” “Philosophy of Life” Insegna a Messina. Furono quelli
gli anni più fecondi della produzione scientifica volta a perfezionare la sua
concezione dello Stato, approfondire le fonti rosminiane, confrontarsi con le
teorie evoluzionistiche di Spencer e contemporaneamente intrattenere contatti
epistolari con alcuni fra i maggiori filosofi, giuristi, patrioti e storici
dell'epoca quali: Jhering, Bluntschli,
Roy, Tommaseo, Capponi e molti altri. Altri saggi: “Kant e SERBATI” (Borgarelli,
Torino); “AQUINO” (Torino, Borgarelli); “Filosofia del diritto,”“Critica della
dottrina utilitarista liberale empirica etico-giuridica di Mill”“Le supreme
dottrine filosofiche e giuridiche di Vico ri-vendicate” -- “La pretesa persona
giuridica e le funzioni personali degl’enti morali” (L. Gargiulo); “Della
Riforma civile di Spedalieri” (Messina, Amico); “Le fonti del sistema
filosofico di Serbati-Rosmini” (L.F. Cogliati); “Due meravigliose scoperte di
Rosmin-Serbatii: l'essere possibile e l'unità della storia dei sistemi
ideologici, Cogliati, Il Canonico Annibale Maria Di Francia e la sua Pia Opera
di beneficenza, Messina, San Giuseppe, Manuale di filosofia del diritto,
Milano, Società editrice, Pagine estratte. Martucci, Il concetto dello
stato Antonio Tarantino, Diritti umani e
progresso scientifico: Polacco, La "Filosofia del diritto” (Randi);
“Filosofia” (Milano, Giuffré); Tarantino, “La filosofia della giustizia sociale,
Milano” (Giuffré) – cfr. H. P. Grice, “Social justice” in “The H. P. Grice
Papers,” Bancroft, MS. In occasione del conferimento della "Cittadinanza
onoraria (di Messina) alla memoria, su nettuno press.Tarantino, Diritti umani e
progresso scientifico: emeroteca. provincia. brindisi. Martucci, Il concetto
dello stato, su emeroteca.provincia. brindisi. Treccani, su treccani. Lettere a
Jhering. non accordabile col supremo principio della Scienza Nuova Ilmiolavoro
Vico rivendicato» meritòl'onoredi essere preso in considerazione dai due più
competenti degli stu dii vichiani, ed al giudizio dei competenti bisogna dare
gran peso, perchè effetto di conoscenza bene approfondita sopra un determinato
autore, specialmente se si mira ricostruire la mente di Vico. Questi scrittori
sono Ferri e Fornari i quali si trovarono in pienissimo accordo, tanto da far
supporro che fosse effetto di un concetto prestabilito. L'accordo fu pie
nissimo nella prima parte del lavoro di carattere puramente critico e
riconobbero che la rivendicazione delle dottrine filoso fiche e giuridiche da
tutte le fallaci interpetrazioni fatte in Europa Rivista Italiana di Filosofia.
Quando gli opuscoli hanno un valore così notevole come quello qui sopra
indicato del prof. Lilla, è giusto segnalarli all'attenzione degli studiosi
piuttosto che i volumi di gran molo o di poca sostanza. Questo lavoro dice
molto in poche pagine e il suo intento è questo: rivedere i giu dizi che sulle
dottrine del Vico sono stati portati in Italia, in Germania e in Francia
particolarmente, ricostruire dietro indagino esatta il concetto di questa
dottrina e questo intento ci pare raggiunto. Il Vico non è sem plicemente un
ontologista platonico, come parrebbe dal giudizio del Gioberti, nè un
razionalista kantiano, o piuttosto un precursore del Kant, come sembra a Spaventa,
nè un positivista como fu rappresentato da altri. Questi apprezzamenti risultarono
dall'interpetrazione parzialeesoggetti va di qualche parte dei pensieri
filosofici del Vico che nelle sue opero non sono esposti in ordine sistematico,
e che l'autore di questo lavoro con grande dili genza raccoglie e combina
riferendo le formole e le parole proprie dell'autore della scienza nuova sparse
nei moltiplici suoi scritti. » era esauriente e condotta con
criterii elevati. La mia interpretazione sulla vera mente di Vico fu
riconosciuta vera ed adeguata tanto che il Fornarì mostrò vivissimo desiderio
di veder fecondare quelle supreme linee con svolgimenti ed appli cazioni.
Dominato da tale pensiero concepii il disegno di scrivere un lavoro di lena,
mirante ad un triplice scopo di rivendicare, illustrare, ed integrare la mente
dell'autore della « Scienza Nuova» A tale scopo indirizza i tutte le mie ricerche
attingendo sempre maggiori lumi dalle sue opere edite ed inedito e fin anche
dai manoscritti che si conservano gelosamente nella bi· blioteca Nazionale di
Napoli. I grandi genii, e segnatamente il Vico che, come non ha guari, fu
appellato da un poderoso intelletto di una delle più famose Università il più
grande filosofo del mondo, muovono da una idea madre fecondissima ed alla quale
rannodava tutte le idee secondarie e particolari. Uvità ed armonia cioè
perfetto organismo è la nota caratteristica del lavoro dei sommi.Ed io vado
riunendo non poche idee per ricostruire su solide basi quest'opera di
architettura gigante e le mie indagini non ric scono infruttuose, e ne è prova
evidentissima questo frammento inedito dal titolo « Pratica della Scienza nuova
. » Non poche censure mosse la turba dei filosofanti al Vico perchè s'ispirava
a concezioni idealistiche negligentando la pra tica della vita. Tale critica
presenta apparenze di verità tanto che VICO stesso no rimase impressionato,ma
raffrontando dottrine a dottrine si coglie il genuino e loro vero significato.
La grand o idealità diquestamassima la storia ideale eterna delle nazioni. L.
ha liberato la dottrina del VICO da tutte le fallaci inter petrazioni. La sua
dottrina che mi pare giusta, merita di essere più larga mente svolta. » Nel
volume delle Onoranze; è una vera esagerazione, e chi si addentra nella parte
riposta del sistema Vichiano si accorgerà che non si possa ascrivere ad essa
une perfetta interpetrazione astratta e specialmente raffrottandola colla
psicologia sociale che sta a base del processo del filosofo napoletano. Bisogna
por mente innanzi tutto alle tre fasi che percorre l'umanità nella sua storica
evoluzione; età del senso, della fantasia, e della ragiono. E molto più alla
dottrina del corso e ricorso delle nazioni, cioè al loro periodo d'infanzia, di
giovinezza e di vecchiaia. Valga ciò a smentire l'assoluto idealismo del VICO
il quale è puramente immaginario. Tutta la seconda Scienza nuova è derivata
dalla psicologia sociale evoli tiva e tutti i diritti, i costumi, le religioni,
le costituzioni plitiche degli stati sono emanazionidiquesto principio. Nelprimo
stadio tutto è divino, gli uomini inselvatichiti hanno un diritto divino, tuttoprocededagli
Dei; il Governo teocraticorappresen ato dagli oracoli, la lingua divina per
atti muti di religiose cerimonie. In Giove e Giunone si personifica ciò che si
riferisce agli auspicii ed alle nozzo: la Giurisprudenza è scienza d'intendere
i misteri della divinazione; il giudizio divino, cio è che nei templi
divini,tutte le azioni sovo invocazioni agli Dei :ogni dritto è divino,ogni
pena è sacrificio, ogni guerra assume carat tere religioso ed ha giudici gli
Dei: od il giudizio di Dio si riduce a duello ed alle rappressaglie : tali
categorie sono sim boleggiate dal lituo, dall'acqua e fuoco sopra un altare.
Seguo poi un ordine di fatti eroici da cui deriva la natura eroica, o dei nati
sotto gli auspicii di Giove, il costumo eroico como quello di Achille, il
governo civico o aristocratico o dei for tissimi, la lingua eroica o delle armi
gentilizie o stemmi. I caratteri eroici come Achille ed Ulisse, che
personificano tutte le grandezze e i savii consigli. La giurisprudenza eroica,
che stà nella solennità delle formule della legge, la ragione di
stato conosciuta dai pochi provetti del governo, il giudizio eroico che
consiste nell'esatta osservanza delle formule e precipua mente deriva il feudo
dalla proprietà dei forti. Infine c'è un or dine di fatti umani, cui
corrisponde la natura umana intelligente e perciò benigna,modesta, che
riconosce per legge lacoscienza, la ragione, il dovere, e poi il costume
officiale, indi il diritto umano fondato dalla ragione, il governo umano
dettato dalla ragione, la lingua umana, Abbiamo motivo di credere che VICO
impressionato dalle obiezioni dei contemporanei vollo dichiarare il supremo
princi pio della Scienza Nuova, cioè la storia eterna ed ideale delle nazioni
con questo frammento e senza addarsene disconobbe l'efficacia positiva della
Scienza nuova. Egli dotato di mente speculativa, pratica e progressiva,
non si poteva mai acconciare a vivere di formule astratte e di umana, il
parlare articolato, i caratteri in telligibili, che la mente umana rivelò dai
generi fantastici se parando le forme e le proprietà dai subietti. La
giurisprudenza umana che mira non al certo, ma alvero delle leggi. L'auto rità
umuna che nasce dalla rinomanza di persone capaci e sa pienti nelle agibili ed
intelligibili cose, la ragione umana o ragione naturale che divide a tutte le
uguali utilità. Il giu dizio umano velato di pudore naturale e mallevadore
della buona fode che ai fatti applica benignamente le leggi temperandone il rigore.
E questi fatti hanno ancheiloro simboli nellabilanciache rappresenta le qualità
civili nelle repubbliche popolari, perchè la natura ragionevole è uguale in
tutti gli uomini. Questi tre ordinidifatti riposanointreprincipii,
chesono:iltimore, l'amore, il dolore, simboleggiati dallo altare, dalla pace e
dal l'urnacineraria,ecosì sifondarono loreligioni, imatrimoni e l'immortalità
dell'anima.In questi concetti siriassume tutta la seconda Scienza nuova.
Rispettaro tutto quanto i nostri maggiori operarono di grande è la disposizione
più favorevole a quest'opera di conciliazione, ma perchè il ri spettonon portia
delle idee esclusive e non soffochi la libertà dei nostri giudizi verso lo
scopo ultimo della scienza, avvicinata a questo scopo la pro duzione più
perfetta dell'uomo, ci rivela la sua imperfezione, in questo modo è riconosciuta
la necessità dell'Ideale, perchè fossecriticatoemiglio rato il presente. puri concetti metafisici, poichè il processo
inquisitivo che egli seguiva aveva un fondamento storico e dava origine ad un
temperato e ragionevole positivismo, pel quale non si poteva disgiungere la
scienza dalla vita.Egli ben vedeva che la scienza fuori la vita era una vana
supellettile intellettuale, un giuoco dialettico del pensiero e non punto
proficua al beninteso pro gresso delle nazioni. Esiste un ideale di
perfettibilità, supe riore, ma non indipendente dalla vita, verità questa
intuita dall'antesignano della scuola storica tedesca, da Savignys, ilquale era
ammiratore passionato delle istituzioni giuridiche romane nelle quali vedeva la
più alta manifestazione del progresso giu ridico. Ma fatto maturo di anni e di
senno confessò apertamente che per quanto possono sembrare perfette le
istituzioni romane, pure comparate all'idealità mostrano la loro incompiutezza.
VICO gittò le basi di una vasta costruzione scientifica fondata nel
processostorico– filosofico. E dàbiasimo al divorzio fraquesti due processi
metodici, in questa memoranda sentenza Peccarono per metà i filosofi perchè non
accertarono le loro idee coll’autorità dei filogici; peccarono per metà i
filologi perchè non inverarono la propria conoscenza coll'autorità dei filosofi».
La storia ci rivela il certo, l'origine, le fasi o gl'incrementi degl'istituti
politici, sociali giuridici, e la filosofia rivela l'ele mento razionale e
addita le perfezioni ideali, cui si possono inalzare; veritá questa intuita da Bacone
da Verulamin. I filosofi, dic'egli, scoprono molte cose belle a contemplarsi,
ma impossi bile ad essere attuate, ed i giuristi ragionanı) come prigionieri
nelle catene. Alla mente di VICO si affaccia, un dubbio che poteva presentare
questo supremo principio della scienza studiossi ripararvi con questo frammento
inedito. Tutla quesť opera è stata ragionata come una scienza puramente spe
culativa intorno alla comune natura dello nazioni. Però sembra per quest’istesso
mancare di soccorrere alla prudenza umana, ond'ella si adoperi perchè le
nazioni, le quali vanno a cadere o non ruinino affatto, o non s'affrettino alla
loro ruina ed in conseguenza mancare nella pratica, qual dev'essere di tutte le
scienze, che si ravvalgono d'intorno a materie, le quali dipendano dall'umano
arbitrio, che tutte si chiamano attive. Anche nella coscienza dei grandi vi
sono delle oscil lazioni sulle loro concezioni. VICO nel fram . citato, dice
che la scienza pratica non si possa dare dai FILOSOFI, ma i filosofi civili e i
reggitori degli stati possono creare costituzioni politiche e leggi, e
richiamare le nazioni al loro stato di perfe zione. Niente di più vero: le nazioni
e tutto il mondo moralo creato dall'arbitrio umano non può ridursi a categorie
logiche, non può essere sottoposto alla legge ferrea della necessità, e quindi
la scienza puramente contemplativa o ideale non può contenere nella sua orbita
le leggi relative dei fatti umani. Se quest'ordine è indipendente dalla
necessità logica, può essere [Qui do legibus scripserunt, omnes vel tanquam PHILOSOPHI,
vel tan quam Jureconsulti, argumentum illud tractaverunt. Atque Philosophi
proponunt multa dictu pulcra, sed ab uso remoto. Jureconsulti autem, suae
quisque patria legum, vel etiam Romanorum, aut Pontificiarum placctis
abnoxüetad dicti, judicio sincero non utuntur,sedtanquam evincolis
sermocinantur. Tractatus de dignite et augmentis scientiarum ; solo regolato o
disciplinato dalle scienze pratiche ed attive e non dall'ordine puramente
scientifico. Nel capitolo VIII della seconda Scienza nuova pare che VICO
incorra in un'incoe renza, in quanto si propone di trattare di una storia
eterna sulla quale corre di tempo la storia di tutte le nazioni con certo
originiecerteperpetuità,e poidico chelescienze pratiche possono regolare la vita.
Ma come si può parlare d'una storia eterna, sulla quale sono modellate le
storie di tutte le nazioni se il mondo morale, con tutti i suoi fattori,
procede dall'arbitrio umano ? Questo ardito disegno del filosofo napoletano
racchiude un pen siero riposto. Questa Storia eterna delle nazioni,
modellatrice, esemplatrice di tutte le storie delle nazioni è uno dei più
grandi problemi della Scienza Nuova, che è assai bisognoso di com menti
illustrativi ed esplicativi. In questo capitolo si nasconde una speculazione
alta, e, dirò meglio, vertiginosa. Qui il Vico si rivela come idealista, o
meglio tale appare, poichè nello stabilire un ideale comune a tutte le nazioni
pare che proceda con un metodo astratto e formale, cioè como un ideale fanta
stico di pura creazione del cervello. Parvenza vana inganna trice! Ad un
pensatore meditativo apparisce,com'è infatti, una dottrina a fondo realistico.
Essa non è generata ma è ricavata da uno studio coscienzioso ed accurato dei
fatti. Il diritto naturale delle genti è reale quanto la natura umana, ed è la
fonte di questa dottrina. Secondo la mente di VICO non si potrà revocare in
dubbio l'esistenza d'un dritto naturale, comune a tutti i popoli. Cotal
diritto, comune a tutte le nazioni, ricavasi dalla psicologia sociale, la quale
ci attesta la natura comune sociale dei popoli. Questo argomento
comparativo trova la sua conferma nel fatto irrecusabile che questo diritto
comune, patrimonio di tutto le genti, non poteva essere stato trasferito o
comunicato da popolo a popolo, perchè fra loro non vi era, nè era possibile nes
suna comunanza di relazione. Ponendo mente all'esistenza di un diritto naturale
identico a tutti, o perciò universale e necessario, non si può negare un sicuro
fondamento all'esistenza d'una sto ria eterna nella quale corrono di tempo in
tempo le storie di tutte le nazioni. Il diritto é uno, come uno è il tipo
umano. Nella varietà dei costumi dei popoli vi è qualche cosa che non va ria nè
si trasforma. Dunque uno è il diritto, ed una è la storia ideale delle nazioni,
la quale è fondata sull'unità del diritto. Dunque dalla medesimezza del
costume, sigenera ildirittona turale,e da ciò nasce ildisegno di una storia
eterna delle na zioni Concetto ardito e profondo, poichè in tanto è possibile
una storia eterna ed ideale, in quanto vi è un tipo unico nel di ritto e nel
costume. I grandi genii hanno il presentimento di certe verità che poscia
approfondite dalle venture generazioni acquistano piena coscienza. Questa
divinazione del VICO oggi è rifermata dalla analisi comparativa degli istituti
giuridici e politici, e questa scienza divinata dal Vico è una delle più belle
glorie dei nostri tempi, a cui un forte ingegno siciliano addisse il suo
ingegno e ne abbozzò il primo disegno. E qui si adombrano le prime lince di un
metodo armonico fra il vero e il fatto, fra LA FILOSOFIA e la Storia La Storia
dei costumi deve emanare da due cause coefficienti: dall'ordine reale e
dell'ordine ideale,e così si avvera il gran principio di VICO, verum et factum
reciprocantur. Ma l'ordine ideale per non essere una chimera deve Ideo uniformi
nate appo interi popoli fra essi loro non conosciuti, debbono avere un motivo
comune di vero. Scienza nuova, Dignitá. avere un'origine per quanto
rimota,ma sempre realistica, non è fantasmagorico, ma ricavato,o meglio
osservato nell'elemento comune che presenta il costume dei popoli,e perciò non
è in fecondo e sterile,ma proficuo alla vita. (1Questo brano è tolto dal capitolo
Incoerenze di Vico del mio saggio: La mente del VICO rivendicata, illustrata e
integrata. A riassumere la dottrina giuridica di Vico è
indispensabile determinare i principi fondamentali dell» scuola
storico-filosofica da Ini splendidamente rappresentata. La
Scienza Nuova è lu riprova più sicura della lenominazione apposta ; iu
quel lavoro di architettura gigante si vede adombrato il disegno dell’armonia
fra i principii razionali e il fatto storico. La psicologia sociale è il
substratum delle leggi, delle religioni, delle lingue e di tutti gli
altri elementi della civiltà. In quella filosofia della storia contenuta
in germe LA FILOSOFIA DEL DIRITTO POSITIVO, perchè le costituzioni civili,
sociali e politiche sono conseguenza necessaria della vita, della cultura
e dei costumi delle varie nazioni. Egli divide in tre grandi
periodi la storia civile delle nazioni, cioè l’età del senso, della
fantasia e della ragione, e tutti i fattori dell’incivilimeiito,
dalla religione alla lingua, da questa alla giurisprudenza c infine
alla politica rispecchiano fedelmente le immagini e i caratteri di quei tre
grandi avvenimenti '‘tarici. Anche nell’opera, De universi iurte et
prtnùfno et fine uno le ricerche del DIRITTO FILOSOFICO sono accompagnate
dall’indagine storica e innumerevoli applicazioni fa al diritto romano, da
cui poi si eleva ai supremi principii giuridici. Questo sapiente
indirizzo trova la ragion di essere in quel supremo pronunziato del De
antiquissima Italorum sapiential, che « verum et factum reeiprocantur. Il fatto
adunque deve procedere di conserva col vero, altrimenti si cade o nel
formalismo astratto o nell’imperiamo gretto. E con questo criterio VICO dà
biasimo ai FILOSOFI ed ai filologi; mancarono per metà I FILOSOFI perché
non accertarono le loro idee con l’autorità dei filologi, e mancarono per meta
i filologi perchè non avverarono le loro idee con l’autorità dei
filosofi. Il vero e il fatto sono due termini convertibili, e,
perchè convertibili, l’indagine storica trova la sua vera integrazione
nei principii di ragione, e questi hanno il loro fondamento nell’ordine
dei fatti bene accertati. Storia e Ragione sono adunque i due
fattori del diritto filosofico e, quando si scinde il fatto dal
vero, si avrà del diritto un’idea esclusiva, incompiuta,
o fallace. Il diritto, secondo VICO, è un’idea umana, vale a
dire un principio ideale e storico, o meglio un principio ideale che si
attua nella storia; e tanto è vero ciò che mette radice nell’ordine
eterno dell’eterna ragione o dell’eterna volontà in quanto prescrive alia
volontà umana l’equo bono. Secondo questa dottrina il diritto deriva da
due cause coefficienti, cioè: l’utile e l’eterna ragione. L’una dà la
forma e l’altra la materia. Utilità» fiiit occasio iuris, honestas causa.
Tutto ciò risponde esattamente allo spirito del sistema vichiano. Infatti la
plebe, insorgendo contro il patriziato, conquistava i propri diritti, eppure
era mossa dalla molla dell’interesse. Sicché il progresso morale e
civile delle nazioni era occasionato dalle passioni, lagli interessi, i
quali contribuivano a far riconoscere i principii razionali. Quao vis veri sen
liumann ratio virtus est quantuin cum cupiditate pugnat. Quantum utilitates
diligit et exquat, quao nnum universi iuris principium unusque iincs. L’utile
non è per sè stesso né onesto nè turpe, ma pnò divenire l’uno o l’altro
quando è o confonne o disforme alla giustizia. Ecco dunque come il diritto
ha l’anima e il corpo, la materia e la forma, ed lia un contenuto etico,
che applica nell’utile. E da ciò segue la definizione del
diritto: Igitur ius est in natura utile a eterno, coniincusu acquale. I
punti salienti nei quali si rias mine la teorica del Vico sono i seguenti
: l’indagine storica, base della ricerca razionale, convertibilità. del vero
col fatto; insidenza del diritto nel bene, incarnata nella formula
dell’equo buono : inerenza dell’equo buono nell’ordine eterno; futilità
in quanto è regolata dalla ria veri; l’utile è materia; e la ragione forma
del diritto. Nome compiuto: Vincenzo Lilla. Lilla. Keywords: implicature, Vico,
Vico ri-vendicato, Vico ri-vendicate, Luigi Speranza, “Grice e Lilla: la
semiotica di Vico” – The Swimming-Pool Library. “Il Vico di Lilla” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO; ossia, Grice e Limenanti – l’ebreo italiano -- filosofia italiana --
Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “I would call Limentani
an Italian philosopher, but Mussolini would not!” -- Grice: “Oxford had Ayer –
Italy had Limetani!” – Keywords: ebreo Italiano, Gentile, storia della logica. Filosofo italiano. La dialettica come materia di
studio trapassa DA ROMA a BOLOGNA nel Medio Evo. Gli scritti tratteggiati di
Marciano Capella, di BOEZIO (si veda), di Cassiodoro, e in parte anche di
Agostino e del Pseudo-Agostino, son le fonti esclusive che offrirono allora il
materiale per lo studio della logica a BOLOGNA, la prima scuola d’Europa. Li
tutt’i luoghi dove, in connessione con il (Rifondersi del Cristianesimo, o
sorsero numerosi centri di cultura del tutto nuovi, o anche fu talvolta possibile
riattaccarsi ad istituti antichi, troviamo comunemente adottato il corso di
studi, più o meno compiuto, del TRIVIO – grammatica filosofica, dialettica, e
retorica -e del Quadrivio – arimmetica, geometria, astronomia, e
musica. E sebbene il quadrivio non e coltivato dovunque alla stessa maniera,
regna tuttavia per lo più una certa uniformità nello studio del trivio, in
quanto che non c’e scuola dove queste tre arti mancano. Non è frase o
esagerazione il giudizio che pronunziamo relativamente alla dialettica, che
cioè l’intiera ITALIA, per tutta la estensione in cui in generale la filosofia
nella sua graduale diffusione è venuta a contatto con esso, è stato
addottrinato dalla tradizione dei filosofi, testé nominati, della tarda
ROMANITÀ, che cioè in ITALIA si venne effettivamente a conoscenza di un certo
materiale di teorie logiche, e anzi soltanto, in modo esclusivo, sul fondamento
di quella tradizione. Appunto per questo riguardo, tuttavia, sembra che la
storia della dialettica non deve già esorbitare dal campo che le spetta. Si dà
cioè il caso che da notizie isolate sopra istituzioni scolastiche, o da
cataloghi di biblioteche, e via dicendo, non risulti assolutamente nient’altro,
se non che in questo o quel luogo o era semplicemente conservato, o in una qualunque
scuola claustrale era anche soltanto letto uno saggio di dialettica, opera di
Marciano Capella o di BOEZIO (si veda) ecc., ovvero che c’ è stato chi si è
coltivato la mente con questa lettura, o l’ha raccomandata ad altri, e così
via. Orbene, queste notizie, per quanto preziose ci possano apparire, proprio a
cagione della loro sporadicità, noi dobbiamo lasciarle alla storia generale
della filosofia o alla storia della universita di BOLOGNA; poiché per la storia
della dialettica basta in generale il fatto di un diffuso esercizio delle sette
così dette arti liberali, quale generico fondamento per entrar a parlare del
Medio Evo, e su questa base dobbiamo poi andare qui in traccia di ciò che e
prodotto da ima personale, per quanto ristretta, attività, di singoli filosofi,
e che perciò presenta elementi, i quali hanno contribuito al progresso della
filosofia nel corso della sua storia. Inoltre, simili dati, anche se per essi
non si oltrepassi la cerchia del materiale apparentemente insignificante,
conterranno poi bene in sè a lor volta qualche elemento, che permetta di trarre
induzioni relativamente a ciò che dicevamo dianzi, che cioè accanto
all’attività individuale isolata, ha da esserci stata una operosità collettiva,
rimasta attaccata semplicemente al testo della tradizione dei libri scolastici.
Si diffonde nelle scuole la dialettica della tarda LATINITÀ. Ma ima
osservazione sola, riguardo a questo materiale scolastico, bisogna premetterla
subito qui, in tutto il suo rigore e in tutta la sua estensione. Dobbiamo cioè
fin dal principio tener fisso lo sguardo sopra l’assoluta esclusività del
materiale stesso, cioè in primo luogo sopra il fatto che questi prodotti
filosofici LATINI sono incondizionatamente i soli che si trovassero in
circolazione, e che pertanto l’ITALIA non conosce nè poteva adoperare in
generale, per la dialettica, nessun’ altra fonte, all’ infuori da Marciano
Capella, BOEZIO (si veda), Cassiodoro e l’autentico o lo spurio Agostino. A
questo periodo del Medio Evo e possibile, intorno alle opere che stanno a
fondamento della dialettica, solamente quella conoscenza di seconda mano, che
puo esser attinta appunto a questi filosofi; e particolarmente gli scritti del
LIZIO (anzi in generale addirittura anche il nome soltanto di Aristotele) sono conosciuti
esclusivamente in quella sola forma, in cui li aveva trasmessi BOEZIO. Quando
in documenti si trovano menzionati saggi del LIZIO, non si può pensare a
nient’altro assolutamente, se non appunto a queste traduzioni di BOEZIO. Così
p. es., quando ') Per Tintento presente debbo pertanto lasciar da parte un
materiale di fonti, non scarso e che sono riuscito a raccogliere non senza
fatica, un materiale che o si gonfierebbe sino a formare una storia di BOLOGNA,
oppure, anche a volersi limitare (cosa del resto non facile a farsi), a una
scelta di passi, strappati dal contesto e solo attinenti alla dialettica
filosofica, comprenderebbe pur sempre soltanto la documentazione di un fatto,
anche senza di ciò universalmente noto, che cioè il contenuto della scienza
scolastica e formato da quelli filosofi nominati più sopra.] tra i libri della
Biblioteca di York viene nominato anche un « aoer ArisBobeles » 2 ), o quando
troviamo ricordate a Tegemsee le Categorie di Aristotele. Certamente, che
simili passi sieno tutti da spiegare soltanto a questa maniera, e perfettamente
chiarito al lettore, grazie, per così dire, alla sua personale esperienza,
soltanto da ciò che si dirà appresso, come pure dal trapasso a quel periodo, in
cui venne a conoscenza del Medio Evo il testo del LIZIO. Ma si è ritenuto non
superfluo delimitare esattamente fin da questo momento il campo visivo.
Naturalmente una eccezione soltanto apparente è data dalla tradizione di un
Bulgaro, un certo Simone, che avrebbe studiato a Costantinopoli la sillogistica
di Aristotele. Poiché, che nell’IMPERO ROMANO di Oriente i greci si occupassero
di tale materia, si è ba[La biblioteca fondata a York da Alberto è descritta
dallo scolaro di lui, Alcuino, nel suo poema De Pontificibus et Sanctis
ecclesiae Eborucensis, Aixuini Opera, ed. Frobenius. Ivi si legge, [Fersus de
Sanctis Euboricensis Ecclesiae: cfr. MGH, Poetile latini nevi Carolini, ed.
Dùmmler]: Qiute Victor inus script ere BOEZIO alque, Historici velerei,
Pompeius, PLINIO, ipse Acer Aristoteles, rhetor quoque TuUius CICERONE ingens
[P!L]) Un monaco di Tegernsee scrive in una lettera (riferita dal Pez,
Thesaurus Anecdotorum Novissimus, [Codex diplomaticohistorico-epistolaris di
Pez e Hueber): stultam fecit Deus sapientiam mundi huius (queste son parole di
S. Paolo, ad Corinth.), poslquam exsiccayit fluvios Ethan. Prae dulcitudine
enim decem chordurum Davidis.... paene oblitus sum totidem culegoriarum
Aristotelis.Posso qui rinviare fino da ora per il momento al noto eccellente
lavoro di Jourdain, Recherches critiques sur Page et l’origine des traductions
latines (TAristote, Parigi, sia pure riservandomi di doverlo in più luoghi
correggere e integrare. Liutprandi Antapodosis Pertz, MGH: hunc etenim Simeonem
emiargon, id est semigraecum, esse idebunt, eo quod a puericiu Bizantii
Demostenis rhetoricam Aristotelisque silogismos didicerit [PL]. Ma c’ è una
notizia isolata, e una soltanto, che potrebbe sembrare in contraddizione con il
giudizio da noi pronunziato. Cioè, Papa Paolo I manda a Pipino il Breve, vari
scritti, citando egli stesso tra questi, nella lettera relativa, anche libri
del LIZIO; tuttavia il documento, se è genuino, e della sua autenticità non
sembra esserci ragione di dubitare, parla assai più a favore che non contro la
nostra tesi, poiché manifestamente questo esemplare, unico allora in quella
regione, di mi testo del LIZIO, rimane sepolto presso la corte di Francia,
oppure anda perduto, non riscontrandosi almeno in alcun luogo la minima traccia
di uso che ne sia stato fatto. Inoltre, per quei paesi, la prima sicura notizia
di traduzioni dal LIZIO, cade anzi in generale soltanto all epoca di Carlo
Magno, e appresso verniero ancora i lavori dello Scoto Eriugena (traduzione del
Pseudo-Dionigi. La lettera è stampata da Cajetanus Cenni, Monumenta dominationis
pontificiae, si ve Codex Carolinus (Roma), dove figura il passo. Direximus edam
excellentiae vestrae et libros, quantos reperire potuimus, id est, Antiphonale,
et Responsale, in simul artem grammaticam, Aristotelis, Dionysii Ariopagitae
libros (nel Cenni si legge, senza segno di divisione, artem Grammaticam
Aristotelis), Geomelricam, Orthographiam, Grammaticam, omnes Graeco eloquio
scriptores. La frase “graeco eloquio’, il cui significato nel linguaggio
dell’epoca è fissato con piena sicurezza, si rifere certo esclusivamente ai
libri su nominati, soltanto a incominciare da Aristotele, perchè 1’ Antiphonale
e il Responsale sono naturalmente in latino, e così pure probabilmente la prima
grammatica, mentre la seconda e in greco. Del resto non si trova questa notizia
utilizzata in Jourdain. P. es. nel Chronieon Saxoniae et vicini orbis Arcloj di
David Chttraeus (Lipsia [ed. di Rostock): Instiluit autem Carolus Osnabrugae,
ut in collegio [BOLOGNA] assidui lectores Latinae linguae essent. Vidi enim
cxerulli um literarum fundationis, ut vocant, quas ecclesiae Osnabrugensi
Carolus dedit. E così in molti luoghi, ma sempre con riferimento alla nota
ambasceria della Imperatrice Irene e alle relazioni diplomatiche, che ne furono
determinate. La tradizione della dialettica scolastica, nei riguardi delle
traduzioni di BOEZIO, è limitata e s’ignorano le principali opere logiche di
Aristotele. In secondo luogo, tuttavia, anche quel materiale di fonti IN LATINO
è, a sua volta, proprio nella parte essenziale, limitato. Mentre cioè gli
scritti del LIZIO avrebbero potuto esser letti tutti quanti nelle traduzioni di
BOEZIO, che sono per tale oggetto LA UNICA FONTE, proprio qui si presenta ima
rigorosa delimitazione; poiché della su citata produzione letteraria di BOEZIO,
si adoperano in modo esclusivo soltanto quelle traduzioni, eli egli stesso
illustra con commenti e apprestate per uso scolastico A BOLOGNA, cioè, oltre
alla doppia ri-elaborazione dell’ “Isagoge” di Porfirio, soltanto la traduzione
delle Categorie e le due edizioni del libro de interpretatione [cf. “the only
two things on which I lectured with J. L. Austin at Oxford” – H. P. Grice], a
cui si aggiungono poi a poco a poco ancora i compendi che son opera dello
stesso BOEZIO. All’ incontro, le versioni dei due Analitici, come poire della
Topica aristotelica e dei Sophistici elenchi, tutte opere che BOEZIO lascia
LATINIZZATA si senza commento, rimaneno, appunto per questo motivo, escluse
dalla considerazione, e si sottrassero pertanto alla conoscenza, a tal punto
che per lungo tempo non si sa in generale nemmeno più che esistesno. Sicché,
quando a poco a poco incominciarono a rendersi note quelle opere principali del
LIZIO, e questo un momento decisivo per lo sviluppo della dialettica. E mentre
L, ritene fallaci tutt’ i tentativi di dividere in periodi, per motivi interni,
la così detta « filosofia » medievale, mi sembra resa possibile per 1 intiero
Medio Evo una partizione in singoli periodi, esclusivamente dal punto di vista
della quantità del materiale, di volta in volta esistente o novamente
apportato. Così potrei anche nettamente qualificare la differenza, rilevando
elle prevale qui una conoscenza frammentaria di BOEZIO, mentre nella Sezione
prossima si manifesta un influsso chiaramente visibile, così della conoscenza,
che a poco a poco si acquista, DELL’INTIERO BOEZIO, come pure dell’
apprestamento di traduzioni nuove delle opere non utilizzate finora; a ciò si
aggiungono in sèguito per le Sezioni successive analoghi arricchimenti di
materiale. La dimostrazione di queste 1 mie idee e presentata, come ben
s’intende, qui appresso. In poche parole, dunque per ripetere la delimitazione
così recisamente e chiaramente quant’ è possibile , il materiale tradizionale
della dialettica, per questa prima sezione del Medio Evo, è costituito
esclusivamente da quanto segue: Marciano Capella, Agostino, pseudoAgostino.
Cassiodoro, e BOEZIO. E, precisamente, di BOEZIO: ad Porphyrium a VITTORINO
translatum, ad Porphy rium a se translatum, ad Aristotelis Categorias, ad
Aristotelis DE INTERPRETATIONE, ad CICERONE Topica, Introductio ad categoricos
syllogismos, De syllogismo categorico, De syllogismo hypothetico. De divisione,
De defninone, De differentiis topicis. Manca invece in questo primo periodo la
conoscenza dei due Analitici, della Topica e dei Sophistici elenchi di
Aristotele. E limitandosi lo studio della filosofia in modo esclusivo alla
DIALETTICA, mentre altri rami, come ■s p. es. la PSCIOLOGIA RAZIONALE e
l’ETICA, sono sistematicamente intrecciati con la teologia morale, anche per la
filosofia in generale i suddetti filosofi formano il materiale quasi esclusivo;
poiché vi si aggiunge ancora solamente, riguardo alla COSMOLOGIA, la traduzione
del Timeo piatonico, opera di Calcidio: come pure, d’altra parte, per la così
detta questione della teodicea, un materiale spesso sfruttato era fornito dal
De consolatione philosophiae di Boezio. Ma duplice e l’attività personale,
esercitata da insegnanti o da filosofi di tutto questo periodo, sopra siffatto
materiale esclusivo della tradizione scolastica. Vale a dire, o si tratta di
aggiustare compendi, per lo più dominati da un affastellamento di svariate
fonti, accozzate a casaccio (in maniera del tutto simile a quel che abbiamo
dovuto rilevare particolarmente a proposito dello scritto di Cassiodoro [De
artibus ac disciplinis liberalium littcrarum ]), oppure ci si occupa di un più
o meno minuto COMMENTO dei libri già in uso, tra i quali si fanno avanti in
prima linea la Isagoge e le Categorie nella redazione (traduzione e commento)
di BOEZIO. Ma inoltre, alla discussione dei problemi della dialettica
s’intrecciavano questioni di teologia GIUDEO-CRITSTIANA – non romana --, come
pure le controversie della logica fanno risentire il loro possente influsso
sopra le contese della dommatica, e anzi in generale domina da principio, per
questo riguardo, una situazione molto caratteristica, che non si può lasciar
esclusa dalla nostra considerazione. Atteggiamento della ortodossia rispetto
alla logica. La dottrina GIUDEO-CRISTIANA, cioè, in se stessa fatta del tutto
astrazione dal processo di formazione delle idee GIUDEO-CRISTIANE in generale e
in verità, nel suo primo manifestarsi, informata ad assoluta semplicità e
immediatezza, e parla all’ animo suscettibile di emozione religiosa. Ma nello
stesso tempo si trova determinata, nel corso della sua ulteriore propagazione,
a operare su di una popolazione, la quale in parte possede una cultura, formata
per opera delle scuole che funzionavano nella tarda antichità, e che puo cosi
cougiungere al contenuto nuovo di dottrma giudeo-cristiana e di Anta cristiana,
un aspetto formale del mondo antico. Come da questa mescolanza d’immediatezza
religiosa e di addottrinata capacità didattica, si svolgesse rapidamente
l’antitesi fra LAICATO e clero, si formasse cioè una ecclesia docens, e come la
Chiesa, per il fatto eh era docens, affatto naturalmente ponesse le mani sopra
le istituzioni scolastiche, e così facendo si appoggiasse, formalmente, a quel
che già esiste, sou cose che non c’interessano punto qui, nè più nè meno che le
lotte, condotte con le armi della dialettica, e attraverso le quali si veniva
compiendo la formazione del dogma. Invece è di grande interesse per noi la
circostanza, che venne a manifestarsi da un lato una valutazione positiva, e
dall’altro lato un disdegno della logica, come già si è appunto veduto per due
eminenti rappresentanti della teologia giudeo-cristiana, cioè Girolamo e
Agostino, che abbiamo dovuti ricordare più sopra, e dei quali particolarmente
il secondo mostra molto chiaramente il presentarsi di quelle due tendenze, una
accanto all altra. Ma quanto più energicamente e accentuato in tale contrasto
il punto di vista specificamente giudeo-cristiano, tanto maggior importanza
dove essere riconosciuta a quella intima immediatezza, che Agostino denomina
lux interior: e non soltanto è cosa che si spiega facilmente, ma addirittura
risponde a una esigenza teorica, che proprio i più rigidi fra i primi teologi
giudeo-cristiani, mentre conduceno la polemica obbligatoria contro il contenuto
dell’antica filosofia, hanno un atteggiamento molto riservato anche verso le
forme di quella filosofia, da'l quale la fede non soltanto non può essere
sostituita, ma resta anche sovente turbata. Fatto sta che così si forma
anzitutto un’avversione sistematica contro la logica o dialettica, e se
riflettiamo che nelle lotte per la formazione dei dogmi, proprio gl’Ariani e i
Pelagiani hanno una effettiva superiorità per cultura e ABILITA DIALETTICA, ci
riesce facile spiegarci come quell’avversione si sia sviluppata sino a diventare
animosa ostilità. Non soltanto da Ireneo e Tertulliano, ma particolarmente
nell’epoca culminante della contesa intorno ai dogmi, da Basilio il Grande,
Gregorio Nazianzeno, Epifanio, Hieronymue Presbyter [Stridonensis: S.
Girolamo], Faustino, Mansueto, Eusebio, Socrate, Teodoreto e altri, può citarsi
una stragrande quantità di passi, nei quali LA DIALETTICA è tacciata di
superfluità, o è denominata un ozioso operare, che distrugge se medesimo, e
un’artificiosa filastrocca senza scopo, la quale per il suo carattere
mondanamente versipelle non può profittare alla semplice pura verità, e in
generale è ANTI-cri[Basilo Magni adversus Eunomium (Opp ., ed. di Parigi): ij
xòrv \ApioxoxéXo'JS 5vxwj xal Xpoaduioo auXÀoY'.sp&v éìei rcpòp xà |iaOetv
Sxi 6 iYÉvvrjxo; où YSY^vrjxat ; [PG « mira vere Aristotelis aut Chrysippi
syllogismis opus nobis erat, ut disccrcmus eum qui ingenitus est, (neque a
seipso, neque ab altero) genitum fuisse. Tertulliani de praescriptione
haereticorum, Opp., ed. di Venezia): Miserum Aristotelem! qui illis dialecticam
instituit, artificem struendi et destruendi, versipellem in sententiis, coaclam
in coniecturis, duram in argumentis, operariam contentionum, molestarli etiam
sibi ipsi, omnia relractantem, ne quid omnino tractaverit [PL], Grixohii
Nazi.anzeni Oratio 26 (Opera, ed. di Colonia): oOx ol5s Xóy“ v o-potfà(, faas
xe ooyibv xa l atviy|iaxa, xal xà; nóppcovo? ivaxàosig, f; è:pééeij, f)
àvxiO-éosif, xal xù>v Xpualintou auXXoYiaptùv xàp éiaXùast?, ■?, xiòv
'ApioxoxéÀoog xsxvùv x^v xaxoxexvlav. Oratio: yaipovxsg xalj pspVjXoi;
xsvo^òiviatf, xal àvxtOéaect xfjg (tsuìiovòpou Y v( ',aso) f’ xa i? eig oòSèv
xpL ( at|iov cpepoùaaij XoY 0 l ia X^ al » [PG: Oratio nec verborura flexus et
captiones novit, nec sapientoni dieta et aenigmata, nec Pyrrhonis instantias,
aut assensus retentiones, aut oppositiones, nec syllogismoruin Chrysippi
solutiones, aut pravorn artium Aristotelis artificiuin. PG Oratio quique
inanibus verbis, et contentionibus falso nominatae seientiae, ac disputationum
pugnis, quae nullam utilitatcm afferunt, obleetantur Epiphanii adversus
haereses Opera, ed. Petavius, Colonia): Ssivóxrjxt gàXXov iaoxoùg
ÈxSsStiixaaiv, èvSuaà|ievot ’ApiaxoxsXrjv xs xal xoòj SXXoog xoO xóo|iou
StaXexxixoùs, iùv xal xo'jf xaprcoùg iiexlaat, |n;8Éva xapnòv 8ixaiooóvi){
eiSóxsf. lbid.. Ili, praef. (p. 809): èx ouXXoYiapffiv y àp xal ’Apiaxo-]
-stiana. Epperò tutta la sillogistica, come deve venir meno dinanzi alle
semplici parole degli Apostoli, serve dal canto suo ancor mia volta soltanto a
contraxsXixcòv xal Y Et0 ]iSTptxà>v xòv S-sòv Ttaptoxàv jìoóXovxaiIbid.,
Ili, 76, 20 (p. 964): xaòxa Ss dxpatpstxai itàaav ooD xùv Xóyiov ouXXoyumxijv
nuÀoXoytav. Kal oì)x èv&èxt'tat ^{*^6 rcpoipé^aatf-ai jiath^ràs
Yevéa&ai ’Apia'coxéXoos toD ao5 éicioxdtou»... Où Y a «° * v Xif(p
aoXXoYtaxixip r/ [ìaa'.Xs'.a xcòv o&pavù>v, xal èv Xó^iji X 0 |iJta:mx,
àXX" èv Suvct|isi xal àXYiO-stqc (v. nota 20). Ibid., 76, 24 (p. 9il):
xpooèXaps xò 0-stov, ibg xaxà xòv aiv Xoyov, si; xr ( v auxoO xiaxiv xijv
ouXXoYiaxtx^v xaùxnjv aou x^v xsxvoXoyiav. 1PG, calliditatem potius amplexi
sunt, seque et ad Aristotelem ac caeteros mundi huius DIALECTICOS accommodare
maluerunt: quorum fructus ita consectantur, nullam ut justitiae frugem
proferant. PCI, quippe syllogismis quibusdam Aristotelicis ac geometrici Dei
naturato explicare studeut. PG atque haec omnia tuam illam argumentorum fabulam
circumscribunt. Neque id hortatione ulla pcrficere potes, ut Aristotelis
praeceptoris lui discipuli esse velimus. Non enim in syllogismis argumentisve regnum
cadeste positura est, neque IN ARROGANTI INFLATOQUE SERMONE, sed in virtute ac
ventate ». PG, Deus, ut asse rere videris, tuum illud DIALECTICAE SVBTILITATIS
ARTIFICIVM, velut quandam lidei euae accessioncm adjecit. Inoltre proprio in
Epifanio si presenta con la massima frequenza affermazioni di questo genere.
Cfr. Hieronvmi de perpetua virginitale B. Mariae adversus Helvidium (i Opp ed.
di Parigi: Non campimi rhetorici desideramus eloquii, non dialecticorum
tendiculus nec Aristotelis spineto conquirimus: ipsa Scripturarum verbo ponendo
sunt [PL. Faustini de Trinitate adversus site de Fide contrai Arianos,
Bibliolheca Veterum Patrum, cura Andreae Gallando, Venezia, VIE. Noli injelix
adversus Christum Dominimi tolius creuturae, Aristotelis artificiosa argomenta
colligere, qui te Christiunum qualitercumque profileris, quasi ex disciplina
terrenae supputationis circumscriptor advenias [P.L. Theodoreti sermo de natura
hominis (Opp., ed. Sirmond, Parigi) [ed. Festa] : fjpslg 8è aòxffiv xf ( v
ipjtXrjgiav òXo^upò|isi>a 8xi 8»; ópùvxsg gapfapocpwvoog àvOpuixoug xtjv
'EXXtjvtxTgv eÒYXtoxxlav vevixrjxóxag, xal xoòg xsxop'jis’Jiiévo'Jg pùS-ODg
xavxÉX&g ijsXtjXapivous, xal xoùg àXiEuxixoog ooXoixp opob? xoùg ’Axxixoùg
xaxaXeXoxóxag E'jXXoyi3|ioù? [PG Graecarum affectionum curatio ): trad. Festa:
Ma noi compiangiamo la stupidità dei derisori. Vedono' pure che uomini di
barbara favella hanno vinta la facondia ellenica, hanno spazzato via. le loro
ben composte favole, vedono che i solecismi dei pescatori hanno dissolto i
sillogismi attici. Quest’allusione alla semplice parlata dei pescatori si trova
pure altrove ancora piuttosto di frequente.] stare e falsificare la fede, come
in particolare si vede nel caso degl’ariani, e così via dicendo. Ma se per tal
modo LA DIALETTICA, della quale per lo pj£i g]*£} latto responsabile
Aristotele, e precisamente in particolare a cagion della sofistica contenuta
nelle Categorie, era quasi diventata oggetto di orrore, insorge tuttavia in
pari tempo da se stesso il senso della necessità di potersi difendere ad armi
uguali contro i nemici della dottrina ortodossa, ed è naturale che finisce con
il prevalere questo motivo, che cioè LA DIALETTICA è UTILE per la lotta contro
gli eretici. Quel che ora importa, e dunque lo spirito e la intenzione, con cui
si coltiva lo studio della DIALETTICA, e a questa maniera si [Irenaei adversus
contro haereses, Opp., ed. di Venezia): minutiloquium miteni et sublimitatem
circa quaestiones, cum sit Aristotelicum, injerre fidei collant II r [cfr. PO,
Eusf.bii historia ecclesiastica, Opp., ed. di Parigi: Christum ignorarli, sed
quaenam syllogismi figura ad suoni impietalem confimiaridaiti reperilur,
studiose indagarunt; quod si quisquam forte illis aliquod divini eloquii
testimonium pròjerat, quaerunt, ulriim CONIVNCTAM VN DISIVNCTAM syllogismi
figuram possit efficere sollerti impiorum astutia et subtilitate simplicem ac
sinceroni divinarum scripturarum fidem adulterant [cfr. PC, e Griechische
Chrisùiche Schriftsteller traduzione latina di Rufinus, Hieronymi. adversus
[Diulogus contrai Luciferianos, Ariana haeresis magis cum sapientiu seculi
facit, et argumentationum rivos de Arislotelis fontibus mutuatur [PL) Socratis
Historia ecclesiastica, ed. Valesii, Torino: siiOòc o&v èjjsvo?cóva:
(intendi Aezio) xoòg èvxUYXàvovxag. ToOxo 8è Ijxoìei, ta:j
xaxrjYOpEcus’ApiaxoxéXoos zioxsóiov gtjìXEov Ss oilxojf ixxlv èmYSYpa|i|isvov a
5 x(j> ig aòxàìv xs SiaXsYÓpsvog [xal] iauxijì allaga 7xotv ’ApioxoxéXoos.]
puo persino menar vanto delle proprie conoscenze in materia di DIALETTICA ; ma
con ciò puo benissimo rimaner legata la idea, che proprio soltanto per ragioni
estrinseche la teologia dommatica ha, servendosi della dialettica, messo il
piede nel campo di un verbalismo affatto esteriore, e pertanto non ci fa
meraviglia trovare più oltre ripetutamente un’aperta ostilità contro qualunque
dialettica in generale. La Isagoge di Porfirio. Ma in ogni caso, come si è
detto, la ecclesia docens e per questa via, pervenuta ad accogliere nell’ambito
della propria attività una certa somma di teorie logiche, e una volta che, per
uso dei chierici, sono adottati compendi quali si vogliano, se pure con le
debite riserve per quel che riguardava lo spirito informatore e la intenzione
-, puo e dove bene presentarsi inevitaouXÀoytO|ix é>S àXy,9-eiav èxrtaiSeùovxa,
àXX’oif; gjtXa x-ij« àXr^slaj xaxà xoù 4>eó8oo£ Y‘T vé l 1 ® va 82 > 1189
‘ Aristotelis syllogismos, et Platonis facundiam aurium adjumentis e cieco
didicit Didymus, non quasi veritatem ista doceant, sed quod arma sin! veritatis
contra mendacium. Cyrilli Alexandrini Thesaurus de Trinitate, 11 ( Opp, ed.
Auberl, Parigi: Ex pa8-vjpàxtov r,|nv xiòv'ApiaxoxéXoug ipiuópevot, xal xj
Seivóxr ( xt xi)£ Ev x6o|i(p aotplag àTioxsxpxinivoi, xxóxoug èystpcuat
^'rjp.àxtov XEVtòv, oòx e18óxs£ 8 xi xal tipEg xaóxtjv àpaiHB? 8/ovxej èXsYX s
' 1 Ì 30VTal ' S-aupiaai 5 vxwj àxiXooS-ov. 6 xi 8V) xàv iispl xoa |isi^ovo£
xal xoO EXàxxovog Esexàsovxsf Xéyov, i-l xòv Ttspl xoO 6|ic£o’J xal àvopolou
|iexar:sTCX(óxaotv, oOx eISóxe; 6 xt, xaxà xr/V ’ApiaxoxéXouj xiyyrp, 4 tp* %
pàXiaxa |iEYaXo:ppovEtv Etónlaaiv aòxol, oùx et; xaùxòv xaxaxàxxExat. Y* V °S
33 1:5 6 l i0l0v xal xè àvópoiov. ó)( xal xò pst^ov xal xò IXaxxov [PG. Ea
Aristotelica disciplina nobis insultantes, et mundanae sapientiae fastu
turgidi, inanes verborum crepitus excitant, parum sibi persuadente se
Aristotelicae disciplinae ignaros ostendi posse. Mirandum enim est quod, rum
rationeni majoris et minoris excutiant, ad sermonem de simili et dissimili
prolabantur, nescientes, juxta Aristotelis placita quo ipsi plurimum sese
jactitant, simile et dissimile non in eodem genere collocari, in quo maius et
minus.] bilmente anche il caso di filosofi isolati, i quali, di quel materiale
che dove altrimenti servire quale mezzo ordinato al fine, fanno oggetto speciale
e indipendente del loro studio. E furono, per questo riguardo, prima di tutto
le Categorie, che, in dipendenza dalla tradizione scolastica della tarda età
classica, trovarono largo impiego nelle fondamentali questioni teologiche non
pagane ma giudeo-cristiane, e soprattutto, precisamente, proprio in Agostino
(relativamente alla Trinità e ai così detti attributi del divino. Anzi è
persino possibile che già abbastanza anticamente si ritene autentico lo scritto
pseudo-agostiniano sopra le Categorie, e ci si sente così francheggiati, nello
studio di quest’oggetto, dall’AUTORITA dello stesso Agostino. Ma se le
Categorie avevano in ogni caso un valore rilevante per la teologia pagana o
romana e giudeo-cristiana, si ha in verità nello scritto di Porfirio, cioè nelle
Quinque voces – genus, species, proprium, accidens, differentia -una
introduzione alle Categorie, ritenuta indispensabile nella scuola, e ben e’
intende come, sia per l’insegnamento sia per lo studio, si prende sempre
principio dall’ “Isagoge”, che da uno dei commentatori e stata anzi persino
indicata come condizione preliminare della beatitudine eterna. Ma tutti due,
sia cioè il libro delle Categorie sia anche lo scrittarello di Porfirio, sono
accessibili, per la Chiesa latina, nella traduzione di BOEZIO, e inoltre
corredati anche di note illustrative, e così diventarono i principali testi
scolastici medievali di dialettica. [Miseria del pensiero medievale]. Il corso
della storia ci mostra come, esclusivamente dallo stu[L’argomentazione e di
questo tenore. Chi non studia l’ “Isagoge”, non intende le Categorie, e chi non
intende le Categorie, non intende il resto dell’Organon. Ma chi non intende
l’Organon, non sa pensare rettamente, e chi non pensa rettamente, non sa AGIRE
rettamente. Ma a un tale uomo non può toccare la beatitudine eterna.] -dio
ininterrotto di Porfirio e di BOEZIO prende origine quella contesa intorno al
valore dei così detti ‘universali’, che, secondo si è finora comunemente
ammesso, si presenta come antitesi di due termini soltanto, realismo e
NOMINALISMO, ma in verità fa venire in luce una variopinta moltitudine di
opinioni, caratteristiche di altrettanti numerosissimi indirizzi. Queste
battaglie sul terreno della dialettica non sono già suscitate da una filosofia
personale, segnato della impronta di una individualità autonoma, di mi uomo
eminente. E bensì una materia tradizionale, sono pensieri ereditariamente
trasmessi per via scolastica dall’antichità, e ora non si fa che prenderli a
poco a poco in considerazione alquanto più rigorosamente, nè altra che questa e
la occasione al formarsi di determinati atteggiamenti, caratteristici delle
varie tendenze, e le cui radici sono di già riposte nella tradizione stessa. Di
creazione, intimamente indipendente, di un motivo nuovo, non è il caso di
parlare, nemmeno nello Scoto Eriugena, e neanche in Abelardo. E im’epoca che
sta ancora attaccata tutta quanta nel modo più assoluto alla pura tradizione, e
così puo tutt’al più, con uno studio assiduo, pieno di abnegazione, forse anche
minuzioso, appesantirsi più ostinatamente, entro gl’angusti limiti che le sono
dati, sopra singoli punti, ma non mai dominare liberamente la materia.
Giustamente colpisce gli scolastici non la taccia di confidente avventatezza o
di tumida vacuità, che li porta forse a scaraventare nel mondo sistemi belli e
fatti, nè ci fan rabbia con la loro verbosità. Ma ben piuttosto ci prende un
senso di compassione, quando vediamo, con un campo visivo estremamente
ristretto, sfruttate fedelissimamente sino all’esaurimento, con una solerzia
senz’ombra di genialità, le vedute unilaterali possibili entro quel campo 6
tesso, o quando a questa maniera si sprecano secoli intieri nel vano sforzo
d’introdurre metodo nella insensatezza. Simili pensieri malinconici sopra tanto
tempo perduto, si destano in noi per lo più proprio là dove con maggior
violenza si fan guerra, relativamente agl’universali, le diverse opinioni,
svolte sino alle ultime conseguenze, mentre il primo sorgere della contesa ci
può pur sempre apparire in parte come principio di un’azione fecondatrice e
stimolatrice. Per il progresso di quella scienza che si denomina propriamente
filosofia, bisogna considerare questo periodo come un millennio assolutamente
perduto, poiché ci si dove, per mezzo del Rinascimento, riattaccare proprio a
quel punto, a cui ci si e trovati. [La questione degli universali determina un
CONTRASTO DI TENDENZE NEL CAMPO DELLA DIALETTICA: PREVALENZA DI UN REALISMO
platonico]. Se riflettiamo che la “Isagoge” di Porfirio e il testo scolastico
più universalmente diffuso, il quale e ritenuto condizione preliminare per aver
adito allo studio della dialettica, certamente si riesce a spiegare che in
tutte le scuole il filosofo della materia, nell’interesse suo e de’ suoi
scolari, dovesse indugiarsi alquanto più a lungo sovra UN PASSO d’importanza
decisiva, che si trova subito in principio del libriccino (si sa bene che da
principio si va avanti volentieri più minuziosamente e più lentamente), cioè
sopra quel passo, che nella traduzione di BOEZIO è di questo tenore: essere
cioè prima quaestio se gl’universali hnno realtà obbiettiva come esseri
IN-CORPOREI, o sieno solamente finzioni nella sfera dell’intelletto umano. E se
ora la risposta più precisa a questa domanda, che riguarda nel modo più chiaro
l’antitesi di platonismo e aristotelismo, viene evitata da Porfirio-BOEZIO,
perchè altioris ne gotti, proprio da ciò i filosofi piu provetti sono
determinati a decidersi per uno o l'altro dei due indirizzi. Vero è ora che il
neo-platonico Porfirio dice espressamente in quel luogo, che egli si attene
alla tesi della natura obbiettiva degl’universali. Ma in pari tempo ha aggiunto
eh’ egli ha svolto la propria trattazione, per lo più secondo l’indirizzo del
LIZIO anche BOEZIO, dal canto suo, dichiara, nella forma più sbrigativa, che
gl’universali esistono in verità, e vengono appresi consideratione animi. Cosi
da questo passo, di decisiva importanza, del testo di scuola, e bensì reso
possibile che molti con tutta ingenuità credreno fosse loro dato di seguire
insieme un modo di pensare platonico dell’ACCADEMIA e uno aristotelico del
LIZIO. Cf. H. P. Grice,
A. Dodd, IZZING and Hazzing, platonism. Ma
proprio per quelli che vuole pensarci su con alquanto maggior precisione, si
tratta di un aut aut, e rispetto a quest’ alternativa, dal punto di vista
teologico romano e giudeo-cristiano, la risoluzione e propriamente presa di già
in antecipo a favore di un realismo platonico. Poiché, quando la dialettica e
considerata tutta quanta un vuoto formale strimpellamento verbale, quei che si
occupano purtuttavia di questa materia, doveno necessariamente industriarsi di
dare a tutto il complesso un fondamento reale, e precisamente, come ben
s’intende, non puo in ciò esercitare decisivo influsso alcun’altra realtà,
all’infuori da quella che si trova nelle idee giudeo-cristiane. Ed è pur anche
possibile che, come per altri riguardi, così anche relativa[V. Col'SIN,
Ouvrages inédits d'Abélard, Parigi: riprodotto con alcune correzioni e aggiunte
nei Fragnients de philosophie du moyen-àge, Parigi, ha il grande merito di
essere stato il primo a mostrare questa vera fonte del nominalismo e del
realismo, e in base alle indicazioni di lui, Havréau, De la philosophie
scolastique, Parigi, Hist. de la phil. scol., Parigi, ha tratto dai manoscritti
ancora vario materiale prezioso.] -mente alla dialettica, hanno cooperato qual
autorità perentoria, sentenze che si trovano nell’epistole paoline. Per lo meno
vediamo enunciata da Teodoro Raitliuensis, con riferimento diretto a Paolo, la
opinione che si trovi in contraddizione con l’apostolo chi designi lo studio
delle Categorie come un eminentissimo pregio del teologo, e così porta la pia
disposizione d’animo del giudeo-cristiano a non consister d’altro che di parole
o suoni [FLATVS] di parole. E sebbene non vogliamo citare questo passo
addirittura come la prima e più antica manifestazione dell’anti-tesi fra
nominalismo e realismo, è comunque tanto chiaro tuttavia, che, dalla parte
della teologia romana e giudeo-cristiana, dev’esserci, in dialettica, una
corrente prevalente, nel senso del platonismo dell’ACCADEMIA, e non del
nominalismo o concettualismo del LIZIO. La sostanza indi[Per es.: ud Corinth.,
I, 1, 17 : s'ia-;~;s'/JX!i^ba.'. oòx èv ao?!a [evangelizare: non in sapientia
verbi]: xal 6 Xóyos poo xal xò xV/pUYPà poi» oòx Iv nsiOotc aocflaj Xifo i?,
àXX' èv àjtoSelgs'. nvsùpaxos xal Suvà|isioj, iva Jtlaxif 6p(3v pf/ ^ èv
aotplqt àvOptóittov 4XX' èv Sovàpei O-soO [et sermo meus, et praedicatio mea
non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritns,
et virtutis: ut fides vestra non sit in sapientia hominuni, sed in virtute Dei]
; ad ThessaL. I, 1, 5: xó «flaYYèXiov ^ptòv oOx è^sv^a-ig 5tpò? 5pàs èv Xóyip
póvov, àXXà xai èv Sovdpei xal èv nveùpaxi Stylqt Evangelium nostrum non fuit
ad vos in sermone tantum, sed et in virtute, et in Spiritu sancto »] ; ad
Timoth., I, 6, 3-4: et xtj éxspoSiSaaxaXsì..., xsxù?(oxai, pr|5èv émaxàpevog,
àXXà voacòv itspi ^TjxVjasts xal Xoyopaxiap Si quis aliter docet superbus est,
nihil sciens, sed languens circa quaestiones, et pugnas verborum. Theodori
Presbìteri Raithuensis Praeparatio de incarnatione ( Bibl. Patr. Galland.):
i-ziiy, 5è 4 Heuijpog cJiiXat; jtpoxaOé^Exai cpfflvalj. èv fr/paoi xs póvotp
xal ij/oip T1 ì v sùaéjistav 0noxi8-exaf xalxoiYE xoD àrcoaxóXou XéYOvxop „oò
Y“P èv Xiyip ij gaoiXeta xoS 6so0, dcXX’ èv 5ovàps: xal àXvjOsl:?,, (ad
Corinth., I, 4, 20). o5xos 5è xap* a&x(j> Seotjptp xpolxiaxog S-sÌXoyos
y vwpijsxat. tì)g àv xàf xaxrjYopiaj 'AptoxoxéXooj. xal xà Xouxà xiòv S?o)
cpiXoaó;pci>v xoptjià Jjaxrjpévop toyX ) Orig. II, 23 (p. 29a) [Lindsay]. In
his quippe tribù» generibus Philosophiue etium eloquio divina consistunt. Nam
aut de natura disputare solent, ut in Genesi et in Ecclesiaste: aut de moribus,
ut in Proverbiis et in omnibus sparsim libris: AVT DE LOGICA [DIALETTICA], prò
qua nostri Theoreticam [ma Prantl legge tlteologiorni sibi vindicant, ut in
Cantico canlicorum, et Evangeliis [PL. Per
lo meno, quanto al senso, la distinzione coincide perfettamente con quel che si
legge nella introduzione allo saggio di VITTORINO da noi conservato, Expositio
in CICERONE Rhetoricam (ed. Capperonicr ed. Halm, RHETORES LATINI Minores: Q.
Faro Laurentii VITTORINO Explaruitionum in Rhet. M. T. CICERONE, Orig.: Inter
arlem et disciplimim Plato non soltanto e possibile tenere staccati come due
rami separati il dominio della retorica e quello della speculazione, ma era
anche consentito a quest’ultimo di trovare, dal suo lato estrinseco e tecnico,
una particolare maniera di trattazione. Compendio di dialettica nelle Origines.
Così Isidoro divide tutta la sfera della logica o dialettica, anche tenuto
conto della dictio e del sermo, in grammatica, dialettica, e retorica – il
trivio, e a quel modo che, rispetto alla distinzione adottata nelle scuole tra
questa e quella, si attiene parola per parola a Cassiodoro, così in generale
proprio il mostruoso compendio di quest’ ultimo, già da noi più sopra
tratteggiato, è quel che Isidoro trasmette, con alcune varianti o aggiunte.
Dopo avere cioè compiuto il passaggio dalla PARTIZIONE DELLA FILOSOFIA –
psicologia razionale, grammatica razionale -alla Isagoge in et Aristoteles hanc
difjerentiam esse tolueruiit, dicetiles artem esse in his quae se et aliler
habere possunt. Disciplina vero est, quae de liis agii quae uliter evenire non
possunt. Nam quando veris disputationibus aliquid disseritur, disciplina erit.
Quando uliquid verisimile atque opinabile tractatur, nomen artis habebit [PL],
e differ. spir. Nunc partes logices
exsequamur. Constai autem ex dialectica et rhetorica. DIALECTICA est ratio sive
regala disputatali, intellectum mentis acuens, veraque a falsis distinguens.
Rhetorica est RATIO DICENDI, jurisperitorum scientia [cf. Grice, the devil of
scientism], quam oratores sequuntur. Hac, ut quidam ait, sicut jerrum veneno,
sententia armalur eloquio [PL Orig.]: Logicam, quae rationalis vocatur, Plato
subiimxitdividens eam in DIALECTICAM et Rlictoricam. Dieta autem Logica, i. e.
RATIONALIS Aóyoj cnim apud Graecos et SERMONEM significai et rationem [PL
Logici quia in natura et in moribus rationem adiungunt. RATIO enim Graece Xifog dicitur [PL. Dialectica est
disciplina ad disserendas rerum causas inventa. Ipsa est FILOSOFIA species,
quae Logica dicitur, i. e. rationalis definiendi, quaerendi et disserendi
potens. Aristoteles ad regidas quusdam huius doclrinae argumenta perduxit, et
Dialecticam nuncupavit, prò eo quod in ea de dictis disputatile. I\'um Xextdv
dictio dicitur Ideo autem post Rheloricam disciplinam DIALETTICA sequitur, quia
in multis utraque communio existunt [PL] quella «tessa maniera secca, che
abbiamo veduta iu Cassiodoro), egli presenta una enumerazione e illustrazione
delle quinque voces – genus, species, differentia, proprium, accidens - dove
prende occasione di far risaltare i meriti di Porfirio, di fronte ad Aristotele
e CICERONE), e manifestamente non ha fatto che attingere alla traduzione di
VITTORINO, commentata da BOEZIO, al quale VITTORINO anzi rinvia egli medesimo).
Particolare a lui è, a tal proposito, la pensata sommamente scolastica, di
esprimere a mo' d’esempio le cinque voci – genus, species, differentia,
proprium, contingents -in una proposizione. Appresso viene, relativamente alle
categorie, una notizia che in principio e in chiusa è ricavata letteralmente da
Cassiodoro), ma nella parte centrale è più estesa, e particolarmente più ricca
di esempi. Dopo di ciò viene naturalmente de interpr., una Sezione che qui per
la prima volta incontriamo con la barbarica – NON-LATINA -intestazione De
Perihermeniis [ Aristoteli s] Le parole introduttive e il nu[Orig. Cuius
disciplinae definitionem plenum existimaverunt Aristoteles et Tulliiis CICERONE
ex genere et differentiis consistere. Quidam postea pleniores in docendo eius
perfectam substantialem definitionem in quinque V partihus. veluti membris
suis, dividerunt [PL]. Boezio, ad Porph. [a Vict. fransi., ed. Brandt [Opp.],
ed. di Basilea [PL]: Isagogas aulem ex Crucco in Latinum transtulil VITTORINO
orator, commentumque eius quinque libris BOEZIO edidit [PL]: et est ex omnibus
his quinque partihus oratio plenae sententiae, ita, “Homo est animai ralionale,
mortale, risibile, boni malique capax” [PL.]. Anche le parole della chiusa del
testo d’Isidoro, eh’è guasta, son da leggere secondo il tenore del luogo
corrispondente di Cassiodoro. Si ravvisava cioè in Perihermeneias inspi ip
|iv)vsia?!. SCRITTO IN UNA SOLA PAROLA, un accusativo plurale, e s’imaginava un
corripondente nominativo, “Perihermeneiue”. Invero troviamo nella Storia di S.
Gallo di Ii-defons v. Arx, I, p. 262, “die Periemerien » di Aristotele”.] eleo
centrale vero e proprio -la definizione di nomen, verbum, ORATIO (indicativa o
enunciativa, imperativa), nuwtiatù, affirmatio, negatio, contradictio) sono
copiate parola per parola da Cassiodoro, ma in mezzo ci sono alcune
osservazioni più generali, che son prese da BOEZIO, e che, concernendo la
relazione tra linguaggio e la psicologia RAZIONALE, vennero ad assumere grande
importanza; ma le parole di chiusa segnano il passaggio alla SILLOGISTICA in
ima maniera più tollerabile che non sia quella tenuta da Cassiodoro. Segue ora
LA SILLOGISTICA stessa, che, dopo un monito introduttivo a guardarsi dall’abuso
sofistico, è presa con la più letterale fedeltà da Cassiodoro. Appresso viene
la teoria della definizione, che Isidoro copia da VITTORINO, ragion per cui
abbiamo dovuto riferirne il contenuto. Ma dalla definizione si passa alla
TOPICA con le stesse parole di Cassiodoro, e anche nella enumerazione dei loci
è utilizzato solamente quest’ultimo. Ma anzitutto rimangono qui affatto escluse
quelle interpola[[Isidoro riproducel anche il motto su Aristotele: Omnis quippc
res, quae una est et uno si^nìficiitur sermone, aut per nomen significatur, aut
per verbum: quae dune partes orutionis interpretanlur totum, quidquid
conceperit mens ad loquendum. Omnis enim elocutio CONCEPTAE rei mentis
interpres est [PL], Particolarmente dobbiamo a questo proposito mettere in
rilievo la locuzione concipere, concepito. \Utililas~\ Perihermeniarum haec
est, quod ex his INTERPRETAMENTIS syllogismi fumi. Vnde et analytica
pertructantur: plurimum lectorem adiuvat ad veritatem investigandam tantum, ut
absit ille error decipiendi adversarium per sophismata falsarum conclusionum
[PL).] -zioni estranee), e inoltre, omessi i loci retorici, vengono, di quelli
dialettici, accolti integralmente soltanto di CICERONE, e tre inoltre di quelli
di Temistio. Finalmente la chiusa è data da ima speciale Sezione De opposilis,
che senza dubbio qui non sta nella solita connessione con la teoria delle
categorie, ma si riattacca ancora al materiale della topica, coni’ è anche di
fatto estratta dal commento di BOEZIO alla Topica di CICERONE. Altri spunti di
teorie logiche. Ma, oltre a questo compendio di dialettica, c’ è in Isidoro
qualche cos’ altro ancora, che, grazie all’ autorità da lui goduta esercita
influsso sopra la storia. Da un lato cioè si trovano frammenti isolati di
teorie logiche in altre sezioni della sua opera enciclopedica. Così, p. es.,
oltre a ripetere la solita definizione degli omonimi ecc. (nella Sezione
intorno alle categorie), Isidoro viene anche nella Grammatica razionale a
parlare di quest’oggetto, ma qui egli fa uso delle forme verbali greche.
Inoltre, della retorica, è da ri[fra i loci ivi riferiti di Temistio, troviamo
qui soltanto: a loto, a partibiis [PL Invece, in altra forma: Primum genita est
contrariorum, quod iuxta CICERONE diversum (leggi AD-versum) vocutur. Secundum
genita est relalivorum. Tertium genus est oppositorum -si osservi la
terminologia inesatta -habitus vel orbatio. Quod genus Cicero privationem
vocat. Quartum vero genus
ex confirmutione et negatione opponilur. Quod genus quartum apud Dialecticos
multimi liabet conflictum, et appellatur ab eis calde oppositum [PL. La fonte di questo vedila in BOEZIO, ad. CICERONE
Top. [PL]; il luogo relativo di Cicerone e citato. Orig. : Synonyma, hoc est
PLVRINOMIA. Homonyma [AEQUI-VOX]. hoc est VNINOMIA PL]] cordare in particolare
la Sezione De syLlogismis, perchè, da un lato, fa riconoscere, per
l’argomentazioue, un’alto valore all’entimema O IMPLICATURA o raggionamento
implicito --, e perchè, dall’altro lato, contiene una, per quanto meschina,
notizia della esistenza della IN-duzione. II contenuto di questa teoria del
sillogismo non offre, coni’ è naturale, assolutamente NULLA DI NUOVO, bensì è
preso da VITTORINO, e attraverso VITTORINO rinvia «ino a CICERONE e ivi
particolarmente il passo relativo, concernente 1 ’ cnthymemd. D’ altra parte,
infine, con alquanti semplici accenni a punti particolari, che in se stessi
stanno FUORI DAL CAMPO DELLA LOGICA – ma la prammatica di Grice -Isidoro quasi
direi senza volere da occasione a quelli che son venuti dopo, di sollevare
questioni, delle quali noi dovremo citare appresso le soluzioni, come elementi
del corso della storia. Una delle cose sopra le quali a tal proposito fermiamo
l’occhio, è la determinazione di mia DIFFERENZA TRA RAZIONALE E RAGIONABILE
[cf. GRICE], che, evidentemente fondata sopra un passo del commento di BOEZIO
alla Isagoge, può aver [ Orig.: Syllogismus Graece, Latine ARGVMENTATIO –
RATIONAMENTVM -appellatur. Syllogismorum apud rhetores principulia genera duo
sunt: inductio et RATIOCINATIO [PL. Sebbene dunque possa far maraviglia al
lettore che di tali cose io faccia menzione qui, risulteranno più sotto
sufficentemente i motivi, per cui è bisognato che, dello straricco tesoro di
scienza scolastica isidorea, io facessi risaltare proprio questi, e anzi
esclusivamente questi due elementi particolari. Si tratta in generale di rendersi
conto dell’assoluta intima MANCANZA D’INDEPENDENZA dei ‘filosofi’ di questo
periodo. De difjer. spirit.,
[PL] GRICE: INTER RATIONABILE ET RATIONALE hoc interesse sapiens quidam
[Agostino, De ordine, PL, dixit RATIONALE est, quod rationis utitur intellectu
– ut: “homo.” RATIONABILE vero, quod ratione dicium vel
factum est. Lo stesso, quasi alla lettera,’ Differ. PL. Porfirio aveva cioè,
nell’indicare quel eh’è comune al yivoc e alla Staqsopà, adoperato come esempio
il Xoy ixóv, in un passo che nella traduzione di BOEZIO (p. 95 [In Porph. a se
avuto per conseguenza che in seguito si facessero oggetto di ancor più accurata
ponderazione le parole del passo. Invece l’altra cosa consiste nell’
affermazione, connessa alla creazione dal nulla, che LE TENEBRE *NON* sono
sostanza, e di ciò non tarderemo a trovare appresso ima conseguenza ulteriore.
Alcuino: sua compilazione di un compendio di dialettica. Lo stesso punto di
vista d’Isidoro, così riguardo al valore della dialettica, come anche nella
bislacca compilazione di un compendio, prevale pure in Alcuino: coni’è noto,
dell’insegnamento, da lui impartito, della logica allora in voga, profitta lo
stesso Carlo Magno. Non soltanto troviamo in Alcuino la partizione delle
scienze secondo transl.: ed. Brandt, suona cosi: Cumque sit differentia
RATIONALIS praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione ufi, non solum
aulem de eo quod est RATIONALE, sed etiam de his qttae sunt sub rationali
speciebus praedicabitur ratione uti [PL]. Ora nel commento di queste parole
BOEZIO dice (p. 96 [ ittici ., ed. Brandt): de RATIONALI duae differentiae
dicuntur. Quod enini RATIONALE est, utitur ratione nel habet rationem. Aliud
est aulem. uti ratione, aliud habere rationem.... ergo ipsius RATIONABILITATIS
quaedam differentia est ratione uti, sed sub RATIONABILITATE homo positus est
[PL, Sentent. : Materia ex qua coelum terraque formata est, ideo informis
vocata est, quia nondum ea formata erant, quae formari restabant, verum ipsa
materia ex nihilo facta erat: Non ex hoc substantiam habere credetulae sunt
TENEBRAE, quia dicit dominus per prophetam. Ego Dominus formans lucem, et
creans tenebras [Eisa.] ; sed quia angelica natura, quae non est praevaricata,
lux dicitur. Illa autern quae praevaricata est, tenebrarum nomine nuncupatur
[PL) Einhahdi Vita Karoli lmperatoris [Pertz, MOH: audivit in discendis
caeteris disciplinis Albinum cognomento Alcoinum apud quem et rethoricae et
dialecticae ediscendae plurimum et temporis et laboris impertivit [PL. Poeta
Saxo, Annalium de gestis Caroli Magni Imperatoris, nel Pertz, MGIT, I, p. 271:
Artis rethoricae, seu cui diulectica nomen. Sumpsit ab Alquini dogmute noticium
[PL]] uno schema che si conforma a quello d’Isidoro, ma egli inoltre ripete
letteralmente, attingendo a quest’ultimo, la su riferita concezione teologica
romana o giudeo-cristiana della logica. Nello svolgere questi pensieri, mostra
dappertutto di apprezzare altamente LA FILOSOFIA, non la TEOLOGIA, e mentre
spesso a tale apprezzamento associa lamentele per la ignoranza largamente diffusa,
si leva a sentenziare che le arti liberali son le sette colonne della sapienza,
e così, nelle principali questioni teologiche romane e giudeo-cristiane sopra
il concetto del divino fa largo uso, rimandando ad Agostino, della tradizionale
filosofìa scolastica, cioè della teoria delle categorie. Ma che lo stesso
Alcuino scrive intorno a tutte sette le arti, è ima credenza già da gran tempo
confutata, essendo stato dimostrato che passa per essere opera di Alcuino mi
compendio del De artibus di Cassiodoro, molto letto. È bensì vero invece eh’
egli coltivò la grammatica, la retorica e la dialettica, e che inoltre
accompagnò 1’ invio a Carlo Magno del libro pseudo-agostiniano sopra le
Categorie con mi prologo metrico dove nel modo d’in[Ai.cuini Operu, ed.
Frobenius, Ratisbona PL e Dialectìca, P. cs., E pisi. Epist. 68 (p. 94), E piu.
ed. Diinimler, MGH, Epist. Grammatica PL: Sapicntia liberalium litlerurum
septem columnis confirmatur; nec alitar ad perfectam quemlibet deducit
scienliarn, itisi bis septem columnis vel etiam grndibus exaltetur. De Fide S.
Trinitatis ed Epistola nuneupatorio: ed. Diinimler, Epist.], Quaestiones de
Trin., Epist., Epist. ed. Dummler, Epist. Dal Frobenius, nella Praef., PL Tale
prologo è del seguente tenore ed. Dummler, MGH Continet iste decem naturile
verbo libellus, Quae iam verbo tenenl remm ratìone stupenda Omne quod in
nostrum poterit decurrere sensum. Qui legit ingenium veterum mirabile laudet,
Atque suum studeat tali exercere labore, Exomans titulis vitae data tempora honestis.
Rune Augustino placuit transferre matender le categorie è implicito il punto di
vista di BOEZIO. Lo stesso compendio di dialettica, che reca parimente in cima
mi simile INSIGNIFICANTE prologo, è scritto in forma dialogica. LE DOMANDE SONO
SEMPRE FATTE DA CARLO MAGNO. Ma Alcuino dà le risposte. In questo compendio, da
principio TUTTO E LETTERALMENTE preso da Isidoro, anche la divisione della
logica in retorica e dialettica. Ma al contenuto vero e proprio si passa con
una partizione, in sommo grado scolastica, della dialettica in cinque specie,
La prima Sezione, cioè, coni’ è naturale, la Isagoge, è COPIATA PAROLA PER
PAROLA da Isidoro, e neanche manca quell’unica proposizione esemplificativa. Fa
seguito una minuziosa notizia, intorno alle categorie, che è interamente
estratta dal compendio pseudo-agostiniano, con trascrizione BARBARICA delle
parole greche che vi s’incontrano. Di nuovo c’è aggiunta una cosa soltanto, che
cioè anche per le categorie viene ora formala qui una frase unica, presentata
come esempio [Ma mentre nel pseudo-Agoslino dopo la decima categoria
dell’habere viene la solita trattazione degli opgislro De veterum guzis
Graecorum clave latino. Quem libi rex, magnus sophiae sectator, umator, Munere
qui tali gaudes, modo mitto legendum [PL, K. Quot sunt species dilecticae? A.
Quinque principales; isagoge, categoriae, syllogismorum. formulae,
diffinitiones, topica, periermeniae. In veri là una disposizione mostruosa, che
mal si accorda inoltre con il numero di cinque, che si chiude con le seguenti
parole: tlaec commentario sermone de isagogis Porphyrii dieta sufficiant. Pinne
ardo postulat ad Aristotelis categorias nos transire. K. Ex his omnibus decerti
praedicamentis unam mihi conjunge orationem. A. Piena enim oratio de his ita
conjungi potesti Augustinus magnus orator, filius illius, stans in tempio,
hodie infulatus, disputando fatigatur.] posti, per tale argomento Alcuino
disdegna questa fonte, limitandosi a COPIARE ORA PAROLA PER PAROLA, con la
intestazione De contrariis vel oppositis, la Sezione corrispondente in Isidoro.
Invece immediatamente dopo, per i così detti Postpraedicamenta (prius e simul),
fa ancora un salto per ritornare al Pseudo-Agostino, omettendo tuttavia
affatto, di quest’ultimo testo, il cap. sull’immutatio. Viene poi, con la
intestazione De argumentis, prima di tutto un riassunto estremamente sommario
di quell’ estratto della teoria del giudizio, che BOEZIO incorpora al suo
scritto De differentiis topicis, e poi, in quanto che proprio lì si viene a
parlare anche dell’argomentazione, ima meschina scelta di alcuni esempi di
sillogismi ipotetici, svolti da BOEZIO in quello stesso scritto. Ma a ciò si
attaccano ancora subito i quattro primi modi dei sillogismi categorici, che son
tratti da Isidoro. La teoria della [Con la sola differenza che negl’esempi i
nomi propri o il contenuto degli esempi stessi sono trasportati ■iella sfera
morale-teologica romana e giudeo-cristiana. Nè al principio di questi
postpraedicamenta nè in chiusa, è stato segnato un qualsiasi trapasso, che li riconnettesse
alle trattazioni precedenti. Dopo ch ! è stato determinato che cosa sia
urgumentum (rei dubiae affirmatio) e che cosa sia oralio (veruni Dial.
Particolarmente si trova anche fatta qui novamente menzione di concetti
imaginari, p. es.: HIRCOCERVVS quod graece trngelaphus dicitur. PL. K. Num et
Ulne aline species quatuor (non enunciativa, ma, cioè interrogativa,
imperativa, deprecativa, e vocativa) ad dialecticos non pertinenl? A. Non
pertinenl ad dialecticos sed ad grammaticos.] zione, ma adduce inoltre alquanti
esempi attinenti alla sfera delle fallacie sofistiche, servendogli qui da fonte
Aulo GELLIO (si veda)[ Fredegiso da Tours]. Se questi due compendi che abbiamo
sinora considerati, ci presentano esclusivamente la forma di opere a centone,
nella compilazione delle quali non si fa neanche sentire più il bisogno
astrattamente logico di un qualsiasi ordine di successione che tenesse unito il
complesso, certamente, al paragone di tali prodotti scolastici, ravvisiamo già
un progresso, quando vediamo questo o quello filosofo sentirsi per lo meno
stimolato, dal materiale divenuto tradizionale, a proporre questioni, alle
quali tenta di dar tale o talaltra risposta. Ma non possiamo pretendere gran
che da siffatti primi tentativi: e nient’ altro che un documento di assoluta
mancanza di chiarezza, in quelle questioni che non tarderanno a determinare
dissidi di tendenze, ci è dato dalla maniera in cui Fredegiso, scolaro di
Alcuino, abate di Tours, in una Epistola de nihilo et tenebris, indirizzata ai
teologi della corte di Carlo Magno, viene alle prese con i concetti di « nulla
» e di « tenebre », dei Dialogus de Rhetorica et Virtutibus PL: Si dicis, non
idem ego et tu; et ego homo, consequens est, ut tu homo non sis. Sed quot syllabas habet homo?
Duas. Nunquid tu dune itine syllubae es? Nequaquam.
Sed quorsum ista? Ut sophislicam intelligas versutiam. Cfr. La [Stampata nella
Steph. Baluzii Miscellanea, ed. Dom. Mansi, Lucca, e di là riprodotta nella PL:
ma la edizione migliore, fondata sopra una nuova comparazione dei manoscritti,
si trova curata da Ahner, Fredegis von fours, Lipsia. Le parole introduttive
son di questo tenore. Omnibus fidelibus et domini nostri serenissimi principis
mjt ' J acro eius F tdntio consistentibus Fredegysus Diaconus [IL, quali, secoudo
la maniera usata, vuol parlare così ratione, cioè logicamente, come anche
auctoritate, cioè conforme alla teologia ortodossa, romana e giudeo-cristiana.
La occasione a tutto il dibattito è data certamente, in generale, dal passo già
citato di Isidoro, ma il modo d’intendere le questioni, a prescindere dal
generale punto di vista teologico romano e giudeo-cristiano, è, per riguardo
alla dialettica, cosi rozzo o così ingenuo, che di fatto non troviamo un
termine per qualificarlo. Poiché, dove non si presenta neanche la più tenue
traccia di riflessione sopra i così detti ‘universali’, ci è impossibile
parlare di realismo o di nominalismo. Insomma si tratta di ima mostruosità
tale, da non potersi neanche designarla come un primo passo verso idee venute
fuori in epoca più tarda. Non soltanto cioè si afferma, in termini secchi, che,
insieme con l’ESPRESSIONE (EXPLICATVRA) verbale, noi intendiamo immediatamente
la cosa, ma vengono inoltre assunte senz’altro come identiche la signi[Chl j.
m,ue Studichi senza prevenzione, consentirà che questo dualismo di ratio e
auctoritas. il quale si manifesta dappertutto rondo li • nd,e de ' le Par ° 1 !
'' * Fredegiso. Queste, sei rondo la piu antica lezione riportata dal Baluze i
suonano come segue: huic responsioni oblia,uhm est primari'. Ubet’ sedrZT
‘‘"'T' rfe,We betoniate, non q ua., ’ r "',0 ’,r ‘ dumtaxat, quae
sola auctoritas est salame immola " f 7 urd / NeS6Uno infaUi si Presterà
ad accreditare derZi^ ). Ma poi, anche nello scritto De institutione clericorum,
Hrabano viene a parlare delle sette arti liberali: e dopo che ivi egli lia già
in generale ammonito i teologi a guardarsi dall’abuso dell’arte di disputare,
questo atteggiamento circospetto è quel che predomina in lui, anche là dove,
seguendo l’ordine solito di successione, viene propriamente a trattare de
DIALETTICA dopo avere parlato della grammatica filosofica e della retorica.
Ripete cioè, per prima cosa. Opera, ed. Colvener, Colonia) Hrabani Mauri) De
universo: Logica autem dividitur in duus species, hoc est DIALECTICAM et
Rhetoricam. De instit. cler.: Sed disputationis disciplina ad omnia genera
quaestionum. quae in litteris sanciis sant penetranda et dissolvendo, plurimum
valet; tantum ibi colenda est Pl 'ioTTo I ^ PUenl ' S e I’815 "or 10 fra
r887 « r890) abbia esercitato in . en era e Ti r r ” rì,,i “ ) ’ “,,ra « t::
1,: è noto; ma può darsi che a noi ~z:: e t abbia T imes ° qn6to s. decisiv °
-*• °° ICa > ^iche, relativamente al punto il 122» voT ddla Patralógii
TeWiomtP-"-,«/; F, t0SS ’ e toTm * ferisco qui nelle citazioni. Ma a
nurlli J"*' 18j ? ’ al qua,e n,i ri ‘ opera dell’ Hauréau il Commentairede
le % 3ggl £ n . t0 '"Cora,,, r lionus Cupella (nelle Nolices et Extraitì T
^ Ér,gène sur Mar. 2, Parigi 1862 [p. 1 ss.]) Extraits dea Manuscrits, non
r’imér^no r qui*'ì!’a 1 nno ' ^ròv^to un rifl'’ 8 *" 0 C °" lo Soot °
letteratura, avendo Nicola Mofli ™T,nten f° anche "ella und seme
Irrthiimer OC S F,• tLEB preso posizione (J. S. E tro Fr. Am. Staudr™*™ U sT
1844) con Ze« 1«G. S. E. e la sci. nl,,,1 1 . • dle Wissenschuft seiner te
1834), e contro il Saint-Rtné TaiTi.andifr I>1, Gotha 1860), nè da V Kin. '
m"” C dottrina System des J. S E r« TI Jl. » Naulicm (Dos speculatil e,
negli Atti 3,'ll ó è ™ s Peeulativo di G. S. E » IP™!), nè da Gio v. Hubeh (/.
slVf ili vista logico, che lo Scoto si trova ad avere assunto, non sembra
comunque essersi pronunziato ancora un giudizio esauriente, quando ci si limita
a qualificarlo come realismo, o magari anche come realismo stravagante. Vero è
invece che con l’atteggiamento realistico, che in generale è fondato sopra la
concezione biblico-teologica romana e giudeo-cristiana, e che naturalmente a
nessuno può passare per il capo di negare allo Scoto, si unisce qui, in maniera
sommamente caratteristica, un motivo dialettico, al quale ci sembra di dover
attribuire somma importanza, perchè in esso ravvisiamo i primi lineamenti del
nominalismo scolastico. La prima cosa che certo si manifesta con la massima
evidenza a qualsiasi lettore dello Scoto, è la forma rigorosamente sillogistica,
nella quale si volge questo filosofo, mettendo con ciò in mostra nello stesso
tempo, per così dire, le sue conoscenze scolastiche di logica. È questa ima
cosa, della quale per se stessa non faremmo già particolare menzione, non
essendo qui compito nostro di registrare per avventura tutti quanti gli scritti
di tutti quanti i Padri della Chiesa o filosofi medievali, nei quali si riveli
un addestramento logico. Tuttavia nel caso presente sussiste, a quanto ci pare,
una stretta connessione fra tale cultura scolastica estrinseca e l’intima
struttura dell’ordine d’idee professato dal filosofo. Lo Scoto Eriugena
manifestamente, nella persuasione che la sillogistica, proprio nella sua forma
rigorosamente scolastica, abbia un valore filosofico, trae partito da tutte le
cose consimili. Così ne’ suoi scritti, a prescindere dalla frequente larga
trattazione delle categorie in senso teologico romano o giudeo-cristiano, si
presenta, p. es., della teoria del giudizio, la divi[Des ]. E. Stellung zur
mittelalterlichen Scholastik und Mystik f« La posizione di G. E. rispetto alla
scolastica e alla mistica medievale], Rostock), nè da Lod. Noack (Weber Leben
und Schriften des ] J. S. E.: [die Wissenschaft und Bildung seiner Zeit, Della
vita e degli scritti di G. S. E.: la scienza c la cultura del tempo suo »),
Lipsia.] aione in giudizi affermativi e giudizi negativi, e anzi con fa
terminologia affirmativus e abdicativus, o la indicazione delle varie specie di
opposti, tra i quali inoltre viene sovente messo in particolare rilievo il cosi
detto opposto CONTRADITTORIO: come pure viene fatta menzione delle relazioni
anti-tetiche sussistenti fra il possibile e 1 impossibile. Si trova anche presa
in considevolia ilio Scoto (de dlctóone a^°I'^ 1 p una Cap. delle Categorie
pseudo-azostini»,,» r W3j 111 C0 P‘ are *1 10° sario, -“j! ch è neces ' de div.
nat., I, 14, p. 462: Et hoc Ir i • i’ ^“ 8nto a * giudizio, v. p. es. ^soXoyla
iKo^onix-rj del Pseudo Dioniei ° r£ “ ; xaxcreaTtxrj e la damus exempio.
Essentia tZaZf A reopag,ta) brevi conci,,. coda : « supe’ressetZTLT ** ^
terminologia che ricorre ancor più volte nelIoVom 6 * 0 ''""' alla
confusione che abbiamo trovata di eb n r ’ Va r / 1 f 0n ® chiaro dalla
spieoare Pian, ad duplum... ; am per negat’ionZ Z Z SÌnt ’ ut s, ' m ‘ propter)
qualitates naturales per abZntiam’m°h “*\ °“*^ (, leggi AVT SECVNDVM
PRIVATIONEM, ut mors etvUaL n tenebrae sanitas et imbecillitas. Su questo numi
„ s, u contrarl “m, ut desuma fonte che Isidoro (v. sopri la „mwn? aU ' n, °
alla, ne ' cavato malamente dalle parole di 11 *.. : s °hanto che ha rie
absentia. 1 ' BOEZIO ° una distinzione tra PRIVATIO [De praedestinatione, 5, 8
n ì"». i,„,, i oluntate posset simul dici « libera est iihe quomodo de
eadem CONTRADICTORIE dicuna,r, quia simul fieri n “ l>; haec enim nat.:
comradictoZnJZ r p0ssunt ~ De divis. erit veruni, alterimi falsimi Non !«'
9'"a fient, et necessario unum ”r l htsa calidario ZloaZ 7e sZZ versahter
sint, sive particulariter fi, : subjecto eodem, sive unidelia terminologia di
BOEZIO (clntradZ ** Vede ’ C è '"escolanza nota 113) con quella di
M^ianoTl n ). Copella (proloquium) De divis. nat., II, 29 n 597Pn*.n,ir in
numero rerum computi impossibile dicet.... De quibus quisquis alene T .
pl,lloso P lum tium coniraOwi-E, hi JZ’Z,u,‘Z,ZZ": hoc p Z£L~ illt razione
la solita enumerazione delle varie specie di definizione. Ma principalmente
sono messe in rilievo dallo Scoto, tanto frequentemente, proprio dal punto di
vista formale, le forme dell’argomentazione: e non soltanto troviamo in lui, in
molti luoghi, intrecciati nel testo, sillogismi formulati assolutamente secondo
la regola delle scuole, bensì ancora egli molto si compiace di menzionare, con
i loro nomi tecnici, sillogismi appartenenti alla topica. Ma appunto per quest’
ultimo riguardo ha grande importanza per noi, che lo Scoto accuratamente
distingua il procedimento dialettico propriamente detto, cioè il sillogismo in
generale, dalla rimanente sfera puramente retorica, e per la dimostrazione dia
importanza decisiva alla sopito dispulutum est. È ben facile capire cbe questo
è tutto preso da BOEZIO. Quamvisque multae definitionum species quibusdam esse
videuntur, sola ac vera ipsa dicenda est definitio, quae a Graecis oòaubSr jj,
a nostris vero essentialis rocari consuevit. Aline siquidem aut connumerationes
intelligibilium partium oùatag, ai il argumentationes quaedam extrinsecus per
accidentiu, aut qualiscunque sententiarum species sunt. Sola vero oòauóSrjs id solum recipit ad definiendum,
quod perjectionem nuturue, quam definit, complet ac perjicit. Questo può essere
ricavato da Alcuino o da Isidoro (v. sopra le note 38 s.) o da BOEZIO. Tali
passi non si discostano da quella terminologia ch’è usuale in Boezio; così, p.
es., affirmativus, negativus, termini, diulectica proposito, jormula syllogismi
condilionulis, e così pure connexio (v. la Sez. XII, nota 141), e persino
tropus; inoltre troviamo ancora collectio e reflexio, che son termini propri di
Apuleio (v. la Sez. X, note 15 e 19). 81 ) Così, p. es., de praedest., 14, 3, p. 410; ibid.,
16, 4, p. 420. De div. nat., I, 49, p. 491 ; v. anche qui appresso le note 94
ss. 92 ) P. es., de div. nat., I, 27, p. 474: sunt loci diidectici u genere, a
specie, a nomine, ab antecedenlibus, u consequeiuibus, a contrariis, ceterique
hujusmodi, de quibus nunc disserere longum est. De praedest.: argumentum, quod ub effectibus ad
causam sumitur, locus a contrario e locus a similitudine, e similmente più
volte. Anche nel Comment. ad Muri. Gap. tres purles syllogismorum, i. e. ab
antecedentibusi, a consequentibus, a repugnantibus. Ma la conoscenza di tutti
questi loci lo Scoto la poteva ricavare esclusivamente de Cassiodoro. 'orma
logica soltanto. Anzitutto cioè viene da lui attribuito già il più eminente
valore a quèlla formulazione del sillogismo disgiuntivo, che, da CICERONE in
poi, si e conservata nella tradizione come enthymema, e che per tal via aveva
avuto accoglimento anche nella Enciclopedia d Isidoro (e ripetuta la stessa
cosa, a proposito di Alenino: ed effettivamente Scoto in questa forma del
sillogismo ravvisa il punto culminante di tutti gl’argomenta, i quali invero
sono ancora pur sempre considerati congiuntamente ai signa i r ra in: anzi la
forma dell’entimema ha potere d’in•'«rio a qualificare l’entimema stesso
senz’altro come syllogismus: e in verità in un altro passo, dove dice
espressamente di volersi servire deIl’*ico8«i*Tix* le dimostrazioni che
seguono, sono appunto presentate esclusivamente in quella forma disgiuntiva; ma
nello stesso tempo egli assegna tuttavia decisamente alle forme del cosidetto
sillogismo categorico un posto ancor più eievato, appun to perchè queste non
appartengono al meccasumuntur. Qribm tanta ’rii inll [ R Stu " t
contrarietatis loco excellcntwe suae merito a ('rimri^'è'h""'' qt ‘°
(ìam privilegio conceptiones rLZ sicJZZ e,,lhymemnt “ dicantur. hoc est, munì
est illud, nuoci sumitur * '‘ rsu . met },orum omnium forlissicalium aptissimum
est. quo d ducitur "ab end" ° mnU,m . si S"°rum volhid.. m, 1 n
193 . „ \ tU, et >dem conlranetatts loco. Diulècticisac RhètorZiseZnt"”
^ediyimus. a xaTavTC'fpaat .5 IW 4vtt*p«oi ^ TestZmTi’uZ grnmmaticis ver °
gnorumque verbalium nobilissima v loT^T ar ^ n -n'orum stiri fine, e cfr. poi
la nota 189 * qm appresso la nota 96 > concluditur, quodsemperesTn coni nulo
°c" "" '',,r * umento (ora segue un sillogismo della l'orma Non
eZnVn'B* 4 ° “** ergo B non est: v. la Se? Vili t.n i l 1 „ et A est. Idem
quoque syllogismiis hnr 'm 1 ' p a • XII, note 13 e 69 ).... cibici. 4 3 n T?J
w connectitur (id. c. *.). àitoS.txxtx^ utamur, primufnfadversus ZT"e
uTl^’ * C *f" r sillogismi della forma ricordata or ,U f ann,° S, '* U1| °
due parole, da uomo consapevole della vitro* P °A S ‘ con queste Via igitur
regia gradiZdtm, r, ?''' C °
ncIllsum est igitur.... vcrtendum, etc. ’ ° " d d^ternm, nec ad sinislram
dinismo dell’argomentazione retorica, apparentemente più efficace Bli ). Ma che
questa preponderanza della forma sillogistica sia stata anche subito sentita
come tale dai lettori dello Scoto, ci è confermato dalla ineccepibile
testimonianza di un anonimo del IX secolo, il quale dice che Scoto fa
consistere la dialettica in un continuo incalzarsi e cacciarsi (fuga et
insecutio) delle proposizioni. Scoto, del resto, la conoscenza delle forme
sillogistiche da lui usate, la poteva ricavare esclusivamente da 8l! ) Vale a
dire, in occasione di una dimostrazione piuttosto lunga, relativa alla
immaterialità della sostanza ( de div. nat., I, 47 ss.), troviamo anzitutto,
dopo le parole introduttive hus inique paucas de pluribus dialecticas
collectiones considera, due sillogismi categorici secondo il primo modo della
prima figura, c appresso segue un'argomentazione in forma dilemmatica; ma dopo
questa si trova la seguente transizione: l’t uulem piane cognoscus,... hunc
argumentalionis accipe speciem. [Discipulus] Acci piani ; sed prius quondam
formulalii praedictae argumentationis fieri necessarium video. Nam praedicta
ratiocinatio plus argumentum u contrario videtur esse, quam dialectici
syllogismi imago. [Magisteri Fiat igilur maxima propositio sic: e ora seguono
quattro sillogismi secondo il modo 2° della 1* figura, con le parole
conchiusive: huec formula idonea est; ma immediatamente appresso: [D.] Hoc
etiam certa dialettica formula imaginari volo. | M. | Fiat itaque fornuda
syllogismi conditionalis ; il che si verifica nella forma : Si A est, lì est, A
vero est; e dopo tutto questo si trova, per chiudere in maniera energica,
ancora un entimema: Si autem èvtì-upijiiaTOf. hoc est, conceptionis communis
animi syllogismum, qui omnium conclusionum principatum oblinet, quia ex his,
quae simili esse non possimi, assumitur, audire desideras, accipe hujusmodi
formulam. Riferita da V. Cousin, Ouvr. inéd. d’Abél: Secundum vero Joannem
Scottum, est dyalectica quaedam fuga et insecutio, ut cum quis dicit « omnis
honestus est », et insequitur alius dicendo omnis honestus non est, talis haec
disputatio fugae et insecutioni videtur esse consimilis. Se del resto già
l’abate Benedetto da Aniane [Francia Merid.], si lamenta di un syllogismus
deltisionis iipud modernos scholasticos, maxime apiid Scotos (Baluzii Misceli.,
ed. Mansi), non è leeito già inferire da ciò, che lo Scoto abbia potuto
ricavare la propria abilità dialettica da studi di logica che fossero con larga
diffusione coltivati nelle scuole della Scozia: bensì quel lamento si riferisce
esclusivamente a un singolo contrasto dommatico (riguardo alla Trinità), il
quale può esser denominato syllogismus nella sua formulazione, nè più nè meno
che cento altri simili Isidoro o da Marciano Capella, e non c’èun solo passo
che ci costringa ad ammettere eh egli abbia mai conosciuto anche gli Analitici
di Aristotele, nella traduzione di BOEZIO os ). [b) posizione dello Scoto,
rispetto alla dialettica Ma proprio questi elementi, che per così dire
appartengono alla prassi logica dello Scoto, ci apron la via per passar a
considerare anche la posizione teoretica di lui, nei rispetti della dialettica.
Nelle arti liberali in generale, egli ravvisa i prodotti di una naturale
attitudine dell amma umana, e pertanto un suo ornamento B8a ), in quanto che
esse sono le compagne e le investigatrici della sapienza "); ma nello
stesso tempo riconosce che quel che importa qui è la disposizione di spirito,
trovando hi particolare la dialettica, della quale è facile abusare, il proprio
compito essenziale nella lotta contro gli eretici 10 °). ) 1 oicliè questo
punto avrà ancora più volte importanza ner noi ho dovuto di proposito fin qua
richiamare còsi n inutàumnte rat’tenzione sopra le fonti della logica dello
Scoto. )G ommenl. ad Mari. Cup. [Artes libe:tZ ] n, 0la iPSa amma P erci P'
umur ’ nec uliunde assi,n,untar sed nalurahier in anima mieli,gannir ; p. 30:
Liberales disciplinar ’natu r ali ter insunl in anima, ut aliunde venire non
intelligunUir ■ et ideo TCTTìI ~, Cfr q,,i appresso la noia l78 (cioè ri.-’ fi
• ’’ ’• P430: ^ rrorem saevissimum eorum (cioè de suoi avversari dommaUci)
....e* utilium discinlinarum alias, psa sapienti a suas comites
investigatricesque fie^voluTTdr S ira la notai 50), ignorantia credtdenm
sumpsisse primordio In un A ìSi " 4 "'“ » aZerS denTk 77™ Gotes
UerumSez. XII note 84 J ST: Tt ^zrZiiri uctìones ’ sensui subjacet: cirro nnnm
... . • P nr, ‘ l ' s _>'st, nulhque corporeo versuntur. Al si illa
incorporea est^nuTtìb' Ziter'vìd t omnia, quae ani ei adhaerent, au, in P «
subsistoZ, ' non possimi, incorporea sint 9 ‘slum, et sine ea esse se
immutabiles puro mentis contuitn „ t f r ! ale f* Q h*er res per ' rontl
‘“" perspiaenlur in sua simplicisce anche il concetto di genere in maniera
del tutto realistica 115a ), anzi ripete minutamente la dimostrazione, ricavata
dal Pseudo-Dionigi, che essentia e corpus sono totalmente diversi e non possono
essere mai scambialino. In una parola, è un avversario sistematico della
sostanza individuale (del xóSe ti) di Aristotele. [e) ontologia e dialettica],
Ma dobbiamo riflettere che, per lo Scoto, tutta quanta la sfera del molteplice
(dimque infine anche la pluralità delle categorie stesse) viene a cadere in
quello stadio in cui la sussistenza concreta è propriamente qualche cosa che
non dev’ essere, perchè la pluralità è provenuta per via di divisione dalla
unità, e ha essenzialmente per funzione di essere di nuovo risolta nella unità,
e in tale processo proprio il punto mediano dev’ essere quello di massima
lontananza, sia dalla unità originaria sia dalla unità finale. Così la
formazione delle cose infinitamente molteplici del mondo sensibile è la prima
parte del processo, come dire una scissione della Divinità: e Scoto spiega, in
accordo con Gregorio da Nissa, il manifestarsi concreto delle cose sensibili e
in tute, aliler senati corporeo in ali quii materia ex concursu earum facto
compositae. Omnia erìim, quae intellectus in rulione universaliter considerai,
particulariter per sensum in rerum omnium discretas cognitiones definitionesque
partilur (dunque rSpiattxóv delle definizioni speciali viene già a esser più
pertinente alla sfera sensibile. Il passo di BOEZIO).,ls ‘) Comm. ad Alari.
Cap„ Genus est multarum formarum substantialis unitas.... Est enim quaedam essentia quae
comprehendit omnem naturam, cujus participatione consistit omne quod est. Substantia generalis est multorum individuorum
substantialis unitas. De div. nat. Sed adversus eoa, qui non aliud esse corpus,
et aliud corporis essentiam putant, in tantum seducli, ut ipsam substantiam
corpoream esse, visibilemque et traclabilem non dubilent, quaedam breviter
dicendo esse arbitrar: f t autem firmius cognoscas, oòalav id est essentiam,
incorruptibilem esse, lege librum sancti Dionysii Areopagilae de divinis
Nominibus eie.: e a ciò fa seguito la dimostrazione estesa. generale la origine
della materia, con il fatto che alcune categorie vengono a trovarsi insieme,
per modo da poter essere apprese dai sensi) : e nello stesso tempo, in questo
generarsi, analogamente che per i filosofi precristiani, opera poi il fuoco,
come quello che dà la forma alle cose sensibili. Ma poiché ora, secondo lo
Scoto, non in altro che in questa molteplicità del mondo deve, per opera della
filosofia, essere scomposta (5iaipruxVj) la unità divina, e da quella deve da
capo partire la via da percorrere per il ritorno alla unità (àvaXtmxrj), quel
grado intermedio della pluralità acquista una speciale importanza anche per la
dialettica, poiché proprio in quella stessa pluralità del sensibile si viene a
contessere la favella umana, come mezzo di espressione. A quel modo perciò che
nelle cose sensibili le categorie, incorporee in se stesse, sono alla fine
diventate corporee (per quanto m maniera enimmatica e mistica), così anche il
linguaggio, in quanto è sensibile, afferrerà le categorie soltanto nella forma
verbale sensibile-corporea (per quanto parimente con un intrecciarsi di motivi
mistici), e appunto lo stadio intermedio della dialettica, vale a dire **? rh '
d ' 34 ’ Quantitàs vero, qualitasque. situs, et habifT \ nte \r COeu ’ ltes
mater iem.... jungunt, corporeo sensu per Wcl nU alluTT GregoriusN y s ^-orti*
raHonibu, ita esse ahud dicens matenam esse, nisi aecidentium quondam compositi
0, nem ex mvis.lnlibus causi® ad visibile® materica, pròcedentem [Lo Scoto cita
il Sermo « De Imagine» del NiTsen” ma forse parafrasa I cap^XXHHV del libro «
De hominis opificio *] interni 2 ’ 5' 494 S : Formarum al,l ‘e in oùoia. aline
in qualitate uVc" r; j ^ '"°' iOÌa « "‘bstantùdes speciel
generis ti^ 'seu mLtn* 8 ’ °, ‘"Tatque P° XÌ,Ì onem naturali um par “7
" Ì r r r «d quahtatem referri, formatnque proprie vomembra e [ l ",T
dl ? ìtt . am 1 en ‘ e « forma, bensì all’armonia delle membra e bellezza del
colorito] ex qualitate ignea, quae est color FXfrDe i rr tur Et h r n vocatur a
form °’ h ° r si rai ' d (v! 1 estus [De I erborimi significata ed. Lindsay, p.
73] s v forma) Udum Sa rii diffinitione non dissential.... (PL 9 lj,y oj. ):
Aristoteli genus, speciem, difjerentiam. propnum et accidens, subsistere
denegava (se. Minerva), quae Platani subsistentia persuasa. Aristoteli an
Plotoni magis credendum pulatis. Magna est utriusque aucloritas, quatenus rix audeat quis
allerum alteri dignitate praeferre [PL]. Cui
rei Aristoteles in libro Peri Ermenias congrua bis verbis: Sunt ergo ea quae
sunt in voce, earum quae sunt. Altre notizie ancora, appartenenti alla seconda
metà o alla fine del secolo X, possiamo citarle soltanto come documento del
perpetuarsi della tradizione scolastica; tal è il caso, quando vien riferito
che il vescovo \ olia n g o a Ratisbona in una disputa teologica trovò maniera
di applicare le varie specie in cui può esser diviso Yaccidens (a tal proposito
c degno tuttavia di nota, che il metodo dialettico viene denominato carnali^
antidotus), o quando vengono menzionati gli studi di logica, di lAbbone da
Orléans, che studia a Fleury e ivi successivamente insegna, e del vescovo
Bernward a Hilin anima passionimi nolae [cfr. BOEZIO, p. 216 e 297; Prima
cditio, I 1 ed. Meiser, Pars Prior, p. 36; Secunda edilio, I, 1, ed. Meiser, Pars
Posi.; PL, 64, 297 e 410], Omnis nota aUcujus rei nota est. Prius ergo res est
quam nota. Res ergo prius ponderando est, quum nota».... Boetius tir
eruditissimus in libro Peri Ermenias secundae editionis [p. 450; VI, 13, ed.
Meiser, Pars Post., p. 4a), Spira pret.. Analitici e Topica, e a proposito di
quest’ ultima, d’accordo con BOEZIO (de diff. top.), riconosca che i due campi,
dialettico e retorico, sono a contatto uno con l’altro, per accennare da ultimo
a Cicerone, rappresentante della retorica vera e propria, in quanto questa non
venga a ricadere nella sfera dialettica 206 ). [§ 22. Gerberto, figura
ASSOLUTAMENTE INSIGNIFICANTE: a) materiale degli studi di logica al tempo suo].
J "*) Il 1° Libro (ibid., p. 35) s'intitola: Primus libeUus de studiopoetae,
qui et scholasticus, e dopo aver trattato della poesia, fa seguire la
filosofìa: Inde ubi maiorum tetigit nos cura ciborum, Porphyrius claras nobis
reseravit Athenas, Qua multi indigente librabunt verba sophistae. Cernere erat
quondam vidtu pallente puellam. Pructica cui limbum pinxitque theorica peplum,
Et licet effigiem macularet parva (leggi: prava) vetustas, Ipsa tamen ternas
suspendit ab ubere natas (v. ibid. la tripartizione della sfera teoretica).
Praeslitit haec nobis summi subsellia ledi. Et postquam strato licuit
discumbere cocco. Proceduta senae turba comitante SORORES (cioè dialettica,
retorica, ritmica, matematica, musica, astronomia). Ingenui vultus non absque
gravedine gestus Adducit famulas praestanti corpore quinas (cioè le cinque parti
che vengono subito appresso) Omnia sub gemino claudens Dialectica puncto (il
duplice punto di vista è invenlio e io dicium, v. la Sez. XII, ibid.). Prima
quidem (la Isagoge) miles generali nomine pollens Insignita tribus (cioè genus,
species, difjerentia) unum selegit amictum. Hanc vice continua sequitur
gradiente secunda (le Categorie). Tertia (la teoria del giudizio) discredi
quidquid primaeva coegit, Dans operam sane cirros crispare secundae, Quos
quartae (sillogistica, cioè Analitici) solido collegit fibula nodo. Inslabilem
fucum lulit ultima (la Topica) quinque sororum Dodo quibus geminas decernens
Graecia jormas (cioè loci dialettici e retorici) Pinxit « quale » tribus, «
quid sit » reperendo duabus (cioè il Quale consiste in persona, tempus,
circumstanliae , e invece il Quid in definitio e descriptio), Ut reboant nobis
deliramentu Platonis (questo non riesco a spiegarlo). Inde suam stipai comilem
pressura sodalem Rhetoricam duplicis vestitam flore coloris, Quuc iaciens
varias nervo pulsante sagittas Monstrat hypothetici nobis spedaicula ludi. Et
ioni cornuta surgens ad sidera fronte Causarum rivos putido profudit ab ore.
Sed postquam illatas pepulit conclusilo lites Ipsaque gravigenas conipegit pace
sophistas. Omnibus asseculum veniente porismate laetis Sub pedibus Eogicae
recubabat nexa coaevae, Commissura tibi reliquie rum munia, Tulli. A ciò fanno
seguito la ritmica e le altre discipline nominate più sopra. Anche del famoso
Gerberto (Papa Silvestro II) dobbiamo anzi affermare la stessa cosa, che cioè
egli, senza originalità, rimase assolutamente irretito nella tradizione
scolastica: purtuttavia c’è d’ uopo bitrattenerci sopra di lui alquanto più a
lungo, appunto perchè a lui e al suo comparire si riconnettono notizie
preziosissime riguardo ai limiti ristretti, entro i quali era contenuta in
quell’epoca la trattazione della logica). Ci racconta cioè anzitutto un
contemporaneo di Gerberto, come questi in gioventù fosse iniziato alla logica
da un chierico eminente (probabilmente Giselberto) a Reims, dove poi incominciò
subito la sua operosità di maestro delle solite discipline scolastiche). Ma,
come colui che riferisce la notizia enumera a tal proposito distesamente e
compiutamente anche tutto m ) Per notizie sul conto di lui in generale, v. M.
Buedincer, Gerbert’s U’issenschaftliche und politische Stellung («Posizione
scientifica e politica di G. »), Cassel, e K. Werner, Gerbert !’• Aurillac, die
Kirche und Wissenscfiaft seiner Zeit (« G. da A., la Chiesa c la scienza del
tempo suo»), Vienna [2* ed.,J. a ®) Richeri Historiarum (Pertz, :MGH, V, p.
617): luvenis igitur apud pupam relictus, ab eo regi (cioè Ottoni) oblatus est.
Qui (vale a dire Gerberto) de urte, sua interrogatus, in mathesi se satis
posse, logicae vero scientiam se addiscere velie respondit.... Quo tempore G.
Remensium archidiaconus in logica clarissimus habebalur. Qui etium a I.othario
Francoricm rege eadem tempestate Ottoni regi Italiae legatus directus est (un
arcidiacono di Reims in quel tempo, con il nome incominciante per G, sarebbe
Giselberto, presente al Concilio d’ingelhcim: v. Marlot, Metropolis Remensis
historia. Lilla; il Buedincer e 1 Olleris; v. [per la precisa citaz.
delPoperg;, ai quali si unisce il Werner, pensano a Garamnus, menzionato [dal
Mabillon] negli Acta Sanctorum Ordinis S. Benedicti : Saec. [dove precisamente
trovo ricordato il « Signum.... Geranni Archidiaconii »]. Cuius adventu iuvenis
exhilaralus, regem adiit, atque ut G.... o committeretur obtinuit. E G.o per
aliquot tempora haesit, Remosque ab eo deductus est. A quo etiam logicae
scientiam accipiens, in brevi admodum profecit, G....S vero cum mathesi operam
daret, artis difficultate iictus, a musica reiectus est. Gerbertus interea
studiorum nobilitate praedicto metropolitano commendatus, eius gratium prue
omnibus promeruit. linde et ab eo rogatus, discipidorum turmas artibus
instruendas et adhibuiI [PL il repertorio di scritti di logica, di cui si
serviva Gerberto nell’ insegnamento, così veniamo in possesso di un documento
tanto importante quanto decisivo, per provare che pur alla fine del secolo X
restava ancora sempre sconosciuta la traduzione, dovuta a Boezio, degli
Analitici e della Topica di Aristotele: perchè proprio di questi manca la
menzione, mentre vengono citate in fila tutte le altre traduzioni e i lavori
originali di Boezio (v. la Sez. XII, note 72 s.); ed è altresi degno di nota
che Gerberto facesse venire l’insegnamento della retorica soltanto di seguito a
quello della dialettica, come pure che il cronista nel suo racconto assegnasse
ancora la retorica alla logica, trovandosi pertanto a considerarle da quel
punto di vista, che abbiamo veduto proprio d’Isidoro, Alcuiuo e Hrabano (note
27, 54 e 79 di questa Sezione) 209 ). Ma ci viene riferito inoltre che Gerberto
si occupava di delineare una figura, nella quale fosse rappresentata in una
Tabula logica la distribuzione di tutte le cose; venne tuttavia su questo punto
a contesa con Otrico, e con ciò va messa in relazione una disputa filosofica
che si svolse =l *l Ibill, (in continuazione) L4-6-8J : Dialecticum ergo ordine
librorum percurrens, dilucidis senlentiarum verbis enodavit. In primis enim
l’orphyrii ysagogas id est introductiones secunduin Pictorini rhethoris
trunslationem, inde etinm easdem secunduin Mani inni explanavit, Cathegoriarum
id est pruedieamenlorum librino Aristotelis consequenter enucleans.
Periermenius vero, id est de interpretatione librimi, cuius luboris sit,
aplissime monstravit. Inde edam topica, id est argumentorum sedes, a Tullio de
Graeco in Latinum translata et u Manlio constile sex commenlariorum libris
dilucidala, suis auditoribus intimavi!. Necnon et quatuor de topicis differentiis libros, de
sillogismis cathegoricis duos, de ypotheticis tres, diffinitionumque librum
unum, divisionum aeque unum, utililer legil et expressit. Post quorum laborem
cum ad rhethoricam suos provehere velici, id sibi suspectum erat, quoti sine
locutiontim modis, qui in poelis discendi sunt, ad oratoriam arlem ante
perveniri non queat. Poelas igitur adhibuit quibus ussuefactos, locutioniunque
niodis composilos, ad rhethoricam trunsduxit. Qua instructis sophistum
adhibuit: apud quem in controversiis exercerentur, ac sic ex urte agerent, ut
praeter arlem agere viderentur, quod oratoris maximum videtur. Sed haec de logica. In mathesi vero. etc. [PL a
Ravenna, al cospetto di Ottone II, allora quindicenne 21 °). Un’ altra più
minuziosa narrazione concernente questo colloquio, ci fa chiaramente
riconoscere, che sopra l’argomento i contendenti sapevano semplicemente a
memoria quel che aveva detto Boezio (nel commento alla Isagoge), e su tal
fondamento dibattevano la controversia, se cioè il concetto di RAZIONALE sia
più ristretto che quello di Mortale, o non piuttosto, viceversa, si dimostri
più ristretto quest’ ultimo Z11 ). Huconis monachi Virdunensis, abballa Flaviniacensis,
Chronicon (P'ertz, MGH) : Quo tempore Otrieus apud Saxones insigni*
habebatur.... Adalbero Romam cum Gerberto petebat, et Ticini Augustum (cioè
Ottonem) cum Ottico reperit, a quo.... duo tus.... Ravennani, et quia anno
superiore Otrieus Gerberti se veprehensorem in quudam figura cum mulliplici
diversarum rerum distribuitone (presa da Boezio, p. 25 (in l’orph. a Vict.
transl.: ed. Brandt; PL) monstraverut, iussu Augusti omnes pnlatii sapientes
intra pululium colletti sunt, tirchie piscopus quoque cum Adsone abbate
Dervensi et scolasticorum numerus non parvus; et coeptu disputatone, cum iam
pitene lotum diem consumpsissent. Augusti nulu finis impositus est. È
inconcepibile che il Werner, abbia potuto, con accento di biasimo, rinfacciarmi
di aver antccipato la data della disputa, riportandola all'anno 870, perchè
nella prima ediz. di questo volume (pag. 54) si poteva pur leggere chiaramente
il numero 970; senza poi contare che non è lecno ritenermi capace di far
partecipare a un dibattito nell' 870, un uomo che io stesso dò come morto nel
1003. "“) Richerj op. cit., e. 60 e 65, p. 620 s.: Otrieus.... a il:
«Quoniam pliilosophiae partes uliquol hreviter uttigisti, ad plenum oportet ut
et dividas, et divisionem enodes...... Tunc quoque Gerbertus: 4 ....secundum
Vitruvii (leggi Victorini ) atque Boctii divisionem dicere non pigebit. Est
enim philosophia genus; cuius species sunt. predice, et theorelice: praclices
vero species dico, dispensativam, distribulivam, civilem. Sub theoretice vero
non incongrue intelligunlur, phisica naturalis, mathematica intelligibilis, or
theologia intvllectbilis. La fonte è BOEZIO. Tunc vehementius Otrieus admirans
I versa circa la distinzione tra l’octu.s necessaria, l'actus non necessanus,
il quale ultimo ha origine a palesiate ovvero a subsistendo. e analmente la
pura e semplice potenzialità. Gerberto mette questa partizione in forma di
tabella: ma in ciò può ben ravvisarsi soltanto un modesto titolo di merito,
poiché, ch’egli non abbia neanche un solo pensiero suo personale. Io
dimostriamo, qui come apP m?’/ IC ? 1 no\emotiva di Monaco (C.od. lui. 14272),
contiene questa lettera. tuisce l’oggetto di giocherelli sillogistici: dopo
averla rappresentata cioè in modo assoluto come una disutilaccia, a Adalberone
viene in mente di saggiare logicamente la validità universale di questo
giudizio riprovativo, e procede ora a una disquisizione in forma dialogica, per
sostenere che il giudizio è singolare, che c’è un opposto contraddittorio del
giudizio stesso, e via dicendo: viene appresso l’invito a fornire a regola d’
arte la dimostrazione della inutilità di quell’animale 2S0 ) ; ciò si fa
percorrendo nel dialogo, in forma antitetica, l’intiero elenco dei giudizi
ipotetici 233 ), e a ciò si trovano anche fram-, hc riempie una pagina e mezzo
in folio (fol. 182 tO. Pare elle il titolo riferito più sopra sia stato
semplicemente combinato dal Pez. FUilco). Denique haec mula.... non esset
universaliter, seri polius aut particulariler aut indefinite, quae paene unum
suiti, inutilis proponendo.... Igitur quae particulariter quoquo modo utilis est,
omnimodis universaliter inutilis non est. A(dalbero). Si hanc iauliiem atque inhonestam
indefinite vituperarem, veruni a falso non diseernerem, nam huius mulae
inutilitas, si universaliter esset dedicatila. particulariler esset abdicatila
(cioè sarebbero allora predicati nello stesso tempo concetti contraddittori). Sed haec viluperatio ncque
universaliter ncque particulariter est determinata.... igitur quia singularis
est, neutrum horum est. F. Singulare
dedicativum nonne suum hubet abdicativum?... Putasne, universale propositio
universali, purticularis particolari, indefinita indefinitae sicut siaglilares
contrudictorie opponuntur? A. Piane opponuntur: si substantia fuerit, erit
praedicativa, sive sit sive non sit. F. Putasne. si accidens? A. Eodem modo
opponuntur, si illud fuit inseparabile. F. Omne inseparabile contrudictorie
opponitur? A. Non. _F. Illud tanlummodo cui aliquid possit uccidere, et illud
dicitur substuntiale. Sed nunc ex arte, non de arte, nostris affirmalionibus
cum luis repugnantiis hanc mulani esse inulilem atque inhonestam onci nei
profiteberis. Qui sono mescolate insieme la teoria di Boezio (fin Ar. de
interpr.. ed. seconda, II, 7 e III, 10: ed. Meiser, p. 117 ss. e 255 ss.; PL, e
la terminologia di Alareiano Capella (ibid.. nota 66). 31 ) A. Mula haec si
claudicai, male ambulai; atqui claudicai : igitur male ambulai. F. Mula haec si
claudicai, mule ambulai: utqiii non claudicai; igitur non male ambulai . A.
Mula haec non. si claudicai, male non ambulai; atqui claudicat: igitur male
ambulai. F. Mula haec non. si non male ambidat, claudicai : atqui non male
ambulai; igitur non claudicat. A. Si valida non est. debilis est; atqui valida
non est; igitur debilis est, e via dicendo. 106 mischiate enunciazioni di
regole logiche) ma l’insieme, clf è preso tutto quanto da BOEZIO, si chiude con
l’accenno a lma causalità demoniaca della inutilità della mula, una
spiegazione, questa, che dovrebbe, a quel che sembra, sodisfare ambedue le
parti contendenti. Scolaro di Gerberto e panmente Fulberto, vescovo di Chartres
(dove nel 990 aveva aperto una scuola, e vi resse la sede vescovile dal 100/ [o
1006] sino alla morte,che godette di grande reputazione come conoscitore della
dialettica 234 ), sì che persino gli f u conferito il soprannome di Socrate dei
Franchi). Ma, mentre assolutamente nulla di preciso ci è noto, in ordine alla
sua teoria F e' A ' et negalio semper est in pruediculis nota 119) adhibetur,
vind/cat sibi vini contradictionis et modus in1 A Hon et eodZTn em P
°"" P, r “ cA ' c ""' s Sminati» subiectis. 4 7>liL f'i
nominali appresso da Tritenuo, sono d. contenuto puramente teologico). erio
iì““S . Ji Bereiim’SLST logica 23B ), dobbiamo in ogni caso tenerlo in gran
conto quale maestro di Berengario da Tours, sebbene sia lecito argomentare che
da Fulberto le conoscenze e l'abilità, relative alla dialettica, erano ancora
tenute del tutto lontane dal campo teologieo-dogmatico, poiché per quest’ultimo
riguardo egli esortava i suoi scolari alla più rigorosa ortodossia 237 ). Ma
possiamo, in generale, scorgere un segno di più intensa operosità,
relativamente alle condizioni di quell’epoca, già nel fatto che di nuovo si
procedeva ad apprestare compendi o si elaborava con commenti continuativi il materiale
esistente a uso delle scuole, poiché, quantunque in ciò non donimi ancora una
energia creativa ùltimamente personale, purtuttavia si torna a ravvisare nella
conservazione o nell’ incremento del sapere logico il vero e proprio fine:
l’attività si volge cioè alla teoria come tale, sebbene senza originalità.
[Anonimo rifacimento metrico della Isagoge e delle Categorie: colorito
nominalistico]. Cosi un A il o n i ni o Ila rifuso in esametri la Isagoge e le
Categorie), per imprimersi nella memoria, con questo primo suo lavoro, come
dice egli stesso nella introduzione in prosa, indirizzata a un certo Belinone,
il contenuto di quei libri 239 ). Inco3, l La notizia, che Fulberto abbia
mandato la Isagoge allo « scholaslicus » di un chiostro (v. Fui.berti Opera,
ed. Villiers, Parigi 1608, Ep. 79, fol. 76 b [PL: Ep.) è priva d'importanza. I
Adelmanno, loc. cit., p. 3 [§ 6-8): obtestans per secreta ilio....
[colloquiai..., et obsecrans per lacrymas,... ut illue omni studio properemus,
viam regioni directim gradientes, sunctorum Patrum vestigiis obsenantissime
inhaerentes, ut nullum prorsus in diverticulum. milioni in novam et fallacem
semitoni desiliamus etc. f PL. loc. cit. or ora, nella nota 2351. Il lavoro è
riprodotto a stampa, di su un codice di St. Germain (n. 1095), dal Cousin,
Ouvr. inéd. d’Abél., p. 657-669. ) Chi sia stato o dove sia vissuto quel tal
Bennone, non può mincia con il prendere da Boezio la divisione (Sex. XII, nota
77) dell’ Organon aristotelico, e pensa a tal proposito che la faccenda sia andata
cosi: che cioè Aristotele abbia incominciato con lo scrivere i primi Analitici,
e poi, siccome questi erano riusciti incomprensibili, abbia scritto appresso
gli Analitici secondi, ai quali per lo stesso motivo ha dovuto far seguito la
Topica, come pure poscia il De interpr., e quindi ancora le Categorie; ma non
avendo voluto Aristotele scendere, per farsi capire, a un livello ancor più
basso, e avendo perciò passato sotto silenzio le quinque voces, è intervenuta
qui per fortuna, a compier V opera, l’attività di Porfirio. II contenuto della
Isagoge viene poi spicciato molto sommariamente con la semplice indicazione
della definizione delle quinque voces 241 ), e indi fanno seguito le
Categoricavarsi dalla introduzione, che si tiene affatto sulle generali. Del no
stesso lavoro dice ivi l'Autore: Quoniam complurium mci ordinis scholusticorum,
praesul venerande, oblatus tibi litteras omni gradarum idacritate saepius te
audio suscepisse,... tuue confisus.... pietati uliqua et ego offerre litterarum
jocularia praesumo tliae maiestati. Feri animus, Dei aspirante grada, quum
puueissimis oratione metrica absolvere, quod Porphyrii Isagoge et Aristotelis
Calegoriae videntur in se continere. Quod batic ob causam maxime decreta agere,
ut, quae illi latius difjudere, breviter collecta per me tenaci diligentius
crederem memoriae. Nomina quoque grueca quaedoni interposui, ubi lege metri
constrictus latina non potili.... Id mihi ne duculur litio, primum abs te,
pater piissime, cui hoc litterarum munere ingenii mei primitias immolo, deinde
ab omnibus veniam /tostalo. ) lbid„ p. 658: Doctor Aristoliles, cui nomen ipsa
dedit res, Ingenio pollens miro praecelluit omnes. Hic, natis post se diulectica ne
latuisset, Primos componens Analilicos studiose. De syllogismis ratio
perpenditur in quis, Credidit ut sapiens hos planos omnibus esse. Sed cum
nullus eis intellectu capiendis Sufficeret, rursus tentai prof erre secundos :
Quos ncque posse capi cum sensit. Topica scripsit ; Hinc Perihermenias,
postremo Cathegorias : Post quas finitas. descendere noluit infra. Hic genus ac
speciem, proprium, distantia, stritigens, Simbebicos edam quid sint omnino
tacebat. Porphyrius tandem cernens, nisi cognita quinque Haec sint, bis quinus
nesciri cathegorias, Cuique smini finem signavit convenientem. (Cfr. anche
Bokzio, p. 113 rio Ar. prued.. I;
PL, 64, 160 s.] ; Sez. XII, nota 841. t Jbid. Dopo la definizione delle cinque
voces, si legge: Ni nimis est longutn. communio dicier horuni (vale a dire ciò
di cui rie. Dice espressamente l’autore, a proposito di queste, sin dal
principio, che si tratta lì non già delle cose per se stesse, ma soltanto delle
voces signativae delle cose 242 1, si che troviamo qui una ripetizione di quel
punto di vista nominalistico, considerato più sopra (note 149 ss. e 159); ma hi
ciò consiste anche tutto quel che di più importante dobbiamo rilevare in questo
compendio; poiché nel rimanente esso si tiene cosi strettamente attaccato allo
scritto pseudo-agostiniano intorno alle categorie (Sez. Xll, note 43-50), che
di l'atto lo si può denominare, in una parola, una versificazione dello scritto
stesso; tutfai più si può osservare inoltre, che i numerosi termini greci, i
quali vi figurano barbaramente trascritti, derivano ugualmente da quella
medesima fonte, dove pure si trovano abbastanza spesso intercalati, restando
con ciò molto semplicemente eliminata ogni ipotesi che eventualmente sorgesse,
relativamente a studi che fin d’allora si facessero sopra l’originale greco 243
). appreso viene a trattare Porfirio: v. la Sez. XI, note 49 ss.), Non nos
barrerei : sed malumus ergo lucere. Ne generelur in his libi nausea
discutiendis. :l: ) lbid., p. 658 s. : Post haec, bis quinus pandamus
cuthegorias. In quis rir doclus
non ex ipsis quasi rebus, Sed signativis de rerum vocibus orans. SuiniI ab omonymis tractandi synonymisque Principium
eie. ***) Poiché tutto questo scrino è semplicemente una ripetizione metrica di
quello del Pseudo-Agostino, appare superfluo fare citazioni particolari. Ma per
quel che riguarda i termini greci, spiegati per lo più in latino con glosse
interlineari, può ricordarsi: usya, simbebicos e simbebicota, enarithnui
(àvdpiitpa : Sez. XII, nota 43), epiphania (a proposito della quantità) T6601,
poi, a proposito delia relazione, Pesametro 1662): Thesin, diuthesin, episthemin,
estesili, exin (cioè èiuaxrjprjv, aloDijoiv, IJ'.v e similmente [ il). |
Dicilum ornile quod est, rei eneria dinamite (cioè évspysJa e Suvàpzi), come
pure, a proposito della qualità 16631: Exis, diathesis, phisices dittamis
poelesque (rcoiÓTrjg Passibilis, potius seu pathos, scemala morphue (axtipaTa
popcff,c), nella Sezione che tratta degli opposti 1667 \habitus sleresisque
atépr,oi;, e, a proposito del postpraedicamentum del moto [668-9] : Auxesis,
megesis, genesis, florus, aliusis. Et Itala ton joras, metabeles associato
(cioè aB(;l}Olg, |ia£o)atg, YÉvEatg, àXÀoùasig, xatà xòv tónov, pexagoXtJ). no
[§26. Intensa attività della Scuola di S. Gallo. Notker Labeo: a) un Tractatus
insignificante ].Ma principalmente a S. Gallo noi troviamo, intorno a quell’epoca,
una più estesa rielaborazione del materiale logico in uso nelle scuole, e per
tale riguardo spetta in ogni caso al famoso NotkerLabeo il merito di aver dato
P impulso e diretto la esecuzione, sebbene non tutt’ i lavori dei quali qui si
tratta, sieno venuti fuori proprio dalle sue mani 24 *). Non c’è dubbio che qui
pure il fondamento è dato solamente dal materiale tradizionale, e non c’ è da
aspettarsi propriamente novità 245 ): ma questo materiale tradizionalmente
trasmesso è in parte trattato tuttavia in maniera più libera, mostrandosi in
ogni caso un interesse, che si volge con abbandono all’ oggetto della
trattazione per se medesimo. J4 *) Mentre cioè J. Gbimm («Gott. Gel. Anz. »,
1835, N. 921 è (li opinionr che Notker sia l'autore unico di tutti quegli
scritti, e a questa opinione aderisce incondizionatamente anche H. Hattemer
iDenkmiiler des Mitteltdters « Monumenti del M. Evo », III [S. Gallo, p. 3
ss.), ci sembra invece più giusto, tenuto conto della diversità intrinseca di
quei lavori, ammettere con W. WackerNACEL I Orse il ichte dir deulschen
Lilteralur «Storia della letteratura tedesca », p. 80 s. 12* ed., Basilea 18791
: v. di lui anche la orazione accademica sopra le benemerenze degli Svizzeri
verso la letteratura tedesca, Basilea 1833) che le opere recanti il nome di
Notker sieno state composte da vari autori, semplicemente sotto la direzione di
lui: rfr. inoltre appresso la nota 262. FI1 Franti non cita Die Schriften
Natkers und seiner Scinde (« (ili scritti di Notker e della sua scuola») editi
da P. Piper, Voi. I (Scritti di argomento filosofico). Frihurgo-Tubinga, 1882],
' 45 l Cose straordinarie si posson leggere invero nella Geschiehte Din St.
Gallai («Storia di S. Gallo») di Ild. v. Arx. Nella Dialettica, ch’essi
dividevano in Logica, Peripatetica, Stoica e Sofica [sic/l, furono loro maestri
Aristotele, Platone, Porfirio e BOEZIO: eran loro ben note le dieci categorie e
le Periemerie del primo tra essi, le cinque Isagogi di Porfirio e il metodo
d’insegnamento di Socrate. Ma nientr’ è facile scorgere subito che tutta questa
notizia può fondarsi solamente sopra la più crassa ignoranza dell'autore, si
dovrebbe supporre tuttavia ch’esso abbia ricavato da mi qualche manoscritto la
informazione che dà, relativamente alla partizione della dialettica; tuttavia
anche su questo punto sono -tato messo tranquillo dal mio amico e collega
Hofmann, il (piale, in occasione di sue ricerche personali, fece a S. Gallo Tra
questi scritti il più insignificante è un « Tractatus inter magistrum et
discipulum de artìbus »: l’autore infatti si è limitato qui a riassumere il
Compendio di Alenino (v. sopra le note 48 ss.), conservandone la forma
dialogica, e ha inoltre utilizzato in compendio anche BOEZIO, ma epiest ultimo
soltanto da principio, cioè a proposito della Isagoge e della categoria della
quantità 24 °). [§ b) rifacimento delle Categorie]. Invece un più diligente
studio delle opere di BOEZIO e una rielaborazione alquanto più libera del
materiale che vi si trova, sono manifesti in altri due scritti, notoriamente di
somma importanza anche per la storia della lingua tedesca, cioè nel rifacimento
delle KaTTjyopi'at, e nel rifacimento del libro IlepUppTjvelas 247 ). Il primo
di questi scritti si attiene in complesso rigorosamente, quanto al testo, alla
anche nel mio interesse una verifica relativamente alle opere di logica, ma non
potè trovare assolutamente nient’altro, all’ infuori da quali t’è stato di già
pubblicato, o per lo meno accennato dal (iraff. dal Wackernagel e dallo
Hattemer; v. anche appresso nota 271. ’ / bsisle manoscritto alla Biblioteca
Governativa di Monaco (Coti. lat..), di dove lo Hattemer ( Denkm. d.
Mitlelalt.. [già Cil.l, III, p. 532 ss.) trasse per pubblicarle le sole
intestazioni dei capitoli. La partizione della filosofia e della logica è quasi
letteralmente presa da Alcuino, ma dove si tratta delle quinque voces, la '
numerazione delle diverse loro sottospecie e gli esempi illustrativi -ono
ricavali da Boezio; la Sezione che tratta delle categorie è da principio un
riassunto da Alcuino, con omissione degli homonyni" ecc.; e dopo che di
nuovo è stato utilizzato Boezio, solamente riguardo alla categoria della
quantità, si viene in seguito a parlaridelie rimanenti categorie, attingendo
parola per parola ad Alenino, ma soltanto fino alla categoria dell’/iufiere: e
da quell" unica proposizione esemplificativa (v. qui sopra la nota 57) si
passa subito, con la intestazione Quid su,il formulile syllogismorum, alle
notizie !" -Alcuino intorno all argomentazione, le quali sono altrettanto
'"eraunente riassunte, quanto le seguenti che riguardano Biffi niil( *\
topica e Periermertine. .. 1 F ;^ P 7 Ìo 24S ). ma frammezzo al testo, periodo
traduzione di Boezio t n te per periodo, vi è intrecciata una spiegazione,
contendi, S ua volta la parte più importante del commento dello «Z Boezio, e a
BOEZIO una volta Fautore espressaniente si richiama: molto spesso la
dimostrazione queste spiegazioni viene articolata ne suoi e 1 maniera
perspicua, mediante cenni sommari del conte unto o altre intestazioni, anzi anche
con la indicazione Propositi io, Asmmptio, Conclusi o«): e gh esempi
esplicativi sono in alcuni luoghi personalmente escogitati da Notker; si può
osservare ancora che Fautore, con manifesta predilezione per la geometria, s
indugia piu a lungo e con maggiore originalità su quei passi, che contengono un
accenno a tale disciplina • re) rifacimento del De mlerpretalione). Il
rif"'" menlo del II.pt nlliene «« 1»"• a 1 ™r«n «tesso della
storia della logica, lo ho prealcun influsso nel torso, zwe i altesten Compendien
srwfttiSX* gj d r p,l l8™“,b ‘ di logica in tedesco»), Monaco,, ^ aria ’ zion
;. ta,l V olta sono abbrevT.zSi od Soni ^ * dere, e via dicendo. a pedo mule
[el disposino ist PÌP -; €o S t 4 p. lC eTaT4 a n9 le s Quesfulti.na
terminologia è presa da Hoizio. de syll. hyp.\ v. la nota a • intu itiva «) A
questa maniera non soltanto lp. WZ ss. « u5 mediante disegni
"jò^l'^niTesaurita la trattazione della *„ .... diseano diverso che in
Roezio. to al testo, parola per parola alla traduzione di BOEZIO, e i commenti
che si trovano alla stessa maniera intrecciati anche qui, si fondano parimente
sopra il commento di Boezio, del quale l’autore, come accenna egli stesso, ha
utilizzato ambedue l’edizioni ***). Ma ha importanza la introduzione, eh’ è
premessa all’ insieme, in quanto che novamente c’ imbattiamo qui pure nel punto
di vista nominalistico, che ravvisa nel significato delle parole l'oggetto
delle Categorie; ivi inoltre, notizie, ed espressioni tecniche, tratte da
Marciano Capella, vengono intrecciate in maniera caratteristica con quelle
osservazioni die riguardano l’ordine ili successione dei libri dell’ Organon, e
che sono ricavate da BOEZIO: e appunto rispetto a queste ultime notizie, ci è
consentito ancora di ricavare dagl’ ingenui equivoci dell’autore la
conchiusione sicura eh’ egli conosceva gli Analitici e la Topica di Aristotele,
proprio soltanto per sentito dire, da quel passo di BOEZIO, Hattemer, p. 474 a
[ ed. Piper, p. 511: rifacimento del De interpr., Lili. I, 111: Est hoc
\tractare 1 nlterius negotii. Taz isl anders uuur zelerenne, samoso er chade,
lis mine metaphisicu (v. BOEZIO, p. 230 [ in de interpr., Prima editio: ediz.
Meiser, I, 5, p. 74; PL, 64, 3151), dar lero ili tih iz. Ahere boetius saget iz
fure in, in secunda editione etc. (cioè Boezio, p. 326 I ih., Seeunda editio:
ediz. Meiser, II, 5, p. 101; PL. [Est hoc alterius negolii. Ciò dev’essere
insegnato in altro luogo; così disse egli: «leggi la mia Metafisica; li te lo
insegno». Ma BOEZIO lo dice apertamente in secunda editione ete. (Della
traduzione, di questo, come dei segg. passi di N. L., debbo esser grato alla
dottrina, tanto cortese quanto sicura, del rh.mo collega BATTISTI (si veda).
Neanche mancano qui quelle figure, con le quali BOEZIO rende intuitiva la
teorica del giudizio, e anzi per esse l’autore rinunzia a servirsi del tedesco.
“’) ìhid.. p. 465: Aristotiles sreib cathegorias, chunl zcluenne, uutiz
einluzziu uuori pezeichenen (cfr. più sopra le. note 149 ss., 159 c 242, e
subito appresso la nota 256); nu lutile er samo chunt ketuon in periermeniis,
uuaz zesumine gelogitiu bezeichenen, an dien veruni linde falsum fernomen
uuirdet; tiu latine heizent proloquia; an dien aher neuueder uernomen
neuuirdet, tilt eloquio heizent (la fonte di questa terminologia, vedila in
Marciano Capella, Sez. XII, nota 51, e in Agostino, ibid., nota 33); tero
uersuiget er an disamo buoclie. I nandù ouh proloquia geskeiden sint, unde
einiu heizent 8. il «De parlibue loicae»; nominalismo]. Un altro scrittarello,
intitolato « D e partibus loicae»™) si presenta come una compilazione
compendiosa per uso delle scuole, essendovi anzitutto enumerate le sei parti*
della logica, compresa la prima, che fu aggiunta da Porfirio alle cinque
aristoteliche) : alla enumerazione fa poi Simplicio, dar eia uerbum ist, ut
homo uiuit, andenu duplicia, dar zuei ucrba sint, ut homo si uiuit spirat, so
leret er hier simplicia, in topicis leret er duplicia. Fone simplicibus
uuerdent predicatoli syllogismi, jone duplicibus uuerdent conditionules
syllogismi (la fonte di questa distinzione, in BOEZIO: A ah periermeniis sol
man lesen prima analitica, tur er beidero syllogismorum kemeina regida
syllogislicam heizet: taranah sol man leseti secunda analitica, lar er sull
Arrigo leret predicutinos syllogismos, tie er heizet upodiclicam (anche chi
avesse dato appena una occhiata superficiale agli Analitici stessi, non si
potrebb esprimere a questa maniera); zc iungisl sol man lesen topica, un diener
oidi sunderigo leret conditionales, tie er heizet dialecticam. Jiu purtes
heizenl samenl logica. Nu uernim uuio er dih ielle zuo dien proloquiis (anche
nel commento stesso, accanto alla terminologia di BOEZIO, vediamo sovente
figurare proloquium). [Aristotele scrive le Categorie, per indicare che cosa
significhino le parole isolate. Invece nelle Periermeniae egli stesso
dichiarerà quello che significano le combinazioni di parole, con cui viene
enunciato il verum e il falsimi, e che in latino soli dette proloquia ; se
invece non viene enunciata nessuna delle due cose, «on dette eloquio. Ala su
ciò egli tace in questo libro. Inoltre anche nei proloquia si può fare una
distinzione, e taluni, p. es. « homo viviti, in cui c è un verbo solo, vengon
detti « simplicia », altri, in cui ci sono due verbi, p. es. « homo si vivit
spirat», vengon detti « duplicia». Dei simplicia egli ragiona qui, dei duplicia
nei Topica. Dai proloquia semplici si fanno i predicativi syllogismi. dai
duplici i conditionales syllogismi. Dopo le Periermeniae, si leggeranno i primi
Analitici, dove si chiama sillogistica la regola comune agli uni e agli altri
sillogismi; dopo di che si leggeranno i secondi Analitici, dov’egli insegna
separatamente i sillogismi predicativi, la cui regola chiama apodittica; per
ultimo si leggeranno i Topica, dove insegna separatamente i sillogismi
condizionali, la cui regola egli chiama dialettica. Queste parti
complessivamente portano il nome di logica. Ed ora apprendi coni’ egli ti guida
ai proloquia (ed. Piper, p. 499, op. ull. cit., « Praefatiuncula »)]. 251 )
Edito, di su un manoscritto zurighese, dal XX ackernacel negli Altdeiilsche
Bliitter (« Fogli Altotedeschi ») di FIaupt e Hoffmann, II, p. 133 ss., e dallo
Hattemer, op. cit., p. 537-540. *“) Hattemer, p. 537: Quot sunt partes logicue?
Quinque secundum Aristolelem, sextum partem addidit aristotelicus Porphirius;
quae sunt: isagoge, calhegoriae, periermeniae, prima analitica, secunda
analitica, topica. seguito una più o meno lunga indicazione del contenuto delle
parti stesse. Dopo che cioè della Isagoge sono state citate soltanto, nella traduzione
di Boezio, le definizioni delle quinque voces, viene brevemente illustrata mia
sola delle categorie, la sostanza, senza che sieno neanche nominate le altre
nove, ma in tale occasione viene enunciata 2o6 ) la concezione nominalistica,
ancor più nettamente di quel che s’è veduto or ora, alla nota 253; segue poi,
riguardo ai giudizi, la semplice enumerazione delle quattro specie (universale
affermativo, universale negativo, particolare affermativo, particolare
negativo), tratta da Marciano Capella e con la terminologia di lui 2r ‘ 7 ). Ma
ciò che viene detto poi intorno agli Analitici primi e secondi, ha ugualmente
per fondamento quello stesso passo di Boezio, dove questi espone 1’ ordine
delle parti dell’ Organon, e certo neanche qui è fatto uso della traduzione da
lui curata degli Analitici 23S ). Infine si tratta minutamente della Topica, e
anzi in piena conformità con Isidoro (v. sopra la nota 39), aggiungendo qui 1*
autore proverbi tedeschi come esempi dei singoli loci 259 ). fe) scritto De
syllogismis, e sua importanza ]. Ma il più importante fra tutti questi scritti,
provenuti da : “ 8 ) Ibid., p. 538 a: Quid tractutiir in cathegoriis? Prima
rerum significano et quid singulae dictiones significent, utrum substantiam an
accidens etc. sn )Ibid.: Quid narratile in periermeniis ? Quid consideratile in
primis analiticis? SILLOGISTICA quae est communis regula omnium sillogismorum,
necessariorum et probabilium, cathegoricorum et ippolhelicorum, item
praedicativorum et condilionalium (raddoppiamento insulso, risultante daH’aver
tirato dentro la terminologia di Marciano Capella. Quid traclatur in secundis
analiticis? Apodictica id est demonslraliva quae demonstral veritatem, id est
necessarios siilogismos. w ) È parimente copiato da Isidoro (nota 27) quanto lo
Hattemer (ibid., p. 530 s.) riporta, da un altro luogo dello stesso
manoscritto, intorno alla differenza tra dialettica e retorica. S. Gallo, è la
monografia De syllogismis 2G0 ) ; poiché, sebbene si fondi parimente ancli’essa
sopra una compilazione di materiale svariato, il suo autore, con un maggior
corredo di letture, mette mano qui anche sopra cose, per cui non bastava una
conoscenza puramente superficiale dei compendi scolastici d’Isidoro o di
Alcuino; inoltre egli conserva una notevole indipendenza, in quanto che mostra
la tendenza verso una interna, unitaria finalità della logica: con la
esposizione di tale finalità si chiude la monografia. Prima viene enunciata )
la definizione del SILLOGISMO, presa da Marciano Capella, con l’aggiunta di
alcune parole della Retorica d Isidoro, e qui già un considerevole numero di
esempi in tedesco serve a chiarire la trattazione: poscia 1 autore, facendo uso
di una terminologia mista, presa sia da Marciano sia da Boezio, adduce la
divisione dei sillogismi in categorici e ipotetici 2 ' 12 ); presenta quindi,
attingendo a Marciano (Sez. XII, note 63 e 67), le parti costitutive del
sillogismo categorico e del giudizio categorico), per far poi seguire a ciò la
esposizione integrale dei diciannove modi del sillogismo, la quale è tratta da
Apuleio (Sez. X, 1 Integralmente riprodotto a stampa nello IIattf.mer; in forma
di estratti, nel Deutsches Lesebuch [« Antologia tedesca»] di Gucl.
Wackfrnacel, I, p. Ili ss. ) C. 1, ibid., p. 541 a: Quid sii syllogismus.
Syllogismus graece, lutine dicitur ratiocinatio.... quuedam indissolubilis oralio
.... quae~ dam orutionis catena et inficia ratio. Et ex iis videntur quidam
esse qui latine dicuntur praedicativi, alii autem qui dicuntur
conditionales.... (p. >12 b) Constai autem omnis syllogismus proloquiis i.
e. proposilionibus. Dalle parole che
vengono appresso proloquia dicumus cruezeda, similiter proposiliones cruezeda [
incroci, combinazioni di voci CI, itera proposiliones pietunga O Bietungen »,
offerte, trad. lett. di proposiliones 3, alii diami pemeinunga [« Bemeinungen »,
enunciazioni) risulta altresì che in ogni caso erano in parecchi a occuparsi di
simili rifacimenti della logica Od. Piper: r r hti minori, attinenti a Boezio,
lì : «/le Syllogismis », 1], Cioè sumpta, illatio, subiectivum,
declaralivum.n-ote 18 ss.), e chiarita con esempi tedeschi, che son opera dello
stesso compilatore 2M ). Si passa quindi ai sillogismi ipotetici, e anzi per
prima cosa viene presentato, alquanto liberamente elaborato e con intercalati
termini di Boezio, quel che su tale argomento si ritrova in Marciano: solamente
appresso trova posto la indicazione compiuta dei sette modi sillogistici
enumerati da Cicerone (Sez. Vili, nota 60), e illustrati qui con una minuta
spiegazione, che l’autore trae dal commento di BOEZIO alla Topica di CICERONE,
e correda parimente di esempi in tedesco 20 °). Ma ora c’ era pur iuoltre in
Isidoro un syllogismus rhelorum (v. sopra la nota 43), e in connessione con
quanto da lui era stato detto, viene colta qui la occasione di passar a
considerare più minutamente la teoria retorica, illustrandosi, con esplicito
rinvio a CICERONE (de Inventione, v. la Sez. Vili, nota 59), l’argomentazione
retorica, e facendosi uso perciò di un esempio che si trova in Cicerone stesso
2B7 ). Ma subito 1’ autore s’industria di ricondurre al sillogismo categorico
tale specie di sillogismo, in quanto che questo è adeguato all’ esigenze
formali della riprova della verità, accennando di nuovo sulle orme di Boezio
agli elementi semplici dei sillogismi in generale 2B8 ), e a ciò unendo
spiegazioni reC. 3-8, p. 543-47. ) C. 912, p. 548 s. L’espressioni usate «la
Marciano vengono qui intese come specifica terminologia, cioè: pro/Htsitio,
assumptio, conclusio. **) C. 13, p. 55(4553. Qui LA FONTE è BOEZIO, ad CICERONE
Top., V, p. 831 [PL, 64, 1142] ss. I C. 14, p. 553 a: Transeunt vero syllogismi et nd
rlietores iam latiores et diffusiores factì.... Ilorum esempla sunt upud Ciceronem in libri*
Rhetoricorum. L’esempio ciceroniano del governo delI universo (de Invcntione,
I, 34, 59), elle del resto figura anche in BOEZIO, de cons. phil., I, p. 958
[PL,, viene poi svolto parimente in tedesco. l Ibid., p. 554 a: Praedicntivus
est ille syllogismus nut condi lative al giudizio 269 ). E dopo che a ciò hanno
fatto seguito disquisizioni etimologiche sopra alcuni concetti, affini per
significato al syllogismus disquisizioni che sono tratte o direttamente da
Isidoro, o dal così detto Glossario di Salomone (v. sopra la nota 185), e in
parte anche da BOEZIO 27 °) vien approfondita, in base alla Topica ciceroniana,
la differenza tra dialettica e apodittica 2T1 ) ; tale differenza coincide con
quella tra sillogismi ipotetici e categorici, ma proprio per questo, nel fine
unico della scoperta del vero, si risolve in ima superiore unità, poiché con il
magistero del ragionare si apprende ogni verità umana, mentre il divino
trascendente s’intende senza tale arte 272 ). tionulis?.... Piane ergo
praedicativus est.... nam et omnes purtes syllogismorum, sire propositio sive
approbalio sive sumptum sive illatio sive conclusio sive ut alii dìcunt
complexio (v. la Sez. Vili, nota 59) aut confectio, communi nomine enuntialio
vocantur (v. ibid. la nota 45). La fonte di questa riduzione alla proposizione
semplice è Boezio, ad Cic. Top., V, p. 823 [PL, 64, 1129]: cfr. anche la Sez.
XII, note 131 e 140. "’) lbid.: Est autem enuntialio oratio verum aut
falsum significans.... huius species sunl affirmatio et negatio (Sez. XII, nota
111): successivamente si vien a trattare, in lingua tedesca, di assumptio,
illatio, conclusio. OT ) C. 15, p. 555 a: Cioè sopra ratiocinari, disputare,
iudicare, experimentum ; e inoltre: argumentum dicitur, ut BOEZIO (ad CICERONE
Top., I, p. 763 [PL, 64, 1048]) placet, quod rem arguii i. e. probat. '”) C.
16, p. 556 a: Quuerendum autem magnopere est, quare CICERONE dialecticam in
ypolhelicis tantum conslituerit syllogismis.... Est enim medius inter
Arislolelem et Stoicos (forse che quella tale notizia, accennata più sopra,
nota 245, I. v. Arx l’ha attinta di qua?).... Proplerea Boetius Arislolilem in
thopicis dialecticam et in secundis analiticis apodicticam docuisse testalur,
cioè il complesso è preso da BOEZIO, ad Cic. Top., I, p. 760 LPL, 64, 1045] g.,
dove si trova uno svolgimento ulteriore del punto di vista ricordato. De
potentia disputandi, i. e. Fone dero muhte des uuissprachonis. Si ergo satis
intellectum est, omnem apodicticam constare in decem et novem modis
syllogismorum et dialecticam in septem modis syllogismorum, non sit dubitandum,
totam earum utilitatem esse in invenienda veritate. Ube niunzen sloz
apodicticae unde sibeitiii dialccticae muda gelirnet sin, so uuizin man
dormite, duz sie nuzze sint, alla uuarheit mit in zeeruarenne [Quando si sono
bene appresi i 19 sillogismi apodittici e i 7 dialettici, con ciò Così
l’autore, la cui concezione già con questo ci rammenta, in maniera tanto chiara
quanto consolante, 10 Scoto Eriugena (note 111-120), può, per la sfera della
umana aspirazione alla verità nel mondo di qua, enunciare una definizione
unitaria della logica, nella quale ha la propria essenza la dialettica «ovvero»
apodittica: e quel ch’egli trovava detto già da Boezio (Sez. XII, nota 76),
prende da lui mia espressione più precisa ed energica, là dove dice,
analogamente allo Scoto, che la logica è la scienza del giudicare o disputare
273 ) : perchè 11 potere della forma, che si manifesta nei sillogismi di
qualunque specie, è per lui quel che decide, è il termine, nel quale vengono a
confluire tutte le differenze che si manifestano entro la sfera della logica
274 ); la retostesso apprendiamo che essi giovano a riconoscere ogni sorta di
veritàl. Omnia enim his Constant, quae in humanam cadunt rationem. Al daz
menniskin irratin mugin, taz uuirdit hinnan guuissot [Quanto gli uomini
arrivano a intendere, tutto viene saputo con questo mezzo]. Divina excedunt
humanam rationem, intcllectu enim capiunlur. Tiu gotelichin ding uuerdent
keistlicho uernomen ane disa meistrrskaft ILe cose divine vengono apprese con
l’intelletto, senza questa maestria (nel ragionare) (ed. Piper. Quid sit
dialectica vel apodictica. Ergo diffinienda est dialectica sire apodictica,
possunt enim unam et eandem suscipere diffinitionem in hunc modum.. Dialectica
est sive apodictica iudicandi peritia vel ut olii dicunt disputandi scientia
(proprio questo già si trova anche nello Scoto, v. sopra la nota 112).
Meisterskafl chiesennes linde rachonnis, taz ist dialectica, taz ist ouh
apodictica [La maestria nel giudicare e nel disputare, è la dialettica o
l'apodittica (ed. Piper, ed. Piper,
ibid.] : l'rius diximus. quia ratio est quae ostendit rem. Reda skeinit uuaz iz ist. Pi
dero redo sol man chiesen. ube iz uusen nuige.... Taranah mag er [Il discorso dimostra quel che una
cosa è; con questo discorso si ricercherà se una cossa possa sussistere. In
seguito egli potrà] rachon i. disputare, ioh [e anche] uuarrachon. i.
ratiocinari.... Ter uuarrachot. ter mit redo sterchit. linde ze uuare bringel.
taz er chosot. Reda errihtet unsih allis tes man stritet. Ter dia chan uinden.
(p. 621) der ist [Ragiona colui che con il suo discorso rafforza e dimostra
quanto ha ricercato.... Il discorso c’istruisce in tutto ciò su cui si viene a
contesa. Chi può trovare questo, è un] index, ter ist raliocinator. ter ist
disputator. Ter ist argumentator. ter ist dialecticus. der ist apodicticus et
sillogisticus. rica invece, la quale serve soltanto alla verisimigliauza ma non
già alla verità, è perciò situata su di un altro campo, mentre quel che c’è di
comune e di più veramente omnicomprensivo è la espressione verbale (verbum), nella
quale deve spaziare così il sermo filosofico come anche la diclio retorica. Ma
proprio per questa ragione il punto di vista che è per l’autore assolutamente
ovvio e naturale, è quel punto di vista nominalistico, che abbiamo trovato
nello Scoto, poiché la differenza tra vero e falso, cioè l’oggetto di ogni atto
giudicativo o di ogni disputa nella sfera della logica, può manifestarsi
solamente nella forma di giudizi umani, e anche i praedicamenta non sono
appunto nient’altro che enunciazioni 276 ). Comunque, è una cosa che ci fa
veramente piacere, esserci qui imbattuti in un autore, che sa quel che si
vuole, e per noi questo scritto è infinitamente superiore ai giocherelli
pedanteschi e senza costrutto di un Gerberto o di un Anseimo; è anche ben
difficile imaginare che si sarebbe venuti a presentar le « prove della esi) C.
19, p. 558 b [ed. Piper]: Nec panini hoc altendendum est. quantum intellectu
quaedam distata, quae simili modo solent interpretati, ut sunti verbum, sermo,
dictio.... Qiuie si unum significatela, nequaquam sermo daretur philosophis,
dictio vero rhetoribus; ut auctores docenl (cioè Isidoro: v. sopra la nota 27);
nani et Aristotiles dialecticum, quae interprelatur de dictione, ad rhetores
traxil et voluit eam esse in argumentìs rhetoricis, i. probabilibus, quae ille
iudicavit esse (nel manoscritto: rum esse) discernenda a necessariis
argumentìs, de quibus fiunt ypothetici syllogismi et tota dialecticu, ut Cicero
docuit (v. Boezio, cit. nella prered. nota 271).... Dignior est namque sermo et
gravior, ut sapientes decet, dictio humilior est et plus communis data
rheloribus. Verbutn autem omnium est. ■ ''> IbidEt in interpretando proprie
sermo (cfr. la nota 321[?]) saga diritur. sic et enuntinlio, quae similiter philosophis
tradita est. et disputantibus necessaria est. quia inest ei semper veruni aut
fcdsum.... Praedicare autem est, inquit Doetius To
non forse 124? ad Ar. pracd., I; PL, 64, 1761), aliquid de aliquo dicere, i.
eteuuaz sagen fone etcuuiu. linde et praedicnmenlum dicitur et praedicatio,
einis tingis kesprocheni fone demo undermo [Tesser una rosa detta di un’altra
cosa]. stenza di Dio », se in generale si fosse conservata quell’avvedutezza,
di esercitare cioè belisi in tutte le direzioni la maestria deH’argoinentare,
iiell’ànibito della realtà da noi percettibile, ma di lasciare invece al pio
sentimento dei credenti la rivelazione del Divino nella sua immediatezza. Del
resto, dobbiamo pure qui far ugualmente rilevare che l’autore di questa
monografia non può aver conosciuto la traduzione degl’analitici curata da
BOEZIO, perchè altrimenti, se gli fosse stata accessibile la sillogistica
stessa di Aristotele, egli, che pur mostra in generale un corredo di letture
maggiore di quello degli altri, non sarebbe certamente andato già a prendere i
diciannove modi da Apuleio, nè, con la sua aspirazione alla unità interiore
della logica, si sarebbe riattaccato esclusivamente a quegli stessi passi, che
a ciascuno erano noti, dalle traduzioni e dai commenti più diffusi di BOEZIO.
Ma in quello studio esteso della logica, quale ci si presenta a quest’epoca in
S. Gallo, potremmo ben anche ravvisare un fenomeno piuttosto isolato, sempre
che non sia determinato solamente da mancanza di notizie il giudizio che
pronunciamo, quando diciamo che nella prima metà del secolo XI in generale ha
prevalso una mancanza di attività, per quel che concerne il dibattito delle
questioni di logica, o persino la *") In siffatti casi sembra che
l'argumentum ex silentio sia assolutamente calzante, e elle pertanto si aggiunga,
come una convalidazione mollo precisa, alla circostanza generale, vale a dire
non esserci, in tutta questa letteratura, un solo indizio positivo che sia
stato fatto uso di quegli scritti aristotelici. TSoggiugerò qui che lo scritto
del Prantl. da lui citato più sopra, comparso negli Atti della Regia Accademia
Bavarese delle Scienze (Classe I, voi. "Vili, Scz. I), riguarda non gli
scritti logici di Notker L., bensì due compendi dovuti uno a Ortholph
Fuchsperger, l’altro a Volfango Biitner, e rispettivamente stampati ad Augusta
e a Lipsia. compilazione di compendi. Nel corso della nostra indagine, dobbiamo
invero a ogni passo tener presente la possibilità clic una parte del materiale
die esisteva, sia stata sottratta totalmente alla nostra conoscenza, sebbene si
sia portati ad ammettere che difficilmente le manifestazioni di una certa
importanza sarebbero dileguate senza lasciar alcuna traccia, e che un silenzio
assoluto di tutte le fonti non sarebbe pensabile, se realmente lo studio della
logica fosse stato più largamente diffuso. [Altri documenti relativi allo
studio DELLA LOGICA NEL SECOLO XI: FrANCONE A LlEGI, OtLOH a Ratisbona, Pier
Damiani], Dalla metà circa del secolo XI ci giunge la notizia che un tal
Francone, scholasticus a Liegi (intorno al 1047), compose, sopra la quadratura
del circolo (v. le note 191 e 251 di questa Sezione), ima monografia che si
riattacca al relativo passo di Boezio 278 ) : e forse della stessa epoca
possiamo citare almeno l’espressioni, con le quali un monaco di St. Emmeram,
Otloh, morto a Ratisbona [dove appunto sorgeva il chiostro di St. Emmeram],
vien a riconoscere che ci sono alcuni dialectici ita simplices, che applicano
il canone dialettico a tutte le parole della Sacra Scrittura, e credono a
Boezio più che alla Bibbia stessa 278 ). Ma da quest’ultima doglianza bisogna
con*") Sicebekti Gemblancensis Chronica ad unnum 1047 (Pertz, MiGH, :
Franco scolaslicus Leodicensium et scìentia litterarum et morum probitate
claret; qui ad Herimannum archiepiscopum scripsit librum de quadratura circuii,
de qua re Arislolelcs (com’è riferito da Boezio I in Ar. praed., II; PL, 64,
230], p. 165) ait: Circuii quadratura, si est scibile, scìentia quidem non est,
illud vero scibile est |PL, 160, 209]. ”°) Oti.ohni Dialogus de tribus Quaestionibus
(riprodotto dal Pez, Thesaur. Anecdot., HI, 2, p. 143 ss.), p. 144-5: Peritos
autem dico magis illos, qui in Sacra Scriptura, quarti qui in Dialectica sunt
instructi. Nani dialecticos quosdam ita simplices inveni, ut chiudere che il su
riferito monito di Fulberto (nota 237) non fu disdegnato solamente da un
Berengario, ma che da varie parti fu designata la dialettica come pietra di
paragone in questioni teoretico-dommatiche ). La maggioranza invece, com’è ben
facile intendere, rimaneva fedele al punto di vista originario del Medio Evo
cristiano, e può perciò, poiché stiamo ormai per entrare in un’epoca di
contese, ricordarsi soltanto a mo’ d’esempio come Pier Damiani, assegnasse alla
dialettica il compito di starsene quale pia ancella al servizio della Chiesa, e
di tener dietro umilmente pedisequa alla sua padrona 2S1 ), senza che in verità
la divota anima del Damiani abbia ancora il minimo presentimento che anche
questa domestica possa licenziarsi e fondarsi un proprio focolare. omnia Sacrae
Scriplurue dieta juxta dialecticae auctoritatem constringendo esse decernerent:
mugisque Boèlio quam Sanctis Scriptoribus in plurimis dictis crederent. Linde
et eundern Boètium secuti, me reprehendebant, quod personae nomen, (dicui, nisi
substimtiae rationali, adscriberem etc. [PL], W. Scheber, Leben VTilliram’s
Ables von Ebersberg [« Vita «li Williram, abate di Ebersberg »] (nei Rendiconti
dell’Accademia imperiale, Classe filosoficostorica, voi. 53, Vienna, 1866), p.
289, riferisce queste allusioni a scolari di Lanfranco; cfr. appresso la nota
299. '*') Poiché, a prescindere dal fatto che nei vari scritti teologici di
Otloli non si parla in maniera particolare della questione della Santa Cena, e
pertanto è difficile che la sua polemica contro i dialettici si riferisca a Berengario,
nel passo sopra citato si tratta proprio di casi personali, che Otloh designa
come conseguenza di un indirizzo generale dell’epoca. *“) Petri Damiani Opera,
ed. Cajetano, Parigi,De. divina omnipolentia, V; PL, 145, 603]: Haec piane,
quae ex dialecticorum vel rhetorum prodeunt argumentis, non facile
divinaivirtutis sunl optando mysteriis; et quae ad hoc inventa sunt, ut in
syllogismorum instrumenta proficiant, vel clausulas dictionum, absit ut sacris
legibus se pertinaciter inferant et divinae virluti conclusiotiis suae
necessitates opponant. Quae tamen artis humanae peritia, si quando tractandis
sacris eloquiis adhibetur, non debet jus magisterii sibimet arroganler
arripere; sed velut ancilla dominue quodam famulatus obsequio subservire, ne,
si praecedit, oberrel eie. Movimento più vivace nella seconda metà del SECOLO
XI: la scienza giuridica. Ma proprio nella seconda metà del secolo XI si
manifestò nella storia della cultura l’azione di fattori, i quali portarono,
entro la tradizione della logica delle scuole che si conservava uguale a se
medesima, un movimento più vivace, e anche un violento rinnovarsi di vecchi
contrasti fra le varie tendenze. Da due lati diversi si risente un influsso
sopra la logica, ma in varia maniera e in molto vario grado, perchè di questi
lati uno possiamo scorgerlo qui dapprima soltanto in tenui inizi, per poi
novamente riattaccarci a questo punto, quando lo stesso fattore si manifesterà
più tardi con maggiore intensità, mentre l'altro lato sùbito si leva su con
tutta la sua forza, e per molto tempo determina le condizioni in cui la
evoluzione compie il suo corso. Ma questi due lati corrispondono alla
giurisprudenza e alla teologia dominatica. Se cioè l’amministrazione della
giustizia già per se stessa in generale implica un richiamo alla prassi
dialettico-retorica, è facile spiegare come, in un’epoca in cui in Italia
s’iniziava un rinnovamento della scienza giuridica e incominciavano a sorgere
scuole di diritto), si desse ora maggior peso alla logica pratica, cioè a ima
logica, la quale veramente mal si distingue dalla retorica, ma nella teorica
dell’argomentazione e nella topica rimane pure conforme al solito materiale
ch’era in uso nelle scuole di logica. Come noi stessi per il nostro presente
intento abbiamo potuto già da prima (Sez. Vili, note 52 e 68) trovare la nostra
fonte in passi che prendevamo dalle Pandette, così sembra d’altra parte fL )
Vedi Savigny,GESCHICHTE DER ROMISCHEN RECHTS IN MITTELALTER Geschichte dea
Ròmischen Rcchts im MiUelalter [Storia del diritto romano nel Medio Evo],.
[trad. it., Torino, J, e Giesebrecht, De
lìti, attui, ap. Itiilos, Berlino, 1845, in -4° [ir. it. Pascal, già cit.]. che
IN ITALIA lo studio della grammatica filosofica e della retorica abbia
conservato una connessione ininterrotta con le materie giuridiche del DIRITTO
ROMANO ) : e sebbene noi preferiamo lasciar da parte l’aneddoto letterario,
secondo il quale tutto quanto lo studio del DIRITTO ROMANO a BOLOGNA avrebbe
preso principio da una spiegazione grammaticale della parola « As » 2S ) Ibid.,
Aristotelica didicimus disciplina duarurn specierum commistione lertiam gigni
minime. Rerum etiam naturam puli nomino non posse, duo contraria simili in
eodem esse vel, quod trovava nel commento (li Hoezio alle C-utegorioo. Ma
questa medesima questione fu anche oggetto di una disputa che Anseimo sostenne
a Magonza, e della quale diede minuta relazione in una lettera al suo maestro
Droone. Ecco il nòcciolo della questione: Quando sussiste un’alternativa (p.
es. tra lode e biasimo), si può creder di cogliere il giusto mezzo, non facendo
nè una cosa nè l’altra; ma si obbietta in contrario, die il giusto mezzo è la
unione degli opposti (come p. es. il rosso è la unione di nero e bianco),
dunque bisogna pure scegliere per conseguenza una delle due cose, qualora non
si voglia farle tutte due al tempo stesso. Ma a ciò da capo si obbietta che il
mezzo è propriamente la negazione dei due opposti (dunque p. es. è
impossibilius, eandem essentium procreare. Quod veruni sit necne, quaerimus f
Hbetorim., iib. I]. M ° c ) Laudare enim vel vituperare necesse est. «Non
laudabo, inquid, nec vituperabo, cuoi medium faciam, quod nec laus est nec
viluperatio. Est igilur possibile utrum non lucere, ubi aliquod neutrum est
invenire. Si medium, inquam, ut dicitis, fecerilis, lune et utrumque. Constai enim medium ex utrisque,
ut ex albo et nigro rubrum, et ideo medium. Sicque in faciendo neutrum facietis utrumque. Utrum
ergo facere necesse est, quoniam in utro vel ulroque utrum non lacere possibile
non est». « Medium, inquid, ut dicitis, non ex utrisque, sed ex nega!ione
confìcitur utrorumque, ut non quod et album et nigrum illud rubrum, set quod
est neutrum, illud dicimus rubrum, sicque omne medium. Utrum ergo lacere
necesse non est, quia in meo neutro utrum vel utrumque possibile non est ». «
Si ex negatione utrorumque. medium confectum est, quod, ut dicitis, neutrum
est, non magis utrorumque quarti omnium rerum neutrum est. Quod bene perspectum
nichil est. Non enim magis ex albi et nigri negatione confìcitur rubrum, quam cucii
et lerrae ceterarumque rerum. Quia sicut est veritas ut, quod nec album nec
nigrum est, illud rubrum existat, sic quod nec caelum nec terra nec celerà,
illud esse rubrum a veritale non [58] discrepat, Quod aulem omnibus rebus
negatis nichil illarum est, illud res praedicari inpossibile est. Rcs vero,
quod non est illud, nichil esse necessario consequens est. Sicque in faciendo
(diquid facietis nichil. Utrum ergo facere necesse est, utrumque enim vel
neutrum impossibile vel nichil est. Epistola Anseimi ad Droconem (sic)
mugistrum et condiscipulos de logica disputatione in Gallia habitat. rosso,
quel che non è nè bianco nè nero); ma questa obiezione viene respinta, perchè
una tale negazione va di là dall’alternativa data (perchè allora si potrebbe
dire altrettanto bene, che è rosso, quel che non è nè cielo nè terra), e
metterebbe capo infine a una negazione di tutti gli opposti, cioè dunque a un
nulla. Il risultato è, per conseguenza, che nella presente alternativa bisogna
pure scegliere proprio un solo dei due termini. Abbiamo una prova ulteriore di
come la scienza del diritto entrasse in giuoco nello sviluppo della logica,
quando in due uommi eminenti di quell’epoca, Lanfranco e Irnerio, vediamo
presentarcisi, per così dire, ima unione personale di quei domìni. È infatti
incontestabile che Lanfranco dedica ampiamente e con buon successo la prima
metà della sua operosità, prima che scoppiasse la contesa intorno alla Santa
Cena, principalmente allo studio del diritto 291 ), sebbene non si possa, per
ragioni cronologiche, pensare a una relazione diretta, quale persino gli è
stata attribuita con lo stesso Imerio); ma in ogni modo, come risulta dalle
testimo"9 Milonis Crispini Vita Beati Lanfranci, c. 11, riprodotta dal
Mabillon, Acia Bened. [Sacc. VI, P. II], Tom. IX, p. 639 [PL, Ab annis
puerilibus eruditus est in scholis liberalium nrtium, et legum saecidarium ad
siate morern patriae. Adolescens orulor veteranos adversantes in uctionibus
causarum frequentar revicit, torrente facundine accurate dicendo. In ipsa
aetale sententias depromere sapuit, quas gratnnter Jurisperiti aul Judices vel
Praetores civitatis acceptabanl. Meminit horum Papiu (cioè PAVIA sua patria).
At cum in exsilio philosopharetur, accendit animum ejus divinai ignis, et
illuxit cordi ejus amor venie sapientiae. Notizie varie, specificamente
giuridiche, vedile nel Merkel, op. cit., p. 14 e 46 s. [12 s. e 35 ss. della
cit. trad. it.??J. 5 ") Roderti De Monte Auctarium ad chronicam Sigeberti
Gemblacensis ad anntan 1032 (Pertz, MGII): Lanfrancai Papiensis et Garnerius
socius eius, repertis upud APVD BONONIAM LEGIBVS ROMANIS quas Iustinianus....
emendaverat, Itis, inquarn, repertis, 9.
C. Prantl, Storia della logica in Occidente, II, manze, quella medesima
abilità dialettica, della quale fanno fede le battaglie da lui più tardi
sostenute contro i suoi avversari teologici, lo ha assistito di già fin
d’allora. Ma Imerio, e cbe con la sua comparsa segnò, com’è noto, per LA SCUOLA
O LO STUDIO DI BOLOGNA, il passaggio dal pruno’ periodo embrionale a una più
ricca espansione, viene, nelle glosse di Odofredo, designato espressamente come
«logico»; e la circostanza ch’egli sia stato antecedentemente maestro delle
arti liberali, spiega quella esagerata sottigliezza cb’è venuta a trovarsi
nelle sue glosse-’ Avendo d'altra parte lrnerio composto anche un Formularium,
a questo fatto dobbiamo connettere una osservazione preliminare, essersi cioè
venuta a creare una particolare ed estesa letteratura, la quale serviva
all’arte e alla prassi del notariato, e che valse a mantener viva per
l’avvenire la relazione tra la retorica in uso nelle scuole, e la materia del
diritto. Questi « F o r m u operam dederant eas legere et aliis exponere; sed
Garncrius in hoc « vero disciplinas liberales et litteras divi, tuis m Galli,s
multo* edoccns, tandem Beccum verni, et ibi mona, ehm facili* est [PL], Forse
tuttavia la obiezione croTologira sollevata dal Savigny [p. 25-6 della trad. it
|) e m generale fuor di luogo, se, dove si dice « socius », non pensiamo a
relazione personale, ma piuttosto a un comune atteggiaspirituale nei riguardi
della concezione del diritto. minorameli Uge 1 ldtima de in "tegrum
resti,utione "l", . 2, 22); Or, segnar,, plura non essent dicendo
super lege ista Dom.nus lumen } rnenus, quia loicus fui,, et mogister fui. In c
rifate istu in arti bus, antequum docerel in legibm, fecit imam g ssam
sopitisticun ?, quae est obscurior, quam sii textus. E (CoÌi% l, n /r^ miCa M,and. Urstis, Francoforte, 1585, p. 433
[Pebtz, >MGH, XX, 376]): l’etrus iste (se. Abailardus).... habuit.... primo
praeceptorem Rozelinum quondam, qui
primus noslris temporibus in logica sententi am vocum instiluil, et post
ad gravissimos viros Anshelmum Laudunenscm, GwUhelmum Campellensem Catalauni
episcopum migrans, ipsorumque dictorum pondus, tanquam sublilitatis acumine
vacuum iudieans, non diu sustinuit. Inde magistrum induens Furisius venit (v.
la Sez. seguente, nota 258). "') [Johannes Turmair detto] Aventinus,
Atinales Ducum Boiariae, VI, 3 (ed. Riezler. Hisee quoque temporibus fuisse
reperto Rucelinum Brilanum, magistrum Petri A belar di, novi lycaei conditorem,
qui primus scienliam (leggi sententinm) vocum sive dictionum insliluit, novam
philosophandi ciani invertii. Eo namque authore duo Arislolelicorum,
Peripateticorumque genera esse coeperunt, unum illud vetus, locuples in rebus
procreandis, quod scientiam rerum sibi vendicai, qttamobrem reales vocantur,
allerum noviim, quod eam distrahit, nominales ideo nuncupali, quod avari rerum,
prodigi nominum atque notionum, verborum videntar esse adsertores.
"") Joannis Saresbehiensis Metalogicon, (Opera, ed. Gilè?, V, p. 00
[ed. Webh. Naturata lamen tmiversalium hic omnes expediunt, et allissimum
negotium et maioris inquisitio-[Le notizie sul conto di Roscelino rivelano
Vastio degli avversari]. Ma poiché
Anselmo 31B ), che nella sua ortodossomania, inventò la squisita espressione di
« eretici della dialettica » e la usò a carico di Roscelino, dice, per cieca
passionalità o maligna esagerazione, che secondo quella opinione le sostanze
universali non sono nient’altro che un flatus vocis, sarà bene che noi accogliamo non senza
cautela anche le altre notizie comunicate da quello zelatore del realismo, tanto più che, come vedremo, se si sta ai
prodotti originali della sua dialettica, non si può ritener che fosse capace di
giudicare sopra questioni di logica; così pure egli non fa invero che dar
espressione al più intransigente odio partigiano, quando rampogna i seguaci di
Roscelino, perchè danno nis contro menlern auctoris esplicare nituntur. Alius
ergo consistit in vocibus; licei haec opinio curii Rocelino suo fere omnino iam
evanuerit. Alius sermones (v. sotto la noia 324) inluetur et ad illos detorquet
quicquid alicubi de universalibus meminit scriptum; in bue autem opinione
deprehensus est Peripateticus Palalinus Abaelardus noster, qui multos reliquit
et adhuc quidem aliquos habet professioni huius sectatores.... [iPL, 199,
874], Così anche nel Polycruticus (Opp.,
IV, p. 127 [ed. Webb, U, p. 142; PL, 199, 6651): Fuerunt et qui voces ipsus
genera dicerenl esse et species ; sed eorum inni explosa sententia est et
facile cum auclore suo evanuil (v. la nota 325). "*) Ansfxmi de fide
Trin., c. 2 (ed. Gerberon, p. 42 s. [PL, 158, 265J): llli utique nostri tempori
dialeclici (imo dialeclicae haeretici, qui non nii flatum voci putant esse
universales substantias, et qui colorem non aliud queunt inielligere quam
corpus, nec sapienliam hominis aliud quam animami prorsus a spiritualium
quaestionum disputatione sunt exsufflandi. In eorum quippe animabus ratio, quae
et princeps et judex omnium debel esse quae sunt in /tornine, sic est in
imaginationibus corporulibus obvoluta, ut ex eis se non possit evolvere, nec ab
ipsis ea, quae ipsa sola et pura contemplari debel, valcat discernere. Qui enim
nondum intei ligit, quomodo plures homines in specie sint uniis homo, qualiter
in illa secretissima et altissima natura comprehendet, quomodo plures
personae.... sint uiius Deus? Et
cujus meris obscura est ad discemendum inter equum sinim et colorem ejus,
qualiter discernet inter unum Deum et plures relationes ejus? Denique qui non
potest intelligere aliquid esse hominem, nisi individuum, nullalenus intelliget
hominem, nisi humanam personam. Omnis enim individuus homo, persona est. Quomodo ergo iste intelliget hominem assumptum esse a
Verbo eie. la ragione in balia corporalibus imaginationibus : e in verità è
lecito sperare, tutt’al contrario, che proprio nulla ci faccia assurgere così
alto al disopra dell accidentalità sensibile, come il penetrare a fondo nell
universale contenuto concettuale delle parole, e che soltanto a questa maniera
ci sia aperta la via a un sapere effettivo, conquistato da noi stessi, mentre a
una ontologia soprannaturalistica è spesso indispensabile ima imaginazione
irretita nella sensibilità. E possiamo lasciar stare il rimprovero ridicolo,
mosso a Roscelino, ossia di non intendere come la pluralità degl’individui nel
concetto della specie sia una unità poiché anzi proprio questo è riuscito
invece a intendere Roscelino, che cioè la unità risiede nella parola
enimciatrice del concetto. Dovremo ora piuttosto rimettere, come si conviene,
le questioni nei loro veri termini, per quanto concerne le altre osservazioni
mosse contro Roscelino: vale a dire ch’egli fa confusione tra il colore di una
cosa e la cosa stessa, e tra le proprietà e i loro substrati, e parimente
ch’egli non si rende conto, come altro sia « Uomo », e altro il singolo uomo.
Infatti la prima osservazione può significare solamente che, secondo la
opinione di Roscelino, il concetto di una qualità, in quanto concetto, contiene
altrettanta universalità quanta ne contiene il concetto di una sostanza, in
quanto concetto. L’altra osservazione poi comprende, se la sfrondiamo di quella
interpetrazione odiosa che le dà il relatore, il semplice principio fondamentale
del nominalismo, che cioè obbiettivamente, nell’essere concreto, esiste
dappertutto soltanto l’individuale, mentre i concetti della specie e del genere
si trovano soltanto subbiettivamente nelle parole dell’uomo, che insomma
obbiettivamente gli universali non hanno esistenza separata dall’individuale.
Che per conseguenza la Trinità, come obbiettiva essenza di Dio, debba parimente
consistere di tre individui), è implicito in una tale veduta logica,
coerentemente svolta: e così fu che, analogamente a quanto era accaduto con
Berengario, la teologia venne a essere coinvolta nella lotta fra le tendenze
che si dividevano il campo della logica. Ma sembra che Roscelino in generale
abbia molto conseguentemente svolto sino in fondo da tutt i lati il suo punto
di vista, perchè altrimenti sarebbe difficile spiegare, come mai nelle scarse
informazioni che ci sono pervenute sul conto di lui, ci sia ancora una volta un
certo punto isolato, che ci rhuanda in pieno a quel medesimo principio: si
tratta cioè del concetto di parte, che Boezio aveva preso a considerare in vari
luoghi, e riguardo al quale, così per Roscelino come per l’Anonimo già
ricordato (nota 171 g), il momento subbiettivo è ugualmente il momento
decisivo; poiché la notizia, relativa al punto in questione 321 ), va intesa
nel senso seguente: Se p. es. il tetto dev’essere considerato come parte della
casa, si ha da riflettere che obbiettivamente, in “>) Ibid., Epist. n, 41,
p. 357 [PL quia Roscelinus clericus dicil, in Deo tres personas esse tres ab invicem
separatns, sicut sunt tres angeli, ita tamen ut una sit voluntas et poteslas:
aut Pulrem et Spiritum sanctum esse incarnatum, et tres deos vere posse dici,
si usus admilteret. *») Abaelardi [Dialectica, P. V*. liber] divisionum et
defin., p. 471 (ed. Cousin): Fuit aulem, memini, magislri nostri Roscellim tam
insana sentenlia, ut nullam rem purtibus constare velici, sed sicut solis
vocibus species, ila et partes adscribebat. Si quis aulem rem illam, quae domus
est, rebus aliis, pariele scilicet et fondamento, constare diceret (è questo il
solito esempio di divisione del tutto in parti, usato da Boezio, p. es. a p. 52
s. [in Porph. a se trami., I, 8; ed. Brandt, p. 154, 156; PL, 64, 80 s.] e a p.
646 [de divisione ; PL, 64, 888]), tali ipsum urgumentatione impugnabili: si
res illa quae est puries, rei illius quae domus est, pars sit, cum ipsa domus
nihil aliud sit quam ipse paries et tectum et fundamentum, profecto paries sui
ipsius et caeterorum pars erit. At vero quomodo sui ipsius pars fuerit? Amplius,
omnis [pars] naturaliter prior est loto suo : quomodo aulem paries prior se et
aliis dicelur, cum se nullo modo prior sit? quanto è una cosa, il tetto è una
entità perfettamente indipendente, poiché, nel riguardo della obbiettività o
dell’essere reale, quel che ci può essere, è appunto soltanto un tetto di ca6a,
e parimente soltanto una casa fornita di tetto (dato cioè che debba essere
realmente una casa); perciò, se il tetto fosse oggettivamente una parte della
casa, verrebbe a essere ima parte di quella che è ima totalità obbiettivamente
indivisibile, e pertanto, in seguito a tale indivisibilità, finirebbe con
l’essere anche una parte di se stesso: vale a dire che il concetto di parte,
dal punto di vista obbiettivo o dell’essere reale, conduce a contraddizioni, e
la couchiusione giusta è che il tetto viene caratterizzato come parte
esclusivamente dalle nostre parole, racchiudenti in sé i concetti, sicché
dunque il concetto di parte, come tale, si trova essere di spettanza della
espressione verbale subbiettiva. Lo stesso può ripetersi, anche relativamente
alla priorità della parte di fronte al tutto, poiché dal punto di vista
obbiettivo, in quanto è cosa, non è possibile che il tetto sia antecedente alla
unione obbiettivamente inscindibile di se stesso con qualche cos’altro, poiché
allora alla stessa maniera, a cagione della inscindibilità, risulterebbe che il
tetto sarebbe prima di se medesimo : sicché bisogna conchiudere che anche la
priorità del concetto di parte ha luogo solamente nel pensiero subbiettivo. Ma,
come anche questa idea di Roscelino fu malignamente deformata da’ suoi
avversari), così egli stesso l’applicò spiritosamente contro il ra ) Abaelardi
Epist. (Opera, ed. Amboes. [ed. Cousin; PL (Epist., Hic sicut
pseudo-Dialecticus, ita et pseudo-Christianus, cum in Dialeclica sua nullam
rem, sed solam vocem partes habere astruat, ita divinam paginam impudenter
perverlit, ut eo loco quo dicitur Dominus parlem piscis assi comedisse, partem
huius vocis, quae est piscis assi, non purtem rei intelligere cogatur. Che
questa lettera [indirizzata a Gilberto vescovo di Parigi] sia stata scritta da
Abelardo, o, com’è opinione del Du Boulay, da un altro intorno al 1095, è, per
quel che ri-mutilato Abelardo, da ciò prendendo occasione per assegnare,
coerentemente, all’atto intellettuale subiettivo anche il concetto di totalità,
poiché, modificandosi la consistenza obbiettiva di una unione inscindibile,
deve essere subito sostituita con una denominazione diversa la denominazione
che si conformava al suo concetto, e che allora non è più in grado di tener
saldo il pensiero soggettivo di una totalità" ')[c) conchiusione sopra
Roscelino ]. Che del resto il punto di
vista di Roscelino non fosse, in sostanza, affatto nuovo, risulta manifesto dal
confronto con quel che siamo venuti dicendo più sopra; soltanto che, dopo la
comparsa di Berengario, la idea che, nella questione degli universali e della
formazion dei concetti, si tratti solamente di parole, e dell’uso che ne fa l’uomo,
aveva pròvocato ima maggiore circospezione e una più aspra ostilità per parte
della ortodossia. C è invece un punto solamente, e forse anzi il più
importante, che, in seguito alla mancanza di fonti, ci rimane assolutamente
oscuro; nel passo sopraccitato di Giovanni da Salisbury, è fatta cioè una netta
distinzione tra coloro che riponevano gli universali nella « vox », e quelli
che li riferivano ai « sermones », e si soggiunge che Abelardo era di questi
ultimi. Ora, tenuto conto del valore gramguarda questo passo, indifferente; del
resto quanto è stato detto più sopra, nota 314, sembra avvalorarne
l’attribuzione [oggi infatti non contestata] ad Abelardo). [Il passo citato, in
Lue., XXIV, 421. ra ) Roscelini Epist. [ed. Remerà, p. ol I. S,,J forte Petrum
te appellavi posse ex consuetudine mentiens. Certus sum aulem, quod masculini
generis nomea, si a suo genere deciderit, rem solitam significare recusabit
Solent emm nomina propriam signìficationem ami tte r e, cum eorum significata
contigerit a sua perfeclione recedere. /Veglie emm ablalo tecto vel pariete
domus, sed imperfecla domus vocabilur. Sublata igitur parte quae hominem facit,
non Petrus, sed imperfectus Petrus appellandus es. maticale delle parole vox e
serrno, e antecipatamente riferendoci a quel che prenderemo a considerare più
sotto (Sez. seguente, note 308 ss.) a proposito di Abelardo, dobbiamo
senz’alcun dubbio congetturare che Roscelino, con veduta unilaterale, abbia
tenuto presente soltanto il concetto isolato, e pertanto, senz’avere riguardo
alla connessione della proposizione, abbia considerato le parole come concetti
compiuti 324 ); ma non sappiamo invece determinare se la teoria del giudizio
sia stata da lui semplicemente trascurala, o se forse egli non abbia contestato
anche direttamente il valore del giudizio, o quale procedimento abbia seguito,
nel portare così il nominalismo alle ultime sue conseguenze). Raimberto a
Lilla, e la logica « vecchia » di Ottone da CambraiJ. Ma proprio per l’epoca,
nella quale aveva fatto la sua comparsa Roscelino, possediamo una notizia
sommamente caratteristica, relativamente alla lotta delle tendenze sul terreno
della lo***) [Cfr., su questo punto, Ueberwec-Gf.yer]. Tra i più vecchi
nominalisti potrebbero pertanto essere riawicinati a Roscelino, per aver dato
un più unilaterale rilievo alla vox, quel tale Pseudo-Hrabano, Jcpa, l’Anonimo,
l’Anonimo del Cousin (nota 242), e l’Anonimo di S. Gallo, che ha rifuso il
libro De interpr., come pure in parte anche lo Scoto Eriugena; sarebbero invece
più affini ad Abelardo, per aver tenuto eonto del serrno e del rapporto
predicativo, Erico, l’Anonimo di S. Gallo, autore della monografia De
syllogismis, e Berengario. Sarebbe possibile, qualora Roseclino avesse re alm
ente avvalorato con argomenti questa orientazione unilaterale del nominalismo,
prender alla lettera la succitata espressione di Ottone (primus.... sententiam
vocum instituit ); ma risulta comunque da Giovanni da Salisbury, che i seguaci
del nominalismo non tardarono ad abbandonare questo punto di vista angusto;
soltanto non ci si può, come ha pur fatto già qualcheduno, esprimer nel senso
che Giovanni da Salisbury abbia dichiarato il nominalismo in generale ormai
spento; v. la Sez. seguente, note 76 ss. 150
gica 326 ). C’era cioè a Lilla un certo Raiinberto, che insegnava la
dialettica, al pari di « moltissimi altri », se**) Hekmajvni Narratio
Heslaurulionis Abbuliae Sancii Martini Tornacensis, riferita dal D’Acheby,
Spicilegium, ed. De la Barre, PL, 180, 41 ss.; MGH, XTV, p. 274-5]: Iam vero,
si scolae appropiares, cernercs magistrum Odonem nunc quidem Feripulelicorum
more cura discipulis dovendo deambulanlem, nunc vero Stoicorum instar
residentem, et diversus quaestiones solventem.... Sed cum omnium septem
libcruliurn artium esset peritus, praecipue tamen in dialeclicu eminebat, et
prò ipsa maxime clericorum frequenlia eum expetebat. Scripsit etiam de ea duos
libellos, quorum priorem, ad cognoscendu devitandaque sophismala valde utilem,
inlitulavit « Sopliistem », alterum vero appellavit libruiti « Complexionum »;
tcrcium quoque «De re et ente » composuit; in quo sol vii, si unum idemque sit
res et ens. In his tribus libellis.... non se Odonem, sed, sicut lune ab
omnibus vocabatur, nominubat Odardum. Sciendum tamen de eodem magistro, quod
eandem dialecticam non juxta quondam modernos (è questo, qualora non si
vogliano per caso invocare le parole citate il testo più antico dove si trovano
designati i nominalisti come moderni) in voce, sed more Boetii antiquorumque
doctorum in re discipulis legebat (dunque, in opposizione alla pretesa
innovazione, Boezio e Porfirio, in quanto realisti, vengon chiamati antiqui.
Unde et magister Baimbertus, qui eodem tempore in oppido Insulensi dialecticam
clericis suis in voce legebat, sed et alii quam plures magistri ei non parum
invidebant, et delrahebanl, suasque lectiones ipsius meliores esse dicebant;
quam ob rem nonnulli. ex clericis conturbali, cui magis crederent, haesitabant,
quoniam et magistrum Odardum ub antiquorum doctrina non discrepare videbant, et
tamen aliqui ex eis, more Alheniensium aut discere aut audire aliquid novi
semper humana curiositate studentes, alios potius laudabant, maxime quia eorum
lectiones ad exercilium disputandi, vel eloquentiae, immo loquacilatis et
facundiae, plus valere dicebant (Alcuni dunque desideravano di poter
congiungere tuttavia all’ortodosso realismo il virtuosismo formale dei loici
propriamente detti, cioè dei nominalisti). Unus itaque ex eiusdem ecclesiae
canonicis, nomine Gualberlus.... tanta sentenliarum errantiumque clericorum
varietate permolus, quendam pbitonicum (cioè un indovino rpyt/ion/cum]), surdum
et mutum, sed in eadem urbe divinandi famosissimum, secreto adiit, et, cui
magistrorum magis esset credendum, digilorum signis et nutibus inquirere
coepit. Protinus ille (mirabile dictu!) quaestionem illius intellexit,
dexteramque manum per sinistrae pulmam instar aratri terram scindentis
perlrahens, digitumque versus magistri Odonis scholam protendens, signifkabat,
doctrinam eius esse rectissimam ; rursus vero digìlum contro Insulense oppidum
protendens, manuque ori admota exsufflans, innuebat, magistri Raimberti
lectionem nonnisi ventosam esse loquacitatem. Haec dixerim, non quo pbitonicos
consulendos.... arbitrer..., sed ad redarguendum quorundam superborum nimiam
coudo le « moderne » idee nominalistiche (in voce), e costoro, insieme con i
loro seguaci, apertamente si atteggiavano ad accanita rivalità contro Oddone,
vescovo di Camhrai, il quale aveva ricostituito il chiostro di S. Martino a i
ournai, e ivi insegnava logica secondo lo stile « vecchio », cioè secondo
l’indirizzo realistico (in re). Ora, poiché ci sono diversi che dal fascino
della novità si sentivano attratti verso Raimberto, ma poiché nello stesso
tempo, bilanciando tra loro i pregi delle due scuole, non sembrava si potesse
ottenere im risultato ben determinato, uno dei canonici di Touruai si rivolse a
un indovino che godeva allora di gran fama. Questi, SEBBENE SORDOMUTO, intese
subito la questione che gli era rivolta, e con il linguaggio dei gesti si
pronunciò incondizionatamente nè altro
ci si poteva aspettare nel senso di
riconoscere come giusta ed eccellente la tendenza rappresentata dalla scuola
realistica di Oddone. Se del resto chi ci riferisce questa storia (l’abate
Ermanno, vivente a Tournai nella prima metà del secolo XII), il quale del pari,
da buon ortodosso, si professa naturalmente nemico della ventosa loquacità del
nominalismo, ricorda nello stesso tempo scritti di logica, composti da Oddone,
dobbiam certo deplorare ch’essi sieno andati perduti; puramente si può
congetturare che forse il « Liber complexionum » fosse semplicemente tolto di
peso da Boezio (de syll. categ.: v. la Sez. XII, note 131 ss.), e così pure che
il « Sophistes » sia stato putacaso in relazione più stretta con le polemiche
teologiche, o che, com’è possibile, si limitasse anche a ripetere le nozioni
esposte da Cassiodoro (Sez. XII, nota 182); praesumptionem, qui nihil aliud
quarentes nisi ut dicantur sapientes, in 1‘orphirii Aristolelisque libris magis
volimi legi suarn adinventitiam novitatem, quam Boetii caetcrorumque antiquorum
exposilionem. maggiore importanza può invece aver avuta lo ecritto « De re et
ente », poiché la questione, se res ed ens sien lo stesso, era ivi risolta
certamente in senso realistico, quantunque sia da presumere come la cosa più verisimile che tutto il complesso semplicemente si
limitasse a richiamarsi a un passo isolato di Boezio (Sez. XII, note 89
s.). Comunque, si potrebbe ammettere
tuttavia che il nominalismo rosceliniano di allora sia stato rappresentato in
un numero di scritti, più considerevole di quel che le nostre fonti non ci
diano a divedere; poiché, per siffatte notizie letterarie occasionali, siamo
invero quasi esclusivamente rimandati ad autori teologici, mal disposti sin da
principio, quali avversari di una minoranza ch’era loro sospetta, a parlare
lungamente di questa, e invece più propensi ad accordarsi con un Fulberto (nota
237) o un Lanfranco (nota 309) nella condanna della dialettica in generale.
Anselmo d’AOSTA (si veda): a) Vargomento ontologico Se pertanto ci volgiamo a
considerare) F inventore del concetto di haerelicus dialecticae e dunque il
rappresentante attendibile di una logica correttamente ortodossa, cioè Anseimo
[d’AOSTA, arcivescovo] di Canterbury, per prima cosa c’interessa soprattutto
quel così detto argomento ontologico, al quale egli deve la sua •") Così
dice p. es. Ildeberto da Lavardin, arcivescovo di Tours, Sermo (Opera, ed.
Beaugendre [PL Quidum enim in philosophicis jacultatibus qiumulam subtilitalem
inutilem vel inutilitatem subtilem quaerentes, quibusdam minutiis verborum in
cavillatione respondenles utunlur, quibus in disputatione uli, ossa Christi est
incinerare.... Ktsi enim deus convertii nos, arlium liberalium phanlusmatibus
uli, si in hac Scriptum voluerimus similiter sophistice incedere, odibiles Deo
erimus, strepitum ranarum Aegypti in terram Gessen traducere molientes. ra )
Quel che nella prima edizione costituiva il contenuto delle note 328-333, è
stato qui soppresso. pretesa gloria imperitura 33i ), e che, quanto al suo
contenuto teologico o speculativo, viene a cader fuori dai limiti che qui ci
sono imposti, dovendo fermarsi la nostra attenzione puramente sopra il suo
aspetto formale. Che in generale l’assunto di voler dimostrare la esistenza
obbiettiva di Dio, sia tutto quanto una pazzia (perciò anche lo Hegel, proprio
solamente nella sua qualità di neoplatonico ha ripreso per suo conto
l’argomento ontologico), è cosa ammessa da chiunque non sia filosoficamente già
prevenuto, a quel modo stesso che sicuramente si riterrebbe un controsenso
l’assunto di dimostrare per sillogismi la esistenza di un mondo obbiettivo; ma
che in quell’epoca antifilosofica e senza idee chiare potesse venir fuori un
tale tentativo, si spiega benissimo, soprattutto perchè c’era allora, come
sostitutivo della filosofia, solamente ima sfera culturale, limitata alla
teologia dommatica e ad un’abilità tradizionale nella logica delle scuole;
tostochè, per effetto delle controversie teologiche, ci si era dunque fatta
l’abitudine di unire tra loro questi due elementi, in tal maniera che si tentava
di dare un fondamento logico anche a singole frammentarie parti del domma (v.
sopra la nota 303), era semplicemente questione di coerenza, che a tale
formulazione si procedesse, incominciando subito da quello che, nella
professione di fede obbiettivamente dommatica, è il punto supremo. Ma era
perciò naturalmente da porre, quale condizione essenziale, che la posizione
dell’Autore si presentasse come un realismo logico, poiché a un nominalista,
che avesse informato il [La esposizione esaurientemente particolareggiata che
del pensiero di Anselmo è stata pubblicata da Hasse ( Anselm von Canterbury,
Lipsia), è informata a una costante sopravvalutazione della importanza di lui.
Cfr. del resto anche G. Runze, Der ontologische Gottesbeweis, kritische Darstellung
seiner Geschichte [« La prova ontologica della esistenza di Dio: esposizione
critica della 6ua storia»]. Halle.
proprio pensiero a una certa coerenza, non sarebbe venuto mai in niente
di dimostrare con parole subbicttivamente umane la esistenza obbiettiva di Dio
(abbiamo veduto più sopra, nota 272, per questo rispetto, un esempio molto
onorevole di circospezione); e questa connessione con il modo di vedere
realistico, è anche il solo motivo, che c’induce a menzionare questi tentativi
di dimostrazione, al loro primo comparire (cfr. anche la Sez. seguente, nota 94
a); perciò siamo anche ben contenti di rinunziare per tutt’i successivi sviluppi, nei quali
vien meno il punto di vista della logica formale, con la relativa distinzione
di contrastanti tendenze a ricordar le
diverse trasformazioni, per le quali è passato l’argomento ontologico (p. es.
nella filosofìa di Cartesio, Leibniz, Wolff, Mendelssolm, ilaumgarten, Kant).
Anseimo si atteneva, nè altro c’è da aspettarsi da un discepolo di Lanfranco,
al punto di vista, secondo il quale il sapere ha, nella fede cristiana, la
propria condizione e il proprio limite) ; per conseguenza, egli trova, di
fronte al pensiero, una realtà incondizionatamente obbiettiva, nel riguardo
intellettuale già bell’e compiuta, sì che a questa realtà obbiettiva il
pensiero può semplicemente o partecipare o non partecipare: Anseimo, cioè,
com’è di per sè chiaro, in logica è un realista. E il singolare desiderio di
costringere irrevocabilmente il nostro pensiero a questa partecipazione in
senso obbiettivo, cioè d’imporre per forza di dimostrazione il punto di vista
realistico al pensiero umano, è il motivo fondamentale dell’argomento
ontologico 336 ) : ar’“) Epist., Il, 41 (Opera, cd. Gcrberon, Parigi, 1675), p.
357: Chrisliunus per fidem debet ad intellectum proficere, non per intelleclum
ad fulem accedere, aul, si intelligere non valel, a fide recedere. Sed cum ad
intellectum valel perlingere, deleclalur, cum vero nequit, quod capere non
potest, veneralur [PL], ”*) Broslogion, c. 2, p. 30 [te6to curato dal Daniels:
Beitrage del Baumker, voi. "Vili, fase. I-IIJ : Convincitur ergo etiam
insipiens gomento clie ci offre lo spettacolo della massima contraddittorietà,
dovendo invero per esso 1 obbietlivismo sistematico più rigoroso, ricevere,
come tale, proprio un fondamento subbiettivo. il controsenso di questa
intrapresa consiste dunque nel proposito stesso del realista, il quale, mentre
a priori riconosce l'ideale solamente come obbiettivo, vuole dimostrarne la
esistenza obbiettiva ancor soltanto con mezzi subbiettivi; ora un tale
controsenso fu scorto cou perfetta esattezza da G a unilone (monaco
nell’abbazia di Marmoutier [Tours]), come dimostra la sua aff ermazione che
l’argomento varrebbe altrettanto bene anche per provare la esistenza di
un’isola incondizionatamente perfetta 337 ), poiché, di fatto, con la medesima
formula il realismo avrebbe poesie vel in inlellectu aliquid quo nihil maius
cogitari palesi, quia hoc, cum audii, intelligil; et quicquid inlelligitur, in
inlellectu est. Et certe id quo maius cogitari nequit non palesi esse in solo
inteileclu. Si enim vel in solo inlellectu est, potest cogitari esse et in re,
quod maius est. Si ergo id quo maius cogitari non potest est in solo
inlelleclu, id ipsum quo maius cogitari non potest est quo maius cogitari
potest. Sed certe hoc esse non potest. Existit ergo procul dubio aliquid, quo
maius cogitari non valet, et in intellectu et in re [PL, 158, 228J. Liber apologeticus contro Gaunilonem [testo
c. s.J : Ego dico: si vel cogitari potest esse, necesse est illud esse. Nani
quo maius cogitari nequit, non potest cogitari esse nisi sine initio. Quicquid
uutem potest cogitari esse et non est, per initium potest cogitari esse. Non ergo quo maius cogitari
nequit, cogitari potest esse et non est. Si
ergo cogitari potest esse, ex necessitate est, e via dicendo, con grossolana
continua confusione tra cogitari ed esse [PL, 158, 2491. U! ) Liber prò
insipiente, c. 6 (Anselmi Opp., p. 36 [testo c. s.]): aiunt quidam ulicubi
oceani esse insulam, quam ex difficultale vel potius impossibilitate inveniendi
quod non est cognominanl aliqui perditam, quamquam jabulanlur.... universis
aliis.... usquequaque praestare. Hoc ita esse dicat mihi quispiam.... At si
lune vel ut consequenter adiungat ac dicat: non potes ultra dubitare insulam
illam lerris omnibus praestantiorem vere esse alicubì in re, quam et in
intellectu tuo non ambigis esse, et quia praestantius est, non in intellectu
solo sed eliarn esse in re, ideo sic eam necesse est esse, quia nisi fuerit,
quaecunque alia in re est terra, praeslantior illa erit; ac sic ipsa iam a le
praestantior intellecta praestantior non erit , si inquam per hacc ille mihi
velil astruere de insula illa, quod vere sit, etc, etc. [PL]. Più minute notizie sopra Gaunilone son date
da B. Hauréau, Singularités historiques et littéraires, Parigi tuto dimostrare
anche la esistenza reale di tutte quante le idee platoniche. Ma quando a ciò
Anseimo replica ch’egli non ha parlato già della esistenza del concreto, bensì
ha parlato proprio soltanto dell’ Incondizionato 338 ), si lascia
necessariamente prendere al suo stesso laccio; poiché si trova costretto a
ricorrer ora tuttavia a un’ascesa per gradi successivi, onde soltanto a poco a
poco ci eleviamo dal minore condizionato, mentalmente, sino al pensiero del
superlativo incondizionato 339 ) ; per conseguenza, come essere reale, questo
Incondizionato non può naturalmente avere se non una realtà che sia posta dal
pensiero; ma, da capo, con questa conchiusione molto male si armonizza invece
quel che dice d’altra parte lo stesso Anseimo, quando in ciascun pensiero, e
anzi espressamente anche nel pensiero drizzato verso cose concrete, distingue
mi aspetto puramente nominale (vox signìfìcans) e un intendere reale (id
ipsiirn quod res est), in maniera tale, che in quest’ultimo sia già implicita
la esistenza, ma nel primo sia possibile ogni assurdità 340 ); e infatti,
stando così le cose, non c’è *“) Apoi. c. Gaun., c. 3, p. 38: Sed tale est,
inquis, ac si aliquis insulam oceani etc . Fidens loquor; quia si quis
invenerit mihi [ aliquid] aut re ipsa aut sola cogitatione existens praeter
quo[d] maius cogitari non possit, cui optare valeat connexionem huius meae
argumenlationis, inveniam et dabo illi perditam insulam amplius non perdendam
[PL]. “*) Ibid., c. 8, p. 39: Quoniam namque omne minus bonum in tantum est
simile maiori bono in quantum est bonum, patel cuilibel rationabili menti quia
de bonis minoribus ad maiora conscendendo ex bis quibus aliquid maius cogitari
potest multum possumus conicere illud quo nihil potest maius cogituri,... Est igitur linde possit conici
quo maius cogitari nequeat | PL. M0 ) Prosi., c. 4, p. 31: Aliter enim
cogitatur res cum vox eam significans cogitatur, aliter cum id ipsum quod res
est intelligitur. Ilio ilaque modo potest cogitari Deus non
esse, isto vero minime. [Nella ed. Gerberon: Nullus quippe intelligens id quod
sunt ignis et aqua palesi cogitare ignem esse aquam secundum rem ; licet hoc
possit secundum voces, ita igitur nemo intelligens id quod Deus est....]
IS'ullus quippe intelligens id quod Deus est potest cogitare quia Deus non est,
licet haec verbo dicat in corde aut sine ulta aut cum aliqun estranea
significatione [PL bisogno, in generale, nè di ima prova della esistenza, nè di
un’ascesa all’Incondizionato, bensì non c è allora nient’altro da fare, che
pensare appunto ciascuna cosa dal suo lato obbiettivo reale. Con molta
accortezza perciò Anseimo non si addentra con una sola parola neanche nella più
calzante obiezione di Gaunilone; quest’ultimo rappresenta un nominalismo molto
ragionevole, quando dice eh è bensì vero che la vox da sola, come semplice vox,
cioè puramente come suono di lettere (dell’alfabeto), non contiene verità di
sorta, ma che nella Bfera della esperienza, dove il significato intelligibile
della parola viene connesso con cose note e commisurato a queste, si pensa
effettivamente nelle parole l’essere obbiettivamente reale, dovendosi dunque,
per quella sfera che trascende ogni esperienza, star contenti alla significano
perccptae vocis, che non implica in sè la esistenza obbiettivamente reale della
cosa significata 341 ). Dice cioè Gaunilone: nelle no*“) L. prò insip., c. 4,
p. 36[testo c. s.] : Neque enim aut rem ipsam [girne deus est] novi aut ex alia
possum conicere simili, quandoquidem et tu talcm asseris illam ut esse non
possil simile quicquam. Nam si de homine aliquo mihi prorsus ignoto, quem etiam
esse nescirem, dici lamen aliquid audirem, per illam specialem generalemve
notiliam, qua quid sit homo vel homines novi, de ilio quoque secundum rem ipsam
quae est homo cogitare possem. Et tamen fieri posset ut, mentiente ilio qui
diccret, ipse quem cogitarem homo non esset; cum tamen ego de ilio secundum
veram nihilominus rem, non quae esset ille homo sed quae est homo quilibet,
cogitarem. Nec sic igitur ut haberem fulsum istud in cogitatione vel in
intellectu, habere possum istud, cum audio dici « Deus » aut « aliquid omnibus
maius », cum, quando illud (cioè quell'uomo) secundum rem veram mihique notum
cogitare possem, istud (cioè Dio) omnino nequeam nisi tantum secundum vocem,
secundum quam solam aut vix aut nunquam potesl ullum cogitaci verum. Siquidem
cum ila cogitatur, non tam vox ipsa quae res est utique vera, hoc est
litterarum sonus vel syllabarum, quam vocis auditae significatio cogilelur, sed
non ita ut ab ilio qui novit quid ea soleat voce significavi, a quo scilicet
cogitatur secundum rem vel in sola cogilatione veram : verum ut ab eo qui illud
non novit et solummodo cogitat secundum animi molum illius auditu vocis
effeclum significationemque perceptae vocis conanlem effingere sibi. Quod
miruin est si unquam rei peritate potuerit. Ita ergo. stre parole abbiamo la
esperienza concreta convertita in concetti, e nelle parole possediamo anche la
forza di trascender la immediata realtà; ma tostochè questo accada, ci troviamo
esclusivamente nella sfera del pensiero, ed è fatica sprecata voler fare venir
fuori da questo, in quanto puramente subbiettivo, la esistenza obbiettiva del
pensato, perchè, proprio quando ci si volge al cogitavi, si rende manifesto che
esse e non esse appartengono alla sfera obbiettiva, sicché la prova ontologica
non prova niente, perchè va di là dal proprio campo, e così prova troppo. [b)
realismo anselmino, privo di fondamento scientifico, nel Dialogus de veritate]. Se dunque l’argomento ontologico è nato
solamente perchè Anseimo non era riuscito a venire logicamente in chiaro
neanche del suo proprio punto di vista realistico, questa medesima debolezza si
mostra anche in quella professione di fede realistica, cli’è contenuta nel «
Dialogus de veritale s >. Già più sopra (nota 319), nel passo indirizzato
contro Roscelino, abbiamo veduto la espressione schiettamente realistica
«substantiae universales » ; ma proprio un tal modo d’intendere impedisce
naturalmente ad Anseimo qualsiasi comprensione di quel che significhi la forma
del giudizio logico: poiché, potendo egli sin dal principio considerare la
enuntiatio solamente come ricalcata sopra l’essere o il non-essere obbiettivo,
nemmeno in tale forma assegna alla enuntiatio stessa la verità, ma questa
trasferisce in modo esclusivo nella sfera obbiettiva, la quale, lungi
dall’esser vera nel suo presentarsi come oggetto del giudizio, contiene invece
solamente la nec prorsus al iter. adirne in intellectu nuo constai illud haberi,
cum audio intelligoque dicentem esse aliquid maius omnibus quae valeanl
cogitari. Haec de eo quod somma illa
natura iam esse dicitur in intellectu meo [PL]. causa della verità del giudizio
342 ) ; Anselmo auzi espressamente irride alla forma del giudizio: questo
infatti com'egli si esprime anche quando è in contraddizione con lo stato
di fatto oggettivo, continua pur sempre a essere un giudizio giusto, per quanto
si attiene puramente all’enunciare e al significare, mentre la vera giustezza,
cioè la stessa verità, risiede appimto solamente in quella obbiettività, a
raggiunger la quale, in senso obbiettivo, s’ha da tender con uno sforzo, ch’è
designato quasi come dovere morale 343 ) : poiché, dato che tutte le cose
ricevono Tesser loro solamente dalla suprema Verità 344 ), Tessere stesso
prende infine la forma di un *°) Dialogus de ventate, Magister. Quando est numi
intuì vera? Discipulus. Quando est, quod
enuntiat si ve affermando sive negando; dico enim esse quod enuntiat, eliam
quando negai esse quod tuta est; quia sic enuntiat, quemadmodum res est. An
ergo libi videtur, quod res enunliata sit veritas enunlialionis? Non. Quare? Quia nihil est veruni, itisi
participando verilatem: et ideo veri veritas in ipso vero est; res vero
enunliata non est in enuntialione vera, unde non ejus veritas, sed causa
veritatis ejus dicendo est [PL. "*’) Ibid., p. 110: XI. Ergo non est illi
[se. enuntiationi\ aliud veritas [?], quam reclitudo. Video quod dicis: sed doce me,
quid respotulere possim, si quis dicat, quod ctiam cum [ojratio significai esse
quod non est, significai quod dehet: ttariler namque accepit significare esse
et quod est et quod non est. Nam
si non accepisset significare esse eliam quod non est, non id significarci.
Quare eliam cum significai esse quod non est, significai quod debet. Al si,
quod debet significando, recto et vera est, sicut ostendisti, vera est oralio,
edam cum enuntiat esse quod non est. XI.
Vera quidem non solet dici, cum significai esse quod non est; veritatem tamen
et rectitudinem habet, quia jacil quod debet. Sed cum significai esse quod
est, dupliciter jacil quod debet: quoniam significai et quod accepit
significare, et [adì quod facta est. Sed secundum hanc rectitudinem et
veritatem, qua significai esse quod est, usu recto et vera dicitur enuntiatio,
non secundum illam, qua significai esse eliam quod non est.... Alia igitur est
rectitudo et veritas enuntiationis, quia significai ad quod significandurn
facta est: alia vero quia significai quod accepit significare. Quippe ista
immutabilis est ipsi oralioni: illa vero, mutabilis [ PL, p. 111-2: An putas
aliquid esse aliquando, autalicubi, quod non sit in stimma ventate, et quod
inde non accepcril quod est inquantum est: aut quod possil aliud esse, quam
quod ibi est? [PL], Dovere S4B ). Per conseguenza
risulta sì un fondamento unitario, semplicemente obbiettivo, della verità 346
), ma con quanto maggior energia vien dato rilievo all’ apprendimento
esclusivamente spiritualistico di quello), tanto meno si riesce a capire, come
mai rimanga ancora una qualsiasi funzione di principio alla forma logica del
giudizio. [c) punto di vista compassionevolmente basso, nel Dialogus de
grammatico]. Ma quanto poco accuratamente elaborata sia stata in generale
nell’opera di Anseimo la concezione della logica, appare manifesto con la
massima chiarezza dallo scritto intitolato « Dialogus de grammatico » 34S ). È
vero che si tratta semplicemente *“) : In rerum quoque exislemia, est simililer
vera vel falsa significano ; quoniam eo ipso quia est, dicil se debere esse
[PL], Con quest’affermazione è connessa anche la totale identilicazione che
Anseimo stabilisce tra il Non-essere reale, ovvero il Nulla che è, da una
parte, e, dall’altra, il Male ( Epist., II, 8, p. 343 s. [PL), onde,
confrontato con lo Scoto Eriugena (note 133 ss.), egli fa una più risoluta
professione di realismo platonico. '“) Ibid., c. 13, p. 115: Si recliludo non
est in rebus illis, quae debent rectiludinem, nisi cum sunt secundum quod
debenl, et hoc solum est illis rectas esse, manifestum est, earum omnium unam
solam esse rectiludinem.... Quoniam illa (se. veritasj non in ipsis rebus, aut
ex ipsis, aul per ipsas, in quibus esse dicitur, habet suum esse; sed cum res
ipsae secundum illam sunt, quae semper praesto est his, quae sunt sicut debent,
tunc dicitur hujus vel illius rei veritas IPL,Nempe nec plus nec minus continet
isla diffinitio veritatis, quam expediat, quoniam nomen reclitudinis dividii
eam ab ornili re, quae rectitudo non vocatur. Quod vero sola mente percipi
dicitur, sepurat eam a reclitudine visibili [PL]. **) Dice lo stesso Anseimo
(Prologus ad dial. de ver., p. 109 [PL): [edidi tractatum ] non inulilem, ut
puto, inlroducendis ad dialecticam, cujus initium est « De grammatico»: e da un
passo di SiciBKftTO da Gsmbloux (de scriptoribus ecclesiaslicis, c. 168), dov’è
ripetuta questa notizia (vedilo riprodotto dal Fabricius nella Dibl. eccl., p.
114 [PL, 160, 586] : scripsit.... alium librum inlroducendis ad dialecticam
admodum utilem, cujus initium est « De grammatico »), ha avuto origine la
opinione erronea, ch’egli abbia scritto una particolare « Introducilo in
dialecticam ».di un esercizio scolastico, composto da Anseimo, come dice egli
stesso, soltanto in considerazione delle solite numerose trattazioni analoghe 3
'* 9 ) ; ma mentre ci è ignoto se quegli altri scritti consimili sieno mai
stati migliori, scorgiamo in ogni caso che questo di Anseimo si tiene a un
punto di vista compassionevolmente basso. Poiché è un continuo insulso giocare
con proposizioni ricavate da Boezio, e apprese macchinalmente, senza trarsi
fuori dalla tediosa fatica di scovare in un primo tempo difficoltà, là dove un
uomo ragionevole non ne saprebbe trovare, e poi da capo presentarne la
soluzione adeguata; insomma è il prodotto
di una erudizione scolastica estremamente limitata, tanto meschino quanto lo
scritto ricordato più sopra di Gerberto; e di un qualche impulso che sia da
esso derivato allo studio della dialettica, si può tanto meno parlare, in
quanto che, persino relativamente alla questione che divideva il campo della
logica in contrarie tendenze, si presenta estremamente ottuso e scolorito.
Tutta la trattazione si volge intorno alla questione, se « grammaticus » sia
sostanza o sia qualità, dato che ima e l’altra alternativa debbano entrambe
esser ammesse, ma non sia possibile che sieno in pari tempo tutt’e due vere 35
°). Ma alla risposta ragionevole, che **) Diulogus de grammatico, Tamen quoniam
scis, quantum noslris temporibus diulectici certent de quaestione a te
proposila, nolo le sic his quae diximus inhaerere, ut ea perlinaciter teneas,
si quis validioribus argumentis haec destruere et diversa valuerit astruere:
quod si conti gerii, saltem ad exercitationem disputandi nobis haec profecisse
non negabis [PL, . B °) lbid., c. 1, p. 143: De grammatico peto ut me cerlum
jacias, utrum sit substantia an qualitas, ut, hoc cognito, quid de aliis quae
similiier denominative dicuntur, sentire debeam, agnoscam. La questione ha la
propria fonte in Boezio (p. 121 [in Ar. praed., I; PL, 64, 171-2]), il quale,
dove nelle Categorie vien citato grammaticus come denominalivum da grammatica,
nomina nel commento Aristarco quale esempio di grammaticus, e inoltre, nel trattare della categoria della
sostanza (p 134 [ibid.; PL, 64, 189]), espressamente riconduce grammaticus su
su ad animai, mentre è da agli. cioè son pur vere tutte due le alternative, ci
si arriva per via indiretta nel modo più artificioso 351 ). Alla opinione di
chi ammette che « grammaticus » è sostanza, perchè invero il grammatico è un
uomo, ma l’uomo è sostanza, si contrappone cioè anzitutto un sillogismo
deforme, il quale ha per conchiusione che nessun grammatico è uomo 352 ) :
conchiusione, che per prima cosa viene confutata con l’argomento, che alla
stessa maniera potrebbe anche dimostrarsi che nessun uomo è un essere vivente
353 ) ; ora soltanto a tale argomento vien disgiungere che (p. 185 s. [i6., HI;
PL, 64, 256-7J) per la categoria delia qualità, grammuticus era diventato
l’esempio stereotipato. Perciò Anselmo pone ora una accanto all'altra come reciprocamente
contraddittorie le seguenti espressioni: Ut quidem grammaticus prò betur esse
substantia, sufficit quia omnis grammaticus homo, et omnis homo substantia
(cfr. Boezio [ad Porph. a se fransi.], p. 63 s. [probabilmente si deve leggere
36 6.: lib. H, c. 11; ed. Brandt, p. 103-4; PL, 64, 57]).... Quod vero
grammaticus sit qualitas, aperte jatentur philosophi, qui de hoc re
tructaverunt, quorum aucloritalem de his rebus est impudenlia improbare. Item quoniam necesse est, ut
grammaticus sit aut substantia aul qualitas.... Cum ergo alterum horum verum
sit, alterum jalsum, rogo ut julsìtatem detegens, aperius mihi veritatem [PL,
158, 561]. K1 ) Ibid„ c. 2: Argumenla, quae ex
utraque parte posuisti, necessaria sunt; nisi quod dicis, si alterum est,
alterum esse non posse. Quare non debes a me exigere, ut alteram partem esse
falsam ostendam, quod ab ulto fieri non potesti sed quomodo sibi invicem non
repugnent, aperiam, si a me fieri polest. Sed vellem ego prius a te ipso
audire, quid his probalionibus tuis oblici posse opineris \ib., 561-2]. K ‘)
Ibid.: Ulani quidem propositionem quae dicit, grammaticum esse hominem, hoc
modo repelli existimo : quia nullus grommati• cus potest intelligi sine
grammatica, et omnis homo polest intelligi sine grammatica. Item, omnis
grammaticus suscipit magis et minus (questo è ricavato da BOEZIO, p. 186 [in
Ar. Praed., Ili; PL, 64,
257]), et nullus homo suscipit magis et minus: ex qua utraque contextione
binarum propositionum conficitur una conclusio, id est, nullus grammaticus est
homo [PL, 158, 562]. * sl ) C3, p. 143 s. : Non sequitur.... Contexe igitur tu
ipse quatuor.... propositiones.... in duos syllogismos:... « Orane animai
polest intelligi praeler rationalitatem; nullus vero homo potest intelligi
praeter rationalitatem>. Item: que multipliciter appellatur.... Et communis
est multiplex appellatio, edam in his nominibus, quae veluti genera de
speciebus dicuntur;e (p. 183 [ibid., PL): Grammatici enim a Grammatica
nomìnantur, atque hoc est in pluribus, ut posilo nomine, si quid secundum ipsas
qualitales, quale dicilur, ex his ipsis qualilatibus appellatio derivetur. Etc . distinctis qualitatum vocabulis appellantur....
Così neanche Anseimo oltrepassa dunque assolutamente la limitata sfera delle
fonti sin qui note, e se si fosse già fin d’allora conosciuta la traduzione
degli Analitici, è da credere che in generale tali disquisizioni sarebbero
state impossibili. Anseimo tuttavia non ci consente ancora di gustare subito la
sua concezione realistica, bensì ancora per qualche tempo ci mena strascicando
attraverso uno sciocco gingillar con le parole. Se cioè si obietta che «
grammatico » e « uomo » vengono per conseguenza a essere ugualmente predicati
significativi, e che pertanto il primo abbraccia del pari in una unità reale il
concetto di uomo e il concetto di grammatica
tale obiezione dev’essere ora confutata con la considerazione, che
allora « grammatica » non sarebbe accidente, ma differenza sostanziale, il che
dovrebb’essere altrettanto vero di tutte le qualità simili: e così pure ne
risulterebbe la illazione che un non-uomo, il quale fosse grammatico, dovrebbe
allora proprio perciò essere nello stesso tempo uomo 364 ) ; inoltre bisogna
ben riflettere appunto sopra la forma di aggettivo che ha la parola
grammaticus, poiché se « uomo » fosse già per sè contenuto in « grammatico »,
potrebbe darsi che, con la sostituzione, si dovesse continuar a ripetere
all’infinito la parola « uomo », e in generale si sconvolgerebbe il punto di
vista proprio degli appellativi derivati, perchè allora p. es. anche hodiemus
dovrebb’essere un verbo 363 ). J C. 13, p. 14 ì: Sicut enim homo constai ex
ammali et rationalitate et morlalitale, et idcirco homo significai liaec trio,
ila grammatici^ constai ex homine et grammatica; et ideo nomen hoc significai
utrumque.... M. Si ergo itti est, ut tu
dicis, diffinitio et esse grammatici est « homo sciens grammalicam ».... Non
est igitur grammatica accidens, sed substantialis differentia; et homo est
genus, et grammaticus species: nec dissimilis est ratio de albedine, et
similibus accidentibus: quod falsum esse totius artis traclatus ostendit
((BOEZIO fin Porph. a se transl., IV, 1: ed. Brandi, p. 239 ss.; PL, 64, 115
ss.], p. 79 ss.).... Ponamus, quod sit animai aliquod rationale, non tamen
homo, quod ita sciai grammalicam sicut homo ... Est igitur aliquis non homo
sciens grammaticam.... At omne sciens grammalicam est grammaticum.... Est
igitur quidam non homo grammaticus.... Sed tu dicis in grammatico intelligi
hominem.... Quidam ergo non homo est homo quod falsum est [PL, 158, 571-2], )
Jbid. : Si homo est in grammatico, non praedicatur cum eo simul de aliquo...;
non enim apte dicitur, quod Socrates est homo animai (Boezio [loc. ult. cit.,
II, 6: ed. Brandt, p. 192; PL Dopo che si dà così
per dimostrato che grammatica* non chiude in sè unitariamente la sostanzialità
dell’uomo, bensì vale soltanto quale significazione adeguata della grammatica,
deve adesso chiarirsi ancora tuttavia in qual modo grammaticus sia puramente un
appellativo mediato dell’uomo; e ciò si fa, con il più balordo scambio di
concetti attributivi, mediante questo esempio, che cioè, se ci sono, uno
accanto all’altro, un cavallo bianco e un bove nero, dicendosi senz’altro S, qUoJ 7. homo solus, i. e. sine grammatica,
est gromma auinno f b ‘ m °' l,S,ntell W POtest: uno vero, altero falso. Homo
quippe (questo e il verni modus) solus, i. e. absque grammatica est qiTnecToh
Ter habe ^ ^ m maticam: grammatica namque, nec sola nec cum honune. habet
grammaticum. Sed homo so irammn ' grammat,ca ««* grammatici; quia, absente
grammatica, nullus esse grammatici potest (il falsus modus consi alerebbe cioè
ne 1 intender quella proposizione nel senso che non per^ r „a n n e ted a n>
^amniotica alla sostanza 7 ». stante dell uomo): sicut qui praecedendo ducit
alium, et so . 1 praevius, quia qui sequitur non est praevius,... et solus non
lvL pr i5T l 5m l, !cr n T f qui T‘ evius esse non P° test la prima delle due
alternative viene utilizzata per la professione di fede realistica, e qui
Anselmo aderisce, con l’accento di chi si rassegna di mala voglia, alle idee
dei dialettici aristotelici, per salvare almeno quel che poteva essere salvato,
poiché, visto che le Categorie godevan pure di ima così grande autorità, da non
poter essere del tutto rigettate, bisognava far il tentativo d’interpetrarle in
senso realistico. Dice Anselmo cioè, che designare il grammatico esclusivamente
come qualità, è giusto soltanto dal punto di vista delle Categorie
aristoteliche, poiché in quest’opera si tratta in verità non dell’essere reale
delle cose stesse, e neanche della designazione puramente appellativa mediante
parole, bensì delle voces significativae (v. sopra la nota 363), in quanto che
queste significano immediatamente l’essere sostanziale in se stesso: e perciò è
giusto che tra i dialettici sia rimasto in uso di tenersi puramente nell’orbita
di questa significazione sostanziale, cioè di servirsi del grammatico, soltanto
com’esempio di qualità 3T0 ) ; peroc”“) C. 16: Cum vero dicitur, quod
grammaticus est qualilas, non recte, nisi secundum tractatum Aristotelis de
categoriis, dicitur. C. 17: D. An aliud habet ille tractatus quam « omne quod est, aut est
substantia, aut quantitas, aut qualilas, etc. » (BOEZIO [in Ar. Praed., I;
PL).... M. Non tamen fuit principalis
intentio Aristotelis, hoc in ilio libro ostendere, sed quoniam omne nomen vel
verbum atiquid horum significai; non enim intendebal ostendere, quid sint
singulae res, nec qiiarum rerum sint appellalivae singulae voces, sed quorum
significativae sint. Sed quoniam roces non significant nisi res, dicendo quid
sit quod voces significant, necesse fuit dicere quid sint res.... De qua
significatione videtur libi dicere, de illa qua per se significant ipsae voces,
et quae illis est subslantiulis, an de altera, quae per aliud est, et
accidentalis? D. Non nisi de ipsa, quam
idem ipse eisdem vocibus esse, diffiniendo nomen et verbum (Boezio [in de
interpr., ed. Becunda, I, 1: rdiz. Meiser, Pare Post.,
p. 13 ss. ; PL, 64, 398-9], p. 293 s.), assignuvil, quae per se
significant. M. An pulas.... aliquem eorum,
qui eum sequentes de dialectica scripserunt, aliter sentire voluisse de hac re,
quam sentii ipse? D. Nullo modo eorum scripta hoc aliquem opinari
permilliinl: quia nusquam invenitur aliquis eorum posuisse aliquam vocem ad
ostendendum aliquid quod significet per aliud, sed semper ad hoc quod per se
significai [PL, chè, in questo senso realistico, il grammatico, per rispetto
alle categorie, è, parimente dal punto di vista del linguaggio come nella
realtà, una qualità laddove, fatta
astrazione da questa considerazione dialettica, la quale tuttavia deve pertanto
contenere Tessere essenzialmente sostanziale, ciò che rimane è solamente il
campo della comune maniera di parlare appellativa, nella quale il grammatico è
chiamato «uomo»: non diversamente p. es., nel considerare le forme grammaticali,
è giusto chiamare maschile il sasso, mentre, nell’uso comune del linguaggio,
non c’è nessuno che designi il sasso come mi essere mascolino 3n ). Dunque
Anseimo scorge bensì nelle categorie un pòtere formale, ma lo riferisce
esclusivamente alla Tabula logica, già obbiettivamente data, dell’Essere
sostanziale. Ma quanto rozzamente ciò da lui sia stato inteso, appare manifesto
dalla concliiusione dello scritto, dove si discute ancora la questione, se una
sola cosa possa cadere sotto più categorie; poiché, quando p. es. si dice c ìe
armatus può anche rientrare nella categoria della sostanza, perchè l’armato ha
in sè una sostanza, vale a In C ' 18, U s .: Si crgo proposila divisione
oraefata (cioè L!X n 7 e ;' leCÌ categorie), quaero a te, q uid sii grammaticm
secundum hanc divisionem, et secundum eos. qui illuni scribendo D P™lT2Z
qUUn,Ur t: qU,d QUaer0 ’ ° Ut QUÌd mihi rospondebi? _ -A " ÌUC P ° test
quaeri ’ nisi de voce aut de re quam significati quare, qu ia constai
grammaticum non significare respondebo^i '"'“'"'T hominem sed
grammaticum, Incuneiamo Tve^oauàerlde de V ° Ce ' quu ) vox significans quali
totem, si vero quaens de re, q uia est q ualitas.... Quare si ve quaeralur de
yZZlil Ve J e,lf’ CUm quuer,tur quid sit gr animai-ras secundum A ristoici s tractatum
et secundum sequaces ejus. recte respóndZr -Mila' "t t * men s f cundum
oppellationem vere est subslanliu. scribuntd emm V Vere " OS debet ' quod
d ulectici ahler utùmur InLc J bUt S0C ‘,ndum quod sunt significativae,,diter
eis dèi Idi //T '" secun dum qiwd sunt appellativae: si et grommatic ahud
dietim secundum formam vocum. aliud secundum reium naturam. Dicunt quippe
lapidem esse mascolini generis.... cum tu rno dicat lapidem esse masculum [PL,
dire le armi, cou ciò si tocca veramente il colmo della incomprensione della
logica; e a noi piace chiudere con la sentenza che Anselmo pronuncia su tale
argomento, essere difficile cioè ( poiché non vuole affermare neanche questo
con assoluta certezza ) che una cosa, la quale eia un tutto uno, possa cadere
sotto più categorie, laddove invece una parola, includente più significati, può
ben essere considerata, come non unitaria, dal punto di vista di più categorie:
tal è p. es. il caso di albus, ch’e di pertinenza così della categoria della
qualità, come anche di quella dell’avere. Cosi quest’ottuso realismo
s’inviluppava, per la sua propria impotenza, in difficoltà, che in generale,
per chi consideri le questioni secondo un criterio realmente logico, sono
inesistenti, e tutto l’atteggiamento di Anseimo ci appare soltanto come un
documento di una congenita disgraziata disposizione, dalla quale è affetto, in
ordine alle questioni di logica, l’oggettivismo realistico. [§ 35. Grado ancor basso di sviluppo del contrasto FRA
LE TENDENZE. ONORIO DA AUTUN. Ma ili generale sembra in quel tempo, cioè al
limite fra l’XI e il XII secolo, essersi manifestato, quale risultato di più
Nam, si grammaticus est qualilus, quia significai qualitatem, non video cur
armalus non sit substantia,... quia significai habentem substantiam, i. e.
arma:... sic grammaticus significai habere, quia significai habentem
disciplinam. M. Nullalenus.... negare
possum, aut armatum esse substantiam aut grommaticum [esse] habere.... Rem
quidem unam et eamdem non puto sub diversis apiari posse praedicamentis, licet
in quibusdam dubitari possit: quod majori et altiori disputationi indigere
existimo (saremmo stati in verità smaniosi (li leggerla, questa altior
disputatio).... Unam aulem vocem plura significamela non ut unum, non video
quid prohibeat pluribus uliqucndo supponi praedicamentis, ut si albus dicitur
qualitas, et habere [PL], Successivamente si prende ancor in esame il concetto
di albus, per sostenere ch’esso non è unitario, ma risulta appunto da qualitas
e habere appiccicati insieme. e meno recenti controversie logiche e teologiche,
un contrasto, ancora dichiaratosi in maniera anzichenò grossolana, tra
nominalisti e realisti: si era cioè incapaci, all’infuori da questi due punti
di vista, di prenderne in’ considerazione alcun altro, come pure si enunciava
ciascuno di quei due unilateralmente, ancora in forma estrema e per così dire
grezza. Uno svolgimento di gran lunga più ricco e meglio disciplinato, ce lo
presenteranno di già subito i prossimi decenni, e più che mai 1 epoca
ulteriore, che per il momento preferiamo tuttavia passar del tutto sotto
silenzio. La usata logica delle scuole poteva anzi esser allora intesa da
alcuni singoli scrittori in maniera tale, che rimanesse ancor affatto immune da
qualsiasi influsso del contrasto fra le tendenze, e qual esempio di assoluta
ingenuità, così per questo rispetto come relativamente alla logica in generale,
possiamo, per chiudere questa Sezione, citare ancora, del principio del secolo
XII, alcune amene osservazioni di Onorio da Autun, il quale rappresenta le
sette arti liberali come altrettante sedi dell’anima: ed ecco tutto ciò che, a
tal proposito, egli sa metter avanti, relativamente alla dialettica: per cinque
porte (le quinquc voces) si entra nella vera e propria fortezza (cioè le dieci
categorie), dove stan pronti due campioni, vale a dire il sillogismo categorico
© quello ipotetico, che Aristotele ha armati nella Topica e ha portati poi, nel
libro de interpr., sul campo di battaglia, sicché ci si può qui metodicamente
addestrare nella lotta contro gli eretici S7S ). TO ) Honorii Aucustodunensis
de Animae Exsilio et Patria, c. 4, riprod. dal Pez, Thesaur. Tenia civilus est
Dialettica, multis quaestionum propugnando munita.... Uaec per quinque portas
adventantes recipit, scilicet per genus, per species, per differens, per
proprium, per accidens; unde et Isagogae introductiones dicuntur, quia per has
repatriantes introducuntur. Arx hujus urbis est substantia; turres
circumslantes novem sunt accidentia. In hoc duo pugiles sunt et litigantes
certa ratione dirimunt: Calhegorico et hypothetico Syllogismo quasi praeclaris
armis viantes muniunt. Quos Aristoteles
in Topica recipit, argumenlis instruit, in Perihermeniis ad lalum campum
syllogismorum educit. In hac urbe
docentur itineranles haereticis, et aliis hostibus armis rationis resistere
eie. [PL PROGRESSO GRADUALE VERSO LA CONOSCENZA COMPIUTA DELLA LOGICA
ARISTOTELICA Si colmano le lacune del materiale degli STUDI DI LOGICA, CON LA
CONOSCENZA DEI DUE ANALITICI e della Topica, oltre che degli Elenchi Sofistici].
Dopo aver detto più sopra che c’è un solo motivo di dividere in periodi la
storia della logica medievale, motivo che consiste per me nella misura
estrinseca della conoscenza, più limitata o più estesa, che si aveva degli
scritti aristotelici, e che la differenza di contenuto fra la precedente e la
presente Sezione si riduce in ultima analisi al fatto che sino al principio del
sec. XII non erano noti nè utilizzati i due Analitici e la Topica, insieme con
gli Elenchi Sofistici, mentre in seguito, a poco a poco, anche questi libri
furon tratti entro la sfera dei dibattiti sopra le questioni di logica, m’incombe ora qui per prima cosa il dovere di
fissare anzitutto precisamente quei dati di storia letteraria, che stanno a
fondamento della separazione. Per tutta questa Sezione, con la quale entriamo
nell’agitata epoca di Abelardo e procediamo sino al termine del XII secolo,
bisogna cioè in primo luogo metter sott’occliio l’àmbito del materiale di cui
disponevano gli studiosi di logica, e dal quale scaturirono le numerose
controversie di questo periodo, vale a dire bisogna mostrare che, e in qual
modo, a poco a poco, per un verso si pervenne alla conoscenza di tutta quanta
la produzione letteraria di Boezio, che aveva appunto tradotto l’Organon per
intiero, e per l’altro verso si apprestarono traduzioni nuove dei libri
suddetti: perchè, solamente dopo fatto ciò, potremo riferire quale attività si
sia svolta nel frattempo sopra questo terreno gradatamente ampliato. Che quella
suindicata limitazione sia effettivamente sussistita fino al principio del
secolo XII, si può forse darlo ora per dimostrato, sia dalle notizie positive,
addotte nella Sezione precedente, sia anche dall’assoluta mancanza di qualsiasi
accenno in contrario. Ma appunto, quanto più per questo periodo antecedente
invochiamo in nostro favore la forza dell 'argumentum ex silentio ’), tanto più
diligentemente abbiamo preso in considerazione anche le tracce isolate e per
così dire cancellate, di manifestazioni, dalle quali quel silenzio viene rotto,
a partire da un dato momento. Il punto critico si ha cioè, quando viene presa
conoscenza degli Analitici e della Topica, oltre che degli Elenchi Sofistici*),
e per quanto ciò sia accaduto soltanto insensiCerto non deve perciò negarsi la
possibilità di nuove scoperte in qualche Biblioteca, dalle quali vengano messe
in luce notizie, contrastanti con questa nostra veduta; ma tuttavia si
tratterebbe sempre soltanto di casi isolati, senz’alcun indosso sopra lo
svolgimento generale della logica in quel tempo, perchè a riconoscere
l’andamento della logica in generale, sembrano sufficienti le fonti sinora
accessibili, ") Jourdain nelle sue Rechcrches critiques si era invero
proposto solamente il compito di ricercare le traduzioni nuove, venute fuori
nel Medio Evo, e poteva escludere dunque dalla propria considerazione questa
rivoluzione, in quanto essa concerne la conoscenza di Boezio: ma gli sono
sfuggiti testi d'importanza decisiva anche per quel suo intento particolare
bilmente e a poco a poco, ci si può bene aspettare che una conoscenza, sia pur
ancora frammentaria, di queste principali opere aristoteliche non sarà senza
connessione con lo studio della logica, fattosi ora più ricco e variato.
Giacomo da VENEZIA (si veda). Già una notizia che c del seguente tenore: un
tale Giacomo da Venezia [SI VEDA] tradusse dal greco i due Analitici, la Topica
e gli Elenchi Sofistici, e nello stesso tempo li corredò di un commento,
sebbene degli stessi libri ci sia stata una traduzione più antica » *), riguarda, come si vede, proprio quelle opere,
che il periodo precedente non aveva nè conosciute nè utilizzate: e, com’è da
rilevare da un lato, che l’informatore, appartenente egli pure al secolo XII,
era edotto della esistenza della traduzione, curata da BOEZIO, di quei libri, poiché dove si parla di una traduzione « più
antica », non può alludersi se non a quella , è parimente chiaro, d’altra
parte, che quel tale Giacomo di VENEZIA (si veda) ignorava che la traduzione
stessa esistesse, e proprio da ciò era stato indotto a curar egli stesso la sua
propria versione di quei libri. Ma il paese, al quale siffatte circostanze
vanno ambedue riferite, è L’ITALIA. Prima ancora che si disponga del testo DEI
LIBRI ARISTOTELICI SU RICORDATI, TRAPELANO D’ALTRA FONTE NOTIZIE SPORADICHE. Si
DIMOSTRA CIÒ CON ARGO*) In nota a un passo di Roberto da Mont-St.-Michel
(Roberti de Monte Cronica, riprod. dal Pertz, MGH, Vili, p. 489), un
continuatore (cioè « alia manus », ma, come afferma il Pertz [rectiiu: L. C.
Bethmann]) osserva quanto segue: Iacobus Clericus de VENEZIA (si veda)
transtulit de Graeco in Latinum quosdam libros Aristolilis, et commentatili
est; scilicet Topica, Anal. priores et posteriores, et Elencos; quamvis
anliquior translatio super eosdem libros haberetur fPIL MENTI TRATTI dagli scritti
di AbelardoJ. Questa importante notizia, la quale contiene dunque elementi
relativi alla conoscenza di quelle opere, e inoltre nello stesso tempo elementi
relativi alla non-conoscenza delle opere stesse, non sta tuttavia così isolata,
come si eredeva 4). Una conoscenza di quei libri sembrerebbe cioè, ben è vero,
rimaner esclusa a prima vista da dichiarazioni di Abelardo, affatto categoriche
e di amplissima portata. Fatta astrazione dal lamento ch’egli leva, e che qui
non c’interessa, per la mancanza di una traduzione della Fisica e della
Metafisica di Aristotele 5 ) Abelardo
c’indica egli stesso espressamente le fonti della sua logica, e dice che la
letteratura in lingua latina, riguardante la logica, ha per fondamento sette
scritti, ripartiti fra tre autori: di Aristotele cioè si conoscono soltanto le
Categorie e il de interpr., di Porfirio la Isagoge, ma di BOEZIO sono in uso i
trattati de divisione, de differenti™ topicis, de syllogismo categ., de
syllogismo hypoth. b ); inoltre, anche una osservazione, tratta dagli, ora ’
®“P ra Giacomo da V., anche Ueberwec-Geyer, p. 146] .11I Cousin (Ouvr. inédits
d’Abélard, p. L ss, e anche Fragni. de pini, du moyen àge Parigi) è
assolutamente in errore, e dai passi di Abelardo che dovremo citare subito
appresso, trae conchiusioni, solamente in base al tenore delle parole,
estrinsecamente considerate, senza por mente al contenuto delle dispute intorno
ai problemi della logica. . “I Abaelardi Dialectica, negli Ouvr. inéd. (ed.
Cousin), p. 200: in l hysicis [et].... in his libris, quos Metaphysica vocat,
exequitur (se. Aristoteles). Quae quidem opera ipsius nullus adhuc translator
latinae linguue aptavit. Confido.... non pauciora vel minora me praestiturum
cloquentiae peripateticae munimenta, quam illi praestiterunt, quos latinorum
celebrat studiosa doclrina.... Sunt autem tres, quorum septem codicibus omnis
in hac arte eloquenza latina armalur. Aristotelis enim duos tantum,
Praedicamentorum scilicel et l J eri ermenias libros usus adhuc latinorum
cognovil; Porphyrii vero unum, qui videlicet de Quinque vocibus conscriptus,
genere scilicet, specie, differentia, proprio et accidente, introductionem ad
ipsa praeparal praedicamenta; BOEZIO autem qualuor in consuetudinem duximus
libros, videlicet Divisionum et [2291 Topicorum cum Syllogismis tam Categoricis
quam Hypotheticis. Quorum omnium summam noElenchi Sofistici, Abelardo la cita
una volta, soltanto di seconda mano, espressamente riferendosi a BOEZIO, come a
propria fonte 7 ). Mentre dunque Abelardo, com’è di per sè chiaro, da quei
passi di BOEZIO già più volte menzionati, doveva aver appreso esattamente quali
sieno i libri scritti da Aristotele, si direbbe ch’egli riconosca con le parole
ora riferite, in modo assolutamente inequivocabile, che non gli era possibile
far "uso delle traduzioni degli Analitici, della Topica e degli Elenchi
Sofistici. Ma tutto quel che ci è lecito conchiudere anche da questo
riconoscimento, si è che Abelardo non aveva a disposizione quelle opere
principali di Aristotele, perchè queste in generale non si trovavano tra gli
scritti entrati nell’uso (si ponga mente all’espressioni « usus.... cognovit »
e «in consuetudinem duximus »); vediamo cioè che allora in Francia, in tutti
quei luoghi, per i quali Abelardo si andò aggirando o dove in generale ci si
occupava di logica, non si possedeva un esemplare del testo genuino di quei
libri; poiché 6e se ne fosse posseduti, con l’ardore per gli studi di logica,
caratteristico di quell’estrae dialecticae textus pienissime concludet etc. Che
per Topica qui non sia da intendere nient’altro che lo scritto de diff. top., è
dimostrato, oltre che dalla esposizione che di questo ramo della dialettica si
trova nello stesso Abelardo, anche da una quantità di passi, dov’egli cita
punti singoli 'del de di/}, top. come « Topica» di BOEZIO, tout court: così, p.
es., lntrod. ad thcol. [ed. Amboes.], II, 12, p. 1078 [ed. Cousin, II, 93; PL,
178, 1065] (si riferisce al de diff. top., I, p. 858 s. [corrisponde a PL),
Theol. Christ. [ed. Martène], IU, p. 1281 [ed. Cousin, II, p. 488: PL] (si
riferisce c. s.). Sic et Non, c. 9, p. 41 della ediz. Henke e LindenkohI [PL
(de diff. top., II, p. 866 [PL, ]), ibid., c. 43, p. 105 [PL, 178, 1405] (de
diff. top., III, p. 873 [PL, 64, 1197]), ibid.. c. 144, p. 397 [PL] (de diff.
top., II, p. 867 [PL]). ') Dialect., ed. Cousin, p. 258: Sex autem sophismatum
genera Aristotelem in Sophisticis Elenchis suis posuisse, Boethius in secando
editione Peri ermenias commemorai (BOEZIO, p. 337 s. [in de inlerpr., Secunda
editio, II, 6: ed. Meiser, Pars Post., p. 133-4; PL, 64, 460 s.]). poca, li si
sarebbe certamente messi in piena luce. Non rimane invece esclusa in tali
circostanze la possibilità che qualche elemento di quegli scritti sia tuttavia
venuto altrimenti a conoscenza del pubblico dei dotti: e sol che si trovasse
anche una unica notizia soltanto, della quale si riuscisse a dimostrare che non
possa essere stata ricavata da uessun’altra fonte se non da uno di quei libri,
sarebbe fornita la prova che in qualche maniera, da qualche altra parte, dati
isolati ricavati dagli Analitici e dalla Topica sono filtrati nell’atmosfera
degli studiosi francesi di logica. Ma dimostrare per opera di quali uomini e in
quale maniera ciò sia accaduto, non è compito da assegnare a noi; è impossibile
fornir tale prova, anzi nemmeno possiamo designare la fonte locale. Che cioè al
tempo di Abelardo si fosse venuti a conoscenza di elementi staccati, tratti da
quegli scritti aristotelici che fin allora non erano ancora stati messi a
profitto, è cosa della quale possiamo trarre le prove precisamente da Abelardo
stesso, e anzi riferendoci non a un pimto soltanto, ma a parecchi. Abelardo
osserva una volta, a proposito della definizione del genus 8 ), che in
determinate circostanze anche l’individuo può fare da predicato, come p. es.
nella proposizione « hoc album est Socrates», oppure «/tic veniens est Socrates
» : una considerazione questa, che
sarebbe vano ricercare in tutta la serie dei commenti di BOEZIO, ma che si
trova bensì negli Analitici Primi, con letterale coincidenza di quelle
proposizioni esemplificative; e proprio di là questa notizia dev’essere venuta
anche a cono[Glossae in Porph., ibid., p. 560: videtur esse falsum, quod
individua de uno solo praedicenlur, cum hoc individuum Socrates de pluribus
habeat praedicari, ut « hoc album est Socrates », « hic veniens est Socrates».
Il luogo aristotelico corrispondente si trova negli Anal. pr., I, 27 (nella
traduzione di BOEZIO PL. scenza di vari altri cultori della logica 9 ).
Abelardo riferisce inoltre che ci son « molti » che traspongono la essenza
della definizione esclusivamente nella indicazione delle qualità 10 ) : e non
sarebbe il caso di dire che questa opinione è soltanto una conseguenza estrema
ricavata da un passo [delle Categorie] già da gran tempo conosciuto [nella
traduzione di Boezio] ll ), perchè un contemporaneo di Abelardo formula quella
opinione stessa in termini tali da ricondurci alla vera sua fonte, che troviamo
soltanto nella Topica di Aristotele 12 ). Abelardo poi, a proposito della
controversia intorno agli universali, usa inoltre una maniera di esprimersi
(cioè universalia « appellant in se »), spiegabile soltanto ove si ammetta che
la idea fondamentale di quei passi degli Analitici secondi, dove Aristotele
tratta di xaxà •) Che la cosa abbia dato occasione a una controversia di moda
nelle scuole, ai desume da Joh. Saresb., Metalog., II, 20 (p. 110, ed. Giles d.
Webb; PL]) : Hoc enim ex opinione quoTundam sensisse visus est Aristotiles in
Ancdeticis dicens (segue quel passo medesimo [cit. nella nota precedente]). ’”)
Dialect., p. 492: Unde multi, cum significationem substantiae hitjus nominis
quod est « homo » agnoscant, nec qualitates ipsius satis ex ipso percipiant,
tantum propter qualitatum demonstrationem diffinitionem requirunt. “) Abistotele,
Cut., 5 ; in BOEZIO, PL. L’autore dello scritto De generibus et speciebus, dal
Cousin attribuito a torto ad Abelardo (v. sotto le note 49 e 148), dice a p.
541 9.: Concedunt omnes, species ex differentiis constare.... Dicunl, omnes
differentias esse in qualitate etc. In tale forma accentuata, quest’ultima
affermazione poteva esser ricavata solamente da Aristotele. Top. (cioè dalla
trattazione, che ivi si trova, della definizione, con la quale si accordano poi
altri passi), e ha dovuto in tal maniera appartenere al novero di quelle
notizie sporadiche, che ora contribuivano a moltiplicare, le controversie
scolastiche; l’autore del De gen. et spec. fa poi sforzatamente risalire la
idea ora citata a un altro passo di BOEZIO, p. 62 (ad Porph. [a se transl., II,
5: cd. Brandt, p. 186; PL, 64, 93-4]), e dunque è certo che possedeva come
fonti solamente i testi universalmente diffusi. Invece Joh. Saresb., loc. cit.,
p. 100 [edL Webb, p. 103; PL, 199, 880] mette già in connessione con tale
questione anche Sopii. El., 22, 178 b 36. 7tavTÓ£ e di xn pr,ma d °° Magalo! bi >]U,S cairn istas concedei
; « nllLl, Secunda figura coni,agii m > oni oe justum possibile est ! lum
Possibile est esse bo zs‘?r, • *» : ìt . ’z *• vZ’-£z iz"tr;«,ur Zssrzzzr
6 “ *5 (ibid., nota 5721 _ E-.-, . 41 jnstani esse». Sic et ..._ 6u veraciter
componi. ÉZpus enT n Td Syllog,smi
Ibid., c. 27, p. 183 [ed. Webb, p. 193; PL]: Ceterum conira eos qui
veterum favore potiores AristotiUs libros excludunt Boetio fere solo contenti,
possent plurima allcgari. ed. Webb,
p. 170-1; PL, 199, 919-20]: rosteriorum vero Analeticorum subtilis quidem
scientia est et paucis Ma come da questa lamentanza risulta naturalmente
manifesto che quei libri eran conosciuti, così d’altra parte viene riferito
ancora che la Topica aristotelica, da gran tempo trascurata, proprio allora è
stata, per così dire, richiamata da morte a vita 2S ) : e alla informazione,
secondo la quale questa idea di tirar fuori la Topica ha anche trovato a sua
volta i suoi oppositori, si collega anche l’altra notizia, concernente un certo
D r o g o n e, che non ci è ulteriormente noto, e che a Troyes manifestamente
lavorò attorno alla topica, secondo il modello di quella di Aristotele 2B ). [|
7. Nuove traduzioni dell’Organon, nella
Bassa Italia e nell’Impero Bizantino].
Ma per quanto concerne ora in particolare il venire in luce di
traduzioni nuove, si ricava in verità assai poco da una lettera di Giovanni,
che da Costanza richiede copie ingeniis pervia.... Deinde huec ulenlium
raritate iam fere in desuetudinem abiil, eo quod demonstralionis usus vix apud
solos malhemalicos est.... Ad haec, liber quo demonslrativa trudilur disciplina
(cfr. la nota 25), ceteris longe lurbutior est, et transposilione sermonum,
traiectione litterarum, desuetudine exemplorum, quae a diversis disciplinìs
mutuata sunt, et postremo, quod non conlingil auctorem, adeo scriplorum
depravatiti est vitio, ut fere quot capita, tot obstacula hubeul. Et bene
quidem ubi non sunt obstacula capitibus pluru. Unde a plerisque in interpretem difficultalis
culpa rejunditur, asserenti bus librum ad nos non vede translulum |
pervenisse]. A qual traduttore si fa qui allusione, a Boezio o a un altro? B )
Ibid., Ili, 5, p. 135 [ed. Webb, p. 140] : Cum itaque tam evidens sii utilitas
Topicorum, miror quare cum aliis a maioribus tam diu intermissus sit
Aristotilis liber, ut omnino aul fere in desuetudinem abierit, quando aetate
nostra, diligentis ingenii pulsante studio, quasi a morte vel a somno excitalus
est, ut revocarvi errante* et i iam veritalis quaerenlibus aperiret [PL]. “)
Ibid., IV, 24, p. 181 [ed. Webb, p. 191: e v. ivi la nota]: Salis ergo mirari
non possum quid mentis habeant (si quid tamen hubent) qui haec Aristotilis
opera carpunt.... Magisler Theodoricus, ut memini. Topica non Aristotilis, sed
Trecasini Drogonis irridebat; eadem tamen quandoque docuil. Quidam auditores
magistri Rodberti de Meliduno (v. appresso le note 453 e.) librum hunc fere
inutilem esse calumnianlur [PL I di Jibn aristotelici in generale, e prega
inoltre che vengano anche aggiunte annotazioni, data la possibilità che non ci
sia da fidarsi del traduttore 3 °). È invece di grande importanza veder da lui
citato un medesimo passo, sia nella traduzione di Boezio, sia anche, e
contemporaneamente, nella versione « nuova >«); e come quest’ultima si
distingue per essere più letterale, così in generale Giovanni si era fatta una
opinione abbastanza precisa in latto di traduzioni (soltanto cioè quando queste
aderìscono, quanto strettamente è possibile, secondo una regola rigorosa, all’originale,
è dato ottenere una con,prensione, garentita contro qualsiasi pericolo di
unilateralna da una « ratio indifferentiae »); egli dice che una tale opinione
ha trovato allora conferma e appoggio in un Greco da Severinum (cioè da Szoreny
in Ungliena), versato in entrambe le lingue 32 ). Ora quella I Epist. 211 (II,
p. 54 s ed. Giles 1PL 19Q oacn ri. > stotehs, quos habelis, mihi facialis
exscribi ) \. M,ro . s Ar " supplicatione, quatinus in operibus
Aristoteìis ubiZitr 'T "7"“ haaonetn: cicadàtionès enimJùntJ -IL ^
rPL 199 io A m ct ' 11 .’ Sl sunt > menu ad rutionem Sei HI° IT ^ ÌPÌat ° n
T dÌ ArÌS, °, • A’sitcaftratio indifferentiae per se stessa non c’interessa per
il momento qui, bensì la si vedrà intrecciarsi alla nostra esposizione della
logica di Giovanni da Salisbury (note 574 ss.); ma è ben cosa che c’interessa
lino da ora, che, in connessione con quella, egli ricordi inoltre anche un
secondo traduttore (parimente, è vero, senza riferirne il nome), del quale
aveva l'atto la conoscenza nelle Puglie 33 ). Ma se, coni’ è attestato da
questi importanti passi, il comparire di traduzioni nuove, ebbe impulso nell’
Impero tuzantino, e, per opera di Greci, nell’ Italia meridionale, e se di ciò
ebbero notizia gli studiosi di logica a Parigi o in Inghilterra, si avrebbe qui
una prima traccia, sebbene passeggierà, di un influsso dell’epoca di Anna
Comncna (v. qui appresso le note 219 e 370, come pure altre notizie nella
prossima Sezione, note 1-5 ss.).
Finalmente può ricordarsi ancora, per così dire ad abundantiam, che
negli scritti di Giovanni, accanto a citazioni coincidenti in modo
assolutamente letterale con la traduzione di Boezio, se ne trovano anche di
quelle, che bisogna chiamare per lo meno inesatte, semprechè non sieno state
originariamente attinte ad altra fonte 34 ). manga, aU’infuori da quel
Severinum che si trova in Ungheria [Webb: / orsan e civitate Sanctae Severinae
in Calabria (Santa Severina, prov. di Catanzaro)]. ") Ibid., I, 15, p. 40
[ed. Webb, p. 37; PL, 199, 843] : non pigebit re/erre, nec forte audire
displicebit quod a Graeco interprete et qui Latinum linguam commode noverai,
durn in Apulia morarer, accepi eie. M ) Tra le prime vanno annoverate: Metal.,
II, 15, p. 86 [ed. Webb, p. 88; PL, 199, 872] (Top., I, 11: nella traduzione di
Boezio, p. 667 [I, 9: PL, 64, 916]) e
II, 20, p. 110 [ed. Webb. p. 113; PL, 199, 887] (Anal. pr., I, 27: p. 490 della
traduzione di Boezio [I, 28: PL, 64, 669]).
Tra le seconde vanno annoverate: Metal., II, 9, p. 76 [ed. Webb, p.
75-6; PL, 199, 866] (Top., I, 11: p. 667 della traduzione di Boezio |I, 9; PL,
64, 917]) - II, 20, p. 100 [ed. Webb, p. 103; PL, 199, 880] (De sophisticis
Elenchis, cap. 22: nella traduzione di Boezio, p. 750 [II, 3; PL, 64,
1032]) III, 3, p. 126 [ed. Webb, p. 131;
PL, 199, 897] (Top., I, 9: p. 666 della traduzione di Boezio [I, 7; PL, 64,
915. Invece lo Webb rinvia a Cat., 4, 1 b 25 ss.]). CARLO PRANTL f§
S’iIVTENSIFlCA LO STimm np,, . A LOGICA C„„ la " tT Cm ' BEL
Pseudo-BoezioJ. Ora ch’è f, Tr filate
strato a sufficienza come antece 1, C °“ C1 ° dÌmo " letteraria di
Abelardo ^ “ f 1 ^ 6 aI1 ’ atti vità studio della logica fos’se stataT^à
arrfccWt^ T ^ sovra punti particolari e „ P arricchita, abneno piersi a poco a
dopo 1, ^ Ve “ Uta P OÌ a c °®Jisbury (di questo sr T°i 3 temP ° ^ Giovanni da
Saranno ancora “ ale « ; 0m P Ìme «‘o « si presenteci è reso noto cosìVfattor
T’* ?8 ’ 219 allora derivare un birre T t™™: ^ qUale doveva nell’attività
svolti 1 • "V™ ° ' lntensità e di estensione si SDie^a t rapporto scambievole
die ben SJ spiega, una forza cooperante era do, . . . dalla teologia
donunatica: e ciò nere! ' “ a f Uardo ' die Sia di fronte allo Scoto EringLt a
ortodossia,,„„l le ta Materi, * * " ' “ «“'»«. ’• stata all’erta così • .
q e tloni mgJche, era resse, ora che la diale1 1 ^'^ ViSta dtd n,e(lesin '°
intesi» «.loro. z:::~ * r**r « lotte, si tiraron fuori a Ài * propria vita d
intime incularlo teologico affinclo" ordeea> dall’armaeon,tastanti J '*
Sci. era 'L SS ““ •“'« 1o»n« eliic’ mischiati anche elementi di ^ ^,rapassassero
fra mfera dogmatica p ri » L :,tr;i%r P a a'rr;“ ì r te: valere, ma ora inZiT'
. T *°' P Ur fatta mettersi in più inten
^ d " C ^ pOSltlvamente a nitrologica messa in condizioTeTdot ““ !"
8t ° rÌa deUa ~ no'opera di grazie a una certa formulazione di principii
logico-ontologici, potè esercitare azione cooperatrice nelle controversie dei
dialettici. Si tratta del de Trinitene del Peeudo • B o e z i o, e a tal
proposito non mancò naturalmente di manifestar il proprio influsso il fatto che
fosse ritenuto suo autore proprio Boezio, il rappresentante di tutta la logica
S5 ). Appunto in quell’epoca cioè, ossia a K ) Da Fr. Nitzsch (Dos System des
Boethius und die ihm zugeschriebenen theologischen Schrijten [«Il sistema di
Boezio, e gli scritti teologici a lui attribuiti »]), Berlino, 1860, furono
svolte le più valide ragioni elle si oppongono alla tesi [oggi invece
generalmente accettata] che sia Boezio l’autore dei trattati teologici a lui
attribuiti. E se poi Hermann Usener, Anecdoton Holderi [ : ein BeiIrug zur
Geschichte Roms in Ostgotischer Zeit (« Testo inedito comunicato all’Usener da
Alfred Holder: contributo alla storia di Roma nel periodo ostrogotico »).
Festschrift zur Begriissung dcr XXXII. Versammlung deutscher Philologen und
Schulmiinner in Wiesbaden], Lipsia [rectius : Bonn] ha pubblicato di su un
manoscritto di Reichenau del secolo X un passo di un sunto di uno scritto di
Cassiodoro finora sconosciuto ( il passo Tp. 4] suona così: « Boethius
dignitatibus summit excelluit. ulraque lingua peritissima orator fuit....
scripsit librimi de sanciti trinitate et capita quaedam dogmatica et librum
contro Nestorium. condidit et carmen bucalicum. sed in opere artis logicae id
est dialecticae transferendo ac mathematicis disciplinis talis fuit ut antiquos
auctores aut uequiperaret aut vinceret » ) e a ciò è unito un tentativo di
dimostrazione dell’autenticità di quei trattati, non direi che gli sia
riuscitoconciòdiconfutareffettivamente la opinione, rappresentata dal Nitzsch e
ripetutamente suffragata dai competenti specialisti. Poiché rimane senza
soluzione la contraddizione innegabile, che cioè un uomo, il quale si mantiene
assolutamente entro la sfera della filosofia della tarda antichità e non fa mai
il nome di Cristo, nè dice mai una parola intorno alla consolazione della idea
cristiana dell’opera di redenzione, si sia occupato minutamente di sottili
questioni di doinmatica cristiana. Se l’Usener (p. 50) dice che si devono
appunto tener separate le due personalità, dell’uomo e dello scrittore appartenente
alla storia della letteratura, questa è cosa che non sembra possibile in tal
maniera per l’autore della Consolatio philosophiae, il quale anzi si trova
direttamente in presenza della questione della teodicea, questione appartenente
all’orbita della religione. Ma poiché in quel manoscritto di Reichenau neanrhe
abbiamo un testo che sia dovuto allo stesso Cassiodoro, bensì solamente l’opera
di un epitomatore, che, come ammette l’Usener (p. 28), riassume tutto il lavoro
originale frettolosamente, e attribuisce a Boezio fra l’altro anche un Carmen
bucolicurn, rimane comunque possibile che l’epitomatore stesso, stando sul
terreno della tradizione ch'era in circolazione dal tempo di Alcuino, abbia
fatto partir da Abelardo 36 ), si accumulano le citazioni tratte da quei
quattro libri intorno alla Trinità, e Gilbert de la Porrée li accompagnò con un
ampio commento, sì che non era più possibile lasciarli da parte, nel trattar
delle questioni relative.,. Ma ’ 111 ordine a un influsso esercitato sopra la
logica, c interessano qui essenzialmente quegli assiomi, che l’Autore in
principio del 3» Libro [cioè del libro «Quomodo substantia, in eo quod sint,
bonae sint, cum non sint smistanti alia bona »] mette in testa a tutto, per poi
ri arsi da essi, quando costruisce nel corso ulteriore deiopera l’edifizio
delle sue prove. Premessa una definizione della communis conceptio, gli assiomi
stessi”) si riferiscono alla differenza, invalsa nella teologia, tra essenza
Oòcfa) ed esistenza (òrtóaraai?), in quanto che a quest ultima deve ancora
aggiungersi la forma dell’Essere, e per essa lia pertanto luogo una
partecipazione, come pure risulta la possibilità di un avere-in-sc, il che poi
conduce alla distinzione di sostanza e accidente, e serve di fondamento a
distinguere due modi di essere di quella partecipazione; ma, a tale proposito,
viene ato rilievo anche alla unità, in cui sono congiunte negli esseri
semplici, a differenza dai composti, la essenza e la es.stenza, e da ultimo
viene messa in vista mia naturale affinità di essenza in seno alla diversità
esplicata. “Tp* * di Parigi, traua r]af uth ’ ’ !•’ P ' ? 039 ’ Amho ™[ed. di
d’Anjboisel W.Co^II.mTpI.iS 10Mr,Ser,,ti ^ Fra " S ° ÌS ZtaontZb no,a
tìSu/ti£'Za rÌ39Ue etiam d “ ci,jlinis:Pr ° pOSUÌ «EQuesti prineipii, dei quali
non ci concerne qui 1 uso che se ne faccia nel campo teologieo-dommatico, non
tardarono a essere citati, anche da cultori della dialettica, come « regulae »,
insieme con altre « auctoritates », e e da ritenere che vari studiosi di logica
sin da principio, su questioni ontologiche, si guardassero daH’andar contro
questi assiomi, perchè poteva inoltre esserci la minaccia di conseguenze
pericolose, relativamente alla Trinità. Così ne venne, che si ebbe qui non già
soltanto una più larga applicazione della logica alla teologia, ma anche un
diretto influsso di elementi dominatici sopra il movimento di elaborazione
della logica nel suo aspetto ontologico. [§ 9.
Contrasto fra logica e dogma].
Senza dubbio, con questa mescolanza viene a verificarsi una situazione
caratteristica, ed è cosa notevole che in quell’epoca, naturalmente incapace di
una chiara e meditata separazione dei due campi (nel senso in cui 1 hanno
intesa p. es. Cristiano Thomasius o Pietro Bayle), venga enunciata tuttavia la
incommensurabilità delle due verità, teologica e logica, mentre si continuava a
svolgere nello stesso tempo i due punti di vista inconciliabili. Anzi proprio
Abelardo stesso, il Peripateticus Pwlatinus, ne dà la più eloquente
testimonianza, quando 2) Diversum est esse, et id quod est. Ipsum enim esse nondum est. At
vero quod est, accepta essendi forma, est alque consistit. 3) Quod est, participare aliquo potest. Sed ipsum
esse nullo modo aliquo participat.... 4) Id quod est. Iutiere aliquid
praeterquam quod ipsum est, potest, ipsum vero esse nihil aliud praeler se,
habet admistum. 5) Diversum est....
esse aliquid, et esse aliquid in eo quod est: illic enim uccidens, hic
substantia significalur. 6) Omne quod est, parlicipat eo quo est esse, ut sit,
ulio vero participat, ut aliquid sit.... 7) Omne simplex esse suum, et id quod
est. unum habet. 8) Omni composito aliud est esse, aliud
ipsum est. 9) Omnis diversitas est discors, similitudo vero quaedam appetendo
est. Et quod appetii aliud, tale ipsum esse naluraliter ostenditur, quale est
illud ipsum, quod appetit fFL, dice che ai cultori della logica, ovvero
Peripatetici, Dio rimane ignoto, perchè da quelli tutto viene sussunto a una o
l’altra delle dieci categorie, laddove Dio non può cadere sotto alcuna di
queste 38 ) : e mentre ciò potrebb’eseere ancora interpetrato come il punto di
vista generale, venuto in uso fra i teologi da Agosthio in poi (efr. lo Scoto
Eriugena, Sez. precedente, note 120 s.), Abelardo, proprio relativamente alla
dottrina della Trinità, si pronuncia con la massima chiarezza, nel senso che
quella ha i suoi nemici più pericolosi nei dialettici o peripatetici 39 ),
argomentando costoro, dal punto di vista della logica, la unità individuale
dalla unità di essenza delle tre Persone, e, viceversa, dalla diversità delle tre
Persone la diversità della loro essenza 40 ). E non ténTI D B nRANn D VP e0/ '
Chrht " V1271 (ne,la di Martene e Uuram) Thesaurus novus Anccdotorum,
Parigi, 1717, voi V) edt-ousin, II, p. 478]: Quod autem illi quoque doctore's
nostri UT intendimi Logieae. ill„ m summam majestatem, quam in n . L eUm eSSe
',rofì "; nt ", r omnino ausi non sunt attingere, aut Cum e Z oZ ?
COm P rehender *’ ex ipsorum scriptis liquidum est. Cum erum omnem rem aut
substantiae aut alieni aliorum generalissimorum sub],ciani: inique et Deum, si
inter res ipsum eomdZnnZT ’ aut ? ubstantiis ’ quanti tali bus, aut ceterorum
pruedicamentorum rebus connumerarent, quod nihil omnino esse ex ipsis
convmcitur (p. 1273) [480].... qui tamen omnem rem aut siibstantiae aut alieni
aliorum praedicamenlorum applicanti palei leni 1’ ruCU,lu h .enpalelicorum
illuni summam [481] majeslatem omnino esse exclusam [PL], ' Christi'^tion / C 1
’, P ‘ 1242 C44, 8] j S " Pr " univers °> s autem inimicos
sani-lue TriniZZZ*’ J,,daeo \ sive Oenliles, subtilius fide,,, essores d el
Perquuunt. e, ucutius arguendo contendimi pròfessores dialecticae, seu
import,mitas sophistarum. quos verborum agrume atque sermoni,m inundatione
bentos esse Plato irridendo apZtzl mm T dem ’ ° ^ nane dZeZeos [PL^l 78, ]2 lT™
UUaS ^ maXlmM haere *es.... esse repressas eie. eillinl "'Z'f 'I' P ' 1266
r472,: in loco Kravissimae et difficili,mae Dialecticorum quaestiones
occurrunt. Hi quippe ex unitale duZsTtn, n ",tuU ' m Pecsonarum impugnanti
ac cursus ex [473] rìnZn, Pf ‘ rSO " an,m ldentlt !' u ‘ m essentiae
oppugnare laborant. rPL T?8 A C, TH Z'T"r P onamus ' r>°'« a
dissolvamus di A . r '° A, "dfd fa ora seguire una enumerazione, ' f P t
nl, . tre *, ‘•«""•o 'a Trinità, ricavate dalla logica, per
confutarle poi teologicamente. 1 è
facile (lifatti metter d’accordo il concetto aristotelico della sostanza
individuale con il domina della Trinità, sicché a rigore tutt’i cultori della
logica, che seguivano Aristotele, si trovavano inevitabilmente esposti alla
taccia di eresia. [ § io. Pietro
Lombardo. Bernardo da Ciiiaravalle].
Così si riesce a spiegare come Pietro Lombardo (morto nel 1164
[1160.'']), mentre sta ad attestare la connessione tra la controversia intorno
alla Trinità, e la scissione delle tendenze sul terreno della logica, respinga
nello stesso tempo qualsiasi applicazione della logica a quella fondamentale
questione della teologia 41 ). Anzi egli stesso è esclusivamente puro teologo
in così alto grado, che per lui la questione degli universali in generale non è
neanche oggetto di contesa; e mentre più tardi (particolarmente nella Sez. XIX)
avremo a sazietà occasione di ravvisare nei numerosi commenti ai « Sententiarum
libri quatuor » del Lombardo (ch’eran divenuti, com’è noto, il fondamento di
tutta quanta la letteratura teologica) un principale teatro della guerra
intorno agli universali, il Lombardo “) Petri Lomhardi Sententiarum 1, 19, 9
(/. 27, ed. dl Ira, 1516 fdi Quaracclii: S. Bonaventurae Opera omnia l,p.
ifUj): Videlur tamen mihi ita posse accipi. Cum alt (seAugustinusJ « substantia
est commune, et hypostasis est particulare » ; non ita haec accepit, cum de Pro
dicantur, ut aecipiuntur m phtlosophtca disciplina, sed per similitudinem eorum
quae a philosophis dicuntur. locutus est; ut sicu/ ibi commune vel universale dicitur
quod praedicatur de pluribus. particulare vero vel individuimi quod d uno solo;
ita hic essentia divina dieta est universale, quia de omnibus personis simili
et de singulis separutim dicitur, particulare vero singula quaelibet
personarum, quia nec de alus hoc de aliqua aliarum singulariler praedicatur. I
ropter similitudinem ergo pruedicalionis substantiam Pei dixit universale, et
P^ s °nas particularia vel individua.... (e. 101 Dicuntur enim ^ d^erre numero,
quando ita difjerunt. ut hoc non sit tUud.... dl b ferunt Socrates et Pialo et
huiusmodi, quae apud philosophos dicuntur individua vel particularia; iuxta
quemi modum non possunt dici tres personae differre numero. Etc. [PI-, 192, 57
1 (I, 1, 14 e 1 )]. non si è in alcun luogo immischiato egli medesimo in questa
controversia, bensì solamente, con l’uso di determinate innocenti parole, ha
offerto a’ suoi conunentatori motivo occasionale di dare, nella lotta già
divanipata, libero corso al loro infiammato zelo. E come ciò si è verificato
nella più larga misura per le parole testé mentovate del Lombardo, così il
lettore delle « Sente*tiae » non può, a proposito di moltissimi luoghi, avere
neanche il piu lontano sentore della caterva di discus«oni, attinenti a,
problemi logici, che vi si sarebbe più tardi riattaccata la). De] resto ^ p.^
riproducono anche le sofistiche quistioni, più sopra (Sez. precedente, nota
303) citate, dibattute dalla teologia medievale « ■»). Nello stesso senso può
ricordarsi che anche un altro celebre contemporaneo, cioè Bernardo da Chi ara
valle (nato nel 1091, morto nel 53) apertamente si professa nemico della
dialettica «). simplex, i. e.'indivisibìlh et inmateliaÙs^pluna’ Es " cn,
j a restie! f r ia ’ te r de •h 1-2)1. O similmente L^L^ T-'T^ Qua «u,r'rÌ’ V
49 ’ r 61 ‘ 5 f?) ’ n, 17, i m ; ’ 19 ’ 1 fed ' logia trovò e aÌche°i dd
in -Ha teotenga esclusivamente alla
letteratura tcXrir° 0013 478) ’ appar " libro di Fr. Protois Pierri* tomi
ì .° 0f!ter m veniendam necescst logica causa elLuenZZ N P™ Slma «»'*•» omnium
inventa disciplinas investigarmi et ’unireM Tert'’ ^ prn ! !tl ' ct, as
Principales tractare, et disserro de UlZc Zà veracl ™’ honestius dlas cius per
dialecticum, honestius ner rhoZ ** ^ (,mmati c«m, veracundiae rectitudinem
veritatem heU, rtcam. Logica namque fa^asi testualmente nel mZZ’X"‘TZ ad ^
nitt ^ U s,esso 809]); cfr. ibid.. I r „ ) ì 2 Vn 7 m’ TI ; P 39 fPL > 17 6,
745, 752, 765], P ' ’ 2 (l >7); III, 1 (p . i 5) tPL> 176 . 1 Lhdasc., I,
12 (Opp., HI, p . fj) mj j 7fi 7 . q| . repertae fuerant; sed necesse luitloZ ’
* . ' • Ceterae pnus nemo de rebus con veniente J PljZ quoque invemn ; quoniam
quandi rationem agnoverii. / 6,u"vi
TmÓ' iqf IpZZZm ^ Istae tres usu prirnae lucrimi to/ i * * 176, 8091: venta est
logica Ouae cum dt i p ? stca P r °Pter eloquentiam indebet in doctrina Fr, J
‘, -''"'T' Ul " ma ' prima tamen Excerpt. pnor., loc. ciL, c. 23: In
designa la logica come « sermocionalis », perché tratta « de vocibus » 47 ), e
la divide ora in una maniera che ci ricorda molto da vicino lo Scoto Eriugena
(Sez. precedente, nota 105), dimodoché, appartenendo alla logica, secondo la
più vasta accezione della parola Àóyoc, ogni manifestazione della facoltà di
parlare, la logica stessa si divide così in grammatica e logica rarìonalis:
quest’ultima, corrispondente all’accezione più ristretta della parola Àóyo;,
viene poi ulteriormente suddivisa nella maniera ordinaria, tenuti presenti i
passi ovunque divulgati di BOEZIO. Movimento più intenso: grande estensione, E
IN PARI TEMPO CARATTERE UNILATERALE, DELLA LETTERATURA ATTINENTE ALLA
LOGICA]. Ben è vero che sarebbe stato
certo più comodo lasciare sin da principio legendis urtibus talis est orda
servandus. Prima omnium comparando est eloquentia, et ideo expetenda logica,
deinde etc. [PL], ) Didasc., II, 2 (p. 7) [PL Philosophia dividitur in
theoricam, practicam, mechanicam, et logicum. Hae quatuor omnem continenl
scientiam.... Logica sennotionalis, quia de vocibus tractat.... Hanc divisionem
Boetius fucit uliis verbis.... (segue il passo citato più sopra, Sez. XII, nota
76). *) Ibid., I, 12 (p. 6): Logica dicitur a Graeco vocabulo Àóyog, quod nomen
geminam habet interpretationem. Dicitur enim Xiyog sermo sive ratio (v.
Isidoro, Sez. precedente, nota 27): et inde logica sermotionalis sive
rationalis scientia dici polesl. Logica ralionalis, quae discretiva dicitur,
continet dialecticam et rhetoricam. Logica sermotionulis genus est ad
grammaticum, dialecticam atque rhetoricam: et continet sub se disertivam. Et
haec est logica sermotionalis, quam quartam post theoricam, practicam et
mechanicam annumerami^ [PL, 176, 749-501.
Excerpt. prior. TI1, c. 22 (p. 339): Logica dividitur in grammaticum, et
rationem disserendi. Ratio disserendi dividitur in probabilem, necessariam. et
sophisticam. Probabilis dividitur in dialecticam et rhetoricam. Necessaria
pertinet ad philosophos, sophistica ad sophistas (v. BOEZIO). Grammatica
filosofica est scientia RECTO loquendi. Dialeclica dispulalio acuta, verum a
falso distinguens. Rhelorica est disciplina ad persuudendum quaeque idonea [PL,
177, 201-21. Didasc., Il, 29 (p. 14):
Logica dividitur in grammaticam. et in rationem disserendi. Grammatica
razionale,... est litteralis scientia.... Ratio disserendi agii de vocibus
secundum intellectus fPL, 176, 7631.
Ibid-, 31 (p. 15): Ratio disserendi esaurirsi tutta quauta la logica in
un simile cliché tradizionale, e a questo modo anche le idee
platonico-cristiane, del pari che la dommatica teologica, avrebbero potuto
continuare, senz’essere turbate nella loro ingenuità, la innaturale loro
alleanza con avanzi di aristotelismo atrofici e contorti. Tuttavia l’intimo
impulso ch’è peculiare alla dialettica, era pur anche rimasto vivo, già fino a
questo momento, in seno alla stessa ecclesia docens, e poiché ora, come s’è
visto, da due lati si faceva strada una più energica spinta (da due lati: vale
a dire, da un lato, proprio per effetto della controversia dommatica intorno
alla Trinità, e dall’altro, per effetto della conoscenza sporadica, la quale
gradualmente veniva compiendosi, dei libri aristotelici fin allora ignoti), si
levò ora, nel tempo stesso, sul terreno della logica, accanto alla scuola di S.
Vittore, con tutto il suo misticismo, un ricco movimento, diviso in molteplici
diramazioni : e qui la stona della logica, dovendosi stare alle fonti esistenti,
entra in un periodo di difficoltà estrema. La difficoltà consiste cioè per
prima cosa in questa circostanza, che le informazioni a noi accessibili
discendono bensì con abbondanza di notizie sino al minuto particolare, ma
intanto, con la loro forma semplicemente frammentaria, ci lasciano all’oscuro,
riguardo a tutt’i fili di collegamento: a ciò si aggiunge ancora il carattere
indeterminato della usuale espressione « quidam » ch’era in uso [per designare
i rappresentanti di una data tendenza], o della integrale partes habet,
inventionem et judicium (v. più sopra Boe: divisivas vero demonstrationem,
probabilem, sopluslicam. Demonstratio est in necessariis argnmentis, et pertinet
ail philosophos. Probubilis pertinet ad dialecticos et ad rhetores. Sophistica
ad sopliistas et caviliutores. Probubilis dividitur in dialecticam et
rhetoricam, quorum utraque integrales partes habet invenhonem et judicium [PL,
176, 764], Parimente ibid.. Ili,
1 • i i * k’ 176, 765], Le stesse notizie ritornano in una € Epitome iti philosophiam
» «li Ugo, edita dall’ Hauréau (Hugues de Saint-Victor: nouvel examen de
l’èdition de ses oeuvres, Parigi indicazione del nome di im cultore della
logica, con la semplice lettera iniziale; e così in generale (particolarmente
p. es. riguardo a quel frammento, al quale il Cousin diede il titolo « De
generibus et speciebus ») 4 "), la ricerca, che comunque sarebbe di già
malagevole, viene attraversata inoltre da molteplici difficoltà letterarie; per
di più fra i relatori ce n’è parecchi che in se medesimi son poco degni di
fede, e c’imbattiamo in contraddizioni, che non possiamo, per mancanza di altre
fonti, risolvere in maniera adeguata. Ma se poi si domanda ancora come questo
materiale slegato e lacunoso debba venir elaborato per la presente esposizione,
ecco quel che debbo limitarmi a rispondere: data la impossibilità di svolgere
il pensiero dei singoli autori (per la maggior parte non meglio conosciuti)
secondo Cordine della successione storica, io sono riuscito a trovare, dopo
molta riflessione, soltanto l’espediente di presentare l’epoca di Abelardo in
blocco, e precisamente in tal modo che, analogamente a quel che ho fatto nella
Sezione XI, vengano messe sott’occbio le numerose controversie, secondo
l’ordine di successione di quei gruppi che, negli studi di logica di
quell’epoca, prevalgono per importanza, quanto al contenuto; a tal riguardo è
da notare che le varie opinioni intorno alla Isagoge, cioè la disputa intorno
agli Uni«) Non poteva non esser «ausa di grave confusione, l’errore degli eruditi
francesi, i quali con il Cousin hanno ritenuto che questo frammento sia opera
di Abelardo; sopra tale punto ha più rettamente giudicato H. Ritter (sebbene
non sia per noi accetta» bile la sua congettura, riguardo l’autore di quello
scritto: v. appresso la nota 146); invece
a prescindere dal Rousselot, che non poteva ancora avere sott* occhio,
quando compose la sua opera [Études sur la philosophie dans le Moyen a Parigi,
1840-21, il VII 0 volume del Ritter
anche il RÉMUSAT e persino I’Haureau han fatto le. viste di non conoscer
affatto la opinione del Ritter,. e, aderendo al Cousin, si sono fondati sopra
quello scritto per costruire argomentazioni, che dovevano nuocere alla esatta
esposizione della controversia intorno agli universali. CABLO PRANTL versali,
offrono un materiale più vasto che non i dibattiti sopra le rimanenti parti
della logica. Ma mentre degli autori più eminenti e meglio conosciuti si viene
così a parlare, in connessione con questi motivi attinenti al contenuto,
bisognava senza dubbio che io facessi una eccezione, proprio per Abelardo: le
vedute di lui intorno agli universali potranno pine a loro volta esser fatte
oggetto di sufficiente disamina solamente più tardi, quando si tratterà di
esporre la caratteristica di tutta quanta la sua Dialettica, poiché egli è
invero il solo, del quale possediamo uno scritto, che abbracci quasi intiera la
sfera della logica. Tuttavia mi è sembrato che un tale smembramento della
esposizione delle controversie, per quanto si riferiscono agli universali, fosse
qui proprio il minore degl’inevitabili inconvenienti. Ad Abelardo potremo poi
far seguire, allo stesso modo, principalmente Gilbert de la Porrée e Giovanni
da Salisbury. Per effetto delle ragioni suindicate, lo studio della logica, a
prescinder dalla sua universale diffusione in tutt’i paesi, decisamente
progredì, quanto alla intensità, in rigore e precisione, e per quanta era la
estensione del materiale allora accessibile ai cultori della logica, ci si
abituò, con la maggior esattezza possibile, a ponderar e lumeggiare da vari
lati tutte le particolari tesi o controversie: certo con questo lavoro,
mancando in modo assoluto una base propriamente filosofica, poteva venir fuori
soltanto una sottigliezza contraddistinta da unilaterale formalismo, e die per
un verso doveva condurre al massimo sminuzzamento nella formazione di
contrastanti indirizzi, mentre per l’altro verso fu, a sua volta, parimente
alimentata e rafforzata da quello: e il numero dei magiatri, che in tal
maniera, per lo più risolvendo polemicamente i contrasti di opinioni,
esplorarono con cura tutto il campo della logica, non può forse, nella sola
Francia, essere rimasto molto al di sotto del centinaio. Non farà meraviglia
che in un tale movimento quelli che non avevano a priori, per ragioni
teologiche, un sacro orrore della logica, si trovassero spesso imbrogliati, al
primo momento che ne intraprendevano lo studio 50 ) ; anche a noi vengon pure
quasi le vertigini, quando dai particolari frammentari risaliamo a una
conchiusione concernente quella totalità, alla quale essi avevano appartenuto.
È una grande illusione, a proposito del movimento di quell’epoca nel campo
della logica, creder di potersela cavare con i due termini di « nominalismo » e
« realismo », tutt’al più aggiungendone ancora un terzo, cioè « concettualismo
», poiché in primo luogo, come apparirà manifesto, la divisione in tendenze
contrastanti è ben più molteplice, e questa, in secondo luogo, costituisce
soltanto una parte dell’attività complessiva spiegata nello studio della logica. Le vicende dello studio della logica, NEL
RACCONTO CIIE NE FA GIOVANNI DA SALISBURY. Se ci possiamo interamente fidare di
Giovanni da Sali-sbury, il quale spesso in verità si è limitato a metter giù
impressioni generiche, e in buona parte puramente a memoria (v. appresso la
nota 536), in quei decenni il corso seguito dalla logica nel suo svolgimento,
in quanto essa fu rielaborata in compendi (artes) o in commenti o semplicemente
in glosse 51 ), sarebbe 6tato in complesso il seguente. Giovanni parla cioè di
un awerM ) Abael. Dialect., ediz. Cousin, p. 436: Sed quia labor hujus
doclrinae diuturna*.... jatigat Icctores, et multorum studia et aelates
sublilitas nimia inaniter consumit, multi.... de ea diffidentes, ad ejus
angustissimas fores non audenl accedere; plurimi vero ejus subtilitate confusi,
ab ipso aditu pedem referunt. 51 ) Joh. Sakesb. Metal., ITI, Prol., p. 113 (ed.
Giles, voi. V [ed. Wclib, p. 117; PL): Nec in transitu vel semel dialecti-
corum attigi scripta, quae vel in arlibus vel in commentariis aul glosematibus
scienliam pariunt aut retinent aut reformanl. II sario della sua concezione
della logica, da lui simbolicamente denominato Cornificio (v. appresso le note
528 se.), e in tale occasione dice 52 ) che quel modo di fare, venuto in voga,
di chi, senza uno studio metodico e faticoso, vuol diventare filosofo, ma
riesce in realtà a diventare solamente un sofista e a addestrare gli altri
nella pura sofistica, proviene da quella scuola, nella quale ) Ibid., I, 1, p.
13 [ed. Webb, p. 8]: Cornificius non ter, stu- diorum eloquenliae imperilus et
improbus impugnatoti. (2, p. 14 [ed. Webb, p. 9]): populum qui sibi credat
habet; et.... ei.... turba insipientiurn adquiescit. lllorum tnmen maxime,
qui.... videri quam esse appelunt sapientes.... 3, p. 15 ss. 110J: sine arlis
beneficio.... faciet eloquentes et tramite compendioso sine labore
philosophos.... Eo autem tempore ista Cornificius didicit quae nunc docenda
reservut,... quando in liberalibus disciplinis Intera nichil erat et ubique
spiritus quuerebutur, qui (ut aiunt) latet in littera. Ylum esse ab Hercule,
validum scilicel argurncnlum a forti et robusto argumentutore..., et in hunc
modum docere omnia, sludium illius aetatis erat. Insolubilis in illa
philosophantiurn scola lune temporis quaestio habebatur, an porcus, qui ad
renalicium agilur, ab homine an a funiculo teneatur. Item, an capucium emerit qui
cuppam integram comparava. Inconveniens prorsus erat oratio, in qua haec verbo,
«conveniens » et « inconveniens », « argumentum » et « ratio» non
perslrepebant, multiplicatis particulis negativis, et traiectis per « esse » et
« non esse », ita ut calculo opus esset, quotiens fuerat disputandum.
Sufficiebat ad victorium verbosus clamor; et qui undecumque aliquid inferebat,
ad propositi perveniebat metam. Eoetae, liisloriographi habebanliir infames, et
si quis incumbebat labori bus anliquorum (cioè degli autori dell’antichità,
Porfirio, Boezio), .... omnibus erat in risum. Suis enirn atit magistri sui
quisque incumbebat inventis. l\ec hoc tamen diu licitum, curn ipsi
auditores.... urgerentur, ut et ipsi, spretis bis quae a doctoribus suis
audierant, cuderent et conderent novas scctas. Fiebant ergo summi repente
philosophi; nani qui illiteratus accesserat, fere non morabatur in scolis
ulterius quam eo curriculo temporis, quo avium pulii plumescunl. Jtaque
recentes magistri e scholis ... pari tempore.... avolabanl. Bcce nova fiebant
omnia; innovabatur gramalica, immutabatur dialectica, contemnebatur rethorica;
et novas totius quadruvii vias, evacuatis priorum regulis, de ipsis
philosophiae aditis proferebant. Solam « convenientiam » sive « rationem »
loquebantur, « argumentum » sonabat in ore omnium, et.... nominare.... aliquid
opertim naturar instar criminis erat aut ineptum nimis aut rude et a philosopho
alienum. Impossibile credebatur « convenienter »
et ad rationis » normam dicere quicquam, aut facere, nisi « convenientis» et «
rationist mentio cxpressim esset inserta. Sed nec argumentum fieri licitum,
nisi praemisso nomine argumenti [PL ci si voleva mostrar geniali di suo, con
l’occuparsi, senz’altro fondamento che l’attitudine logica innata, di
controversie del genere più balordo (p. es., se un maiale, portato al mercato,
è tenuto dalla fune o dall’uomo, e simili), sempre tuttavia sputando con arrogante
albagìa alquanti termini tecnici della logica,
un indirizzo, questo, tanto intollerante nei riguardi di qualsiasi altra
scienza e studio, quanto destinato, con la sua mania del nuovo e il rapido
trapasso dall’apprendere all’insegnare, a frantumarsi subito nella più confusa
varietà di vedute individuali. Questo anfanare senza ima direzione, ha avuto
ora per conseguenza 53 ), che ialini, persuasi della vanità di siffatte cose,
in preda a un pessimismo universale, si son rifugiati nei monasteri, altri han
posto mano, a Salerno e a Montpellier, allo studio della medicina, per
coltivare ora questa scienza con lo stesso spirito cavilloso che prima
mettevano nello studio della logica : ma altri a lor volta cercavano di campare
alle corti dei ricchi e dei potenti, e altri infine, a nulla pensando fuorché a
guadagnare quattrini, si son dedicati alle sfere più basse di attività (v.
appresso la nota 530): insomma, con tutta questa genia, la logica e la scienza
in generale son cadute nel massimo dispregio. In seguito tuttavia continua Giovanni ) per opera ") Ibid., c. 4, p. 18 ss.
[ini. Webb, p. 12; PL, Alii namque
monuchorum aul clericorum claustrum ingressi sunt.... deprehendentes in se et aliis
praedicantes quia quicquid didicerant vanitus vanitatum est. Alii autem....
Salernum vel ad Montem Pessulanum projecli, facti sunt clientuli medicorum, et
repente, quales fuerant pliilosophi, tales in momento medici
eruperunt...Alii.... se nugis curiulibus mancipaverunt ut, magnorum virorum
patrocinio jreli, possent ad divitias aspirare.... Alii autem.... ad vulgi
profession.es easque profanas relapsi sunt; parum curante* quid philosophia
doceat.... dummodo rem faciant f 11 » 6
> P138 [ed. Webb, p. 143; PL, 199, 904]: Non... inanem reputem operam
modernorum, qui equidem nascentes et convalescentes ab Aristotile, inventis
eius nudlas adiciunt rationes et regalas prioribus aeque firmas..Habemus
graliam.... Peripatetico Palatino, et alus praeceptoribus nostris, qui nobis
proficere studuerunt vel in explanatìone veterum vel in inventione novorum. )
Epist. 181 (voi. I, p. 298, ed. Giles) [PL, 199, 179]: Sludiis tuis
cangratulor, quem agnosco ex signis perspicuis in urbe garrula et ventosa, ut
pace scholarium dictum sit, non tam inutilium argumentationum locos inquirere,
quam virlutum. Tuttavia è anche possibile, poiché non
sappiamo nient’allro sul conto del Maestro Ra«E*» N,CER ' destinatario dt
questa lettera, che per urbs ventosa debba intendersi Avignone, essendo passato
in proverbio: « Avenio ventosa, stne vento venenosa, cum vento fastidiosa »
fluiva col non sapere nemmeno più quale fosse la opinione sua propria S8 ) : e
intanto poi, per amor di gloria personale, si disprezzavano anche gli autori
antichi, e si metteva da parte quell’ordine, al quale la logica scolastica si
soleva attenere 5B ). E infine vien fatta ora inoltre espressamente la
osservazione, che questo enorme e stupido dispendio di tempo e di energie aveva
per suo principale obbietto la Isagoge, e che questa veniva commentata,
assumendosi a compito esclusivo e supremo la contesa intorno agli universali 60
), sicché da ultimo nella *') Melai., II, 6, p. 72 [od. Webb, p. 71]: Indignantur....
puri philosophi et qui omnia praeter logicam dedignantur, aeque grammaticae ut
phisicae experles et ethicae.... c. 7, p. 73 [72] : qui damant in compilis et
in triviis docent, et in ea, quam solam profitentUT, non decennium aut
vicennium, sed lolam consumpserunt aelatem.... Fiunt itaque in pile rili bus
Achadcmici senes, omnem dictorum aut scriplorum excutiunt sillabam, immo et
litleram; dubilanles ad omnia, quaerentes semper, sed numquam ad scientiam
pervenientes; et tandem convertuntur ad [73] vaniloquium, nesciente* quid
loquantur aut de quibus asserant, errores condunt novos, et antiquorum (cioè
degli autori dell’antichità, come più sopra, nota 52) aut nesciunt aut
dedignantur sententias imitari. Compilant omnium opiniones, et ea quae eliam a
vilissimis dieta vel scripta sunt, ab inopia iudicii scribunt et referunl....
Tanta est opinionum oppositionumque congeries, ut vix suo nota esse possit
auctori [PL], lbid-, c. 18, p. 93 [96;
PL] : De magistris ani nullus aut rarus est qui doctoris sui velit inhaerere
vesligiis. Ut sibi faeiat nomea, quisque proprium cudit errorem. Polycr., VII, 12, p. 126 [cd. Webb, li, p.
141] : Veterem.... quaestionem in qua loborans mundus iam senuit, in qua plus
temporis consumptum est quam in adquirendo et regendo orbis imperio
consumpserit Coesarea domus.... Haec enim tam diu multos tenuit ut, cum hoc
unum in tota vita quaererent, tandem nec istud nec aliud invenirent [PL, 199,
664]. V. inoltre appresso, nota 540. “1 Enthetìcus, v. 41 ss.: Si sapis
auctores, veterum si scripta recenses, Ut staluas, si quid forte probare velis,
Undique clamabunt « i ctus hic quo tendit asellus? Cur veterum nobis dieta vel
acta refert? A nobis sapimus, docuit se nostra juventus, Non recipit veterum
dogmata nostra cohors. Non onus accipimus, ut eorum verbo sequamur, Quos habet
auctores Graecia, ROMA colit.... » (v.
59) « Temporibus pioniere suis veterum bene dieta. Temporibus nostris jam nova
sola placent ».... Haec schola non curat, quid sit modus, ordove quid sit, Quam
teneanl doctor discipulusque viam [PL Metal., II, 16, p. 89 [ed Webb, p. 901:
Sed quia ad hunc elementarem librum (cioè le Categorie) magis elementarem quodamSTORIA
DELLA LOGICA IN OCCIDENTE disamina dello scritto di Porfirio si finiva con il
cacciar dentro tutta la filosofia, offrendosi in tal modo un campo alla
sodisfazione della vanità personale, e ugualmente recandosi danno
all’insegnamento La polemica intorno agli universali: si PUÒ DIMOSTRARE CHE
ALMENO TREDICI ERANO LE CORRENTI, NELLE QUALI SI DIVIDEVANO LE OPINIONI SU
QUESTO PROBLEMA. Così le notizie, di carattere più generale, trasmesseci da
Giovanni da Salisbury, ci portano naturalmente a prender in esame le
controversie intorno agli universali, e da quel che abbiamo veduto sinora, ci è
lecito concliiudere legittimamente, che la contesa divampò, in quella maniera
unilaterale e sofistica, nei primi decenni del secolo XII, sicché qui si
presenta manifesta la connessione storica con la comparsa di Roscelino e con le
lotte insorgenti in quell’epoca (v. la Sez. precedente, note 312 ss., e
particolarmente 326). Ci sono anzi ragioni interne, militanti a favore della
opimodo scripsit Porphirius, eum ante Aristotilem esse credidit antiquilas
praelegendum. Recte quidem, si
recte doceatur; id est ut tenebras non inducat [91] erudiendis nec consumat
aetatem.... c. 17, p. 90: Naturam tamen universtdium hic omnes expediunt, et
altissimunì negotium et maioris ìnquisitionis contro menlem auctoris explicare
[92] nituntur. Ibid., Ili, 5, p. 136 [141]: qui in Porphirio aut
Categoria explanandis singuli volumina multa et magna conscribunt [PL, 199:
873-4, 903]. Ciò trova conferma in una espressione di Abelardo: v. appresso la
nota 104. I Ibid., I], 20, p. 113 [ed. Webb] : Nec fideliter cum / or ph trio
nec utiliter cum introducendis versantur qui omnium de generibus et speciebus
recensent opiniones, omnibus obviant, ut tandem suae inientionis erigant
titulum. Ibid., Ili, 1, p. 117 [ c d.
Webb, p. 121]: Austerus nimis et durus magister cst'lollens quod positura non
est et metens quod non est seminatum, qui Porphirium cogit solvere quod omnes
pbilosophi acceperunt; cui salisjactum non est, nisi libellus [122] doceat
quicquid alicubi scriptum invenitur.
Polycr., VII, 12, p. 129 [ed. Webb, II, p. 144]: Qui ergo Porpniriolum
omnibus philosophiae partibus replent, introducendorum obtundunt ingenia,
memoriam lurbant | PL, 199: 888, 891, 666], Vedi inoltre il passo di Guglielmo
da Conches, che si troverà citato appresso, ne, secondo la quale, a partir da
quel momento, nelle controversie concernenti gli universali, sarebbe stata
piuttosto prevalente, in un primo tempo, la concezione nominalistica : non
soltanto infatti è indizio di una tale prevalenza la circostanza, che quei
cultori della logica, a quanto riferisce Giovanni, assumevano un contegno
esclusivistico e intollerante contro qualsiasi scienza reale (note 52 e 58), ma
riesce anche facile argomentare che gli scrittori citati da Giovanni, come
benemeriti del risveglio degli studi di logica, tutti quanti alieni da un
nominalismo estremo, o anche in parte avanzati sino ai limiti estremi del
realismo, hanno provocato o promosso in ogni caso una rivoluzione, la quale
determinò il passaggio dai principii nominalistici verso differenti cammini. Ma
da una più esatta e approfondita ispezione delle fonti a noi accessibili,
risulta chiaro che, per tale riguardo, come abbiamo già detto, il dissidio
delle opinioni non si aggirava soltanto entro i limiti di un contrasto
dicotomico o tricotomico, bensì si manifestava distinto in una serie di
graduazioni più numerose. La più precisa notizia ce la dà ancor una volta
Giovanni da Salisbury, e, stando a quella, la diversità di opinioni relativamente
agli universali, ha preso la forma seguente: 1) la opinione di Roscelino, che
gli universali sieno voces 6J ) : v. le
note 76 ss. di questa Sezione; 2) quella di Abelardo e de’ suoi seguaci, che
cioè gli universali vadano ridotti a sermones, non potendo K ) Metal., Il, 17,
p. 90 [ed. Webb, p. 92; PL, 199, 874], dove alle parole testé citate (nota 60)
fa seguito immediatamente quel passo intorno a Roscelino, che abbiamo veduto
alla nota 318 della Sezione precedente. mai il predicato di una cosa esser esso
stesso una cosa 03 ): v. appresso le
note 283 ss.; 3) la tesi, che intellectus o nono, nel senso attribuito a questi
termini da Cicerone (cioè dagli Stoici), sia ciò che si chiama « universale » M
) : v. appresso le note 581 se. Da
costoro Giovanni distingue poi quelli che si tengono attaccati alle cose ( «
rebus inhaerent »), ma a lor volta si scindono in varie tendenze, e dunque: 4)
la opinione che fu poi subito ancora abbandonata, di Gualtiero da Mortagne,
secondo la quale gli unie! ) lbid.: Alius sermones intuetur et ad illos
detorquel quicquid alicubi de universalibus meminil scriptum ; in hoc attieni
opinione deprehensus est Peripateticus Palatinus Abaelardus nosler, qui multos
reliquit et adhuc quidem aliquos habet professionis huius sedatores et testes.
Amici mei sunt ; licet ita plerumque captivatam detorqueant litleram ut vel
durior animus miseratione illius movetur. Rem de re praedicari monslrum
dicunt; licet Aristotiles monstruositatis huius auctor sit, et rem de re
saepissime asseral praedicari; quod palam est, nisi dissimulent, familiaribus
eius. **) lbid. (in continuazione): Alius versatur in intellectibus, et eos
dumtaxat genera dicit esse et species. Sumunt enim occasionem a Cicerone et
Boetio, qui Aristotilem laudani auclorem, quod haec credi et dici dcbeant
noliones. « Est autem », ut aiunt, « notio ex ante
perceplu forma cuiusque rei cognitio enodatione indigens » (cosi effettivamente
Cicerone, nel passo citato alla nota 37 della Sez. Vili, passo che mostra
tuttavia nello stesso tempo com’egli si riferisse non già ad Aristotele, bensì
a « Graeci », cioè agli Stoici). Et alibi; « Nodo est quidam intellectus et
simplex animi concepito » (così Boezio, ad Cic. top. [Ili], p. 805 [PL, 64,
1106], dove si commenta quel passo di Cicerone: solo [che in Boezio si legge r,
" ltUr ea in Versoi r "“°" e singularibus specialissima
genelerce 1 aque ™nstuml. Sunt qui more mathematicorum « fornuis » 142] rifinì
AW'/ 1 lddquid de univLalibus lert.l.,,1
referunl. Alu discutiunt «
tntellectus » (3) et eos uniiZ “ U uomimbus censeri confirmanl. Fuerunt et qui
«voces» (lt ìm*h. UùJZ U L S "'“ *•-»» «M,,c qui r l JVella ediz. Cousin
degli Outr. inéd. d’Abélard p 513n P genertbus et speciebus diversi diversa
sentiunt. Alii namqul voces rebus Zo a n?hil P ho PS «dngularcs esse affirmant,
in rebus vero mìni horum assignant. Alti
vero res generales et speciales universales et singulares esse dicunt; sed et
ipsi interne cieTe» 0 *, ' ntlUnt P'"d« m enim dicunt singularia individua
esse species et genera subalterna et generalissima, alio et alio modo alterna
mento la distinzione tra coloro che qualificano gli universali come vox
[voces], e quelli che li considerano come res, ma della posizione di questi
ultimi vengono nominate soltanto due sottospecie, cioè 10) la così detta ratio
indifferentiae (v. appresso le note 132 ss.) e 11) il punto di vista di
Guglielmo da Champeaux, v. le note 102
ss. Di queste varietà di opinioni parla inoltre una volta anche Abelardo 7S ),
ricordando, in seno al realismo, pri(lo stesso autore indica questa opinione
come « sentendo de indif- ferendo »: v. appresso la nota 133). Atti vero
quasdam essendas universales fingimi, quas in singulis individuis totas
essentialiter esse credunt (che qucst'ultima sia la opinione di Guglielmo,
risulterà chiaramente appresso). ™) iE cioè nelle Glossulae super Porphyrium,
già più sopra (nota 13) ricordate, e riferite dal Rémusat, op. cit., p. 96
(neanche qui purtroppo ci vicn fatto conoscere il testo originale): La grande
queslion que PorphyTe indique en débutant.... arrète Abélard, et il est
presque obligé de la traiter seulement pour la poser. Toules les opinions sur
les universaux se prévalent, diuil, de grundes auto- rités [testo originale,
ed. Geyer: «De generibus et s peci eh us quaestiones enodarc compeUiinur, quas
(nec ipse Por- pkyrius ausus est solvere, cum cas tamen tangendo ad earum
inquisitionem accenda! lectorem ». E,
dopo aver accennato alla varietà delle soluzioni proposte : «tamen unusquisque
lue- tur se aurtorilate i u d i c e » (p. 512)] (già qui la traduzione del
Rémusat è sbagliata, poiché nella nota egli riproduce le parole dell'originale,
« unus quisque se tuetur auctoritale iudice », e queste voglion dire che
ciascuno avvalora la propria opinione con l’autorità tradizionale, cioè Aristotele)....
p. 97 : Le premier syslème est celiti de l’existence des choses universelles.
lì est plusieurs manie- res de Vétablir. Suivant l’une eie. [Geyer, p. 515: .... primam (se.
sententiam de universalihus) quae de rebus est, primi- tus exequamur. De qua
etiam sunt plurcs opiniones, cum alii aliter res universales esse affirmant. Nominili cnim....] (ora viene la opinione di
Guglielmo da Champeaux: v. appresso la nota 105)... p. 99: «La seconde manière»
ecc. [Geyer, ma di tutto le due tesi
dottrinali anche testé ricordate, ma poi 12) una concezione, secondo la quale
la differenza ra genere e individuo risiede soltanto in un modo par- ticolare
(propalasi) di esistere, in quanto che 1W versale può presentarsi così in
parecchie cose insieme come anche in esseri singoli. Invece nel De
intellectibus del Pseudo-Ahelardo (v appresso le note 416 ss.) si trova
soltanto espressa, in amerà ^determinata e generica, la distinzione tra rea-
sii, nominalisti, e opinione di Abelardo u ). l'ZL'mZp mTtó, appreso pou r soutenir
que les universali sonldesdoses VoulZT "T^ la communauté, l’on dii
ai,'entri- l„ Voulant expliquer singtdière est une diffide TlrtruTl et l *
cho.se a etre universelle, la proprietà ani Inni' ",> . ropne, ' i ( l
ul consiste mal, le corps est nniZZl et Zel " ? ^ • bt ****- L'ani- et
quelque corps ; mais dire un étre qui
aliter re, universales esse videninV affi “ " n® r, u m a 1 i i, nitatem
assignnntes dicunt rem .,t;„ • ®,rniare * Hj re bns comrmi- id est alterins
proprietatis (il C uru . ver . 6a ^ em > aliam singularem, inéd., p. 522 IDe
Zen et s Jc \ « V “ CoVSIN ’ Ou.tr esse ex hoc quod est onivTsai et ^ V ” EAV ’
V, 313) Iaris. Ut animai est
universale et mm!!""* h ° C q ” od est sin SB- vel aliquod corpus.
Tale est enini ^ ’ j CC t ? men al| quod animai mal esse universale, ne si
dieatnr- ni. Undum,lanc sen tentiam ani- animal est, et tale est hoc animai
" a s “ nl quorum unumquodque dieatnr: una sola rea«J°hoc d T, 8ol °» ac -
espressa in forma indeterminata la r „ n l . na]ment ^ (P- 106) segue, voces
[cfr. Geyer, p. 522 - 31 . ’
oncezione degli universali come ^à-VtoZ^ 63 : Philosophie sco - Quidam enim
volimi omnZloZ f * diversa -^ntiunt. dam nullas ^ro folti snnt (mane. Il lo,.,
”ha "“(til T :zh r p- * T„,-irr rato vel albo Zane cana l VOCabul °'
!" ^pus ipsum a colo-altri invece, e certamente i più sconsiderati e più
radicali, come p. es. un tal magister « \ . si appigliavano unicamente al «
significare », sì che per e6si in ciascuno dei predicati assegnati a una cosa
qualunque, si trova insieme già significata la cosa stessa: e degno di nota è
che costoro si appoggino per tal riguardo alla grammatica, secondo la quale
ogni nome significa così una sostanza, come anche, al tempo stesso, una qualità
83 ). Dovevan essere nominalisti di quest’ultima specie anche coloro che, forse
seguendo in maniera unilaterale le vedute di Rosceliuo (Sez. precedente, nota
321), si spinsero sino ad affermare che la semplice dictio (vale a dire la
parola singola, in opposizione con il giudizio) non porta in generale affatto
in sè parti dell’atto intellettivo, vale a dire neanche parti simultanee, bensì
come un punto, comprende in uniLà indifferenziata tutto quel che cade entro
l’accezione della parola 84 ). Alcune
particolari conseguenze del nominalismo, in ordme alla teoria delle categorie,
vedile appresso, alle note 196 s. e 199. M J lbid.: ....Hi vero, qui onirtem
vocum impositionem in significutionem deducunt, auctorilatem protendimi, ut eu
quoque significati dicant a voce, quibuscumque ipsa est imposila, ut ipsum
quoque hominem ab animali, t ei Socratem ab homine, vel subjectum corpus ab
albo vel colorato; nec solum ex arte, verum edam ex auctoritate grammalicae
id conantur ostendere. Cum enim tradat
grammatica, omne nomen substantium cum qualitate significare, album quoque,
quod subjcctam nominat substantium, et qualitqlem determinai circa eam,
utrumque dicitur significare (dunque, secondo il Cousin, questo dovrebb’essere
il modo di vedere proprio del realista Guglielmo da Cbampeaux!). M )
Pseudo-Auael. de ititeli-, loc. cit-, p. 472: Sunt iluque inteilectus
conjunctarum ve! divisatimi rerum, dictionum tantum; cotijungentes vero vel
dividentes intellectus, oralionum tantum sunt. liti quippp simplices sunt, isti
compositi (Tale la opinione del1 Autore). Sunt plerique fortassis (cioè
nominalisti), qui intellectus simplices nullas ninnino purtes habere concedant,
ncque scilicet per sticcessionem nequc simili (vale a dire parti
non-simultanee, o successive, ne ba in generale soltanto il giudizio, ma non
mai la parola singola). Qui enim, inquilini, plura simul intelligit, una
simplici actione omnia simul attendit [Arali.. Opera, ed. Cousin, La teoria che
gli universali sono « maneries » : Ucuccione].
Ma era certo una ramificazione del nominalismo la tesi sostenuta relativamente
alla « manerics » (v. sopra la nota 69); poiché è vero che Giovanni da
Salisbury l’annovera tra le opinioni realistiche; ma, d’altra parte, non
soltanto suscita in noi gravi dubbi quel passo di lui, riferito più sopra (nota
70), dov’egli già finisce con il qualificare tutto quanto come realismo, bensì
dobbiamo anche tener conto di un’altra fonte d’informazioni: infatti, secondo
quel che viene altrove perentoriamente riferito, erano i nominalisti che, a
sostegno della loro opinione, secondo la quale generi e specie sono soltanto le
parole, piu universali o più particolari, enunciate nel soggetto o nel
predicato, senz’altro denominavano, nei rispettivi passi di Boezio e di
Aristotele, la « res » « vox » e il « gemisi « maneries » *>). La parola «
maneries » per "se stessa non e, parimente, nè così mostruosa nè così
rara, come Giovanni mostra di ritenere nella notizia più sopra’ riferita: non
soltanto infatti la s’incontra, con accezione generica, in Bernardo da
Cliiaravalle 8S ), ma, addirittura in senso specificamente logico, in un altro
au) De gen et spec., loc. cit., p. 522: Ntmc illam sementiam quue toces solas
genera et species unìversales et partici,lares praesubjectas asserii et non
res, insistamus.... ( p 523 ) Boethius, ira commentano super Categorias ([L.
I], p . 114 rp[, 64 162n dici « quoniam rerum decem genera sunt prima,
necessefuUdSem suhilrH i eSS \ S,m f. llces voces > dune de simplicibus fin
Boeziosubtectis J rebus d,perenti,r ». Hi tamen exponunt: « genera id est
Z"Z1* S L r : 0 r dam ™ Aerili 1 S f 7 Jm rme p aS,raduzi0ne di BOEZIO
[Prima Ldino, 1, 7. ed. Meiser, Pars Pnor, p. 82; PL, 64, 318], p 233)«rerum
alme sani unìversales, aline sunt singulares». Hi tamen rUatibic Lo r onTì;,d T
° C " m HU "“ tem tnm «PertM auctomentili aut e n‘ l ir"*
",lentes ’ aut di ™nt «udori,a,es TncTdunt. P labor «utes, quia excoriare
nesciunt, pellem . Epi y402 S° pera ’, d Martène, Venezia, 1765, 1, p.
156)m"614] 1 wn ' s pro *,f!lll ° sU dilla ad mommi non erat [PL, tore dei
primi del Duecento, cioè nel canonista Uguccione (morto nel 1212), il quale nel
suo scritto lessicale definisce « species » come « rerum maneries » 87 ). E a
quel modo che questa parola (il francese « manière »), se stiamo alla sua
precisa etimologia, ci riporla da ultimo al significato di « maneggio » o «
modo di trattare » [« Behandlungsweise » da « Hand », come «maneries » da «
manus »] S8 ), cosi, nel suo uso logico, ha dovuto anzitutto significare il
modo d’intendere subbiettivo, e pertanto raccostarsi alla concezione nominalistica,
o a quel tale « colligere » che abbiamo veduto alla nota 68; invece, soltanto
allorché «maneries» dall’accezione « maniera, guisa », a poco a poco fu volta a
significare una « sorta », fu possibile prenderla, come termine della logica,
in senso oggettivo, per tal modo che potè entrare in giuoco la questione dello
« status » (nota 65), sebbene, anche trattandosi di « sorta », venisse ancor
fatto abbastanza facilmente di pensare all’ « assor¬tire » (cioè
colligere). I Platonici: a) Bernardo da
Cliartres Gli avversari unilaterali degli unilaterali nominalisti furono
comunque i veri e propri platonici, tra i quali ci si presenta per primo, come
principale rappresentante, Bernardo da Cbartres, soprannomi*0 Uguccione, autore
di una Stimma Decrelorum e di altri scritti canonistici (sul conto di lui,
notizie più precise nel Sarti, de clarissimis Arcbigymnasii tìononiensis
projessoribus, I, p. 296 ss., c nella Prefazione del Du Cange al suo
Glossario,Ugutionis vocabularium »]), aveva scritto un vocabolario (liber
derivationum), ricavato in parte da quello su ricordato (Sez. precedente, note
286 ss.) di Papias, e conservatoci in numerosi manoscritti. Da esso il Du Cange
j. v . «Maneries » riferisce le seguenti parole: Species dicitur rerum
Maneries, secundum quod dicitur « Herba huius speciei, id est, Maneriei,
crescit in borio meo ». “) Vedi Diez, Etymtdogisches Wórlerbuch der romanischen
Sprachen, p. 216 [s. v. «Maniero», p. 203 della 5" ediz.j. Parola del
tutto diversa è maneria, derivante da maneo e affine a mansio, con il
significato di « soggiorno » (v. il Du Cance, s. v. « Maneria »).nato Sìlvester
(viveva intorno al 1160). [Oggi dai P,U . 81 r,t, ° '' dell, pera idea
platonica, laddove il “tLÀTSH”' fica iniziarsi della mescolanza co „
"*”>la olitolo l’aggettivo {album) è ritenuto e, •’ m °“ lre
contaminazione insanabile della idea coó 1 T"' '* orna Pertanto ci didicUe
del".;.7b ‘ “"T sieno state rese ne.» . «eptorare che non ci * i
.™.,r,:;LT H ~ ri,e nere)], _ PmtaLtt',2ri tu’in 893hVr"“ a o f C 2;;.™* idem 120 [ed i
Wcbb ’ 124; PL AÌebai a R et q “ Ìbus
dominamtur den °a ~r, 2 ?»SSS. tn ffi emm il/ud, ‘ x culiàs^ l qùod^vJ r b 1
ui^ l lg > ',t ^ nem,/ >v. nelle Opere del Venerabile Beda (ediz. di
Colonia, 1688, li. p. 206 ss. [PL, 90, 1127 ss.]). Ma proprio questa medesima
parte della Philosophia detta minor la si ritrova da capo, non soltanto
ristampata nella Maxima Bibliotheca Patrum [di Lione], voi. XX, p. 995 [PL,
172, 40 ss.], dov’è indicato come suo autore Onorio da Autun (Sez. precedente,
nota 373) [Honorii Augustodunensis De Philosophia Mundi 11 IVI. bensì ancora in
un libro che sta a sè, con il titolo: Philosophicarum et astronomicarum
institutionum Guilei mi, Hirsaugiensis olim abbatis, libri tres, Basilea, 1531,
in -4°. (Questo abate Guglielmo da Hirschau, nato nel 1026, morì nel 1091: v.
Pertz, MGH, VII, p. 281; XII, p. 54 e p. 64 ss.; XIV, p. 209 ss.). Se ora 1’
Hauréau ( Singularilés hist. et litlér., p. 240) a favore dell’attribuzione di
quello scritto a Guglielmo da Conches può richiamarsi a un manoscritto di
Parigi, e nello stesso tempo allega la testimonianza di Guglielmo da S.
Thierry, un avversario contemporanco, io ritengo senza dubbio questi argomenti
conte decisivi, ma è da richiamare in ogni caso l’attenzione sopra il fatto che
nella stampa nominata per ultima (fatta astrazione da frequenti piccole
modificazioni della espressione letterale) è menzionato in più luoghi per nome
l’autore arabo Costantino Cartaginese, e del pari è nominato una volta anche
Johannitius, cioè Hunain Ibn Tshàk, mentre nelle altre edizioni a stampa, in
luogo di questi nomi figurano soltanto le espressioni indeterminate «
philosophus » o « philosophì », sicché questa variante richiede forse ancora
una ricerca più approfondita. Le glosse di Guglielmo da Conche* al De consol.
phil. di Boezio ei sono state fatte conoscere da Ch. JourDAIN (nelle Notices et
Extraìls des manose., voi. XX, p. 21. Ma
se, come vuole 1’ Hauréau ( op. ull. cit ., p. 242 s.ì sia da attribuirai al
nostro Guglielmo anche il commento al Timeo, che il Cousin (Ouvr. inéd.
d’Abél., p. 644 ss. r648-157]) ha pubblicato in estratti, attribuendolo a
Onorio da Autun, sarebbe cosa da lasciar in dubbio. Senza contestazione sono
invece di Guglielmo quei frammenti [della secunda e tertia philosophia
(Antropologia e Cosmologia)], che il Cousin ha pubblicati ibid.. p. 669 ss.
r670-7. 1,’Ott AVMNO ha curato la
pubblieaz. di Un brano inedito della « Philosophia » di G. di C., Napoli, 1935,
illustrando nella Prefazione lo stato attuale delle questioni relative]. glielmo
»^) svolge, secondo I ‘ P l8tIca ~ che G u . grafìa, psicologia e fisica 9 ‘ c
). ben sì ^p 21 ™ 16 di co »niof, oens! ci limiteremo a quel Bcda, p. 207 r
(PL. e 9o" 112820l per mundi
ère,,iohoc foctus est aLmT ** ° ngel,,s “-/"'deus \ f To nnifice ;
(irlif(, x mundutn creanti )T°’ r,i ^
v„i. 75 ( 'i873! R ;.1;rs. dc,rArcatlt ' mi; d 'Vie.;: poco clic c’è ila rammentare, in ordine alle
questioni di logica vere e proprie. Guglielmo, che sul terreno della
gnoseologia si pone dal punto di vista platonico, di un idealismo che procede
verso l’alto er ’), e anche espressamente sentenzia che tra i filosofi pagani
egli dà la palma a Platone " 6 ), distingue si una quadruplice maniera di
considerare tutte quante le cose, cioè dialettica, sofìstica, retorica,
filosofica 87 ), ma relativamente alle prime due (quanto alle due ultime, è per
lui cosa che già s’intende da sè) si schiera risolutamente dalla parte dei
realisti, combattendo coloro che volevano escludere qualsiasi realtà, o infine
da ultimo neanche volevano ammettere più i nomi delle cose, bensì, in generale,
alquante parole solamente (che sarebbero poi le quinque voces) 9S ). Ma,
analogamente allo Scoto Eriugena, egli almeno riconosce tuttavia, richiamandosi
a Boezio, che appartiene allo spirito umano la funzione d’imporre alle cose che
hanno “) V. i frammenti riprodotti dal Cousin, op. cit., c specialmente p. 673
s. M ) Nella edizione già ricordata del Gratarolus, p. 13: Si gentili*
adducenda est opinio, malo Plalonis quam alterius inducalur; plus numque cum
nostra fide concordai. ”) Ibid., p. 4: De eodem numque dialectice, sophistice,
rhelorìce, vel philosophice disserere possumus. Considerare numque de ali quo,
an sit singultire un universale, est dialeclicum; probare, ipsum esse quod non
est vel non esse quoti est, sophisticum est: probure, ipsum esse dignum proemio
vel poena, rhetoricum: sed de natura ipsiusque moribus et officiis disserere,
est pbilosophicum. Dialecticus ergo, sophistn, oralor, philosophus, de eudem re
diversa considerunles et intendentes disputare possimi. ”) Ibid., p. 5: Quod
intelligentes quidam res omnes a dialeclica et sophisticu di sputulione exter
minar erunt, nomina lamen earum receperunt, eaque sola esse universalia vel
singulttria praedicaverunt; deinde supervenit stultior aetas, quue et res et
earum nomina exclusit alque omnium disputationem ad qualuor fere nomina
reduxit; ulraqiie tamen seda, quia non erat ex deo, per se defecit. Quei qualuor nomina non posson essere altro elle le
quinque voces, escluso forse il proprium : in antitesi ron una siffatta
riduzione di numero, incontreremo in compenso anche sex voces: v. la nota 278.
mulo franti. ^r^roi 1 zj,,on'» Se Be 'ZlTcZ, “‘“T* O»»]. 8rao platonico,
princiml mamfe8tava J ano realilenm affermazioni idealistiche"' 6 . e8prÌBlendo8Ì
con soficanti, era in ogni caso imn ° 3 am P lificazi om edit0ria *”**• d i
prender oranti JT ° ^ meri * relazione debba pensarsi che L,]i “ 8lderare “
quale esistenti, stiano con gl’individuf.U1 "r erSah> come eose c7° C °
nSÌ8te Ia ^portanza 2*^J, * ten * C h ani P e a ux (morto nel 119 !) ; U ^ llel
«o da ! ma lo 8Ìeo, nel realismo di hii n ’ U pnnto * Imea, rispetto al pimto
di ’ P “” ancora m seconda varsi tuttavia, fin da principio i ^ De ™
rileGuglielmo da Champeaux siàm^l "‘T" 0 * Ue idee di C081
minutamente informati, ^,lmgi dall’essere 8in ; di ahri,. pe re h è rir; r r^
ioj,e dei c assolutamente andar oltre il n na non Possiamo notizie, a noi
accessibili, che,mnT° * ^ ghw ono le a equivoci «»*). “ lascino per nulla adito
w ) Ibid., p. 29 o, • i Hit 12’un°A OCUlÌS muìlT 1 constituto tr :~«4 ^.rr
»" stolrfe in prìmam T? “‘T"' sub °P™£ dicati?’s "’ m istn
Stendi . aliai,,,,,,} * secun dam dividitur ali,, ‘H*’ un et e "b Ari \ T
° P° S! "*sio. ’ allf P‘»ndo ... actus b . 199, 8321 ’ SARESB I, s, p . 2,
S li r . led ^cbl», p. 16-7; PL Della produzione letteraria di Guglielmo, non
abbiamo sotto mano nulla, cbe riguardi oggetti di pertinenza della logica 103 )
: siamo così ridotti a servirci principalmente di una notizia di Abelardo, il
quale mena vanto di avere combattuto con felice successo le idee di Guglielmo
intorno agli universali, di guisa che quest’ultimo le modificò in misura
notevole: ma con questo il suo insegnamento ci scapitò, per autorità e per
concorso di uditori, a tal punto che finirono con il passare forglielmo da
Champeaux tutte quante quelle abbreviazioni (« magister V. », « magister noster
V. ») che si trovano nel manoscritto, nè più nè meno che quei passi, dove si
trova « If illelmus » ; anzi ha persino fatto lo stesso in un certo luogo, dove
(de gerì, et spec., p. 509) con le parole « Vel uliter secundum magistrum G. »,
è indicata in modo abbastanza chiaro una posizione antitetica a quella del
mngister Willclmus antecedentemente (p. 507) nominalo, E come ora è francamente
segno di leggerezza trovare ugualmente in quel magister G. un'allusione al
nostro Guglielmo, cosi non è detto cbe in compenso abbiamo un punto di appoggio
nell’abbreviatura € V. », tanto più che questa lettera stessa parla in senso
contrario. Poiché Abelardo, prima di recarsi presso Guglielmo da Cliampeaux,
aveva cercato d’istruirsi presso tutti i dialettici eminenti ( Epist ., I, c.
I, p. 4, Amboes. Ted. Quercetanus di Parigi 16161, [ed. Cousin, I, p. 4; PL,
178, 115]: Proinde diversas disputando perambulans provincias, ubicunque huius
arlis vigere studium audieram, peripaielicorum uemulalor fuctus sum), come «
magister noster » egli può indicare una quantità di uomini, dei quali ci è
ignoto il nome, c dobbiamo guardarci daU’argomentare, senza sufficiente ponderazione,
che si alluda a persone determinate, per evitar di andare fuor di strada (v.
per es. più sopra la nota 82 ). Ma alle deduzioni del Cousin aderirono il
Rousselot, l’Hauréau, e anche H. Rittcr. lra ) L’Hauréau (De la phil. scoi., I,
p. 223 [cfr. Ili ut. de la phil. scol^, I, 322]) riferisce che il Ravaisson ha
trovato, nella Biblioteca di Troyes, 42 frammenti di Guglielmo; e con la
pubblicazione di questi frammenti, E. Michaud, nel suo scritto Guillaume de
Champeaux et les écoles de Paris au Xll.e siede (2’ ediz., Parigi, 1868), si
sarebbe potuto acquistare una benemerenza. In base a quel ch’è stato detto più
sopra (nota precedente), non si può argomentare che Guglielmo da Champeaux
abbia scritto «Glossulae super Periermeneias », perchè il passo relativo nella
Dialectica di Abelardo (p. 225) attribuisce uno scritto così intitolato
semplicemente a un « magister noster V. ». [Ma ora son da vedere i 47 frammenti
« Guillelmi Campellensis Sententiae vel Quaestiones XLVII » puhbl. da G.
Lefèvrk. Les variations de
Guillaume de Champeaux et la question des Universaux, Lilla, 1898, pp. 19 ss.].
malmente tutti alla opinione di Abelardo
104 ). Guglielmo cioè avrebbe affermato ili primo luogo che gli universali, in
quanto sono, nella loro unità, cose uguali, ineriscono nello stesso tempo
essentialiter, in indivisa totalità, a tutti cpianti gl’individui che cadono
nella loro estensione, e pertanto fra gl’individui non sussiste differenza di
essenza, bensì le differenze hanno fondamento soltanto nella molteplicità di
determinazioni accidentali. E come ciò trova letterale conferma nel passo del
De gen. et spec., citato più sopra (nota 72), ivi appunto ci viene data una
spiegazione più precisa-la quale persino ci riporta a un passo, affatto
isolato, di Boezio, e ci dà così maniera di veder bene addentro come il daffare
che si davano a quel tempo con le controversie tra opposti indirizzi, avesse
fondamento in minuzzaglie di erudizione scolastica, piuttosto che in contrasti
intimi fra modi di vedere teoretici. IM ) Abaf.l. Epist., 1, c. 2, p. 4 [ed.
Consinl : Perveni tandem ransius, uh, jam maxime disciplina liaec florere
consueverat, ad \rUiUclmum scilicet Campellensem praeceptorem meum in hoc lune
magisleno re et fama pruecipuum: cum quo aliquanlulum moratus primo et acceptus,
poslmodum gravissimiis extiti, cum nonnuttas scuicet ejus sententias refellere
conarer, et ratiocinari conira eum saepius aggrederer, et nonnunquam superior
in disputando viderer tp. a) lum ego ad eum reversus, ut ab ipso rhetoricam
audirem. mler caetera disputationum nostrarum conamina, antiquam ejus de uni
versali bus sententiam patentissimis argiimentorum dispulationihus ipstim
commutare, imo destruere compiili. Erat autem in ea senlenlia de commentiate
universalium, ut eamdem essentialiter rem imam simul smgulis suis inesse
astenerci individuisi quorum quidem nulla esset m essenti!, diversitas, sed
sola multitudine accidentium vanetas. ile autem tstam lune suam correxil
sententiam, ut deinceps rem eamdem non essentialiter. sed individualiter (la variante
« indilferenter » [accolta dal Comuni, che la ed. d’Ambois segna in margme Si
trovava anche in vari manoscritti; vedi I’Hauréau, op. cit, 1, p. 236 ( H,st.
de la ph. scoi., I. p. 3381), dicere,. Et.... quum hanc "le correxisset,
imo coactus dimisisset sententiam, in tanlam lectio ejus devoluta est
negligentiam, ut jam ad dialecticae lectionem vix admitteretur: quasi in huc
scilicet de universalibus senlenlia tota hiijiis artis consisterei summit (cfr.
la nota 60). Ilinc tantum roboris et auctontatis nostra suscepit disciplina, ut
ii, qui antea vehemenj nogutro tilt nostro adhaerebant. et maxime nostram
infestabant aoctnnam. ad nostras convolarent scholas fPL Affermava cioè
Guglielmo che in quel quid di accidentalmente superaddito (adveniens) son da
ravvisare le forme individuali, le quali improntano la materia, consistente nel
concetto del genere (malcriam informarli), in tal maniera, che con ciò la
essenza universale ne risente una individualizzazione secundum totam sitarti
quanlitatem : e lo stesso può ripetersi poi, a questa maniera, per tutta quanta
la scala, dal genere, attraverso la specie, sin giù giù airindividuo 103 ).
Inoltre, come riferisce altrove Ahelardo, Guglielmo, incominciando dalle dieci
categorie, svolgeva a fondo questo processo d'informazione giù giù sino
agl’individui, e poteva allora, poiché quelle stesse forme più individuali
differenzianti rimandano da capo agli universali, spiegare la predicahilità
degli universali con il fatto che questi spettano agl'individui, o
essenzialmente o adiettivamente iadjacenter) 10 °). Ma proprio in ciò consiste
decisamente Ite gen. et sper., p. 513 s. : Uomo quaedam species est, res una
essenti ali ter, cui adveniunt forntae quaedam et efficiunt Socralem: Ulani
eamdetn essentiuliter eodem modo informata formae facientes Platonern et
caetera indiridua hominis ; nec aliquìd est in Socrate, praeler illas jormas
informanles il latti malcriam ad fuciendum Socratem, quia iìlud idem eodem
tempore in Platone informatimi sit formis Plalonis. Et hoc intelligunt de singulis
spcciebus ad individua et de generi bus ad species.... Ubi enim Socrates est, et homo universalis ibi est,
secundum totani suoni quantitatem informatus Socratitate (riguardo al concetto
di Socratitas, v. la concezione corrispondente di I orfirio e Boezio: Sez. XI,
nota 43). Quicquid enim res universalis suscipit, tota sui quantitate
retinet.... Quicquid suscipit, tota sui quotifilale suscipit. Ma anche questo'
è proprio ricavato da Boezio, che dice, a proposito della differenza {ad Porph.
a se transl., p. 87 tEd. Brandt, IV, 9, p. 263; PL, 64, 1261): Aeque enim sicnt
in corpore soler. esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potcst;
getius enim per se consideratimi partes non habet, itisi ad species referalur.
Quicquid igitur habet, non purtibus, sed tota sui magnitudine retinebit. Cosi,
dove si tratta di storia della filosofia medievale, spesso 1 apparenza [della
originalità, o della novità! viene a ridursi | grazie alla indicazione delle
fonti antiche] a quella ch’è la vera sua portata: “ r H U ' a PP r re riprod.
XTTe": dÌ ( ?* differentiam et
secundum IdZtiZ^eZd^^' ^ Secundum intUfferentiam l>, e J ll *dem prorsus
essentiae. n hZ£ s : adem -=£t2; nrtlSTò
ifhix Sfe isrF"’ SS ff *7 rs s »;s£*Atas pure appartiene infine alla
tradizione la notizia isolata, che, riguardo alla topica, egli portava la
essenza della inventio a consistere nella scoperta di un termine medio 110 ).
[§ 21. Le difficoltà e i gradi del
realismo]. È probabile che proprio le
difficoltà, alle quali si trova esposta la opinione di Guglielmo da Champeaux,
abbiano dato ai realisti mentre in
generale essi potevano approvare il punto di vista di lui motivo di scindersi essi medesimi a lor volta
fra loro, a forza di tentativi di correggere quella opinione, o di darle nuovo
fondamento: si è così formata una quantità d’indirizzi divergenti, ai
quali anche passando affatto sotto
silenzio il nome dei loro rappresentanti
non ci è più possibile tener dietro, considerando minutamente il
determinarsi delle loro particolari differenze. A parte le difficoltà
teologiche die si sollevavano, sia che si assumessero gli universali quali
prodotti di una creazione, sia che li si assumesse quali entità eterne, tanto
più che alcuni effettivamente designavano per tal modo come « cose » tutt’i
singoli attributi di Dio nl ),
positìonem ejusdem parti* sequatur pars illius. Sequitur enim
bipunctalem lineam pars ejus, i. e. punclum., non tamen ad punctum pars ejus
sequitur, quia indiani habet. u ") Joh. Saresb. Metal. Ili, 9, p. 115 [ed.
Webb, p. 152] : Versatur in his (se. in Topici*) incentionis muteria, quam
hilaris memoriae fVillelmus de Cam pelli*.... diffinivil, etsi non perfecte,
esse scienliam reperiendi medium terminimi et inde eliciendi argumentum [PL,
199, 9091. m ) De gen. et spec., p. 517 : Genera et species aut creator sunt
aut creatura. Si creatura sunt, ante juit suus creator quam ipsa creatura. Ila
ante juit Deus quam justitia et jortitudo.... Itaque ante juit Deus quam esset
justus vel fortis. Sunt auleta qui.... illam divisio- nem.... sic jaciendam esse dicunt:
quicquid est, aut genitum est aut ingenitum. Universalia autem ingenita
dicuntur et ideo coaeterna, et sic secundum eos qui hoc dicunt,... [noni Deus
aliquorum jactor est. Abael. Inlrod. ud theol., II, 8, p. 1067 ( Amboes.
[ed. Cousin, II, p. 85; PL, 178, 1057]): Terlius vero praediclorum (se.
magistro- rum divinae paginae, cioè un magister in pago Andegavensi ) non so-
ciò che dal punto di vista ontologico si voleva evitare era proprio quel
vicendevole invilupparsi di tutti eli universali. 6 Perciò alcuni si
appigliarono all’espediente, certo grossolano di assumere quel
«sovraggiungersi» (che abbiamo veduto piu sopra, alla nota 105) delle
differenze specifiche, come qualche cosa di puramente passeggierò, per salvare
così la indipendenza del genere »*) Altri invece tiraron fuori un modo di
vedere, ch’era proprio di Aristotele, considerando il genere come la materia
che nella sua essenza rimane identica, e che viene diversamente formata nelle
specie: ma, proprio per quella identità di essenza, vennero a trovarsi in con-
lutto con la teoria degli opposti 11S ). Onde a ccadde, da un lato, che,
relativamente a questo «i™ isssrwtsar ir-" -s™ ~~~ hujusmodi, quae iuxta
fiumani * erlcor( i‘,im, tram et caelera gnificantur, res quasdam et amil i
lonls, c ? nsuetu di nem in Deo si- t ig jfer res diversas conslituat. '
aicumur, tot in Deo dicunt quidam, quia differentiÌe "quldmn m "J° rU
. slm P l icitatis, quod genere non fondanti* U%kVt generi ’ sed in subjectum.
per se d,c,tur e- sia inasprita, e ahL ia n* 1 « a anZ * C ^ C c * uesta
diffìcile controversia si « gran somaro », non essendo C cT alu U " C
" t0 ^ r Z ° sco,astico del passo del De gen. et spec u ( man,era . dl
comprendere il quod scilicet incoteMens eduttl „ ° PPOSlta - «*• in codem,
sententiam tenenl perchè non *" • n { >oss n nt > qui grandis asini
:±,rr"° év-J quale n.n fl 1ZS
processo, con il quale alla materia si dà la forma, venne fuori da capo
la questione, se cioè la differenza specifica sia solamente il mezzo per formare
le specie, o se essa invece, insieme con il genere, trapassi nello stesso tempo
nella essenza della specie medesima, e
alcuni (evidentemente tenendosi più vicini a Guglielmo da Champeaux) si son
pure effettivamente decisi a favore della seconda soluzione 114 ) : e così,
d’altra parte, per i concetti di genere e di specie, veniva in luce una
difficoltà, anche per il fatto degli opposti che (almeno nella loro esistenza
individualizzata) si trovano in imo e medesimo soggetto: ciò ha per conseguenza
che, qualora un uomo sia bensì casto ma in pari tempo sia avaro, dovrebbe in
lui coincidere l’universale del bene con quello del male; ora, taluni se la
cavavano con una distinzione tra i generi superiori da un lato, e dall’altro
lato le specie degli opposti, nella loro specializzazione, escludendo almeno
queste ultime dalla possibilità d’incontrarsi [in un medesimo soggetto],
laddove altri estendevano persino ad esse la pericolosa concessione 115 ). 1H )
Abael. Dial., p. 477 : RATIONALITAS enim et mortalitas, adve- niente*
subtantiae animulis, eam in speciem creunt. quae est homo. Nec cum ipsae
generis substuntium in speciem reddunt, ipsae quoque in essentiam speciei simul
transeunt, sed sola genera vel subjecta specificantur.... non quidem cum
differentiis, sed per differentias.... Si enim differentiae in speciem
transferrentur cum genere,.... sicul quorumdam sententia tenet,... profecto
cogeremur jateri, et dijjeren- tias ipsas cum genere aeque in essentia speciei
convenire ; linde et ipsas de substanlia rei esse, et in partem maleriae venire
contingcrel. m ) Ihid.. p. 390: Sunt uutem quidam qui contraria genera in eodem
esse non abhorrent, sed contrarias species in eodem esse impossibile
confitentur. Dicunt enim quod cum omnia accidenlia per individua in subjecta
veniant, et ipsa contraria genera per individua sua subjeclis contingunt . ut
virtus et vitium, quae in hoc homine per hanc castitatem et hanc avaritiam
recipiunliir, quae individua sunt caslitatis et avaritiae, quae invicem species
non sunt contrarine.... Verum species contrarias esse in eodem per aliquu sua
individua, illud prohibet, quod nec ipsarum individua in eodem possunt esse,
quorum sunt tota substantia ea quae sunt contraria, utpote species.... Sunt
autem et qui species contrarias in eodem posse consistere non denegant. adol e,
T ^ C1 " aUrÌ 3UCOra « indotti a adottare 1 esperte radicale, di affermare
cioè che la .uizmne della differenza specifica in generale ha luogo tu ta
quanta solamente nella categoria della sostanza laddove, quando si tratta delle
qualità, le così dette sue’ eie o sottospecie son propriamente da considerare
sen z altro come formazione d’individui, sicché n es h' e nero sarebbero due
essenze diverse a cuci 1 h che son tali due individui umani ”)’ " ^ 816880
farina, non c’è nane », . 3,10n c e * c e pane », dovendo prima la ~7 n p, *“’
” c,,e “ cb '»a»c»„r;.jr,o " awo cì **•£ [§ 22. Controversie intorno alla
definizioneINTORNO al CONCETTO DI PARTE | E cakie»j. M a controversie ) De gerì, et spec. d ?4i. c
tmnsubnantiae differentiis haberTdilZTe?™ Solum P^edicamentn duas proximas
species. dicunt illaT'nn l cllm . J ff uaht ^ dividati,r aliquas differenti,:
»ed et in micas converti tur linde nèn • sc, i,c el furinam esse deserit non
sit, panis desit. Eie. equicquam concedila ut, si farina di questo genere, che
venivano per lo più agitate, con grande sfoggio di passi di Boezio, sfiorando
già, come si vede, il confine della stupidità, venivano altresì dibattute,
secondo il modello della logica in uso nelle scuole, anche nell arringo affine
della teoria della divisione (v. sopra la nota 75) e della definizione. Ben è
vero che i realisti si trovavano tutti d’accordo nel preferire, in armonia con
il modo di pensare di Boezio (Sez. XII, nota 98), o piuttosto di Porfirio (Sez.
XI, note 41 ss.: cfr. la Sez. Ili, note 78 ss.), il procedimento platonico di
ima continua dicotomia 118 ); ma subito a proposito della divisione del genere,
necessaria per la definizione, doveva già ripresentarsi la questione del come
vadan le cose con le parti della essenza, distinguibili nel concetto del
genere: e mentre da taluni si affermava che tali parti sono unite per
mescolanza, press’a poco a quel modo che anche dalla mescolanza di bianco e
nero si genera un terzo colore differente 119 ), altri facevano osservare che
tutte le parti della essenza del genere posson pure, anche singolarmente, esser
enunciate come predicati degl’individui, appartenenti al genere stesso 120 );
per con) Ibid., p. 458: Si aulem genus seni per nel in proximas species t ei in
proximas differenlias dìvideretur, omnis divisio generis, sicut Boethio (de
divis p. 643 [PL, 64, 8831) placuit, bimembris essel.,.. Hoc autem ad eam
philosophicam sententiam respicil, girne res ipsus, non tantum voces, genera et
species esse confitetur. ) Oilberti 1 orretae in l. 1 . Boethii de S .
Trinitele commenta • ria_ (Bokth. Opera, eri. [costantemente cit. dal Franti]
di Basilea, 1570), p. 1144 [PL, 64, 12721 : Butani quidam imperiti.... quod non sit vera dictio. si
quis dical « homo est corpus », non addens et anima »: uut si dicat « homo est
anima », non addens c et corpus ». Opi nantes quod, ex quo diversa, ut unum
componant, conjuncta sunt. esse utriusque adeo sit ex illa conjunctione
confusimi, ut sicut cum album et nigrum permìscentur, quod ex illis fit, nec
album nec nigrum dicilur, sed ciijusdam alterius coloris ex illa permixtione
provenienti».... 1 Ibid., p. 1143:.... corporalitàs, non
modo de hominis illa parte I qua e corpus e.st], verum etiarn de homine
praedicetur. Et....
rationalitas.... non modo de hominis illa parte, quae spiritus est, sed etiam
de homine praedicatur.... (p.
1144).... quicquid de parte nuturaliter, idem et de composito affirmandum [PL,
64, 1272-3]. irò, anche questo fu da capo contestato da alcuni, perche quelle
parti della essenza sono predicati, soltanto in quanto sono concetti più
generali, fatta cioè astrazione dalla loro connessione con altre note
essenziali; dellW mo, p. es„ viene affermata cioè, come predicato, non -dà la
corporeità specificamente umana, ma proprio in gèneraie la corporeità nella sua
accezione universale, e tosi parimente anche la spiritualità 121 ). Un’altra
controversia manifestamente comiessa con quel che precede, concerneva la
seguente questione se ' fr J “ dMÌ *"• ^ il 7o,Z f dilTereuza -pacifica si
riferisca «oltau.o alla .peci. O anche, nello stesso tempo, al genere che st r,
’ mento della specie 122 ! Y, 3 fonda ia specie ). Via via che si separava più
net. amente a t ìlferenza dal genere (note 112, 114) g j po z::i re p t n r pit
° lbid., p . H44 f PL 6,,, 'illuni
rationalitatem guani Uhm quuè est A,"” al ‘ qU ‘ d ‘ cere 8esti unl, d‘ci.
et simUiter scienti,, a liam et alUmr ‘ T™"*' de homine human, corporis
est. ’ 1 sparai,totem quam quae notila. PaSS °
re,atÌV ° è ri P r « d »« integralmente più sopra> • ^ Abael. Dialect. n 402
• \f 1 * * noe hujus nominis quod est « homo » 'nen™ s,gn, fi cat ‘t»iem
substans, at ±' f* x P so percipiant, tantum nronlèr nT 7?’ nec ^ ualitat ^
ipsius diffinitionem requirunt. P P r qualitatum demonstrntionem il suo
significalo concettuale, fosse stata accolta, in senso realistico, quest’ultima
soluzione, sicché la proprietà sarebbe definita come un quid, formato da un
universale (p. es. [il «bianco» è un] formatum albedine), si poteva da capo
domandare se questa sia la definizione della proprietà stessa ( albedo ), o del
sostrato qualificato (album); e se poi ci si atteneva alla seconda alternativa,
dato che la prima conduce a mia reduplicazione priva di senso, sorgeva il
dubbio, se con ciò sia definito ciascun singolo di siffatti sostrati, o non
forse invece tutti quanti insieme: e necessariamente ambedue le ipotesi si
mostravan da capo insostenibili, poiché da un lato non si tratta di definire le
cose stesse, bensì soltanto ima proprietà, nè d’altra parte le cose, per una
sola proprietà che abbian comune, sono identiche nella loro essenza 121 ). Ma a
quel modo che tutta questa discussione si atIbid., p. 495: Ai vero in fiis
diffinitionibus quae sumplorum (con questo termine Abelardo suole indicar gli
aggettivi: v. appresso la nota 321) sunl vocabulorum, magna, memini, quaestio
solet esse ub his, qui in rebus universalia primo loco ponunt....; duplex enim
horum nominum quae sumpta sunt, significatio dicitur, altera.... principalis,
quae est de forma, altera vero secundaria, quae est de formalo. Sic enim «
album », et albedinem, quam circa corpus subjectum determinai, primo loco
significare dicitur, et secundo ipsius subjectum, quod nominai. Cum ilaque
album hoc modo diffinimus « formatum albedine », quueri solet. ulrum haec
diffinitio sii tantum hujus vocis, quae est « album », an alicujus siine
significationis. Al vero cum vocem non secundum essenliam suam, sed
significulionem diffiniamus, videlur haec diffinitio recte ac primo loco illius
esse. Restat ergo
quaerere, sive illius significationis sit, quae prima est, i. e. albedinis, sit
e cjus, quae seconda est. quae est « subjectum idbedinis ». At vero si haec
diffinitio albedinis sit, praedicalur de ipsa, et de quocumque albedo dicitur,
et ipsa diffinitio prucdicatur. At vero quis vel albedinem vel hanc albedinem
formuri albedine concedei?... Si
vero diffinitio supraposita ejus rei, quam « album » nominani, esse dicatur,...
quaerilur, utrum uniuscujusque sit per se, quod albedinem susci pi unt.... | il
Cousin corregge: suscipiat], sive omnium simul acceptorum. Quod si
uniuscujusque sit illa diffinitio, utique et margaritae. Vnde de quocumque illa
diffinitio dicitur, et margarita praedicatur, quod omnino falsum est. Si vero
omnium simul acceptorum esse concedatur, oporlebit ut, de quocumque diffinitio
illa enuntiatur, omnia simid praedicenlur. quod iterum falsum est. tiene ancora
di regola a quello stesso basso punto di vista, che abbiamo trovato più sopra
(Se*, precedente, note 350 ss.), dove si trattava del realista Anseimo, cosi
anche le dispute sopra il secondo metodo di divisione, cioè sopra la partizione
della o alita ne suoi elementi, recano in sè una ben grave unilateraLta. I
oiche la questione di stabilire che cosa s’intenda per parte originaria (pars
principalis), fu forzata a prendere la forma di un’alternativa, in quanto che
cioè gli uni denonimavano originarie quelle parti le quali, mentre
costituiscono la essenza della totalità, non sono piu a lor volta parti di una
parte (p. es„ nell’uomo, anima e corpo), e invece gli altri consideravano come
origmane quelle parti costitutive ultime, distrutte le quali viene distrutto il
tutto (p. es. la testa o il cuore) -»)• ma a questa maniera, in seguito al
realismo ontologico, adotandosi la prima soluzione, tutto questo punto di vista
della divisione rimaneva falsato, e surrettiziamente scambiato con il terreno
proprio della definizione, laddove, se »! adottava la seconda soluzione,
sconsideratamente « trasponeva la funzione subiettiva dell’intelletto urna“’ !•
q S ° la . Crea ÌJ COncetto di P«le, nella realtà ZTl ì C0MCeZ1One "«usa,
della quale già si era linoi ^ 9 ! “T m ° r ° 8CelÌniauo (Sez. precedente, note
321 s.). Mentre gli uni intendevano la divisione ab «finito come
obbiettivamente materiale, ed escludeno cosi dalla considerazione l’attività
formale [die gècundarias'^àrtès ZocaH^TnTat^alf 0 ’ ocrates. destructa ungula,
remanet Socrates et ila quod prius non erat Socrates, fìt Socrates. O,
similmente, ibid., p. 512: Haec.... sen-La teoria dello « status », come tentativo
di conciliazione: Gualtiero da Mortacne].
Se a questa maniera il realismo offriva in realtà molteplici documenti
di quella cattiva sorte, che nelle questioni di logica propriamente dette, deve
rimanere insepara. . Je da esso ’ non fa maraviglia che da vari lati si sieno
battute vie nuove per rendersi conto degli universali, r csidcrandosi co 8I di
sfuggire alle difficoltà del realiamo non meno che alla unilateralità del
nominalismo. mbra doversi interpetrare quale forma di passaggio prima di tutto
quella concezione, che potrebbe, dal suo termine tecnico caratteristico,
denominarsi «teoria e lo status »: e parimente sembra (cfr. la nota “ e *f a
813 8tata originata dalle obiezioni sorte contro le affermazioni di Guglielmo
da Champeaux. Se cioè la essenza universale del genere deve, per tutta quanta
la sua estensione, venire specializzata mediante lorme individuali (v. sopra la
nota 105), è difficile veder bene addentro, come stiano le cose, riguardo a
quelle «proprietà superaddite » (advenicntia), che, in seno a IimiT’ ° T Ìan °
° 80U0 S ° lamente P asse ggiere. Ora alctmi si appigliarmi qui all’espediente
di ammettere che ! universale e bensì modificato da siffatte qualità, ma non
tuttavia proprio in quanto è un universale: e una faeffe 1 ir e a arriVatÌ dn °
3 qUeSt ° P unto ’ 8i rendeva acile la effettiva trasformazione degli
miiversali, i quali dai realisti erano stati tenuti b, conto di cose (res) in
daT >: i CÌOè ° ra ne »a serie graduale che va dal genere all individuo, non
fu più tenuto conto del1 Universale, bensì dello .status universali*»: ima
concezione questa, che era così abbastanza facilmente suggerita dal motivo
usuale di ma Tabula logica, come anlentia medium digiti naturam unam esse
nonni, creaturam esse merito dubitat. Aut er J Zò, 'che poteva, dal canto suo,
trovare parimente appoggio in un passo di Boezio 129 ). Un rappresentante di
questo modo di vedere fu Gualtiero da Mortagne [de Mauretania] (insegnante a
Parigi al tempo di Abelardo, e morto, vescovo di Laon, nel 1174) : egli dedicò,
è vero, con preponderante ardore, la propria attività alle controversie
dommaticlie ), ma fece sentire, per incidenza, il suo influsso anche nel campo
della dialettica. Cercò cioè di conciliare la unità numerale deH’universale con
la connessione essenziale, in cui esso sta con le cose singole. > Ibid., p.
514 s.: Amplius sanitas et lunguor in corpore animahs fundalur; albedo et
nigredo simpliciter in corpore. (Juod si animai totum existens in Socrate
languore afficilur, et totum, quia quicquid suscipit. Iota sui quantitale
suscipit, eodem et momento nusquam est sine lang[u)ore; est autem in Platone
totum illud idem; ergo edam ibi languerel; sed ibi non languet. Idem de
albedine et nigredine circa corpus. Ad haec enim non rejugiant, ut dicani
etc.... Addurli: animai universale languet, sed non in quantum est universale.
L tinum se videant !... Si ad status se transfer ani, di centes I animai in
quantum est universale non languet in universali statu », respondcant, de quo
velint agere per has voces $ in stata universali ». Ma di questo concetto di «
status universalis » scorgeremo a buon diritto la fonte in Boezio, là dov’egli
dice, a proposito della qualità (ad Ar. praed. [I. 11IJ, p. 180 |PL, 64. 250J):
Nihil impedit, secundum aliam scilicet ulque aliam causam, unam eamdemque rem
gemino generi spedai suae supponere, ut Socrates in eo quod pater est, ad
aliquid dicitur, in eo quod homo, substantia est, sic in calore atque frigore,
in eo quod quis secundum ea videtur esse dispositus, in disposinone numerula
sunt, perchè quel rhc qui deride, è lu espressione « in eo quod » : e rosi pure
in un altro passo ancor più chiaro (ibid., p. 189 [PL, 64, 2611): Si secundum
aliam atque aliam rem duobus generibus eadem res.... supponutur, nihil
inconveniens cadit. Ita quoque et habitudines, in eo quod alicuius rei
habitudines sunt, in relutione ponuntur, in eo quod secundum eas quales aliqui
dicuntur, in quotitele numerantur. Quare nihil est inconveniens, unam atque
eamdem rem, secundum dnersas naturae suae potenlias (proprio questo son gli
universali),... pluribus adnumerare generibus. Le euc lettere (stampate nello
Spicil. del D’Achery, ed. De la Barre, Parigi, 1723, III, p. 520 ss.) sono
soltanto di contenuto dommatico, e non hanno menomamente rhe fare con la storia
della filosofia. [Ora è da vedere il trattato sopra la teoria della
indifferenza, attribuito a Gualtiero da Mortagne e pubblicato dall’Haurcau
(1892), poi dal Willner procedendo a questa maniera, vale a dire con il
distinguere nell’individuo, uno per uno, come status differenti, la
individualità, e il concetto della specie, e così pure il concetto del genere,
fino su su al sommo genere 1SI ). Comunque, sebbene ci manchino del tutto
notizie più precise sopra un tal modo di vedere, c’è questo di notevole in
esso, che cioè da un lato l’universale è raccostato alle cose singole, e
dall’altro lato, per quel tenere distinti i diversi « stati », la operazione
intellettuale subbiettiva si fa più avanti nel primo piano. Perciò neanche
appare indegna di fede quella notizia (v. sopra la nota 69), secondo la quale
sembra che taluni, dalla tesi nominalistica della « maneries » sieno passati
alla questione dello status (v. la nota 88). [§ 24. La teoria dell’iindifferenza. Ma la
evoluzione interna degli studi di logica ci conduce con ciò spontaneamente alla
teoria della indifferenza, la quale in particolare occupa ima posizione di
mediatrice tra le varie tendenze. A suo fondamento sta il principio, che una
medesima cosa è, nello stesso tempo, universale e singolare, nel senso non già
che si dia un universale essenzialmente inerente alle cose, bensì semplicemente
che in queste, in quanto sieno più cose e simili per natura, si presenti
alcunché, che esse hanno indifferenziatamente ( indiff&renter ) in comune;
per conseguenza, ciò che più cose hanno d’indifferente o intrinsecamente simile
(indifferens o consimile), è dunque indicato nella definizione come « genere »,
e, per l’universale così inteso, è salva la possibilità della predicazione
(praedicari de pluribus ), laddove il realismo ha sempre corso pericolo di
dover, di una cosa, predicare ima cosa (v. appr. la nota 287): e quest’ultimo
aspetto suhbiettivamente logico poteva ora caso mai venir pure M1 ) Il passo in
appoggio, vedilo più sopra, alla noia
unilo anche con il concetto di status, di modo die ciascuna cosa avrebbe
in sè uno « stato » d’individualità e nello stesso tempo uno « stato » di
universalità 132 ); ma si tratta nonpertanto di un punto di vista, tutto
diverso da quello di Gualtiero. Mentre là, cioè, si tiene ancor ferma la
esistenza delu ‘) Abael. Glossulae sup. l’orph., riferite dal Rémusat (v. le note
13 e 73), p. 99 s. : La seconde manière de soutenir l’universalilé des choses,
c’est de prétendre que la ménte chose est universelle et particulière; ce n’est
plus essentiellement, mais indifféremment que la chose commune est en
divers.... Ce qui est dans Platon et dans Socrate, c’est un indifférent, un
semblablc, « indifferens vel consimile ». Il est de certaines choses qui
conviennenl ou s’accordent entre elles, c esl-à-dire qui sont scmblables en
nature, par exemple en tanl que corps, en lant qu’animaux ; elles sont aitisi
universelles et particulières, universelles en ce qu’elles sont plusieurs en
conimunaulé d attributs essenliels, particulières, en ce que chacune est
disimele des autres. La définition du genre (« praedicari de piuribus »....) ne
s’applique alors aux choses qu’elle concerne qu’en tanl qu’elles sont
semblables, et non pus en lant qu’elles sont individuelles. Ainsi les mèmes
choses ont deux états, leur étal de genre, leur état d’individus, et, suivant
leur étal, elles comportenl ou ne comportenl pas une définition differente.
[Vedasi ora il testo originale, ediz. Geyer, p. 518: Sunt a lii in rebus
unii-er salitatela assignantes, qui eandem rem universalem et parlicularem esse
astruunl. Hi namque eandem rem in diversis in
differente r, non essentialiter inferioribus affirmunt. Veluti cum dicunt idem
esse in Socrate et Plutone, « idem » prò indifferenti, idest consimili,
intelligunt. Et cum dicunt idem de pluribus praedicari vel inesse aliquibus,
tale est, ac si aperte diceretur: quaedam in aliqua convenire natura, idest
similiu esse, ut in eo quod corpora sunt vel ammalia. Et iuxta hanc....
senlentium eandem rem universalem et particularem esse concedunt, diversis
tamen respeclibus; universalem quidem in eo quod cum pluribus communitutem
habet, particularem secundum hoc quod a ceteris rebus diversa est. Dicunt enim
singulas substunlius ita in propriae suae essentiae discretione diversas esse,
ut nullo modo haec substantia sii eadem cum illa, etiamsi substantiae materia
penitus formis carerei, quod tale secundum illos praedicari de pluribus, ac si
dicatur: aliquis status est, participatione ctiius multae sunt convenientes,
praedicari de uno solo, uc si dicatur: aliquis status est, parlici patione
cuius multae sunt non convenientes 1 . Se il Rémusat abbia effettivamente
trovato qui [come (v. s.) effettivamente ha trovato] nel manoscritto il termine
« status » cosi almeno sembra che
sia o se si tratti di un’aggiunta,
fondata solamente sopra il suo personale modo di vedere, io non lo so.
l’universale, e proprio a quest’ultimo vengono atmbu «stati» differenti, per i
sostenitori della tesi della indifferenza viene avanti in prima linea, con
tutto il suo rigore, la idea, appartenente al nominalismo (note 77 ».), vale a
dire che in generale null’altro esiste, all infuori dai soli individui, e
apprendendosi il pensiero a questi, come a’ suoi propri oggetti, gli universali
si generano soltanto per la diversità dell’apprendimento (aliter et aliter
attentum), sicché status o natura dell’essere individuo o dell’essere specie e
via dicendo, sono da considerare soltanto come modi di vedere soggettivi: e a
tal proposito è prima di tutto da considerare il carattere, per così dire,
negativo del procedimento che conduce dall’individuo all’universale, in quanto
che Ymtellectus gradualmente lascia da parte (non concipit), intenzionalmente
dimentica ( oblitus ), posterga e abbandona ( postponit, relinquit) le
differenze individuali, per prògredire nell’apprendimento dell’indifferenziato,
sino al grado supremo, cioè alla sostanza 1 ). Pertanto anche questo modo di
vedere, analogamente «*) De geli, et spec., p. 518: Nane itaque >Uam, quae
de indifferentia est. sententi,im perquiramus Cujus *«£«**£**£ JJJJ ninnino est
nraeter individuimi; sed et illud aliter et aliter atten tum specie* et genus
et genertdissimum est (ugualmente nel pas.o ' ùo già opra! nota 72). Itaque
Sacrate* in ea natura (m ponga mente al termine « natura », in luogo del quale
subno dopo « de Socrate, quod nota, idemj homo » -^CmfPponat ZioaagsH’S z zzi:
zzi::‘oli.. „ . .» «» bocr “ m quod notul « substantia », generulissimttm est.
agli altri, può richiamarsi a passi isolati di Boezio, quando si tratta di
affermare che l’individuo, considerato come individuo, non reca in sè nulla d
indifferenziato, ch’egli abbia in comune con altri individui, bensì, per così
dire, egli è la differenza stessa, laddove, quanto più si considera questo
medesimo individuo come specie o come genere, tanto in maggior numero si
scoprono in lui momenti indifferenziati comuni, e allora si abbraccia, come
concetto del genere o della specie, tutto quel che c’è di elemento comune 134 )
: cosicché con ciò, poiché infine ogni manifestarsi d’individui si può
prenderlo anche dal lato (status) del suo genere più universale, ci sono in
verità tanti generi universalissimi, quanti sono gl’individui: ora questi
generi supremi si raggruppano a lor volta in dieci classi (categorie), soltanto
mediante la considerazione di quel che d’indifferenziato hanno in comune, ma
d’altra parte tutt’insieme vengono a formare da capo una unità universalissima,
consistente m ) Ibid. : Socrates, in quantum est Socrutes, nidlum prorsus
indifferens habet, quod in alio inveniatur; sed in quantum est homo, plura
habet indifferentia, quae in Platone et in aliis inveniuntur. Nam et Plato similiter homo est,
ut Socrates, quamvis non sit idem homo essentialiter, qui est Socrates. Idem de animali et substantia. Ma per ricondurre
questo testo alla sua fonte, bastano i seguenti passi di Boezio, ad Porph. a se
trunsl., I, 11, p. 56 [ed. Brandt, p. 166; PL, 61, 85J : Cogitantur vero
univcrsalia, nihilque aliud species esse putanda est, nisi cogilatio collecta
ex individuorum, dissimilium numero, substantiali similitudine: genus vero
cogitano collecta ex spoderimi similitudine. Sed haec similitudo cum in
singularibus est, fit sensibilis: cum in universalibus, fit intelligibilis ;
inoltre ibid.. Ili, 9, p. 76 [ed. Brandt, p. 228; PL, 64, 111]: Individuorurn
quidem simililudinem species colligunl, specierum vero genera. Similitudo autem nihil est
aliud, nisi quaedam unitas qual itati s ; c ibid., TU, 11, p. 78 [ed. Brandt,
p. 235; PL, 64, 114]: ea enim sola dividuntur, quae pluribus communio sunt; his
enim unum quodque dividitur, quorum est commune, quorumque naturam ac
simililudinem continel. llla vero, in quibus commune dividitur, communi natura
parteciparti, proprietasque communis rei his, quibus communis est, convenit. Al vero individuorurn proprietas nulli communis est.
Qui cioè è abbastanza chiaramente preannunriato così il simile o commune, come
anche il colligere (nota 136). 17. C.
Pbantl, Storia della logica in Occidente, II.CARCO prantl ili ciò che son
proprio essi 1 elemento comune e indifferenziato 135 ). Nella stessa maniera si
configura poi anche la relazione predicativa, poiché, mentre l'individuo è
sempre soltanto il suo proprio predicato, quell’aspetto suo, che viene inteso
come specie o come genere, può recare con sè un riferimento reciproco ad altri
individui: cioè, p. es., Tesser uomo, di Socrate, è predicato (inhaeret) anche
per Platone, e viceversa: e questo esser genere, dell’individuo, è concetto
collettivo (colligitur), cosi per questo stesso individuo come anche per gli
altri della medesima specie 13 °) insomma il rapporto dell’universale e del
singolare si riduce a un « in quntum », e, non essendoci nè un puro universale
nè un puro individuale, dipende dalla diversità del punto di vista (diversus
respectus), che l’universale venga considerato come singplare, e il singolare
come universale 13T ). [Adelardo da Bath: intonazione platonica DA LUI DATA
ALLA TEORIA DELLA INDIFFERENZA]. Ora U5 ) Jbid., p. 519: Solvunt.... illi
dicentes: generalissima quidem infinita esse essenlialiter, sed per
indifferentiam decem tantum ; quot enim individua substanliae, tot et sunt
generulissimae substantiae. Omnia lamen illa generalissima generalissimum unum
dicuntur, quia indifferentia sunt. Socrates enim in eo quod est substantia,
indifjerens est cum qualibel substantia in eo statu, quod substantia est. ”“)
Ibid.: Sed et hi dicunt: Socrates in nullo slatti aliati inhaeret nisi sibi
essenlialiter; sed in statu hominis pluribus dicitur inhaerere, quia olii sibi
indifferentes inhaerent; eodem modo in statu animalis.... (p. 520) Dicunt ita:
Socrates, in quantum est homo, de se colligitur (si ponga mente a questa
espressione) et de Platone caelerisque; unumquodque individuimi, in quantum est
homo, de se colligitur. ls, > Ibid., p. 521: Itti tamen non quiescunt, sed
dicunt: nullum singulare, in quantum est singulare, est universale, et e
converso; et cum universale est, singulare est universale, et e converso. Ibid., p. 520: Negant hanc consequenliam € si
est universale, non est singulare». Nam imposilione suae sententiae habelur:
omne universale est singulare, et omne singulare est universale diversis
respcctibus. questa dottrina dell’ indifferenza viene tuttavia a sua volta ad
armonizzare infine con il principio « Singultire senti tur, universale intelligitur
», sicché le era dato di trovare un appoggio anche in Boezio (Sez. XII, nota
91), e comunque si poteva ammettere che per noi quaggiù, in questa valle di
lacrime, gli universali soltanto come individui hanno una esistenza
percettibile, mentre va riconosciuta a essi in verità una realtà intelligibile:
stando così le cose, anche i Platonici, particolarmente per via di quella
tendenza dell’ individuale a deviare all’insù, « lasciando » [relinquere] le
sue caratteristiche singolarità, potevano prender gusto alla teoria della
indifferenza, mentre nello stesso tempo gli Aristotelici erano inclini a por
mente in essa alla relazione scambievole tra universale e particolare, come
anche al conto in cui quella tiene la operazione suhbiettiva dell’intelletto
(di quest’ultimo modo di vedere troveremo un esempio appresso, note 432 s., in
imo scolaro di Abelardo). S’intende pertanto come Adelardo da Bat li, il quale
compose intorno al 1115 [tra il 1105 e il 1116] imo scritto De eodem et
diverso, che aveva per fondamento il platonismo 138 ), credesse di potere,
proprio con la dottrina della indifferenza, comporre il contrasto fra Platone e
Aristotele. Si lamenta Adelardo dell’aspro contrasto fra opposte tendenze, nel
campo della logica, come pure della mania d’innovazioni dominante al tempo suo
13,) ), ma è d’opinione che, lss ) V. sul conto suo maggiori particolari nelle
Recherches critiques dello Jourdain (2* ed. 1843, p. 26-7, 97-9 e 258-277),
dove si riproducono tradotti, di su un manoscritto parigino, notevoli frammenti
di questo libro. [Ma ora del trattato di Adelardo è stato pubblicato
integralmente il testo originale, a cura di H. Willner, nei Beitriige del
Baunikcr, IV, 1, Miinster, 1903, p. 3-34]. “”) Ibid., p. 262: L'un prétend
qu’on doit partir dcs choses sensibles, l'autre commence par les choses non
sensibles. Celui-là soutient que la Science n'est que dans les premières,
cclui-ci qu’elle est. hors des dernières; ils s’inquiètent aitisi mutuellement,
à fin qu’aucun d’eux ne s’altire la confiunce.... (p. 263) A qui donc faul-il con il venir bene in
chiaro di quel che concerne gli universali, si potrebbe appianare la contesa
140 ). Intorno ai concetti di specie e di genere, egli si esprime qui in
perfetto accordo con la teoria della indifferenza, anzi facendo pereino uso
quasi degli stessi termini (p. es. diversus respectus, oblivisci, non attendere
ecc.), sicché può ritenersi che il nostro informatore su citato [v. s. la nota
133] avesse sottocchio lo scritto di Adelardo, non essendoci altra variante, se
non che qui non è messo in campo il concetto di status, ed è forse dato un
certo maggior peso alla denominazione 141 ). Ma croire d'entre ceux qui
tourmenle.nl nos oreilles de leurs innovations journalières, qui cheque jour
naisscnt pour nous, nouveaux Aristotes et nouveaux Piatomi, qui prometterà
également et les choses qu’ils savent, et celles qu’ils ignorent? Ili testo originale, ediz. Willner, p. 6, suona così:
« Alius enim a sensibilibus invesligundas (se. res) esse censuil, alter ab
insensibilibus incepit; alius eus in sensibilibus tantum esse arguii, alter
praeter sensibilia etiam. esse divinavit. Sic dum uterque alterum inquietat,
neuter fidem adipiscitur.... (p. 7) Cui tandem eorum credendum est, qui
cotidianis novitatibus aures vexant.” Et assidue quidem etiam nunc cotidie
Platones, Aristoleles novi nobis nascuntur, qui aeque ea, quae nc sciant, ut et
ea, quae scianl, sine frontis iacluru promittant.... » |. M “> Ibid., p. 267: L’un
d’eux (cioè Platone e Aristotele), transporté par l’élévation de son esprit et
les uiles qu’il semble s’ètre créés par ses efforts, a entrepris de connuilre
les choses par les principes eux-mémes ; a esprime ce qu’ils élaient avant
qu’ils ne se reproduisissent dans les corps, et a definì les formes archétypes
des choses. L’autre, au conlraire, a commencè par les choses sensibles et
composées ; et puisqu’ils se rencontrent dans leur route, doit-on les dire
opposés? Si l’un a dit que la Science étuit hors des choses sensibles, et
l’autre, qu'elle était dans ces mémes choses, voici conimela il jaul les
interpréter. [Ed. Willner, p. 11: « Unus eorum merilis altitudine clatus
pennisque, quas sibi indui obnixe nisus, ab ipsis iniliis res cognoscere
aggressus est, et quid essent, antequam in corpora prodirent, expressit,
archelypas rerum formas, dum sihi loquilur, definiens. Alter autem.... a
sensibilibus et compositis orsus est. Dumque sibi eodem in itinere obviant,
contrarii dicendi non sunt.... Quod autem unus ea extra sensibilia, alter in
sensibilibus tantum existere dixit, sic accipiendum est. »1. «*) Delle parole ohe ora fanno immediatamente seguito
(p. 267-8 del Jourdain), FHauréau (De la philos. scol., I, p. 255 IHistoire de
la phil. scol.) riproduce il testo latino originale [che qui si riferisce
secondo la ediz. Willner] : Genus et species
de his enim senno est etiam rerum
subiectarum nomina sunt. fan poi seguito, secondo lo spirito del platonismo,
espressioni di lamento, perchè agli uomini runiversale si presenta oscurato
dalla indispensabile percezione sensibile, mentre gli universali, nella loro
pura semplicità, esistevano originariamente soltanto nel No0{ divino 11); e*a
questo si connette subito la strana affermazione, che proprio perciò hanno ragione
tutti due, così Aristotele, il quale ha trasportato gli universali in quella
sfera, cli’è la sola dove sieno a noi accessibili, come anche Platone, che li
confina là dov’essi hanno la vera loro realtà, che insomma entrambi, mentre
nella maniera di esprimersi sembra si contraddicano, nel merito si trovan
d’accordo 143 ). Per arrivare a questa conciliazione, AdeNam si res consideres,
eidem essentiae et generis et speciei et individui nomina imposita sunt, sed
respectu diverso. V olcntes etenim philosophi de rebus agere secundurn Itoc
quod sensibus subiectae sunt, secundurn quod a vocibus singularibus notantur et
numeraliter diversae sunt, individua vocarunt, se. Socratem, Platonem et
celeros. Eosdem autem altius intuente s, videlicet non secundurn quod
sensualiter diversi sunt, sed in eo quod notantur ab liac voce « homo »,
speciem vocavertuti. Eosdem item in hoc tantum, quod ab hac voce « animai »
notantur, considerantes genus vocaverunt. Nec tamen in consideratione speciali
jormas individuales tollunt, sed obliviscuntur, cum a speciali nomine non
ponantur, nec in generali speciales oblatas inielligunt, sed incsse non
attendunt, vocis genendis significatione contenti. Vox enim haec « animai » in
re illa notai substantiam cum animatione et sensibililate ; haec autem « homo »
totum illud et insuper cum ralionulitale et mortalitate: « Socrates » vero
illud idem addila insuper numerali accidentium discrelione [ed. Willner, :
Assueti enim rebus . cum speciem intueri nituntur, eisdem quodammodo
caliginibus implicantur nec ipsam simplicem notam.... contemplari nec [350] ad
simplicem specialis vocis positionem ascendere queunl. Inde quidam, cum de
universalibus ageretur, sursum inhians « Quis locum earum [se. vocimi] mihi
ostendet? », inquit. Adeo rationem imaginatio perturbai.... Sed id apud
mortales. Divinae enim menti.... praesto est muteriam sine formis et jormas
sine aliis, immo et omnia cum aliis.... distincte cognoscere. Nani et antequam
coniuncta essent, universa quae vide?in ipsa noy simplicia erant [ed. Willner,
p. 12]. lbid.: Nunc autem ad propositum redeamus. Quonium igitur illud idem,
quod vides, et genus et species et individuimi sit, merito ea Aristoteles non
nisi in sensibilibus esse proposuit. Sunt etenim ipsa sensibilia, quamvis
acutius considerata. Quoniam vero ea, inlardo non deve davvero essersi molto
stillato il cervello 144 ). [§ 26.
Gauslenus o Joscellinus da Soissons: sua idea del colligere ]. Un modo di vedere analogo al principio della
teoria della indifferenza, sebbene il metodo seguito fo9«e alquanto diverso,
potrebbe ravvisarsi nella opinione di Gauslenus o Joscelli¬ nus da Soissons
(dove fu vescovo dal 1125 [1122] al 1151), il quale ritiene cioè che gli
universali non si trovano già negl’individui presi per se stessi, bensì com¬
petono a questi, solamente in quanto l’individuale viene raccolto in una unità
(in unum collectis ) 145 ) ; poiché questa è ima tesi che sarebbe perfettamente
in armo¬ nia con il principio su riferito (nota 133), vale a dire che esistono
esclusivamente individui; soltanto che il formarsi degli universali nel
pensiero umano sarebbe ottenuto qui non già con mi lasciar da parte
[(re/inquere ) le differenze individuali], bensì fin da principio con un metter
assieme ( colligere ), del quale infine non poteva pur fare a meno neanche la
teoria della indiffe¬ renza (nota 136). Ma sopra la opinione di Gauslenus non
sappiamo assolutamente nulla di più preciso 14e ) : quantum dicuntur genera et
species, nemo sine imaginatione presse pureque intuetur (qua pertanto troviamo
veramente «li già la « ignota cosa in sé»), Plato extra sensibilia, scilicet in
niente divina, et concipi et existere dixit. Sic viri illi, licet verbis
contrarii videantur, re lamen idem senserunt [ed. Willner, p. 12], Tanto più
che poteva ben essergli accessibile, almeno attra¬ verso Agostino (de civ. Dei,
Vili, 6 f?j), il noto passo ciceroniano dello stesso tenore ( Acad. Prior., I,
6 Tv. anche ih., 41, relativa¬ mente ad Antioco [d'Ascalonal). Abbiamo veduto
più sopra (nota 66) come anche Bernardo da Chartres si sforzasse di conciliare
Pla¬ tone e Aristotele. ’“) Vedi la fonte più sopra, nota 68. “*) Poiché, se H.
Bitter, che sopra Gualtiero da Mortagne, Adelardo da Balli ecc. ci dà notizie,
in parte prive della necessaria precisione, in parte addirittura erronee, vuole
senz’altro riven¬ dicare a Gauslenus lo scritto De generibus et speciebas, per
indurci e mentre da un lato già molto
avanti abbiamo veduto (Sez. prec., nota 175) cbe anche il realista Ottone da
Cluny si serviva di una espressione analoga, e anzi an¬ che Giovanni da
Salisbury sembra riconoscere in Gaueleno un realista (il che tuttavia non ha
forse grande importanza: v. sopra le note 70 e 85), d’altro lato può darsi che
soltanto la separazione degli universali da¬ gl’individui singoli sia per noi
il principale motivo che c’induce a raccostare la tesi di Gausleno alla teoria
della indifferenza: e a conferma di ciò potrebbe fors’anche valere il fatto,
ch’egli ha promosso il passaggio alla teo¬ ria nominalistica della « mancries »
(v. sopra la nota 68). Allora avremmo qui una ripetizione di quel che fu già
affermato, a proposito dei primi inizi di una formazione di contrastanti
tendenze dalla parte dell’indirizzo nomi¬ nalistico liT )Lo scritto anonimo de
generibus et speciebus: punto di vista del suo autore: a) critiche ad altre
soluzioni del problema degli universali],
Ma se, relativamente agli universali, l’ordine al quale dobbiamo dar la
preferenza (v. sopra la p. 208), ci porta a prender in esame le vedute di
AEelardo, come pure di Gilbert de la Porrée e di Giovanni da Salisbury,
solamente qui appresso, in connessione cioè con la totalità della loro
dottrina, per il momento ci rimane da
conati ammettere quest’attribuzione non basterebbero le poche parole di quel
l'unica fonte che possediamo intorno a Gauslenus, neanche qualora esse fossero
in armonia con le vedute dell’autore dello scritto Do gen. et spec. Ma che un
tale accordo sia molto dubbio, può risultare da quanto dovremo ora subito dire,
a proposito di quello scritto anonimo [che invece oggi si tende ad attribuire
appunto a Gauslenus o a un discepolo di lui. Del Ritter v. la 3“ parte della
già cit. St. d. fil. cristiana, p. 381-6 (Allei, da Bath) e 397401 (Gualt. da
Mortagne)]. Cioè il Pseudo-Rabano (Sez. precedente, nota 153) e quel co,i detto
Jepa (ibid., nota 170) si sono espressi, intorno al concetto di genere, in
maniera affatto simile. CABLO PRANTL siderare un unico scrittore ancora, e
questi è l’autore sconosciuto dello scritto «De generibus et speciebus» liS ),
il quale ci mostrerà taluni punti di contatto o di affinità con parecchie delle
opinioni menzionate «inora. In origine il lavoro, nel suo complesso, si
presentava certo come ima monografia «De divisione » (cfr. le note 118-128),
assolutamente alla stessa maniera dello scritto omonimo di Abelardo (v.
appresso le note 277 e 353 ss.), e, come in principio del testo da noi
conservato si tratta ancora della questione delle parti originarie di ima
totalità, così anche qui l’Autore, altrettanto colto quanto acuto, ha poi preso
occasione, dalla discussione intorno alla divisione del genere, per intervenire
nella disputa intorno agli universali, e lumeggiando criticamente le opinioni
degli altri, e ancora esponendo le ragioni delle sue proprie vedute 149 ). Per
prima cosa combatte alla spiccia il nominalismo, con l’argomento che le parole
in generale non hanno un essere, poiché ciò che si genera soltanto per
successione temporale, non può costituire un tutto unitario: ima osservazione,
questa, che è volta appunto, per 14 “) Del libro, edito dal Cousin ( Ouvrages
inédits d'Abélard, p. 507-550) di su un manoscritto di St. Gerniain, manca il
principio; e il titolo, che è invenzione dello «tesso Cousin, si può forse
continuare a adottarlo, ma certamente fatta eccezione per l’aggiunta «Petti
Abelardi » ; poiché, che nel suo complesso non sia un’opera di Abelardo (v.
sopra la nota 49), se ne sarebbe dovuto accorgere anche il Cousin; la cosa
appare manifesta non soltanto da particolarità stilistiche (p. es. Fespressioni
« Attende » o « Solutio », intercalate dove si tratta di risolvere obiezioni, o
ancora, il caratteristico termine « rationabile ingenium », clic l’Autore
mostra di prediligere, ecc.), ma anche da intrinseche divergenze che modificano
la teoria stessa, e si acuiscono persino in forma polemica. Sopra questo punto,
a scanso di ripetizioni, mi limito a rinviare alle note seguenti, 150, 167,
168, e particolarmente 171, dove si vedrà addirittura designata come « ridicola
» una opinione che è di Abelardo. ’*) Con lo studio accurato di questo scritto,
potrebbero forse venir meno del tutto le censure enunciate a suo carico da H.
Rrr- ter (VII, p. 363), che lo giudica malcostrutto e oscuro. quanto in essa si
attiene alla funzione del pensiero nel giudizio, anche contro le idee di
Abelardo (v. appresso la nota 315) 15 °); ma poi la relazione tra materia e
forma, dominante nel passaggio dal genere alla specie, neanche sarebbe già
assolutamente possibile esprimerla con parole, poiché mai ima parola è materia
di un altra parola 151 ). D’altra parte, l’Autore combatte anche il realismo di
Guglielmo da Champeaux, poiché se l’universale, in tutto quanto il suo
contenuto, viene individualizzato nell’individuo (nota 105), non soltanto
questo medesimo contenuto dovrebbe pur trovarsi da capo nello stesso tempo
tutto quanto in un altro individuo 152 ), ma dovrebbero altresì spettare a tutti
gl’individui anche le proprietà varianti o transitorie 153 ), e nioltre nel
concetto del genere si troverebbero poi simultaneamente anche gli opposti 154
). E ugualmente egli assume più oltre un atteggiamento m ) Cousin, loc. cit.,
p. 523: ltem voces nec genera sunt nec species nec universales nec singulares
nec praedicatae nec subjectae, quia omnino non sunt. Nani ex his, quae per
successionem fiunt, nullum omnino totum constare, ipsi qui hanc sententiam
tenent, nobiscum credunt. Quemadmodum statua constai ex aere materia, forma
autem figura, sic species ex genere materia, forma au- tem differentia (v. la
nota 160 s.), quod assignare in vocibus impossibile est. Nam cum animul genus
sit hominis, vox vocis nullo modo est altera alterius materia. m ) p. 514: Quod
si ita est, quis polest solvere, quin Socrates eodem tempore Romae sii et
Athenis? Ubi enim Socrates
est, et homo universalis ibi est, secundum totani suam quantitatem infor- matus
Socratitate.... Si ergo res universalis, tota Socratitate affecta, eodem
tempore et Romae est in Plutone tota, impossibile est, quin ibi etiam eodem
tempore sii Socratitas, quae totani Ulani essentiam conlinebat. Ubicumque autem
Socratitas est in homine, ibi Socrates est: Socrates enim homo Socraticus est. Ibid. Il passo si trova citato già più sopra, n. 129.
”*) p. 515: Quam statim enim rationalitas illam naluram tangit, se. animai, tam
statim species efficitur, et in ea rationalitas fundatur. llla ergo totum
informat animai.... Sed eodem modo irrationalilas totum animai informat eodem
tempore. Ita duo opposita sunt in eodem secundum idem. polemico contro la
teoria della indifferenza, cosi attaccandola nel suo principio, cioè in quel
tale concetto del « comune » (nota 134) 155 ), come anche contraddicendo sia la
opinione, che i sostenitori di quella teoria professano, relativamente al
concetto collettivo (collidere, nota 136) 15 “), sia del pari la conseguenza,
che si ricava, e che consiste nelTobliterarsi della differenza tra universale e
particolare 157 ). [b) soluzione da lui stesso proposta ]. La sua propria opinione traspare già, in
primo luogo, dov’egli tratta della divisione all’infinito (note 126 s.), e
riconosce che una totalità può ancora continuar a sussistere, quand’anche una
sua parte perda la propria forma e subisca, quanto alla materia, ima
diminuzione 158 ), e cosi pure
particolarmente, in secondo luogo, dov’egli esprime la idea, che due punti non
vengono ancora a formare una linea, se non c’è la cooperazione di una energia
creatrice unitaria (una creatura ) 15B ). Anche nella p. 519: Ncque enim
Socrnles aliquam naturarti, quarti habeat, fiatoni communicut, quia neque homo
qui Socrales est neque animai, in aliquo extra Socratem est. !M ) p. 520: Socrates.... lumen
nullo modo de pluribus colligitur, quia in pluribus non est. Già questo dovrebbe renderci circospetti, nell
attribuzione di tale scritto a Gausleno: ma v. appresso la nota 162. 15t ) P521: Al vero nec
particuluritas nec universalitas in se transenni. Namque universalitas potest
praedicari de particularitate, ut animai de Socrate vel Platone, et
particularitas suscipit praedicalionem universalitatis ; sed non ut
universalitas sit particularitas, nec quod particolare est, universalitas fiat.
[Queste parole fan parte di una eitaz. da
Boezio, ad Ar. Praed., I, p. 120; PL, 64, 170]. P510: Non sequitur « si hic
asser est, et medietas hujus asseris est»; posset enim destrui medietas,....
non quanlum ad totani ejus massam, sed quanlum ad formam, et tamen remanentibus
ejus aliquibus particulis non destrueretur hic asser, quoniam medietatis ejus
materia, forma tantum pereunte, tota non periret. P511 : Si quuelibet duo
puncta proxime juncla faciunt bìpunctalem lineam, quue sit una creatura, tunc
habebit unum fundamentum; sed una atomits non erit ejus fundamentum; jam polemica contro un emendamento [proposto per
sfuggire alle difficoltà] del realismo, egli risolutamente si attiene alla
similitudine derivata da Porfirio (Sez. XI, nota 44), e indi passata nelle
teorie di Boezio (Sez. xn, nota 97) : la similitudine, cioè, dell’opera d’arte,
sicché per lui il genere è la materia e la differenza è la forma, ma il
prodotto stesso, cioè la specie, nella quale la materia è il sostrato della
forma (formarti sustinet ), viene considerato come una unione permanente, e
designato anche con il termine « materiatum » 160 ) ; in luogo di questo
termine, d’altro canto, trovasi pure, ferma restando rigorosamente la idea di
parte, la caratteristica espressione « diffinitivum totum » J01 ). Ma un più
preciso fondamento a questa sua opinione egli lo dà nella maniera seguente:
Nell’individuo una certa «essentia», cli’è la materia, porta in sè ( sustinet )
la forma della individualità, ed è composta con essa, dal che appunto si genera
la diversità degl’individui singoli; ora, proprio questa essenza, in quanto la
si trova non soltanto in uno o nell’altro individuo, ma nello stesso tempo
anche, come materia, in tutti quanti insieme, è la specie, la quale pertanto,
per molte che sieno le essenze singole ( essenrìaliter multa), viene tuttavia designata
come concetto collettivo ( collectio) con le enim esset bipunctaliter
linentum.... p. 513 : postarlius dicere quod ipsa bipunctaìis linea fundutur in
illis duabus alomis ut in subjeclis, non in subjecto. ’*’) p. 516: Sed dico:
facta est species ex genere et substanliali differentia, et sicut in statua aes
est materia, forma autem figura, similiter genus est materia speciei, forma
autem differentia. Materia est, quae suscipit formam. Ita genus in ipsa specie
constituta formimi sustinet. Nani et postquum constituta est, ex materia et
forma constai, i. e. ex genere et differentia.... p. 517: ontne materiatum
sufficienter constituitur ex sua materia et forma. ’") p. 522: Speciem ex
genere et substanliali differentia constare, ut statua ex aere et figura, alidore
Porphyrio (in Boezio, ad Porph. a se trinisi., IV, 11, p. 88 fed. Brandt, p. 268; PL]), constat.
Itaque pars est speciei materia et similiter differentia. Ipsa vero species est totum diffinitivum eorum.
parole « un universale », ovvero « una natura », press a poco come anche il
concetto di «popolo» abbraccia molti individui 162 ); non già viene cioè
individualizzata in ciascun individuo singolo la specie tutta quanta, bensì
solamente una sua parte, cioè appunto una sola siffatta essenza, la quale non è
già identica alla totalità che costituisce la specie (concollectio), ma ha con
essa in comune soltanto la simile composizione o la simile energia creatrice
(similis compositio, similis creatio ): onde neanche la similitudine con il
popolo o con un esercicito calza perfettamente, sussistendo tra l’essenze
smgole e la loro totalità, data quella somiglianza nella produzione, una
maggiore identità di essenza che non tra un soldato e l’esercito; tutta questa
relazione si presta invece meglio a esser paragonata con il caso di una massa
di metallo piuttosto grande, la quale in una delle sue parti può esser lavorata
in forma di coltello, e nello stesso tempo, in un’altra sua parte, in forma di
stile. Quid nobis polius lenendum rideatur de his, Deo annuente, amodo
ostendemus. Unumquodque individuimi . ex materia et forma compositum est, ut
Socrates ex homine materia et Socratitate forma; sic Plato ex simili materia,
se. homine, et forma diversa, se. Platonitale, componitur; sic et singuli
homines. Et sicut Socratilas, quae formaliler constituit Socratem, nusquam est
extra Socralem, sic illa hominis essentia, quae Socralitatem sustinet in
Socrate, nusquam est nisi in Socrate. Ita de singulis. Speciem igitur dico esse
non illam esscntiam hominis solum, quae est in Socrate, vel quae est in aliquo
alio individuorum, sed tolam illam collectionem ex singulis tdiis [5251 hujus
naturae conjunc.tam. Quae tota colleclio, quamvis essentialiter multa sit, ab
auctoritatibus (cioè da Porfirio e Boezio) tamen una species, unum universale,
una natura appellarne, sicut populus (v. la Sez. precedente, nota 153), quamvis
ex multis personis collectus sit, unus dicitur. Speciem esse dicimus
multitudinem essentiarum inter se similium. ut hominem.... lllud tantum
humanitatis informatur Socratitate. quod in Socrate est. Ipsum autem species
non est, sed illud quod ex ipsa et caeteris similibus essentns conficttur.
Attende. Materia est omnis species sui individui et ejus formam suscipit, non
ita scilicet, quod singulae essentiae illius speciei informentur illa forma sed
una tantum, quae tamen.... similis est compositioms, prorsùs cum omnibus aliis
ejusdem naturae essenliis.... Neque....
diversum judicaverunt [se. auctores] unam essenJiam illius con[Ora questa
medesima relazioue si ripete per il concetto di genere, essendo ciascuna delle
esscntiae, appartenenti alla totalità di una specie, composta a sua volta di
una materia e di una forma, con questa sola differenza, che cioè la forma qui
non è più esclusivamente quella sola della individualità, ma involge essa
medesima in sè la pluralità delle differenze specifiche, cioè sostanziali; ma
quella materia come tale appare indifferenziata ( indifferens ) in quelle
essenze singole, che, come materia, stanno a fondamento della formazione della
specie, e si chiama ora genere la multitudo dell’essenze, che possono far da
sostrato (sustinere, recipere) alle differenze specifiche 164 ). E lo stesso
può infine ripetersi anche relativamenteal « primo principio », perchè le
essentiae appartenenti a un genere, consistono a lor volta di materia e forma,
e sono, quanto alla materia, parimente indifferenziate colleclionis a tota
collectione, sed idem, non quod hoc esset illud, sed quia similis creationis in
materia et forma hoc eral cum ilio.... Massam aliquam ferream, de qua fuciendi
suiti cultellus et Stylus, videntes, dicimus: hoc fulurum materia cultelli et
styli, cum tàmen nunquam tota suscipiut formam alterulrius, sed pars styli,
pars cultelli.... (p. 527) Major.... identitas alicujus essentiae illius collectionis
ad totum, quarti alicujus personue ad cxercitum; illud enim idem est cum suo
tato, hoc vero diversum. Inoltre p. 535:
Hoc enim habet nostra sententia, quod animai illud genus in parte sui suscipit
rationalilalem et in parte irrationalitalem. 1M ) p. 525 : Item unaquaeque
essentia hujus collectionis, quae humanitas appellalur, ex muteria et forma
constai, se. ex animali materia, forma autem non una, sed pluribus,
rationalitate et mortalitate et bipedalitate, et si quae sunt ei aliue
substantiales. Et sicut de homine
dictum est, se. quod illud hominis, quod sustinet Socrutitalem, illud
essentialiter non sustinet Platonitatem, ita de animali. Nam illud animai, quod
formas [Cousin corregge: formami huma. nilatis, quae in me est, sustinet, illud
essentialiter alibi non est, sed illi indifferens est in singulis materiis
singulorum individuorum animalis. Hanc itaque mullitudincm essentiarum
animalis, quae singularum specierum animalis formas sustinet, genus appellandum
esse dico: quae in hoc diversa est ab illa multitudine, quae speciem facit.
Illa enim ex solis illis essentiis, quae individuorum formas sustinent,
collecta est; ista vero, quae genus est, ex his, [quae] diversurum specierum
substantiales differentias recipiunt. C
(indiff erentes ), mentre recano in sè, come loro forma, le differenze del
genere, e così ancor una volta si arriva a una multiludo di essenze, come al
generalissimum, del quale infine può ancora dirsi soltanto, che la sua materia
è la « mera essentia » o la sostanza stessa, mentre la sua forma è la
susceptibilitas contrariorum 165 ). Così l’Autore, con il suo caratteristico
potenziamento o incastramenti della essenza, si accosta tuttavia ancora molto
dappresso a Guglielmo da Cliampeaux; pertanto non si può in verità dire di lui
che, come Gauelenus, abbia staccato l’universale dalPiudividilo (v. le note 145
s.), ma nello stesso tempo, mediante i concetti di collectio e d’indifferens,
egli viene a contatto con la teoria della indifferenza, mentre quei concetti
stessi, hanno certamente per lui, in grado di gran lunga maggiore, una validità
obbiettiva. [c) dottrina del giudizio ]. Ma tanto più caratteristica è perciò
la forma che deve qui assumere la concezione della funzione logica subbiettiva,
cioè del giudicare, nei riguardi degli universali, mentre d’altra parte,
soltanto con la enunciazione del modo di vedere dell’Au’*) Ibid.: Item, ut
usque ad primum principium perducalur, sciendum est, quod singulae essentiae
illius multitudinis, quue animai genus dicitur, ex materia aliqua essendo corporis
et formis substantialibus, animatione et sensibililale, constat, quae, sicut de
animali diclum est, nusquam alibi essentialiler sunt; sed illae indifferentes
jormas susdnent omnium specierum corporis. Et haec taliurn corporis essentiarum
multiludo genus dicitur illius naturae, quam ex moltitudine essentiarum
animalis confectam diximus. Et singulae corporis, quod genus est, essentiae ex
materia, se. aliqua essentia substandae, et forma, corporeitate Constant. Quibus indifferentes essentiae incorporeitalem, quae
forma est, species, sustinent ; et illa taliurn essentiarum multiludo
substantia generalissimum dicitur, quae tamen nondum est simplex, sed ex
materia mera essentia, ut ita [526] dicam, et susceptìbilitate contrariorum
forma constattore sopra questo punto, le idee di lui trovano la loro
esplicazione compiuta. Egli si lamenta della mancanza di una definizione della
relazione predicativa; poiché intenderla senz’altro come inerenza obbiettiva, è
un uso non giustificato, a prescinder dal fatto che la inerenza stessa la si
può prendere soltanto nel senso sumdicato di divisione: e come ci si deve
guardare dalle conseguenze della teoria della indifferenza, è in generale da
respingere la identificazione di praedicari e di esse, dal punto di vista del
contenuto definitorio della specie: mia osservazione, questa, che certamente è
rivolta contro Abelardo (v. appresso la nota 318), e più che mai assume il
carattere di una espressione specificamente polemica, allorquando, prendendosi
posizione, come non si può disconoscere, contro una teoria di Abelardo
(relativamente ai « sumpta»: v. appresso la nota 321), si afferma che tutte
quante le denominazioni universali, sieno aggettivi eieno sostantivi, si
riferiscono indirettamente a forme obbiettive 166 ). Insomma, il giudizio ) p.
526: Audi et attende; praedicari quidem inhaerere diclini. Usus quidem hoc
habet; sed ex auctoritate non imeni con cedo tamen; inhaerere autem dico
humanitatem Socrati, non quod tota consumatiliin Socrate, sed una tantum ejus
pars Socratitate mformatur (v. la nota 163). p. 531: Nasse debes quod nusquam,
quid sii praedicari, piane dicit auctoritas. Nani quod solet dici quod
praedicari est inhaerere, usus est ex nulla auctoritate procedens., p ; 21 '
ltem «pec'es in quid praedicatur de individuo (quest abbreviazione «praedicari
in quid» la incontriamo qui per la prima volta efr. la nota 282: cioè nella
traduzione di Boezio [in p. 527 8.: Sed,
dicuril^.. « ralionale » alterius nomen est, prò impositione scilicet animalis,
et aliud est quod principaliter significai, se. rationalitas, quam praedicat et
subjicit; t homo non asserisce mai che quel dato soggetto e quel dato
predicato, bensì asserisce solamente che il soggetto va annoverato fra quell’
essenze, che o son costituite da una determinata materia, o sottostanno a una
determinata forma 168 )! pertanto (e ad avvalorar le sue parole 1 Autore può
persino richiamarsi qui a un passo isolato di Boezio) il nome che significa una
specie, viene dato appunto soltanto ai rispettivi individui singoli, ma non mai
alla specie stessa 170 ); e per tal riguardo si distinguono i sostantivi e gli
aggettivi, in quanto che quelli si riferiscono alla materia e questi alla
forma, sicché chi parlasse di un accidentale, cioè di un « adiacens » ma è proprio ancora Abelardo che fa così : v.
appresso le note 283 s. , commetterebbe il più grande degli errori m ) ; ma se
così stanno le cose per quel che concerne il significato originario dei
termini, modi di dire, come p. es. « Uomo è un concetto di specie », sono
soltanto espressioni traslate, imposte dalla necessità 17 ). vero nihil aliud
vel nominai vel significai, quam illam speciem. Absit hoc; imo, sicut «
Tallonale » et « homo», sic et quodlibet aliud universale substantivum alterius
nomen est, per impositionem quidem ejus, quod principaliter significai. V. g.:
rationale vel album imposi timi luit Socrati vel alicui sensilium ad nommundum
propler formas, i. e. rationalitalem et albedmem, quas principaliter
significant. . . . ’*) p. 528 : Itaque cimi dicitur « Socrates est homo », lue
est sensus «Socrates est unus de materialiter constitulis ab homine».... Sicut
cum dicitur « Socrates est ralionalis », non iste est sensus « res subjecta est
res praedicata », seti « Socrates est unus de subjectis huic jormae, qvae est
rationalitas ». ... "») Ibid.: Quod aulem « homo » impositum sit lus, quae
materialiter consliluiinlur ab homine, i. e. individuis, et non speciei, dicit
Boethius, in commentario super Calegonas, his verbis etc. (v. BOEZIO liti ir.
praed.. II. p. 129); cfr. la Se-/., precedente, nota 121. m ) Ibid.: Nomina
illa tantum dicunlur substantiva, quae imponuntur ad nominandum aliquem propter
ejus malenam.... vel.... expressam essentiam .; adjectiva
vero Ma dicuntur, quae,mponuntur alicui propler formam, quam principaliter
significai.... I\a quod dici solet, adjectivum esse, quod significai accidens,
secundum quod adjacet, et substantivum, quod significai essentiam, ut
essentiam, ridiculum est vel sine inlellectu. '”) p. 529: Sciendum est ergo:
vocabula, quae imposita sunl [d)
propensione al platonismo ]. Già da ciò
è manifesto che l’Autore (in antitesi con Abelardo) disconosce il valore
effettivo della sintesi che ha luogo nel giudizio, e, secondo lo spirito del
platonismo, isola le parole tutte quante, come imagini subbiettive di esemplari
obbiettivi: pensiero che non potrebb’enunciarsi con maggior chiarezza di quel
ch’egli stesso fa, quando p. es. dice : « razionale » non è il nome di ciò che,
come soggetto, sottostà al predicato della razionalità, bensi è il nome di una
entità, che vien costituita dalla « razionalità » 17S ) ; anzi, a questa
maniera, bisogna ch’egli concepisca il rapporto predicativo in guisa così
indeterminatamente generica, ch’esso si trovi in generale a coincidere con il
prodursi del termine « significante », ed essendo quest’ultimo momento, per il
soggetto e per il predicato, il medesimo, la differenza tra uno e l’altro si
riduce a essere puramente esteriore e accidentale; ma, a tal proposito,
l’Autore si appoggia a un passo di Prisciano, dove, in base alla terminologia
generalmente adottata dagli Stoici (v. la Sez. VI, note 112 ss.), le particelle
vengono denominate « syncategoreumata », dal che si può argomentare che allora
tutte le altre parole sono appunto categoreumata, cioè predicati 174 ). rebus
propter aliud significandum principaliter circa eas, quandoque transjerunlUT ad
agendum de principali signi ficatione ; ut cum.... translative .... dicilur «
rationale est differentia » et « album est species coloris i, nihil aliud
intclligo quam « ralionalitas » et « albedo ». Sic.... cum dicilur « homo est
species ».... Concedimus itaque, hanc translationem necessitate fieri. *”) p.
547: Rationale enim non est nomen subjecti rationalitatis, sed rei quae a
rulionalitale constiluitur, quae non est ipsum animai. m ) p. 531: Mihi autem
videlur, quod praedicari est principaliter signi ficari per vocem praedicatam;
subjici vero, significavi principaliter per vocem subjectam, et hoc quodammodo
videor habere a Prisciano, quod in tractatu orulionis, unte nomen (cioè nel
capitolo che precede la trattazione del Nomen), dicit praepositiones et
conjunetiones « syncategoreumata », i. e. consignificantia. Scimus autem « syn
» apud graecos « cum » praepositionem [532] significare, « categorare » autem «
praedicuri » ; unde « categoriae » « prne1S.
Questi syncategoreumaia die, presi dalla
grainma. tica, son qui messi in campo di passata, e che noi in questa Sezione
incontreremo ancora qualche volta, esercitarono più tardi, a partire da Psello
(Sez. seguente, note 9 e 92) e da Pietro Ispano (Sez. XVII, nota 256), un
influsso estremamente esteso: ma questo è im argomento che, com’è ben naturale,
dobbiamo riserbare al seguito della presente esposizione. Invece la conseguenza
che da ciò ricava qui il nostro anonimo Autore, conduce a un platonismo, che
deve farci ricordare da vicino lo Scoto Eriugena. Se cioè « praedicari », a
questa maniera, è la stessa cosa che « significari principaliter », la funzione
dell’intelletto umano trapassa in quelle forme e maniere di essere obbiettive,
che stanno a fondamento degl’individui, poiché il concetto si genera
(intellectus consti tuitur, generante) per mezzo della parola, in vista
dell’universale obbiettivo 1 ”), e anche la inerenza, se con essa si vuole,
secondo l’abitudme tradizionale, identibeare la relazione predicativa, ha
tuttavia appunto esclusivamente mi valore obbiettivo nel processo del divenire
delle cose ”•). Insomma si tratta soltanto delle irifcantLl d,"" ur S
.' td . em est «eategoreumata» quoti «sifótér» Til n d0m p « praedicari » quoti
« significar, principavol i, S41 s „,n SCUN ',°> II, 15 [ed. Hertz, voi I p.
54] suona così: Partes ignur orationis sunt secundum dudecticos dune, uomo,, et
verbum, quia hae solae eliam per Te coniunctae plenum facium ortUionem, alias
attieni partes « syncategoremata », hoc est consignificantia, appellabant).
WiJJV i" 1 erl * « praedicari. » quoti « si.gnificari principali ’ q i SO
r‘ m s, Z m J ìc ationem recepit Aristoteles, juxta iUud albani mi significai,
msi qualilatem (Cai., 5: v. la Sezione IV nota 476; cosi si storceva qualsiasi
testo a favore del proprio perso’ " • m °'!° dl V e dere) : n Cu m enim
album «subjectum albedinis » nominando significa, illuni solam significationem
notaviI. Aristole- les m qua mtellectus constituitur per vocem.... Sicut ensis
et g/a- diuseumdem generant mlcllcelum, ita ilio duo nomina jacerent. ) p.
53.1: Quod si «praedicari» quidem prò « inhaerere » ac- liPl ì q “° d ?* c °
ncedl ™us, ncque enim bonum usimi abo- e lolumus sic dicendum est: omms natura,
quae pluribus inolierei indivulins materuiliter, species est. nature »
unitarie, che stanno a fondamento delle cose: e, quando il concetto di natura
viene ridotto alla similis creatio (v. sopra la nota 163) o rispettivamente,
per mantener la separazione da altre formazioni, alla dissimilis creatio m ), a
ciò si connette una teoria platonico-mistica della Creazione, la quale qui non
c’interessa 17S ). Ma è da considerare, a questo proposito, che, da un lato,
secondo è stato detto più sopra, vien a essere posta massimamente in rilievo,
per la predicazione, la distinzione tra essentia materialis ed essendo forma-
lis 17 °), come pure, dall’altro lato, che nel rispetto ontologico viene
attribuita una efficienza alla forma soltanto 1S0 ) ; per tali ragioni va
combattuta quella opinione la quale del
resto appartiene del pari ad Abelardo (v. appresso la nota 306) secondo la quale il sommo genere ( genus
generalissimom) sarebbe la materia stessa, e pertanto le forme sarebbero le sue
specie prossime 181 ); OT ) 1 Ititi. : Hic aulem tantum agitur de naturis. Si
uutem quae- ras, quid appellem naturimi, exaudi: naturam dico, quicquid
dissimilis crealionis est ab omnibus, quae non sunt vel illud vel de ilio, sive
una essentia sii sive plures, ut Socrutes dissimilis crea- tionis ab omnibus,
quae non sunt Socrates. Similiter et homo spe- cies est dissimilis creationis ab omnibus rebus,
quae non sunt illa species vel aliqua essentia illius speciei. Anche la obiezione relativa alla f enice, la quale
esiste soltanto in esemplare unico (v. la Sez. XII, nota 87), viene presa in
ronsiderazionc, ma la si rimuove, con la osservazione che la opposizione tra
materia e materiatum (v. sopra la nota 160) dev’essere tuttavia mantenuta nella
sua universalità. ™> p. 538-540. *'") P- 548 s. : Concedo,
rationulilatem praedicari de homine in substantia, ut animai, sed illud ut
formalem essenliam, aliud [Cou- sin corregge: animali vero ut materialem. Vere
attieni assero, imi- Inni simpUcem jormam de alio praedicari substanlialiter,
quam de his, quae formaliter constiluit. P- 549: Non est diversus effectus
materiarum, imo forma- rum.... Apparvi, quod ille effectus sequitur formas, et non maleriam.
m ) p. 546: .... ne concedere cogamur, et muteriam substantiae generalissimum
esse genus, et susceptibilitatem contrariorum, et quaslibet simpliccs formas
esse species.... Respondendum est, quod in diffinitione
generis intelligcndum est, id quod genus est debere 276 e questo perchè, come
s’è veduto (nota 165), già nel sommo genere stesso l’Autore ravvisa un prodotto
di materia e forma, e perciò per queU’ultima materia suprema, cioè per la «
mera essenza », altro predicato non gli rimane all’infuori dal puro essere,
vale a dire « est » 182 ) ; precisamente alla stessa maniera che anche (v. la
nota 170) quella essenza, la quale, come materia, sta a fondamento
degl’individui, non ha di già essa stessa un nome che sia dato a lei quale
predicalo, perchè invece mi tale nome collettivo viene predicato solamente dei
rispettivi individui 183 ). Ma quest’ultima considerazione viene ora estesa
anche alle forme, cioè alle differenze specifiche; in un lungo dibattito,
d’intonazione polemica estremamente accentuata, contro la tesi usuale (Sez. XI,
nota 44, e Sez. XII, nota 87), si dimostra cioè la impossibilità che la
differenza specifica venga a cadere sotto la categoria della qualità, perchè
allora la qualità dovrebbe scomporsi in due specie supreme, ciò sono la differenza
e la qualità residua, ma ciascuna di esse a sua volta potreb- b’essere
costituita solamente mediante mia differenza specifica, e quest’ultima d’altra
parte dovrebbe pure venir a cadere parimenti sotto la categoria delle qualità,
il che non le è possibile in nessuna maniera, cioè nè come genere nè come
specie o sottospecie; e così anche, nemmeno in un’altra categoria ci può essere
poi ima dif- praedicari de pluribus speciebus proxime sibi supposids, quod,
quia deest illi maleriae [Cousin corregge: materia], idcirco non est genus. *)
Ibid.: Possumus edam dicere, quia illa mera essendo ad interrogadonem factum
per quid convenienler non respondetur.... Si ergo quaeritur «quid est [547]
substantia », respondeamus «est». Neque enirn potest responderi per nomen « sub
stantia »; namque non est nomen nisi materialorum a substantia, vel ipsiits
substan- dae. Per transladonem supervacue responderi manifestum est. “’) p-
534: Opponetur: illa essendo hominis, quae in me est, aliquid est aut nihil....
Respondemus, tali essentiae nullum nomen esse dalum, nec per imposidonem nec
per transladonem.ferenza specifica, poiché ciascuna specie della qualità (e a
queste la differenza stessa dovrebbe ben appartenere) potrebb’essere soltanto
una differenza specifica nell’àmbito della qualità stessa 18, II, p. 98; PL,
199, 640]: Sunt autem dubitubilia sapienti quae.... suis m ulramque parlem
nituntur firmamenti. Talia.... sunt, quae quaerunlur.... de materia et motu et
principiis corporum. de progressu multttudims et magnitudini sectione an
terminos omnino non habeanl (v. sopra le noie 125 ss.). de tempore et loco de
numero et mattone, de codoni et diverso, in quo plurima attrilio est, de
dividilo et individuo, de substanlia et forma vocis, de statu universalium, de
usu et fine orluque virlulum eie. logica, la tendenza propria di quell’epoca;
con ciò diremmo di poter in pari tempo rendere compiuta la conoscenza del
terreno, sul quale si esercita la operosità tal proposito, anzitutto le
Categorie, di fronte alle quali alcuni che ne hanno trattato, hanno assunto
invero di Abelardo. [a) sopra le Categorie].
Per quel che riguarda, a un atteggiamento svalutativo 18 “), già quei
concetti preliminari di aequivocum ÆQVIVOCVM GRICE, univocum e denominativum
(v. sopra la nota 93) hanno dato motivo a discrepanze ™°). Ma poi la
contrapposizione di sostanza e accidente (Sez. XII, nota 90) fu da taluni
contestata, da altri invece o giustificata, limitatamente alle cose naturali
concrete, o riferita alla mera relazione predicativa (cfr. la nota 186), o
anche, con uno scambio tra forma e accidente, trasportata nel concetto di
totalità costituita da parti m ). *'"l Lo stesso, Metal., IV, 2-1 ( Opp .,
V), p. 181 [ed. Velili, p. 191J: Alti detrattimi Catliegoriis IPL, 199, 930J.
*) lbid-, III, 2, p. 120 [ed. Wehb, p. 124; PL, 199, 893]: Ex opinione plurima
idem principtditer significala denominativa et ca a quibus denominuntur
(un’affermazione come questa, può essere stata fatta esclusivamente da segnaci
dell'indirizzo realistico). Arali. .
Dialecl., p. 481 : Alee aequivoca ex sola debent praedU catione judicari ; sed
nec unìvoca propler eamdem communionis causarti.... Sani autem nonnulli,
qui.... non ad ca, quibus est impositurn vocabulum acquivocum et de quibus
enuntiatur, respiciunt; imo ad ea, ex quibus est imposilum ; ut « amplector »,
cum ad eamdem personam, amplectenlem simul et umplexam. acquivocum dicatur,
secundum diversarum proprietatum diffinitioncs, uclionis scilicet et passionis,
non ad personam commune dicatur, sed ad pròprietales, quas aeque designat. M
Pseudo-Abael. De inlell. (riferito dal CousiN, Fragments pitilosophiques,
Parigi, 1840, p. 493 [Abael. Opera, II, p. 753]): Quaeritur, un linee divisin,
leonini qttae sunt, aliud est substantia, uUud est accidens », sit sufficicns. Quod si concedatur, tunc, cum
Tulionulitas sit, opnrtet esse substantiam vel accidens. Si autem accidens
fuerit, potesl adesse et abesse....; quod falsum est.... Quidam dicunt, quod de
quocumque veruni est dicere « istud est una res», de eodem veruni est dicere,
esse substantiam vel accidens. Hi
tamen non conceduti/, rem imam debere dici, quod per opus hominum liabet
exislentium, ut domus, nec quod habet pnrtcs disgregalas, sicut popuAnche la
disamina delle singole categorie diede parecchia materia a controversie, le
quali non varcarono tuttavia il limite di quel che si trovava negli scritti di
Boezio. Così, per quel che riguarda la relazione, la divergenza, che già si era
manifestata fra Platone e Aristotele, rispetto al modo d’intendere questa
categoria, si era trasmessa, attraverso i commentatori (Sez. Ili, nota 49; IX,
nota 31; XI, nota 71), sino a farsi sentire anche nella discussione che
s’incontra in Boezio (Sez. XII, nota 93), e pertanto questo punto controverso
torna a comparire anche qui I92 ). Si disputava altresì, se i concetti di
somiglianza o di uguaglianza non sieno da ascrivere alla qualità, piuttosto che
alla relazione, a quel modo che studiosi isolati assegnavano alla qualità
persino la categoria della situazione ( situs) 193 ). Ovvero si metteva hi
dubbio che fosse giusto considerare ubi e quando come categorie, dato che son
ricavati dai concetti di spazio e di tempo, i quali appartengono alla quantità,
e lus.... Alti vero duobus modis dicunl [754] divisionem sufficiente ni esse:
praedicatione scilicet, et continentia secundum naluram. Predicanone quidem....
v. g.: animalium aliud est rationale, aliud irrattonale ; haec divisto est
sufficiens praedicatione, quia de quocumque poterit dici: «istud est animai»,
de eodem statim consequelur, esse vel rationale vel irrutionale.
Continentia.... ut tale sit exemplum: « domus alia pars paries, alia tectum,
alia fundamentum Accidens tamen ibi large accipitur prò forma. ) Abael,
Dialect., p. 201 s.: Quae quidem [ diffinitio ] ab alia in eo maxime diversa
creditur, quod itane Aristoteles secundum rerumnaluram protulil, illam vero
Plato secundum conslruclionein nominum dedit.... Sunt autem qui quemadmodum
Platonicam diffinilionem nirnis laxum vituperata, ila et Aristolelicam nimis
strictam uppellant. ' (kid., p. 204: Sunt tamen, qui « acqualis et inaequalis, simihs et
dissimilis » inter qualitates contrarias recipianl. p.
208: Hi vero, qui similitudinem potius inter qualitates enumerant, ut Magislro
nostro V. (v. la nota 102) piacili t. (La fonte di questa controversia è
Boezio, messa a confronto con p. 187 \in Ar Praed., II e III: PL, 64, 219 e
259]). Ibid., p. 201: Unus, memini,
Magisler noster erat, qui positionis nomea ad qualitates quasdam aequivoce
detorqueret. sono pertanto in perfetto parallelismo, p. es., con l’avverbio
interrogativo « qualiter » 104 ). O, ancor una volta, si domandava quale fosse
la corretta subordinazione dei concetti di « morte », o di « sonno », e simili
1B5 ). Oppure si discuteva sul come vada inteso il magis vel minus che compare
sovente nelle Categorie, se cioè la graduazione concerna puramente il sostrato,
o puramente la proprietà, o uno e l’altra al tempo stesso 106 ). Li tali
occasioni poteva anche venir fuori la distinzione tra i diversi indirizzi sopra
la questione di principio, in quanto che i nominalisti, p. es., designavano il
concetto di « ieri » come un Non-essere 1B7 ), o facevan valere il proprio lw )
Ibid., p. 199: Videntur autem nec generalissima esse « Ubi » vel « Quando », eo
quod prima principia non videantur. Quae enim ex alio nascuntur, prima non
videntur principia, sed ipsa quoque principia habenl; Ubi autem ex loco. Quando
autem ex tempore..,, originem ducimi.... Solel autem a multis in admiratione[m]
ac quaesi ione [ ni ! deduci, cur magis ex loci vel temporis udjaccntia
praedicamenta innascantur, quum ex adhaerenlia aliarum specierum sire generum.
Tarn enim bene « Qualiter » unius nomiti generalissimi videtur, sicut « Ubi »
vel « Quando », cujus quidem species bene vel male dicerentur [Cousin: bona vel
mala dicereturl, sicut « Quando » heri vel nudiustertius, vel « Ubi » Romae vel
Antiochiae [200] esse. La fonte di questa controversia, oltre che la Sezione riguardante la quantità,
e nella quale anzi locus e tempus hanno avuto una speciale trattazione
(Bof.zio, p. 146 [in Ar. praed.. Il: PL, 64, 205]), è in particolare il commento dello stesso
Boezio, p. 190: « quando» et «ubi» esse non polesl, nisi locus ac tempus fuerit
[in Ar. praed.. Ili: PL, 64, 262], ”“) Ibid., p. 402: Solel autem de morte et
vita quaeri, utrum in privalionem et habilum, un potius in contraria
recipiuntur. p. 406: Si.... f in
dormiente ], inquiunt, visio esset..., ridere eum oporleret. Si vero caecitas
inesset, nunqunm amplius ipsum ridere contingeret. “*) Gilb. Porret. de sex
princ., 8 (puhhl. nella ediz. lat. delle Opere di Aristotele, Venezia, 1552, I,
f.34) : Dicitur autem « magis et minus suscipere » tripliciter. Aiunt enim
quidam secundum erementum vel diminutionem eorum, quae suscipiunt, subiectorum.
Aliter autem et olii, ipsa quidem, quae suscipiuntur, in suscipiente diminuì et
crescere, annuntiant. Alii autem secundum ulrumque, amborum diminutionem et
augmentationem [cfr. PL, 188, 1268. e la nota 21 di questa Sez.]. w ) Abael.
Dinlect., p. 196: Cum.... « Iteri » rei existentis designativum non
videatur.... Sed fortasse hi, qui magis in speciebus 282 CABLO PRANTL punto di
vista, anche in ordine alla relazione e agli op. posti, mentre allo stesso modo
operava, dal canto suo, la corrente realistica 19S ). Ma sembra che, più spesso
di tutto, si sia parlato della categoria della quantità, già per il fatto che
questa offriva la opportunità di passare di nuovo alle questioni concernenti il
concetto di parte (note 125 ss.). Mentre i nominalisti intendevano i concetti
numerali in modo perfettamente analogo a tutto il resto [ intendi : dei
concetti], e perciò designavano i singoli numeri come specie, il cui genere è
il concetto stesso di Numero I99 ), ciò era negato dai loro avversari; secondo
costoro infatti, mancava nei numeri quella essenziale unità di natura, eh e
necessaria per il concetto di specie o di genere, e per conseguenza i numeri
vanno semplicemente qualificati come espressioni aggettivali di un procedimento
collettivo; quest’ultimo poi si applicava altresì a tutti quanti i momenti della
quantità, in quanto che a ima realtà sostanziale posson pretendere soltanto i
fondamenti semplici della quantità, vale a dire i concetti di rerum naturimi
quarn vocabulorum impositionem attendimi, per * ^ Qunmduiji praesentem
(idjacenliam designari volunt. ) lbid., p. 392: Quod qitidem multos in hanc
sententiam induxtt, ut contrarium nomen tantum universalium, non eliam
sitiglilarium confiterentur, albedinis quidem et nigredinis, non hujus albedmis
vel hujus nigredinis. Sic quoque et relutivum et « privalio et habitus » nomina tantum
universalium diclini. Relativa quidem.... tantum universalìa dicebanl ex
relatione construclionis. « Habitus» quoque et « prie alio » universalium
tantum nomina diclini, eo quod in individuis non possimi servaci. lbid..
p. 398: Quidam talem eum (se. Boethium ) divisionali invilisse dicunl, quod
contraria alia siint genera, alia specialissima. Specialissima vero sic
subdividuniur, ut cornili alia sub eodem genere, alia sub diversis contrariis
ponantur. ' ') lbid., p. 190: Hi vero, quibus videtur. in speciulibus uut
generalibus vocabulis non solimi ea contineri, quae una sunt naturaliter, sed
magis ea, quae substantialiter ab ipsis nominantur, possimi forlasse et istu
(rior i singoli ronrrtli numerali) species appellare, quum videlicel magis
logicum in impositione vocimi sequuntur, quam physicam in natura rerum
investigando. punto, unità, istante,
lettera [dell’alfabeto, come suono elementare], luogo, ma tutto il resto si
riduce a pure espressioni collettive 200 ); fu altresì da alcuni fatto cenno
della differenza che sussiste, rispetto alla divisibilità, fra il concetto di
tempo e quant’altre quantità ci sono, divisibili e continue 201 ). [b) sopra la
teoria del giudizio in generale]. Nella
teoria del giudizio sembra essere stato spesso compendiato tutto quanto il
contenuto essenziale della logica, entro i limiti in cui di questo si faceva
uso, semplicemente per la istruzione degli scolari più giovani; imperocché si
riduceva il libro De interpretatione in forma di compendi, di « Introductiones
» o di « sumrna artis », ”») Ibid., p. 188 Numentm autem colleclionem unilatum
determinimi....’ I ndo maxime Magistri nostri sementiti, membri, confirmabut,
binarium, ternarium, caeterosque numeros spectes numeri non esse, nec numerimi
genus oorum, cujus videlicet res una natur,diter non esset. Hae namquc dime
unitates in hoc homine liomae habitante, et in ilio qui est Antiochiae
consistimi, atque lume binariunì componimi. Quomodo una res in natura
diceretur, aut quomodo ipsae spatio tanto disluntes imam simili specialem seti
generalem naturam reci pieni? Linde potius numeri nomen et binarli et ternani
et caeterorum a collectionibus imitatimi sumpta dicebant [così il codice: ma il
C. legge « (Magister noster) dicebal»].
Ibid., p. 179 s.: Ilarum autem (se. qu.mtilalum) aline sunl simplices,
alme compositae. Simplices vero quinque dicunt: punctum scilicet. unitotem,
instans quod est indivisibile lemporis momentam, dementimi quoti est vox
individua, simplicem locum.... Ilas autem tantum, quae simplices sunt, Magistri
nostri sementili speciales appellabili naturas, eo videlicet quod sint unite
nuturaliter, quae partibus careni, quae vero e* bis sunt compositae, composita
individua dicebat, nec una naturaliter esse....; mugisque eurum nomina.... sumpta
esse a collectionibus quibusdam.... ™) Ibid., p. 186: Cimi autem res singulae
sua habeant tempora in se ipsis jundata, sua scilicet momento, suas horus,
silos dies, rei menses, vel annos, omnes lumen dies simul existentes, vel
menses, vel anni prò uno accipiuntur.... (p. 187) In ttliis.... lotis, lotum positum ponil partem,
et pars desimela perimit totum.... In
tempore vero e converso est, velati in die. Si enim prima est, dies esse
dicitur, sed non convertitur.... Al vero si dies non est, prima non est. sed
non convertitur.... In his itaque totis, quae per unum tantum partem semper
existunt, iUud, quod de inferenlia totius et partis Boethms (de difj. top.. TI,
p. 867 [PL, 64, 1188]) docet, non admittunt.
e si mettevano assieme regole sopra le parti e le forme del giudizio, la
quantità, qualità ed equipollenza, il contrano e il contraddittorio, la verità
e la falsità, la con versione e la modalità dei giudizi ecc., cercandosi a que
sta maniera di meglio conformare, per così dire, il li. bro aristotelico all’uso
scolastico, e di apportarvi in vari mod! compimenti o ampliamenti 202 ). Ma,
per quest’ultimo riguardo, nessuna più precisa notizia ci è stata tramandata:
che a tale lavoro si collegassero da capo altre controversie sovra punti
particolari, ci risulta invece ani le t a e ristrette fonti, a noi accessibili.
Furon così solevale subito difficoltà, già riguardo al concetto di vox
significativa (Se*. XII, nota 109), e tali difficoltà, relativamente alla
propagazione del suono, arrivarono a un tale colmo di astruseria, che alcuni
finirono con il de«ignare addirittura l’aria, come ciò che ha la funzione di «
significare » *). Non vale molto di più la questione, QuiZ^n 135]: manifestiti*
poteril nuilihet, mterpr.), compendiosius et excepla reverenti vZborZL fn ZT’
T° d " quas Introduciiones foconi Vix est Jn," l ‘ b "r
rudintentìs > non doceat, adirai* aUis non mtnTn^LlrS^a qmd nomea, ql,id
verbum, quid oratio none Urrunt,taque quae vires enuntiationom 1 orano, qU ae
spectes eius, tate, q U ae determinate verae sunt auUahà^ SOrtÌant “ T aut (
i,lnlU team, quae consentiant sibi quae dissentine? 11 ™ qu,bus, l ?qu>pol
visim, coniunctim praedicenlur alt con? " ’ 9 “ ae P raed,ca ‘“ dU quae
sii natura modalium et auae si et quae non >' il em n ni 11171 . /> • *
Quae smgularium contradìctio _ Pcriermeniis docet?"o'uis^'liimd? *** quae
vel Aristotile* in cairn totius artìs sumZm Zfc, C ° nq “ lslta l « dicit? Omnes Cfr ! qUÌaPP^’la noU 366. /aC ‘ 7,7 "“
fra, „ b „ n j~ sollevata a proposito della unità della significano, se cioè
una parola possa « significare » anche le lettere da cui è costituita 204 ).
Poteva invece esercitare più profondo influsso,
sebbene non ci sia stata tramandata notizia di ulteriori conseguenze ,
la netta delimitazione che si segnò, a proposito del nomea, tra significare e
nominare, in quanto che di quello è oggetto la universalità, e di questo il
singolare 205 ). E così pure, prima di tutto,
in occasione della controversia, se le preposizioni e le congiunzioni
sieno parimente parole « significanti », o non possano invece assolutamente
esser annoverate tra le parti del discorso
grande importanza potè avere il contatto che si venne a determinare tra
i dialettici e i grammatici: di questi ultimi, taluni si decisero, da un punto
di vista unilaterale, per la seconda alternativa, ma altri tennero conto anche
degl’interessi della logica, rendendo con ciò effettuabile una conciliazione,
in base alla quale si potè almeno preparare a quelle parti del discorso aeres...,
ipsis etiam, quos reverberat, consimilem soni formam attribuita illeque
fortasse aliis, qui ad aures diversorum perveniunt. Nostri tamen, mcmini,
sententia Magislri ipsum tantum aèrem proprie audiri ac sonare ac significare
volebat. Cfr. qui appresso la nota 499. ) lbid., p. 488: Totum constai ex suis
parli bus, vox ex suis non conslituitur significationibus. Et fil quìdem
divisio totius in partes, vocis vero [non] in significationes. Nam etsi hoc in
quibusdam vocibus contingat, ut scilicet ex suis jungantur significationibus.
ut hoc vocabulum quod est xens» ex littcris suis, quas etiam significai, non
tamen id ad naturam vocis, sed totius referendum est; in eo enim quod ex eis
constai, totum est earum, non eas significans. Est etiam et alia quorumdam
solutio, ut scilicet concedant, nullam vocem conjungi ex signi ficationibus
diversis, ad quas videlicet diversas impositiones secundum aequivocationem
habeal. Ncque enim « eris » ad quaelibet plora dicunt aequivocum ÆQVIVOCVM
GRICE, sed tantum ad divcrsorum subslantias praedicamenlorum. linde de
lilleris, quae in eodem clauduntur praedicamento. aequivoce non dicilur. *“>
J°«Saresb. Metal., II, 20, p. 100 [ed. Webb, p. 104; PL, 199, 881] : Quod fere
in omnium ore celebre est, aliud scilicet esse quod appellativa significant et
aliud esse quod nominant. Nominante singularia, sed universalia significantur.
(analogamente, si direbbe, al modo tenuto dall’autore del De gen. et spec.: v.
«opra la nota 174) il successivo loro ingresso nella logica 20 °). Può essere
ugualmente attribuita a im influsso della grammatica (ed è possibile sia stato
per opera di Bernardo da Cliartres: v. la preced. nota d9) la introduzione di
una terminologia, per la quale giudizi, come ad es. «Uomo è un sostantivo»,
furon denominati « materialiter im posila», ovvero giudizi « de significante et
significato» 207 ). Ma nei dibat¬ titi sopra la questione della essenza
deiraffermazione e della negazione, poteva ricomparire il contrasto fra opposti
indirizzi, attenendosi alcuni alla forma gramma¬ ticale, altri ai concetti,
altri ancora alla realtà obbiet¬ tiva 208 ). ) Abael. Dialect., p. 216:
Praepositiones et conjunctiones de rebus corion, quibus apponuntur, quosdum
inlellectus facere videntur, alque in hoc impericela canon significalo dicilur,
quod... ipsu quoque res, de qua inlellectus habetur, in hujusmodi dictionibus
non tenelur stetti in nominibus et eerbis, qtute simul et res demonstrant
ac..... I nde certu apud grammaticos de praepositionibus sementili exlitit, ut
res quoque eorum, quorum vocabulis apponuntur, ipsae destgnarent.... Vnde illa
quorumdam dialecticorum setitentia potior yidetur, qttam grammaticorum opinio,
quae omnino a parlibus orationis hujusmodi voces, quas signifieativas esse per
se non judicavit, divisti, uc magis ea quucdarn supplemento ac colligamenta (v.
la Sezione XII, note 43, 60 e 111) partirne orationis esse aicit.... (p. 217)
soni etiam nominili, qui omnino a significativi hujusmodi dictiones remorisse
diulecticos adstruant. Cfr. appresso le note 349 Reggi: 348] e 620. 1Q0
1J?"1 S . AK T B MetaL ’ jfl,. 5, P137 [ed. Webb, p. 142; PL, JU4J.
Interdum tamen dictionem rem esse contingit, cimi idem sermo ad agendum de se
assumitur, ut in his quae jtraeceptores nostri materialiter dicebant imposi la
et dicibilia; quale est: «Uomo est nomea », «CurriI est verbum ». Abael. Dial... p 248IJitidam tamen
trnnsitivam grummaticam in quibusdam propositiom US esse volimi; qui quidem
propositionum alias de consignificantibus vocibus ulias vero de significante et
significato fieri diclini, ut soni dlae, quae de ipsis vocibus nomina sua
enunciant hoc modo « homo est nomea vcl vox vel disyUabum ». Cfr. la nota 618.
) Abaei.. Dialect., p. 404: Quidam aiitem per « jacere sub affirmatioae et
negatione » finitum et infinitum vocabulum accipiunl.[c) sopra questioni
particolari, attinenti alla teoria del giudizio]. Anche a proposito di vari punti parti¬
colari, che si trovavano dibattuti nel commento di Boe¬ zio, ci si decise
senz’altro iu senso contrario all’autorità di lui: così, p. os., riguardo alla
unità del giudizio 2UB ), o relativamente alla scomposizione del verbo in due
ele¬ menti, la copula e un participio 210 ), o a proposito di cpiei giudizi,
nei quali 1 « est » non implica la esistenza effettiva del soggetto 211 ), o a
proposito della questione del rapporto quantitativo tra soggetto e predicato
212 ), ut « sedet, non sedetti quidam vero intellectus ab affirmalione et
negatione generalos (v. la nota 175): sed nos polius va, quae ab affirmatione
et negatione dicunlur, aceipimus, essentias scilicel rerum, de quibus per affirmulionem
et negationem agitar. Ma non si riesce a intender bene Joh. Saie Metal., 11,
11, p. 81 Led. Webb, p. 83; IL, 199, 869]: expedit [ dialeclicu J
quaestiones...; quale est: An affirmare sit enuntiare (viceversa, se si potesse
leggere « an titillitiare sit affirmare », ci sarebbe qualche maggiore
possibilità di congetturare un significato), et: An simili exture possit
contradictio. •“) Abael. L)ial., p. 298: Sunt aulem, qui udslruanl, diversa
accidentia unam enuntiationem lucere, cum tulio sumuntur, quae ad diversa
referuntur, veluti si dicatur : «/ionio citliaroedus bonus» (v. Boezio, p. 419
[in de interpr., ed. secunda, V, 11; cdiz. Meiser, Pars Post., p. 363: PL,
64, 573J). '") lbid., p. 219: Idem dicit « homo ambulata, quunlum prò-
ponit «homo est ambulatisi) (Boezio [ ib., V, 12; p. 390: PL, 64, 586], p.
429). Sed ad hoc, memini, magister nosler V. opponete so' let: si, inquit,
verbum proprium significationem inhuerere dicit, ve¬ runi autem sii, cam
inhuerere, projeclo ipsum verum dicit, ac sen- sum propositionis perfidi. ‘ )
Ibidem, p. 223 s.: Unde quidem, cum dicitur, Homero quo¬ que defuncto, «Homerus
est poiitu » (Boezio [//>., V, il; p. 3734: PL, 64, 578], p. 423).... «esse»
quoque, quoil inlerponilur, in desi- gnatione non existentium vqlunt accipi....
Nostri vero sementili Ma- Bistri non secundum verbum accidentalem dicebat
praedicationem, sed secundum tolius construclionis significaturam, atque impro-
priam loculionem.... Sed quaero in
ilJu significativa locutione, « Ho¬ merus est poeta», cujus nomea « Homerus»
aul « poeta» acci- piatur. At vero, si hominis, falsa est enunciutio, co
defuncto ', si vero poemutis.... est.... nova vocis aequivocalio. ' ) lbid., p.
247: In liis autem quae secundum accidens praedi- cunlur nec totani subjecti substantium
continent, sed in parte tan¬ tum subjectum attingunt (Boezio [in de interpr.,
ed. prima, II, 11; ed. Meiser, Pars Prior, p. 159: PL, 64, 358], p. 263)....
non est necesse, praedicatum vel majits esse subjecto vel aequale, veluti cum
dicitur « animai est homo », vel « quiddam animai est homo alla quale questione
potevan riattaccarsi pure sottigliezze grammaticali 213 ). Anzi le opinioni
furono divise, anche in ordine a quei cenni intorno al « giudizio indefinito »,
con i quali Boezio aveva dato il compimento che ci voleva allo scritto
aristotelico De interpretatione (Sez. XII, nota 115), essendo stato tale
compimento da taluni giustificato, ma da altri respinto, e fra questi ultimi ci vien fatta menzione di
un Magister « V. », autore di « Glossulae super Periermenias » 214 ). Riguardo
ai giudizi modali v. la Sez. XII, nota
119: il termine tecnico « modalis » appare ora pienamente invalso •, si deve
ravvisare veramente un modo di vedere individuale nell’ atteggiamento di
alcuni, i quali deducevano i giudizi stessi dai giudizi non-modali, in tal
maniera che dalle parole « possibilmente » o « necessariamente » rimanesse
modificato non il contenuto di fatto, ma il senso della enunciazione, ovvero nell’atteggiamento di altri, i quali
dicevano che in tali giu- (cfr. Boezio ( iniroiì. ad cuthegoricos Syll.: PL,
64, 768], p. 562). Quamvis tamen et hic quidam concedunt, animai quod subjicitur non esse
majus homine. Diclini cnim, quia animai, quod homo est, ibi subjicitur, quod
non est majus homine. “> J° H - Saresb. Metal., n, 20, p. 101 [ed. Webb, p.
105; PL, 199, 881]:.... quia « omnis homo diligit se». Quod si ex relativae
dictionis proprietate discutias, incongrue dictum forte causabaris et falsum;
siquidem.... sive collcclive sire distributive accipialur quod dicium est «
omnis », pronomen relativum « se », quod subiun- gitur, nec universitati
singulorum nec alicui omnium veraciter el necesse est, So- cralem non esse
equum, possibile est vel necesse esse non equum.... In.... universali bus.... non ita concedunt, ut
videlicet tantumdem va- leat « non » ad «esse» praepositum, quantum id [Cousin:
ei], quod « esse » copulai compositum. "i Ibid., p. 442: Sunt lamen
quidam, qui nec discretionem ul- lam inler categoricam et hypotheticam in
disjunclione compositas habenl. sed idem dicunt proponi, cum dicitur « Socrates
est vel sanile vel aeger », et cum dicitur « aut Socrates est sanus aut aeger
»; ut scilicet omnis enunliatio, quae disjunctas recipit conjunctiones,
hypothetica credatur. Volunt itaque semper in hujus modi categorici s. quae
disjuncliones recipiunl, hypotheticae sensurn intelligi. veduti cum dicitur
«Socrales est sanus vel aeger », tale est ac si dicatur « aut Socrates est
sanus aut Socrates est aeger. [d) sopra difficoltà inerenti alla teoria del sillogismo
]. Dalla sfera della sillogistica non
possiamo a tutta prima aspettarci ima così fatta letteratura sovra punti
controversi, perchè, mentre da un lato i relativi compendi di Boezio, essendo,
per così dire, puri formulari scolastici, non porgono occasione a divergenze di
opinioni, dall’altro lato, come abbiamo veduto (qui sopra, note 8-34),
solamente a poco a poco si venne, appunto in quell’epoca, a conoscenza degli
Analitici aristotelici, i quali inoltre mancavano anche allora di mi apparato
esegetico, quale da gran tempo erasi avuto per le rimanenti parti della Logica.
Si trova tuttavia, almeno in Giovanni da Salisbury, una notizia, dalla quale
sembra potersi argomentare che sia stato preso particolarmente in
considerazione quel tal passo estrema- mente difficile degli Analitici Primi,
concernente la conversione dei giudizi modali (Sez. IV, nota 546), in quanto
che si trovò necessaria una particolare terminologia ( materia naturalis,
contingens, remota), per significare i concetti, che ivi s’incontrano, di quel
eh’ è naturalmente determinato [tte^’jxcs], del possibile, e del non-aver-luogo
219 ). Dalla medesima fonte apprendiamo altresì, che dei sillogismi, già noti
ad Abelardo ") Joh. Sar. Metal., IV, 4, p. 160 [ed. Webb, p. 168; PL, 199,
918], dove in un sommario del contenuto degli Analitici Primi si legge anche
quanto segue: quid in loto esse aul non esse, quas prò positiones ad usum
sillogisandi converti contingat et quas non; quidve optinent in his quae
modcrnorum (v. la nota 55) usti dicuntur esse de naturali materia aut
contingenti aul remota. Quibtis praemissis, trium figurarum subneclit rationes
etc. La eennata tripartizione poteva essere ricavata da Boezio (Sez. XII, nota
119), il quale dal canto suo aveva attinto ad Ammonio (Sez. XI, nota 157); la
terminologia di quest’ultimo passò nel Compendio di Psello (Sez. XV, nota 14),
dove il passo corrispondente presenta, nelle traduzioni latine, le tre
espressioni testé ricordate (Sez. XVII, note 38 e 155). Ci troviamo pertanto,
anche qui, dinanzi alla possibilità che verso la fine delI’XI secolo si sieno
fatti strada nell’Occidente latino sparsi frammenti della letteratura
scolastica bizantina. (nota 17), formati
da giudizi modali, fu ora fatto uso frequente, così per parte dei teologi, come
pure nelle scuole di dialettica 220 ). Un’argomentazione insidiosa,
occasionalmente menzionata ima volta, e relativa alla possibilità del futuro, è
d’imitazione ciceroniana 221 ). [e) sopra questioni di Topica ]. Invece la Topica ebbe a godere ancor una
volta di una più vasta e varia attività di studiosi; e ciò risulta già in
generale dall’opera di Abelardo, il quale, a proposito dei singoli loci, si
esprime in tal modo da indurci a ritenere ch’egli abbia trovato dappertutto già
pronto un numero determinato di « regole » formulate, le quali rappresentavano
la redazione, fatta nelle scuole, delle notizie riferite da Boezio nel suo
scritto De diff. top. 222 ); inoltre, a partire dal tempo in cui fu tratta
fuori novamente la Topica aristotelica (v. sopra le note 28 s.), ci furono
effettivamente alcuni, che tentarono di arricchire questo ramo della dialettica
con la invenzione di nuovi loci e di nuove « regole » 223 ), Ibid. : Deinde
habila modalium rutione transit ad commixtiones qitae de necessario sunt aut
contingenti rum bis quae sunt de inesse.... Expositores vero divinar paginae
rationem modornm pernecessariam esse diclini.... [169] Est enim modus, ut
aiunt, quasi quidam medius habitus terminorum (ofr. la Sez. XII, nota 150). Et
prafecto, licei nullus modos omnes, linde modales dicuntur, singultitivi
enumerare sufficiat, quod quidem nec ars exigit (v. ibid., noia 163), lumen
mugistri scolarum inde commodissime disputant, Cfr. appresso la nota 623. Lo
stesso, Polvcr.. II, 23. p. 125 [ed. Webb. I, p. 132; PL, 199. 455] : Restai libi illius Stoici
lui quaestio.... Quaerebat.... enim.... an posses aliquid facete eorum quae
minime faclurus es etc. Cfr. la Sez. VI, note 136 e 164. '“) Abael. Dialect.,
p. es. p. 334 (sunt igitur quatuor hujus inferentiae regnine), p. 353 (regulae
antecedentis et consequentis), p. 375 (regidae ab interpretatìone), p. 376
(tres autem regidas a genere in usum duximus), e cosi via pereorrendo tutta la
Topica. ’l Joh. Sar. Metal., Ili, 9, p. 145 [152]: Non omnes tamen locos buie
operi (cioè BOEZIO, de diff. top.) insertos arbitror, quia nec potuerunt, cum
et a modernis, huiiis praeeunte benefìcio, aeque necessarios evidentius cotidie
docerì conspiciam. lbid., 6, p. 138 [1431: ma potè nello stesso tempo
diffondersi altresì una idea giusta del posto e della importanza della
dialettica ). Trasparivano tuttavia anche qui le differenze di ordine generale
tra punti di vista, quando da taluni erano posti unilateralmente in maggior
rilievo i concetti isolati, fatta astrazione dalla espressione verbale 225 ),
da altri invece s’insisteva solamente sopra la necessità interna dell’ordine di
successione nell’argomentazione 22 “), mentre altri ancora, al contrario, ci
tenevano a veder presa in considerazione proprio la probabilità subbiettiva. Ma
c’erano poi varie controversie, che si collegavano anche a singoli loci o a
regole particolari 22S ). Non tamen huic operi (cioè alla Topica aristotelica)
tantum tribuo, ut inanem reputem operam modernorum, qui equidem nascentes et
convnlescentes ab Aristotile, inventis eius multas adiciunt rationes et regulas
prioribus aeque jirmus | PL, 199, 909 e 9011. V. appresso la nota 413 a. “)
Ibid., 5, p. 134 [ed. Webb, p. 139; PL, 199, 9021:... scienti Topicorum.... ex
opinione multorum dialeclico et oratori principuliter faciat. ™) Abael.
Dialect., p. 426: Dieunlur in argumentis ea, quae a propositionibus ipsis
significanti^, ipsi quidem intellectus, ut quibusdam plucet, quorum conceptio,
sine eliam vocis prolulione, ad concessionem alterius ipsum cogit dubitanlem.
**•) Ibid-, p427: Sunt autem, meniini, qui, verbis auctoritatis nimis
adhaerentes, ornile necessarium argumentum in se ipso necessarium dici velini.
**) Ibid., p. 335: Sunt autem quidam, qui non solum necessarias consecutiones,
sed quaslibel quoque probabiles verus esse fateanlur. Dicunl enirn, verilatem
hypotheticue proposilionis modo in necessitale, modo in sola probabilitale
consistere; in qua quidem sentenliu Magistrum etiam nostrum deprehensum
dolco.... (p. 336) Dicunl tamen, quia omne quod probabile est, verum est,
saltem secundum eum, cui est probabile. *“) Così taluni volevano che tra le
maximae propositiones (Sez. XII, nota 165) fossero annoverate anche le regole
principali del giudizio categorico (Abael. Dial., p. 339 s.), e c’eran altri
che volevano estenderle anche di più (ibid., p. 366): oppure si trasferivano l
'antecedere e il consequens nei [intendi: «si allargava l'applicazione delle
regulae antecedenti et conseguenti, fino a comprendere anche le relazioni tra i
»] singoli termini del sillogismo (ibid., p. 353 s.), o si restringeva il locus
a praedicalo puramente a giudizi categorico-ipotetici (p. 381), mentre da altri
lo si faceva valere soltanto come principio di prova del locus a genere (p.
384); 293 U 29 . Negli studi di logica,
la qualità continua A RIMANER MOLTO AL DISOTTO DELLA QUANTITÀ]. Ma riflettiamo
ora come quasi tutta la materia, che avevamo da presentar sino a questo punto,
si sia dovuto ricavarla da due scrittori soltanto, vale a dire Abelardo e
Giovanni da Salisbury, dei quali per caso ci sono conservate opere di più lunga
lena, cosicché ci sarebbe comunque da imparar ancora ben di più, qualora si
disponesse di fonti più abbondanti: e riflettiamo così pure, inoltre, che
ciascuna delle opinioni sopra citate, relative a punti particolari, ci permette
di argomentare, per parte dello scrittore che se ne fa sostenitore,
un’operosità di studioso, estesa a tutta quanta la sfera della logica di
quell’epoca; se terremo presenti queste considerazioni, ci sarà difficile andar
tropp’oltre, nell’ imaginarei la estensione dell’attività, svolta in quel
tempo, soprattutto in Francia, nel campo della logica. Ben è vero che, ad
avvalorare, per così dire, una impressione generale ben nota, può darsi che,
quanto a intensità, le cose andassero diversamente, perchè in nessuna parte
abbiamo trovato, non che una concezione filosofica, neanche segni di effettiva
originalità. Come in generale il Medio Evo era e rimase dipendente dal
materiale di una tradizione, imposto dal difuori, così anche le numerose
controversie attinenti alla logica, non prendevano principio da un intimo
impulso, bensì si fondano sopra uno stimolo esterno, dato dal materiale della
tradizione scolastica, e bisognava, a così dire, che aspettassero questo
stimolo, per avere in generale occasione di inoltre, anche sopra questo stesso
ultimo /ocus, si dibatteron da rapo varie controversie, disputandosi cioè se
esso abbia validità incondizionata (p. 378), o sia da intendere soltanto in
senso causale (p. 386): e controversie analoghe concernevano il locus ab
efficiente. con partecipazione anche di motivi teologici (p. 413), o il locus
ab interpretatione, trattandosi di decidere fino a qual punto coincida con la
etymologia. manifestarci. Così anche i
rappresentanti delle più importanti opinioni, caratteristiche dei vari
indirizzi, abbiamo pur dovuto spogliarli della gloria di essersi aperti da sè
la loro strada; poiché certi passi isolati di Boezio, strappali dal contesto, e
che sono stati appunto oggetto di studio appassionato, ci si sono rivelati
(note 105, 129, 134, 170) come i punti di partenza, in base ai quali, a forza
di stiracchiare, è stato poi messo insieme il resto, E se in mani nostre
neanche Abelardo si sottrae forse a un simile destino (nota 286), non ne
abbiamo colpa noi, ma la ragione ne va rintracciata nella verità storica come
tale. [§ 30 . Abei.ardo : a) suo
ingegno: caratteristica generale], Proprio la considerazione ora esposta, che
cioè in quell’epoca, da un lato, una grande moltitudine di maestri si
occupavano, discendendo sino ai più minuti particolari, del materiale di studi
di logica, quale veniva tramandato, e che, dall’altro lato, per l’appunto nella
letteratura tradizionale tutto questo genere di produzione veniva a trovare le
proprie condizioni, derivandone il suo proprio indirizzo ci doveva già da principio indurre a
procedere con circospezione nel nostro giudizio sul conto di Abelardo (nato nel
1079, morto nel 1142): e di fatto, a prender in esame più da presso l’opera sua
in connessione con quella dei contemporanei, ci troveremo anche messi in
guardia contro ogni esagerazione nell’apprezzamento di lui 22B ). Mentre “) In
particolare gli studiosi francesi sembrano propensi a sopravvalutare il loro
connazionale, e in ciò, fra i tedeschi, va per lo meno a pari con loro
[Federico Cristoforo] Schlossf.r [in un libro del 1807, su Ab. e fra Dolcino].
La vasta opera di Charles de Rémusat, Abélard, Parigi, 1845, in due voli., è,
per la parte biografica, quanto di meglio possediamo, nella letteratura
moderna, sul conto di Abelardo: aH’inoontro, nella esposizione della dottrina,
i presupposti storici, consistenti nei movimenti spirituali generali, propri di
quell’epoca, son forse lasciati troppo nell’ombra, in concioè, riguardo
all’etica, ci compiacciamo di ravvisare e riconoscere in Abelardo un eretico
del tempo suo, e delle sue benemerenze di teologo 22Ba ) dobbiamo lasciare
invece che si occupi la storia della teologia, ci apparirà chiaro come, nel
campo della logica, egli non abbia esplicato un’attività più originale di forse
cento altri suoi contemporanei 23 °). È innegabile la sua grande vivacità
d’intelletto, e prima di tutto la sua straordinaria abilità nella forma
retorica di esposizione: anche alla dialettica, come a tutto ciò su cui metteva
le mani, si slanciò sopra con appassionato fervore, e si manifestò subito come
maestro estremamente suggestivo; la sua attenzione era qui essenzialmente volta
all’intento di fronto con le benemerenze personali di Abelardo : a ciò si
aggiunge ancora, riguardo alla dialettica, l’inconveniente già più sopra (nota
49, e cfr. la nota 148) rilevato con espressioni di biasimo. w ‘) Su questo
argomento, v. la vasta opera di S. Maht. Deutsch, Peter Abàlard: ein kritischer
Theologe des 12. Jahrhunderts [P. A.: un teologo critico del XII secolo],
Lipsia, 1883. a ") Non s’insisterà mai abbastanza nel ricordare che la
nostra indagine si svolge tutta quanta entro i limili segnati esclusivamente
dal quantitativo del nostro materiale di fonti. E tra Abelardo c gli altri
dialettici dell’epoca sua sussiste qui una differenza soltanto, che cioè di
quello ci sono conservati casualmente moltissimi scritti, si che di lui, per
conseguenza, siamo in grado di riconoscere e pienamente svolgere le idee
fondamentali, più largamente ricostruite nel loro ordine sistematico, mentre
per gli altri non ci è possibile fare altrettanto. Ma dobbiamo guardarci dal
convertire in una obbiettiva superiorità di Abelardo, questa circostanza
favorevole, che torna a vantaggio della nostra esposizione. m ) Ch’egli sia
stato scolaro di Roscelino, ma anche di Guglielmo da Champeaux, e che inoltre
abbia cercato e trovato ispirazione in tutti gli altri eminenti maestri, si
vede dalla nota 314 della Sezione precedente, c dalle note 102 e 104 di questa.
Del suo presentarsi come maestro fa il racconto egli stesso, Epist., I, c. 2,
p. 4 (Amboes.) [ed. Cousin, I, p. 4 c 6] : Perverti tandem Parisius... Factum
tandem est ut supra vires aetatis meae de ingenio meo praesumens, ad scholarum
regimen adolescentulus aspirarem, et locum, in quo id agerem, providerem ;
insigne videlicet tunc temporis Meliduni castrum, et sedem regiurn.... (p. 5)
Ab hoc autern scholarum noslrarum lyrocinio [Amboes .: exordio] ita in arte
dialeclica nomea meum dilatori coepit, ut non solum condiscipulorum meorum,
verum etiam ipsius magistri (cioè Guilelmi Campellensis) fama farsi capire
facilmente, adattandosi egli, anche nella scelta del materiale, all’esigenze
della scolaresca ), ed è naturale che fosse perciò invitato sovente a
esercitare a profitto di altri il suo talento di maestro di logica **). Ma il
nomignolo di « Peripateticus Palatimis » [nativo di Palet o Palais] egli lo
deve soltanto a questo suo virtuosismo formale, perchè, da un lato, per i suoi
contemporanei « peripatetico » e « cullor della logica » eran espressioni sinonime,
nulla conoscendosi in generale di Aristotele aH’infuori dall’Organon, e con
quella espressione volevasi soltanto significare uno che si occupasse molto
estesamente o con particolar efficacia di questi scritti aristotelici 2S4 ),
senza che con ciò si pensasse già a un pieno esauriente svolgimento del
principio aristotelico; ma, d’altro lato, lo stesso Abelardo ha avuto pure
contrada paulatim extinguerelur.... (p. 6) [6] 1 unc ego Melidunum reversus, scholas ibi
nostras, sicut antea, constitui.... Meliduno
l'arisius redii . extra civilatem in monte S. Genovejae, scholarum noslrarum
castra positi [PL) Joh. Saresb. Metal., Ili, 1, p. 116 (ed. Giles [cd. Webb, p.
120]): Sic omnem librimi legi oportet, ut quam facillime potasi eorum quae
scribuntur hubeatur cognitio. Non enim occasio quaerenda est ingerendue
difficultatis, sed ubiqiie facilitas generando. Qttem morem secutum recolo
Peripateticum Palatinum. Inde est, ut opinor, quod se ad puerilem de generibus
et spedebus, ut pace suorum loquar, inclinavit opinionem: malens instruere et
promovere suos in puerilibus quam in gravitate philosophorum esse obscurior.
Faciebat enim studiosissime quod in omnibus praecipit fieri Augustinus, i. e.,
rerum intellecltii serviebut I PL, 199, 890-1J. at ) Abael. Introd. ad llteol.,
I, Pro!., p. 974 (Amboes. [ed. Confiti, II, 31): Ad has itaque dissolvendas
controversias cum me sufficere arbitrarentur, quem quasi ab ipsis eunubitlis
[Cousin: inainabulis] in Philosophiae studiis ac praecipue Dialecticue, quae
omnium mugislra ralionum videtur, conversatimi sciant, atque experimento, ut
aiunt, didicerint, unanimiter postulane, ne talenlum miht a Domino commissum
multiplicare differam. Ep. 1, c. 2, p. 5
[51 : Non multo aiitem interjecto tempore, ex immoderata studii affliclione
correptus infirmitate, coactus sum repatriare, et per unnos atiquot a Francia
quasi remolus. quaerebar ardentius ab iis, quos dialectica sollicitabat
doctrina [PL]. =“) Joh. Saresb., loc. cit., I, 5, p. 21 [171 : Peripateticus
Pulatinus, qui logicue opinionem praeripuit omnibus coetuneis suis, adeo ut
solus Aristotilis crederetur usits colloquio [PL una felice idea, a tenor della
quale poteva, rifacendosi da un unico passo che si trova in Boezio [v. appr.
nota 2861, «connettere ad esso il riconoscimento della giu"tozza della
teoria aristotelica del giudizio; ma invece e;>/., p. 226, Abelardo dice,
nel passare da questa prima parte principale alla seconda: Hactenus quidem,
Dagoberte frater, de partibus orationis, quas dictiones appeUamus, sermonem texuimus.
Quorum tractatum tribus vóluminibus comprehendimus. Primarn namque partcm libri
Partium ante Praedicamenta posuimus ; dehinc autem Praedicamenta submisimus,
denique vero Postpraedicamenta novissime adjecimus, in quibus Partium textum
complevimus. Come vengano intesi gli Antepraedicamenta, apparirà chiaro
appresso; ma intanto nel procedere dai Praedicamenta ai Postpraedicamenta, si
dice (p. 209): Evolutus superius textus ad discretionem significanonis nominum
et rerum natura s, quae vocibus designantur, diligenter secundum distinctionem
decem praedicamentorum aperuit. Nunc autem ad voces significativas recurrenles,
quae solae doctrinae deserviunt, quol sint modi significanti studiose
perquiramus ( similmente alla p. 245: Non itaque propositiones res aliquas designant
simpliciter quemadmodum nomina): e pertanto, alle p. 209226, segue non già,
come fa ritenere il titolo, arbitrariamente imposto dal Cousin, la Sezione de
intcrpretationc, bensì solamente una trattazione delle parti della
proposizione. Con questa denominazione e suddivisione della prima parte
principale si accordano poi anche le citazioni che Abelardo fa di se stesso,
sia che rinvìi alla Sezione complessiva, denominandola Liber partium (p. 377 :
sicut in libro Partium docuimus, e p. 477: sicut in libro Partium, tractatu
speciei, disseruimus ), sia che ricorra proprio a quella denominazione nel
menzionar pure le suddivisioni (p. 174: sicut secundus anle-praedicamentorum de
differentia continet; p. 249: Nam« homo mortuus»
....compositura nomen est.... sicut in primo Posl-praedicamentorum ostendimus :
e questa citazione, al pari delle due altre dello stesso tenore, alle pagine
296 e 299, si riferisce alla p. 214; negli altri due rinvìip. 204: sicut in
Libro Partium ostendimus, e p. 205: in Libro Partium requi rantur va certamente letto primo, anziché libro).
Dei resto, con tutto questo sistematico rilievo dato alle « parti del discorso
», riusciamo ora a spiegarci come Abelardo potesse effettivamente denominare «
Grammatica » un rifacimento delle Categorie (v. qui sopra la nota 241). 273 )
p. 227: Susta et debita serie textus exigente, post tractatum singularum
dictionum occurrit comparano orationum .... Non autem quarumlibet orationum
construclionem (anche questa e una esptesquesta Sezione Abelardo diede il nome
di « Libcr calegoricorum » 274 )Ma quando ha poi da far sèguito la teoria del
giudizio ipotetico, Abelardo, anche a ciò determinato da Boezio (de diff. top.:
v. la Sez. XII, nota 167), fa che la validità di queste forme di giudizio sia
condizionata dai loci (v. la nota 269), e pertanto premette il « Liber
topicorum », così che soltanto dopo di esso vengono lo stesso giudizio
ipotetico e i sillogismi fondati sopra di questo 275 ) : a quest'ultima Sezione
dà il nome di « Liber hypotheticorum » 27e ). Così Abelardo, secondo il suo
modo d’ intendere, ha compiutamente svolto la teoria deirargomentazione,
procedendo dal semplice, cioè dagli elementi, al complesso: quanto al « Liber
divisionum », designato dal Cousin come quinta parte della dialettica, non ha
alcun nesso sione di Prisciano; v. sopra la noia 263) exequimur, sed in his
tantum opera consumenda est, quae verilatem seu falsitatem continent, in quorum
inquisitione dialecticam maxime desudare meminimus. Undc cum inter
propositiones quaedam earum simplices sinl et natura priores, ut categoricae,
quaedam vero compositae ac posteriores, ut quae ex categorici jungunlur
hypotheticae, has quidem quae simplices sunt prius esse tractandas...., unaque
earum syllogismos ex ipsis componendos esse apparet. 274 ) È vero che il
manoscritto reca qui il titolo (p. 227) « Abaelardi.... Analyticorum priorum
primus», ma non soltanto si corregge da se stesso nella seconda suddivisione di
questa Sezione, dove a p. 253 si legge questo titolo: « Explicit primus;
incipit secundus eorundem, hoc est categoricorum », bensì ancora dallo stesso
Abelardo questa Sezione è citata come Liber categoricorum (p. 395: Sed de hoc
quidem uberius in libro Categoricorum egirnus). 275 ) p. 437 : Congruo....
ordine, post categoricorum syllogismorum traditionem, hypotheticorum quoque,
tradamus constitulionem. Sed sicut ante ipsorum categoricorum complexiones
categoricas propositiones oportuit tractari, ex quibus ipsi materiam pariter et
nomea ceperunt, sic et hypotheticorum tractatus prius est in hypotheticis
proposìtionibus eadem causa consumendus, de quorum quidem locis ac veritate
inferentiae, quia in Topicis satis, ut arbitror, disseruimus, non est hic in
eisdem immorandum. Sed satis earum divisiones exequi. 27e ) Anche qui si
verifica la medesima singolare circostanza, che cioè il manoscritto reca da
prima (p. 434) il titolo « Abaelardi.... Analyticorum posteriorum primus », ma
poi nel passaggio dalla prima alla seconda suddivisione, la indicazione esatta
(p. 446): Explicit primus hypotheticorum, incipit secundus. con quel che
precede 2 "), ma è ima monografia che sta a sé, concernendo lo stesso
oggetto che lo scritto De getter, et spec.; in questa monografia Abelardo unì
immediatamente uno all’altro gli scritti di Boezio, de divisione e de definitione,
cosicché, a chi consideri 1’ intima diversità fra questi due (Sez. XII, nota
103), appare con tutta chiarezza, come in Abelardo l’interesse per la logica si
converta in interesse per la retorica. Seguendo noi ora perciò, per la nostra
esposizione, il suindicato motivo, dominante nella divisione della materia
secondo Abelardo, ci atterremo interamente all’ordine già tenuto per Boezio, e
inseriremo, ancor prima della teoria del giudizio, quel che sarà necessario
dire della Sezione de divisione, la quale si riattacca alla teoria del
concetto. [li) esposizione della Isagoge (Antepraedicamenta), quale risulta
dalle Glossae, e soprattutto dalle Glossulae, super Porphyrium: atteggiamenti
polemici sopra la questione degli universali].
Quanto alla prima Sezione della prima parte principale, cioè la Isagoge
o i così detti Antepraedicamenta, la grave lacuna già ricordata dobbiamo cercar
di colmarla attingendo ad altra fonte, e precisamente, in special modo, ai
testi riferiti dal Rémusat (nota 238) : ma inoltre ricorreremo anche a tutti
quegli altri luoghi, che possano aiutarci a comprendere, con maggior vigore o
maggior ampiezza, la posizione di Abelardo nel contrasto fra i diversi
indirizzi, sicché già qui si ha da chiarire, quante possibile compiutamente, le
questioni essenziali e di principio, e da ottenere mia conoscenza esatta e
approfondita della logica di Abelardo in generale: resterà poi, relativamente
alle altre parti della dialettica, da addurre ancora, su tale ) Neanche si
trova, in alcun punto del libro, fatto cenno a un ricollegamento con altre
parti della dialettica. fondamento, soltanto i testi relativi a punti più
particolari. Ha in sè qualche cosa di sorprendente il fatto che Abelardo, nelle
glosse alla Isagoge, non soltanto parla di « sei parole », aggiungendo alle
solite cinque anche « individuum », ma osserva altresì che si tratta, oltre che
di queste parole stesse, anche di ciò ch’esse significano significala eorum 27S ); tuttavia la prima circostanza si
spiega in parte con quel passo di Boezio ch’è la fonte, a cui Abelardo attinge
2T9 ), e in parte con la espressa osservazione [fatta dallo stesso Abelardo],
che cioè Porfirio non ha avuto bisogno di comprendere, subito da principio, nel
novero delle voces il concetto d’individuo, perchè già 1’ individuo vien
comunque a rientrare sotto le altre cinque parole, e in se stesso è una
denominazione predicativa di un oggetto, nè più nè meno che i generi e le
specie 28 °). Ma se ora proprio questo rilievo che 27s ) Glossae in Porph.,
riferite dal Cousin, p. 553: Intendo Porphyrii est in hoc opere tractare de sex
vocibus, i. e. de genere, e! de specie, et de dijjerentia, el de proprio, et de
accidenti, et de individuo et de signijìcatis eorum.... Considerare, nullas
voces magis esse necessarias ad Categorias quam istas sex voces, quoniam ex
istis sex vocibus con stituunlur praedicamenta, ideo perelegit tractare de
istis sex vocibus. Hujus operis sunt materia istae sex voces el earum
significata, finis ipse catcgoriae (il Cousin. con le sue modificazioni e con
la interpunzione, ha guastato il giusto significato del manoscritto). Scicntiae
inveniendi supponitur iste traclatus ([passo già più sopra cit.,] nota 268),
quia hic docemur invenire rationcs sufficienles ad probandas quaslibet
quaestiones Jactas de istis sex vocibus et de signijìcatis earum. Cfr. appresso
la nota 603. 27 *) Questo numero di sei non ha cioè niente che fare, come si
capisce da sè, con quel passo, che si è avuto da citare, ricavandolo dai
commentatori greci (Sez. XI, nota 134). ma ha per fondamento il contenuto di
quelle notizie, date da Porfirio (ibid., nota 43), che son riferite come segue
da Boezio, p. 15 [ad Porph. a Vict. transl. I, 16; ed. Brandt, p. 44: PL, 64,
28]: Eorum, quae. dicuntur, alia ad unitatem dicuntur, sicut sunt omnia
individua, ut est Socrates et hic et illud, alia quae ad mulliludinem, ut sunt
genera (et) species et differentiae et propria et accidentia. 280 ) p. 553: Et cum intendat
tractare de istis sex vocibus et omne (leggi omnes) tractat, lamen non proponit
nisi [Cousin: vocibus, et omne tractare tamen non proponit, nisi....] de quibusdam tantum ; ideo Abelardo dà alla relazione predicativa, torna
a coincider pure con il secondo punto, cioè con la presa in considerazione
anche di « quel ck’è significato dalle sei parole », d’altra parte Abelardo
sopra tale questione fondamentale non presenta qui spiegazioni più precise:
bensì, persino a proposito di quel passo
di essenziale importanza (prima quaestio), al quale da gran tempo abbiamo
veduto riattaccarsi tutta la questione, che dividea tra loro le tendenze
contrastanti egli presenta
esclusivamente una sottile distinzione, insignificante nei riguardi degli
universali, tra solus intellectus, nudus intellectus e purus intellectus 2S1 )
: e anche nel rimanente della esposizione, si tiene aderente al testo della
Isagoge, prevalentemente limitandosi a dare spiegazione delle parole 282 ).
Invece proprio sopra questo punto che ci rimane qui ancora oscuro, gettano la
più vivida luce le altre così dette glosse minori alla Isagoge. Ivi cioè
Abelardo, alle notizie che dà sopra le opinioni altrui (e per questo ci è
servito più sopra egli stesso quale fonte) collega in primo luogo osservazioni
polemiche, per poi svolgere la sua personale concezione degli universali.
Contro Gunon ponit de individuo, quia individuum continetur sub unoquoque, et
in significatione et in praedicamentali ordine : nam quemadmodum genera et
species proprie ponuntur in praedicamento, eodem modo individua ipsorum. Anche
questo si trovava nel commento di Boezio al passo citato dove (p. 16 s. [loc. ult. cit., p. 49: PL,
64, 30]) si legge: Ita individua, quae ad unitatem dicunlur, cunctis
superioribus (cioè quinque vocibus) supposita sunt.... Individua vero.... ad
nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula atque una sunt.
Atque.... « ad unitatem dicunlur». Abelardo cioè ne ricavò che le denominazioni
individuali vengono purtuttavia predicate
dicunlur, praedicantur. 2S1 ) p. 555: Illa dicimus poni in solis
intellectibus, quae tantum intelliguntur et non sunt.... Illa dicimus poni in
nudis intellectibus. quae, cum sint, aliter intelliguntur esse, quam sirtt....
Illa dicimus poni in puris inlelleclibus, quae intelliguntur simpliciler ut
sunt. a82 ) Si può osservare che anche qui la locuzione abbreviata, ricordata
già più sopra (nota 167) „praedicari in quid “ o ., praedicari in quale “ è
comunemente adottata nel senso di „ praedicari in eo quod quid “ o,, praedicari
in eo quod quale". glielmo da Champeaux osserva (v. sopra la noia 106)
che, se si ammette una così poco stretta connessione tra le forme
individualizzanti e le sostanze universali, tutte le sostanze _non eccettuata
neanche la Fenice, che esiste esclusivamente mia volta sola appunto come sostanze, dehhon finir con
l’essere uguali e identiche fra loro, e neanche possono per conseguenza
distinguersi dalla sostanza di Dio : e parimente osserva che questa identità di
essenza di tutte le sostanze, o la loro indifferenza rispetto a qualsiasi forma
individuale che vengan a prendere, conduce a dover ammettere anche la
coincidenza degli opposti in ima stessa sostanza Glossulae s. l’orph .,
riferite dal Rémusat, toc. cit., II, p. 97-99: Ce SYStème exige que les jormes
aient si peu de rapport avec la malière qui leur seri de sujet, que dès
qu'elles disparaissenl, la malière ne diffère plus d'une aulre malière sous
aucun rapport, et que tous les sùjets individuels se réduisent n l'unité et à
l'identité. Une grave hérésie
est au bout de cotte doctrine ; car avec elle, la substance divine, qui est
reconnue pour n'admettre aucune forme, est nécessairement identique à toute
substance quelconque ou à la substance en generai.... Et non seulement la
substance de Dieu, mais la substance du Phénix (v. la Sez. XII, nota 87), qui
est unique, n'est dans ce système que la substance pure et simple, sans
accident, sans propriélé, qui, partoul la méme, est ainsi la substance
universelle. C'est la mème substance qui est raisonnable et sans raison,
absolumenl camme la mème substance est à la Jois bianche et assise ; car étre blanc
et ótre assis ne soni que des jormes opposées, comme la rationnalité et son
contraire, et puisque les deux premières Jormes peuvent notoirement se trouver
dans le méme sujet, pourquoi Ics deux secondes ne s'y trouveraient-elles pas
égalemenl ? Est-ce parce que la rationnalité et Virrationnalité soni contraires
? Ellcs ne le sont point par l'essence, car elles sont toutes deux de Vessence
de qualité ; elles ne le sont.... per adjacentia, car elles sont, par la
supposilion, adjacentes à un sujet identique. Du moment que la mème substance
convient à toutes les Jormes, la contradiction peut se réaliser dans un seul et
mème ótre [ed. Geycr del testo originale, p. 515:... « Quibus hoc obicimus:
quod si hanc sententiain concedi convenit, quippe si formas contingeret a
subiecta materia discedere, ita scilicct quod subiecta bis penitus rarerent, in
nullo pcnitus hir et ille differrent, sed iste et ille omnino idem
efiicerentur. Ex quo scilicet pessimain haeresim incurrunt, si hoc ponatur,
clini scilicet divinam substantiam, quae ab omnibus formis aliena estidem
prorsus oporteat esse cum substantia. Nec (propter) deum solum verum est, sed
etiam propter alias substantias fortasse, ut est phoenix. Oportet
igilur secundum praedictam Contro la dottrina della indifferenza, egli oppone
(v. la nota 132) per prima cosa la definizione del concetto di genere ( genus
est, quod praedicatur de pluribus ), dalla quale rimane escluso che ima e
medesima cosa possa essere mai al tempo stesso genere e individuo: e poi le
oppone anche la relazione predicativa in generale, stando alla quale bisogna
mantenere la distinzione tra individui e concetti specifici, e deH’universale
stesso è impossibile predicare la individualità, laddove, se si prende l’individuo già nello
stesso tempo come specie o come genere, il concetto di genere, in quanto vieu
predicato, resta privato del proprio soggetto, o, quando si tratta di qualità
(cioè di adiacentia ), non può appunto essere più un predicato, valido per diversi
soggetti [cfr. il testo originale, ed. Geyer, p. 520: « .... non omni generi
convenit, eum omne genus non habeat praedicari in adiacentia »] 2Si ).
sententiam substantiam divinam idem esse cubi qualibet substantia, quam constat
esse veram et simplicem et ab ni nni proprietate irnmuncm. Praeterea si cadem
substantia essentialiter sit in omnibus, ita scilicet (ut) ea quae informata
est ralionalitate, sit irrationalitate occupata, quomodo negari potest, quin
substantia rationalis sit substantia irrationalis ? Quibus obiectis nidlatenus
refragari queunt, cum eadem substantia penitus omnibus f'ormis informari
ostendatur. Quis enim cum eandem substantiam albedine et nigredine et sessione
occupatam viderit, ncgabit substantiam albani esse sedentem ? Si quis vero dicat insistens rationale esse
irrationale, veluti substantia alba est substantia sedens, cum hae oppositae
formac contrarrne sint, illae vero non, fallitur, quia nec in essentia magis
sunt oppositae istae quam illae, cum eadem essentia qualitatis sit penitus, nec
in adiacentia, cum eidem substantiae penitus adiaceant. Sed si quis dicit formas istas
oppositionem habere ex oppositis formis quibus informantur, fallitur, cum eadem
ratione non possit assignare, onde illae oppositionem trahant »]. 2S1 ) Ibid.,
p. 100: Muis c’est là ce qui n'esl pus soutenable. La défirtition qui veul que
le gerire soit ce qui est attribuable à plusieurs, a été donnée à l'exclusion
de Vindividu. Ce qu’elle définit ne peut en soi étre à aucun titre, en aucun
état, individu. Dire qu'une méme chose tour à tour comporle et ne comporte pas
la définition du genre, c'est dire que cette chose est, comme genre,
attribuable à plusieurs, mais que, comme genre aussi, elle ne Vest pas, car un
individu qui serait attribuable ò plusieurs serait un genre ; par conséquent
Vassertion est con[Finalmente, anche contro quella tesi, a noi non meglio nota,
che concerne una proprietas delle cose (v nota 73), rivolge ripetutamente la
stessa obiezione tratta dalla definizione del concetto di genere, e denota in
generale come la cosa più pericolosa e insostenibile. tradicloire, ou plutòt
elle n’a aucun gens. Les auteurs
disent que celle nroposition : L’homme se promène, vraie dans le particulier,
est fausse de l’espèce (qui tuttavia il Réniusat deve o aver avuto sottocchio
un testo scorretto, o aver inteso scorrettamente il testo corretto, poiché lu
dottrina ripetutamente enunciata da BOEZIO, a p. 15 [in Porph. a Vici, transl.,
I, 16: ed. Brandt, p. 45; PL, 64, 27], p. 36 [i6.. II, 10 (Cicero sedet, homo
sedei): cd. Brandt, p. 103; PL, 64, 57], ecc., facendo uso dello stesso esempio
Cicero ambulai, homo ambulai è espressa
naturalmente nel senso, che l’accidente è predicato, primitivamente dell’
individuo e derivativamente della specie, ma non che questa seconda
predicazione sia falsa). Commenl maintenir cotte dislinction, si une ménte chose
est espèce et individu ? (p. 101) V individuai ile résultant de formes
accidentelles ne saurait èlre l'attribut essentiel d’une substance susceptible
d'universalité ; ccpendant certe substance, en tant que particulière, distincte
de ses somblables, est esscntiellement individueUe, violation manifeste de la
règie de logique qui porte que „dans un mème, Vaffirmalion de l'opposé exclut
Vaffirmation de l’autre oppose’'’. Lorsqu'on dit que le genre est atlribuable à
plusieurs, on parie ou d'attribution essentielle (praedicari in quid), ou de
toute autre ; s’il s’agit d'attribution essentielle, camme on le nie aprìs
Vavoir affirmé, elle cesse d’ètre essentielle, ou elle emporte avec elle son
sujet ; s'il s’agit d’attribution accidentelle (in adjaceutia), la définition
n’est plus exacte, elle ne convient plus à tout genre [ed. Geyer Huic autem
sentcntiae o p p o nani u s . . . . In primis inquirendum iudico, quomodo
Porphyrius dicit praedicari de pluribus ad cxclusioncm individuorum, cum illa
scilicet praedicentur de pluribus secundum illos. Sed dicunt mihi, quod cum
dicitur genus de pluribus praedicari, tale est, ac si dicatur: genus in quantum
est genus, praedicatur de pluribus. quod constare non potest. Amplius cum diffinitio
generis sit, quod praedicatur etc., oportet eum concedere quod individuimi ex
stalli individui sit genus, quia ex ilio quod praedicatur de pluribus, [quod]
est animai. Propterea quomodo dicunt « praedicari de pluribus », quod generi
convenit, genus ab individuo removcrc, cum idem prorsus individuo conveniat
?... Amplius quomodo dicit B o e t h iu s
super Peri ermenias [Boezio, in libr. de interprete ed. seconda, L. II, c. 6
(ed. Meiser, Pars Post., p. 133: PL, 64, 461), p. 337] quod haec propositio «
homo ambulat » de speciali falsa est, de particolari vero vera est ? Numquid et de universali
similiter vera est, cum idem sit universale et particulare ? Sed fortassis
inquies, quod ab hoc universali ambulatio prorsus removeri potest, a
particulari vero non, hoc modo: nullum universale ex statu universali ambulat. Sed similiter dici potest, quod nullum particulare ex
statu particuqualsiasi scambio o confusione tra individuo e universale. [i)
soluzione proposta da Abelardo : il senno praedicabilis]. Ma secondo il suo personale modo di vedere,
egli credeva di aver trovato la via giusta per poter alfine comporre, com’è sua
opinione, il contrasto fra Platone e Aristotele, vale a dire appigliandosi a
quell’unico passo del libro De interpr., dove l’universale è designato come
ciò, ch’è « naturalmente fatto per essere predicato laris anilnilationcm
habeat. Haec quippe enuntiatio: « in co quod est universale, non ambulata,
duobus modÌ9 potest intelligi, sive interpositum sive praepositum.
Interpoeituin sic: in eo quod universale, non ambulat, ac si diceretur:
proprictas universalis non patitur ambulationem, quod omnino falsum est, eum
eidem subiecto universalitas et particularitas et ambulatio adiaceant. Quod si
praeponilur, intelligitur boc modo: non in eo quod est universale, ambulat,
sicut est illud: non in eo quod animai est, habet caput, hoc est: non exigit
proprietas universalis, ut ambulet, sicut non exigit natura animalis, quod
habeat caput. Sed eodem modo verum
crii de particulari, orai proprietas particularis non exigat ambulationem ».
Ecc. ecc., sino alla p. 521], 286 ) Ibid., p. 102: La difficulté est toujours
de faire cadrer ce système avec la définition du genre. Il faut que la
propriété d'ètre attribuable à plusieurs séparé Vuniversel de l'individuel ;
or, on vieni de dire que de plusieurs choses chacune est individuellement
animai ; le nom indiriduel d'animal seraitil donc le nom de plusieurs ? V indie
Uhi serait-il attribuable à plusieurs ? Cela ne se peut. Mais comme animai ne
peut plus se dire de plusieurs, mais de chacun, il n’y a plus de genre, ou
plutòt tout est renversé, c'est l’individu ou le non-universel qui prend la
place de Vuniversel, c'est ce qui ne peut s'ajfirmer de plusieurs qui s'affirme
de plusieurs. et c'est une pluralité où chacun s'affirme de plusieurs que l'on
appelle Vindividu [ed. Geyer, p. 521-22 : « Primum quaerendum est.... quomodo
secundum hanc sententiam individuimi ab universali differat per praedicari de
pluribus, cum individuimi habeat praedicari de pluribus, id est plura sunt,
quorum unumquodque est individuimi. Sed fortasse inquies, quod recte praedicari
de pluribus in diffinitione universalis ponitur ad exclusionem individuorum,
cum omne universale praedicari de pluribus habeat, nullum autem individuimi de
pluribus praedicetur. Sed eodem modo inter universale et animai differentia
potcrit assignari, cum omne universale de pluribus et nullum animai de
pluribus... Praeterea secundum banc sententiam concedere oportet, quod
non-universale sit universale et res quae non praedicatur de pluribus,
praedicetur de pluribus et multos quorum unumquodque de pluribus praedicatur,
concedat individuimi appellali»]. di più cose» (quod natura est de pluribus praedicari
); poteva Abelardo con questo, nella maniera già più sopra ricordata (nota 254
1, far procedere insieme la genesi delle cose qual è data obbiettivamente in
natura, e quella produzione subbiettivamente umana che è la denominazione, e
anzi esprimere questa relazione, persino ricorrendo alla similitudine della
statua, la quale è costituita dalla pietra, che lia esistenza obbiettiva, e
dalla forma, ch’è aggiunta dalla mano dell’uomo 286 ). Ma su ciò si fonda ora
il vero e proprio sciboleth, che contraddistingue la posizione di Abelardo nel
con2BC ) liuti., p. 104 s. : Aristote, au dire d'Abélard, parati l'insinuer
clairement, qunnd il définit l'universel ce qui est né altribuable à plu~
sieurs, quod de pluribus natum est praedicari. Cest une propriété uree
laqtielle il est né, qu’il a d’origine, a nativitate sua. Ór, quelle est la
nativité, l'origine des discours ou des noms ? Vinstitution humaine, tandis que
l’origine des choses est la création de leurs natures. Celle différence
d’origine peut se rencontrer là méme où il s’agit d’une mème essence. Ainsi
dans cel exemple : cette pierre et cette statue ne font qu’un, l'étal de pierre
ne peut ótre donné à la pierre que par la puissance divine, l’état de statue
lui peut ótre donné par la main des hommes. [ed. Geycr, p. 522: «Est alia de
universalibus sententi a rationi vieinior, quae nec rebus nec vocibus
communitatem attribuit; sed serinones sivc singulares sive universales esse
disserunt. Quod etiain Aristoteles ... . aperte insinuat, cuin ait: «
Universale est, quod est natum praedicari de pluribus », idest a nativitate sua
hoc contrahit, ex institutione scilicet.... Hoc enim quod est n o m e u sive s
c r m o, ex hominum institutione eontrahit. Vocis vero sive rei nativitas quid
aliud est, quam naturar creatio, e uni proprium esse rei sive vocis sola
operatione nalurae consistat ? Itaquc
nativitas vocis et sennonis diversitas, etsi penitus in essentia identitas.
Quod diligentius exemplo declarari potest. Cum idem penitus sit hic lapis et
haec imago, alterius tamen opus est iste lapis et a[terius haec imago. Constat enim a divina substantia statura lapidis
solummodo posse conferri, statum vero imaginis hominum comparatione posse
formari»]. Nella traduzione di Boezio, p. 338 [ed. secunda, II, 7: ediz.
Meiser. Pars Post., p. 135; PL, 64, 462], il passo aristotelico citato nella
Sez. IV. nota 197, è cioè del seguente tenore: Quoniam autem sani haec quidem
rerum universalia, illa vero singillatim ; dico autem universale, quod in
pluribus natum est praedicari, gingillare vero, quod non, etc. Qui dunque
Abelardo poteva appoggiarsi, per la tesi realistica, alla parola « natum », e
al tempo stesso, per la tesi nominalistica, alla parola « praedicari ». Così in
quell’epoca, ch’era incapace di assurgere alla visione dei principii, ma si
limitava allo studio « tra ' Van
mdirizzi; ««Perocché, una volta che il predicato venga r, conosciuto come
naturalmente determi nato, ne consegue che nè le cose come tali, nè le paroJ '
come tali sono 1 universale, bensì la universalità è ri posta soltanto nello
stesso praedicari, e dunque in' quella maniera di esprimersi ch’è il giudizio,
insomma el « sermo » : con questo si evita ora la opinione sba ghata e
insostenibile, che cioè di una cosa possa ori carsi una cosa, sì che, a questa
maniera, mia co a f ugual r e in più e una cm., ma « per r.ppnnto „„ preJica | 0
' E, mettendo „ ra Abelardo in eo„„e„i„„ e eon ' conseguenza 1, definizione già
riferita del genere ne ‘ espressamente che
nega mo) sia di • universale il predicato (ser” 3 3ll ° ra ‘“tersale
anche la parola in quanto paro a poiché alla stessa maniera si potrebbe d mLT U
Cl,e è “• «. 'ce dell alfabet o; „ deve rnvece, in,„eli„ definir .. tener rizzi
sano statesenz^tmcozUuIt^o^^* 1 !, 0 he dei J ' vcra ' 'odilati diversi da uno
all’altro scrittore 77'l f°? dame ? to di passi isolai/ Ctteratura in uso nelle
scuole Cfr -Y* !u testi e l‘e formavano ^)Ibid aPPre S .° k DOta 293 -‘ P1U S °
Pra n ° tC I05 ’ 129 ’ buatte à plufieurs, ni ìefchòses'n'i fet* 1 umversel Pst
d'origine altri c p n est paste mot. la voix. mais le dilriu, T" Car stori
du mot, qui est attribuable à divers C e ? t ~ d ~ dire l ' p *prcsdis mots, ce
ne sont pas les mots mais Ù . 9 lw, g “ P ' Ù S ° Pra (nota 63 > "tato,
di GiovauTda Salisb^ “ PaSS °’ fisso l’occhio sopra l’oggetto da essa definito,
cioè sopra lo stesso genere, e con ciò si rende manifesto che nella parola
singola non è già contenuto il genere stesso nella sua totalità, bensì invece
la parola ch’esprime il genere, viene, in un giudizio, predicata di diverse
cose, insomma che proprio il giudizio è predicabile, « sermo est prue dicabilis » , perchè il
pensiero dispone per ordine le parole, in vista della descrizione delle cose
2SS ). Se per conseguenza la parola è predicata, non secondo la esteriorità del
suo effettivo suono, bensì secondo il suo intimo significato, e è dunque il suo
significato che ne fa un uni) Ibid., p. 107 s.: Mais Abelard se faii des
objeclions. Comment l oraison
peni-elle elre un,vergelle, et non pas la voix, quand la descriplion du genre
convieni aussi bien à l’une qu'à Vautre ? Le genre est ce qui se dii de
plusieurs qui diffèrent par Vespèce ; ainsi le décrit PorphyTe. Or, la
descnption et le décrit doivenl convenir à tout suiel quelconque ; c est une
règie de logique, la règie De quocumque, et camme le discours et Ics mots ont
le ménte sujet, ce qui est dit du discours est dii des mots. Vane, comme le
discours, la voix est le genre. Celle pròposti,on est incongrue, non congruit;
car la lettre étant dans le mot et par consequent s attribuant à plusieurs
comme lui, il s'ensuivrait que la lettre est le genre. Cesi que, pour que la
description ou définition du genre so,t appi,cable il faut qu'on Vapplique à
quelque ckose qui uit en so, la realite du défim, rem definiti; c'est la
condilion de l'applicatwn de la regie De quocumque, et ici catte condition n'existe
pus Le mot ne contieni pas tout le défini, il n'en a pas laute la compréhens,on
et,1 n est atlnbue a plusieurs, affirmé de plusieurs, pracdicatum de pluniras.
qU e parce que le discours est prédicable. est sermo pracdicabibs, c est-a-d,re
parce que la pensée dispose des [si direbbe che Franti intenda come « fosse
scritto « Ics »] mots pour décrire toutes choses [ed. Geyer. p. 522-23: «Cui
sementine opponitur. 1 rimimi enun quaeritur, cur sermones et non voces esse
universale? astmant cum descriptio generis tam vocibus quam sermombus
conveniate De quocumque enim praedicatur descriptio, et descriptum; sed
descriptio generis praedicatur de voce, cum vox sit ifiud quod praedicatur de
pluribus differentibus specie etc.; vox «ritur est genus. Quod
sic s o 1 v i t u r: Huic argumentationi; Cst ', ., '',j US ' ^ mUd q "° d
praedicatur ' ( iuia est sermo PaANTL, Storia detta logia, in Occidente,
II.versale 289 ), ben può dirsi a questa maniera che il genere e la specie sono
una parola (vox), ma non già, viceversa, che la parola è la specie o il genere,
perchè la essenza individuale, che è la parola, non può essere predicata di più
cose, mentre si può, con una tale concezione, ammettere invece, senza
difficoltà, un essere obbiettivamente reale, corrispondente ai generi e alle
specie 2D0 ). Generi e 2#s )
Ibid.. p. 108: On peut dotte dire que le discours étanl un gente, et le
discours étant un mot, un mot est le genre. Seulement il faul ajouter que c'est
ce mot uvee le sens qu’on a entendu lui donner. Ce n'est pus l essence du mot,
en tant que mot, qui peut ètre attribuée à plusieurs ; le son vocal qui
constitue le mot est toujours actuel et particulier à chaque fois qu’on le
prononce, et non pas universel ; mais c'est la signification qu'on y attaché
qui est générale [cd. Geyer, p. 523-4:« Cum haec vox sit hic sermo et hic sermo
sit genus, quomodo ratiouab iliter negari poterit, quin haec vox sit genus ?
Quod sic solvitur: Cum dicimus « hic sermo est genus», tale est ac si dicamus:
sermo huius institutionis est genus. Sed cum dicimus « haec vox est genus »,
tale est ac si dicamus: haec essentia vocis est praedicabilis ctc., quod falsum
est.... Concedimus itaque has esse
veras: Hoc nomen est genus, hoc nomen est universale. Similiter: Hic sermo «
animai» est genus, hoc vocalndum « animai » est genus et universale, et
similiter omnes in quihus subicitur vox innuens institi! tionem, non
simpliciter essentiam vel prolationem, sed signifìcationem et praedicans
eommunitatem, sicut est: genus, universale, sermo, vocabulum, dictio,
oratio.... »]. *®°) Ibid., p. 108-9: Abélard.... permei qu'on dise que le genre
ou l'esp'ece est un mot, est vox, et il rejette les propositions converses ;
car si l on disait que le mot est genre, espèce, universel, on attribuerait une
essence individuelle, celle du mot, à plusieurs, ce qui ne se peut. C'est de
mème qu'on peul dire: cet animai ( hic status animai) est cette matière, la
socratité est Socrate, l’un et l’aulre de ces deux est quelque chose, quoique
ces propositions ne puissent ètre renversées [ed. Geyer, p. 524: « Nota tamen,
quod haec propositio vera est: genus est vox et species est vox. Tale est enim
ac si dicatur: generale vocabulum est vox vel speciale. Convcrsae harum,
scilieet: vox est genus vel vox est species, non sunt concedendae, cum per
illas communitas essentiae ostendatur, quae similiter in omnibus reperitur.
Concedimus exiirn propositiones: hic status animai est, haec materia Socratis
est Socrates, utrumque istorum est aliquid; conversas vero istarum negamus
omnino, scilieet: homo est hic status animai, Socrates est materia Socratis,
aliquid ast utrumque istorum»),
Dialect., p. 480: in significationibus suis vocabula saepe nominantur,
ut cum ea quoque vel genera vel species vel universalia vel singularia rei
substantias vel accidentia nominamus. Nomen
autem.... hoc loco accipiendum est quaelibet vox significativa simplex, qua
rebus praeposita vocabula praedicamus. specie, cioè, in quanto sono da noi
pensati, si riferiscono bensì a qualche cosa che esiste, e questa cosa afferrano,
ina soltanto in senso figurato poteva dirsi che essi esistono quali universali
pensati da noi, poiché il senso proprio di tale espressione è solanieute
questo, che esiste cioè qualche cosa che dà luogo a questi universali 291 ).
2tfl ) Ibid., p. 109 10: Il décide que. bien que ces concepts (ma chi sa se
nell’originale latino ri leggerà in questo punto « conceptus » ? io eongetturo
piuttosto che vi si dica « intellectus » : v. appresso le note 313 ss.) ne
donneiti pas les choses camme discrètes, L, 64, 121-2], p. 84: rfr. la Sez XI,
nota 44), secundum quas ipsa genera, quae ab ipsis divisa sii nt.
specificantur.... Nec cum ipsae generis subslantiam in spederà reildunt, ipsae
quoque in essentiam speciei simul transcunt, sed sola "enera vel subjecta specificantur,
non qmdem separata a difierentiis. sed, nisi ei differentiae adveniunt, ipsa
sola non etiam differentiae species efficitur, non quidem cum differentiis, sed
per differentias, sicut in libro Partium, tractatu speciei, disseruimus (v la
nota 272). Si enim differentiae in speciem transferrentur cum lenere . ipsas de
substantia rei esse, et in partem malenae venire rontineeret.... (p. 478)
Nihil.... aliud materia jam fannie aclual,ter contunda quam ipsum materiatum,
ut nihil aliud est hic annulus aureus quam aurum in rotundilalem duetum....
Stalline.... compostilo, quem Boethius (p. 88) ponit . species non riddar, cum
nec materia sit unum, sed operatione hominum, nec substantiae nomen, sed
accidentis cum statua videtur et a quadam compositione sumptum. z»«) Introd. ad
t/no/.. II, 13, p. 1083 [98]: Cum autem species ex genere creaci seti gigni
dicantur, non lanieri ideo ri eresse est,genus speries suas tempore, vel per
existentiam precedere, ut videlicet ipsum prius esse contigeril quam Mas.
Numquam eternai genus nifi per aliquam speciem suam esse contingit, vel
ullatenus animai juit, antequam calumale vel irrationale fuerit : et ita
quaedam species cum suis generibus simul naturaliter existunt, ut dMlatenus
genus sino illis, sicut nec ipsae sine genere esse‘pomerint [PI., 178, lOtuj.
praedicatio, la quale può riferirsi ora alla forma, ora alla cosa formata da
questa, e via dicendo 29? ). Ma dovendosi, a proposito di questo generarsi
delle specie dai generi, toglier di mezzo quella più difficile questione riguardante
gli opposti (v. sopra le note 113 e ilo s.), ecco qual è su questo punto il
modo di vedere di Abelardo: La diversità delle specie può essere determinata
soltanto dal fatto che sussiste ima diversità delle sostanze; ma questa è un
prodotto della differenza specifica la quale si chiama sostanziale, proprio
perchè realizza entro la sostanza ima separazione di gruppi, e con ciò, al
tempo stesso, una unità dei gruppi così separati, eiascuno dei quali ha una
comune natura 888 ); e a quel modo che, per conseguenza, la materia, ch’è il
genere, non si presenta più, hi identità di essenza, in tutte quante le specie,
cosi dalla differenza specifica vengono esclusivamente prodotte soltanto le
specie della sostanza stessa; se perciò tutte le altre specie, che non
procedono dalla sostanza, si debbono generare senza l’azione esercitata da una
differenza sostanziale e debbono pertanto aver il pròpno fondamento nella sola
materia, la unità di quest’ultnna va intesa come somiglianza di essenza
(consimilitudo), dalla quale per es„ nonostante la comune essenza
ipslls^nriti^t ^ P> 1277 f183]: ^oprie,as ilaque n,aterine ZZ, v/,, secundum
quam ex ea materialitcr al,quid fieri habe'. Materiati vero proprietàs est ipsa
e converso postcrioritas Pro prietates itaque ipsae impermixtae sunt per
praedicMionem licei iosa proprietà.... permixtim de eodem praedicentur. Aliud
quippe est prue Ì7{/~\^]. f ° rma,Um ÌPSUm ' h e iP sam Jormae subjec“ )
Dialect., p. 418: Diversitas itaque subslantiae diversitatem quae natura
substantiae divina univit operatio.
(lell'esser colori, non rimane esclusa la opposizione contraria del
bianco e del nero 2 "). Così Abelardo tiene distinte, da un lato, quelle
forme, che son, esse medesime, essenze, e che bisogna pur che entrino nella
materia, la quale sta a loro fondamento ( subiectum ), per far di questa
qualche cosa, che senza quelle non sarebbe,
e, dall’altro lato, quelle forme, che per se stesse non sono essenze, ma
son di già contenute nella materia del genere 300 ) ; naturahnente nelle prime
c’è la differenza specifica vera e propria, a quel modo che nelle seconde c’è
la così detta nota casuale di differenze accidentali, cioè queU’adiacerma (nota
284), cli’è oggetto della predicazione non-sostanziale 301 ). Ma, con ciò, gli
opposti, nelle forme sostanziali, sono derivati soltanto ! ") Uh/., p.
400, dove al passo citato più sopra (nota 113) fa sèguito: Si enim omnium
specierum est eadem in essentia materia, tunc albedinis et nigredinis et
caeterorum contrariorum, quae omnia.... ejusdem generis species esse necesse
est.... Nostra quoque sententi a te net, solas substantiae species differentiis
confici, caeterasque species per solam subsistere materiam, sicut in libro
Partium ostendimus. Si ergo eadem prorsus est materia, quae est in ipsis diversitas
? Sed eadem (cioè diversitas in ipsis est), quae est in consimilitudine
substantiae, non indeterminatae essentine. Ncque enim ea qualitas, quae est
essentia albedinis, essentia est nigredinis, essel enim albedo nigredo, sed
consimilis in natura generis superioris. Consimilitudo autcm vel substantiae
vel jormae contrarietatem non impedit. Riguardo alla consimilitudo, e£r. qui
appresso la nota 307. 30 °) Pseudo-Abael. de intell., edito dal Cousin, Fragm.
phil. (1840), p. 495 s. [Opera, II, p. 755]: Alii autem, qui quasdam formas
essentias esse, quasdam minime, perìiibenl. sicut Abaelardus et sui, qui artem
dialecticam non obfuscando sed diligentissime perscrutando dilucidante nullas
formas essentias esse approbant, nisi quasdam qualitates, quae sic insunt in
subjecto, quod subjectum ad esse earum non sufficit, sicut ad esse quantitatum
ipsum subjectum sufficit... et ad esse sessionis necessaria est dispositio
partium... Nullam enim formam essentiam esse asserunt, cui... poterit
assignari... subjectum ad esse illius sujfficere. Theol. Christ., Ili, p. 1280
[487]: sire illa forma sii communis differentia, h. e. separabile accidens. ut
nasi curvitas, si ve magis propria differentia, i. e. substantialis, sicut est
rationalitas, quae sci licet substantialis differentia non solum facit alterum,
i. e. quoquo modo diversum, verum etiam aliud, h. e. substanlialiter atque
specie diversum [PL, 178, 1251]. Qui la fonte è Porfirio (Sez. XI, nota 44),
cioè Boezio [ad Porph. a se transl., lib. IV], p. 79 ss. dall'attività della
differenza specifica e sono senz'altro separati, mentre, trattandosi delle
forme non-sostanziali, ci si presentano nella materia del genere, quali
possibilità’' 2 ): e Abelardo, dato che per lui a base di tutte quante le
opposizioni puramente qualitative non c’era un substratum sostanziale, mentre
un tale substratum andava riconosciuto esclusivamente per quelle opposizioni
che vengono a costituir delle specie, poteva molto facilmente, con il mantenere
la non-unificabilità degli opposti, sottrarsi a quella difficoltà che più sopra
(nota 115) abbiamo veduta 303 ). ' Ma mentre a questo modo quel processo di
creazione, nel quale la differenza specifica opera separando, e le specie cosi
separate si raccolgono in raggruppamenti unitari (nota 298), si estende, in
progrediente graduazione, sino all individuo singolo, il quale è, come tale,
essentialiter o entialitcr (non tuttavia secondo la sua sostanza) separato dal
suo simile 3 °fre (B0tZI0 ’ P™ nox7Lì h -md ÌS lil l P Ì80 3 r487F-T ^ già, più
s °P ra ' aUa mero sun, difierenlia. q uae loia JL,.,L. Z^ZTentt disTctsum sire
solo numero ab inviami disteni, ut Socrate* e, i>LT ’ mente come im nome
generale equivoco EQUIVOCO GRICE 305 ),
ma invece la « subsiantia », in quanto è questo il concetto del genus
generalissimum, dev'essere consideratacome quella suprema ultima materia, sulla
quale incomincia a esercitarsi Fattività della differenza specifica 308 ). Così
Abelardo, in quanto è platonico, insegna mia ontologia obbiettiva degli
universali, la quale da un lato vantaggiosamente si distingue, per la maggior
cura con cui si giova di Boezio, dal più grossolano realismo di Guglielmo da
Cbampeaux, ma al tempo stesso, mediante il concetto già sopra menzionato (nota
299) di consimilitulio, viene, d’altra parte, in certo modo, a mettersi in
contatto con l’autore dello scritto De gen. et spec. (note 163 e 177) o con la
teoria (nota 132) della indifferenza 807 ). [mi ma dallo stesso principio
Abelardo trae insieme partito secondo il punto di vista aristotelico ]. Ma ora, quanto a quell’altro modo di vedere
di Abelardo, die si 305 ) Glossae ad Porph. (riferite dal Cousin), p. 568: Ens
est aequivocimi.... [569] videlicet illam definilionem, quam habel ens in
praedicamento substantiae, nunquam habebit in praedicamento quantitàtis.... Ens non habet unam substantialem
diffinitionem, cum qua praedicalur de omnibus generalissimis, cum hac
diffinitione praedicatur ens de substantia : substantia est ens, quod ncque est
qualitas nec quantitas etc. V. la Sez.
XII, nota 89. 30li ) Ibid.. p. 565: Substantia est generalissimum, quia est
solum genus.... (p. 566) quemadmodum
substantia est genus generalissimum, cum suprema sii, eo quod nullum genus
supra eam sit, etc. Inoltre il passo citato più sopra, nota 298, e
Dialect., p. 485: Genus omne naturaliter prius est suis speciebus.... genus
[est materia] specierum. 307 ) In una maniera consimile, che ricorda quelle
teorie, si esprime Abelardo, Theol. Christ., Ili, p. 1261 [468]: Sed nec
Socrates, cum sit a Platone numero diversus, li. e. ex discretione propriae
essentiae ab ipso alius, litio modo ideo ab ipso aliud dicitur. h. e.
substantialiier differens, cum ambo sinl ejus[dem ] naturae secundum ejusdem
speciei convenientiam, in eo scilicet [1262] quod uterque ipsorum homo est. Ibid., p. 1279 [486]: Idem vero similitudine
dicuntur quaelibet discreta essentialiler, quae in aliquo invicem similia sunl,
ut specics idem sunt in genere vel individua idem in specie [PL]. accorda con
il punto di vista logico di Aristotele, bisogna che tentiamo di metter in
chiaro, in qual maniera dovesse, secondo lui, intendersi il concetto già
ricordato (note 286 ss.) di « sermo », e com’egli ne determinasse minutamente
il fondamento: e qui fin da principio sembra esser degno di nota ch’egli,
rimanendo assolutamente fedele al punto di partenza da cui lì aveva preso le
mosse, si attiene a passi contenuti nel libroDe interpr. Se cioè deve tenersi
fermo il principio dianzi enunciato, vale a dire che il praedicari è degli
universali, quali sono naturalmente determinati, si ha anzi tutto una semplice
parafrasi dello stesso principio, quando si afferma che la predicazione (sermo)
è in rapporto di originaria affinità con le cose 308 ) : tuttavia, com’è
naturale, ciò va inteso nel senso che la denominazione (vocum impositio ),
venendo dopo, è condizionata e dipendente dalle cose obbiettive che essa
significa ( res significala) 30S ), anzi che, in questo senso, anche la
significano della parola è ancora quel primum, dal quale soltanto dipende la
parola come parola 310 ). Vero è poi che a questa maniera i generi e le specie
non sono nient’altro che ciò che da queste parole è significato 3n ), ma quel
che da esse è significato. 3 " 8 ) Introd. ad theol., II, 10, p. 1074
[90]: Conslat quìppe, juxta Boethium ac Platonem, cognatos de quibus loquuntur
rebus oportere [91] esse semiortes [PL, 178, 1062]. V. Boezio, ad Ar. de interpr. [ed. seconda,
II, 4: ediz. Meiser, Pars Post., p. 93; PL, 64, 440-11, p. 323. J 30 °)
Dialect., p. 487: vocem secundum imposilionis suae originem re significata
posteriorem liquet esse. Ibid., p. 350:
Si nòminis hujus. quod est « homo », propriam impositionem tenueril, secundum
id scilicet, quod substantiae hominis ut existenti ex animali etrationalitote
et mortalitate datum est, ratam omnino conseculionem viderit. Inoltre il passo ricordato più sopra, nota
255. 31 °) Dialect ., p. 345: neque enim nomina ncque verbo sunt, suis non
existentibus significationibus. Ibid..
p. 482: [propria significatio. illa ] scilicet. de qua inlelleclum proprie vox
queal generare. 3iI ) Glossae in Porph.. p. 567: genera et species. id est ipsa
significata harum vocum, come pure nel passo riferito più sopra (nota 278) si
dice sempre: sex voces et significata eorum. in altro non può consistere, a sua
volta, se non nei prodotti (li quel processo di creazione, onde dal genere si
scende giù giù sino all’individuo: e avendo i generi e le specie una esistenza
concreta soltanto negl’individui, nella proposizione « Socrate è un uomo » noi
parliamo per esempio soltanto di quel che significato da queste parole, ina non
già delle parole stesse, in quanto parole 312 ). Ma proprio poiché i generi e
le specie non sono ciò ch’esiste concretamente, l’antico motto « singultire
sentilur, universale intelligitur » conserva il proprio valore: ed essendo, dal
concetto intellettivo ( intellectus ), afferrato ciò che non cade sotto i sensi
3113 ), bisogna che poiché
quell’universale che non cade sotto i sensi, è ciò ch'è destinato a esser
predicato 1 esso concetto
necessa¬riamente contenga in sé il principio onde si genera la predicazione, e
venga alla coscienza, attraverso qualsiasi predicato, come principio del
generarsi di questo, ovverossia: sermo generalur ab intellectu et generar
infelicetum 314 ). Così il « predicare » (sermo) è il terreno degli 312) Diale
et., p. 204: Neque enim substantia specierum diversa est ab essentia
individuorum, sicul in Libro (leggi primo: v. la nota 272) rartium ostendimus,
nec res ita sicut vocabolo diversas esse contingit. Sunt namque diversae
vocabulorum in se essentiae specialium et singularium, ut « homo » et «
Socrates sed non ita rerum diversae sunt essentiae. Unde Ulani rem, quae est
Socrates. Ulani rem. quae homo est, esse dicimus ; sed non illud vocabulum,
quod est « Socrates », illud, quod est « homo», linde quod in re speciali
contingit, et in ipsius individuis necesse est contingere, cum videlicet nec
ipsae species habeanl nisi per individua subsislere, nec in ea, quae informant
et ad invicem jaciunt respicere, nisi per individua, venire (cfr. la nota 296).
313) Introd. ad theol., li, 3, p. 1061: Proprie.... de invisibilibus
intellectus dicitur, secundum quod quidem intellectuales et risibiles naturar
dislinguuntur [PL, 178. 1052: e cfr. PL, 76, 1202], 3U ) Theol. Christ.. I, 4,
p. 1162 a. [365]: Licei etiam ipsum nostrae mentis conceptum ipsius sermonis
lan i effemini quam causam ponere, in proferente quidem causam. in audiente
effeclum, quia et sermo ipse loquenlis ab ejus intellectu proficiscens
generalur, ut cum (leni rursus in auditore generel intellectum. Pro hac itaque
maxima sermonum et intellectuum cognatione non indecenler in eorum nominibus
mutuas fieri licei translationes : quod in rebus quoque et nominibus propter
adjunctionem significationis frequenter contingit [PL, 178, 1130]. alcunché di
predicato), bensì soltanto nel fn) ispirazione aristote/im al giudizio
(praedicari) I _ jù a m dato ceintellettivo lin e" ^ 1“' “nnon cade,,1,,,;
e "p *» »“» lenivo. Con Jè U 00 “ en “ U Intelpovalità (cfv. la nota 252)
Tv '7 ’ m mon,e n‘o di tem. M»v enunciato, richiede „„ cèrio i'.'mm,!!"
per "'ente significante, * non dopo che tnt.e k,T ' '“'i .teno successi va
mente fatte innanzi- e r, ' r„ alicujus exist.it.... fìuod intei cativam
dicere, quod unum P de hU*eó"""l ."™‘ 9u, ' ml,bel ’ta
signifi-,V U !,a f,,nte è Boezio (ad Ar de ituern l ? tellectus ooncipiatur. Meiser p ars Post ^ ss • PI T, P
‘ Ynf 1 ' 1 seeu “ da - I. 1; ed. Sez.
XII, nota 110. - 64 ’ 402 S -L P- 296 s.; V. Ja
siste nella unità di quel pensiero, che esso fa nasce- -re sl8 )- Ma
proprio perciò il giudizio, al pari della parola, in quanto
questaèelementodelgiudiziostesso, ha essenzialmente due lati a un tempo, uno
dei quali consiste nelle cose, delle («de») quali il giudizio tratta
{significai io reali*), mentre l’altro riguarda il pensiero, che esso giudizio
contiene e genera, ma del quale non tratta (significatio intellectualis ): e
c’è pertanto parallelismo tra essere e non-essere, nella realtà obbiettiva, ed
esser vero e falso, rispetto al giudizio 317 ). Ben è vero, cioè, 316 ) Ibid.,
p. 297: ....ut multiplìcem illam dictionem dicamus, quae pluribus imposila est,
ex quibus non fit unum, li. e. plura in sentenlia tenet non secundum id, quod
ex eis unus procedal intellectus. Sic autem e converso omnis illa una est
diclio, quae plurium significativa est. secundum id, quod ex eis unus
intellectus procedal. V. Boezio, p. 335 [o non forse 328? Loc. ult. cit. II. 6.
p. 106 ss.: PL, 64, 447-8] (cioè Aristotele: v. la Scz. IV, note 185 ss.). 317
) Ibid., p. 238: Sunt igitur veruni ac falsum nomina intel- lectuum, voluti cum
dicimus „intellectus verus et falsus “, h. e. habitus de eo, quod in re est vel
non est, quos quulem intellectus in animo audientis prolata propositio
generai.... Sunt cursus vertim ac falsum nomina proposti 1 onum, ut cum dicimus,,propositio
vera vel falsa" i. e. veruni vel falsum intellectum generane. Significant propositiones idem,
quod in re est, vel quod in re non est. Sicut enim nominum et verborum duplex
ad rem et ad intellectum significatio. ita etiam propositiones, quae ex ipsis
componuntur, duplicem ex ipsis significationem contrahunt, unam quidem de
intelleclibus, aliam vero de rebus.... Patet insuper adco, per propositiones de
rebus ipsis. non de intellectibus nos agere.
p. 240 s.: Restat itaque, ut de solis rebus, ut dictum est,
propositiones agant, sive idem de rebus, quod in re est, enuncient, ut „homo
est animai, homo non est lapis “, sive id, quod in re non est, proponant, ut
„homo non est animai, homo est lapis “, ut etiam de significatione reali
propositionis, non tantum de intellectuali, suprapositae [Prautl corregge:
supraposita] propositionis diffinitio (Boezio, p. 291 [? Corrisponde a loc.
ult. cit., Prooem., p. 7 ss.: PL, 64, 395-6]) possit exponi sic significane
veruni vel falsum, i. e. dicens illud, quod est in re vel quod non est in re“,
et in hac quidem significatione veruni et falsum nomina sunt earum
exislentiarum rerum, quas ipsae propositiones loquuntur. Cum autem eamdem
dijfinilionem et de intellectibus ipsis hoc modo exponimus „significanles
[Prantl: significane] verum vel falsum, h. e. generane secundum inventionem
suam de rebus, de quibus agitur. verum vel falsum intellectum “, lune quidem
ipsos nomi- nani [Prantl: nominai] intellectus. Nota autem, sive de intellectibus sive de rerum
existentiis exponamus, orationis praemissionem necce-che la parola « praedicari
» ha tre significati: vale a dire,ni primo luogo la si usa, in modo affatto
estrinseco, per significare la semplice collocazione di un soggetto e di un
predicato, imo di seguito all’altro, fatta astrazione da qualsiasi contenuto
reale; ma poi quella stessa parola concerne, in doppio senso, la relazione,
qual è data effettivamente nella realtà obbiettiva, in quanto che, riguardo a
quel tale processo di creazione (note 294 ss. e 312), il praedicari mette in
rapporto con la materia del genere o il formato ( materiatum ) o la forma ;
tuttavia, com’è naturale, soltanto tale relazione, espressa dal termine
praedicari in queste due ultime sue accezioni, è ciò di cui («de quo») tratta
il giudizio: e in tale significalo praedicari vai quanto esse, sicché, in quanto non possiamo enunciare giudizi, se
non con parole che im giudizio sia
affermativo, o un altro negativo, e via dicendo, queste son distinzioni che
ricadon nell’orbita della modalità della espressione 318 ). Inoltre c’è pur
coincidenza tra quel duplice riferimento che può esser contenuto nei giudizi, e
l’antica distinzione tra « de subie- soriani esse. Qui la fonte si trova in
Boezio, p. 321 [corrisponde a tm iM ' V/ 7 64 ’ 437 ~ 8] -~ Cf "- anche la
347 - ) Unii., p. 366-7 : Tnbus autem modis „praedicari “ sumilur : uno quidem
secundum enuntiationem vocabulorum ad se invicem in conslructione ; duobus vero
secundum rerum ad se inhaerentiam, aut cum videlicel in essentia cohaeret sicut
materia materiato, aut cum alterum alteri secundum adjacentiam adhaeret, ut
forma materiae. Ac secundum
quidemenuntiationem omnis enunliatio.... praedicatum et sub- jectum li a bere
dicitur.... Sed non de his in propositione aeitur.
sed de predicanone tantum rerum, illa scilicet solum. quae in essentia, quae
verbo subs,antico expnmitur. consista!.... Tantum itaque ..praedican illud
accipimus, quantum si „hoc Mud esse 1 * diceremus. tantum per,,removeri'\
quantum per,,non esse 1 *.... Cum itaque per ..praedicari, „esse accipiamus,
superflue rei „rere“ vel .. affermative “ apponitur: Quod emm est aliquid, vere
est illud, affirmative autem enuntiatioms est determinano, quia tantum in
vocibus consisti/ affirmatio sicul et modi vel determinationis oppositio [leggi
con il Pronti appositio). Modus emm vel determinano (v. la Sez. XII, nota 119)
tantum vocum sunt designatila, quae solae moderanmr vel determinata [Prantl:
determinantur] in enuntiatione positae.
c/o» e « in subiccto » (v. la Sez. XII, nota 92), e la h>x
praedicamenti ha la propria sfera d’influenza proprio in quelle due accezioni
reali del giudizio 31 °). Con ciò ci è resa ora soltanto interamente perspicua
la su riferita partizione della dialettica (note 272 ss.) secondo Abelardo.
Tutto sta nel sermo, cioè nel giudizio. Ma è anche vero che gli universali sono
i predicati che son nati, che sono stati generati nel processo della creazione,
e il pensiero li aff erra, secondo la dottrina di Platone, e, secondo la logica
di Aristotele, li enuncia, come universali, nel giudizio: e anzi perciò
Abelardo, accanto alle solite quinque voces, ne annoverò ancora mia sesta, cioè
anche l’individuo (note 278 ss.), poiché l’individuo, quale prima substantia
(Sez. XII, nota 91), ovvero, come qui anche lo si denomina, quale principalis
substantia, viene designato appunto con quella parola (vox), che corrisponde
all’ultimo grado del processo della creazione 3l2 °). Ma poi, giacché Abelardo
considerava la differenza specifica esclusivamente come forza efficiente, e non
come tale che passi essa medesima nella materia del genere (nota 295), egli si
trovava a dover prendere qui il nome della differenza non quale sostantivo,
come aveva fatto Guglielmo da Champeaux) Glossae in Categ . omnia.... aut dicuntur de princi ’palibus
substantiis sibi subjectis.... servata lege praedicamenti.... aut sani in eis subjectis. Un diverso modo di
esprimersi, in luogo di questo, si ha (ibid ., p. 585 s.) nella distinzione tra
praedicari sub stantialiter e praedicari accidentaliter (Boezio, p. 131 \i.n 4r
Praed I; PL, 64, 189]): cfr. la nota 322. m> ) Ibid., p. 584: species, in
quibus conlinentur principales subslamine.... genera et species ordinata post
principales substantias sola.... dicuntur secundac substantiae (e ripetutamente
a questa stessa mamera). p. 591 : Vere primae substantiae significanl aliquid
hoc individuale, quia illud, qund significatur a prima substnnlia, scilicet
quae tox est sicut et consimilia (così si deve leggere secondo il manoscritto,
con una piccola modificazione; la lezione del Cousin dà un controsenso), est
individuum et unum numero, i. e. parificalum numerali descriptione, i. e.
significatur ab hac voce, quae est individuum et unum numero., bensì alle
obiezioni che su questo punto furono sollevate anche da altri (nota 122),
poteva sottrarsi con l’interpetrare la parola che designa la differenza, come
un aggettivo derivato da questa (sump-, um » ,) ss)). Ma a quei predicati nati
seguono poi nelle Categorie le cose stesse, in quanto vengono designate con
parole « naturae, quae vocibus designatitur
» e per conseguenza le categorie
contengono le cose a22 ), mentre appresso vengono prima di tutto considerate le
parole, in quanto esse sono ciò che designa, e costituiscono il passaggio al
giudizio (sermo) stesso, che è composto da quelle. [o) anche il preteso
intellettualismo di Abelardo deriva dal suo aristotelismo]. Ma allora il giudizio non contiene già le
cose, bensì contiene il pensiero ( intelleetus), e invece tratta intorno alle
cose, ma non 321) Dialect., p. 456 : De nominibus dififerentiarum sciendum est,
ut non quidem substantiva, sed sumpta a dififierentiis sumantur, posita lumen
loco specierum. Oportet eitim in eadem significai ione vocabula dijjerentiarum
sumi in divisione generis, in qua significatione ipsa in dijfinitione speciei
ponuntur, cum scilicel nomini generali adjacent.... (p. 457) sicut in nostra
fixum est senlentia, nullo modo inter accidentia dififerentias admiltamus (v.
sopra le note 300 s.). Quod autem Porphyrius per dififerentias genus in species
dividi dixit, secundum eam dictum est sentenliam. qua naturam generalem in
species redigi atque distribuì per susceptionem dififereniiarum realiter voluit
; aut potius per dififerentias genus in species dividi voluit, cum earum
vocabula adjuncla nomini generis speciem designant, atque diffinìtionem speciei
componunt. hoc modo „animai aliud ralionale, aliud irrationale animai .‘ Ihid, p. 189: In sumplis enim non ea, quae ab
ipsis nominantur, comparantur, sed tantum fiormae, quae per iosa circa subjccta
determinane tur ; alioquin et subslantias ipsas comparaci contingeret, quae
saepe a sumptis nominibus nominantur, ut ab eo quod est album.... 322 ) lbid..
p. 209 e 245, cioè due passi, che sono stati citati di già più sopra, nota 272.
Ma vedi inoltre a p. 220: Subiectarum vero rerum diversitas secundum decem
Praedicamentorum discretionem superius est ostensa, qua [Cousin: quae]
principale ac quasi substantialis nomini significano detur. Caeterae vero
significationes, quae secundum modos significando accipiuntur, quaedam
posteriores atque accidentale* dicuntur. già ili quanto le significhi, bensì in
quanto contiene la connessione, afferrata dal pensiero, tra le cose e il
processo di creazione. Laddove per conseguenza il predicare Tessere (nel
giudizio) non è esso medesimo un essere, nel predicare si tratta di uno stato di
cose reale, cioè della connessione obbiettivamente reale tra ciò ch’è
significato dal soggetto, e ciò cli'è significato dal predicalo 323 ). Questa
distmzione fra « contenere » e « trattare » forma l’intimo nòcciolo della
concezione del giudizio secondo Abelardo 324 ). È ben vero, cioè, che il
predicato ha un suo aspetto grammaticale, e che, designando noi nel giudizio
una sola e medesima cosa con varie denominazioni (come per esempio quando
chiamiamo Socrate ora uomo, ora corpo, ora sostanza), appunto in ciò consiste
una differenza tra la espressione verbale e la realtà (efr. la nota 312); ma
mentre la praedicatio per eè sola, avulsa dalla obbiettiva rerum inhaerentia,
non è assolutamente nulla, precisamente la logica ha il compito di studiare il
giudizio, in questo senso, dal lato della espressione verbale S2S ). Anzi quel
che più importa è pro32S ) lbid., p. 241: Digrumi miteni inquisitione censemus,
utrum Mae existentiae rerum. quas propositiones loquiintur, sint aliquae de
rebus existentibus. Clanim ilaqiie ex suprapositis arbitrar esse, res aliquas non esse ea, quae
a propositionibus dicuniur.... Palei insuper, ea quae propositiones dieunt
nullas res esse, cum videlicet nulli rei praedicatio eorum apiari possit ; de
quibus enim dici putest, quod ipsa sint ..Socrates est lapis “ vel ..Socrates
non est lapis"?. ...Esse
autem rernaliquam vel non esse, nulla est omnino rerum essentia. Non itaque
propositiones res aliquas designant simpliciter quemadmodum nomina. Imo
qualiter sese ad invicem habeant, utrum scilicel sibi conveniant annon,
proponunt ; quae idcirco verae sunt, cum ita est in re sicut enunciant, lune
autem falsae, cum non est in re ita. Et est projecto ita in re, sicut dicit
vera propositio, sed non est res aliqua, quod dicit. linde quasi quidam rerum
modus habendi se per proposiliones exprimitur, non res aliquae designantur. s24
) Soltanto dall’avere disconosciuto questa differenza è derivato, che il
Cousin, e con lui l’Hauréau e il Rémusat, abbiano ravvisato nella dottrina di
Abelardo un intellettualismo o concettualismo. 3 “) Dialecl., p. 247 s.: Si
quis itaque secundum rerum inhaeren tiam rcalem acceperit praedicationem ac
subjectionem, secundum id prio ciò, di cui il giudizio « tratta »; ma ciò non è
nè la parola nè il pensiero (intellectus), poiché non può dirsi che dalla
esistenza di tuia data parola venga posta la esigenza che esista un’altra
parola, e neanche sussiste, tra i pensieri, che i giudizi « contengono », una
reciproca affinità che li leghi a forza: poiché in ciascun giudizio abbiamo pure
un unico pensiero soltanto, e ad ammettere che ne abbiamo parecchi insieme, si
arriverebbe alla conseguenza che avremmo al tempo stesso un numero infinito di
pensieri, essendo obbiettivamente, di fatto, contenuti in ciascuno stato
elementi infiniti in serie continua: invece solamente in ciò, di cui il
giudizio « tratta », deve trovarsi o fissarsi la connessione reale, ovvero
quell’obbiettiva relazione reciproca: e perciò anche la modalità della
espressione, sia cioè affermazione o negazione o via dicendo (v. la scilicet,
quod unaquaeque res in se recipit ac subsistit, sicut nihil esse eam viderel
praeter ipsam, ita eam nihil esse per se ipsam invenerit. Al vero magis
praedicationem secundum verbo proposiiionis, quam sedi ndum rei exislenliam,
nostrum est attendere, qui logicae deservimus, secundum quod quidem de eodem
diversas facimus enuntialiones hoc modo Socrates est Socrates vel homo vel
corpus vel substantia. Aliud enim in nomine Sacratis quam in nomine hominis vel
caeteris intelligitur ; sed non est alia res unius nominis, quod Socrati
inhaeret, quam altcrius. V. inoltre il passo citato più sopra, nota 255. 328 )
lbid., p. 352 s.: Neque enim veram Itane consequenliam „si est homo, est animai
“ de vocibus agentem possumus accipere, sive diclionibus sive propositionibus. Falsum est enim, ut, si haec vox
..homo" existat, haec quoque sit quae est,.animai “ ; ac similiter de
cnuntiationibus sive earum intellectibus. Ncque enim necesse est, ut qui
intellectum praecedenti propositione generatum habet, habeal quoque intellectum
ex consequenti conceptum. Nulli enim diversi intellectus ita sunt affines, ut
ulterum cum altero necesse sit haberi, imo nullos simul intellectus diversos
animam retinere, ex propria quisque discretione convicerit, sed totani singulis
intellectibus, dum eos habet. vacare invenerit. Quod si quis essentiam
intellecluum ad se sequi sicut essentiam rerum, ex quibus habentur intellectus,
concesserit, profecto quemlibet intelligentem infinilos intellectus habere
concederei, secundum id scilicei, quod quaelibet propositìo innumerabilia
consequentia habet.... Ut igitur
verilatem consecutionis teneamus, de rebus tantum eam agere concedamus, et in
rerum natura regulas anteccdentis ac consequentis accipiamus. nota 318), non
risiede nè nelle parole nè nei pensieri, bensì è da ricondurre soltanto al loro
fondamento obbiettivamente reale 32r ). [p) ma in Abelardo, vero spirito
aristotelico non c’è: il suo interesse centrale è volto, sotto l’impulso di
Boezio e dello stoicismo, alla teoria retorica dell'argomentazione}. Ma se a questa maniera, secondo Abelardo, nel
giudizio si ha clic fare non con il pensiero ( intellectus ), ma con la
inerenza di fatto nella sfera della oggettività, si capisce ora altresì perchè egli
(e il motivo al quale in ciò si conforma, è dato dal giuoco di combinare
assieme elementi stoici con elementi boeziani) tratti il giudizio categorico
solamente come un grado preparatorio al giudizio ipotetico, nel quale ultimo
s’inserisce la topica, come base della sua validità. Il giudizio ipotetico, in
quanto è complesso, ha anzi la funzione di servire come espressione adeguata
della connessione, e questa viene resa manifesta nel procedimento
dell'argomentazione, mediante ragionamenti, nella ipotesi che le premesse
abbiano, per chi ascolta, un valore di enunciazione espressiva. Quel, cioè, che
l’uomo pensante afferra con la mente, nella maniera rivelata da Platone, ed
enuncia con il giudizio, nella maniera fissata da Aristotele, deve ora esser
utilizzato per l’argomentazione, nella maniera propria della tradizione
retorico-ciceroni alia. Vale a dire che anche neH’argomentazione come viene osservato con tono polemico contro
altri studiosi: v. la nota 225 non si tratta
già dei pensieri ( intellectus ), bensì di quel medesimo oggetto del quale
trattano i giudizi, che costituiscono rargomentazione stessa, con questa sola
differenza, che cioè qui la necessaria connessione (necessitas) che ci si
presenta nello stato di fatto obbiettivo, è nel RAGIONARE espressa precisamente
dalla sussunzione (inferentia): ne ad Abelardo sembra d’insistere mai
abbastanza nel rilevare che la relazione di dipendenza tra antecedens e
CONSEQUENS non è data nel pensiero, ma, come esclusivamente obbiettiva,
sussiste già da se stessa nella natura creata, e nel fondamento reale di tutt i
giudizi 329 ). L perciò, anche a quel1 altro modo di vedere unilaterale, che
abbiamo incontrato più sopra (nota 215), egli nettamente contrappone la idea,
che alla modalità dei giudizi, anche relativamente ai concetti di possibile e
di necessario (del pari che più sopra, nota 327), sia da metter a fondamento
una modificazione obbiettiva dell’essere. Dicunlur in argumentis ea. quae a
propositionibus ipsis significantur. ipsi quidem inlcllectus, ut quibusdam
placet, quorum conceptio, SINE ETIAM VOCIS PROLATIONE, ad concessionem alterius
ipsum cogit dubitantem. XJnde et bene rationis nomea in praemissa diffinitione
(cioè in quella di Cicerone [intendi la definizione di CICERONE di ARGVMENTVM ;
Top., cap. 2, § 8]: vedila, riprodotta in BOEZIO, neljla Sez. XII, nota 165)
dicunt apponi ; ratio enim nomen est intcllcclus. qui in anima est. Sed, si
divisioni verbo altendamus, potius argumentum accipiendum erit in designatane
eorum, quae a propositionibus dicunlur, quam eorum intellecluum, qui ab ipsis
" enerantur.... Neque enim in propositione quidquam de intellectu dicilur.
sed, cum de rebus agitur, per ipsam intcllectus generatur, qui neque in sua
essentia necessilatem tenet, neque in/erentiam ad alterum ... linde potius de
bis, quae propositiones ipsae dicunt, supraposita diffinitio ....est
accipienda. 3 “ 9 ) Introd. ad theól III. 7, p. 1134 [141] : Ex quo apparet,
quarti veruni sit,... in illa.... philosophorum regula, cujus possibile est
ante cedens, et consequens, eos ad creaturarum tantum nomea accommodare [IL.
178, 1112]. Dialect. Ex his itaque
manifeslum est, in consequentiis per propositiones de earum inlelleclibus
agendum non esse, sed magis de essentia rerum.... Et in hoc quidem
significalione eorum, quae propositiones loquuntur, una tamen exponitur regula,
quae ait, posito antecedenti, poni quodlibet consequens ejus ipsitts, h. e.:
existente aliqua antecedenti rerum essentia, necesse est existere quamlibet
rerum existentiam consequentem ad ipsam.
Ibid., p. 351: Si quis itaque vocum impositionem recte pensaverit,
enunliationum quarumlibet veritatem facilius deliberaverit, et rerum
consecutionis necessitatali velocius animadverterit. Parimente alle p. 343 s. e 382. 33 °)
Dialect. Unde oportet, ut rcctae sint modales, ut etiam de rebus, sicut
simplices. agant ; et tunc quidem de possibili et impossibili et necessario ;
quod quidem tam in his, quae singultire subjectum hdbenl, quam in his, quae
universale, licei inspicere. Con quel che siamo venuti dicendo intorno alla
essenza, al principio e allo svolgimento della dialettica di Abelardo, crediamo
di esser giunti a farcene ima idea giusta e approfondita, che, ove ce ne fosse
bisogno, potremmo noi stessi avvalorare con un documento estrinseco, servendoci
di un epitafio) composto in onore di Abelardo, da un suo contemporaneo. In
questa dialettica, non è certamente spirito aristotelico quel che ci alita in
fronte, bensì di gran lunga più manifesto vi risentiamo l’influsso ammorbante
dello stoicismo (v. la Sez. VI, note 47-56), che s’era fatto strada negli
scritti di Boezio; poiché quell’associazione di mi rozzo empirismo con un
motivo formale, dato dal progresso verso mia sempre più complessa composizione,
e con l’interesse retorico delFargomentazione, prende proprio là, dove Abelardo sacrifica dappertutto
i motivi logici, per considerare lo stato di fatto obbiettivo il posto di una sillogistica che torni
veramente a profitto del sapere definitorio: e a chi tenga presente la logica
di Abelardo nel suo nucleo centrale, egli appare come un retore che fa la
teoria dell’argomentazione, piuttosto che come un platonico o un aristotelico.
Tuttavia egli è ampiamente giustificabile, perchè delle opere principali di
Aristotele, conosceva, semplicemente per sentito dire, soltanto alcuni
particolari frammentari (note 8-18), e in special modo perchè, dato, per un
verso, 1 ordine irrazionale in cui erano disposte le parti dell’Organon, come
pure date, 881) Citato, attingendo al Rawlinson, dal Rémusat, II. p. 101: Hic
docuit voces cum rebus significare, Et docuit voces res significando notare;
Errores gencrum correxit, ita specierum. Hic genus et species in sola voce locavit, Et genus et
species sermones esse notavit . Sigili*
ficativum quid sit (questo, cioè, è il giudizio: v. la nota 315), quid
significatami Significans quid sit (questa è la parola singola), prudens
diversificar il. Hic quid res essenti quid voces significar enti Luci dius
reliquis palefiecit in arte perilis. Sic animai nullumque animai genus esse
probalur. Sic et homo et \sed?] nullus homo species vocitatur [PL, 178, 104],
per 1 altro verso, le idee che Boezio aveva prese da Porfirio, era inevitabile
che traesse origine da ciò mia concezione contorta e contraddittoria. In
Abelardo, e forse in tutti i suoi contemporanei, si compie la vendetta del fatto
che, da un lato la Isagoge e le Categorie [delle quali, come sappiamo, il
Franti contesta l’autenticità: v. la Sez. IV, nota 5] si tengono più vicine al
platonismo, e che d’altro canto, al tempo stesso, nei libri successivi si trova
contenuto l’aristotelismo; e inoltre può darsi che Abelardo dal suo medesimo
personale talento fosse portato a non curarsi d’intendere più profondamente
queste antitesi, e trascinato ad assumere Patteggiamento del retore. Si direbbe
ch’egli, se fosse vissuto in quei secoli più vicini a noi, sarebbe stato
certamente un seguace di Pietro Ramo. [ql continua l'analisi del contenuto
della Dialettica: le Categorie]. Ma
adesso ci rimane il compito di seguire, anche attraverso le singole parti della
dialettica. Io svolgimento che questa ha avuto da Abelardo, il quale ci si
presenta sulla stessa linea degli altri autori di cui sopra, che hanno promosso
le particolari controversie già ricordate, e dei quali ci è ignoto il nome.
Seguendo la partizione dello stesso Abelardo (note 2,2 ss.), dobbiamo supporre
colmata la lacuna del testo qual è a noi giunto, dovuta alla mancanza degli
Antepraedicarnenta, e pensar di essere già stati condotti così a trattare le
questioni più generali, e che più propriamente si posson dire questioni di
principio. Agli Ante praedicament a tien ora dietro la seconda Sezione della
prima parte principale, cioè i Praedicamenta, dove, come ben s’intende, è preso
a fondamento Boezio, che viene ormeggiato a passo a passo. I concetti di
univocum, e simili, conforme a quanto abbiamo detto più sopra, sono
naturalmente di spettanza dell [a teoria della predicazione, in quanto
quest’ultima ha anche un] aspetto grammaticale 332 ). La categoria della
substantia, che altrove, d’accordo con il de Trin. del Pseudo-Boezio, viene intesa
anche come subsistentia 333 ), è l’atta qui oggetto di una trattazione, che in
tutto e per tutto si mantiene nel più pieno accordo con Boezio 334 ). Più
minutamente è presa in esame la quantità, sebbene qui Abelardo si dovesse
appoggiare a quel che n’era stato detto da altri, perchè, com’egli medesimo
confessa, era ignorante di aritmetica M5 ) ; egli consente con coloro Icfr. le
note 109 e 127), i quali eran di opinione che la linea consista di punti 33 °),
e, riguardo al concetto di numero, si attiene al principio della unità
naturale, condizionata dal processo della creazione (nota 304) : per
conseguenza, in contrasto con le su riferite opinioni di altri (note 199 s.),
qui il fondamento realistico è formato dal singolo, in quanto è particolare, cosicché
da un lato il « numero in generale » include già la pluralità e ha lo stesso
significato che « [le] unità », e d’altra parte i diversi numeri determinati
sono, come sostantivi, le denominazioni di diverse unità collettive superiori,
in maniera comparabile con il procedimento collettivo, onde, secondo diversi
punti di vista, raccogliamo 332 ) Così, occasionalmente, Dialect., p. 480: Hoc
ituque nomea, quoti est aequivocum ÆQVIVOCVM GRICE sive univocum, ex vocabulis
tantum in rebus contingit. 333 ) Introd. ad theol., II, 10. p. 1071 [88]: Unde et
subslanliae quasi subsistentiae esse dictae sunt, et cactcris rebus, quae ei
assistunt, [ci] non per se subsistunt. naturaliter priores sunt [PL, 178,
1060], 334 ) Dialect., p. 173178. (Il
testo del manoscritto incomincia propriamente soltanto a mezzo della categoria
substantia, cioè in corrispondenza con Boezio [in Ar. praed., I: PL, 64,
187-8], p. 133). 333 ) Ibid., p. 182:
Etsi multas ab arithmeticis solutiones audierim, nullam tamen a me praeferendam
judico, quia ejus artis ignarum omnino me cognosco. 336 ) Ibid. : Talem autem, memini, rationem Magistri
nostri sententia praetendebat, ut ex punctis lineam constare
convinccretur.... (p. 183) Alioquin
supraposita Magistri sententia, cui et nostra consentii, etc. le cose ili
specie, o sottospecie, o altrimente ili gruppi 337 ). In quanto che nello
stesso luogo si deve trattare anche del discorso umano inteso come alcunché di
quantitativo, Abelardo combatte il modo di vedere unilaterale, che abbiamo
trovato più sopra, onde si ritenne che fosse l’aria a adempiere l’ufficio di
«significante»: e, assegnando egli invece al suono questa funzione di «
significare », va in cerca di autorità che suffraghino tale sua opinione 338 ).
Ma, immediatamente dopo la quantità, fa posto alle categorie ubi e quando, come
a quelle che per natura sono collegate, nella loro origine, con i concetti di
luogo e di tempo, presi hi esame nella trattazione della quantità 339 ), e
mentre così intende quelle due categorie in 337 ) P186: [numerus] semper.... in
natura discretionem habct, qui solam unitatis parlicularilatem requiril.... cum
nomea numeri plurale simpliciter videatur atque idem cum co, quod est unitates.
Unde opportunius nobis videtur, ut, sicut supra tetigimus, numeri nomea
substantivum tantum sii ac particulare unitatis, atque idem in significai ione
quod unitates. Binarius vero vel ternarius cacteraque nu merorum nomina
in/eriora sunt ipsius pluralis, sicut homines vel equi ad animalia, aut albi
homines et nigri, vel tres vel quinque homines ad homines. Et fonasse quoniam
omnia substantiva numerorum nomina in unitalibus ipsis pluraliter accipiuntur,
omnia ejusdem singularis pluralia poterunt dici, secundum hoc scilicet, quod
diversas unitatum collecliones demonstranl (c£r. la nota 307). Numerus quidem
simplex metialur plurale, alia vero secundum certas collectiones determinala. A
ciò fa poi seguito il passo citato più sopra, nota 199. Cfr. anche alla p. 421: Haec
enim unitas hominis Parisiis habitanlis et illa hominis Romae manentis, lume f
aduni binarium. Unde sola unilatum pluralitas numerimi
perfidi. Così pure a p. 486. ) P* 190:
Nos autem ipsum proprie sonum audiri ae significare concedimus: unde et
Priscianus ( Inst. gramm., I, 1 [ed. Hertz, p. 5]) ait, voccm ipsam tangere
aurem, dum auditur, ac cursus ipse Boethius (deMusica [cap. XIV: PL,63, 1177],
p. 1071 [della ediz. delle Opere di Boezio, Basilea 1546, cit. dal Cousin: p.
1379 della ediz. di Basilea 1570, alla quale, come s’è visto, suol riferirsi il
Prantl]) totam vocem.... ad aures diversorum simul venire perhibet, dopo di che
ci si richiama ancora, con le seguenti espressioni, di forma singolare, ad
Agostino e a Boezio (p. 193): Ipsum etiam Augustinum in Categoriis suis
asserunt dixisse..., e etiam Boethius dicitur in libro musicae artis.... [194]
adhibuisse. 33 °) P195: Hactenus de quantitale disputationem habuimus. Nunc ad
tractalum pracdicamentorum reliquorum operam transferamus, eaqtie geuso
realistico, includendovi anche p. es. il concetto di « ieri » * * 3 '* 0 ),
arriva, per via dell’« essere nel luogo » e delT« essere nel tempo », a
considerare i vari significati di « messe » 341 ), ma cerca, in contrasto con
obiezioni di altri, riferite più sopra (nota 194), le quali mettevano in campo
l’analogia con l’avverbio interrogativo qualiter, di assegnare
quell’espressioni concernenti l’inesse, all’uso del linguaggio secondo la
grammatica 342 ), e di giustificar invece quelle due categorie, come tali, con
la considerazione che in quelle è possibile una comparazione, e che pertanto
non è il caso di ricondurle alla quantità, la quale esclude ima comparazione
343 ) : a ciò del resto si lega ancora il lamento che Aristotele sia stato in
generale così parsimonioso nella trattazione delle ultime sei categorie 344 ).
posi quantitatem exequamur, quae ei naturalitcr adjuncta videntur ac quodam
modo ex ea originem ducere ac nasci. Ilaec aulem ., quando *" ei
..ubi." nominibus Aristoteles designai. Quorum quidem alterum ex tempore,
alterum ex loco duxit exordium. ***) p. 196: v. sopra la nota 196 [reclius
197J. 3)l ) p. 197 : Quum aulem et ..quando" in tempore esse et
..ubi" in loco esse determinamus, non incommodo hoc loco demonstrabimus,
quot modis ..esse in aliquo" accipimus ; Boelliius autem in edilione prima
[198] super Categorias novem computai (dei quali modi segue qui la
enumerazione, ricavata da Boezio [in Ar. praed., I; PL, 64. 172], p. 121: v.
Sez. XII, nota 92; Cousin si scandalizza, per non aver trovato questo passo di
Boezio!). 3 «) p. 200: Si quis autem „qualità “ dica! nihil aliud quam
qualitatem demonstrare, et ..ubi"' dicemus nihil aliud quam locurn
designare, vel „ quando “ nihil aliud quam lempus. Unde et carlini definitiones
recte vel „in loco esse “ vel „in tempore [esse]" dicimus, quae, si
grammaticae proprietatem insistamus, nihil aliud a loco vel tempore diversum
ostendunt.... Videntur itaque magis prò nominibus accipienda esse ..esse in
loco “ vel ..esse in tempore", quam prò definitionibus. M3 ) Ibid .: Haec
autem generalissima ipsa, ut arbitror, comparationis necessitas meditari
compulit. Cum enim quantitates non comparaci constarci (Boezio [in Ar. praed..
II; PL, 64, 215], p. 154), non poteramus comparalionem,,diu “ vel „diuturni “
vel ..extra" ad tempus vel locum reducere: indeque maxime inveniri
pracdicamentu arbitror, ad quae illa reducantur. 3M ) Ibid. : Ac de his quidern
praedicamenlis difficile est pertractare, quorum doctrinam ex auctoritate non
habemus, sed numerum tantum. Ipse enim Aristoteles, in tota praedìcamentorum
serie, sui studii operam Nella controversia intorno alla categoria della
relazione (v. sopra la nota 192), Abelardo finisce con il decidersi a favore
dell’autorità della definizione aristotelica 3, * n ), e così pure la questione
del posto da assegnare ai concetti di simile e di uguale (nota 193) è da lui
risolta nel senso che essi appartengano alla qualità 346 ). [r) i
PostpraedicamentaJ. I Postpracdicamenta
poi, che costituiscono la terza Sezione del Liber partium, contengono, come si
è veduto (nota 272), la trattazione del nome e del verbo, in quanto questi sono
i modi di significare le cose, e vengono considerati quali parti, da cui il
giudizio, come totalità, è costituito. La opinione di Abelardo, riguardo al
concetto di significavi o SIGNIFICATIO (cf. Grice, “Meaning”), da noi
precedentemente messa in chiaro, lo porta qui a dichiararsi d’accordo con quel
Garinondo (nota 82), ch’era un nominalista moderato, e ìwn nisi qualuor
praedicamerUis ndhibuit, Substanliae scilicct. Quantitali, ad Aliquid,
Qualitati ; de Facere autem vel Pati nihil aliud docuit, nisi quod
contrarietatem ac comparalionem susciperent.... De reliquis autem qualuor.
Quando scilicet. Ubi, Situ, Ilabere, eo quod manifesta sunt, nihil praeter
exempla posuit.... De Ubi quidem ac Quando, ipso quoque attestante Boethio (p.
190 [in .-Ir. praed., HI; PL. 64, 262 s.].), in Physicis, de omnibusque altius
subtiliusque in his libris, quos Metaphysica vocat, exequilur. Quae quidem
opera ipsius nullus adirne translator lalinac linguae aplavit ; ideoque minus
natura horum nobis est cognita. Cfr.
più sopra la nota 18, dove abbiamo dovuto accennare di già alla integrazione,
portata più tardi da Gilbert de la Porrée: v. appresso le note 488 ss. Ms ) p.
204: Aristoteles de imperfcelione restrictionis sicut Plato de acceptatione
nimiae largilatis culpabilis videlur ; uterque enim modum excesserit, alque hic
quasi prodigus, ille tanquam avarus redarguendus. Sed et si Aristotelem
Peripateticorum principem culpare praesumamus, quem amplius in hac arte
recipiemus ? Dicamus itaque, omni ac soli relationi ejus diffìnitionem
convenire eie. 346 ) p. 208: At vero, cum similitudo relationibus aggregetur
(Boezio [in Ar. praed., II; PL, 64. 219], p. 157),.... non videtur secundum
solas qualitates simile dici.... His autem. qui simile ac dissimile inter
qualitatcs computant (Boezio [in Ar. praed., Ili; PL, 64, 259], p. 187),
monstrari potcst, res quaslibct in eo, quod dissimiles sunt, esse similes....
At fortasse non impedit, si in eo, quod dissimilitudinem participanl, similes
inveniantur (si attiene cioè al passo ult. cit. di BOEZIO. pertanto scorgeva la
essenza della significazione non nella parola come tale, bensì nel contenuto
concettuale della parola stessa: un modo di vedere, questo, che Abelardo trova
confermato da passi di Boezio,7 ). Nella disputa intorno alla questione, se le
preposizioni e le congiunzioni sieno da considerarsi come parti del discorso (
nota 206), cerca di conciliare i punti di vista imilaterali dei grammatici e
dei dialettici, attribuendo bensì a quelle parti del discorso la capacità di significare,
ma riconducendo questa capacità, alla stessa maniera che la modalità della
predicazione (note 327 e 330), a una modificazione obbiettiva 348 ); onde, come
si vede, anche secondo la opinione di Abelardo, i così detti byncategoreumata
(cfr. le note 174 e 206) dovrebbero coerentemente trovar posto in una o
nell’altra parte della logica. . Ma in tutto il resto egli si tiene
strettamente vicino a Boezio, e cerca di confutare obiezioni, sollevate da
altri 349 ), cogliendo la occasione che di ciò gli era offerta. sn\ 210, dove
alle parole già citate (nota 82) fa seguito immediatamente: linde manifestimi
est, eos velie vocabula non omnia illa significare, quae nominimi (che p. es.
animai non « significhi » •ria senz’altro homo), sed ea tantum, quae definite
designata, ut animai se, Hat animai sensibile, aut album albedinem, quae semper
m ipsis denotanlur. Quorum scntentiam ipse commendare Boethius (p. bij ['«'
divisione: PL, 64, 877]) videlur, cum ait in divisione vocis „vocis attieni in
proprias significationes divisto fit etc .(p. ZÌI) Oiiamen sanificare"
proprie ac secundum rectam et propnam ejus dijjinilionen, signamus, non alias
res significare dicemus, msi quae per vocem concipiuntur. Cfr. la nota 317. 348 ) p. 217: llla ergo
mihi sententia praelucere videtur, ut grammatici consentientes, qui eliam
logicae deserviunt, has quoque per se sisnificativas esse confiteamur, sed in
eo significatwnem earum esse dicamus, quoti quasdam proprietates circa res forum
vocabulorum, quibus apponi,ntur praepositiones, quodam modo determinerà....
t.onjunctiones quoque, dum quidem rerum demonstrantconjiinctionem, quamdam
circa eas determinant proprietatem. Cfr.
la nota 620. ;n ») p eg219, dove di fronte alla obiezione ricordata piu sopra
(nòta 210), si osserva: Veruni ipse verbo deceptus erat, ac prave id ceperat,
verbum dicere rem suam inhaerere. così relativamente a quei giudizi (nota 211)
che non implicano la esistenza effettiva del proprio soggetto 35 ), e questo
nesso, che consiste in quella rispondenza, onde i due concetti son riferiti uno
all’altro, è ciò per cui si distingue esso giudizio dal giudizio categorico:
questo cioè enuncia la semplice esistenza, mentre l’ipotetico c valido con
assoluta necessità, fatta astrazione dalla esistenza delle cose, ma appunto per
questo ricorre all'aiuto dei loci, relativamente a ciò che non può desumersi
dalla semplice realtà 396 ). In questo senso ex loco firmitalcm halent. Cujus
quidem loci proprietas hacc est : vim inferentiae ex habiludine, quarti habet
ad terminum illatum, conferre consequentiae, ut ibi tantum, ubi imperjecta est
inferentia, locum valere confiteamur.... Hoc ergo, quod ad per]eclionem inferentiae deest, loci
supplet assignatio. La deno mutazione
« inferentia » è derivata dal termine boeziano « inferre » : e così parimente
anche la idea che la consecuzione abbia a fondamento il nesso della necessità,
è presa da Boezio: v. la Sez. XII, note 153 s. 301 ) p. 330 s.: Quae enim in ea
ponuntur vocabula, essentiae tantum, non habitudinis, sunt designativa, ut «
homo » et « animai » et « lapis». Qui itaque dicuut « si est homo, est animai, si est homo,
non est lapis», nullo modo de habitudinibus rerum, sed de essentiis agunt,
ila.... ut, si aliquid sit essentia hominis, et essenlia animalis esse
concedatur, et lapidis subslanlia esse denegelur. 39S ) p. 336: Quod autem veritas hypotheticae
propositionis in necessitate consistat, tam ex auctoritate quam ex ralione
tenemus. Questa maniera d’intendere il giudizio ipotetico sembra essere stata,
in modo speciale, peculiare di Abelardo. (Jon. Saresb. Polycr. II, 22, p. 122
[ed. Webb, I, p. 129]): Solebai nostri temporis Peripateticus Palalinus omnibus
his conditionibus obviare, ubi non sequentis inteileclum anlecedentis conceptio
claudit, aut non antecedentis contrarium conseqitentis destructoria ponit, eo
quod omnes necessariam tenere consequentiam velint. Dello stesso, Metalog.: Miror tamen quare
Peripateticus Palatinus in ipoteticarum iudicio tam artam praescripseril
legem.... Siquidem.... ipotelicas respuebat, nisi manifesta necessitate urgente
[PL, 199, 453 e 904]). 39 °) p. 343: Categoricarum autem propositionum veritas,
quae rerum aclum circa earum existentiam proponil, simul cum illis incipit et
desinit. Hypotheticarum vero sententia nec finem novit nec princi pertanto,
nelle discussioni dialettiche la concessione fatta daH’mterlocutore va intesa,
fatta astrazione dalla sua esatta corrispondenza alla realtà, come una tale
necessità 3B7 ), e nel giudizio ipotetico non si tratta già, come taluni
ritengono (nota 228), de’ suoi singoli membri, bensì proprio di tutto quanto il
nesso tra antecedens e consequens 3BS ) ; inoltre, per la medesima ragione, nel
giudizio disgiuntivo, come già è stato mostrato da Boezio (v. la Sezione XII,
nota 141), è semplicemente da ravvisarsi un’altra forma di enunciazione del
giudizio ipotetico 3BB ). Li base a tale fondamento si parla poi, d’accordo con
Boezio, delle cosi dette « maxitnae proposi tiones » (v. ibid., nota 165), le
quali, in polemica con le idee di altri (v. sopra la nota 228), vengono
ristrette alla forma del giudizio ipotetico 1B0 ). Indi fan seguito pium. Ulule
el antequam homo et animai creata Juerint, vel postquam cliam omnino perierint,
aeque in veritate consisti! id, qupd haec consequentia proponit « si est homo
animai ralionale mortale, est animai. Quia vero calegoricae enuntiationes actum
rerum proponunt quuntum ad enuntiationes inhaerentiae praedicati. actus vero
rerum ex ipsarum rerum praesentia manifestila est, necessitas autem inferentiae
ex aclu rerum perpendi non potest, quae acque, ut dictum est, et rebus
existcntibus et non existentibus. permanet, arbitror. hinc. locum tantum in
hypotheticis propositionibus requiri ; cum de vi inferentiae rerum earum
dubitatur, quae ex actu rerum convinci non possimi. 3BT ) p. 342: Ncque mirri
dialecticus curai, sive vera sit sive falsa inferentia proposilae
consequenliae, ilummodo prò vera eam recipiat ille, cum quo sermo
conseritur.,.. Seti liaec.... concessio vcrae inferentiae in necessitate
recipienda est. >W) p. 353: Quidam lamen has regulas non solum in tota
anteccilenlis et consequcntis enuntiatione, veruni ctiam in terminis eorum
assignaiUes.... Sed.... regulae
sunt accipiendae in his, quae tota propositionum enuntiatione dicuntur. Quoti
autem antecedens et consequens in disjunctis quoque lloethius accipit, non ad
renna essentias, sed ad enuntiationum constitutionem respexit ....Quod ex
resolutione disjunctae di e nosci tur ; ex qua etiam resolutione. hypothelicae,
i. e. condilionales, disjunctivae quoque sunt appellatae. 40 °) p. 359 s.:
Maximarum.... proposilionum proprielales inspiciamiis, quibus quitlem
singularum veritas consequenliarum exprimitur, quaeque ultimam et perfeclam
omnium consecutionum probationem tcnent.... Cum itaque diximus, eas conseculionis sensum habere,
categoricas enuntiationes exclusimus. i singoli loci, e qui Abelardo, esclusi
quelli retorici, vuole metter in campo solamente i dialettici 401 ); l’ordine
di successione in cui son disposti, trova fondamento in Boezio, che, trattando
di questo argomento, cerca (de dijf. top . : v. la Sez. XII, nota 168) di
accordare i loci di Temistio (Sez. XI, nota 96) con quelli ciceroniani
‘"'); ma la conchiusione è costituita da osservazioni sopra
^argomentazione in generale, e sopra la importanza che han per la retorica la
induzione e l’entimema 40S ). Come già più sopra (nota 222) è stato rilevato,
la dichiarazione dei singoli loci consiste nella indicazione ed enumerazione di
« regole », fissate secondo l’uso delle scuole: e anche nella esposizione dello
stesso Abelardo si fa manifesto, hi connessione con quel che 401 ) p. 334 :
Illud praesciendum est, nos, qui haec ad doctrinam artìs dialecticae scribimus,
eos solum laens exsequi, quibus ars ista consuevit uti. 102 ) In confronto con
quell’ordine di successione [seguito da Cassiodoro], del quale abbiamo dato
notizia nel 1° voi. (Sez. XII, nota 184), la materia si dispone qui nella forma
seguente: Anche qui (p. 368) si presentan da principio i loci tratti dalia
sostanza stessa, cioè a diffinitionc, a descriptione, a nominis inter pretal
ione ; ma appresso vengono, in una scelta risultante da una combinazione di
elementi derivali da Temistio c da Cicerone, i loci che son tratti dalle
conseguenze della sostanza (p. 375), cioè a genere, a toto, a partibus
divisivis, a partibus constilulivis, a pari, a praedicato, ab antecedenti, a
consequenli ; a questi fan seguito (p. 386), come loci presi extrinsecus,
solamente le sottospecie del locus ab oppositis, cioè a relatione (inclusi
simul e prius), a contrariis, a privatione et habitu, ab ajfirmatione et
negatione (in questa trattazione delle quattro specie di opposizione vien
tirata dentro quasi per intiero la corrispondente Sezione delle Categorie);
poi, come loci medii, seguono a relativi^, a divisione et parlitione, a
conlingenlibiis, e sono quindi indicati inoltre a compimento come quelli che vengono raramente in uso (p.
409 : sunt autem alii, quibus diabetici raro ac nunquam fere utuntur, quos
tameri Boethius.,.. non praetermisit)
tra i « loci» ex consequentibus substantiam, quelli a causa, a materie,
a forma, a fine, a motu. Del resto in tutta questa Sezione il Cousin si è
spesso limitato ad accennare con intestazioni di titoli l’ordine della
successione, senza pubblicare il contenuto stesso. 4 " 3 ) p. 430 ss. I
passi ai quali attinge qui Abelardo, son presi da Boezio, de dijf. top., su cui
si fondano queste notizie: v. la Sez. XII, note 82 e 137. »i è visto più sopra
(nota 228), a quanto muneroso conLvorsic generale abbi. 1. ..pi» tonato nelle
svuole l’argomento e la occasione 404 )r z) i sillogismi ipotetici. Giudizio
conclusivo sopra l'opera di Abelardo]. Infine nel Liber hypo, h e ticorum, cioè
nella teoria dei gtudtzi e 8 dlo gismi ipotetici, viene ora riprodotto per urti
ero d con tenuto dello scritto di Boezio de syll. hypoth Attui trendo a tale
scritto, Abelardo incomincia con lo syol aere per prima cosa 406 ) la
partizione del gmdmo ipo tetico (v. la Sez. XII, note 139 ss.), e,
relativamente ai giudizi che s’iniziano con la congiunzione « cum » n( . h,, intorno alla causa efficiente e a
motu (p. 41.5 ss.) si e g . 376 8B .) causalità divina del creatore de mondo H
locas « ge ^ Crca . porla a prender in coimderazione il processo Stendere il
locus a ..one e così comdde cernii m iUimit;, ta,nenie universale praedicato (p.
484), i fi incontriamo qui la ter(p. 381). A proposito del Incus °*>opP 4fl7
. comp lexa autem miuologia « complexa » c « in P ^ ^ cod em contraria
cnuncontraria eas dicimus proposilionc, 7 acgerrt). e così pure tiant hoc SS*
immediata inferra« constantia » (p. 408 [nassunto ue ' imme diMa smt ; qiiam
linai habeant, adjietendumesse..ag»J p hrdus]) _ Abelardo ìss'ù.w ù. >. (v.
le note 18 e 344). 405) p. 437-439. tici
406 ); inoltre combatte la opinione già ricordala (nota 218) di altri,
relativamente alla posizione del « vel.... vel » nei giudizi disgiuntivi 407 ).
Ma è poi notevole quel che vien detto appresso, circa la conversione dei
giudizi ipotetici; questi cioè, quando sono in forma disgiuntiva, potrebbero esser
convertiti simpliciter (scambiandosi di posto i termini della disgiunzione!), e
lo stesso potrebbe pure ripetersi del giudizio, che contenga [la enunciazione
di] una [relazione di] contemporaneità, e che incominci con «cum»; invece,
quando si tratti del giudizio propriamente ipotetico, fondato sopra il nesso
della necessità naturale, il principio fondamentale, a tutti noto, della
consequenlia (vedilo in Boezio, Sez. XII, nota 145) sarebbe da prendere [cfr.
ibid., nota 130] nel senso che qui si dia un caso di conversiti per
contrapositionem 40S ). Ma se questo preteso compimento della teoria
tradiziosed ad conceptus tummodo leritatem Aeque cairn unus est intellectus
..lapis ratio,lamultos intellectus ' *“"iplicem l’ero intellrctum dicimus
muuos intellectus ab invicem dissolutos, ut si dicam animai" pauluhim
quiescens, addam „rationale'\ ’ Cfr iuvece ' 4 ?» C " Abc,:!r US Wmim P erso ' lalem discreti,m,m attendimi, h. e.
simpliciter hominem excogilo,,n eo scilicel tantum, quod homo est i e animai
rat tonale mortale, non edam in co, quod esVhic ho moti file ri!!ru rSale h “ J
iu ‘ c ", s “hslraho individui s. SU itaque abstractio superna r‘ l
"feTtor, lbus : «“ scilicet universalium ab individui per praedicationem
subjecds, sme Jarmari,m a materiis per fundationem no/, Subtrac "° f ero e
con, rario dici potest,... cum alìquis subjeclae naturam essenti,,,absque omn,
forma nidtur speculari. Uterque autem mtellectus, tam abstrahens scilicel quam subtrahens, aliter
quam res se habet concipere V, detur.... p. 482: Nusquam enim ita pure
subsistit S smt“Pl T C ° n rP llUr 'E *. m,ìla esl na •) a: Non vidctur ergo
transferenda conversatio dialeclicorum ad huiusmodi propter
inconvenientia.... 33, p. 91 b: Quod ergo dica Johannes Damasceni is (v.
la Scz. XI. nota 170), non ita accipiendum, ut universalia et individua ita
accipiantur sicut in philosophicis disciplinis.... Si quaeratur, an hoc
praedicabile,.deus“ sii universale rei CARLO PRANTL tavia in molte delle sue
trattazioni al De Trinitate del Pseudo-Boezio (v. le note 35 ss.), e anzi con
la comica osservazione che quello scritto è fdosofico (!) più che teologico, e
che perciò non si deve lasciarsene sviare 451 ) ; inoltre la distinzione della
sostanza come soggetto e della sostanza come forma, del pari che la distinzione
della forma sostanziale come produttrice dell’individuo e come suscitatrice
delle specie e dei generi, ci fan soltanto vedere il realismo
platonico-teologico nella sua forma più rozza 452 ). Parimente nel suo
contemporaneo Roberto da M e 1 u n [m. 1167], molto celebrato per la sua superficiale
abilità nella dialettica 453 ), si trova nient'altro che il solito realismo
ontologico, il quale teoreticamente è tanto ottuso da non poter in generale
interessarsi ai momenti individuimi, neutrum hic admittendum [PI,, 211 922 e
921], E tuttavia fu anche lui accusato di eresia : v. lu nota 478. 451 ) Ibid.,
I, 4, p. 8 b: Ideo imponitur Boelio, quod illam diffmitionem (cioèfdi persona )
magis posuit ut philosophus, quam ut thcoloP" s 32, p. 93 b. : Sed nostri thcologi plerique
non habent illam diffinitionem prò aulhentica, quia magis Juit philosophus quam
theo^^923 I {t mag * S “) Ibid,, 1,6, p.
12 a: Subslantia a subslando dicitur ipsum subjectum, quod substat Jormis, sive
sit corpus sive alia res. Substantia a subsistendo dicitur forma, quae adveniens
subjecto illud subsistit, i. e. sub se et aliis Jormis sistit, i. e. substare
sibi et aliis Jacit, sìcut imago sigilli ceram.... Sed substantialis forma
duplex est, vel quae facit „quis“, et lalis est omnis individualis proprielas,
i, e. individuo et proprio nomine, ut Platonitas, cujus parlicipatione Plato
est quis ; vel quae facit „quid“. ut speciale vel generale, i. e. quae speciali
vel generali nomine significatur, ut humanitas, animalitas, cujus
participatione Plato est ..quid", non vero „quis“ [806-7], 4M ) Joh.
Saresb. Metal.. II, 10, p. 78 s. (ed. Giles [e Webb]): Sic ferme loto biennio
conversatus in monte (cioè Sanctae Genovefae), artis huius praeceploribus usus
sum Alberico (v. sotto la nota 521) et magistro Rodberto Meludensi (ut cognomine
designetur quod meruil in scolarum regimine, natione siquidem Angligena est);
quorum alter.... Alter aulem (cioè Roberto), in responsione promptissimus,
subterfugii causa propositum numquam declinavit articulum, quia alteram
contradictionis partem eligeret ani determinata multiplicitate sermonis doceret
unam non esse responsionem.... In
responsis perspicax, brovis et commodus [PL logici, oppure, dove s’interessa,
si mostra appunto in tutta la sua debolezza, come p. es. quando si polemizza
contro chi riconosce carattere unitario al significato che è racchiuso in « est
», e a quello ch’è racchiuso in « ens » 154 ). Ma per conseguenza non fa
maraviglia che gli scolari di questo Roberto vilipendessero la Topica
aristotelica, giudicandola un libro inutile (v. sopra la nota 29). [§ 35. Gilbert de la porrée: a) il commento al De
Trinitate del Pseudo-Boezio : posizione teoretica ingenua e
contraddittoria]. Invece LnGilbert de la
Porrée (nato a Poitiers, e perciò detto anche Pietàviensis, morto nel 1154)
l’alterco dei teologi intorno alla Trinità ha dato occasione a una concezione
logica, nettamente determinata, riguardo agli universali, e bisogna pertanto
che ci teniamo presente più da vicino, oltre allo scritto De sex principila,
reputato di grande importanza nei secoli successivi, anche il commento dello
stesso Gilberto al De Trinitate del Pseudo-Boezio 45 °). Che Gilberto
conoscesse di già gli Analitici di Aristotele, è stato ricordato già più sopra
(nota 21); tuttavia, fatta astrazione da quella citazione, egli in realtà non
trae ulteriormente 1M ) Oltre alle notizie che si trovano nel De Bollai', Hist.
Universitatis Paris., II. p. 264 [ivi, p. 585628, testi di R. da M.],
I’IIauréaU, de la phil. scolasi., I, p. 333 ss. [Hist. de la ph. scol., I, p.
491ss.], ha riprodotto ancora vari tratti da manoscritti ; di quel ch’egli
riferisce, poiché tutto il resto non ha che fare con il nostro presente
intento, può citarsi, riguardo a un punto di logica, il passo seguente (p. 333
[492]): Has verovoces „esl“ et „ens** ejusdem esse significationis, omnes
philosophicae clamitanl scriplurae. In istis ergo locutiotlibus,,tiiundiis est
ens**, ..mundus esf”, terminis oppositis idem significatile; sed nullus tanta
amentia ignorantiac excaecatus est, qui aliquam harum vocum „essentia, est,
ens** in illa significalione retenta, in qua creaturis convenit, Deuni vcl
essenliam divinam significati praesumut, e via dicendo [Su Rob. da Melun, v.
ora Uebervveg-Geyer, p. 272 e 276-8], «*) Riprodotto a stampa nel voi. delle
Opere di Boezio, ed. di BasUea 1570, p. 1128-1273 [PL, partito da una
conoscenza intrinseca dei principii ivi contenuti, bensì si limita ad aggirarsi
entro l’orbita, più ristretta, della logica scolastica generalmente in uso 4S0
). Mentre anch’egli ci mostra il singolare spettacolo della contraddizione,
onde da un lato si fa sfoggio di tutto l’acume logico nella discussione sopra
la Trinità (v. tuttavia la nota 478), e intanto, dall’altro lato, si mantiene
ima separazione assoluta di Dio e del mondo della natura, semiira in verità che, sul compito e la
posizione della logica, egli non sia stato in se stesso del tutto chiaro. Nè si
può in Gilberto, neanche allo stesso modo che in Abelardo, distinguere le sfere
della ontologia e della logica, ma, a mal grado di tutto il suo fondamentale
tono realistico, egli accetta con piena ingenuità e senza incertezze il
principio della funzione della espressione linguistica umana; poiché
l’eccitazione della intelligenza egli la fa dipendere affatto ugualmente,
ripetendo un detto di Boezio, dalla proprietà delle cose, altrettanto che dal
significato costituito delle parole 45 . 7 ): e se alla stessa maniera trova la
qualità del giudizio nella successione delle cose e delle parole, o nella
modalità della espressione, ciò che
potrebbe rammentarci Abelardo : v. le note 318, 327, 330 , e con questo
richiama energicamente l’attenzione sopra la forma verbale 458 ), egli torna da capo 156 ) Così p. es. a p.
1185 [1315] egli ricorda la differenza tra sillogismo ed entiinena, a p. 1187
[1317] la« dialecticorum omnibus nota topica generalis, », a p. 1225 [1361] la
«regula dialeclicorum [de conversione] », ap. 1187 [1317] la «concepito
communis », a p. 122 1 [1360] il « conceptus non entis [rectius : ejus quod non
esl] » (p. es. i Centauri), a p. 1226 [1362] il nihil come nomea infinitum. e
via dicendo: c anche la menzione che fa de’ sei sofismi (p. 1130 [1258]) può
averla attinta alla stessa fonte che Abelardo (v. sopra la nota 7). 457 ) Cum
in aliis inlelligenliam excilel rei certa proprietas, aul certa vocis positio,
ctc. Trio quippe sunt.
res, et intellectus, et sermo. Res intellectu concipitur, sermone significatur
(Boezio, p. 296 [toc. tilt. cit. (alla
nota 436), p.20:PL, 64, 402]: v. la Sez. XII, nota 110). 45s ) p. 1130 [1258]:
Qualitas autem orandi vel in rerum atque dietionum consequentia. vel in
earumdem tropis attenditur. logica in occidente a collocare il contenuto
filosofico, che 6 considerazione approfondita della proprietàs rerum,
immediatamente accanto alle loqttendi rationes, che son di competenza della
logica, e in pari tempo accanto a, momenti grammaticali, e a quelli sofistici,
e a quelli retorici • ). fb) concetto di sostanza. Teoria delle formae
nativae]. Pertanto Gilberto, nelle questioni riguardanti la relazione della
obbiettività ontologica con la subbie»,vita logica, è persino ancor più ingenuo
che non fosse stato lo Scoto Eringena: ma invece, dal primo di tal, punti d,
vista, cioè dal lato obbiettivo-ontologico, il concetto, ond eg i prende
posizione tra gl’indirizzi che si contrastavano nella contesa intorno agli
universali, è il concetto d, sostanza; e se la sua posizione ci mostra punti d,
contatto essenziali con altre correnti, questa è appunto una prova novella
dell’incrociarsi delle opposte tendenze in vari punti nodali. . Nel concetto di
sostanza che, in maniera omnicomprensiva, va considerato come genere supremo d,
tutti gli esseri, così corporei come incorporei, Gilberto distingue cioè,
conforme al punto di vista della terminologia teologica (ossia dtel
Pseudo-Boezio), due aspetti, onde m un essere viene designata quale g ua
sostanza così que ch’esso è (quod est subsistens), come anche ciò, per cui esso
è quel che è {quo est subsistenUa) ). Ma ora, m # [1406]: Quia omnis dictio
diversa significa,, quid e, de quo diligens “ u,U X 1246 113831: Ne ergo
lectorem decipere possit aliqua dictio, «Hfndat ; ^ locis am siderans, de tot
signifiirSX’lSto pertinet, convenientium illi rationum admtnÌC ‘t i'X 2 [1281]:
Hoc nomea, quod est ..substa,aia“ non a pe_-\ d. 1145 112741: Subsistentia causa
est, ut id, quod per eam est aliquid, suis propriis sit subjectum. p. 1175 [1305]: Quoties enim subsistens ex
subsistentibus conjunctum est. necesse est, ejus totum esse, i. e. Ulani qua
ipsum perfectum est subsistentiam, ex omnium parlium suarum omnibus
subsistenlus esse conjunctam. concetti ili genere e di specie hanno un altro
essere da quel delle cose stesse; poiché i primi hanno appunto solamente
l’essere della sussistenza, e invece le seconde hanno l’essere, come soggetti e
sostrati degli attributi unificati nella sussistenza 4 ' 0 ). E così il
pensiero intende i concetti generici e specifici, come gli universali di fronte
alle cose particolari, argomentando, con un atto di metter assieme (colligere),
dagli oggetti particolari concretamente esistenti, ai quali ineriscono gli
attributi, l’essere della sussistenza 471 ); e da tale punto di vista poi le
cose naturali, rispetto alla sussistenza del genere e della specie, alla quale
[sussistenza] partecipano, come le cose singole partecipano all’essere sostanziale,
vengono significate con i nomi di specie e di genere, del pari che gli
attributi vengono enunciati come predicati, e, anche denominativamente, la
sussistenza stessa viene chiamata soggetto 472 ). Ma, come il concetto del
metter assieme ( collectio ), for47,) ) Genera et species, i. e. generales et
speciales subsistentiae, subsistunt tantum, non substanl vere.Ncque enim
accidenlia generibus speciebusve contingunt. Ut quod sunt, accidentibus debea
ni (il concetto di accidens, qui come dappertutto, è preso in tal senso da
comprendere, di fronte alla sostanza, tutte nove le altre categorie)....
Individua vero subsistunt quidem vere.... Informata enim sunt jam propriis et
specificis differentiis, per quas subsistunt. Non modo autem subsistunt, veruni
etiam substanl individua, quoniam et accidentibus, ut esse possitit, ministrant
: dum sunt scilicel subjecta.... accidentibus. 471 ) p. 1238 [ 13715] :
Essentiae in universalibus sunt, in partimilaribus substant . Subsistentiae
[così il Prantl, ma nelle ediz. cit. : substantiae] in universalibus sunt, in
parlicularibus capiunt substantiam, i. e. substant.... Universalia, quae
intellectus ex parlicularibus colligit, sunt, quoniam particularium illud esse
dicuntur, quo ipsa particularia aliquid sunt. Particularia vero non modo sunt,
quod utique ex hujusmodi suo esse sunt, veruni etiam substant. 472 ) p. 1137
[1265]: Ad generales quoque et speciales subsistcn tias, quae subsistentium, in
quibus sunt. esse dicuntur, eo quodeis, ut sint aliquid, conferunt, ejusdem nominis,
i. e. matcriae, alia fil denominatio. p. 1140 [1269]: Essentia est
illa res, quae est ipsum esse, i. e. quae non ab alio lume mutuai dictionem, et
ex qua est esse, i. e. quae caeteris omnibus eamdem quadam extrinseca
participatione communicat .... Namque
et in naturalibus omne subsislenmaluiente usato da Gilberto per dar una
definizione del genere 473 ), lo abbiamo di già incontrato più sopra nella
teoria della indifferenza (nota 136), in Gausleno (nota 146) e nell’autore
dello scritto De gen. et spec. (nota 162),
così Gilberto associa a questo concetto, ispirandosi a vedute
realistiche, una concezione, da lui designata con le espressioni «
substantialis similitudo » o « conjormantes subsistentiae », ma di preferenza
con il termine, che ricorre in lui così frequentemente, di« conjortnilas»,
anche esteso ai nomi delle cose 471 ); nè può qui disconoscersi tinnì esse ex
forma est, i. e. de quocunque subsistcnte dicitur « est », formar, quam in se
habet, participatione dicitur. p. 1141 [
1270J : Omnia de subsistente dicuntur : ut de aliquo homi/ie tota forma
substanliae, qua ipse est perfectus homo, et omne genus omnisque differcntia,
ex quibus est ipsa composita, ut corporalitas et animatio, ...et denique omnia,
quae vel loti illi formae adsunt, ut humanitati risibilitas, vel aliquibus
partibus ejus. p. 1145 [1274]:
Quoniam... subsistentia causa est, ut id quod per eam est aliquid, suis
propriis sit subjectum, ipsa quoque per denomi nalionem eisdcm subjecta dicitur,
et eorunUkm materia.... (p. 1146 [rectius : 1142 (1270)]): et ideo gerteraliter cum qualitalibus
qualitas ....dicitur, et cum solis albedinibus specialiter albedo. Atque adeo multa sunt. quae de. istis dicuntur : ut
saepe etiam efficiendi ralione a coaccidentibus ad ea, quibus coaccidunt,
denominativa transsumptio fiat. Ut « linea est longa, albedo est clara». p. 1199 [1329]: Hoc igitur, quod* habet a sua
substantia, nomea, ad ea, quae ex ipso [il Pranll legge: ipsa] fluxerunt,
denominative transsumptum est. 473 ) p. 1252 [1389]: Genus vero nihil alimi
putandum est, nisi subsistentiarum secundum totam eorum proprietatem, ex rebus
secundum species suas differentibus, similitudine comparata collectio. 174 ) p.
1135 [1263] :,l)iversae,... subsistentiae, ex quartini aliis homines, et ex
aliis equi, sunt ammalia, non imitationis vel imaginaria, sed substantiali
similitudine ipsos, qui secundum eas subsistunt, facilini esse conformes. p. 1136 [1263 s.] : Dicuntur etiam multa
subsistentia unum et idem, non naturar unius singularilate, sed multarum, quae
ralione similitudinis fit, unione ....Ilio, quae divcrsarum nnlurarum adunai
conformitas, genere vel specie unum dicuntur .... Tres homines.... neque genere
ncque specie, i. e. nulla subsistentiarum dissimilitudine, sed suis
accidenlibus dissimilitudinis distant . Sunt conformantium ipsos
subsistentiarum numero plures. p. 1175
[1305]: Conformitate aliqua.... plures homines dicuntur unus homo. p. 1192 [1322]: Secundum proposìtae naturar
plenitudinem.... dicitur substantialis similitudo : qualiter album albo simile
est, et homo homini. p. 1194 [1324]:
Tales sunt omnes differentiae illae, quae[cunque] rei huic generalissimo
proxime cum ipso quaedam contrae-l’affinità con la« similia creatio» del libro
De gen. et spec. (nota 163), e particolarmente con la « consimilitudo » di
Abelardo (nota 299) ; ma è degno di nota che il termine « indìfierentia », che
pur doveva offrirglisi affatto spontaneamente, Gilberto lo usi esclusivamente a
proposito di discussioni teologiche intorno alla Trinità « 5 ), e che pur si
serva invece, così per sostanze come per attributi, del termine « identitas»
47B ). In generale egli intende questa virtù formativa degli universali in
senso realistico, a tal punto, che, p. es., non solamente la bianchezza, ma
anche la unità appare a lui come una tale forma, la quale deve, qualunque sia
il predicato, cooperare per far del soggetto di esso una cosa 477 ): e, mentre
con ciò si trova esposto alla obiezione sopra citata (nota 438) : ed è
possibile che fosse diretta proprio contro Gilberto), arriva qui a stabilire
una distinzione, utilizzabile per la questione della Trinità, ma poi da capo
violentemente combattuta da altri, fra la unità e 1’ Uno, o in generale tra gli
aggettivi numerali e le forme ideali che stanno loro a fondamento in quanto che quelli posson essere predicati
soltanto delle fiorii similitudinis consumimi genera, quae a logica....
subalterna vocanlur ■ vel subalterna similiter adhaerentes, quamlibet siib ipsa
Subsistentiam specialem componuntp. 1231 [Ì370]: ffomo subsistentia spedala,
quae est hujus nomina qualità» una uulan conformilate, sed plures essenliae
singulantate, de singola honunibus.... Parimente p. 1251 [?}» 1262 [1399], ecc.
|9Q0) in ) Così, p. es., p. 1134, 1152 e 1169 [1262, 1280 e 1-99]. 4tg\ p H 69
[1299]: Identitate unionis.... homo idem quod nomo est. Nam'piato et Cicero
unione speciei sunt idem homo. .. auae ex proprietate est unitatis |Prantl
legge: propnetata est unitale ], q “ra,ion P ale P idem quod rationate est,
eduli anima hommu, et,pse homo, non unione speciei, sed unitale propnetata,
sunt unum ra donale. [ 1309 ]: Vnilas omnium.... praedicamentorum Comes est.
Narri de quocunque aliquid praedicatur, idpraticato ?“**'” «* hoc, quod nomine
ab eodem sibi indilo, et verbi iubifonm'i compos.tione ... esse significata,
sed unitale,psi cooccidenfe esf um m ul album albedine quiden, album est, sed
un,late cocce,dente albedim, unum, et simul albedine et ejus comite annate est
album unum. cose concrete, che appunto sottostanno all’azione formativa degli
universali ideali 478 ). Ma poi al concetto di conjormitas si associa inoltre
anche un modo d’ intendere, secondo il quale nell’ individuo tutte le
determinazioni possibili sono unificate per tal maniera, che esso, nella
totalità della sua sussistenza (cfr. la nota 462), non è conforme a nessun
altro essere, e pertanto la individualità consiste in questa dissimiglianza di
essenza, mentre all’ incontro tutto quel che c’è di nonindividuale si fonda
sopra una somiglianza, e può pertanto venire compartito ne’ suoi modi di
manifestarsi, individuali e concreti, che in esso sono simili, ma tra loro son
dissimili: concezione questa, che Gilberto carat47S ) p. 1148 [1277]: Quod est
unum, res est unitali subjecta, cui scilicet vel ipsa unilas inest, ut albo :
rei adest, ut albedini. Unitas vero est id, quo ipsum, cui inest, et ipsum, cui
adest, dicimus unum: ut album unum, albedo una. liursus ea, quae dicimus esse
duo, in rebus sunt, i. e. res sunt dualitati similiter subjcctae, quae dune
sunl.... ldeoque non unitas
ipsa, sed quod ei subjeclum est, unum est ; nec dualitas ipsa, sed quod ei
subjectum est, recle dicitur duo . Nani
vere omnis numerus non numeri ipsius, sed rerum sibi suppositarum est numeriti.
Ma che in generale persino questo sforzo, ispirato alla più stretta ortodossia,
abbia raccolto poca gratitudine dalla parte di vari altri teologi, lo desumiamo
dal fatto che, come riferisce il Du Houlay, Il istoria Universitatis
Parisiensis, I, p. 404 [rectius : p. 402 ss.: y. inoltri ibid. p. 741, e
particolarmente p. 200], il Priore Gualtiero di S. V ittore compose egli stesso
uno scritto contro i« quattro labirinti di trancia» [Contro qualtuor
labyrinthos Franciae : lo scritto si suol citare appunto con questo titolo],
cioè contro Pietro Lombardo (v. sopra le note 41 ss.), Abelardo, Pietro da
Poitiers e Gilberto; da manoscritti di tale opera (conservati nella Biblioteca
di S. Vittore) il Launoi, de varia Aristot. in Acad. Paris. Jori., c. 3. p. 29
[p. 189 della ediz. di Vittemberga, 1720], comunica il passo seguente: Quisquis
hoc legerit, non dubitabit, qualuor Labyrinthos Franciae, i. e. Abaelardum et
Lombardum, Pelrum. Pictavinum et Gilbertum Porretanum. uno spiritu Aristotelico
afflalos, dum ineffabilia Trinitatis et Incarnationis scholastica levitate
tractarent, multas haereses olim vomuisse, et adhuc errores pullulare [Cfr.
UEBERtYEG Geyer, p. 271]. Maggiori particolari sopra questo alterco fra teologi
sono stati riferiti dall’UsENER nei Jahrbiicher fiir protestantische rheologie,
voi. V (1879), p. 183 ss. [« Gislcbert de la Porrée» è il titolo della nota,
riprodotta nel IV voi. della raccolta delle Kleine Schriflen dell’Usener,
Lipsia terizza scegliendo, per i così detti nomina appellativa, il termine «
dividila », che troviamo qui per la prima volta, e, per i così detti nomina
propria, il termine « individua » 479 )Per la logica, una maniera di trarre
partito da questo realismo ontologico consiste nell’andar su e giù per la
Tabula logica, come si fa, secondo il procedimento di Boezio, nella definizione
e nella divisione 48 °) : consiste pertanto nella funzione predicativa,
inquantochè quel che dal predicato si predica, relativamente alle cose
concrete, non è mai l’essere concreto per se stesso, ma solamente la essenza,
cioè la sussistenza e gli attributi essenziali 481 ): vale a dire che il
realismo di Gilberto trova la propria espressione in ciò, ch’egli considera
tutte le categorie come le causalità reali del loro manifestarsi nelle cose
concrete, e le designa pertanto come sommi generi non dei 47 9\ y 1164* 112941:
Si enim dividuum facit similitudo, consequens est ut individuimi dissimilando.
p. 1236 11372]: Homo et sol a Grammatici appellativa nomina, a Dialeclicis vero
dividila vocantiir Plato vero et eius singularis albedo, ab eisdem Grammatica
propria, a Dia lecticis vero individua. Sed horum homo tam aclu quam natura
appella tivum vel dividuum est; sol vero natura tantum, non aclu. Multi nam que non modo natura,
verum etiam actu, et fuerunt, et sunt, et sant, subslanliali similitudine
similes hommes. Pestai igitur, ut illa tantum sint individua, quae ex omnibus
composita. nullis aliis in loto possimi esse conformia, ut ex omnibus, quae et
actu et natura fuerunt vel sunt vel futura sunt, Platoms collecta Hatomtas. 112g jj 255 j. Sia* in diffinitiva demonstratione
specie» aenere, sic in divisiva genus specie declaratur. Nulla species de suo
genere praedicatur» in diffimtionum genere verum est; itero « orarti* species
de suo genere praedicatur » in divistonum genere verum est., 48 i\ p. 1244
[1381]: Nunquam enim id, quod est, praedicatut % sea. esse et quod illi adest,
praedicabile est, et sine tropo, non msi de eo, quod est. (Se Gilberto con
queste parole designava ì giudizi puramente esistenziali come inconcludenti, si
metteva con ciò da capo in contrasto con certi teologi: v. Otto Frisino, de
gest. Fnd.. I, 52 n. 437, ed. Urstis [MGH, XX, p. 379-80]: Erat quippe
quorunda'm in logica sententia, [quod.] cum quis diceret, Socratem esse, nihil
diceret. Quos praefatus episcopus [intendi appunto 1 episcopus (i tctaviensis) Gisilbertus
] seclans, talem dicti usuro haud premeditate „d theologiam verterà!). predicati ma degli oggetti, si che per
conseguenza la jacultas logica contiene semplicemente un ricalco della realtà
482 ). Ma, su questo punto, non si limita a distinguere le categorie, alla
solita maniera, onde quella della sostanza si contrappone a tutte le altre
nove, bensì queste ultime si dividono a lor volta, secondo che appartengono
all’ intima essenza, o han per contenuto solamente una relazione estrinseca 483
) ; cioè, qualità e quantità, che appartengono alla « natura» (nota 461) o alla
sussistenza, servono perciò ancora a predicare il vere esse, laddove le altre
sette categorie, inclusa dunque pur
quella della relazione , esclusivamente ricadono nella sfera degli status e
delle loro esterne mutevoli circostanze (status : cfr. circumstantia in Boezio,
Sez. XII, nota 166) «“). 4S2 ) p. 1173 [1303]: Ilorum nominum illa significata,
quae diversis rationibus Grammatici qualilates, Dialectici cathegorias, i. e.
praedicamenla, vocant, praedicantur substantialiter, p. 1153 11281-2]: Qualilas ....omnium
qualitatum gcneralissimum est, et quantilas omnium quantilatum.... Ideoque
qualitas est qualitas genere cujuslibet qualitatis, quale vero est quale
qualitate cujuslibet generis.... Sirniliter nullum, quod est ad aliquid,
relatio est. et nulla relatio est ad aliquid. Sed.... id, de quo ijJsa dicilur,
est ad aliquid.... Ubi quoque, et quando, et habere, et situm esse, et Jacere,
et pati, rwmina sunt generalissima, non eorum quae praedicantur, sed eorum de
quibus praedicantur.... Ilaec igitur praedicamenta talia sunt relationibus
logicae jacullatis, qualia illa subjecta, de quibus ea convenit dici,
permiserint. p. 1146 [1274]: Caeteras,
quae in corporibus sunt, vocantes formas, hoc nomine abutimur, dum non ideae,
sed idcarum sint eìxóveq, i. e. imagines, quod ulique nomen eis melius
convenit. Assimilantur enim.... quadam extra substantiam imitatione his formìs,
quae non sunt in materia constitutae, sinceris) p. 1153 [1282]: Quidquid hoc
est subsistentium esse; eorundcm substantia dicilur. Quod ulique sunt omnium
subsistentium speciales subsistentiae, et omnes ex quibus hae compositac sunt,
scilicet, eorumdem subsistentium, per quas ipsa sibi conformia sunt, generales,
et omnes, per quas ipsa dissimilia sunt, dijjerentiales.... Accidenlia vero de
illis quidem substantiis, quae ex esse sunt, aliquid dicuntur, sive in eis
creata, sive extrinsecus affixa sint, sed eis tantum, quae esse sunt, accidunt.
484 ) p. 1156 [1285]: Ilare quidem, i. e. subslantiae, qualitates, quantitates,
sunt talia, quibus vere sunt, quaecunque his esse proponuntur, ideoque recte de
ipsis praedicari dicuntur. Reliqua vero sep[d) lo scritto De sex principiis:
un'abborracciatura]. Ma proprio
quest’ultimo argomento ci porta a prender in esame lo scritto di Gilberto De
sex principiis, un pasticcio veramente pietoso, che fu già commentato da
Lamberto da Auxerre (v. la Sez. XVII, nota 116), e poi, in conseguenza
dell’autorità goduta da Alberto Magno (ibid., note 439 s.), venne a essere
tenuto in così grande conto da essere formalmente incorporato aH’Organon 485 ).
ivi c’ imbattiamo novamente (cfr. la nota 461) nel concetto di essere
sostanziale, nel quale risiede la forma di un intrecciarsi degli elementi della
essenza 486 ) : e a tale proposito si fa la osservazione, la quale, come più
sopra (nota 464), resta senza motivazione, che cioè dalla singolarità delle
cose concrete il pensiero trae fuori e intende quell’elemento, cb’è, nella sua
unità, commune e universale 487 ). Ma poi si passa a considerar le categorie.
lem generai» accidentia.... [non] vera essendi rationc praedicantur. Narri....
extrinsecis scilicet eircumfusus et determinatili minime praedicaretur, si non
prius suis esset per se propri elalibus informatili. p. 1160 [1290]: Sic ergo praedicatio alia
est, qua vere inhaerens inhaerere praedicatur ; alia, quae quamvis forma
inhaerentium fiat, tamen ila exterioribus datur, ut ea nihil alieni inhaerere
inlelligatur. Caetera vero (cfr. la nota 461). quae de ipso noturaliter
dicuntur, quidam ejus status vocantur, eo quod nunc sic, nunc vero aliler,
rctinens has. quibus aliquid est, mensuras et qualitalcs et maxime
subsistentias, statuatur.... Situ, vel loco, vel Inibita, vel relatione, vel
tempore, vel actione, vel passione slatuitur. Cori, quanto alla categoria della
relazione, vien detto inoltre, nella forma più esplicita, a a p. 1163: relativa
praedicatio ....consislil.... non in eo, quod est esse. 485 ) In conseguenza
del suo accoglimento neH’Organon, è stato stampato in quasi tutte le più
antiche traduzioni latine di Aristotele; io cito dal voi. I delle Opere di
Aristotele in versione latina, Venezia 1552, in fnl. [Qui s’includono tra
parentesi quadre i riferimenti al testo accolto nella PL: cfr. più sopra la nota
21]. 4S “) Cap. 1, f. 31, v. A: Forma est compositioni contingens, simplici et
invariabili essentia consistens.... Substanliale vero est, quod conferì esse ex
quadam composilione compositioni, ut in pluribus, quod impossibile est deesse
ei [PL, 188, 12589]. 487 ) f. 31, v. B: Sicut ex plurium partium coniunclionc
constitutio quaedam primorum excedens quantitatem ejfìcilur, sic ex singularium
discretione unum quoddam intelligilur. eorum excedens praedicationem. Così anche [Cap. 2], f. 32, r. B: omnes
quidem homines eius hominis. qui communis est, et universale con quella stessa
dicotomia (note 483 ss.) di categorie intrinseche ed estrinseche, ma con questa
differenza tuttavia, che cioè qui la categoria della relazione non viene ora
più annoverata fra le categorie estrinseche, bensì questo gruppo viene a esser
costituito dalle ultime sei categorie soltanto (actio, passio, ubi, quando,
situs, habere) : e poiché delle prime quattro categorie ha di già parlato a
sufficienza Aristotele, Gilberto vuole trattare ora più compiutamente appunto
di queste altre sei 488 ). Sodisfa cosi un bisogno, che abbiamo veduto di già
manifestato piu sopra (note 18 e 344): e qualificando Gilberto, con la sua
mania realistica, anche queste categorie come « principia» (cfr. le note 477 e
482), tale suo scritto, privo di senso comune, venne ad assumere più tardi,
anche in considerazione del suo titolo, una cosi grande importanza, da esser
accolto per cosi dire nelFOrganon come sua parte integrante. [e) i sei «
principii»: actio, passio, quando, ubi, situs, habitus]. Per prima cosa vien definita l 'actio, e, con
il più netto dualismo tra azione corporea e azione psichica, la si qualifica
come legata da relazione di reciprocità con il concetto di movimento 489 ) : a
ciò fa seguito la osservazione che la particolarità delazione ha per 4#8 )
[Cap. 2], f. 32, r. A: Eorum vero, quae contingunt exislenti, singultirli aul
extrinsecus advenit, aul intra subslanliam consideratur simpliciler : ut linea,
superficics, corpus. Ea vero, quae extrinsecus contingunt, aut actus, aut pati,
aul dispositio, aut esse alicubi, aul in mora, aut habere necessario erutti.
Sed de his, quae subsistunt, et quae non solum in quo existunt exigunl, in eo
qui « de Categoriis» libro inscribilur, disputatimi est: de reliquis vero
continuo aeamus [1260], * 4S “) Cap. 2, ibid. : Actio vero est, secundum quam
in id, quoti subiicitur, agere dicimur.... Differunt autem, quoniam ea, quae
corporis est, rnovens est necessario illud, in quo est,.... actio autem animae
non id movet, in quo est, sed coniunclum : anima enim, dum agii, immobile
est.... Omnis ergo actio in mota est : omnisque motus in actione firmabitur sua
proprietà (li produrre la passio, e che pertanto l'actio è il « principio »
primordiale 49 °): a questo punto il concetto di « jacere » viene applicato
anche a tutte le rimanenti categorie in ima serie di affermazioni che son delle
più aride e peggio fondate 491 ) : e secondo il modello delle quattro prime
categorie si fa vedere, anche nel jacere e nel pati, il rapporto di contrarietà
e la graduazione di più o meno 492 ). Ma poi viene, ciononostante, in secondo
luogo la passio, dandosi per essa rilievo alla varietà di accezioni di questo
termine 493 ). Viene appresso presentata, in terzo luogo, la categoria del
quando, la quale è bensì afline al tempus, ma pur se ne distingue, in quanto
che i tre tempi, passato e presente e futuro, non son già un quando, ma sono
solamente un effetto e una proprietà, conforme a cui qualche cosa viene
denominata come passata e via dicendo (v. alcunché di simile alla precedente
nota 194); inoltre nulla può misurarsi secondo il quando, ma secondo il tempo
sì 494 ). 49 °) f. 32, r. B:
Naturqlis vero actionis propnetas est, passionem ex se in id, quod subiicitur,
inferre : omnis enim aclio passionis est effectiva.... Et sic actus quidem est
primordiale principiata [1261]. 491 ) Ibid.: Facere vero id, quod quale est, ex
se gignit.... Quantitatum vero particularium positio effectrix est, et
qunlilatum universa enim liaec a situ substantiam et generalionem kabent.... Situs autem, agere et pati : in dispositionis nonuple
compositione quaedam generalio simplicium fil, quam in motiva actione
consistere necesse est. Quando vero tempus. Ubi vero locus. Habere autem corpus
: ea enim, quae circa corpus sunt, habere dicuntur [1261], 492 ) Ibid.: Recipit
autem facere et pati contrarielalem, et magis et minus : secare enim ad
plantare contrarium est....: et calefieri magis et minus dicilur [1261-2]. 493 ) C. 3, f. 32, v. A: Passio
est effectus illatioque actionis.... Est autem pati eorum, quae multipliciter
dicuntur : animae enim actionum unaquaeque passio dicitur.... Dicilur quoque passio, quod in naturam agii : ut
morbus.... Ea vero, quae nunc relinquuntur, in eo qui est « de Generatione»
libro tractanlur (questa citazione è presa da Boezio [in Ar. praed.. Ili: PL,
64, 262], p. 190). 494 ) C. 4, ibid. : Quando vero est, quod ex adiacentia
(cfr. la nota 504) temporis reliquitur. Tempus vero quando non est, utriusque
autem ratio coniuncta est, ut tempus quidem praeteritum quando non est, A ciò
fa seguito, come il colmo della stupidità, la indicazione di una differenza tra
quando e ubi, in quanto che il quando del presente, in pari tempo che l’istante
stesso, è in eodem, ciò che non si verifica per Vubi 49S ), e cosi pure ima
divisione del quando e del tempus in semplici e in composti 496 ), e infine la
notizia che la relazione di contrarietà, e di più o meno, non ha luogo nel
quando 497 ). Quarto viene ora ubi, e qui si presenta la distinzione analoga
tra ubi e locus 498 ): e alla impossibilità che due cose sieno in uno stesso
luogo o una stessa cosa in diversi luoghi, si collega anche la controversia
sopraccennata (nota 203) circa la propagazione del suono); anche Vubi vien
distinto in semplice e in complesso, e si esclude che, rispetto ad esso, abbia
luogo la relazione di più efeclus autemcius, et affectio, secundum quarti
dicilur aliquid fuisse, quando est. Instans autem quando non est, sed secundum
quod aliquid aequale, tei inacquale est: eius autem affectio, secundum quam
aliquid dicilur in instanti esse, quando est. Futurum similiter tempus quando
non est. — f. 32, v. B: Distai autem et tempus ab eo, quod quando: quoniarn
secundum tempus aliquid est mensurabile : ut motus animus.... Al vero secundum quando ri ih il mensuratur, sed
aliquando dicilur esse [1262]. 4 96 ) f. 32, V. B : Differì enim quando ab eo,
quod est ubi : quoniarn in quocunque, tempus est vel fuitvcl erit, in eo quidem
quando, est vel fuit vel erit, quod secundum idem tempus dicilur: quando enim,
quod exislenti est, curn ipso instanti est, et simili in eodern sunt.... Ubi
vero et locus, a quo est, vel fit, nunquam simili in eodem : ubi enim in
circumscriptione est: locus autem in compicciente [1263], 19a ) Ibid. : Quando
....sicut autem et tempus, aliud quidem compositum est, aliud vero simplex. Est
autem compositum, quod in composita anione consista: simplex vero, quod cum
simplici procedit [1263], 497 ) Ibid.: Inest autem quando, non suscipere magis
et minus.... Amplius quando nihil est contrarium) C. 5, f. 33, r. A: Ubi vero
est circumscriptio corporis, a circumscriptione loci proveniens. Locus autem in
eo, quod capii, est, et circumscribit.... Non est autem in eodem locus et ubi:
locus enim in eo, quod capii, ubi vero in eo, quod circumscribitur et
complectitur [1264]. 4 ") Ibid, : Nequaquam igitur duo in eodem loco esse
simul possunt, nec idem unum in diversis.... Movet autem quis quaestionem f
orlasse, idem in diversis et pluribus concludens ; etenim vox in auribus
diversorum est.... Confiteli oportel omnino, urtarti particulam aeris ad aures
diversorum pervenire.... Relinquitur igitur, diversum sensum esse
imaginabiliter se generanlium, et similiter [1264-5]. o ili meno, e così pure
quella di contrarietà, a proposito della quale l’Autore persino espressamente
si riferisce ai concetti di sopra e di sotto 50 °). Quinto segue situs, ovvero
la categoria, come la chiama Gilberto, della positio, intesa secondo il
realismo più rozzo possibile, sicché tutte le particolari manifestazioni di
questa categoria, nel cui novero vengono compresi, p. es., anche lo scabro e il
levigato (cfr. la nota 193), sono considerate soltanto come espressioni
derivate 501 ); si contesta che questa categoria comporti opposizione
contraria, e ciò perchè i contrari appartengono soltanto a un medesimo genere,
e invece lo star seduti e il giacere vanno assegnati a generi differenti, in
quanto che soltanto esseri ragionevoli possono star seduti, laddove gli altri
stanno a giacere 502 ); e mentre qui è inammissibile anche la relazione di più
o di meno, questa categoria va messa nella più stretta connessione con quella
della sostanza, proprio in essa trovando le sostanze il loro ordinamento 503 ).
Ml °) f. 33. r. B: Ubi autem. aliud quidem simplex, aliud vero composilum.
Simplex quidem, quod a simplici loco procedit : composilum autem, quod ex
composito.... C.arct autem libi inlenlione et remissione : non enim dicitur
alterum altero magis in loco esse vel minus.... Inesl autem ubi, nihil esse
contrarium.... Sursuni enim et deorsum esse contraria pluribus videntur....
Conlingit autem contraria in eodem esse.... Si enim sursum esse et inferius
esse contraria sunt, cum idem sursum et deorsum sit, colligitur, idem sibimet
contrarium fieri [1265]. 601 ) C. 6, f. 33, v. A: Positio est quidam parlium
situs, et generati onis ordinatio, secundum quam dicuntur stantia vel
sedentia.... Sedere autem et lacere positiones non sunt, sed denominative ab
his dieta sunt. Solet autem quaestio induci de curvo et recto, aspero et
leni.... Non sunt autem positiones ea, quae dieta sunt omnia, sed qualia circa
situm existentia [1265-6]. 60S ) Ibid. : Suscipere autem videtur situs
contrarietates : nam sedere ad id quod stare contrarium esse videtur....
Ponentibus autem nobis, haec contraria esse, inconvenientia recipere cogimur,
hoc, quod unum sit contrarium plurium.... Amplius autem conlrariorum quidem
ratio est, circa idem natura existere. : sedere enim et iacere non circa idem
natura sunt seiuncta : est enim sedere proprie circa ralionalia, iacere vero et
accumbere circa diversa) f. 3, V. B.: Proprium autem positionis, ncque magis
neque minus dici.... Magis autem
proprium videtur esse positionis, substantiae Riinane poi ancora in sesto luogo
Vhabitus, categoria identificata con il concetto di adiacentia, già familiare a
noi, che conosciamo Abelardo (nota 284) 504 ); quando poi si legge che per
habere la relazione di più o di meno è, di regola, ammissibile, ma talora,
come, p. es., nel caso dell’« esser vestito », è inammissibile, e che in questa
categoria non sussiste contrarietà, perchè esser armato ed esser calzalo non
sono opposti 505 ), — anche ciò rende sufficiente testimonianza del talento
logico dell’Autore; come particolarità di questa categoria, viene indicato il
fatto che essa rimanda sempre a una pluralità, il che può, soltanto per certi
rispetti, ripetersi anche per le categorie della quantità e della relazione 508
); finalmente vengono citate ancora cinque accezioni differenti del termine
habere 507 ). [f) la controversia intorno al magis e al minus]. — Ma venuta poi
a una conchiusione questa disamina dei « principi » 508 ), fa ancor seguito una
trattazione speciale del proxime assistere, omnibus qiiidem aliis/ormis
suppositis. Posilio autem nihil aliati est. quatti naturalis ipsius subslantiae
ordinatio [1260]. S04 ) C. 7, f. 33, v. B: Habitus est corporum, et eorum quae
circa corpus suoi, adiacentia : secundum quam hoc quidem habere, illa vero
dicunlur halteri. Haec autem non
secundum totum dicunlur, sed secanti uni particularem divisionem, ut armatum
esse [1267], s01i ) f. 34, r. A: Suscipit autem habitus magis et minus :
armatior enim est eques pedite.... In quibusdam autem non videtur, quoti rum
magis et minuspraedicentur : ut vestitum esse, et similia. IIabitui quoque
nihil est conlrarium : elenim armatio calceationi non est contraria [1267], 60
°) Ibid. : Proprium quidem habitus est, in pluribus existere.... In paucis
autem aliis principiis huiusmodi invenies : in quantilate enim solum, et in his
quae ad aliquid sunt, similia reperies.... Habitus autem omnis in pluribus
necessario existit, ut in corpore. et in his quae circa corpus sunl) Ibid. :
Dicilur autem habere multis modis : habere enim dicitur alterationem.... Dicilur etiam ras aliquid habere.... Habere quoque in
membro dicimur,... Dicitui vir uxorem habere, et recipere uxor virum.... Quare
modi habendi, qui dici consueverunt, quinario numero terminanlur [1267-8], 50s
) Ibid. : Et quidem de principiis haec dieta sufficiant : reliqua vero in eo,
quod de Analylicis est. quaerantur volumine magis et minus ; e qui Gilberto
taglia il nodo della controversia ricordata più sopra (nota 196), non potendo
l’ordine delle graduazioni risieder già nella sostanza stessa, poiché questo
urta contro il concetto di sostanza, ma d’altra parte nemmeno negli accidenti,
perchè allora il grado superiore, p. es., di bianchezza dovrebbe consistere
nell’ampiezza della superficie (!) : donde consegue che il più o il meno
neanche ha la propria sede nell’ima e negli altri insieme, cioè nella sostanza
e ne’ suoi accidenti 509 ). Ma la soluzione positiva, che dà ora Gilberto, ha
questo fondamento, che cioè il magis vel minus consiste nel grado in cui lo
stato di fatto reale sta più vicino o più lontano dall’accezione del termine
che designa la qualità, una graduazione questa che non si manifesta, dove si
tratta di sostanze, per la ragione che la denominazione delle sostanze stesse
rimane compresa entro saldi confini (in terminis) : tuttavia a tal proposito
viene a confessare egli stesso quali assurdità sieno queste che presenta,
quando deve aggiungere che una tale saldezza si ritrova tuttavia anche nella
denominazione di talune qualità 51 °). In60 “) C. 8, f. 34, r. B: Non ergo
secundum suscipicntium ipsorum Crementum vel decremenlum, cum „magis vel minus
“ aliqua dicuntur. Nulla cnim ratio obviarel dicenti, hominem et animai et
substantiam et caetcra consimilia cum „magis et minus" dici.... Mons eliam
alio monte maior dicitur, cum neuler crescat vel decrescat.... Amplius autem
ncque secundum ea, quae inficiunt. Si enim, secundum magnitudinem albedinis vel
alicuius caelerorum, dicitur aliquid albius aliquo, vel, secundum parvitatem,
minus album, vel quomodolihet aliter, utique et magis albus equus vel homo, vel
quodlibet aliud albius margarita dicetur : etenim maior albedinis quantitas
equo accidit quam margaritae.... f. 34, v. A: l’atet itaque, nihil
secundum,.magis et minus“ praedicari, ncque secundum suhiecti solum augmentum
vel diminutionem, neque secundum accidentis ; quare ncque secundum utrunaue
[1268-9], ^ 61 °) 6 34, v. A: Oportet igilur ab alio ea invenire, quae cum
„magis et minus" dicantur. Huiusmodi vero sunt ea, quae. sunt in voce
eorum, quae adveniunt, et non secundum subiecti vel mobilis cremenlum vel
diminutionem, sed quoniam eorum, quae sunt in voce, impositioni propinquiora
sunt, sive ab eadem remotiora sunt : de his etenim cum „ magis" dicuntur,
quae proximiora sunt ei, quae in ipsa voce est, impositioni, cum „minus"
autem de his, quae remotiora consistunt.... Quanto igitur tìne la faccenda
mette pur capo anche alla tesi essenziale, che cioè nella pluralità della
realtà materiale in generale, hanno loro proprio luogo il divenire e la
relatività 511 ), e F illogico realista assume poi a criterio per questo campo
la espressione verbale, mentre, per Forbita del vero essere, possiede nella
parola solamente il ricalco di una idea. Così lo scritto di Gilberto intorno
alle categorie ci porge un documento veramente miserevole, per provare come
quell’epoca non fosse per nulla meno goffa e inetta dei secoli precorsi, tostochè
sol si tentasse mai, senza le dande della tradizione, di muover un passo
indipendente, anche senza uscir dall’ambito delle cose più semplici. [§ 36. —
Ottone da Freising, seguace di Gilberto. Lo scritto pseudo—boeziano De imitate
et uno]. — Ma quale seguace di Gilberto, riguardo alla concezione degli
universali, ci si presenta Ottone da Frei8 i'n g (nato nel 1109 [rectius : nel
1114 o 1115], morto nel 1158), che alle sue opere storiche intreccia talvolta
disgressioni formali di contenuto filosofico, manifestando in esse, con i modi
consueti di espressione, il suo rispetto di teologo verso Platone, e in pari
tempo il conto in cui ad vocis impositionem accedens puriori inficitur
alitarne, tanto et candidior assignabitur.... Dubitabit autcni aliquis, quarc
haec quidem cum ..magis et minus LL dicantur, substantiae vero minime : hoc
autem contingit. quoniam subslantiarum impositio quidem in termino est, ultra
quem transgredi impossibile est. Additur autem et de accidenlibus quibusdam,
quae sine ..magis et minus “ dicuntur : ut quadrangulus, et triangulus, et
similia [1269], 6U ) f. 34, v. B: In subiecto enim duo sunt. quorum haec quidem
estjorma secundum rationem, haec autem secundum materiam ; quando igitur in his
duobus est transmutatio, generatio et corruptio crii simpliciter secundum
veritatem.... Est autem materia
maxime quidem subieclum gencrationis et corruptionis proprie susccptibile....
Haec autem hoc aliquid significant et substantiam, haec autem quale, haec autem
quantum. Quaecunque igitur non substantiam
significant, non dicuntur simpliciter, sed secundum aliquid generari tiene la
logica aristotelica 512 ). Come Ottone occasionalmente aderisce una volta alla
tesi, che gli esseri concretamente esistenti formano il contenuto e l’oggetto
dei predicati dichiarativi, laddove i concetti di specie e di genere vengono
predicati, avuto riguardo alla causalità delle cose che ha in essi fondamento
513 ), — così un’altra volta egli si pronunzia più distesamente sopra questa
relazione, in tutto e per tutto ripetendo la opinione di Gilberto, con il quale
si accorda anche nella espressione letterale ( nativum, natura, Jorma,
con.jorm.is, coadunatio, — « omne esse ex Jorma est» —) 514 ). Nello stesso
senso, 612 ) Chron. II, 8, p. 27, cri. Urstis [MGH, XX, p. 147]: Sacrale*....
educaviI Platonem et Aristotilem, quorum alter de potentia. sapientia, bonilate
creatoris ac genitura mundi creationevc hominis tam luculenter, lam sapienter,
tam vicine verilati disputai.... alter vero dialecticae [libros] arti* vel
primus edidisse, tei in melius correxisse, aculissimeque ac disertissime iride
disputasse invenilur [cfr. il testo della ediz. Wilmans (M G II), e ivi
l’apparato critico], 61a ) De gest. Frid. Prolog., p. 405, cd. Urstis [MGH, XX,
p. 352]: Sicut enim iuxta quorundam in logica nolorum positionem, cum non
formarum, sed subsistentium proprium sii praedicari seu declarari. genera tamen
et species praedicamento transsumpto ad causam praedicari dicuntur. Vel, ut
communiori utar exemplo, sicut albedo clara, mors pullida, eo quod claritatis
altera, palloris altera causa sit, appellatur, etc. (La espressione
transsumptio, come pure lo stesso esempio albedo clara, si trovano in Gilberto,
p. 1142 [1270] : v. la nota 472). M4 ) De gest. Frid. I, 5, p. 408 [354]:
Nativum velut natimi aut gemtum, descendens a genuino (v. la nota 464).... In
nalivis igitur omnem naturata seu formam, quac integrata esse subsistentis sii,
vel adii et natura, vel natura sallem conformem habere necesse est.... Partes
aulem hic vaco eas formas (nota 468), quae ad componendarn speciem aut in
capite ponuntur, ut generales, aut aggregante, ut differentiales, aut eas
comitantur, ut accidentales.... [355] Potei.... humanitatem Socratis secundum
omnes partes et omnimodum effectum humanitali Plutoni* conformem esse, ac
secundum hoc Socratem et Platonem eundem et unum in universali dici solere
(nota 474),... Concretìo etiam in naturaiibus non solum coadunatione formae et
subsistentis. sed ex moltitudine accidentium, quae substanliale esse
comilantur, consideravi potest (note 464 e 471).... Sunl aliae formae subiectum
integrum informante*, quae naluram tantum conformem habenl. Esse quippe soli*,
etsi non aclu, natura conformem habere noscitur. Quare, quamvis plures soles non
sint, sine repugnanlia tamen naturae plures esse possunt (nota 479).... (p.
410) Omne namque esse ex forma est.... Tantum de co, quae a philosophis
genitura, a nobis faclura seu creatura dici solet, disputai inumi inslituimus. Sed notandum, quod compositio alia forébìin altro
luogo (con. intonazione polemica contro Guglielmo da Champeaux) qualifica
l’universale come« quasi in unum versale», e a ciò unisce una giustificazione
etimologica dei termini e dei concetti di dividuum e individiium 515 )',
inoltre condivide con Gilberto l’ingenuo raccostamento delle cose e delle
parole 516 ), come pure ricorda altresì ima volta quell’esercizio ginnastico,
che vien fatto nello studio della logica, sull’albero di cuccagna della Tabula
logica 517 ). Appartiene allo stesso gruppo anche uno scrittarello anonimo
[oggi è riconosciuto esser opera di Domenico Gundissalino] «De unitate et uno»,
che manifestamente è una produzione determinata dalle polemiche di quel tempo
intorno alla Trinità, ma che, al pari di quella più antica opera De Trinitate
[oggi, come abbiamo veduto, attribuita appunto a Boezio], fu ritenuta marum,
alia est subsistentium.formarum ex formis, subsistenlium ex subsistentibus..,.
[356] Formarum autem aliae compositae, aline simplices ; simplices, ut albedo,
compositae, ut humanitas.... Ulule Boetius in oclava rcgula libri llebdomade
„omni composito aliud est esse, aliud ipsum est“ (v. la noia 37). 61S ) Ibid.,
53, p. 437 [380] : Universalem..., dico, non ex eo, quod una in plurilius sii,
quod est impossibile (noia 105), sed ex Iwc, quod plura in similitudine vivendo
[rectius : uniendo] ab assimilamii unione univcrsalis. quasi in unum versalis
dicalur.... Ex quo palei . quare.... singularem, individualem vel parlicularem
dixerim proprietatem, eam nimirum, qttae suum subiectum non assimilai aliis. ut
humanitas, sed ab aliis dividii, discernit, partitur. ut ea, quam fido nomine
solemus dicere,,Platonitas “, a dividendo individua, a parliendo particularis,
a dissimilando singularis dieta. Nec opponas, quod potius a dividendo dividuam,
quam individuam dici oporteat. Nam cum suum subiectum non solum ab aliis
dividat vel dissimilet. sed etiam in sua individualitale et dissimilitudine tam
firmiter manere faciat, ut nec sii nec fuerit neo futurum sit aliud subiectum,
quod secundum eiusmodi proprietalem illi assimUari queat, melme individuum
privando, quam dividuum ponendo vocalur, eiusque oppositum, quod dividendo
pluribus communical, et communicando dividii, rectius dividuum dici debet (noia
479). “ 1G ) Ibid., p. 438 [ifc.] : Cum enim omne esse ex forma sii, quodlibet
subsistens rem et nomea a sua capit forma (note 458, 174, 482). s17 ) Ibid..
60, p. 444 [386] : iuxta logicorum enim regulam methodus a genere ad
destruendum, a specie valet ad aslruendum (nota 480). fattura di Boezio (v.
sopra la nota 35) «»). Domina nella questione della unità, che anche Gilherto
era stato tratto a discutere (note 477 s.), quello stesso realismo di Gilberto
o di Ottone 519 ), e forse possiamo tutt’al più ricordare che qui si trova una
singolare enumerazione di accezioni varie del termine « unum» Alberico (da
Reims ?), a Parigi. WilliRAM DA SoiSSONS. VARI ALTRI AUTORI, MENZIONATI DA
Mapes]. Ma nello stesso tempo, cioè press’a poco tra il 1140 e il 1170, viene a
cadere anche la comparsa di alcuni altri autori, dei quali conosciamo quasi esclusivamente
i nomi, e a ogni passo della nostra indagme torna a imporsi la considerazione,
che cioè le fonti a noi accessibili ci consentono pur sempre soltanto una
conoscenza frammentaria. Si dovrà anzi designare come casuale la notizia dataci
da Giovanni da Salisbury, quando, raccontando il corso de’ suoi studi, fa il
nome di un certo Alberico, che, morto Abelardo, insegnò aS.te Geneviève in
Parigi, e imprese energicamente la „ Q M^n. tampata °P cre di Boezio, ediz. di
Basilea 1570, p. 1274 l'òleslpaTJTwTìMiT l * 3 bibli0thè 1 ue * *.s
dipar,ements de . ’ 1 ungi 1841, p. 169) trovo m un manoscritto di St -Michel
Hd/nf t0 an0nmM p rh e T nd ° aUe righe “ iziali d “ lui citate, c identico a
questo Pseudo-Boezio. ".*> p -.,. 1274 t PL ’ „ 63 1075]: Omne enim esse
ex forma est, in unita* r f ' S> ' " ullum eSSC ex f° rma nini cum
forma maleriae unita est. Esse xgitur est nonnisi ex eoniunctione formae cum
materia j.m autem forma matenae unitur, ex eoniunctione utriusque necessario
al,quid unum consti,ni,ur.... Uni,io autcm non fi, nisi un.tatZ Zmam autcm non
tene, uni,am cum materia nisi unitasi ideo materia egei untiate ad umendum
se.... et de natura sua habet multiplicari Uni,as vero retine,, umt e,
colligi,. Ac per hoc ne materia divida,ur et spargami -, necesse est, ut ab
unitale retineatur ecc. [testo cit. se0nd ° a ed £C r ™ (Beitràge del Baumker,
I, 1, p. 3 5 )]. ) p. 12/6 fPL, 63, 1077-8]: Unum enim aliud est essentiae
Simpl,Citate.... Ahud simplicium eoniunctione.... Aliud.... continuitate....
Ahud... compositione.... Alia dicuntur unum aggrega,ione Alta....
proportione.... Alia.... accidente.... Alia.... numerai Alia ZZI'"' Al,a
":;. natura . unum ’ ut participatione speciei plures hommes unus.
Alia.... natwne.... Alia.... more [testo c. s„ p. 9-10]. STORIA DELLA LOCICA IN
OCCIDENTE lotta contro i nominalisti, nella quale pare lo abbia sostenuto un
considerevole talento per le distinzioni 521 ). Riferisce inoltre Giovanni,
ch’egli stesso ha impartito 1’ insegnamento della logica a tale W i 1 1 i r a m
[Guglielmo ?] da Soissons, il quale, da lui presentato poscia a Adamo dal
Petit-Pont (note 440 ss.), ha ideato in seguito una speciale machina contro i
seguaci della vecchia logica (antiqui, logicae vetustas: v. sopra le note 55
ss.) 522 ). Giovanni menziona poi un’altra volta, oltre 621 ) Jou. Saresb.
Metal., II, 10, p. 78 s. (ed. Giles [e Wcbbj): Contali me ad Peripateticum
Palatinum qui. Iurte in monte Sanctae Genoue/ae clarus doclor et admirabilis
omnibus praesidebat. Ibi ad pedes eius prima artis huius rudimento accepi....
Deinde post discessum eius, qui michi praeproperus visus est, adhaesi magistro
Alberico, qui inter ceteros opinalissimus dialeclicus enitebal et erat revera
norninalis sectae acerrimus impugnator. Sic ferme tota biennio conversatus in
monte, artis huius praeceptoribus usus sum Alberico et magistro Rodberto
Meludensi (v. sopra la nota 453)....; quorum alter (cioè Alberico), ad omnia
scrupulosus, locum quaestionis inveniebal ubique, ut quamvis polita planilies
ojjvndiculo non carerei et, ut aiunl, ei [sjcirpus non esset enodis. Nam et ibi
monstrahat quid oporleal enodari ....Apud hos, toto exercilatus biennio, sic
locis assignandis assuevi et regulis et aliis rudimentorum elementis, quibus
pueriles animi imbitumar, et in quibus praejati doctores potentissimi crani et
expeditissimi, ut etc. [PL, 199, 867-8). Menzione di questo Alberico si trova
fatta da Giovanni anche nell’ Enthelicus, v. 55 s. : Iste loquax dicaxque parum
redolel Melidunum, Creditur Albrico doctior iste suo [PL, 199. 966). Ma di
quale Alberico si trattasse, fra i parecchi con questo nome, menzionati in
quell’epoca, non è possibile determinare con sicurezza; la indicazione
cronologica su riferita rende probabile che fosse Alberico da Reims,
soprannominato de Porta Veneris, il quale fece più tardi accoglienza ospitale a
Giovanni da Salibury e all’arcivescovo Tommaso [Becket], quando furon esuli in
Italia. V. Du Boulay, Hist.
Univ. Par.. II, p. 724. e la Ilistoire littér. de la France, XII, p. [72-6, e
particolarmente] 75. 522 ) Ibid., p. 80 [81]: linde ad magistrum Adam....
familiarilalem contraxi ulteriorem.... Interim Willelmiim Suessionensem, qui ad
expugnandam, ut aiunt sui, logicae vetustatem et consequentias inopinabiles
construendas et antiquorum sentcntias diruendas rnachinam postmodum fedi, prima
logices docili dementa et tandem iam dieta praeceplori appositi. Ibi forte
didicit idem esse ex contradictione, cum Aristotiles obloquatur, quia « idem
cum sit et non sit, non necesse est idem esse » (queste parole si trovano negli
Anni, pr., II, 4, 57 b 3: v. la Sez. TV, nota 614), et item, cum aliquid sit,
non necesse est idem esse et non esse. Nichil enim ex contradictione [82]
evenit et conlradictionem impossibile est ex aliquo evenire. Unde nec amici machina ima quel suo avversario,
denominato da lui Cornificio (v. subito appresso), il rappresentante di un
altro indirizzo, a quanto sembra, esagerato e astruso, nello studio della
logica, e lo designa con il nome imaginario di Sertor i u s 523 ). Ma a ciò si
aggiunge, oltre a notizie mal verificate circa un tal Davide, a ITirschau, e un
Giovanni Serio, a A ork r ’ 24 ), un’altra informazione ancora, che dobbiamo a
un autore della fine del secolo XII», cioè a Walter M a p e s, il quale nelle
sue poesie occasionalmente dimostra conoscenza delle personalità e delle
tendenze dominanti nelle scuole; costui menziona (con la osservazione, che il
maggior numero di seguaci lo ha Abelardo), oltre a Bernardo da Chartres, Pietro
da Poitiers e Adamo dal Petit—Pont, anche un certo Regina I d o, uno
straordinario sbraitone, che criticava tutti pellente urgeri potili ut credam
ex uno impossibili omnia impossibitia provenire [PI,, 199, 868], Anche a
prescindere dalla questione di determinare in che cosa inai potesse consistere
questa misteriosa machina, tutto il passo, del quale può anche ben darsi che il
testo sia guasto, mi è rimasto assolutamente incomprensibile; tutto quel che
risulta da un altro passo (v. appresso la nota 624), è che si tentav f di
riattaccare a quelle parole di Aristotele i sillogismi ipotetici. ) Enthet.,\.
116 ss. |PL, 199, 967-8]: Si i/uis credatur logicus, hoc satis est ; Insanire
putes potius. quam philosophari, Seria sani etemm cuncta molesta nimis.
Dulcescunt nugae, vultum sapientis abhorrent, lormenti geritts est saepe videre
librum. Ablactans nimium tencros Sertorius olim Discipulos Jerlur sic docuissc
suos ; Doctor mini juvrnum prelio compulsila et aere Pro magno docuit munere
scire nihil. tuo ), 1THKMI1 Ann ? liì Uirsaugienses, ann. 1137 (ediz. di S.
Gallo. 1690, I, p. 403): David.... monachicum habitum suscepil.... Scripsil
quaedam non spernendae lectionis opuscolo.... de grammatica L. 1, in
Perihermenias Aristotelis libros duos. Che tuttavia le notizie di Tritemio
abbiano scarso valore, lo sanno tutt’ i competenti; d’altra parte è noto che le
cose vanno di gran lunga anche peggio per il 1 ITSEUS [John Pits, 1560-1616],
il quale spesso, quando non copiava il Lei and [John Leland (Leyland,
Laylonde), antiquario inglese m. 1552], inventava semplicemente menzogne,
sicché forse neanche vai la pena di ricordare quel ch’egli dice. De illustribus
Anghae scriptoribus. p. 223 s. (ad ann. 1160): Joannes Serio dictus magister
Serio.... ex Eboracensi canonico Jactus est.... Fontanus Abbas.... Scripsit....
de aequivocis diclionibus librum unum, de univocis dictionibus librum unum. e
appiccò Porfirio alla l'orca (laqueo suspendit), sicché potremmo forse
ravvisare in lui quel Comifìcio di cui parla Giovanni da Salisbury [e da altri
diversamente identificato; cfr. la nota del Webb alla p. 8 della sua ediz. del
Metalogicus] ; menziona inoltre, insieme con Robertus Pullus, un Manerius,
estremamente sottile, mi arguto Bartolomeo e un Roberto Amici a s 525 ). Si può
anche ricordare che la poesia finisce con la cacciata dei monaci dalle scuole
dei filosofi 528 ): e c’è del pari un’altra poesia, che appartiene press’a poco
alla stessa epoca, e rappresenta con molto spirito il contrasto fra il pretume,
dedito ai piaceri del senso, e la fine cultura logica 527 ). 5 “) The latin
poems commonty attributcd to Walter Mapes, collected and edited by TnOMAS
Wrigiit (Londra, 1841-4), dove uella Introduzione è anche esposto quel che di
più preciso risulta sul conto di Walter Mapes. In una delle poesie, Metamorph.
Goliae, v. 189 ss. (p. 28), si trova il passo seguente: Ibi doctor cernitur
ille Carnotensis, Cujus lingua vehemens truncat vclut ensis ; Et hic praesul
praesulum stai Pictaviensis, Prius et nubenlium [studenlium ?] miles et
castrensis (seguono i versi cit. più sopra, nota 442).... [v. 199 ss.) ....Celebrem
theologum vidimus Lumbardum ; Cum Yvone, Helyam Petrum (entrambi grammatici),
el Bernardino [p. 29], Quorum opobalsamum, spiralo*, el riardimi. Et professi plurimi sunt
Abaielardimi. Reginaldus monachus dumose contendit. Et obliqui s singulos verbi
s comprehendit ; Hos et hos redarguii, nec in se descendit. Qui nostrum
Porphyrium laqueo suspendit. Roberlus theologus corde vivens mando Adest, el
Manerius quem nullis secando ; Alto loquens spiritii el ore profundo. Quo
quidem subtilior nullus est in rnundo. Hinc et Bartholomaeus faciem acutus.
Retar, dialecticus. sermone astutus, Et Robertus Amiclas simile secutus, Cum
hiis quos praetereo, populus minutus. 5 -’) Ibid., v. 233 (p. 30): Quidquid
tantae curiae sanctione datur. Non
ceda t in irritum, ratuni habealur ; Cucullatus igitur grex vilE pendatur. Et a
philosophicis scolis expellatur. — Amen. 5 “') De presbytero et logico
(parimente edito dal Wrigiit, op. cit., p. 251 ss.) in 216 versi, dove a dire
il vero non si trova alcun contributo d’ informazione storica per il nostro
intento. Il contrasto degl indirizzi ha p. es. la sua espressione nei versi 29
ss.: Logicus: «Fallis. fallis, presbvter, coelum Christianum, Abusive loqueris.
laedis Priscianum; Te probo falsidicum, te probo vesanum»; ....Presbyter. «
Tace, tace, logice ; tace, tir fallator; Tace, (lux insaniae, legis vanne lator
;....» Log. — « Peccasti, sed gravius adjicis peccare. Legem hanc adjiciens
vanam nominare; Sanum est, dissercre nel gramC. Prantl, »S 'torio, della logica
in Occidente, H. [§ 38. — Il così detto
Cornificio, oggetto della polemica di Giov. da Salisbury]. — Ai già nominati si
unisce finalmente ancora tutto quell’ indirizzo, che Giovanni da Salisbury,
volendo combattere non contro la persona, ma esclusivamente contro la cosa,
qualifica con il nome simbolico di Cornificio 528 ). I numerosi passi dov’egli
rammenta questo suo avversario o i seguaci di lui, coincidono in un punto, che
è questo: c’erano cioè parecchi, i quali a priori respingevano come inutile
ogni tecnica della parola nudrita di pensiero (eloquentia o logica), perchè
tutto ha fondamento nella disposizione naturale, e pertanto, chi possieda
questa, senza punta tecnica, tocca da se medesimo il segno, e invece chi non ha
talento, non fa progressi neanche in grazia della teoria 629 ). E quando si
soggiunge che questi « filosofi di mutilare, — Si insanum reputai, velim dicas
quare». Prcsb. — « Dco est udibile vestrum argumentum ; Ibi nulla veritas,
toturn estfigmentum ;», o p. es. ai versi 129 ss.: Log. —« Audi, inter phialas
quid philosopharis ; follus, non philosophus, bine esse probaris ; Stulto sunt
similia singola quac faris, [parte tua caream quarti ibi lucraris ]. Epicure lubrice, dux ingluviei,
Cujus Deus venter est, dum sic servis ei etc. ». 62S ) J OH. Saresb. Metal., I,
2, p. 14 [ed. Webb, p. 8|: Utique par est sine derogatione personae sententiam
impugnari ; nichilque lurpius quam cum sententia displicet aut opinio, rodere
nomea aucloris.... [9] Celerum opinioni reluclor, quae multos perdidit, eo quod
populum qui sibi credat habet ; et licei antiquo novus Cornificius ineptior
sii, ei tamen turba i nsipienlium adquiescit. — Polycr., I, Prol., p. 15 [16]:
Aemulus non quiescit, quonium et ego meum Cornificium habeo.... Quis ipse sit, nisi ab iniuriis temperet, dicam....
Procedat tamen et publicet, arguat meum ralione vel auctoritate mendacium [PL,
199, 828 e 388], Dal modo di esprimersi dello scrittore in questi due ultimi
passi, risulta come Giovanni non abbia fatto che trasportare simbolicamente il
nome di Cornificius da un personaggio del1 antichità al suo proprio nemico, e
può ammettersi con certezza che a ciò gli abbiano dato occasione le notizie di
Donato (Pila Virgilii, c. 17 s. : vedi le Opere di VIRGILIO, ed. Wagner, I, p.
XCIX s.), riguardo a un tale Cornificio, avversario di Virgilio « ob perversam
naturami> [cfr., nella ediz. Brummcr delle Vitae Vergilianae, il « Plenus
apparatus ad vitam Vergilii Donatianam», p. 31], 529 ) Ib., Metal., I, 1, p. 12
[ed. Webb, p. 6]: Miror ilaque.... quid sibi vull, qui eloquentiae negat esse
studendum.... p. 13 [8[: Cornificius noster, studiorum eloquentiae imperitus et
improbus impugnalor. — C. 3, p. 15 [10]: Fabellis tamen et nugis suos pascit
interim auditesta propria », avendo a disdegno F intiero trivio e quadrivio. si
son gettati sopra forme di attività pratica e sovra profitti pecuniari ;>3
°), sarebbe in ciò da riscontrare un indizio significativo, in quanto si
direbbe che tale corrente, non prendendo ispirazione da vedute clericali o
dommatiche bensì per effetto di un impulso pratico, si sarebbe mostrata avversa
al farraginoso viluppo della scienza scolastica, e avrebbe richiamato
l’attenzione sopra il valore immediato del talento individuale. Così potremmo
intendere tali manifestazioni come un preludio di tendenze svoltesi più tardi.
Qualora ci fosse lecito riferire al così detto Cornificio anche la notizia, che
taluni rigettarono le Categorie e la Isagoge come inutili libri elementari 531
), potremmo forse ritenere che il già tores quos sine artis beneficio, si vera
sunt quae promittit, fa ci et eloquentes et tramite compendioso sine labore
philosophos. — C. 5-6, p. 23 [20]: Neque erti rii. ut Cornificius, meipsum
docui.... Non est ergo ex eius sententia.... sludendum praeceplis eloquentiae ;
quoniam eam cunctis natura ministrai aut negai. Si ultra ministrai aut spante,
opera superflua et diligentia ; si vero negai, inefficax est et inanis. — C. 9,
p. 29 [26]: Eo itaque opinionis vergit intentio, ut non omnes mutos faciat.
quod nec fieri potcst nec expedit, sed ut de medio logicam tollal. — Ibid.. II,
Praef., p. 62 [60]: Logica, quam. etsi mutilus sit et amplius mutUandus,
Cornificius, parielem solidum eccoti more palpans, impudenter attemptat et
impudenlius criminatur. — Ibid., IV, 25, p. 181 [192]: Sed Cornificius nosler,
logicar criminator, philosophantium scorra, non immerito contemnetur. —
Enthel., v. 61 ss. « Quum sit ab ingenio totum, non sit libi curae. Quid prius
addiscas posteriusve legas ». Ilare schola non curai, quid sit modus ordove
quid sit. Quam teneant doctor discipulusve viam [l’L, 199: 827, 828, 833 837,
857, 931, 966], 530) j \Jctal. I, 4, p. 20 [15]: Alii autem Cornificio similes
ad vulgi professiones easque prophanas relapsi sunt; parum curantes quid
philosophia doceat, quid appetendum fugiendumve denuntiet ; dummodo rem
faciant, si possunt, recte ; si non, quocumque modo rem (Hor. Ep. 1, 1,
65[-6])....Evadebant illi repentini philosophi et cum Cornificio non modo
trivii nostri sed totius quadruvii contemptores IPL, 199. 831], 531 ) Ibid.,
III, 3, p. 123 [128]: Sunt qui librum islurn (cioè le Categoriae), quoniam
elementarius est, inutilem fere dicunt, et satis esse putant ad persuadendum se
in diabetica disciplina et apodictica esse perfectos, si contempserinl vel
ignoraverint illa, quae in primo commento super Porphirium anlequam artis
aliquid attingatur docel Boelius praelegenda [PL nominato Reginaldo fosse per
lo meno un rappresentante di questa tendenza 532 ), se non apparisse inutile,
con tante lacune nella conoscenza delle fonti, presentare semplici congetture.
Ma quale idea si fosse fatta lo stesso Giovanni della origine di siffatta
opposizione alla logica scolastica, è stato già più sopra indicato, alle note
52 s. [§ 39. — Giovanni da Salisbury: a) i suoi studi: il « Metalogicus»]. — Ma
così è venuto il momento di occuparci proprio di quello stesso autore, che già
tante volte abbiamo finora dovuto usare quale fonte, cioè di Giovanni da
Salisbury). Costui (morto nel 1180) aveva intrapreso lo studio della logica
alla scuola di Abelardo, lo aveva proseguito presso il già ricordato Alberico,
Roberto da Melun e Guglielmo da Conches, M2 ) È possibile che nella espressione
sopra citala « laquco suspendi!» (nota 525) si celi anche un’altra volta un
giuoco di parole con Cornificius e carni/ex. V. upprcsso, nota 545, un altro
giuoco di parole con cornicari. 693 ) Approfondite ricerche sopra Giovanni da
Salisbury, dal punto di vista della storia letteraria, sono state presentate da
Cristiano I’ETERSEN nella sua edizione dell’Uref/ietieus (Amburgo, 1843). La
monografia, nella quale Ermanno Reuter (Johann von Salisbury : Zur Geschichte
der christlichen Wissenschaft im 12. Jnhrhundcrl [G. da S. : Per la storia
della scienza cristiana nel 12° Secolo], Berlino, 18 12) ha tentato di svolgere
la dottrina di Giovanni, generalmente si risente dell’orientamento proprio
dell’Autore, e che è tanto sbagliato quanto estremamente insufficiente. Una
ricca esposizione della dottrina stessa la dobbiamo a C. ScHAARSCHMIDT, Joh.
Saresberiensis nach Leben und Studiai, Schriften und Philosophie [G. da S. ueda
vitu e negli studi, negli scritti e nella filosofia] (Lipsia, 1862): ma le
osservazioni ch’egli muove in questo suo libro (p. 303 ss.) contro il mio modo
di vedere, non in’ inducono per nulla a modificare la mia opinione, che trova
appoggio nelle fonti. — Le citazioni son fatte sulla base della edizione
complessiva di A. Giles (Oxford 1848, in 8°, 5 voli., dei quali il 3° e il 4°
comprendono il Policraticus, mentre il Metalogicus si trova nel 5°), sebbene
tale edizione non sia adatto compiuta con diligenza, e sia particolarmente da
rilevare conte essa, con la più assurda interpunzione, renda spesso difficile
l’intelligenza del testo (le necessarie modificazioni ce le introduco
tacitamente). [Qui sono aggiunti, per il Policraticus e per il Melalogicon, i
rinvii alle più recenti ediz., curate dal Webb. e seguite in massima nella
riproduzione dei testi]. poi entrò in relazioni scientifiche con Adamo' dal
PetitPont, ascoltò di nuovo lezioni di dialettica presso Gillierto de la Porrée,
di teologia presso Roberto Pulleyn [e Simon Pexiacensis], indi ritornò agli
Abelardiani, che nel corso di quei vent’anni nulla avevano appreso e nulla
dimenticato 534 ), e compose intorno al 1160 535 ) il suo Metalogicus, dove
principalmente espose le sue vedute relativamente alla logica. Giovanni ha
scritto, come dice egli medesimo, quest’opera sua soltanto a memoria,
frettolosamente e in breve tempo, dopo che da molti anni aveva interrotto i
suoi studi di logica, e fu suo intento non già di comporre un commento che
servisse a insegnare o a imparare, bensì essenzialmente di dimostrare la
utilità della logica, contro gli attacchi che le erano stati mossi, e così
difenderla 636 ). 534 ) Metal., II, 10, dove al passo citato più sopra (n. 521)
fa seguito (p. 79) [79]: Deinde.... [80] me ad gramaticum de Concilia
transtuli, ipsumque triennio docentem audivi. Viene appresso il contenuto della
precedente nota 522, e poi [82]: Reversus itaque.... repperi magistrum Gileberlum.
ipsumque audivi in logicis et divinis ; sed nimis cito subtractus est. Successa
Rodbertus Pullus, quem vita pariter et scienlia commendabanl. Deinde me excepit Simon Pexiacensis [J’issiacensis.
Pisciacensis, cioè da Poissy: è lecito congetturare eon lo Wcbb che si tratti
dello stesso Simone, di cui v. qui sopra. nota 54].... Sed hos duos in solis
theologicis habui praeceptores.... locundum itaque visum est veteres quos
reliqueram et quos adhuc diabetica detinebat in monte recisero socios, conferve
cum eis super ambiguilatibus pristinis, ut nostrum invicem ex collatione mutua
commeliremur profectum. Inventi suiti qui fuerant et ubi ; neque enim ad palmam
visi sunt processisse. Ad quaesliones pristinas dirimendas neque
propositiunculam unam adiecerant. — Ibid., Ili, 3, p. 129 [134]: Habui enim hominem
(cioè Adamo dal Petit — Pont: v. la nota 441) familiarem assiduitate colloquii
et communicatione librorum et cotidiano fere exercitio super emergentibus
articulis conferendi ; sed nec una die discipulus eius fui. Et lamen Italico
gratias, quod eo docente plura cognovi, plura ipsius.... ipso arbitro reprobavi
[PL, 199, 868-9 e 899]. Cfr. inoltre la nota 54. 53ó) V. Petersen, loc. cit.,
p. VI e 73 ss. 63B ) Metal.. Prol., p. 8 [2]: Siquidem cum opera logicorum
vehementius tanquam inulilis rideretur, et me indignanlem et renitenlem aemulus
cotidianis fere iurgiis provocare!, tandem litem excepi et ad.... cnlumnias....
studiti responderc.... [3] Placiti! itaque sociis ut hoc ipsum tumultuario
sermone dictarem ; cum nec ad sententias subtiliter . [b) punto di vista
utilitaristico, alla maniera di Cicerone. La divisione del sapere ]. — Per lui
il punto di vista decisivo è quello della utilità, e per conseguenza dobbiamo
già aspettarci di trovar in lui un eclettico, che procede assolutamente senza
scorta di principii 537 ). Dominato com’è anche lui dalla pratica tendenza
utilitaria, si distingue dal suo avversario Cornifichi, soltanto perchè non
rigetta, come costui, la dottrina delle scuole, bensì vuole render pratica
questa dottrina stessa; ma egli è filosofo tanto poco quanto Cicerone, con il
quale si trova in intimo accordo. Anzi fa anche espressamente professione di
aderire alla dottrina probabilistica di quella setta degli Accademici, ch’era
caldeggiata da Cicerone 63S ), e per conseguenza trova nella utilità pratica il
fine unico di ogni scienza 539 ). In tal senso si esprime circa il
peexaminandas nec ad verbo expolienda studium supcresset aut otium.... (p. 9)
Nam ingenium hebes est et memoria infidelior quarti ut antiquorum (v. le note
55 ss.) subtilitates percipere aut quae aliquando percepta sunt diutius valeam
retinere.... Et quìa logicae
suscepì patro cinium. Metalogicon inscriptus est liber. Praef. p. 113 [117]: Anni fere vigilili elapsi sunt
ex quo me ah officiai» et palaestra eorum qui logicam profitrntur rei
jamiliaris avulsit angustia.... Unde me excusaliorem habendum pillo in bis quae
obtusius et incultius a me dieta leclor internet. Ergo procedat oratio. et quae
anliquatae occurrent memoriae de adolescentiae sludiis, quoniam iocunda aetas
ad menlem reducilur ctc. — III, 10, p. 156 [164]: ....pròpositura est ;
scilicet, ut potius aemulo occurratur, quarti ut in artes, quits omnes docenl
aut discunt, commentarli scribantur a nobis TP!, 199: 824, 889-90, 916], 1 ’
537 ) Reuter s’inganna a partito, quando parla di un « superiore punto di vista
filosofico», che Giovanni avrebbe assunto, elevandosi al disopra degl’
indirizzi allora contrastanti. ) I olycr., I, Pro!., p. 15 [1. 17] :
[cum]....in phitosophicis academice disputane prò ralionis modulo quae
occurrebant probabilia sectatus sim. Nec Academicorum erubesco professionem.
qui in bis quae sunt dubilahilia sapienti, ab eorum vestigiis non recedo. Licei
enim seda haec tenebras rebus omnibus videalur inducere, nulla ventati
examinandae jidelior et, auctore Cicerone qui ad eam in senectute divertii,
nulla profectui familiarior est. — Metal., II, 20, p. 102 [106]: qui me in bis,
quae sunt dubitabilia sapienti, Academicum esse pridem pro/cssus sum [PL, 199:
388 e 882|. 63 ") Metal., Eroi., p. 9 [4]: De moribus vero nonnulla
scienter inserui ; ratus omnia quae legiintur aut scribunlur inutilia esse,
nisi dantesco verbalismo e la sottigliezza dei dialettici, facendo uso di
termini così energici, che il più sistematico nemico della logica in generale, non
potrebbe pronunziarsi con maggiore veemenza 54 °); anzi persino in quelle
discettazioni sopra le Categorie, alle quali il suo maestro Gilberto s’era
dedicato, egli trova, pur essendo per molti lati d’accordo con lui (v. appresso
le note 582 ss., 593 ss. e 606 ss.), da criticare tuttavia qualche cosa, che
possa cioè scapitarne la conoscenza morale di noi stessi 5U ) : e trascinato
dal suo zelo per la teologia morale, qualifica la logica aristotelica, che pur
vuole difender contro chi l’attacchi, con il termine aslutiae, che siamo
abituati a veder usato dai nemici fanatici della filosofìa 542 ). quatenus
afferunl nliquod adminiculum vilae. Est enirn quaelibet professi philosophandi inutili et
falsa, quae se ipsam in cultu virlulis et vitae exhibitione non aperit [PL,
199, 825]. MO) Polycr., VII, 9, p. 110 [II, 123]: Suspice ad moderatores
philosophoruni temporis nostri....; in regula una aut duobus aut pauculis
verbis invenies occupalos. aut ut mullum pauculas quaesliones aplas iurgiis
elegerunt, in quibus ingenium sutim exerceant et consumatit aetatem. Eas tamen
non sufficiunt etwdare, sed nodum et tolam ambiguitatem cum ititricntione sua
per auditores suos transmittunt posteris dissolvendum.... Latebras quacrunt,
variant faciem, nerba distorquenl,... si in eo perstiteris, ut quocumque verbo
defluant et volvantur. quid velit, intelligas et quid sentiat [II, 124] in
tanta varietale varborum, et tandem vincietur sensu suo et capielur in verbo
oris sui, si substantiam eorum quae dicunlur attigeris firmiterque tenueris. —
lbid., 12, p. 122 [II, 136]: Erranl ulique et impudenler errant qui
philosophiam in solis verbis consistere opinantur ; erranl qui virtutem verbo
putant.... Qui verbis inhaerent, malunt videri quam esse sapientes.... [II,
137] quaestiuneulas movent, intricala verbo ut suum et alienum obducant sensum,
paratiores ventilare quam examinare si quid difficultalis emersit [PL, 199, 654
e 662]. Inoltre, la precedente nota 58. 511 ) Jbid., Ili, 2, p. 164 [I, 174]:
Inde est forte quod illi, qui prima totius philosophiae elemento posteris
tradcre curaverunt, substantiam singulorum arbitrati sunl intuendam,
quantilatem, ad aliquid. qualitotem, situai esse, ubi, quando, habere, facete,
et pati, et suas in omnibus his proprietates, ari intcnsionem admittant, et
susceptibilia sint contrariorum, et ari eis ipsis aliquid invenialur adversum
(queste ultime son tutte questioni discusse appunto da Gilberto: v. le note
489-509 [507]). Provide quidem haec et diligenter, etsi in eo negligentiores
exstiterint. quod sui ipsius notitiam in tanta rerum luce non asseculi sunt
etc. [PL, 199, 479]. 5! -) Jbid., IV, 3, p.
227 [I, 243]: Astutias Aristolilis, Crisippi acuMa se cerchiamo quindi di
scoprire quale sia la posizione che Giovanni assegna alla logica, dal punto di
vista di un ordinamento sistematico, vediamo una volta, relativamente alla
divisione delle scienze, accennato da lui un tono fondamentale, che ci ricorda
molto da vicino Ugo da S. Vittore (note 45 s.), designandosi come forze
ancillari, sotto la sovranità della divina pagina, le discipline meccaniche,
teoriche e pratiche, e con esse la filosofia che erige il saldo baluardo 543 )
: e a tal proposito è degno di nota che anche da Ugo il compito della logica è
trasferito nel perfezionamento della espressione verbale. E quando un altra
volta, tenendosi attaccato, nella maniera più lampante, a Gilberto (nota 465),
Giovanni distingue ima triplice funzione della ratio, — in quanto che l’uso
concreto di questa (modus concretivus) è rivolto alla natura sensibilmente
percettibile, Tattivita astrattamente analitica ( resolvere ) conduce alla
matematica, e la comparazione riferente (conjerre et rejerre) è compito della
logica 544 ), — già da ciò desumiamo l’attitudine di Giovanni ad afferrare a
capriccio opinioni varie di altri, e a metterle ancora, ecletticamente, una
accanto all’altra. mina, omniumque philosophorum lendiculas resurgens mortuus
confutabat. Metal., Ili, 8, p. 141 [147]: Pithagoras naluram exculit, Socrates
morurn praescribit normam, Plato de omnibus persuader, Aristotile* argutias
procurai [PL, 199. 518 e 906], Cfr. la nota 560.,,J3 ) Enthet., v. 441 ss.:
Ilaec scripturarum regina vocalur, eandem Divinam dicunt.... Haec caput
agnoscil Philosophia suum ; Huic omnes artes famulae ; medianica quaeque
Dogmala, quac variis usibus apio videi, Quae jus non reprobai, sed publicus
approbat usus, Iluic operas debent militiamque suam ; Practicus buie servii
servitque theoricus; arcem Imperli sacri Philosophia dedii [PL, 199, 971-5].
Riguardò a Ugo, cfr. più oltre la nota 555. 64 ‘) Ibid., v. 659 ss.: Res
triplici spedare modo ratio perhibetur, Nec quartum poluit meni reperire modani
; Concretivus hic est, alius concreta resolyit, Res rebus confert tertius atque
refert ; Naluram primus, mathesim medius comilatur, Vindical extremum logica
sola sibi [c) punto di vista retorico,
come in Cicerone. Grammatica e dialettica ]. — Ma invero per la logica il punto
di vista propriamente eclettico è il punto di vista retorico, perchè questo si
libera di tutte le difficoltà che si possono presentare nelle questioni
filosofiche fondamentali: e così anche Giovanni è esonerato dalla fatica di
decidersi per ima data concezione filosofica, a preferenza delle altre. Senza
determinare più precisamente il posto della logica nel campo delle scienze, nè
discutere in base a una qualsiasi veduta, pur che fosse una e ben definita, la
relazione del pensiero subbiettivo con la obbiettività o con la forma della
espressione verbale, egli può qui accontentarsi di opporre ai nemici della
logica, sfoggiando una ricca colorita varietà di frasario, e traendo partito
dalla solita tradizione scolastica, il concetto e il valore della « eloquentia»
64S ). La maniera in cui il pensiero si atteggia rispetto alla espressione
verbale, è qualificata mercè un fioretto retorico, parlandosi di un « dolce e
fecondo connubio» della ragione e dell’eloquio 546 ), nè diverso valore ha
l’altra frase, che cioè le proprietà delle cose « ridondano» nelle parole: e
data l’affinità che sussiste fra le cose e ciò che di queste si dice [.sermones]
(lo stesso 5Ji ) Melai.. I, 7, p. 24 [21]: Cornicatur haec domus insulsa (suis
tamen verbis ) et quarti constai totius eloquii contempsisse praecepta.... [22]
Ait cairn : Superflua sunl praecepta eloquentia, quoniam ea naturaliler adest
aut abest (nota 529). Quid, inquarti, falsius ? Est enim. eloquentia facullas
dicendi commode quod sibi cult animus expediri.... (p. 25) Ergo cui facilitas
adest commode exprimendi verbo quidem quod sentii, eloquens est. Et hoc
faciendi jacultas rectissime eloquentia nominatur. Qua quid esse praeslantius
possit ad usum, compendiosius ad opes. fidelius ad gratinai, commodius ad
gloriam, non facile video [PL. 199. 834]. M6) lbid., I, 1, p. 13 [7]: Ratio,
sciattine virlutumque parens..., quae de verbo frequentius concipil et per
verbum numerosius et fructuosius parit, aut omtrino sterilis permanerei aut
quidem infecunda, si non conceptionis eius fructum, in lucem ederet usus
eloquii; et invicem quod sentii prudens agitano mentis hominibus publicaret.
Haec autem est illa dulcis et fructuosa coniugatio rationis et verbi, quae etc.
[PL si legge in Abelardo — cfr. la nota
308 —, e qualche cosa di simile in Gilberto — cfr. la nota 457), si tratterebbe
semplicemente di possedere in mente una quantità di cose, e in bocca una
quantità di parole 547 ). Insomma per Giovanni il punto di vista più essenziale
è rappresentato dalla consistenza dei mezzi, che s’abbiano una volta a
disposizione, appropriati per la manifestazione del pensiero con il discorso, e
pertanto la « logica nel significato più esteso» della parola, è da lui
definita in termini ciceroniani come ratio loquendi vel disserendi, onde è di
sua competenza l’addestramento all’uso del discorso (magisterimn sermonum): e
qui essa, mentre da un lato rivela la propria utilità, dall’altro lato tiene
anche il primo posto fra le arti liberali, poiché in quella più vasta accezione
comprende anche la sfera della grammatica 548 ). Ma mentre con ciò si
renderebbe tuttavia manifesta la esigenza di una più rigorosa determinazione,
in ordine a questa estesa definizione, della relazione reciproca tra grammatica
e logica (cfr. subito appresso la ) Ibid., 16, p. 42 [39]: Natura enìm copiosa
est et ubertatis suae pratiam Immotine mdigentiae facit. Inde ergo est, quod
[401 pròpnetas rerum redundat in voces, dum ratio offertat sermone, rebus de
quibus loquUur esse cognatos. — Polycr., VII, 12, p. 124 fll. 1391 A telili
cairn utilius, nichil ad gloriam aut rcs adquirendas com'modius inventati quam
eloquenza quae ex eo plurimum comparatile si rerum ln r re copia sit ver,l °
rum fPL, 199, 845 e 6631. etuTrìJ, 1 ': 10 ’ P ‘ w 8 [ 2 J ]: Est ita ^ e lo *
ica ' ). Ma poiché
ciascun’argomentazione o disputa consiste di espressioni verbali, si la ora la
distinzione — in maniera simile che in Abelardo (nota 271), e tenuto conto di
questa definizione più ristretta (cfr. invece la nota 548) — fra la grammatica,
che tratta soltanto della dictio, e la dialettica, che ha per oggetto e
contenuto i dieta : ma a tal proposito, con atteggiamento di puro
indifferentismo, si qualifica come irrilevante la questione se si tratti qui
del profferire, o di quello che vien profferito 556 ). E mentre Giovanni a ciò
novamente ricollega la parcisecundo super Porphirium asserii (p. 47 [PL, 64,
73; ed. Brandt, 140]), est orlus logicai disciplinae. Oporluit enim esse
scientiam quae veruni a falso discerncret. et doceret quae ratiocinatio veram
teneat similari i disputarteli, quae verisimibm, et quae fida sit, et quae
debeat esse suspecta ; alioquin veritas per ratiocinantis operam non poterai
diveniri. — I, 15, p. 41 [39]: Diabetica autem id dumtaxalaccentai. quoti verum
est aut verisimile, et quicquid ab his longius dissidet ducil absurdum [PL.
199: 857, 858 e 844]. 5M) ihid.. II, 3. p. 65 [64]: Profecta igitur hinc est et
sic perfecta scientia disserendi ; quae disputandi modos et rationes
probationiim aperit...; aliis philosophicis disciplinis posterior tempore, seti
ordine prima (parimente Ugo da S. Vittore, nota 46: e cfr. la nota 543). Inchoanlibus enim philosophiam
praelegenda est, eo quod vocum et intellectuum inlerpres est. sine quibus
nullus philosophiac articulus recte procedil in lucern [PL, 199, 859]. 5M )
lbid., 4. p. 67 [65] : Est autem diabetica, ut Angustino placet (v. la Sez.
XII, nota 30), bene disputandi scientia.... Est autem disputare, aliquid eorum,
quae dubia sunt aut in [66] contradictione posila aut quae sic rei sic
proponunlur catione supposita probare rei irnprobare ; quod quidem quisquis ex
arte probabiliter facit, ad dialectici pertingil metani. Hoc autem ei nomea
Aristotiles auctor suus impostili, eo quod in ipsa et per ipsam de diclis
disputatile : ut enim gramatica de diclionibus et in dictionibus. teste
Ilemigio (Sez. precedente, nota 172), sic ista de dictis et in diclis est. Ilio
verbo sensuum P rln ~ cipaliter : sed linee examinat sensus verborum ; nani
lecton [aev. .ov] graeco eloquio (sicut ait Isidorus) (Sez. precedente, nota
27) dietum appellalur. Sire autem
dicatur a Graeco lexis [>.£''.;], quod locutio interpretalur.... site a
lecton [)£Xt6v], quod dietum nuncupatur. non multum refert ; cum ex aminare
loculionis vim et eius quod dicitur veritalem et sensum. idem aut fere idem sit
; vis enim verbi sensus est. — III, 5, p. 137 [142]: Est autem res de quo aliquid,
dicibile quod de aliquo, dictio quo dicitur hoc de ilio : e a ciò fan seguito
le parole sopra citate, alla nota 207 [PL. zione delia logica, venuta in voga
nella scuola, da Boezio in poi 537 ), la conoscenza ch’egli ha di Aristotele,
lo porta in pari tempo a distinguere tra apodittica e dialettica: in tale
distinzione tuttavia, neanche la prima delle due reca in se stessa una propria
interna finalità, bensì rimane pur sempre come cosa essenziale la utilità della
logica, così divisa, nella sua totalità 558 ). [d) conoscenza compiuta . 66
[64]: Pro co namquc logica dieta est. quod rationalis, i. e. rationum
ministraloria et examinalrix est. Divisti eam Plato in dialeclicam et
rethoricam ; sed qui efficaci am eius altius metiuntur, et pitica attribuunt. Siquidem
ci demonstrativa. probabilis et sopii'stira subicmntur, ecc., in piena
conformità con Boezio (v. in Sez. XH, nota 82). Così pure 5, p. 68 [67]:
Demonstrativa. probabilis, et sophistica, omnes quidcm consistimi in inventione
et iudicio, et itidem dividentes, diffinientes, et colligentes, domestici
rationibus utuntur : v. ibid. la nota 76 [PL, 199, 859 e 861], yotq Uiid.. II,
14, p. 85 [87]: Principia inique dialecticae probabilia sunt ; sicut
demonstralivae necessaria . — III, IO, p. 152 [160]: Sophisma est sillogismus
litigatorius ; philosofimn vero, demonstrativus ; argumentum aulem. sillogismus
dialecticus ; sed aporisma (v. la Scz. IV, nota 33), sillogismus dialecticus
contradictionis. Horum omnium necessaria estcognitio, et in facultatibus singulis
perutilis est exercilalio. — p. 154 [162]: Sic simrum instrumentorum necessc
est logicum expedilam habere faciillatem, ut scilicet principia noverii.
probabilibus habuntoo et inducendi omnes ad manum habeat rationcs [PL iiosce
più gli scritti logici parzialmente, e soltanto per sentito dire, è da lui
qualificato come vero duce (campiduc- tor) di tutti gli studiosi di logica, e
in ogni caso, sebbene con le riserve dovute all’autorità della fede cristiana e
della teologia morale, come maestro dell’arte di disputare 559 ): al
ciceroniano Giovanni, cioè, manca naturalmente il senso dell’ intimo valore
filosofico della logica aristotelica, nella quale scorge invece soltanto una
tecnica estrinseca: e perciò è anche sua opinione questo ci fa ricordare la espressione su
ricordata (nota 542) « astu- tiae» — che Aristotele mostri maggior vigore nella
polemica contro altri, che non nella costruzione positiva della sua propria
dottrina 58 °). Prese le mosse dalla tesi che la logica, come tecnica dei
discorsi ( sermones ), comprendendo inventio e iudicium (Sez. XII, nota 76), è
lo strumento di tutte le discipline, per la quale ragione appunto Aristotele si
è meritato di essere soprannominato « il Filosofo » 581 ), Giovanni con- 559 )
Ihid., Ili, 10, p. 147 [154]: Rei rationalis opifex et campi- doctor (Giles
legge campi doctor [PrantJ, campiductor ]) eorum qui lo- gicam profitentur.
Campidoctor (come sopru) itaque Peripateticae disciplinae, quae prae ceteris in
veritatis indaga- lione laboret, infelicem summam operis dedignatus, taluni
compqnil (allusione a Hor. Ars poet., v. 34); cerlus quoti cuiusque operis per-
fectio gloriam sui praeconalur aucloris. — IV, 23, p. 180 [190] : Sicul optimus
campidoctor (qui anche il Giles dà la lezione corretta [ campiductor ]) hunc ad
infcrendam pugnimi, illum inslruit ad cau- telam. — 27, p. 183 [193]: Nec tamen
Aristotilem ubique bene aut sensissc aut dixisse protestar, ut sacrosanctum sit
quicquid scripsit. Nam in pluribus [194], optinente ratione et auctoritatc
fidei, con- vincitur errasse . linde sic accipiendus est, ut ad promovendos iu-
vrnes ad gravioris philosophiae instituta doctor sit, non morum sed
disceptaiionum [PL, 199: 910, 915-6, 930, 932], 5 ““) Ibid., III, 8, p. 141
[147]: Aristotilem prue ceteris omnibus tam aliae disserendi ratiocinationes
quam diffiniendi titulus (cioè il contenuto del 6° Libro della Topica)
illustrarci, si tam patenter astrarrei propria quam potenter destruxil aliena
[PL, 199, 906], M1 ) Enlhel., v. 821 ss.: Magnus Arisloleles sermonum possidet artes
Et de virtutum culmine nomen habvt. Judicii libros componil et inve- niendi
Vera, facultales tres famulantur ei; Physicus est moresque docet, sed logica
servii Alidori semper officiosa suo ; Haec illi nomen proprium Jacit esse, quod
olim Donai amatori sacra Sophia suo ; Nam qui prae - sidera l’intiero Organon
in una maniera che perfettamente si accorda con il modo di pensare di Abelardo
(note 271 ss.); Aristotele cioè avrebbe ricevuto dalle mani dei grammatici la
semplice vox significativa, della quale avrebbe preso a trattare nelle
Categorie, in tal guisa che essa possa poi (De Interpretatione) venire
considerata come elemento della complessa struttura del giudizio, e a ciò possa
far seguito Io svolgimento di quanto si attiene alla inventio e al iudicium ;
la Isagoge compilata da Porfirio [per introdurre] alla prima di queste parti
principali, appartiene al tutto, proprio soltanto quale introduzione, e non si
deve, come si suole da molti (note 56 ss.), farne per così dire la cosa
principale 562 ). Così però si opera nell’Organon anche una nuova divisione in
due gruppi principali, in quanto che la Isagoge, le Categorie e il De interpr.
posson valere solamente da gradi preparatorii (praeparaticia artis), essendo
tali libri ad artem, piuttosto che de arte, laddove la tecnica vera e propria,
nella quale la inventio e il iudicium trovano la loro piena esplicazione, si
presenta nelle tre opere celiò, liluli communis honorem Vindicat. — Metal., II,
16. p. 88 [90]: fìrnnes se Aristotilis adorare vestigio gloriantur ; adeo
quidem, ut communi' omnium philosophorum nomea praeminentia quadam sihi
proprium fecerit. Nam et antonomasice, i. e. excellenter. Philo- sophus
appellatile [PL, 199: 983 c 873], 562) jVf e (a/., II, 16. p. 89 [90]: Ilic
ergo (cioè Aristotele) proba- bilium rationes redegit in artem et, quasi ab
dementis incipiens, usque ad propositi perfectionem evexit. Hoc autem pianura est his qui
scru- tantur et diseutiunt opera cius. Voces enim primo significativas. i. e.
sermones incomplexos, de gramolici menu accipiens, differentias et vires eorum
diligenler exposuit, ut ad complexionem enuntiationum et inveniendi
iudicandique scientiam facilius qccedant. Sed quia ad lume elementarem librum
magis elementarem quodammodo scripsit Por- phirius, eum ante Aristotilem esse
credidii antiquitas praelegendum. Recte quidem, si recte doceatur ; i, e. ut
tenebras non inducal [91] erudiendis nec consumai aetatem,,.. linde quoniam ad
aliu introduclorius est, nomine Ysagogarum inscribitur. Itaque inscriptioni
derogant qui sic versantur in hoc, ut locum principalibus non relinquant [PL,
principali: Topica, Analitici e Soph. Elenchi 563 ). Ma proprio per rispetto alla inventio e al iudicium,
risulta di nuovo un altro punto di vista da adottar quale principio della
partizione, in quanto che la Topica, insieme con i libri precedenti, riguarda
prevalentemente e fondamentalmente la inventio, laddove alla stessa maniera
Analitici e Soph. El. debbono servire al iudicium ; tuttavia neanche si
potrebbe daccapo mantenere rigorosamente questa partizione (della quale poi non
sappiamo davvero perchè in generale sia stata assunta come fondamentale),
perchè alla inventio contribuiscon pure gli Analitici e i Soph. El., e
viceversa anche la Topica giova al iudicium 564 ). D’altra parte, oltre a tutto
ciò, troviamo che Giovanni, per far intendere che cos’è l’Organon, utiM3 ) Dopo
che cioè nel lib. Ili, cap. I, del Metal, si è trattato della Isagoge, nei cap.
2 e 3, delle Categorie, c nel cap. 4, del De interpr., al principio del c. 5,
p. 134 [139] si legge: Artis praeparalitia praecesserunl, ad quam suus opifex
et quasi legislator rudem omnino tironem irreverenter el, ul dicisolet, illotis
manibus non censuit admittendum.... Utilissima quidem sunt et, si non satis
proprie dicantur esse de arte, satis vere dicuntur esse ad artem : parum autem
refert, si magis dicatur ari sic. Ipsum itaque quodammodo corpus artis, deditctis
praeparatiliis, principaliter consistit in tribus ; scilicet Topicorum.
Analeticorum. Elenchorumquc notitia; his enim perfecte cognitis, et habitu
eorum per usum et exercilium roboratis, inventionis et iudicii copia
suffragabitur in omni facultate tam demonstratori quam dialectico et sophistae
[PL, 199, 902]. M4 ) Ibid., IV. 1, p. 157 [165]: Unde cum inventionis
instrumenta procurasset et usum. quasi in conflatorio setlens, examinatorium
quoddam studuit cadere, quo diligentissima fieret examinatio rationum. Ilic
autem est Analeticorum liber, qui ad iudicium principaliter special, et lanieri
ad inventionem aliquatcnus proficit. Nani [166] disciplinarum omnium connexae
sunt rationes, et qucelibel sui perfectionem ah aliis mutuatur. — III. 5, p.
134 [139]: Scientia Topicorum. quae, etsi inventionem principaliter instruat,
iudiciis tamen non mediocriler sujjragatur.... Siquidem sibi invicem universa contribuunt. coque in
[140] proposito facultate quisque expeditior est, quo in vicina el cohaerente
instructior fueril. Ergo et tam Analetice quam Sophistica conferunt inventori,
et Topice itidem conducit indicanti ; facile tamen adquieverim singulas in suo
proposito dominari et accessorium esse beneficium cohaerentis. — IV, 8, p. 164
[173]: Licei ad iudicium maxime dicatur hacc scientia (se. demonstrativa)
pcrtinere, invenlioni tamen plurimum conferì [PL izza una similitudine, e
compiutamente la svolge, facendo corrispondere alle lettere dell’alfabeto le
Categorie, e alle sillabe il libro De interpr. 56S ); fa poi seguito la Topica,
che rappresenta la parola (dictio) e v’incliiude la colleclio degli elementi
566 ) : e ciò anzi in tal guisa, che, procedendo lo sviluppo nel senso di una
costante ascesa, a fondamento di tutta quanta la logica stia il primo libro
della Topica 567 ), e cosi poi il libro ottavo corrisponda alla connessione
della proposizione ( constructio, espressione di Prisciano — cfr. la nota 273),
ond’è proprio questo il libro, in cui si dà la scalata al punto culminante
della logica, ed esso, al paragone di tutta la letteratura moderna (dei moderni
: v. le note 55 ss.), dev’essere qualificato come lo scritto di gran lunga più
utile 588 ). Gli Ana5C5) Jbid., Ili, 4, p. 130 [135]: Libcr Pcriermeniarum, vel
potius Periermenias (v. la Sez. precedente, nota 33), ratione proporlionis
sillabicus est, sicul Praedicamenlorum elementarius ; nam dementa ralionum,
quae singulatim tradii in sermonibus incomplexis. iste colligil, et in modum
sillabae comprehensa producit ad veri falsiquc signijlattionern. Tantae quidem
subtilitatis est habitus ab antiquis, ut in praeconium eius celebralum ferat
Isidorus (v. ibid. la nota 34), quia Aristotiles, quando Periermenias
scriplilabat, calamum in mente tinguebat [PL, 199, 899]. _ 66r >) Ibid.. 6,
p. 137 s. [143]: Sicul autem elementarius est Praedicamentorum, Pcriermeniarum
vero sillabicus, ila et Topicorum liber quodammodo dictionalis est. Licei enim
in Periermeniis agatur de simplici enunliatione, quae ulique veri falsine
dictio est, nondum tornea ad vim colligendi pertingit, nec illud assequilur. in
quo dialecllces praecipua opera versalur. Ilic vero prirnus est in
rationtbus ex piicandis, doctrinamquc facit localium argumentationum, et
sequcntium complexionum pandit initia ]PL, 199, 904]. _ 567 ) Ibid., 5, p. 135 [140]: Odo quidem
voluminibus clauditur, fiuntquc semper novissima eius potiora prioribus. Primus
autem quasi materiam praeiacit omnium reliquorum [141] et lolius logicae
quaedam conslituit fundamenta [PL, 199, 903]. 56S ) Ibid., 10, p. 147 [154]:
Arma lironum siiorum locami m arena, dum sermonum simplicium significationem
evolverei et ilem cnunliationum locorumque naturam aperiret.... Ut autem praemissae
similitudinis sequamur proporlionem, quemadmodum Categoriarurn clcmentarius,
Pcriermeniarum syllabicus, proemiasi Topici dictwnnles libri sunt ; sic
Topicorum octavus constructorius est ralionum, quorum eiementa vel loca in
praecedentibus monstrala sunt. Solus itaque versatur in praeceptis, ex quibus
ars compaginatur, et plus confort ad scientiam
litici Primi, che si riattaccano a quel libro stesso, vengono, con
l’aggiunta di una barbarica interpretazione [etimologica] del titolo (cfr. la
nota 23 e la Sez. precedente, n. 288), lodati bensì parimente per la loro
utilità, ma nello stesso tempo criticati tuttavia per la sterile loro forma,
poiché non soltanto si trova lo stesso contenuto svolto altrove (cioè evidentemente
in Boezio, de syll. cat. e Introd. ad syll. cat.) in forma molto più facile e
penetrante, ma ancora perchè quell’opera, in generale, con il suo stile
conjusus e inintelligibile, è poco meno che inservibile per dare
all’argomentazione il suo apparato esteriore (ad phrasim instruendam) : e però
ci si doveva limitare a imparar a memoria le regole in essa contenute (dunque
press’a poco alla stessa maniera che troviamo in Boezio, loc. cit. [direi che
si riferisca alla nota 77 della Sez. XII, richiamata nella nota — o, più
precisamente, al seguito del testo corrispondente, dove si parla di Boezio,
come del primo autore di una logica, indirizzata all’unico intento di far
entrare un certo numero di regole nelle teste dei più stupidi]), ma il
rimanente si poteva lasciarlo da parte, come loppa o foglie secche 589 ).
disserendi, si memoriter habeatur in corde... .quam omnes fere libri
dialecticae, quos moderni patres nostri in scnlis legere consueverant ; nani
sine eo non disputatile arte., sed casu [PI]. 60 °) Jbid.. IV, 2, p. 158 [166]: Analeticorum
quidem perutilis est scienlia, et sine qua quisquis logicam profitetur,
ridiculus est. Ut vero ratio nominis exponatur, quam
Graeci Analeticen diclini, nos possumus Rcsolutoriam appellare (questo è un
pensiero che Giovanni ha preso da Boezio : v. la Sez. XII, nota 77),
familiarius tamen assignabimus. si dixerimus aequam locutionem; nam illi anu «
acquale », lexim « locutionem » dicunl. Frequens autem est, cum sermo parum est
inlellectus, et eum in notiorem resolvi desideremus aequivalenter ; unde et
interpres meus (probabilmente uno o l’altro di que’ due traduttori, che abbiamo
trovati più sopra, note 32 s.), cum verbum audirei ignotum, et maxime in
compositi », dicebat « Analetiza hoc » quod volebat aequivalenter exponi .
Ceterum, licei necessaria sit dottrina, liber non eatenus necessarius est ;
quicquid enim continet, alibi faci lius et fidelius traditur, sed certe verius
aut forlius nusquam. Siquidem et ab invito fidem extorquel.... Porro exemplorum
confusione et traiectione litterarum quas tuoi de industria, tum causa
brevilatis, tum E se è opinione di Giovanni che questa incomprensibilità si
manifesti per es. particolarmente neU’ultimo capitolo degli Analitici Primi
(Sez. IV, note 649 s.) 57 °), lo stesso biasimo è da lui rivolto anche contro
tutti quanti gli Analitici Secondi, soltanto con raggiunta, che una parte di
colpa ce l’ha forse la traduzione 571 ). Invece il ciceroniano Giovanni si
trova ora di nuov o, da buon retore, nel suo elemento, con i Soph. Elenchi, che
pertanto, staccati dalla Topica, egli colloca alla fine dell’Organon; dice che
nessun altro libro è più utile di questo per la gioventù, e com’esso porge il
più grande ausilio per la retorica (ad phrasin), così va preferito anche ai due
Analitici, perchè promuove, in maniera più facilmente intelligibile, la
eloquentia, cioè la espressione del pensiero mediante la parola). Ma dalla
Topica ne falsitas alicubi cxemplorum argueretur, interseruit, coleo confusus
est, ut cum magno labore co perveniatur, quoti faciliime tradì potest. Sicut autem
regulae utiles sunt et necessariae ad scientìam, sic liber fere inutilis est ad
frasim instruendam, quam nos verbi supellectilem possumus appellare.... Ergo scientia memoriter est
firmando, et verbo pleraque excerpenda sunt ; ....quac alio commode
transferunlur et quorum potest esse frequentior usus. Reliquae coaequantur
foliis sine fructu, et oh hoc aut calcantur aul sua relinquuntur in arbore.
(Qui fa seguito il passo citato più sopra, nota 20). — Ibid., HI, 4, p. 132
[137]: Sunt autem pleraque quae, si a suis avellas sedibus, aut nichil aul
minimum sapiunt auditori; qualia fere sunt omnia Analelicorum exempla, ubi
litterae ponunlur prò terminisi quae, sicut ad doclrinam profìciunt.. sic
tracia alias inutilia sunt. Regulae quoque ipsae, sicut plurimum vigorie habent
a veritate doclrinae, sic in commercio verbi minimum possunt [PL, 199, 916-7 e
900-11. 67 °) Ibid., IV, 5, p. 162 [170]: Postremo agii de cognitione
naturarum. Grande quidem capitulum et quod, licei aliqualenus proposito
conferai, fidem tamen prom issi nequaquam irnpìet. Unum scio, me huius capituli beneficio neminem in
cognitione nalurarum vidisse perfectum [PL, 199, 919], Il passo è stato citato
di già più sopra (nota 27). E72 ) Metal., IV. 22, p. 178 s. [188]: Sophisticam
esse dicium est, quae falsa imagine tam dialecticam quam demonslralìvam
acmulatur, et speciem quam virtulem sapientiae magis affettai.... Opus quidem
dignum Aristotile et quo aliud magis expedire diventati non facile dixerim ....
Frustra sine hac se quisquam [189] gloriabitur esse philosophum; cum nequeat
cavere mendacium aut alium deprehendere menlientem.... Unde et ad frasim
eoncilìandum et totius philosophiae in[di Aristotele], che contiene proprio il
fondamento della logica, sono scaturiti i rispettivi scritti di Cicerone e di
Boezio, come pure il libro di quest’ultimo De divisione (su questo punto non
c’è dubbio che Giovanni ha perfettamente ragione), il quale tra le opere di
Boezio occupa un posto particolarmente eminente 573 ). [e) la « ratio
indijjerentiae » come indifferentismo scientifico]. — Con questo ci siamo ora
perfettamente orientati riguardo al punto di vista di Giovanni, e in esso
ravvisiamo certo con buon fondamento un’accentuazione di quella, che Abelardo
aveva chiamata (nota 267) eloquentia Peripatetica ; e se nel rispetto
filosofico già in Abelardo aveva prevalso una conciliazione inorganica di
opinioni opposte, anche questo può ripetersi in più alto grado per Giovanni. È
in verità un atteggiamento coerente il suo, quand’egli, stando con l’attenzione
rivolta in modo esclusivo alla eloquenza dell’argomentazione, va in cerca
persino di una formula determinata, con cui elevarsi a tutta prima al disopra
di quante difficoltà potrebbero esser riposte in una salda posizione
filosofica, che fosse assunta nel contrasto fra le tendenze. Questa formula è
la sua« ratio indijjerentiae », vale a dire il procedimento del perfetto
indifferentismo. Egli cioè anzitutto, trattandosi della conoscenza delle cose
che posson essere oggetto dei discorsi (rerum praedicamenlalium : v. appresso
vesligationes sophisticae exercitatio plurimum prodest ; ita tamen ut veritas,
non verbositas, sit huitis excrcilii fructus. In eo autem michi videntur (se.
Elenchi ) Analelicis praejerendi, quod non minus ad exercitium conferunt et
faciliori intellectu eloquenliam promovent [PL, 199, 929-30], 57a ) Ibid.. Ili,
9, p. 145 [152]: Qui vero librum hunc (cioè la Topica aristotelica) diligentius
perscrutatur, non modo Ciceronis et Boetii Topieos ab his septem voluminibus
(cioè dai primi sette libri) erulos deprehendet. sed librum Divisionum, qui
compendio verborum et eleganlia sensuum inter opera Boetii, quae ad logicam
spectant, singularcm gratiam nactus est [PL, e dei discorsi stessi (sermonum),
richiama l’attenzione sopra la molteplicità di significato a cui i discorsi si
prestano, e osserva che questi all’epoca di Aristotele potevano avere un
significato diverso, perchè invero, secondo la sentenza oraziana, le parole van
via scorrendo in continuo mutamento, e solamente 1’ uso le fissa a questo o quel
modo). E sebbene ora si conceda che, a parità di significato, la terminologia
degli antichi sia più degna di reverenza, che non quella dei moderni), in linea
di principio tuttavia l’uso è più potente che non sia lo stesso Aristotele: e
perciò, in quanto venga in questione la verità di fatto nella sua obbiettività,
e con essa il senso reale delle parole, ben possono anche sacrificarsi
l’espressioni verbali, mentre d’altra parte, fin che la cosa sia soltanto
ammissibile, si può conservar insieme, del1 antica dottrina, e la lettera e
l’intimo significato 576 ). S71 ) Ibid., 3, p. 128 [133]: Profecto rerum
praedicamentalium et sermonum pcrulilis est notitia.... Et quia multiplicitas
sermonum plerumque inlelligentiam claudit, quoliens dicatur unumquodque docci (se.
Aristotiles) esse quaerendum.... Conlingit autem tractu temporis, et
adquiescente utentium voluntate, multipticitalem sermonum nasci itemque
extingui.... (p. 129) [134: Esse in aliquo] multiplicius dicitur quam
Aristotelis tempore diceretur ; et quae lune verbo aliquam. nunc forte nullam
habenl significalionem ; siquidem « Multa renascentur quae iam recidere,
cadentque Quae nunc sunt in honore vocabuia, si volet usus, Quem penes
arbitrium est et ius et norma loquendi » (Hor. Ars poet., v. 70 ss.) [PL, 199,
898-9J. “"') Ibid., 4, p. 131 [136]: Praeterea reverentia exhibenda est
verbis auctorum, cum culla et assiduitale utendi ; tum quia quondam a ma gnis
nominibus antiquitatis praeferunt maiestalem, tum quia dispendiosius
ignorantur, cum ad urgendum aut resistendum potentissima sint.... Licei itaque modernorum et
veterum sii sensus idem, venerabilior est velustas [PL, 199, 900]. 6,r ') Patet
itaque quod usus Aristotile potentior est in derogando verbis vel abrogando
verbo ; sed veritatem rerum. quoniam eam homo non statuii, nec voluntas Humana
convellit. Itaque. si fieri polest, artium verba teneantur et sensus. Sin autem
minus, dum sensus maneat, excidant verbo ; quoniam artes scirc non est
scriptorum verbo revolvero, sed nasse vini earum atque senlentias. Enthel., v. 27 ss.: Qui sequitur sine mente sonum,
qui verbo capessit. Non sensum, judex integer esse nequit : Quum vim verborum
dicendi causa minislrel, Ilaec si nescilur, quid nisi ventus erunl? [PL Già di
qua si desume che tale principio deve condurre a una maniera estremamente
comoda di fare sparir tutte le difficoltà che vengono a galla, perchè in tutti
questi casi basterà dire che la espressione verbale nel corso del tempo è
venuta ad assumere un significato diverso, oppure che in generale essa non ha importanza.
Cosi dice appunto Giovanni stesso (a proposito di una opinione di Bernardo da
Cliartres) che non è per lui di nessun momento il prender una parola alla
lettera, e che non c’è punta necessità di metter in armonia con un singolo
passo, in tal senso, anche tutti gli altri passi). E di fatto a questa maniera
la ratio indijjerentiae, ch’egli ritiene il punto di vista giusto anche ai fini
del tradurre (nota 32), prende forma, dov’egli si richiama a essa, di esplicito
metodo di negazione dello spirito scientifico. Poiché certamente è somma
leggerezza non soltanto il considerare, com’egli fa, « significare-» e «
praedicare » quali perfetti sinonimi, mentre Abelardo si era pure sforzato di
arrivare a una rigorosa definizione (nota 318), — ma anche il denotare, a tal
proposito, come cosa assolutamente indifferente che p. es. con gli aggettivi si
voglia intendere la qualità, ovvero l’oggetto che n’è qualificato; e
rimettendosi egli su questo punto per ciascun singolo caso a una benigna
interpretatio, fa valere le Categorie come un fondamento essenziale ad
avvalorare il suo procedimento, proprio perchè in esse si tratta, ora delle
parole significanti, ora delle cose significate 578 ). Similmente ) Metal.,
dove al passo che abbiamo già citato qui sopra (nota 93) fa seguito: Habet haec
opinio sicut impugnatores, sic defensores suos. Michi prò minimo est ad nomea
in talibus disputare, cum intelligentiam dictorum sumendam noverim ex causis
dicendi. Nec sic memoratam Arislotilis aliorumve auctoritates interprelandas
arbitrar, ut trahalur istuc quicquid alicubi dictum reperitur [PL, 199, 893].
57S ) Ibid., p. 122 [126]: Ex quo liquel quoniam « significare », sicut et «
praedicare », multipliciler dicitur ; sed quis modus familiarissimus sit,
discernere palam est. Inde est, quod iustus et similia si comporta Giovanni, a
proposito di un passo aristotelico, e viene su questo punto, conforme alla sua
indifferentia o ratio licentiae, al risultato, che 1’ individuo singolo,
percettibile per mezzo dei sensi, può essere tauto predicato quanto
soggetto”»). E se nella trattazione di tali questioni siamo con Giovanni al
punto dove la logica finisce, prima di esser in generale neanche incominciata,
non può farci maraviglia che, presentandosi difficoltà un poco più riposte,
egli enunci subito con tutta disinpassim apudauctores rame dicuntur iustum,
nunc iustitiam significare vel predicare.... [127J Tale est iUud Aristntilis :
Qualitalem significant, ut album; quantilatem, ut bicubitum (Cai., 4: v. la
Sez. IV. nota 303 [dove la citaz. si arresta avanti le esemplifieaz. : Sinr/u
Xsuxiv...]; in Boezio [ad Ar. praed., I; PL, 64, 180], p. 127) .Sic ulique quia
dantur a quahtale vel quanlitate, ila et qualitalem praedicant, quam apposita
demonstrant inesse subieclis ; inlerdum dicuntur significare quatta, quomam
apposilione sua declarant quali,i sint subiecta. Sed haec a se, si sit benignus
inlerpres, non multum distaili, etsi andito albusintelhgatur in quo albedo ;
cum autem albedo (licitar, non mteUigiturin quo talis color ; sed polius color
jaciens tale. Illud vero quod nudità voce concipit iniellectus, ipsius
familiarissima significalio est. 3, p. 122 s.: Quia ergo aut acquivoce aul
univoco aut denominative, ut sequmtur indifferentiae rationem, singula
praedicanlur, ipsaque praedicatio quaedam ratiocinandi materia est.
praedicamenlorum praemissa sunt instrumenta.... Rationem vero indifferentuie,
LI—“J quarti semper approbamus, liber iste commendai prue cetens ; etsi ubique
dilìgenter inspicienti manifesta sit. Agii enim nunc de sigmficantibus, nunc de
significati, aliorumque doctrinam J acU n nomuitbus aliorum [PL, 199, 894-5], «
Ih>d " 2 ;?‘ P'., 110 Mine forte est illud in Analeticis Aristomenes
intclligibihs semper est; Aristomenes autem non semper . ( Ar l al pr .,, I,
33; in Boezio [PL], p. 445). Et hoc quidem est singulariter individuum, quod
salum quidam munì posse de al,quo praedicari.... Ego quidem opinionem hanc
vehementernec impugno, nec propugno; nec enim multum referre arbitror, ob hoc
quod illam amplector indifferentiam in vicissitudine sermonum, sino qua non
credo quempiam ad mentem auctorum fidehter pervenire. Itaque hic. sicut et alibi,
executus est quod decet libertdium artium pracceptorem, ugens, ut dici solet.
Minerva pinguion [Cic. de Amie., V, 19] ut intelligeretur.... Quid ergo
prohihcl,uxta hanc licentiae rationem ea quae sunt sensibilia vel praedicari
vel subici? Nec opinor auctores hanc vim imposuisse sermoni, ut alligatus sit
ad imam in iuncturis omnibus signìficationem, sed doctnnaliter sic esse
locutos, ut ubique servianl inlelleclui Ino c ° n ‘™ n f!' !i '! mus est el Q upm ‘bi haberi prue ceteris ratio
exigit [PL. 149, 886-/]. V. inoltre appresso [il seguito, nella] voltura il suo
punto di vista, come p. es. quando, riguardo al giudizio universale, prende per
equivalenti la inerenza obbiettiva e la predicazione subbiettiva, e tutt’al più
ravvisa qui ima modificazione di terminologia, presentatasi nel corso del tempo
580 ). [f) la Isagoge. Concezione deglia universalia in re»]. — Se dopo di ciò
seguiamo nei loro particolari l’espressioni di Giovanni relativamente alla
sfera propria della logica, tenendo dietro al filo della partizione da lui
stesso assunta come fondamentale per l'Organon, — incontriamo in lui anzitutto,
come ben s’intende, nell analisi della Isagoge, cioè nella questione degli
universali, 1 estremo sincretismo o eclettismo, cbe sfocia da ultimo in una
concezione stoico-ciceroniana. Non già al punto di vista di un filosofo cbe
stia al disopra della unilaterale contesa tra i contrastanti indirizzi, bensì a
mancanza di acume filosofico o a faciloneria da retore praticone, s’informa
l’atteggiamento di Giovanni, quando qualifica come infantile tutta la disputa
sui concetti di genere e di specie : e invero, a tal proposito, egli si limita
a tirarsi indietro, riferendosi a quella molteplicità di significati delle
parole, di cui più sopra (note 574 s.) abbiamo fatto cenno : imperocché genere
e specie possono significare cosi il principio della generazione, cioè la base
ontologica delle cose, come anche il predicabile, cioè il valore logico dei
concetti universali 58 ^). E a quel modo cbe su questo punto m°) JHd„ IH, 4, p.
132 [137]: Quod dicitur „in loto esse allerum alteri “ vel .. 'in loto non esse
", et „universaliler aliquid de aliquo prae dicari '“ vel „ab aliquo
removeriidem est (cfr. la nota 16); frequens tamen usus est alterius verbi, et
alterius fere inlercidit, nisi quatenus ex condicto inlerdum admittitur. Fuit
/orlasse tempore Aristotilisutriusque usus celebrior, sed nunc prae altero
viget alterum, quoniam ita vu lt usus. Sic et in co quod dicitur contingens.
aliquatenus derogatimi est ei quod apud Aristotilem optinebat [PL, 199, 901]
(cfr.la nota 216). 581 ) lbid., 1, p. 116 s. [120]:... sed ad puerilem de
genenbus et speciebus.... inclinavit opinionem (s’intende Abelardo); malens in
Giovanni si appoggia al commento boeziano della Isagoge di Porfirio, così
insomma è ancor una volta, come vedremo (nota 602), in un passo isolato di
Boezio che ci si offre concentrata la opinione di lui, sicché anche in lui
ritroviamo di nuovo un argomento per provare quanto strettamente tutto il
movimento degli studi di logica in quell’epoca si tenesse attaccato a sentenze
frammentarie degli autori tradizionalmente più autorevoli. Perfettamente
analogo all’atteggiamento di Abelardo, che si riattaccava a un solo unico passo
[della versione boeziana del De inlerpr.] per avvalorare la duplicità del suo
modo di vedere [nella questione degli universali] (nota 286), è l’atteggiamento
complessivo anche di Giovanni, in quanto ch’egli presta agli universali un
valore ontologico, e logico al tempo stesso; con la sola differenza, che in lui
la confusione dei punti di vista è non soltanto più complessa e stravagante, ma
anche ben più contraddittoria che non in Abelardo. Giovanni, cioè, non soltanto
parla occasionalmente, quale teologo, intorno ai concetti di sostanza e di
essenza, alla stessa maniera che si trovano trattati questi argomenti nel
Pseudo-Boezio de Trin. e in Gilberto 582 ), ma anche in quello scritto ch’è
dedislruere et promovere suos in puerilibus quam in gravitate philosophorum
esse obscurwr.... Itaque sic
Porphirius legendus est, ut sermonum de quibus agitar, significatici teneatur,
et ex ipsa superficie habeatur sensus verborum.... Sufficiai ergo introducendo nosse quia nomen generis
multiplex est et a prima instilutione significai generationis prìncipium....
Deinde hinc translatum est ad significandum id, quod de differentibus specie in
quid pratdicatur (sopra questa terminologia abbreviata, v. la nota 282). Item
et species multipliciter dicilur ; nam ab instilutione formam significai....
Hin autem sumptum est ad significationem eius quod in quid de differentibus
numero praedicalur. (lutto ciò ha fondamento in Boezio [ad Porph. a Vict tranci
I 22: ed. Brandt, p. 66; PL, 64. 38], p. 22, e [od Porph. a se fransi, lì, 2:
ed. Brandt, p 171 ss.; PL, 64, 87-8] 57 s.).... Quid ergo sibi volunt [Webb:
voi in qui.... quicquid aliud exeogitari potest, adiciunt ?.... Vocabulorum
simpliciter aperiantur significai ioncs, apprehendatur illa quae proposito
congruit per descriptiones certissimas etc. [PL]. oS ") Epici. Quicquid
autem subsistit, sine dubìo in genere vel in natura vel in substantia manet.
Quum ergo essentiam cato alla logica, espressamente manifesta il suo accordo
con Platone e con il suo realismo ontologico, secondo il quale il vero essere
appartiene all’ intelligibile, mentre le cose concrete neanche son degne del
verbo «esse» 083 ). E com’egli all’erma quale base reale dell’essere la natura
non peritura della sostanza e la persistente efficienza della forma,
attenendosi in ciò pedissequamente al motto, trasmesso per antica tradizione «
singultire sentitur, universale intelligitur » 6M ), così a lui Gilberto è
guida, anche relativamente alla definizione della natura, e alla forza
plasticadella differenza specifica 686 ): Giovanni anzi si serve persino del
termine « jorma nativa » (cfr. la nota 467); nè parimente manca in lui, come
non manca in alcuno tra i realisti, il concetto di partecipazione 586 ) ;
infine la dicimus significare naturam, vel genus rei suhstantiam. intelligimus
ejus rei, qua e in his omnibus semper esse subsistat.... Quod si apud Graecos
expressam habent dififerenliam lutee, quae Ilio totics inculcata sunt, essendo,
natura, genus, substantia, cam expediri omnium arbitror interesse quamplurimum
[PL, 199. 162-3]. i > 83 ) Metal., IV, 35, p. 193 [204]: Plato quoque eorurn
quae vere sunt et eorum quae non sunl sed esse videntur, dififerenliam docens,
intelligibilia vere esse asseruit.... Unde et eis post essenliam primam reale
competei esse; i. e. firmus certusque status, quem verbum, si proprie, ponilur,
[205] cxprirnil substantivum ; temporalia vero videntur quidem esse, co quod
intelligibilium praetendunt imaginem. Sed appellatione verbi substanlivi non
satis digna sunt quae rum tempore transeunt, ut nunquam in eodem statu
permansavi, sed ut fumus evane scant ; fugiunt enim, ut idem ail in Thimaeo (p.
49 E), noe expeetant uppellutionem .... p. 195 [206]: Ideam vero.... sicut
aelernam audebat dicere, sic coaeternam esse negabal [PI., 199, 938-9]. 6M)
Enthet. Nulla perire potasi substantia, formaque jormae Succedens prohihet,
quod movet, esse nihil. Solis corporeis sensus carnalis inhaeret, Res
incorporcae sub ratione jacent [PL. 199. 987 e 992]. m ) Metal., I, 8, p. 26
[23]: Est autem natura, ut quibusdam placet (evidente allusione a Gilberto: v.
la nota 461), ( licei eam sit dijfinire difiìcile,) vis quaedam genitiva, rebus
omnibus insita, ex qua /arare vel [24] pati pnssunt. Genitiva autem dicitur, eo
quod ipsam res quaeque controllai, a causa suae generalionis, et ab eo quod
cuique est principium existendi.... (p. 27) Sed et unamquamque rem injormans
specifica differenza, aut ab eo est, per quem facta sunt omnia. aut omnino
nichil est. Esto ergo ; sit potens et ejficax vis illa genitiva, indita rebus
originaliter [PL, 199, 835—6]. 686 ) Énthet.. v. 395 ss.: Est idea potens veri
substantia, quae rem stessa concezione della individualità assume una forma
tale, che vi riconosciamo la distinzione di Gilberto tra dividila e individua
587 ). [g) grossolano eclettismo, nella questione degli universali]. Ma, dopo
avere udito Giovanni pronunziarsi in tal maniera, che non lascia adito a
equivoco EQUIVOCO GRICE, abbiamo ragione di maravigliarci che egli, per il
fatto che l’intelligibile non può esser universale, ma può soltanto esser
concepito universalmente, dichiari che quella intorno agli universali è una
disputa priva di oggetto, nella quale si cerca di acchiappare la sostanzialità
di un’ombra o di una nube fuggevole 688 ). Vien ora anche, per quel che
riguarda la logica, dato formalmente congedo a Platone, oltre che ad Agostino e
a tutt’ i Platonici, per far posto ad Aristotele, sia pure con l’aggiunta, a
mo’ di consolazione, che la dottrina di quest’ultimo può ben darsi Quamlibet
informat ut Jacit esse, quod est ; Omne quoti est vcrum, convinci! forma vel
actus, Necfalsum clubites, si quid utroque caret. Forma suo generi quaevis
addirla tcnelur Et peragil semper, quicquid origo jubet; Ergo quod informa
nativa constai agilve, Quod natura mancns in ratione rnonet Esse sui generis,
veruni quid dicilur idque Indicai effectus aut sua forma probat. — Polycr..
Iniplet autem haecvita omnem creaturam, quia sine ea nulla est substantia
creaturae. Omne enim quod est, eius participatione est id quod est [PL]. Metal.
Ergo si genera et species a Deo non sunt, omnino nichil sunt. Quod si unumquodque eorum ab
ipso est, unum piane et idem bonum est. Sì autem quid unum numero est, protinus
et singulare est. Nam quod quidam unum aliquid dicunt, non quod unum in se. sed
quod multa unial expressa plurium conformitate, articulo praesenti non
derogant.... Omnis namque substantia acciden tium pluralitate numero subest.
Accidens autem omne et forma quaelibet itidem numero subiacet, sed non accidentium
aut formarum participatione, sed singularitate subiecti [PL, 199, 884],
Polycr., VII, 12, p. 127 [II, 141]: Sicut in umbra cuiuslibel carpari, frustra
solidilatis substantia quaeritur, sic in his quae intelligibilia sunt dumtaxat
et universaliter concipi nec tamen univcrsaliler esse queunt, solidioris
existentiae substantia nequaquam invenitur. In his aetatem terere nichil agentis et frustra
laborantis est ; nebulae siquidem sunt rerum fugacium et, cum quaeruntur
avidius, citius danese uni [PL che non sia per nulla più vera, ma è comunque
his disciplinis magis accommoda [tale (v. la nota 589) è la espressione di
Giovanni, resa dal Prantl con le parole « fiir die logischen Partien passender
»] sa9 ). Vengon ora pertanto criticati tutti coloro, che nella Isagoge voglion
metterci dentro un modo di vedere ispirato al platonismo, o che in altra
maniera si scostano da Aristotele: e, richiamandosi nel modo più risoluto alla
sentenza aristotelica, che cioè gli universali non hanno per se stessi
esistenza separata, Giovanni respinge a priori qualsiasi teoria che parli di un
essere degli universali stessi 590 ), combattendo così in particolare, da
questo punto di vista, anche la teoria dello status 591 ). Ma se siamo ora
effettivamente curiosi di vedere come si risolva cjuesta contraddizione con le
tesi prima enunciate, il nostro stupore crescerà forse ancora di passo in
passo. Giovanni cioè anzitutto mette pur in prima linea P intellectus, in tal
maniera che, accordandosi quasi 58 B ) Metal., II, 20, p. 112 [115]: Licei
Plato cetum philosophorum grandetti et lam Augustinum quatti alios plures
nostrorum in statuendis ideis habeat assertores, ipsius lanieri dogma in
scrutinio universalium nequaquam sequimur ; eo quoti hic Peripateticorum
principem Aristotilem dogmatis huius principem prafilemur. Ei qui Peri palei
ieorutn libros aggredilur, magis Aristotilis sentendo sequenda est ; forte non
quia verior, sed piane quia his disciplinis magis accommoda 'est [PL, 199,
888], 60 °) Ihitl.. 19, p. 94 [97] : Quasi ab adverso pectentes (cioè i
commentatori della Isagoge), veniunt contro menlem auctoris et, ut Aristoliles
planior sit, Platonis sententiam docent aut erroneam opinionem, quae aequo
errore deviai a sententia. Aristotilis et Platonis; siquidem omnes Aristotilem
profilentur. 20, p. 94: Porro hic genera et species non esse, sed intelligi
tantum asseruit (Anni, post., I, 22 e 11: v. la Sez. Ili, nota 66, e la Sez.
IV, nota 373) ....(p. 95) Ergo si Aristotiles verus est. qui eis esse tollit.
inanis est opera praecedentis investigationis.... [98] Quare [oul] ab
Aristotele recedendum est, concedendo ut universalia sint [oul....] [PL], e via
dicendo. B91 ) Ibid., 20, p. 102 s. [106]: Sed esto ut statimi aliquem
generalem appellativa significent,... status ille quid sit, in quo singola
uniuntur, et nichil singulorum est, etsi aliquo modo somniare possim ; lamen
quotando sententiae Aristotilis coaptetur. qui universalia non esse conlendit,
non perspicuum habeo [PL, parola per parola con l’autore dello scritto De
intellectibus, non soltanto dà rilievo all’ intellectus coniungens et
disiungens, e in priino luogo principalmente alla forza dell’astrazione (
intellectus absirahens: v. la nota 432), — ma, respingendo anche la obiezione
che 1 intellectus abstrahcus sia illegittimo ( cassus : v. la nota 429),
rivendica all’ intellectus la facoltà di considerar le cose, altrimenti da quel
che sono in concreto (v. le note 432 s.): e con ciò designa l’astrazione, quale
condizione fondamentale di tutta la tecnica dell’intelletto : a tal proposito,
mentre si trova d’accordo con Gilberto (abstractim attendere: v. la nota 464),
va facendo uso altresì di espressioni che abbiamo trovate adottate dai
rappresentanti della teoria della indifferenza ( generaliter intueri, diverso
modo attendere: v. [per una terminologia analoga] le note 133 e 13/), e nello
stesso tempo viene a trovarsi ancora d’accordo, nel concetto del raccogliere le
somiglianze (v. le note 162 s.), con l’autore dello scritto De genenbus et
speciebus: anzi, con la risèrva che si tratta qui soltanto della facoltà
intellettiva subbiettiva, e che obbiettivamente nella natura gli universali non
esistono, si serve persino di quello, ch’era il ter min e invalso nella teoria,
da lui combattuta, dello status (v la nota 132) S92 ). ’*-) limi., 20, p. 95
[98]: Nec verendum ut cassus sii intellectus, qui ea percepent scorsimi a
singularibus, cum lumen a singularibus seorsum esse non possint. Intellectus
enim quandoque rem simpliciter tntuetur, velut si hominem per se intucatur...;
quandoque gradalim suis inceda passibus, ut si hominem albore.... contemplelur.
Et hic quidem dicitur esse compositus. Porro simplex rem interdum inspicit ut
est, ut si Platonem attendai, interdum alio modo ; nunc enim componendo quae
non sunt composita, nunc abstrahendo quae non possunt esse distancta. Ceterum
componens, qui disiuncta coniungit (l’esempio è HIRCOCERVVS [oltre che
centaurus]), inanis est ; abstra hens vero fidelis, et quasi quaedam officina
omnium artium. Et quiocm rebus
existendi unus est modus, quem scilicel natura conlulil, sed easdem
intelligendi aut significatali non unus est modus. Licet enim esse nequeat homo qui non sit iste vel
alias homo, intelligi tamen potest et significari. Ergo ad significationem
incomplexorum per abstra -Se così, in una variata scelta di motivi, ricavati
dalle opinioni di altri autori, si vedon convergere diversi fili, a formar la
concezione della operazione subbiettiva delT intelletto, deve ora riuscirci
inaspettato che a ciò si ricolleghi da capo il realismo di Gilberto: la dottrina,
cioè, secondo la quale la incorporeità qualifica gli universali soltanto
negativamente, laddove, rispetto al loro fondamento positivo, questi debbono,
come in generale tutte le cose, esser messi in relazione di dipendenza da Dio;
ma Dio ha creato la materia formata, vale a dire che tutte quante le forme,
sicno sostanziali sieno accidentali (v. questo punto in Gilberto, alle
precedenti note 461 s.), hanno da Dio il loro essere e la loro efficienza, e
così nell'atto onde sono state espresse le cose, ha predominato un riguardo ai
concetti delle specie, concetti che pertanto il cultore della logica non può
tener separati da Dio, ma in virtù dei quali « le cose son venute fuori [ma
Prantl rende « prodierunt » con « eingiengen»] dapprima nella loro propria essenza,
e appresso nell’intelletto umano» 593 ). In seguito a tale cauhentem inteUectum
genera concipianlur el species ; qaae tamen, si quis in rerum natura dùigentius
a sensibilibus remota quaerat, nichil aget et frustra laborabil; nichil cnim
tale natura peperit. Ratio autem ea deprehendil, substantialem simililudinem
rerum differentium perirnetans apud se. — Polycr., II, 18, p. 96 [I, 103]:
InteUectus.... nunc quidem res ut sunt, nunc aliter imudar, nunc simpliciter,
nunc composite, mine disiuncta coniungit, nunc coniuncta distroihil et
disiungii. Si abstrahentem tuleris inteUectum, liberalium arliurn officina
peribit.... Sic hominem intellectus attingit, ut ad neminem hominem aspectus
illius descendat, generaliter intuens, quod non nisi singulariter esse potest.
Dum itaque rerum similitudines et dissimilitudines colligit, dum differentium
convenientias el convenientium dijfcrentias altius perscrutata, multos apud se
rerum invenit status, alios quidem universales, alias singulares [PL]. Metal.:
Sed et nomina, quae proemisi,,.incorporeum“ et insensibile “, universalibus
convenire, privativa in eis dumtaxat sunt, nec proprietates aliquas, quibus
natura universalium discernatur, illis attribuunt ; siquidem nichil incorporeum
aut insensibile universale est.... Quid est autem incorporeum quod non sit
substantia creata a Deo vel ipsi concretum ? Valeanl autem, immo salita mistica
di quella clic Gilberto aveva chiamata forma sostanziale, Giovanni ora può dire
che la sostanzialità degli universali è vera, soltanto riguardo alla causa
cognitionis, e in pari tempo riguardo al generarsi delle cose (natura), perchè
ciascun ente, secondo ch’è situato a un grado più basso nella Tabula logica, ha
bisogno, per il suo proprio essere ed essere pensato, di un altro ente, che si
trovi rispettivamente a un grado più alto; ma d’altra parte gli universali non
hanno un essere, nè come corpi, nè come spiriti, nè come individui). Cosi
dunque Giovanni, mentre segue Gilberto, crede di poter in pari tempo essere un
aristotelico, e come ritiene di sfuggire a quella non necessaria duplicazione
di sostanze, ch’è una conseguenza della concezione platonica), cosi dice nella
maniera dispereant univcrsalia, si ei obnoxia non sunt. Omnia per ipsum farla
sunl, inique lam subiecta formarum quam formae subiectorum.... Formae quoque, tam substantiales
quam accidentales, habenl ab ipso ut sinl et ut suos subiectis operentur
effectus. Quod itaque ei obnoxium non est, omnino nichil est. Ut enim ait
Auguslinus, formatam creavit Deus materinm.... Eo spectat illud fìoetii in
primo de Trinitate,.omne esse ex forma esl“ CuiUbet ergo esse quod est, aul
quale aut quantum est, a forma est. fundamenta iecit Deus; et in ipsa
expressione rerum habita est mentio specierum. Non illarum dico, quas logici fìngunt non obnoxias
creatori ; sed formarum in quibus res pròdierunl primo in essentiam suam, et in
liumanum deinde intelleclum. Nam hoc ipsum quod aliquid coelum aut terra
dicitur, formae. effectus est [PL]. Quod autern univcrsalia dicuntur esse
substantialia singularibus, ad causam cognitionis referendum est singulariumque
naturam (analogamente lo Scoto Eriugcna aveva, riferendosi agli universali,
fatto uso dell’espressioni causaliter ed effectualiler); hoc enim in singulis
patet. siquidem inferiora sine superioribus nec esse nec intelligi possunt....
Quia ergo tale exigit tale, et non exigitur a tali, tam ad essentiam quam ad
notitiam, ideo hoc illi substantiale dicitur esse. Idem est in individuis, quae
exigunt species et genera, sed nequaquam exiguntur ab eis.... Universalia tamen
et res dicuntur esse, et plerumque simpliciter esse ; sed non ob hoc aut moles
corporum aut subtilitas spirituum aut singularium discreta essentia in eis
attendendo est [PL]: Itaque detur ut sint univcrsalia, aut etiam ut res sint,
si hoc pertinacibus placet ; non tamen ob hoc rerum erit più esplicita che gli
universali — i quali stanno a fondamento delle cose, non diversamente dal modo
in cui il piano detrazione, che è incorporeo, sta a fondamento delle azioni,
che sono invece sensibilmente percettibili, — li troviamo appunto,
esclusivamente, soltanto nelle cose singole, le quali ultime si presentano
visibilmente come ex empia, in cui gli stessi universali si fanno manifesti:
Giovanni cioè risolutamente rappresenta — e su questo punto è il primo, ad
assumere tale atteggiamento — la concezione degli « universalia in re», e
persino combatte la dottrina platonica degli « universalia ante rem », perchè
fuori dal singolo non c’è universale 596 ). Ma poiché, in questa sua posizione,
gli sta sempre dinanzi il concetto che ha Gilberto della forma sostanziale, è
naturale che si attenga a quei passi di Aristotele, dove il concetto di genere
e il concetto di specie vengono designati come qualche cosa di qualitativo 597
). rerum numerum aligeri vel minai prò eo, quoti iuta non sunl in numero' rerum
[PL], C ' J6 ) Ihid. : Nirli il au tem universale est, nisi quoti in
singularibus invenitur.... Nec moveat quoti singularia et corporea exempla sunl
universalium et incorporalium ; cttm omnis ratio gerendi... incorporea sit et
insensibile, illud tamen quoti geritur, et actus quo geritur, plerumqite
sensibilis sit (anche ciò fa tornare a mente il significato che lo Scolo
Eriugena ripone nel termine,,agcre“. Habita tamen ratione aequivocationis. qua
ens vel esse distinguitur prò diversilate subiectorum, species et genera
utrumqite non sine ratione esse dicuntur. Persuadet enitn ratio ut ea dicantur
esse, quorum exempla conspiciuntur in singularibus, quae nullus ambigli esse.
Non autem sic dicuntur genera et species exemplaria sitigli lorttm, ut. iuxta
Platonicidogmalis sensum, formae sint exemplares, quae in mente divina
intelligibiliter constiterint, antequam prodirent in corporei (questo è il
passo di Prisciano. già cit. nella nota 263); sed quotiiam, si quis eius quod
communiter concipitur, audito hoc nomine ..homo", aut quod dijjinitur,
cttm dicitur ..homo esse animai rationale mortale l % quaerat exemplum, slalim
ei Plato aliusve hominum singulorum oslenditur. ut communiter significantis aut
dìffinientis ratio solidelur [l’L, 199, 879 e 885-6]. ia, ) : /lem Aristotiles
: Genera, inquit, et species circa substantiam qualitatem determinanl
(Cai.).... Item in Elenchis (in Boezio [PL], con una traduzione che alquanto si
scosta dal testo: v. soIn queste forme qualificanti scorge la « mano
[dell’Artefice] della natura», che ha dato alle cose la veste delle forme,
perchè l’uomo le possa più facilmente comprendere: e perciò si presenta ora con
il più spiccato rilievo la prima substantia di Aristotele, cioè l’individuo,
movendo dal quale l’intelletto da sè solo si eleva, in linea ascendente — per
mezzo della uguaglianza di forma che accomuna i singoli ( conjormitas : v.
questo concetto in Gilberto) sino alla
universalità dei concetti di specie e di genere): e come Giovanni si ritrova su
questo punto ancora in accordo con la teoria della indifferenza, così adopera
anche a tal riguardo persino la espressione» conjormis status» 599 ). A pra la
nota 34):,,/Jomo et omne commune non hoc aliquid, sed quale quid, (rei) ad
aliquid vel aliquo modo vel huiusmodi quid significai". Et post paura :
„Manifestum quoniam non dandum hoc aliquid esse quod communiter praedicalur de
omnibus, sed aut quale aut ad aliquid aut quantum aut talium quid
significare". Profecto quod non est hoc aliquid, significatione espressa
non potest explanari quid sii [PL]. 69S ) Polycr., II, 18, p. 98 [I, 105]: Et
primo substantiam, quae omnibus subest, acutius intuetur (se. intellectus), in
qua manus naturae probalur artificis, dum cam variis proprietatibus et formis
quasi suis quibusdam vestibus induit et suis sensuum perceplibilibus informat,
quo possit aptius humano ingenio comprehendi. Quod igitur sensus percipit,
formisque subiectum est, singularis et prima substantia est. Id vero sine quo
illa nec esse nec inlclligi potest, ei substantiale est, et plerumque secunda
substantia nominatur.... Universale, si, licei non natura, conformitate tamen
sii commune multorum. Quod forte facilius in intellectu quam in natura rerum
poterit inveniri, in quo genera et species, dijferenlias, propria et
accidentia, quae universaliter dicuntur, planum est invenire, cum in actu rerum
subsistentiam universalium quaerere exiguus fructus sii et labor infinitus, in
mente vero Militar et faciliime reperiuntur. Si cnim rerum solo numero differen'.ium substantialem
similitudinem quis mente pertractet, speciem tenel; si vero etiam specie
differentium convenientia menti occurrat, generis lalitudo mente diffunditur.
Denique dum rerum, quas natura substanlialiter vel accidenlaliter assimilavit,
conformitatem percipit intellectus, in universalium comprehensionc movetur. Numquid
abstrahens intellectus, dum haec agit, otiosus est aut inutilis, per quem
animus honestarum artium gradibus ad thronum consummatae philosophiae
consccndit? [PL]. Enthet. Est individuum, quicquid natura creavit, Conformisque
status est ralionis opus : Si quis Arislotelem primum questo modo la
uguaglianza delle cose tra loro, riguardo alla forma, viene messa in connessione
immediata con la inlellectus communitas (communiter intelligi) ), ma gli
universali stessi vengono, come tali, trasferiti puramente nel modus
intelligendi (e ciò è in armonia anche con la teoria della maneries), sì
ch’essi vengono denominati parole « figurali», e appartenenti esclusivamente
alla « dottrina » (di figura locutionis avevano parlato anche i nominalisti: v.
la nota), o, in una parola, « jigmenta », che, con le cose singole, si trovano
nella relazione scambievole di mostrare e di essere mostrati, e però han potuto
da Aristotele esser acconciamente denominati « monstra » (monstrare) concetto
indeterminato di notio. Ma questo modo di considerare gli universali è ora in
verità così elastico, che nel concetto di« figmentum» Giovanni ci può trasportare
anche l’apprendimento, per parte dell’ intelletto, non censet liabendum, Non
reddit merilis proemia digita sttis [PL], Melai. Ergo quod mcns communiter
inteìligil et od qingularia multa aeque perlinet, quod vox communiter
significai et acque de mullis ve rum est, indubitanter universale est. Secundum
intellectum illuni deliberari palesi de re subiecta, i. e. actualiter exemplificari,
ob inlellectus communitatem ; res, quae sic intelligi potest, etsi a nullo
intclligalur, dicitur esse communis ; res enim conjormes sibi sunt, ipsamque
conjormilatem deducta rerum cogitatione perpendit inlellectus [PL]. Ergo
dumlaxat intelligunlur, secundum Aristotilem, universalia ; sed in actu rerum
nichil est quod sii universale. A
modo enim intelligendi figuralia haec, licenter quidem et doctrinaliter. nomina
indila sunt. Ergo ex sententia Aristotilis genera et spccies non omnino quid
sunt sed quale quid quodammodo concipiuntur ; et quasi quaedam sunt figmenla
rationis, seipsnm in rerum inquisilione et doctrina suhtilius exercentis....
[112] Possunt et monstra dici (si riferisce al noto passo antiplatonico di
Aristotele: vedilo qui più sopra, nota 31), quoniam invicem res singulas
mon.siranf, et monstrantur ab eis. Ea vero quae intelligunlur a singularibus
abstracta,.... animi figmenla sunt.... quae ex conformitale singularium
intellectu non casso concipiuntur [PL]. dei modelli originari (exempiano), che
misticamente esercitano il loro influsso, dalle cose (exempla), sopra l’anima:
a tal proposito enuncia con sufficiente chiarezza il suo sincretismo eclettico,
qualificando, oltre che far uso di
quell’espressioni d’intonazione nominalistica —, gli universali come prodotti
psicologici (phantasiae, termine che ricorda lo Scoto Eriugena: v. appresso la
nota 613 [per altre reminiscenze delle dottrine doU’Eriugena]), ma a ciò
collegando nel medesimo tempo la concezione stoicociceroniana, secondo la quale
gli universali stessi sono concetti subbiettivi (svvoiou, notiones); e inoltre
egli passa ancora, in modo molto manifesto, rasente al platonismo, o per lo
meno va d’accordo con Gilberto, in quanto che anche da lui gli universali son
tenuti in conto d’ imagini di una originaria purezza ideale, tralucenti dalle
somiglianze delle cose singole: con ciò si trova infine ancora commisto
l’aristotelismo, poiché queste figurazioni fantastiche non possiedono già una
esistenza separata dalle cose singole, bensì, quando si volesse così
afferrarle, si dileguano come ombre o come imagini di sogno). Se ora sembra che
non sia effettivamente possibile accumulare, una sull’altra. 602) lbid.. II,
20, p. 96 [99]: Sunt itaque genera et species nor. quidem res a singularibus
aclu et naturaliter alienae, sei! quaedam nottiralium et aclualium phantasiae
(anche questo termine si trova parimente — cfr. [per la concezione di Giovanni
degli universalia in re, nella sua relazione con quella dello Scoto Eriugena]
le note 594 c 596 — nello Scoto.Eriugena: v. la Sez. XIII, nota 125) renitentes
in intellectum, de similitudine aclualium. tamquam in speculo, nativae puritatis
ipsius animar, quas Gracci ennoyas [evvoia;] sire yconayfanas [elxovo22 )
Policr.: Sic et geometrae primo petinones quasdam quasi totius artis iaciunt
fondamento, deinde commanes animi conceptiones adiciunl et sic quasi acie
ordinala ad ea quae stb, sunt demonstranda procedunt [PL ch’è stata colmata
dagli studiosi venuti più tardi, ma anche riguardo ai sillogismi consistenti in
combinazioni di giudizi categorici con giudizi di necessità e di possibilità
(Sez. IV, note 558 ss.), dice che essi non sono esposti da Aristotele in
maniera esauriente: e pertanto rimane qui ancora aperto ad altri il campo a
un’attività, la quale tuttavia, sussistendo il bisogno pratico di così fatte
forme di ragionamento, dovrà fornire. per sodisfarlo, mezzi che sieno, dal
punto di vista pratico, più convenienti) e queste sono ehiaccbieie, per le
quali, anche dal canto suo, egli stesso sembra dover pretendere quella benigna
interpretatio, di cui s’è fatto cenno più sopra. Similmente Giovanni si
pronunzia circa i sillogismi ipotetici, da Aristotele lasciati forse
intenzionalmente da parte, a causa della loro difficoltà; tuttavia, oltre a un
accenno a questi sillogismi, che si trova già nella Topica, è stato in
particolare un certo passo degli Analitici. che ha determinato Boezio e altri a
colmare la lacuna, sebbene neanche per opera loro sia stata ancora raggiunta la
vera compiutezza 624 ). Che Giovanni anche 623) Metnl.. IV, 4, p. 160 [168]:
Trium figurarum subnectil rationes (se. Aristotiles) et qui modi in singulis
figuri* ex complexione extremitatum provenirmi docci : data quidem semente
rationis eorum quos, sicul Boetius asserii (il passo è stato citato più sopra,
Sez. V, nota 46), Theofrastus et Eudcmus addiderunt. Deinde habita modalium
ratione transil ad commixtiones quae de necessario sunl aul contingenti cum his
quae sunl de inesse.... A ec tamen dico ipsum Aristotilem alicubi, quod
legerim, nisi forte quod ad propositum, de modalibus sujficienler egisse ; sed
procedendi de omnibus fidelissimam scientiam trudidit. Exposilores vero divinae
paghine rationem modorum pernecessariam esse dicunt. Et prof celo licei nullus
modos omnes, unde modale s dicuntur, singulatim enumerare sufficiat. quod
quidem ncc ars exigit, tamen magistri scolarum inde commodissime disputali t.
et, ut pace multitudinis loquar, Aristotile ipso commodius [PL] Dialecticam et
apodicticam.... prue cedentia docent ; in his tamen de ipoteticis syllogismis
nichil aut parum est actitatum, Seminarium tamen datum est ab Aristotile, ut et
istuc per industriam aliorum possit esse processus. Cum cairn tam probabilium
quam necessariorum loci monstrati siili, ostensum est quid ex quo sequilur
probabiliter aut necessario. Quod quidem ad vpoteticarum negli Analitici avesse
dinanzi agli ocelli soltanto lo scopo pratico dell’argomentazione, è manifesto
dove fa menzione così della pelino principii B2S ), come pure di alcuni altri
momenti della tecnica, tra cui il procedimento della controprova, per il quale
sceglie il termine « catasyllogismus » «»). Dagli Analitici secondi lia potuto
attingere la conoscenza dei così detti quattro principii aristotelici 6 “'), e
aneli egli è stato inoltre portato a entrare nelle questioni di teoria della
conoscenza, che tuttavia discute assai peggio che non l’autore dello scritto De
intellectibus (note 418 ss.), perchè a un esordio, d’intonazione ancora
abbastanza aristotelica, concernente la percezione sensibile, la fantasia e la
opinione, fa seimUcinm maxime special.... Praeterea Boetius (De syll.
hypothetico ( 1. IL, 01 . 836], p. 609) hoc prò seminio inveniendorum dicit
acceptum quod Aristotile$ ait in Analeticis (v. sopra la nota 522): ..Idem cum
su et non SI', non neresse est idem esse." Ergo ipse et olii (v. la Sez.
XII nota 139) aliquatenus suppleverunt imperfectum Aristotilis in line . parte;
seti quidem, ut michi visum est, imperjecte (sino a qual punto ‘,‘Zn r:r oss I
er ': azione sia v. Md., note 155 e imi [188],Sea forte ab Aristotile de
industria relictus est hic lahor. co quòd plus difficultatis quam utilUatis
videtur habere libcr illius qui dilLenttssime scnpsit. Prof ceto si hunc
Aristotiles more suo exequerelur, vensimile est tantae difficultatis fare
librum ut praeter Sibillam inlelligat nomo. Nec tamen hic de ypotelicis satis
arbitrar expeditum, sudP ien ^ nia vero scolorimi perutilia et necessaria sunt
[PI,. 199 928-01 nota 62BW 5 ' P | 161 t 1 . 7 ?] 1, Adicit (-inai. pr.. II,
16: v. la Sez. IV\ nota 628) et regulampetitwnis principii, quae speculatio tam
demonstraton quam diabetico satis accommodata est ; licei hic probabilitale
gaiiaeat* tue verUatem aumtaxat amplectatur. PL. Segui tur de causa falsae
conclusioni, et catasillogismi (cosi è anche intitolato effettivamente nella
traduzione di Boezio, p. 516 [cap. XX „De falsa ratiocinalione. catasyllogismo
iZlZTu l Z l '° ne ì e l e ' en rt° : PL 64 ’ 7 ° 51 ’ 11 ri8 P««ivo capitolo
AnaL pr II, 19. v. la Sez. IV, nota 631) et elenchi et de fallacia secundum
opinionem (ibid. : nota 634 s.) et de conver sione medi! et extremerum (ibid.,
nota 636 s.), cuius tamen tota utili tas longe commodius tradi potest [PL, 199,
919], w ') Enthct., v. 375 ss. [PL. 199, 973]: Quatuor ista solerei laudem
praeslare creatis : Subjectum, species, artificisque manus. Finis item cunclis
qui nomina rebus adaptat. Arist. Anal. post., II, 11: v la’ Sez. IV, nota 696.
Era pertanto affatto inutile che si mettesse in librila SS U " a
COnOSCenZa ’ P" ài Giovanni, dei guito subito il concetto ciceroniano di
prudenza pratica, al quale viene appresso la concezione platonica della rado i,
per metter capo infine alla sapientia, intesa in senso teologico, come ultima
meta 628 ). Parimente, come tratto dalla conoscenza dei Sopii. Elenchi, posti
da Giovanni a conchiusione dell’Organon aristotelico, potrebbe tutt’al più
essere degno di ricordo il termine « reluclatorius [eluctatorius : v. la nota]
syllogismus), e così pure, come ricavata dairàmbito degli scritti di Boezio, la
menzione delle quindici specie di definizione (v. la Sez. XII, nota 107); e qui
la lettura superficiale del libro di Boezio ha indotto Giovanni a ritenere che
Cicerone abbia composto anche lui uno scritto De definidone 63 °). 6as ) Melai.: Cum sensus
secundum Aristotilem ( Anal. post.) sit naturalis potenlia indicativa rerum,
aut omnino non est aut vix est cognitio, deficiente sensu.... p. 166:
Aristotiles autem sensum potius vim animae asserii quarti corporis passioncm.
Imaginatio itaque a radice sensi!um per memoria’ fomitem oritur. Primum enim
iudicium viget in sensu.... Secundum vero imaginationis est; ut cum aliquid
perceptorum. relenta imagine, tale vel tale asserii, de fiuturo iudicans vel
remoto. Hoc autem alterutrius iudicium opinio
appellalur (così in Boezio si trova tradotto il termine Só^a: v. sopra la nota
19; invece per existimatio v. la nota 423). — 12, p. 169: Prudentia autem pst,
ut ait Cicero, virtus animae, quae in inquisitione et perspicientia
sollertiaque veri versatur. Inde est quod maiores prudentiam vel scientiam ad
temporalium et sensibilium notiliam retulerint : ad spiritualium vero,
intellectum vel sapienliam. Nam de humanis scientia, de divinis sapienlia dici solet.
Ergo et potenlia et potentine motus ratio appellatur. Ilunc autem motum asserii Plato in Politia vim esse
deliberativam animae ctc. Sapendo vero sequitur intellectum, co quod divina de
his rebus quas ratio discutit, intellectus excerpsit, suavem habenl gusta ni et
in amorem suum animas intelligentes accendunt [PL, 199: 921-3, 925, 927], 629 )
Ibid., IV, 23, p. 180 [ed. Webb]: Sicut enim dialecticus elencho, quem nos
eluctalorium dicimus sillogismum, eo quod contradiclionis est,.... utitur ctc.
[PL, 199, 930]. — Cfr. Polycr., II, 27, p. 145 [ed. Webb, I, p. 153; PL, 199,
467], dove, sotto il nome [di syllogismus] „cornutus“, viene messo in opera un
dilemma. oso) Vietai., Ili, 8, p. 141 [147]: Sumpserunt hinc (cioè da Arist.,
Top. VI) doctrinae suae primardio Marius Victorinus et Boelius cum Cicerone,
qui singuli libros dififinitionum cdiderunt. Illi quidem difi . — Alano da
Lilla], Mostra qualche affinità con
Giovanni da Salisbury, nei riguardi della ontologia teologica. Alano da Lilla
[ab Insulis], scrittore tanto scipito quanto affettato (morto intorno al 1200
[circa nel 1203]), a entrambi servendo da comune punto di partenza, circa tali
questioni, la concezione di Gilbert de la Porrée. Alano tuttavia non ba trovato
che valesse la pena di prender in considerazione, neanche a quella maniera che
ci si fa manifesta in Gilberto o magari anche in Giovanni, il valore di questa
ontologia dal punto di vista della logica, dovendo, in ordine a quella,
rimanere riservato ai teologi il compito di giudicare o apprezzare: bensì ba
assunto, nell’ampolloso suo poema « A/iticlaiidianus », rispetto alla logica,
il punto di vista della dottrina scolastica piu volgarmente ordinaria, che ancb
egli ha in buon conto, solamente come mezzo di argomentazione per la battaglia
contro gli eretici). Facendo comparire, analogamente a Marciano Capella, le
sette arti quali figure simboliche, egli, dopo che per prima è stata introdotta
la grammatica, rappresenta, in secondo luogo, la logica come una vergine
estremamente industriosa e solerte, nel cui volto scolorito si scorgono
solamente pelle e ossa, sicché vi si riconoscono le conseguenze delle veglie
trascorse nell’applicazione allo studio 63 -); enumera poi i suoi doni, ch’essa
reca con sé finicndi nomen usque ad quindecim species dilataverunl, describcndi
modns dijfinitionis vocabulo subponentes ; hiiic vero de substanliali praecipue
cura est fPL, 199, 906] (v. la fonte di questo errore alla Sez. XII. note 103 c
106). Anticlaud. (Alani Opp., ed. C. de Visch, Anversa [PL]: Succedit Logicae
virlus arguta, Haec docet argutum JMartem ralionis mire, Adversae parti
concludere, frangere vires Oppositas, parlenupie su ani ratione Uteri :
Eestigare fugarti veri, falsumque fugare, Schismaticos logicce, falsosque
retundere fratres. Et pseudologicos et denudare sophislas [testo cit. secondo
la ediz Wright: Dist. VII, eap. VI, 1 ss.]. 6 ‘-) [PL]: Latius inquirens,
sollers, studiosa, laborans. Virgo secando starlet, intrat penetralia mentis,
Sollicitatque manum, mentem manus excitat, urget Ingenium.... Et decor nella
battaglia per la verità, e tra essi precisamente nomina anzitutto la topica,
con le sue maximae propositiones, a questa intrecciando la sillogistica, come
pure la induzione e Vexemplum: seguono poi la definizione, con inclusa la
descrizione, e la divisione del genere nelle specie, come pure del lutto nelle
parti, e inoltre il ricostituirsi della connessione tra i membri così
differenziati: tutte funzioni, queste, con le quali la logica agisce quale strumento
o chiave della verità, come pure quale arma per tutte le altre arti).
Finalmente Alano, enumerando gli scrittori di logica, esalta Porfirio come un
secondo Edipo, critica Aristotele, per la confusione di parole che ha
introdotta, onde la logica è stata novamente oscurata e velata : ma dopo di lui
è venuto Boezio a riportare nel tutto, luce e ordine). e t species afilasset
virginia arlus, Sicul praesignis membrorum disseril orda. Ni facies quadam macie, respersa
iacerel. Vallai eam macies, macie vallata profunde Su lisi del. et nudis culis
ossibus arida nubit. Ilaec habitu . gesta, macie, pallore, figurai Insomnes
animi motus, vigilemque Minervam Praedicat, et secum vigiles vigilasse lucernas
[Dist.]. [PL]: Monslrat elenchorum pugnas, logicaeque duellum : Qualiter
ancipiti gladii mucrone coruscans Vis logicae veri facie tunicata recidit
Falsa, negane falsum veri latitare sub umbra.... Quid locus in logica dicalur
quidve localis Congruitas, quid causa loci, quid maxima, quid sitVis argumenli,
mattana a fonte locali, C.ur argumentum firmeI locus, armet elenchum Maxima,
quae vires proprias largitur elencho. Cur ligel extremos medius mediator eorum
Terminus, et firmo confibulel omnia nexu...., Qualiter usurpans vires et robur
elenchi Singula percurrit inductio, colligit omne.... Qualiter excmplum de se
paril.... Quomodo diffinit, parlitur, colligit, unii Singula, quaegremio
complectitur illa capaci. Quomodo res pingens descriptio claudit easdem, Nec
sinit in varios descriptio currere vultus. Quid genus in species divisum
separai, aut quid Dividit in partes totum, rursusque renodal, Quae sunt sparsa
prius, divisaque cogil in unum. Qualiter
urs logicae tanquam via, janua, clavis, Ostendil, reserat, aperii secreta
sophiae. Qualiter arma gerii, et in omni militai arte [PL]: Auctores logicae,
quos donai fama perenni Vita, recole.ns defu nctos suscitai orbi. [Illic
Porphyrius directo tramite pontem Dirigit, et monstrat callem quo lector
abyssum latrai Aristotilis, penetrane penetralia libri.] Illic Porphyrius
arcana Passaggio alla letteratura]. Eccoci giunti così al limite del XII 0 e
del XIII° secolo, limite caratterizzato anche dal fatto, che proprio in quel
momento da varie parti è stato recato all’Occidente latino materiale nuovo : la
considerazione di questo deve formare l'oggetto delle due prossime Sezioni,
perchè sia poi possibile distesamente illustrare i vasti effetti di questo
materiale nuovo che ha da sopraggiungere. Per quanto si attiene al progresso
della storia della civiltà, è un fatto che la nostra ricerca, sino al punto a
cui Pabbiamo condotta, non ci ha davvero presentato punti di vista, i quali ci
dian motivo a rallegrarci. Ci siamo sì fatti passare dinanzi multa, ma
certamente non multum. Anzi, persino la conoscenza che un poco per volta si
ridesta, delle principali opere aristoteliche, non è stata feconda di frutti
che meritino di essere ricordati: e al posto di un modo veramente filosofico d’
intendere la logica, quale avrebbe potuto essere determinato dallo studio di
Aristotele, sembrò infine volersi ancora far valere, più che mai di gusto, P
impulso alla retorica pratica. E anche le Sezioni che seguiranno più tardi, ci
faranno, pure in un’epoca in cui uno spirito nuovo spezza le catene della
tradizione e dell’autorità esteriore, assistere, nel campo della logica,
solamente a una ripetizione intensificata di questo giuoco della storia, onde
la logica, frammezzo a molte diverse concezioni, continua sempre a esser di
nuovo cacciata via da una base intimamente filosofica. resolvit, ut alter
Aedipodes nostri solvens aenigmata sphingos, Verborum turbator adest, et
turbine multos Turbai Aristotiles noster gaudelque Intere. Sic logica tractat,
ut non tractasse videtur ; Non quod oberret in hoc, scd quod velamine verbi
Omnia sic velai, Quod vix labor ista revelet.... In lucem tenebrosa rejert,
nova ducit in usum, Exusalque 1 rapo s, in normam schema reducit, Exerit
ambiguum Severinus ; quo duce linquens Natalem linguam nostri, peregrinai in
usum Sermonis logicar virlus, ditatque Latinum. Abbone da Orléans Abelardo
abstractio Adalberone Adamo dal Petit-Pont Adelardo da Balli udjticcnler,
adjacentia aequi pollentia Alano da Lilla Alberico Alberico da Monle Cassino
Alcuino Anonimo, De gener. et specieb. De intellectibus De interprete De unii, et uno San gali.
De p<irt. Loicae SangaU. De
syllog., 115 Anselmo d’AOSTA (si veda) Anseimo il Peripatetico
Anlepraedicamenta antiqui antiqui e moderni Aristotele (nuove traduzioni di)
Arnolfo da Laon Asino (Prova dell’) Bartolomeo Berengario Questo Elenco è
mantenuto ei eli'erano stati segnati dai Franti (N. Bernardo da Chartres
Bernardo da Chiaravalle Bernhard da Hildesbeim, 93. Borgognone da PISA (si
veda) calasyllogismus Categorie colligere concepito conceptus communes
conformilas consimilitudo contingens c possibile copida Cornifieio Costantino
Cartaginese [note] Damiani Davide da Hirsebau Definizione Differenza, v.
Porfirio Diritto (Scienza del), v. Giurisprudenza dividenlia dividuum Drogone
da Troyes eloquentiu eloquentia peripatetica Erico da Auxerre forma subslantialis
formae nativae Formularii ìtro gli stessi limiti, molto ristretti (I. J'.)
Francone da Liegi Fredegiso Fulberto da Charlrcs Gannendo Caunilone Gauslenus
da Soissons Genere (Concetto di), v. Universali Gerberto Giacomo da Venezia
Gilbert de la Porrée Giovanili da Gorze Giovanni da Saiisbury Giovanni Scoto
Eriugena Giovanni Serio Giselberto da Reims Giudizio Giurisprudenza Gualtiero
Mapes, v. Mapes Gualtiero da Mortagne Gualtiero da S. Vittore [nota] Gualtiero
da Spira Guglielmo da Champeaux Guglielmo da Conches Guglielmo da llirscliau
Gunzone ITALO (si veda) Uraliano Mauro identitas Jepa indifferentia
Indifferenza (Dottrina della) individualiter inesse informare Intellettualismo
inlelleclus intellcclus conceptus intellectus coniungens e dividens Josccllinus
da Soissons, v. Gauslcnus Irnerio Isidoro da Siviglia Lanfranco Logica, vecchia
e nuova, v. antiqui c moderni maneries Manerius Mapes malerialite.r imposila
materialum modulis moderni moderni e antiqui, v. antiqui e moderni monstra,
Nominalismo Nominalismo e realismo nominaliter notio Notker Labeone Oddone do
Candirai Onorio da Autun Otloli da Ratisbona Ottone da Cluny Ottone da Freising
Papia Parte (Concetto di) perihermeniae Pietro LOMBARDO (si veda) Pietro da
Poitiers Plutonici Poppone Porfirio (Isagoge di) possibile e conlingens, v.
contingens e possibile postpraedicamenta praedicamentalis praedicari praedicari
in quid [nota] proprium, v. Universali Pscudo-Abclardo Pseudo-Boczio, De Trin.
Pseudo-Boezio, De unii, et uno Pseudo-Erico Pseudo-Hrabano Rainibcrto da Lilla
rntionale Realismo Realismo e nominalismo, v. Nominalismo e realismo Reginaldo
Reinhard da Wiirzburg Remigio da Auxerre res de re non praedicalur Rhahano
Mauro, v. Hrahano Roberto Amiclas Roberto da Melun Roberto da Parigi Roberto
Pulleyn Roscelino Salomone (Glossario di) S. Gallo Scoto Eriugcna, v. Giovanni
S. E. Sensismo aerino sermocinalis Sertoriu9 sex principia significatimi
Sillogismi' (Teoria dei) Sillogismi ipotetici Silvestro li, v. Gerberto Simeone
speries, v. Universali status sumplum syllogismi imperfccti syncalegoreumata
Tendenze contrastanti Teologia Topica Ugo di S. Vittore Ugucrione universale
intelligitur, singultire sentitur Universali (Disputa intorno agli), v.
Tendenze contrastanti Universali in re vcrbaliter, v. nominaliter vocalis voce»
signativae vocis flatus vocum impositìo Volfango da Ratisbona Williram da
Soissons Finito di stampare, in 1500 esemplari numerati, nella Tipografia
Fratelli Stianti in Sancasclano Fai di Pesa Esemplare N. IL PENSIERO STORICO SOTTO
GLI AUSPICI DELL’ENTE NAZIONALE DI CULTURA. CONOSCENZA INCOMPIUTA DELLA LOGICA
LIZIO Delimitazione dell’oggetto e dell’intento della presente ricerca. Si
diffonde nelle scuole lu logica della lorda latinità .La tradizione della
logica scolastica, nei riguardi delle traduzioni di Boezio, è limitata: e
s’ignorutto le principali opere logiche di Aristotele. Atteggiamento della
ortodossiarispettoallalogica L’Isagoge di Porfirio, Miseria del pensiero
medievale. La questione degl’universali determina un contrasto di tendenze nel
campo della logica: prevalenza di un realismo platonico .Pensiero e linguaggio
. Isidoro da Siviglia: Logica e Teologia Compendio di dialettica nelle «
Origine, Altri spunti di teorie logiche . Alenino: sua compilazione di un
compendio di dialettica INDICE DELIE MATERIE Fredegiso da Tours . Pag. 35
Hrabuno Mauro: suoi scritti di sicura autenticità. Il « De TrinUate » del
Pseudo-Boezio, Giovanni Scoto Eriugenu, Sua abilità nella logicu formale
.Posizione dello Scoto, rispetto alla dialettica, Realismo teologico dello
Scoto, il quale tuttavia fu unche mollo conto della Sterilità: tenui tracce di
studio della logica: Poppone a Fulda, Reinhard a W'iirzburg, Giovanni da Garze,
Canzone Italo ( prende cosci mitemente posizione nel contrasto delle tendenze),
Wol fungo a Ratisbona, Abbone du Orléans, Bernward a llildesheim, Gualtiero da
Spira, Gerberto, figura assolutamente insignificante: Materiale degli studi di
storia di logica altemposuo. Lo scritto
«De rationale et ratione uti Adalberone di Laon . Fulberto di Chartres .
Anonimo rifacimento metrico della Isagoge e INDICE DELLE MATERIE XV delle
Categorie, del secolo XI: colorito nominalistico .Intensa attività della scuola
di Sun Gallo. Notker Labeo: Un trattato insignificante Rifacimento delle
Categorie . Rifacimento del «De interpretatione Il «De partibus loicae»:
nominalismo. Scritto anonimo De syllogismis, e sua importanza . » Conclusione .
Altri documrnti relativi allo studio della logica nel secolo XI: Francane u
Liegi, Otloh a Ratisbona, Pier Damiani .Movimento più vivace, la scienza
giuridica l’apia. Anseimo il Peripatetico, Lanfranco, Irnerio; i Formulari .
Movimento più vivace, la teologia. Nominalismo di Berengario nella questione
della Santa Cena, e atteggiamento
Movimento più intenso: grande estensione, e in pari tempo carattere
imilaterale, della letteratura attinente alla logica. Le vicende dello studio
della logica, nel racconto che ne fece Giovanni da Salisbury Contrasto caratteristico fra logica «vecchia»
e «nuova» . La polemica intorno agli tuiiversuli : si può dimostrare che almeno
tredici erano le correnti. xvn nelle quali si dividevano le opinioni su questo
problema. Nominalismo che rasenta il sensismo Grudi vari di questo nominalismo
(Garmondo) La teoria che gli universali sono « maneries »: Uguccione / Platonici: . a) Bernardo da Chartres .
Guglielmo da Conches (e Costantino Cartaginese. Il realismo di Guglielmo da
Champeaux .Le difficoltà e i gradi del realismo Controversie intorno alla
definizione e intorno al concetto di « parte La teoria dello «status», come
tentativo di conciliazione. Gualtiero da Mortagne La teoria della «
indifferenza Adelardo da Balli : intonazione platonica da lui data alla teoria
della « indifferenza Gauslenus o Joscellinus da Soissons: sua idea del
colligere. Lo scritto anonimo « de generibus et speciebus »: punto di vista del
suo autore: Critiche ad altre soluzioni del problema degli universali.
Soluzione da lui stesso proposta . Dottrina del giudizio . Propensione al
platonismo . Controversie sovra punti speciali. Sopra le « Categorie Sopra la
teoria del giudizio in generale Sopra cpiestioni particolari, attinenti alla
teoria del giudizio. Sopra difficoltà inerenti alla teoria del sillogismo . e)
Sopra questioni di Topica .Negli studi di logica, la qualità continua a rimaner
molto al disotto della quantità Abelardo : a) Suo ingegno: caratteristica
generale Scritti di logica . Dialettica e teologia: intimo dissidio della
dottrina di Abelardo) Abelardo aristotelico. Ma il « Peripatetieus Palalinus è
al tempo stesso anche platonico, Nè aristotelico, nè platonico, infine: bensì,
retore, La « Dialettica » è la principale tra le. opere logiche di Abelardo:
disposizione della materia . Esposizione dell’Isagoge o Antepraedicamenta », quale risulta dalle «
Glossae », e soprattutto dalle « Glossulae », « super Porphyrium»:
atteggiamenti polemici sopra la questione degli universali, Soluzione proposta
da Ahelardo: il « sermo praedicabilis) L’universale inteso come « quoti natum
est de pluribus praedicari »: uso di questo principio, secondo lo spirito del
platonismo, Ma dallo stesso principio Ahelardo trae insieme partito, secondo il
punto di vista aristotelico . » 331 n) Ispirazione aristotelica, nel maggior
rilievo dato al giudizio (« praedicari »)) Anche il preteso intellettuulismo di
Abelurdo deriva dal suo aristotelismo) Ma in Abelardo, vero spirito
aristotelico non c’è: il suo interesse centrale è volto, sotto l’impulso di
Boezio e dello stoicismo, alla teoria retorica dell’argomentazione .Continua
l’analisi del contenuto della « Dialettica»: le « Categorie La topica . zi l sillogismi ipotetici.
Giudizio conclusivo sopra l’opera di Ahelardo Accentuazione dell’ aspetto
aristotelico della «Dialettica» di Abelardo: .l Ja B371 In un commento anonimo
del De interpretatione. Nell’acuto untore dello scritto pseiulo-abelurdiano De
intelleclibus, Punto di vista aristotelico, Dottrina del « sermo In Adamo dal
Petit-Ponl prevale la teoriu del giudizio Scetticismo logico di Roberto
Pulleyn: e reazione teologica di Pietro da Poitiers e di Roberto da Melun
Gilberto de tu Porrée: . Il commento al « De Trinitate » del PseudoBoezio:
posizione teoretica ingenua e contraddittoria, Concetto di sostanza. Teoria
delle « formae nativae ». Realismo di Gilberto .I.o scritto « De sex principiis
* : un’abborracciatura . > e) I sei « principii » : « actio, passio, quando,
ubi, situs, habitus » » /) La controversia intorno al « magi» » e al « minus
Ottone da Freising, seguuce di Gilberto. Lo scritto pseudo-boeziano « De
unilate et uno Alberico (da Reims?), a Parigi. WUliram de Soissons. Vari altri
autori, menzionati da Walter Mapes . Il cosi detto Cornijìcius, oggetto della
polemica di Giovanni da Salisbury . Giovanni da Salisbury: a) I suoi studi: il
« Metalogicus Punto di vista utilitaristico, alla muniera di Cicerone. La
divisione del sapere. Punto di vista
retorico, come in Cicerone. Grammatica e dialettica. Conoscenza compilila dell
« Organon ». Punti di contatto con Abelardo, soprattutto nel modo di intendere
e giudicare l’opera logica di Aristotele . Pag. 430 e) La « ratio
indifferentiae » come indifferentismo antiscientifico, L’Isagoge, Concezione
degl’universalia in re, Grossolano eclettismo, nella questione degli universali,
Concetto indeterminato di « notio, Le Categorie, Teoria del. Giudizio, Topica,
sillogistica, teoria dei sofismi Uno scritto insignificante di Alano da Lilla, Passaggio
al XIII secolo. LA LOGICA MEDIEVALE
CONOSCENZA INCOMPIUTA DELLA LOGICA ARISTOTELICA NEL PRIMO MEDIO EVO
Delimitazione dell’oggetto e dell’intento della presente ricerca]. Saggio su
PRANTL, STORIA DELLA LOGICA IN OCCIDENTE NELL’ETÀ MEDIEVALE. LA NUOVA ITALIA
FIRENZE. La Geschichte der Logik ini Abendlande, di Prantl, curata da Fock a
Lipsia, è divisa in parti. La prima ha por oggetto lo svolgimento della Logica
nell’Antichità. Gli fecero sèguito una seconda parte dedicata alla Logica nel
Medio Evo. In una Collezione, che ha per suo programma di rendere largamente
accessibili ai filosofi italiani quello grande saggio di esplorazione e
ricostruzione della storia della filosofia, che sono imperitura gloria della
cultura, doveva esser fatto luogo a un classico trattato qual è questo del
Prantl. Per ragioni editoriali l’ordine di apparizione dei volumi della
traduzione italiana non corrisponde all’ordine di successione del saggio
originale: e si è dovuto dare la precedenza al Medio Evo, la quale forma un
tutto unico e continuo, dotato di una certa autonomia. Alla traduzione del
primo volume che vedrà successivamente la luce, diviso in due o tre tomi, sarà
premesso un discorso introduttivo intorno all’Autore, e alla importanza e.
vitalità della sua opera: bastino qui brevi cenni, a giustificare il lavoro e a
render ragione dei criteri adottati dal Traduttore. Il disegno di Storia della
Logica Medievale presentato dal Franti non è stato sostituito da opere più
recenti: il suo intento, di risparmiare, almeno per lungo volger (Tanni, agli
studiosi venturi, la immane fatica di riprender ex novo l'argomento,
rifacendosi direttamente dalle fonti, è stato raggiunto: e il trattato è ancor
oggi cosa viva, sì che nessuno studioso, mettendosi, con un suo particolare
obbietta, a lavorar attorno a questa materia, può far a meno di ricorrere e di
ricollegarsi a quello: è, a giudizio di CROCE, il solo, tra i libri special,
recanti il titolo di Storia della Logica, che, fondato sopra lunghe ricerche,
sia veramente insigne per dottrina e per lucida e animata esposizione. Animata,
vorrei soggiungere, ancor più che lucida: non di rado, in venta, la espressione
è negletta e contorta, e la perspicuità e sacrificata alla rapidità e alla
efficacia: lettura dunque, non tutta agevole, ma tale da far desiderare una
versione che, se non sembri troppo ambizioso il proposito, elimini almeno in
parte, pur attenendosi con scrupolosa cura di fedeltà all'originale, quelle
cause che non possono non render ostica a noi Italiani la greve prosa * f-CXC
SC Q, Dei progressi che gli studi son venuti facendo in questi cinquant anni si
doveva naturalmente tener conto, ma senz alcuna intenzione di metter assieme un
Prantl nuovo, in luogo di ri presentare nella sua integrità il I rantl vecchio:
e la questione era soltanto del modo piu opportuno di far posto a quel
pochissimo ch'è del traduttore, nella poderosa costruzione innalzata dall
Autore. i\on era dunque il caso di contrapporre all'atteggiamento che il Pronti
assunse, con icastiche espressioni di disprezzo, di fronte al pensiero
medievale, un giudizio valutativo diverso o per lo meno più temperato: anche se
nessuno si sentirebbe disposto a ripetere senza riserve che una filosofia
medievale non c'è stata, intensificandosi anzi da molte parti lo sforzo di
rintracciare nel Medio hyo anticipazioni e presagi del pensiero moderno, il
giudizio del Prantl va conservato in tutta la sua crudezza, per lo meno quale
documento significativo di un momento importante nella storia della cultura:
d'altra parte, in antitesi con la corrente che, sempre tendenziosamente
talvolta nostalgicamente, porterebbe ad abohre la differenza tra Medio Evo ed
età moderna, o a sopravvalutare quello, a tutto danno di questa, può avere
virtù correttiva, od operare come reazione salutare, la ricomparsa dell'opera
di un eminente ricercatore., il quale, proprio studiando lo sviluppo di quella
disciplina filosofica che fu più largamente e appassionatamente coltivata nella
età di mezzo, ne trasse occasiime a rivelare lo spirito medievale nel suo
aspetto deteriore: quasi si direbbe ch’egli si fosse accinto all’ardua impresa
di esporre classificare giudicare i cultori illustri e oscuri della logica nel
Medio Evo, con la persuasione di vedersi dispiegare dinanzi agli occhi un
panorama tanto interessante quanto poco conosciuto, e tale comunque da
compensare il travaglio della indagine: e nei giudizi recisamente svalutativi
da lui pronuziati nei riguardi di quasi tutti gli autori che ha studiati,
diresti di sentire la eco di un’amara delusione o un movimento di dispetto, se
non addirittura l’accento scorato di chi è tratto ad esclamare: «et oleum et
operata perdi di » ! Rimaneggiare l'opera di Prantl, conservando immutate
quelle sole parti che han conservato oggi tutto il loro valore, e sostituendo
integrando rifacendo quelle che appaiono antiquate o inadeguate, sarebbe stato
in contrasto con l’indirizzo al quale, come s’è accennato, la Collezione si
attiene: il rispetto dovuto alle opere in essa incluse, ne esige la
riproduzione compiuta, senza modificazioni o mutilazioni, che han sempre l’aria
di manomissioni arbitrarie. Primo dovere era quello di rivedere l’ingente
materiale accumulato nelle numerosissime note, che prevalgono per ampiezza
sopra il testo del Prantl: poderosa raccolta di testi accortamente scelti,
della quale riconoscono l'incomparabile valore anche i meno disposti a seguire.
l’Autore ne’ suoi apprezzamenti e nelle sue interpetrazioni. È Prantl uno
studioso di esemplare diligenza, e fa veramente, maraviglia che, con lina
smisurata mole di lavoro, egli sia soltanto eccezionalmente incorso in errori
di trascrizione, sviste nella correzione delle bozze, inesattezze nelle
citazioni e nei rimandi. Ma alcune mende s’è pur dovuto rilevare, che, com’era
inevitabile. sono state naturalmente travasate tutte quante nel « Manuldruck.
In una traduzione, invece, bisognava procurare di eliminarle, e riscontrar le
citazioni, una per una, con i testi, per ottener la massima possibile
correttezza, evitando altresì che, come pure in alcuni luoghi è accaduto all
Autore, la trascrizione frammentaria possa alterare o non render intiero il
pensiero dello scrittore: si direbbe che il Franti qualche volta prendesse
frettolosamente le sue note dai testi da citare, e poi le trascrivesse per la
stampa, senza più darsi pensiero di collazionarle con l originale. Inoltre, era
suo costume di servirsi a caso di una o altra edizione che trovava, per ciascun
autore, consert ata nelle Biblioteche di Monaco, rendendo così a noi, molto
spesso, difficile il riscontro delle sue citazioni con i testi originali da lui
usati: era dunque necessario non solamente emendare e aggiornare le citazioni,
ricorrendo, ogni qual volta fosse possibile, a edizioni moderne criticamente
condotte, ma inoltre sodisfare una esigenza di uniformità e di unificazione,
aggiungendo a ciascun passo il riferimento al luogo corrispondente di un grande
repertorio, largamente diffuso e facilmente accessibile, qual è la Patrologia,
Greca e Latina, del Migne (designata nelle note, tra parentesi quadre, con la
sigla PC o PL, seguita in cifre arabiche dalla indicazione del volume, poi
della colonna o delle colonne corrispondenti). Testi che il Franti aveva potuto
conoscere solamente di seconda mano, riferendoli secondo le parafrasi di
benemeriti studiosi francesi, son oggi editi, e dovevano naturalmente venir
citati anche nella forma originale, così rendendosi manifesti i
progressirealizzatinella conoscenza di scrittori, quali Adelardo e Abelardo.
Successivamente alla comparsa del secondo volume (seconda edizione) della
Storia del Pronti, la letteratura concernente gli Autori da lui studiati si è
venuta accrescendo in misura molto rilevante: e non c’è forse un solo scrittore
o argomento, per il quale non si rendano necessarie allo studioso informazioni
bibliografiche supplementari: ma si è voluto evitar di gonfiare la mole della
traduzione, introducendovi dati che ciascuno può facilmente trovare raccolti in
opere di uso comune, universalmente apprezzale per ricchezza ed esattezza
d’indicazioni, qual è, per citare la più nota, il Manuale d’Ueberweg, nelle più
recenti edizioni curate dal Paumgartner e dal Geyer. Questioni che si giudicano
definitivamente risolte, in senso contrario alle tesi sostenute dal Pronti —
quelle, per esempio, che riguardano l’autenticità degli scritti teologici di Boezio,
o le relazioni tra le Summulae » di Pietro Ispano e la Sinossi di Psello — non potevano venir qui dibattute:
e al lettore basterà veder accennato il presente stato delle questioni stesse.
I volumi del Pronti son tipici esemplari dell arte tipografica tedesca, intorno
alla metà del secolo scorso: pagine massicce, caratteri minuti, scarsità di
capoversi: tutto quelchecivuole,perdisvogliaredalla lettura, o per renderla più
che mai fastidiosa. Ben diverso è l’aspetto delle pagine della traduzione: la necessità
di conformarla al tipo prescelto per i. volumi precedenti della Collezione,
portava di necessità a un considerevole aumento di mole, in confronto con
l’originale: e s è dovuto ripartire in tre volumi la materia compresa dal
Pronti nel secondo e nel terzo volume: effettivamente le due ultime Sezioni del
secondo volume del testo, la XV a («Influsso dei Bizantini») e la XVI a
(«Influsso degli Arabi»), trovano il loro posto più adatto, meglio che nel
presente volume, in quello che gli farà sèguito: non servono di conchiusione.
alla Storia della Logica, ma d’introduzione alla Storia della Logica nel XIII 0
secolo: e formeranno dunque opportunamente, insieme con l’amplissima Sezione
XVIP, il contenuto del prossimo successivo volume. Ho avuto cura di render sensibile
al lettore come si compartisca e articoli la trattazione del Prantl,
moltiplicando i « da capo », e soprattutto dividendo e suddividendo in
paragrafi le varie Sezioni, ciascuna delle quali forma nel testo un tutto
compatto: una modificazione, questa, che osiamo sperare sarà apprezzata
segnatamente dagli studiosi, quando ricorreranno al libro per consultazioni e
ricerche particolari. I titoli dei paragrafi e sottoparagrafi corrispondono
inpartealleindicazioni che il Prantl ha raccolte nell’ Indice delle Materie, e
anche riprodotte in capo alle pagine, in parte sono state aggiunte dal
Traduttore, il quale ha cercato di tener distinta, compilando l’Indice stesso,
una dall’altra parte, mediante l’uso di tipi differenti. Di regola, e nel corso
dell’intiero lavoro, ha incluso tra parentesi quadre tutto ciò ch’è aggiunta
sua, dichiarativa o emendativa o integrativa, evitando tuttavia di esporsi alla
taccia di pedanteria con una frappo minuta registrazione delle varianti:
solamente il raffronto fra i testi quali sono riferiti nell'originale e nella
versione potrebbe, a chi volesse, fornire la misura della pazienza che ha
richiesta la revisione dell’estesissimo prezioso materiale. Il traduttore non
s’illude di esser riuscito a evitare errori e sviste nel lavoro di versione,
trascrizione, rettificazione: ma ha coscienza di aver fatto tutto quello che
stava in lui, per ridurli al minimo: è grato a quanti gli hanno agevolato le
ricerche, condotte per lungo periodo di tempo, presso Biblioteche italiane e
straniere: in particolare ringrazia l'insigne collega Mons. Geyer della
Università di Bonn, che gli ha liberalmente offerto ospitalità nella sede
dell’Albertus Magnus Institut di Colonia. Nell’attendereaquestanuova edizione
riveduta, era mio primo dovere, come ben s*intende, di adeguarla alla presente
condizione degli studi: e sebbene non sieno stati molto numerosi i contributi,
recati negli ultimi ventiquattr’anni allu storia della logica medievale,
bisognava certamente trarne profitto con la massiina accuratezza. Ma la nostra
conoscenza attuale della letteratura logica di quell’epoca presentando pur
sempre, sovra punti particolari, varie lacune, sarei lieto di dare rinnovellato
impulso alla pubblicazione di testi supplementari, quali appaion desiderabili,
tratti dai preziosi fondi manoscritti delle Biblioteche. Questo augurio vale
ancor oggi segnatamente nei riguardi della questione pselliana [sopra la quale
son da vedere le Sezioni XV e XVII, nel volume successivo di questa versione],
clic io sono bensì convinto di avere oramai risolta in linea di principio, ma
che debbo tuttavia qualificare come una questione aperta, in quanto che
presentemente ci manca tuttora la conoscenza degli anelli intermedi, che si
erano avuti antecedentemente su terreno bizantino. Pbantl. Monaco di
Baviera.Relativamente al Medio Evo si trattava ancora di studiare criticamente
tutto quanto il' materiale accessibile, come pure di rintracciare la linea
effettivamente seguita dal corso della storia. E, per quest’ultimo rispetto, si
rese subito manifesto che proprio la storia della logica può aver il compito di
correggere o di compiere la conoscenza della così detta filosofia del Medio
Evo. A quel modo cioè che, in ordine alla controversia intorno agli universali,
è venuta in luce una varietà di tendenze contrastanti. della quale finora non
si aveva la idea, — così si .è potuto in compenso non soltanto delimitare
esattamente, in quale misura fosse, in quei secoli, conosciuta la letteratura
logica, ma anche fornire la dimostrazione incontestabile, che nell’intiero
Medio Evo, senza eccezione di sorta, non c’è stato un solo autore che abbia
cavalo fuori dalla propria testa un pensiero che fosse suo: bensì la
letteratura di quell’epoca era tutta dipendente e condizionata dalla estensione
di un materiale preesistente, trasmesso per tradizione. Soltanto sobbarcandomi
alla fatica indicibile di sollevare e di risolvere, quasi direi frase per
frase, la questione della fonte dalla quale la frase! fosse stata ricavata,
sono riuscito a esporre in maniera obbiettivamente esatta il corso della
evoluzione; e anche quella sola volta che (cioè a proposito di Escilo) non sono
stalo più in grado di dar una risposta a quella domanda « Di dove? », non è già
che su questo punto resti da ciò alterata la giustezza della mia tesi generale,
ma in quel caso speciale semplicemente manca alla ricerca il materiale
necessario. Se del resto io per principio mi sono limitata a quella produzione
letteraria, che abbiamo a nostra disposizione in pubblicazioni a stampa, sono
tuttavia contento di ammettere la possibilità che da varie Biblioteche,
utilizzandosi materiale manoscritto, vengano tratti alla luce elementi per
rettificare o integrare la mia ricerca, e anzi in più luoghi ho espressamente
formulato l’augurio che ciò awengà. Purtuttavia in un caso soltanto ho derogato
a quel mio principio: da manoscritti parigini, additati dall’ Hauréau, ho
potuto cioè desumere con gioia ch’era mio dovere addurre il materiale che ivi
si trova; poiché n’è derivata luce, non meno nuova che interessante, sopra la
relazione di Psello con Pietro Ispano, o piuttosto con i predecessori e
contemporanei di quest’ultimo: un risultato, al quale non si sarebbe mai potuti
pervenire, con la letteratura a stampa. | Il l J rantl allude qui munì
lestamente a scritti inediti di Guglielmo da Shyreswood e di Lamberto da
Auxerre, dei quali tuttavia egli si è giocato non per il 2”, ma per il 3"
volume di questa sua Storia. Si veda, nel volume successivo della presente
traduzione italiana, la Sezione XVII J. Se i passi delle fonti, copiosamente
riportati nelle Note, sembrano spesso (particolarmente nella Sezione [la XVI':
vedi il voi. successivo della traduzione ] che tratta degli Arabi) contenere
più ancora di quel che ho esposto nel testo, il lettore vorrà scusarmene, considerando
che io mi sono sempre sforzalo di attenermi alla massima possibile brevità, e
che pertanto mi son provato a presentare nel testo non una semplice traduzione
e neanche un riassunto, bensì la intima essenza dei passi originali. Al
medesimo intento di brevità servono anche i numerosi reciproci rinvii, nei
quali il lettore vorrà ravvisare non un ozioso abbellimento, o imbruttimento,
ma un mezzo compendioso di tener dinanzi agli occhi in molti casi una più ampia
connessione. Monaco di Baviera. Le difficoltà che s’incontrano in una
rassegna del ‘positivismo’ italiano dipendono, in primo luogo, dall’incerto
significato del nome stesso, onde puo essere ugualmente designate come
POSITIVA, filosofia -della quale sembra più interessante mettere in luce le
caratteristiche differenziali che non i tratti comuni. I positivisti non si
definiscono come tali per la concorde adesione a una rigida dottrina, o per la
collaborazione consapevole alla costruzione di un sistema ben determinato: si
tratta piuttosto di un indirizzo metodico, di una forma mentale che impronta di
sè non solamente la ricerca filosofica propriamente detta, ma l’intiero mondo
della cultura. Il positivismo ripone e ricerca la verità nel fatto, intende la
conoscenza come relativa, la esperienza come unica fonte del sapere e ultimo
criterio della certezza, ritiene che la cognizione filosofica non sia diversa
per natura dalla scientifica, e anche non possa se non prepararla e integrarla,
assume di fronte ai problemi della metafisica un atteggiamento agnostico o
semplicemente negativo, concepisce la natura come universale meccanismo,
escludendone la teleologia e, pure affermando la irreducibile diversità della
materia dallo spirito, non crede che da ciò rimanga spezzata la unità e
interrotta la continuità del reale, interpetra il mondo dei valori come
prodotto della evoluzione psicologica, e dei valori stessi domanda la
spiegazione e la giustificazione alle leggi della psicologia. Ma l’accordo —
che può anche essere parziale — sopra questi principii non esclude la
possibilità di svolgimenti molteplici e autonomi, perchè i principii stessi
valgon piuttosto a dirigere nella selezione e nella discussione dei problemi,
che non ad anteciparne in concreto la soluzione: onde, chi voglia essere
cronista esatto del vasto e vario movimento, si trova di necessità a
ravvicinare pensatori che si sono reciprocamente ignorati e che proverebbero
senza dubbio grande maraviglia di trovarsi messi insieme: particolarmente in
Italia il positivismo è affermazione perenne della libertà filosofica, sì che
sembra vano ogni tentativo di esprimerlo con una formula, e si manifesta la
necessità di determinarne la fisionomia, considerando in modo distinto la
operosità de’ suoi seguaci. E tale necessità risulta ancora dal fatto che nella
maggior parte dei positivisti italiani, sopra il gusto delle costruzioni
sistematiche, ha prevalso la tendenza a esplorare determinati campi della
indagine: e però limitarsi a registrare le concezioni generali del mondo e
della vita, trascurando i contributi recati da più modesti studiosi alle
scienze filosofiche speciali, equivarrebbe a dare del movimento una idea
affatto inadeguata. Inoltre, appunto perchè in alcune almeno tra le
fondamentali assunzioni del positivismo possono, senza chiaro intendimento del
loro più profondo significato, consentire anche quegli scienziati che sono
affatto estranei agl’interessi speculativi, avvenne che si decorasse del nome
di positivismo anche la loro afilosofia, che fu qualche volta, per dirla con
Bruno, la loro filasofia, cioè una metafisica grossolana, ingenua sino alla
inconsapevolezza, e di gran lunga peggiore di quella metafisica contro la quale
il positivismo era sceso in campo: positivismo non può infatti essere ignoranza
della tradizione metafisica e incapacità d’intenderne le ragioni, bensì
dev’esspre revisione critica dei postulati assunti e dei metodi tenuti dalla
metafisica stessa. Eppure in un quadro sommario che aspiri a riuscire completo,
anche queste manifestazioni di pensiero più povere di critica hanno il loro
significato e debbono trovare il loro posto. D’altra parte, in Italia, in
questi ultimi anni, le fortune della filosofia idealistica, soprattutto nella
sua forma attualistica, indussero i dissenzienti a costituire una fronte unica
contro una dottrina che romanticamente presentava la filosofia, piuttosto come
opera di fantasia e prodotto di subbiettiva ispirazione, che non come
sistemazione di conoscenze vere: e il comune, se pur tutt’altro che uguale,
atteggiamento di opposizione e di reazione, ebbe come conseguenza che
tendessero a obliterarsi i caratteri differenziali del positivismo da altri
indirizzi. A far la rassegna dei filosofi che pròfessano oggi di essere
positivisti, si sarebbe indotti a conchitidere che i « quadri » non sono stati
mai poveri come adesso : eppure mai come in questo momento è apparsa chiara la
influenza del positivismo sopra la educazione mentale e la posizione dottrinale
di quei pensatori che non si sono ralliés alla filosofia di moda. Il periodo
storico che qui si considera, coincide con il cinquantennio dell’attività
filosofica di R. Ardigò; questi, nato a Casteldidone, pubblica La psicologia
come scienza positiva », segnandovi le linee fondamentali della sua dottrina,
già preannunziata l’anno precedente, quand’egli era ancora prete, nella
commemorazione di Pomponazzi — e morì a Mantova, avendo atteso fin quasi
all’ultimo giorno, all’opera sua di scrittore. Ma alla costruzione del sistema
ardighiano erano precorse in Italia altre manifestazioni di pensiero
positivistico. Il sorgere e vigoreggiare della filosofia del fatto si lega in
Italia come all’estero, a ragioni complesse, fra le quali prevalgono i
maravigliosi progressi della scienza, nell’ordine cosi delle invenzioni come
delle scoperte, il fervore degli studi storici, la reazione contro le
intemperanze del pensiero metafisico, il disgusto dei sistemi dogmatici. Le
origini prossime del movimento positivista sono da ricercare nella scuola di
Romagnosi, dalla quale uscirono Ferrari e Cattaneo. Ma Ferrari, rappresentante
di un fenomenismo estremo che reca le tracce d’influenze discordi e tende a
sboccar nello scetticismo, non orientò il suo pensiero verso il positivismo
così decisamente come il Cattaneo: questi è comunemente riconosciuto come
l’iniziatore del movimento e il più ef. ficace banditore della dottrina. Nel
Cattaneo, patriotta insigne, cittadino intemerato, scrittore magnifico, mente
poliedrica, si manifesta l’interesse per la glottologia, la storia e la
politica, la demografia, la economia e la organizzazione tecnica della
industria e dell’agricoltura: ne’suoi scritti filosofici, non ammette
conoscenza che non sia di fatti, e attribuisce alla filosofia una funzione
sintetica rispetto alle altre scienze: raccogliendo la eredità del Vico, pone
come fondamentale il pro-^ bleina deH’incivilimento: la civiltà è opera
dell’uomo; ma l’Uomo dei metafisici è una finzione mentale, che non può
adeguarsi alla varietà e alla concretezza del mondo umano; la psicologia
individuale deve integrarsi nella psicologia sociale, o psicologia delle menti
associate; mente non si dà, nè funziona e si forma se non in un giuoco di
azioni e reazioni, che, poiché i conviventi operano uno sopra l’altro e ogni
generazione scomparsa sopra le successive.] è a un tempo il fondamento della
unità sociale e della continuità storica. La dottrina del Cattaneo s'intona al
positivismo del Comte e all’umanismo del Feuerbach, sebbene si sia costituita
in perfetta indipendenza dall'uno e dall’altro, e contiene germi che dovranno
maturare nella filosofia dell’Ardigò (« Opere edite e inedite di Cattaneo).
Maestro acclamato e autorevolissimo nelle scienze storiche, Villari, che aveva
mostrato, nel « Saggio sull’origine e sul progresso della Filosofia della
Storia, di risentir la influenza di Comte e Mill, illustrò e favori («La
Filosofia positiva e il metodo storico) l’indirizzo storico già prevalente
nelle scienze morali, sostenendo che queste non avrebbero potuto fiorire come
le scienze naturali, se non ne avessero fatto proprio il metodo, positivo o
sperimentale. La influenza esercitata dalla divulgazione della dottrina
darwiniana, che apriva nuovi orizzonti agli studi biologici ed ebbe fra noi il
suo apostolo più fervido in Canestrini ( « Antropologia » La teoria dell’evoluzione esposta ne’ suoi
fondamenti La teoria di Darwin), è manifesta negli scritti di Tommasi, medico
insigne che promosse il progresso delle scienze biologiche dallo stato
metafisico allo stato positivo, e ammoniva i discepoli a porsi dinanzi ai
problemi della natura, con l’animo sgombro da ogni apriorismo dottrinale e
metodico. Il suo naturalismo è concezione della filosofia come organamento del
sapere scientifico, è realismo rigoroso, che tende a identificarsi con il
materialismo, e non meno rigoroso empirismo: è evoluzionismo che esclude da sè
ogni teleologia («Il naturalismo moderno, Il rinnovamento della medicina in
Italia). Positivista fu pure Cantani, collega del Tommasi e suo successore
nella clinica di Napoli. Il positivismo italiano non è tutto nella dottrina d’Ardigò
e della sua scuola: ma l’Ardigò ne è, per concorde giudizio, la figura più
rappresentativa. Di lui gli undici volumi delle Opere Filosofiche rispecchiano
il genio speculativo e l’animo candido e generoso, la fede inconcussa nel Vero
e il culto operoso dell’ideale etico, celebrato nella esemplare austerità della
vita. Il positivismo del Comte era stato giudicato impari, se pur non affatto
insensibile, alla esi genza gnoseologica: nè questa era sodisfatta, in modo
positivo, dalITnconoscibiie spenceriano, che rappresenta ancora una entità
ontologica, onde si mantiene l’antitesi di sostanza e di fenomeno, e il
fenomeno è un relativo che postula un Assoluto e trova alla soglia di questo il
proprio limite: il sistema dell'A. si forma fuori da ogni diretta influenza di
queste dottrine, per la rivoluzione che lo studio delle scienze naturali opera
nella sua mente, resa, da lunga consuetudine, familiare con i classici della
teologia e della metafisica: il distacco dalle vecchie credenze non è
definitivo, fin ch’egli non ha trovato la soluzione del problema gnoseologico,
e non ha inteso come si possa spiegare la origine delle idee, senza ricorrere
alla trascendente facoltà dell’intelletto. La posizione centrale assegnata alla
teoria della conoscenza è la caratteristica più significativa del sistema
dell’A. « Non è senza significato che il positivismo assuma in Italia, quasi al
suo apparire coll’A., fisonomia spiccata di naturalismo sistematico affrontando
subito il problema dell’infinito cosmico e traducendone la visione in una
concezione organica dell’universo, e che in questa, come unicamente esteriore
ed obiettiva non si acqueti, ma la integri subito colla ricostruzione sintetica
dell’uiiità della coscienza, e invece che tener separata la questione
gnoseologica dalla cosmologica trasfonda l’una nell’altra creando un nuovo
concetto si della natura, sì dell’esperienza, tale che l’uria dall’altra non si
separano se non per distinzione sopravveniente; questo non è il positivismo di
Comte, nè quello di Spencer, è il positivismo di un popolo ove è indigeno il
naturalismo del Rinascimento» (Tarozzi). Il fatto è divino, i principii sono
umani: ma il fatto primo e assolutamente certo, per la consapevolezza immediata
che ne abbiamo, è il fatto di coscienza, la sensazione: la esperienza che sta a
fondamento di ogni verità e che non si può tentar di trascendere senza
trascorrere dal reale nel chimerico, è esperienza psicologica. Il monismo
dell’A. che elimina ogni residuo di trascendenza, esclude come fantastica così
la contrapposizione dell’oggetto al soggetto, come l’annichilazione
dell’oggetto nel soggetto; e sfugge al pregiudizio del realismo ingenuo senza
incorrere nei sofismi del soggettivismo radicale. La contrapposizione è fra
termini di pensiero, fra gruppi di sensazioni: la sensazione afferma se stessa
assolutamente, il conoscere non si deve che alla sua virtualità; ma la
sensazione, e l’attività psichica in generale, ponendosi, si sdoppia in due
mondi, per il doppio sguardo (diblemma psicologico) onde si compie da un lato
la sintesi delle sensazioni interne (Autosintesi, Me), dall’altro, la sintesi
delle sensazioni esterne (F.terosintesi, Non-Me): le sensazioni non sono per se
stesse nè interne nè esterne, ma il differenziamento si opera, per la
specificazione degli organi di senso e per il contrastare di attività stabili e
costanti, ad altre accidentali e intermittenti. La sensazione, in quanto tale,
è solo quello che è essa stessa in se medesima; ma la reciproca integrazione
delle sensazioni pertinenti a sensi diversi (le quali son tutte fra loro
incommensurabili o reciprocamente trascendenti), converte la sensazione in
percezione, aggiunge alla osservazione l’esperimento («Il fatto psicologico
della percezione). Ed è un imperativo logico la sensazione, non soltanto in se
stessa, in quanto conoscenza assoluta o posizione di se medesima, ma anche come
percezione, o conoscenza relativa e posizione della propria causa: si definisce
cosi la oggettività del sapere, mentre si evita l’errore di risolvere il
soggetto nell’oggetto. La conoscenza è relativa, ma non perchè abbia il suo
termine antitetico in un Assoluto che trascenda la esperienza e figuri come
possibile oggetto di una Mente sovrumana, bensì per quel rapporto
d’irreducibilità che il pensiero stesso pone fra i propri termini sensibili, e
che, come tale, è noto («L’Inconoscibile di Spencer e il positivismo). La
materia non farà mai conoscere lo spirito, nè lo spirito la materia: ma la
trascendenza così intesa, in senso affatto diverso dal tradizionale, non
esclude la fondamentale unità, che è l ’indistinto sottostante ai distinti (Me
e Non-Me) che vi si costituiscono, collegandosi in un organismo logico unico.
«L’unità dell’indistinto sottostante alla molteplicità dei distinti, e la
continuità del processo della duplice distinzione ('spaziale e temporale)
caratterizzano la concezione naturalistica del cosmo » (Marchesini). È una
formazione naturale la psiche, e la legge della distinzione, che ne spiega
l’essere e ne domina lo sviluppo, è legge di tutte le formazioni nelle quali si
specifica la realtà: la preminenza e la priorità del problema gnoseologico
rispetto a tutti gli altri problemi filosofici si esprimono nel fatto che
appunto dallo studio del fenomeno cogitativo induttivamente si ricava il
concetto della natura come indistinto, matrice onnigena inesauribile, infinita
virtualità di successivi che si realizza nella infinità dei coesistenti. Il
processo dall’indistinto al distinto è governato dalla legge del ritmo, la
quale spiega come ogni formazione naturale debba sempre essere un ordine, malgrado
le accidentalità proprie di ogni ordine dato, che è sempre l’effettuazione di
uno tra infiniti altri possibili. Per la universale ritmicità si ha infatti
nella natura non il caso, ma la cosa e il fatto, il tipo e la legge, l’impero,
dunque, della causalità; ma causalità non è forma a priori dello spirito, nè
semplice successione che generi per abitudine l’attesa del riprodursi del
passato; l’idea di causa è una formazione naturale endogenetica per
l’esperienza subita dal mondo esterno, onde avvertendo costantemente una
determinata successione, siamo costretti ad ammettere che il fatto precedente
ha in sè una condizione e ragione di causare: ogni fatto, dunque, emerge in
modo necessario dall’indistinto che lo determina. Ma, d’altra parte, la
necessità non esclude il caso, perchè l’ordine si attua in seno all’universo
che è infinito: onde il fatto può a un tempo dirsi, per la sua intrinseca
necessità, equazione del determinato, e, per la imprevedibilità della sua
determinazione necessaria, equazione dell’infinito: poiché l’indistinto non è
un sistema chiuso, il distinguersi di uno o dell’altro ordine è casuale. Il
determinismo non elimina dunque la casualità, nè semplicemente l’ammette come
espressione della nostra ignoranza: ma la riconduce alla varietà infinita che è
un positivo aspetto della realtà, non meno che la causalità: il caso è
l’effetto prodotto per necessità naturale da una causa imprevedibile,
assolutamente parlando, e quindi non assegnabile, o non fissata nella stessa
natura, a motivo dell’infinità del suo principio, non solo nei momenti del
tempo, che è senza limiti, ma anche negli elementi costitutivi, eccedenti ogni
confine di spazio (« La formazione naturale nel fatto del sistema solare; la
trilogia: « Il Vero» «La Ragione»
L’Unità della Coscienza). E’ una formazione naturale anche la filosofia, che
non soltanto ha funzione coordinatrice e sintetica rispetto alle scienze, ma è
la matrice perennemente feconda del sapere scientifico e dei problemi che alla
scienza appartiene di risolvere. Come l’indistinto si specifica, per un
processo di ascendenza dinamica, nei sistemi ritmici, corrispondenti a gradi
sempre più alti di autonomia, cosi la filosofia si viene differenziando nelle
discipline speciali che in essa si unificano e di essa risentono l’azione
propulsiva (« Lo studio della Storia della filosofia Il compito della filosofia
e la sua perennità). Sopra i contributi recati dall’A. alle distinte scienze
filosofiche non posso intrattenermi qui: basti ricordare come il suo realismo
psicofisico e il prevalente interesse gnoseoiogico lo abbiano portato alla
costruzione di un sistema di psicologia, dove la unità della coscienza figura
come idea direttrice, e la critica del vecchio associazionismo prepara la
teoria della confluenza mentale — come inoltre sovra basi fisiopsicologiche si
eriga una concezione della vita morale, nella quale la impulsività della
sensazione è assunta a spiegare la imperatività della idealità sociale
antiegoistica (« La Morale dei positivisti) — come, ancora, la morale s’integri
in una sociologia che è piuttosto una filosofia del diritto, o lo studio della
formazione naturale della Giustizia, intesa come forza specifica della società
(Sociologia) — come infine le dottrine fondamentali si coordinino e sbocchino
in ima pedagogia, che pone l’esercizio a fondamento cosi della educazione
intellettuale come della educazione morale (La Scienza dell’educazione).
Ardigo, prof, di storia della fil. a Padova, fu un caposcuola, e fra i suoi
discepoli vogliono essere ricordati in primo luogo Marchesini, Dandolo,
Tarozzi, Ranzoli, Troilo. MARCHESINI (vedasi), prof, di ped. a Padova,
fondatore e direttore della « Rivista di Filosofia, pedagogia e scienze affini,
illustrò la figura del Maestro e ne propagò la dottrina, elevandosi dalla
esposizione acuta e fedele alla originale ricostruzione e rielaborazione (« La
vita e il pensiero di Ardigo; Ardigo, L’uomo e l’umanista. Il M. ha definito il
positivismo d’Ardigò come naturalismo umanistico e questa denominazione designa
la duplice direzione nella quale egli stesso ha svolto la propria attività di
scrittore, integrando felicemente il sistema, che rivela così nella varietà e
la novità degli sviluppi la propria feconda vitalità. Il naturalismo del M. si
fonda sopratutto sul principio dell’unità come sintesi universale: egli
concepisce la unità come continuità dinamica dei fatti fisico, biologico,
psichico, postulando il « fatto minimo », come idea-limite, in armonia con lo
stesso concetto della continuità nella eterogeneità, e spiegando con la impossibilità
di depotenziarci la presunta inintelligibilità del trapasso, alla quale si
devono le due estreme concezioni, idealistica e materialistica. La conoscenza,
in quanto è determinata dal reale, in ordine al principio della continuità
stessa ha un valore assoluto ed obbiettivo, non già puramente simbolico (« La
crisi del positivismo e il problema filosofico, Il simbolismo nella conoscenza
e nella morale). Umanistico è detto dal Marchesini il naturalismo dell’Ardigò,
principalmente perchè riesce alla celebrazione della persona umana e dà
fondamento razionale e positivo all’idealismo etico e alla dottrina dell’autonomia;
negli ultimi libri del M., e non soltanto in quelli che hanno più diretta
attinenza con la pedagogia (« L’educazione morale» I probi, fond. dell’ed., Disegno
stor. delle dottr. ped.), si manifesta più che mai spiccata la sua eminente
vocazione di educatore. Anche per il M. la continuità non esclude, ma comprova
l’autonomia del soggetto umano, come formazione naturale e pedagogica
superiore, sulla quale si fonda il diritto a un orgoglio umano razionale come
vera e propria virtù etica (« Il dominio dello spirito, ossia il problema della
personalità eildiritto all’orgoglio). Sulla stessa autonomia si fonda il
principio della tolleranza come rispetto della personalità nella sua
costituzione specifica (« L’intolleranza e i suoi presupposti). L’ideale è
relativo alla personalità, ma pensato come assoluto acquista da ciò uha
particolare potenza utilizzabile pedagogicamente (Le finzioni dell’anima). In
esso, e nelle sue singole specie, si reintegrano le inclinazioni umane
fondamentali, all’infuori d’ogni trascendenza metafisica, ch’è puramente
simbolica («La dottrina positiva delle idealità). Nella teoria del M. si
ravvisa antecipata in alcuni de’ suoi elementi più caratteristici e
significativi la filosofia del « come se », che ha avuto in questi ultimi anni
singolare fortuna e grande diffusione. Dandolo, prof, di fil. teor. a Messina,
concepì il problema gnoseologico come problema psicologico, e lo fece oggetto
d’indagine accurata e penetrante, rivelando rare attitudini all’analisi e alla
rappresentazione della vita mentale. Tra fatti psichici e fatti fisiologici
corre un rapporto unitario di correlazione: il fatto psichico non è il
riverbero di un evento fisiologico, ma ha la sua specie caratteristica nella
coscienza, che è autonoma, è un distinto che si pone assolutamente e del quale
è artificioso e vano ricercare il perchè. I limiti dell’esperienza
edelconoscerecoincidono; e continuo è il processo dal senso all’intelletto, se
pur non sia possibile risolvere senza residuo la conoscenza nella sensazione;
ciò che è necessità di origine si conserva come necessità di sviluppo: la pura
sensazione, unità indistinta, s’integra nella percezione, come l’appetito
s’integra mercè la conoscenza nel desiderio, e mercè la ragione nella volontà.
Contro il realismo ingenuo e l’idealismo dogmatico il D. afferma la relatività
reciproca di soggetto e oggetto; il conoscere in generale, mentre si pone come
fatto di coscienza, accenna alla necessità di un eterogeneo, d’un termine
correlativo esteriore, distinto e in pari tempo inseparabile dal pensiero.
Questo incontra nella esperienza un limite alla propria libertà: nella
oggettività della percezione ha fondamento la oggettività della causa, della
legge, della scienza. Contro la dottrina della scienza sostenuta dal Mach, il
D., mentre riconosce la incommensurabilità della spiegazione scientifica con i
fenomeni naturali, sostiene che fra questi e quella intercede un vincolo, che è
un adattamento speciale della intelligenza alle cose: il vero è adattamento
conquistato dal pensiero sulla realtà naturale (« Le integrazioni psichiche e
la percezione esterna, Le integrazioni psichiche e la volontà, La causa e la
legge nell’interpretazione dell’universo, Intorno al valore della scienza, Studi
di psicologia gnoseologica, oltre a numerosi altri saggi, soprattutto di psic.
e di st. della psic.). TAOROZZI (vedasi), prof, di fii. a BOLOGNA, occupa in
Italia, rispetto alla tradizione storica del positivismo sistematico, una
posizione spiccatamente personale: è stato, e si è professato sempre, discepolo
delI’Ardigò: e del positivismo infatti accetta il metodo e alcuni fondamentali
postulati: la filosofia è anche ricerca, perennemente promossa dai risultati
della scienza e dallo sviluppo dei pensiero comune; scienza e filosofia si
differenziano non per il metodo bensì per l’oggetto, e insieme tendono a un
fine comune cioè alla obbiettività, la quale può essere raggiunta dallo spirito
umano solo entro l'ambito della categoria quantitativa, onde ha grande valore
filosofico lo sforzo di esprimere il qualitativo in termini quantitativi; la
esperienza non è di atti ma di fatti; non è concreto se non ciò che è
sicuramente determinabile nel tempo e nello spazio. Ma la originalità del T. si
è rivelata anzitutto nelle critiche alle quali egli sottopose il determinismo,
ravvisando in questo un residuo metafisico e un elemento estraneo allo spirito
del positivismo. il suo indeterminismo, diverso da quelli del Boutroux, del
Bergson, del Mach, congiunge le due concezioni del divenire e della spontaneità
del fatto singolo, senza lasciarsi sedurre dal Xóyo; àgy ò? del finalismo («
Della necessità nel fatto naturale e umano). Con l’indeterminismo si collega il
realismo gnoseologico, li principio che « la realtà è il fatto della esperienza
» consente una soluzione esauriente della questione relativa alla
determinazione qualitativa e quantitativa della realtà; ma non basta a dar
fondamento alla persuasione della esistenza della realtà: la conoscenza è
contingente, e però presuppone il reale come altro da se stessa, e implica
l’idea della esistenza come incondizionalità dell’essere rispetto alla
conoscenza; da ciò s’inferisce un reale, di cui tutte le determinazioni appartengono
alla esperienza, tranne una, cioè la esistenza, che le si sottrae. Il reale
così inteso sfugge a quella determinazione del finito che è propria della
conoscenza razionale : e però è l’infinita varietà, che come tale non può
essere se non dinamica: infinito dev’essere dunque il principio dinamico
dell’infinitamente vario in ciascun essere che l’esperienza ci presenta come
determinato e finito. La contingenza della conoscenza, da un lato, giustifica
la distinzione della conoscenza pura dalla conoscenza empirica e quindi il
riconoscimento di leggi proprie del pensiero, dall’altro, ha in tale
distinzione e nella esistenza di queste leggi la propria riprova. Nella
conoscenza pura, intesa come conoscenza deH’autonomia dello spirito, consiste
il fondamento gnoseologico e logico, dell’idealismo etico. Caratteri
dell’idealismo etico sono la coscienza della libertà dello spirito, la
responsabilità, l’impero effettivo dell’ideale. La libertà dello spirito, come
rivelazione dell’infinito nella coscienza, e capacità che ha l’uomo di creare
il regno della sua umanità morale, non esclude ma implica la obbligazione,
l’impero dell’universale: l’antitesi che sussiste fra necessario e infinito, in
quanto quello pone un limite che questo esclude, vien meno, infatti, nella
necessità morale, e in essa soltanto, perchè in essa l’infinito si limita non
negandosi, ma rivelandosi. La responsabilità, in quanto è correlativa alla
obbligazione, è responsabilità non soltanto del male, ma anche del bene, in
quanto è indipendente dalla obbligazione, trascende i limiti dell’attività del
soggetto, onde questi tende ad assumere sopra di sè il carico del male della
umanità intiera. Effettivo è l’impero dell’ideale, perchè esso come autonomia
dello spirito, è, per natura sua, un fine: ma non può essere fine a se stesso,
bensì presuppone un reale ateleologico che si offre come oggetto e materia al
teleologismo in cui esso ideale si esplica; presuppone dunque, nell’ordine
degli oggetti, la natura indifferente, nell’ordine dei valori, l’utile, il
regno dell’interesse egoistico, in cui l’uomo a questa natura indifferente
obbedisce. Moralità è spiritualità, e spiritualità è successiva trascendenza di
fini gli uni rispetto agli altri. Con il sentimento dell’infinito ha affinità
profonda il sentimento estetico: l’estetica non determina una distinta regione
dello spirito, ma si afferma sovrana, come espressione sintetica della
humanitas. La pedagogia idealistica che risolve la educazione
nell’autoeducazione, ripugna al senso comune: la educazione dev’essere
spiritualistica, perchè promuovere negli educandi il loro valore propriamente
umano, significa avviarli a pensare come vera vita la loro vita interiore.
Nonostante le ragioni profonde di dissenso, la dottrina del T. appartiene alla
storia del positivismo italiano: il suo spirito fervido, aperto a interessi
molteplici, non si ferma appagato sulle posizioni raggiunte, bensì è portato a
rispondere con sintesi sempre più alte e più vaste e logicamente meglio
coerenti, all’esigenze poste dalla fede generosa e sincera nei valori umani; ma
egli non ha mai dubitato che quella rivendicazione morale dell’energia dello
spirito, che è nello spirito suo il bisogno fondamentale (Gentile), non sia
appunto il programma che il positivismo propone a se stesso e ha virtù di
realizzare (Del T„ che finora non ha divulgato in modo sistematico tutte le
idee qui accennate, vedi: « La coltura intellettuale contemporanea, Ricerche
intorno ai fond. della certezza raz. » Menti e caratteri » «La virtù
contemporanea» 1900 « Idee di una scienza del bene Il contenuto mor. della
libertà del n. Tempo L’educazione e la scuola Note di estetica sul Par. di
Dante. Anche Troilo, prof, di fil. a Padova, operoso cultore della st. della
fil. (« La dottrina della conoscenza nei mod. precursori di Kant, Telesio » La
fil. di Bruno Figure e studii di st. della fil.), manifesta, nella esposizione
delle sue vedute teoretiche, il travaglio perenne di uno spirito che si cerca:
tutta la sua feconda attività di scrittore è infusa di pathos profondo. Egli
riferisce a un’antitetica che si rivela fondamentale nell’attività dello
spirito, il perenne avvicendarsi dei due indirizzi, positivistico e
idealistico: e tende a uscirne con una dottrina, che superando la unilateralità
delle contrastanti vedute, integri il positivismo con una sua propria
costruzione teoretica (Idee e ideali del Pos.
Il Pos. e i diritti dello spirito). Il suo atteggiamento di calda
simpatia per il sistema d’ARDIGÒ non gli vieta di criticarne il concetto
dell’Indistinto psicofisico, nel quale ravvisa una pericolosa concessione al
dualismo; d’altra parte, il fenomenismo puro riesce a una finale
identificazione con il soggettivismo idealistico: a questi indirizzi egli
oppone lo schietto Monismo ontologico, la necessità dell’Essere come Dato primo
assoluto, assolutamente autonomo. Monismo ontologico, ma, d’altra parte,
dualismo gnoseologico: nell'Essere, includente in sè quella forma della Realtà
ch’è lo Spirito, la legge è l’Unità: nel Conoscere, il quale altro non è che
funzione, la legge è la Dualità: cosi organicamente si compongono Immanenza e
Trascendenza, spoglie di ogni residuo metafisico. Ogni filosofia, come
espressione integrale teoretica e pratica dello spirito, è filosofia morale,
pedagogia dello spirito umano: Philosophia sire Vita : la filosofia che non
deve limitarsi a interpetrare il mondo e deve mutarlo, trapassa in storia («
Filosofia, vita, modernità, La conflagrazione). Il positivismo del Trailo si
determina come Realismo Assoluto: e un Realismo assoluto è anche la dottrina di
RANZOLI (vedasi), prof, di SI. teor. a Genova. L’oggetto della conoscenza non è
nè una imagine dell’oggetto esterno, nè una creazione del soggetto, bensi lo
stesso oggetto che conosce se stesso, e, conoscendosi, .si pone come identico a
sè e come diverso da sè, come conoscente e conosciuto, come spirito e come
natura (L’idealismo e la fil.). Porsi come natura significa rappresentarsi e «
distendersi » in quei rapporti spaziali e temporali che risultando dalla mutua
irreducibilità degli elementi della conoscenza, e quindi del reale, si possono
definire come la visione panoramica che il reale ha di se stesso («Teoria del
tempo e dello spazio). Lo spirito costituisce il ritmo supremo dell’esistenza,
ossia il limite di quel processo d’individuazione che rappresenta la legge
fondamentale della realtà : legge che non ha nulla in sè di finalistico, ma
esprime al contrario la fusione del caso con la causalità (« Il caso nel
pensiero e nella vita). Queste idee sono espresse dal R. in una prosa ch’è
sovente un modello di stile filosofico: anche di lui può dirsi, come di DANDOLO
(vedasi), che la natura sobria dell'ingegno si riflette nella composizione
nitida e organica delle dottrine, ma non vieta di avvivarne efficacemente la
espressione con imagini colorite e vaghe. Ranzoli, in un pregevole saggio sopra
« La fortuna di Spencer in Italia, ha dimostrato che il positivismo nostro
mosse i suoi primi passi sotto la sola guida del Comte e del Littré, ma se n’è
staccato ben presto, attratto dalle ampie formule della filosofia spenceriana,
che meglio si accordavano con la natura del nostro ingegno e delle nostre
tradizioni filosofiche, rappresentate non soltanto dal naturalismo del
Rinascimento, ma anche da quel filone solitario di filosofia sperimentale che
si continua ininterrotto attraverso il Sette e l’Ottocento: il positivismo
dello Spencer, meglio di quello del Comte, aiutò l’ingegno italiano a ritrovare
se stesso: l’Italia di platonica che era, divenne spenceriana, passando per lo
hegelismo: fra questo e il positivismo è l’abisso, ma la scuola hegeliana,
dalla quale uscirono alcuni fra i primi positivisti (Marselli, Villari,
Angiulli) annovera anche pensatori (basti ricordare il Fiorentino) che,
rimanendo sul terreno dello hegelismo, riconobbero, nei limiti della filosofia
della natura, il valore del principio della evoluzione. E il positivismo
italiano fu, per molta parte, evoluzionistico: il fascino esercitato sopra le
menti dalla idea di evoluzione trae il sacerdote giobertiano Trezza, bene a ciò
preparato dagli studi storici filosofici religiosi, a convertirsi a una
intuizione naturalistica, della quale egli fu il poeta piuttosto che il
filosofo: le sue idee si organizzarono (La critica moderna) intorno ai due
concetti, della relatività di tutti i fenomeni, onde natura e storia gli
appaiono come una serie di trasformazioni perenni — e. della immanenza delle
leggi cosmiche che sottrae la natura e la storia all’intervento e all’arbitrio
delle volontà trascendenti (Melli). La sintesi spenceriana trovò largo consenso
fra gli scienziati: minor favore incontrò la dottrina dell’Inconoscibile,
combattuta, per opposte ragioni, da hegeliani e da neo-criticisti, da
spiritualisti e da positivisti; ma è manifesta la influenza dello Spencer sopra
quel movimento di pensiero che ebbe per organo la Rivista di filosofia
scientifica, fondata e diretta da MORSELLI, prof, di psichiatria a Genova.
L’opera di lui è soprattutto notevole per lo sforzo assiduo di richiamare i
filosofi alla scienza e gli scienziati alla filosofia, combattendo la
metafisica antiintellettualistica, e reagendo contro io spirito antifilosofico,
manifestato o anche ostentato da molti scienziati puri. Il M. rappresentò
autorevolmente una filosofia monistica ed evoluzionistica, consapevole della
propria funzione sintetica e non ignara delle proprie intime difficoltà, ma da
ciò indotta non a cedervi bensì a superarle e una psicologia che si rende conto
dei limiti, ma anche del valore del metodo introspettivo («La fil. mon. in
Italia» Id. id.» L’evoluz. monistico nella conosc. e nella realtà, Il
darwinismo e l’evoluzionismo La psic. scient. o pos. e la reaz. neo-ideal.
» ecc.). Classiche sono le ricerche
biopsicosociologiche del M. sul suicidio. Anche a dire del M. («C. L. e la fil.
scient.), LOMBROSO (vedasi), prof, di antrop. crim. a Torino, non fu un
filosofo: la sua Weltanschauung è schiettamente materialistica, la sua
psicologia è puro somatisino; ma se si pensa quanta luce è derivata dalle
indagini ch’egli compì o promosse, alla conoscenza delle manifestazioni psicologiche
anormali o supernormali; se si considera quante idee, accolte, quand'egli le
mise in circolazione, come scandalose o ridicole, sono diventate, quasi
insensibilmente, elementi vitali della comune cultura e hanno agito sopra la
costituzione deila nostra coscienza morale: se infine si pensa alla influenza
che la sua antropologia criminale, ispirata a un rigoroso determinismo bio
sociologico, ha esercitato in tutto il mondo sopra la legislazione penale è
debito di giustizia ricordare l’attinenza dell’opera di lui e de’ suoi
discepoli, con il movimento della
filosofia scientifica («L’uomo delinquente» L’anthrop. crim. L’uomo di genio,
«Nuovi studi sul genio). Alla negazione del libero arbitrio e alla fondazione
.di una dottrina della imputabilità penale non costituita sopra la
responsabilità morale, diede opera, con altri, FERRI (vedasi), fondando quella
scuola del diritto penale, o piuttosto della criminologia, che fu detta
positiva, e che propugnò lo studio e la considerazione non del delitto, ma del
delinquente. Il Lombroso diffuse in Italia, La circolazione della vita » di
Moleschott. Questo saggio, nel MOLESCHOTT, prof, a Torino, sostenne le proprie
vedute materialistiche, ebbe parte notevole nella ispirazione della dottrina
lombrosiana. Al materialismo aderirono o per lo meno inclinarono molti fra i
cultori delle scienze biologiche: e un tale indirizzo è manifesto nelle
ricerche psico-fisiologiche di Schiff, prof, di fisiologia a Firenze («Sulla
misura della sensaz. e del movimento»
«La fisica nella filosofia» 1875), del suo discepolo, Herzen (Fisiol. e
psicol., La condizione fisica della coscienza » « Della nat. dell’attività
psich. » «Il moto psich. e la coscienza) che nell’« Analisi fisiologica del
libero arbitrio umano illustrò il doppio determinismo, organico e sociologico,
delle azioni umane; e dell’antropologo Sergi, già prof, a Roma (« Elem. di
psic. L’origine dei fenomeni psichici), studioso anche di problemi pedagogici
(« Per l’educazione del carattere » Educazione e istruzione). Le vedute di SERGI
(vedasi) sono impugnate da REGALIA (vedasi), sostenitore della tesi che il
dolore è l’antecedente costante e immediato di ogni azione (saggi vari, cinque
raccolti nel voi. « Dolore e azione). Un altro antropologo, Vignoli, coltivò la
psicologia comparata (animale e etnografica) e genetica (« Peregrinazioni
psicologiche » 1895). L’esclusivismo psicologico nella spiegazione delle
malattie mentali e le ragioni filosofiche che sono poste a suo fondamento
furono combattuti dal grande clinico MURRI (vedasi) (Nosologia e psicologia.
Non si staccò dall’indirizzo materialistico BUCCOLA (vedasi), il quale a Reggio
Emilia — dpve sotto la direzione di TAMBURINI (vedasi), e più recentemente di
Guiceiardi (vedasi), ebbero grande impulso la psicopatologia e la freniatria —
avvia ricerche psicometriche che ebbero larga eco anche all’estero («La legge
del tempo nei fenomeni del pensiero). Ma scarso è il contributo direttamente
recato dai filosofi positivisti alla psicologia con ricerche sperimentali, alle
quali attesero prevalentemente seguaci di altri indirizzi o studiosi estranei
alla milizia filosofica. Allo studio sperimentale delle emozioni contribuì
poderosamente MOSSO (vedasi), prof, di fisiologia a Torino (La paura, La
fatica), studioso anche di problemi educativi, il quale aderì alla teoria
Lange-James: a lui e alla sua scuoia (particolarmente al lombrosiano PATRIZI (vedasi)–
no il da Dazia --, prof, di fisiologia a Modena) è dovuto il primo impulso alle
ricerche di psicologia applicata ai problemi sociali e del lavoro
(psicotecnica). Il nome del Patrizi è legato anche a tentativi
d’interpretazione delle opere d’arte con il sussidio della psicologia positiva
(«Saggio psico antropol. su 0. Leopardi, Il Caravaggio e la nuova crit. d’arte.
Treves, scolaro del Mosso, contribuì alle stesse ricerche (per es. con studi
sopra le relazioni fra emozioni e lavoro muscolare) e particolarmente coltivò
le applicazioni della psicologia alla pedagogia e alia tecnica scolastica,
portando modificazioni alla scala metrica del Binet. Al problema della
valutazione della intelligenza, e inoltre agli studi di psicologia e pedagogia
dei deficienti («Educazione dei deficienti)si dedica Sanctis, prof, di psicol.
a Roma), autore anche di apprezzate ricerche sopra i sogni. Benemerito della
pedagogia correttiva è Ferrari, direttore dal 1905 della Rivista di Psicologia.
BROFFERIO (vedasi), prof, di st. della fil. a Milano (La filosofia delle
Upanishadas », postumo), esercitò la propria attività nella sistemazione della
psicologia e, sopra saldo fondamento psicologico, della gnoseologia
positivistica : si propose il problema della classificazione delle specie della
cognizione, come propedeutico rispetto al problema dell’origine, razionale o
sperimentale, della cognizione, e ridusse le intuizioni, per le quali la
esperienza è resa possibile, alla intuizione fondamentale del numero (unità e
molteplicità), la quale s’integra in quelle della quantità (intensità) e della
qualità; ma di quella intuizione egli illustrò la natura sperimentale. Scarso è
il contributo recato dai positivisti, alla estetica. Oltre a Mantegazza,
professore a Firenze (Epicuro), autore anche di molto fortunati studi sulle
emozioni, si può appena ricordare Pilo («Estetica Psicologia musicale) e BARATONO
(vedasi) («Sociol. estetica»). Quest’ultimo, autore anche di lodati Fondamenti
di psicologia sperimentale ha coltivato poi di preferenza la pedagogia, con
indirizzo criticistico. il preteso a priori non è se non la esperienza
accumulata della razza. Il positivismo affermando, in contrasto con il
materialismo degli scienziati, la relatività della cognizione e precludendosi
la via alla ricerca della realtà assoluta, lascia la possibilità di fondare
sovra prove morali la credenza nella esistenza di Dio e di appagare la invincibile
aspirazione alla immortalità. Il B. ravvisò poi nelle esperienze spiritiche la
verificazione sperimentale di quelle ipotesi che aveva da prima accolte per
volontà di credere («Le specie dell’esperienza » Man. di psic., Per lo
spiritismo). Anche Ettore Galli, lib. doc. a Padova, pone a fondamento della
filosofia la psicologia, analitica e genetica: origine del conoscere è il
sentire, che è fatto biologico. Le leggi della ragione sono le leggi
dell’apprendere; e si apprende quando un fatto di sentire secondo una legge
dinamica universale si fonde, in ciò che ha di comune, con virtualità di
sensazioni anteriori: tale processo si ripete in tutte le operazioni del
pensiero. La realtà è tutta relativa al conoscere, e quindi al sentire: dal
sentire nascono così l’io come il nonio. E il sentire è anche base della
morale. La vita, la quale per conservarsi e integrarsi suggerisce agli uomini
la collaborazione e la divisione del lavoro, ha nel dovere un mezzo che poi
agli effetti pratici vien postulato come fine delle azioni. E al dovere
s’informa anche la educazione, in quanto è mossa dall’esigenze della vita (Nel
regno del conoscere e del ragionare» «Alle radici della morale» «Nel dominio
dell’io, Alle soglie della metafisica. Dell’attività esplicata dall’Ardigò, da
Marchesini, dal Tarozzi come pedagogisti, già si è fatto cenno. L’indirizzo
positivistico ebbe, in generale, grande influenza sopra la scienza della
educazione: e si onora anzitutto del nome di GABELLI (vedasi), che professa un
positivismo agnostico, combattendo le degenerazioni materialistiche; ma più che
ai problemi speculativi, volse la mente ai problemi della pratica: propugnò
l’applicazione del metodo sperimentale alle scienze morali, e delineò un’etica
utilitaria, fondata sopra l’amor di sè, distinto daH’amor proprio (« L’uomo e
le scienze morali » 1869). Esplicò la sua missione socratica (Credaro) con la
diagnosi severa — condotta da un punto di vista rigidamente conservatore — dei
mali morali del popolo italiano e con la indicazione del rimedio, che doveva
consistere in una educazione diretta a formare le teste, a bandire l’artifizio,
il verbalismo, la retorica, ad assumere come elementi integranti del carattere
idee chiare verificate al paragone della esperienza: il miglioramento morale è
indissolubilmente legato al progresso intellettuale: non sussiste
contraddizione tra il fine umanistico e l’indirizzo realistico della educazione
(«Il metodo d’insegnamento nelle scuole elementari d'Italia Riordinamento
dell’istruzione elementare. Relazione, Istruzioni e programmi» L’istruzione in
Italia). Angiulli, prof, di ped. a Napoli, reagisce contro l’imperante
hegelismo con un sistema, ispirato alla fede nel valore teoretico e sociale
della scienza positiva, .che è legata con la filosofia da un vincolo d’interdipendenza:
ripudia l’Inconoscibile e ammette la possibilità, per la virtualità
dell’astrazione, di una metafisica critica e scientifica, evoluzionistica e
relativistica. La dottrina della evoluzione cosmica informa di sè anche la
morale scientifica progressiva (migliorismo), la quale s’integra con la
cosmologia in una religione nuova: l’A., determinista, ammette negl’individui
anche il determinismo dell’ideale. Ma l’ideale non si realizza se non nella e
per la educazione, intesa non come sempiice adattamento alle condizioni
esistenti, ma come preparazione a nuove conquiste. Tutti i problemi sociali
s’incontrano nel problema pedagogico, che dev’essere risolto teoricamente con
la costituzione della pedagogia sopra fondamento scientifico e filosofico, praticamente
con l’attuazione sua negli ordini della scuola e della vita. Liberale in
politica, l’A. rivendica allo Stato il diritto, che è dovere, d’impartire la
educazione nazionale e la istruzione obbligatoria e laica. L’incremento della
cultura femminile deve render possibile che si armonizzino, nella scienza, la
educazione domestica e la pubblica. La istruzione scientifica deve in tutti i
suoi gradi essere animata da spirito filosofico («La Filosofia e la ricerca
positiva, La Ped., lo Stato e la Famiglia, La Fil. e la Scuola). SICILIANI
(vedasi), prof, di ped. a BOLOGNA, aspira a una sistemazione del positivismo
italiano, sulla traccia di Galileo e di Vico e in armonia con l’evoluzionismo
(«Sul Rinnovamento della Fil. pos. in Italia). La sua pedagogia ha a fondamento
la storia della educazione e ne ricava i due principii della dignità intrinseca
della «santa» personalità umana, e dell’autodidattica (La Scienza nell’Educ.
Rivoluzione e Ped. moderna). FORNELLI (vedasi), prof, di ped. a Napoli,
contribuì a diffondere in Italia la dottrina herbartiana (Studi herbartiani),
la quale tuttavia dovette la sua maggiore fortuna fra noi all’opera di Luigi
Credaro (« La Ped. di Herbart): ebbe vivo il senso della importanza del problema
pedagogico nello Stato liberale e propugnò la laicità della scuola che deve
trovare nella scienza il proprio centro. La misura dell’esigenze che si pongono
sopra il fanciullo dev’essere ricavata dalla considerazione non della sua
costituzione psicologica, ma della finalità civile della educazione. La volontà
è determinata, ma tra i fattori che la determinano è compresa anche la
individualità: e in ciò la responsabilità trova il proprio fondamento. Fu
sostenitore, nella istruzione secondaria, di un temperato classicismo
(«Educazione moderna» «L’Insegnamento
pubblico ai tempi nostri» 1881 «L'adattamento nell’educazione). DOMINICIS
(vedasi), già prof, dì ped. a Pavia, si è ispirato ai principii
dell’evoluzionismo e del darwinismo («La dottrina dell’evoluzione); ha
determinato, in base alla esperienza naturalistica e storica, i fattori, le
leggi, i fini della educazione, il fondamento e i limiti della sua efficacia,
acutamente analizzando la vita interna della scuola (« Scienza comparata della
Educ.), e ha esercitato grande influenza («Linee di Ped. elem.) sopra la
formazione dei maestri. Colozza, prof, di ped. a Palermo, concepisce non
diversamente dal suo maestro Angiulli la scienza della educazione nel sistema
della filosofia scientifica ed evoluzionistica («Saggio di Ped. comparata» La
Ped. nei suoi rapporti con la Psic. e le Se. Soc.): ma ha temprato il forte e
indipendente ingegno nell’analisi psicologica, nella ricerca del fondamento
psicologico della pedagogia, nello studio di problemi educativi e didattici,
nella revisione di concetti comunemente accolti senza discernimento critico:
dal ripensamento originale della dottrina del Rousseau ha tratto conforto alla
fede nella virtù del metodo attivo; ha risposto negativamente al quesito se
esista la educazione dei sensi («Il giuoco nella psic. e nella ped., Del potere
d’inibizione, La meditazione, Questioni di Ped. «Il metodo attivo nell 'Emilio.
Ripensando l ’Emilio » La matematica nell’opera educativa). VALLE, prof, di
ped. a Napoli, studiò la formazione dell’autocoscienza, nel riguardo della forma
e del contenuto (« La Psicogenesi della coscienza): ma prevale nell’opera sua
il gusto delle vaste costruzioni. La vita umana dà materia alla indagine
sperimentale del lavoro mentale (che è sempre un mezzo), e alla indagine
speculativa del Valore (che è sempre un fine,): donde due dottrine pure
(Psicoenergetica, Axiologia) e due dottrine applicate (Psicotecnica,
Teleologia). Il D. V. può dirsi positivista, quando ricava « Le Leggi del
lavoro mentale » per induzione da esperienze, anche originali, e ravvisa nella
pedagogia sperimentale un capitolo della psicotecnica (come la ped. fil. è un
capitolo della teleologia). Ma la sua axiologia realistica lo allontana dal
positivismo. I Valori (esistenziali, logici, estetici, morali, economici) sono
rivelati ma non contenuti dalla coscienza: sono il prodotto di una sintesi a
priori ; possono esser creduti, ma non dimostrati; sono assoluti, trascendenti,
cioè indipendenti da ogni singola mente e validi potenzialmente, anche se non
intuiti empiricamente da alcuno. Si unificano oggettivamente nella Realtà
assoluta trascendente (Dio), soggettivamente nella coscienza generica assoluta.
L’educazione consiste nella creazione e acquisizione delle varie classi di
valore (« Teoria Gen. e Formale del Valore, come fondamento di una ped. fil.:
Le premesse dell’Axiol. pura»).Montessori ha coltivato l’« Antropologia
pedagogica, ma il suo nome è soprattutto legato alle Case dei bambini, che
hanno avuto ampia diffusione anche all’estero e nelle quali il principio di
spontaneità è portato alle sue estreme applicazioni («Il met. della ped.
scient. applicato all’educ. inf. nelle Case dei bambini» 1910 « L’autoeduc.
nelle se. elem. » 1916 «Manuale di ped. scient.). Tauro, lib. doc. a Roma,
autore di un lodato profilo del Pestalozzi, ha propugnato il metodo positivo ed
evoluzionistico nella ped., scient. e filosofica, della quale ha delineato un
piano sistematico (« Introd. alla ped. gen.): ha studiato « Il probi, delia
coltura nelle sue attinenze con la scienza e con la scuola, ha affrontato
questioni di ped. applicata, relative alla educaz. intellettuale (« L’unità
mentale e la concentraz. della istruz.) e alla formazione del maestro (« La
preparaz. degl’insegnanti elem. e lo studio della ped.), ha, infine, assunto il
silenzio a oggetto di analisi psicologiche e di ricerche storiche accurate,
fermandosi a considerare il silenzio interiore come mezzo e processo
dell’autoeducazione («Il Silenzio e l’Educazione dello Spirito). Per Resta,
lib. doc. a Roma, realtà propria del vivere umanno è non l’errare a caso in
balia delle contingenze (attualità,ed eterogenesi dei fini), ma la conformità
dei risultati complessivi a un piano di svolgimenti progressivi (persistenza, e
omogenesi dei fini). Occorre perciò (ed è tendenza dell’uomo) una forma o norma
di vita, per la progressiva riduzione dell’ordine naturale e attuale dello
sviluppo umano, secondo l’ordine ideale o finale della vita. Una tale forma o
legge delle realizzazioni umane è la educazione: e questa è, da un lato,
inerente al vivere umano, ma si rivela anche, dall’altro lato, specifica cioè
distinta e originale, in quanto si definisce come legge di maestria, cioè come
il farsi maestro e far da maestro, mediante una progressiva azione di
corrispondenza delle potenzialità ed inclinazioni del soggetto (ordine attuale)
alle finalità della vita (ordine finale). La educazione è dunque attività di
sforzi perfettivi possibili (legge di convenienza progressiva) che si
trasformano in abilità o autonomia (legge di maestria) del soggetto nei fini
della vita: suo modello dev’essere la personalità più saldamente autarchica
(l’autonomia) nella migliore realizzazione dell’ordine ideale (Peunomia) «
L’anima del fanciullo e la ped., I probi, fond. della ped. » Trattato di Ped. 1
» L’educaz. del geografo. 11 carattere umanistico della morale dei positivisti
è stato già rilevato. Troiano, prof, di fil. mor. a Torino, studioso benemerito
dell’etica greca, defini come umanismo la sua filosofia : umanismo critico e
integrale, distinto dall’umanismo pragmatistico, perchè tien separate le
categorie gnoseologiche e quelle pratiche. L’uomo è il centro teoretico e
appreziativo del mondo: tutto da lui prende luce e si predica, tutto da lui
prende senso e si avvalora. Fondamento di ogni valutazione è uno spirito
individuale, che è l’unico reale: lo spirito assoluto è impensabile, lo spirito
collettivo una metafora. Ma nell’individuo esistono pure tendenze collettive e
storiche, e tendenze universali: individualismo e universalismo sono aspetti
inseparabili deH’umanesimo concreto. Ogni etica metafisica è essenzialmente
eteronoma e dogmatica: la concezione subbiettivistica dei valori porta a
costruire la morale sopra fondamento psicologico. Centro della vita psichica,
organo dei valori finali, regolatore supremo della vita è il sentimento, che è
il Iato subbiettivo e vissuto d’ogni fenomeno psichico, e però espressione
immediata dello stato del soggetto: fondamento di una morale autonoma è il
sentimento non come dolore (tendenza) o piacere (fruizione), bensì come
sentimento di calma che rivela lo stato di tregua per la sodisfazione avvenuta
e l’armonia di tutte le tendenze: all’edonismo va sostituito l’alipismo: il
senso di tutto il mondo dello spirito umano è spirito, sospiro o conato di
pace, di liberazione dal dolore. L’umanismo pedagogico assume a fine della
educazione la perfetta formazione degli organi individuali dei valori umani,
informandoli al sistema storico della coltura: la educazione deve tendere a
sostituire i valori religiosi con valori spirituali più alti, vincendo la
superstizione del divino con la celebrazione divina dell’umano (« Etilica. I »
« Ricerche sistematiche per una fil. del costume. I » «La fi!, mor. e i suoi
probi, fond. » 1902 « Le basi dell’umanismo, L’umanismo ped.). L’umanismo etico
di CESCA (vedasi), prof, di st. della fil. e di ped. a Messina, è fondato sul
fenomenismo gnoseologico ed esclude da sè il trascendentalismo, ma culmina
nella concezione di una religione morale e umanitaria (« La religione morale
dell’umanità» La Fil. della vita» La Fil. dell’az.). La religione identificata
con la forza della idealità continuamente aspirante al meglio, viene anche a
identificarsi con la educazione moderna che, distinguendosi dall’addestramento,
deve rivolgersi all’Io profondo dell’educando («Religiosità e ped. mod.). Il C.
costruisce la pedagogia generale sopra fondamento evoluzionistico: il suo
pluralismo critico tende a superare « Le antinomie psicologiche e sociali della
educazione» (1896) nella concezione della educazione stessa come processo
unitario, realizzantesi nella concordia di discordi molteplici fattori. In JUVALTA
(vedasi), prof, di fil. mor. a Torino, è particolarmente viva la consapevolezza
della esigenza critica. Non ha scritto molto: ma gli scritti suoi («
Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica » 1901 « Su la possibilità e
i limiti della morale come scienza» 1907 «II vecchio e il nuovo problema della
morale » I limiti del razionalismo
etico) son tutti il frutto di meditazione severa, promossa da un irresistibile
bisogno di chiarezza che lo trae a rivedere assiduamente non soltanto le
soluzioni dei problemi etici che sono state proposte nel corso della storia, ma
anche i termini e la posizione dei problemi stessi. Le esigenze di ordine
morale sono fondamentali e decisive nella posizione e nella soluzione dei
problemi di ordine metafisico; e direttamente o indirettamente ne dipendono
anche le questioni filosofiche, che a primo aspetto si presentano come
d’interesse prevalentemente teoretico. È dunque, nonché opportuno, necessario
affrontare i problemi morali indipendentemente da presupposti di qualsiasi
indirizzo filosofico, implicanti una particolare soluzione dei problemi della
realtà e della conoscenza. Nella scelta fra le diverse intuizioni religiose, o
fra i diversi sistemi filosofici, prevale l’atteggiamento personale della
coscienza morale. JUVALTA crede alla possibilità di una scienza normativa
etica, ma la fa consistere in un sistema di relazioni e di leggi, le quali non
hanno valore di norme da seguire, se non nella ipotesi che sia assunto come
fine quell’effetto o quell’ordine di effetti, del quale esse leggi esprimono le
condizioni e i fattori. Una tale scienza differisce dalle altre scienze
precettive soltanto perchè suppone che al fine suo sia riconosciuto un valore
di universale preferibilità e precedenza sopra ogni altro fine. Perchè la
determinazione delle norme etiche possa dirsi scientifica, si richiede che il
fine sia umanamente possibile, cioè in relazione di dipendenza da una certa
forma di condotta collettiva o individuale (e particolarmente per questa
maniera d’intendere il carattere scientifico della morale, il punto di vista
dello J. si differenzia da quello che ha prevalso tra i positivisti). Perchè le
norme sieno norme etiche, si richiede che sia ammesso come postulato che il
riconoscere al fine assunto valore di universale preferibilità e precedenza
rispetto a qualsiasi altro fine umanamente possibile, è una esigenza morale.
L’esigenza caratteristica di una norma morale (esigenza giustificativa, diversa
dalla esigenza esecutiva, che è relativa ai mezzi di assicurare la osservanza
della norma stessa) è quella di una universale giustizia; e il fine che sodisfa
a questa esigenza è una forma di società umana tale, che tutti i socii trovino
nelle sue stesse condizioni di esistenza la medesima o equivalente possibilità
esteriore di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei beni
ai quali la convivenza e cooperazione sociale è mezzo. Allo studio del
conflitto fra i criteri fondamentali di valutazione morale, lo J. ha recato, e
ancora promette, notevoli contributi. ORESTANO, prof, di st. della fil. a
Palermo, ha coltivato la storia della filosofia e della pedagogia («Der
Tugendbegriff bei Kant» 1901 «Le idee fondam. di F. Nietzsche» «L’originalità di Kant» Comenio » Angiulli »
Rosmini» L. da Vinci) e la filosofia morale (« I Valori umani» 1907 «La scienza
del bene e del male» Gravia Levia» Prolegomeni alla scienza del bene e del male,
Pensieri’). Meglio che fra i positivisti, va annoverato fra i seguaci
dell’indirizzo critico. Egli ritiene che il positivismo coerente non possa
uscire dalla descrizione della vita morale: ma la scienza si rivela
insufficiente di fronte alle questioni più essenziali che la mente umana può
proporsi di fronte alla realtà, e delle quali nell’operare umano è implicita
una soluzione : la esperienza morale, forse tutta la esperienza umana, non
rivela al pensiero la totalità delle condizioni sue: non tutta la realtà è
nell’esperienza. 11 progresso dello spirito è segnato dall’accrescimento dei
problemi. D’altra parte ORESTANO ha finora soprattutto inteso a costruire sul
terreno della esperienza una scienza del bene e del male, che si limita alla
descrizione più economica, cioè più semplice e più completa, dei rapporti
funzionali elementari (espressi possibilmente nella forma del calcolo) dei
fenomeni morali; e ha portato nn ricco geniale contributo al problema del
valore e della valutazione, considerato cosi in generale come dal punto di
vista etico. Ogni sistema di vita morale consiste infatti in un complesso di
valutazioni, tendenti a obicttivarsi mediante azioni e a svilupparsi in un
sistema di principii e di leggi. Ammessa la subbiettività del valore, non per questo
se ne assume come sufficiente la spiegazione psicologica: la coscienza non è
che una piccola sezione della personalità: e quest’ultima è coestensiva col
sistema della vita, il quale presenta, nell’aspetto organico psicologico
sociale, una composizione multipla e pluricentrica. L’unità trascendentale
dell’io è un mito che non spiega nulla. La valutazione è una funzione
dell’interesse (che è reazione totale dell'io): è la coscienza riflessa di uno
stato d’interesse riferito al suo oggetto. Il concetto ontologico del valore
non può essere fondamento della scienza morale, la quale deve adoperare il
concetto del valore come un principio formale di sintesi dell’esperienza morale
senza obbedire ad alcuna intuizione concreta; caratteristico della reazione morale
è pertanto il riferimento di un oggetto particolare d’interesse al concetto
fondamentale che si ha della vita nella totalità de’ suoi scopi: questo
concetto è il vero fondamento di tutt’i giudizi etici: fondamento relativo, ma
che una volta fissato, agisce come principio assoluto. Tale definizione
s’integra nella definizione del fatto morale come impiego effettivo, cosciente
e volontario della vita in funzione di un tale concetto unitario, esplicito o
implicito, di essa: è la vita che pensa e vuole se stessa, che sceglie da sè i
suoi propri modi di essere: il mondo morale è una teleologia in azione. Ma la
vita non può pensarsi nè volersi che socialmente: la personalità sociale è il
soggetto della esperienza etica, la quale presenta cosi due aspetti, sociale e
personale. L’O. riconduce tutte le valutazioni a un comune denominatore, la
vita, che è la massima misura umana della realtà e del valore: il valore della
vita, poi, è una funzione dipendente del valqre supremo idealmente concepito:
per VALLI (vedasi), lib. doc. a Roma, Il Valore Supremo s’identifica con la
vita stessa. La sua teoria generale del valore come simbolo di una corrente
d’impulsi o di volontà concordi in una direzione, mette in luce la legge di
proiezione dei valori, per la quale la coscienza crea ai valori stessi una meta
fittizia, considerando come valore proprio l’ujtima parte consapevole di ogni
processo vitale, e con ciò crea i falsi assoluti della morale, che devono via
via decadere. Valore proprio, rispetto al quale tutti gli altri sono valori
relativi, è soltanto la vita, unico valore vero e perciò supremo, nel quale e
per il quale esistono gli altri valori, compresi i valori conoscitivi che sono
anch’essi valori strumentali della vita. In questa stessa Rivista, il V. ha
presentato modificata in senso antiintellettualistico, la teoria della
religione sostenuta nel libro « Il fondamento psicol. della religione). ZINI (vedasi), lib. doc. a Torino, aderisce,
sul terreno della gnoseologia, al realismo critico: afferma l’intima unità o
mutua compenetrazione dello spazio e del tempo, e svolge una teoria dinamica
dello spazio, concepito come emanazione del tempo: la nostra sensibilità, cioè
ia nostra vera vita spirituale in quanto è formata di rappresentazioni e di
sentimenti, d’intuizione e di volontà, è soggetta alla legge fondamentale del
tempo e delio spazio; ma le condizioni per cui nella realtà soggettiva sorgono
queste forme fondamentali, esistono nella realtà oggettiva, nella natura (« La
doppia maschera dell’universo). Nel campo della morale, Z. haprofessato sempre
la insufficienza dell’empirismo e si è venuto sempre più accostando (La morale
al bivio) alla posizione criticistica, in antitesi con il naturalismo etico e
il determinismo: ma può essere annoverato qui per l’opera data alla costruzione
di una morale logica, la quale sia l’applicazione alla condotta dei sistemi di
cognizioni formulati dalla scienza. ZINI ha vigorosamente criticato la morale
religiosa, emotiva ed eteronoma, tutta volta alla espiazione del passato e alla
redenzione dai peccato, e, svelandone il meccanismo psicologico, l’ha
presentata come impedimento alla formazione della personalità libera e
responsabile (« Il pentimento e la morale ascetica): egli ha ricostruito la
storia psicologica del sentimento e della idea di « Giustizia, e studiato il
problema sociale come problema che è anche morale e che trova la sua soluzione
non nella socializzazione della proprietà, ma nella partecipazione di tutti
alle condizioni di una civiltà superiore (« Proprietà individuale o proprietà
collettiva?). Scolaro d’ARDIGÒ e di MARCHESINI (vedasi), LIMENTANI, prof, di
fil. inor. a Firenze, ha sostenuto che un’etica indipendente dalla metafisica
deve abbandonare ogni pretesa normativa o deontologica: il valore morale si
specifica come rapporto formale fra la coscienza del dovere la quale si spiega con la costituzione
pluralistica della personalità e della società
e la condotta effettivamente praticata: misura del valore morale è lo
sforzo, ed è però competente a giudicarne, in più eminente grado, lo stesso
soggetto agente. Dalla valutazione morale strido sensu vanno distinte come «
quasi morali » altre valutazioni, fra le quali caratteristiche son quelle
dipendenti dalla relazione fra la condotta del soggetto e le aspettazioni dei
socii (« I presupposti formali della indagine etica » «La morale della simpatia «Moralità e
normalità» «L’onore e la vita morale). Salvadori, lib. doc. a Roma, contribuì
efficacemente alla diffusione della dottrina evoluzionistica, con traduzioni di
opere dello Spencer e monografie illustrative (Spencer e l’opera sua, La
scienza economica e la teoria dell’evoluzione. Saggio sulle teorie econ.-soc.
di Spencer, L’etica evoluzionista. Studio sulla fil. mor. di Spencer); combattè
gli errori del trasformismo meccanico («Natura, evoluzione e moralità) ed ebbe
a guida l’evoluzionismo così nel sostituire una spiegazione razionale dei
sentimenti morali alle spiegazioni metafisica e puramente empirica, rivelatesi
insufficienti (Determinaz., classificaz. e spiegaz. dei sent. mor.), come nel
fondare sopra la conciliazione dell’antitesi essere-divenire, un concetto
positivo del diritto naturale (Das Naturrecht und der Entwicklungsgedanke. Il
positivismo italiano già nel suo fondatore, CATTANEO (vedasi), è, sulle orme
del Vico, storicismo: MARSELLI (vedasi), scolaro di SANCTIS (vedasi), dopo
avere, ne’ primi suoi lavori di fil. della st. e di estetica, ormeggiato lo
Hegel, prova poi il disgusto dello abuso che gli hegeliani avevano fatto della
Idea astratta e della scienza a priori, e concepì la storia come la più alta
tra le scienze di osservazione, che con lo stesso metodo adottato dalle scienze
naturali, deve rivelarci le manifestazioni della natura umana e le sue leggi.
Il positivismo del M. è una metafisica monistica, che non oppone lo spirito
alla natura, nè risolve questa in quello, ma spiega con la legge di evoluzione
il progresso da una all’altro («La scienza dellastoria» Le leggi storiche
dell’incivilimento», postumo). P. R. TROIANO (vedasi) da opera alla
costituzione de La storia come scienza sociale, combattendo il concetto
dellastoria come opera d’arte. Da apprezzate ricerche d’etnologia preistorica e
protostorica (L’origine degli Indoeuropei), condotte sulla traccia luminosa
d’intuizioni del Cattaneo, MICHELIS (vedasi) procede ad approfondire il
problema della conoscenza storica. Le scienze di leggi dalla matematica alla
sociologia e la storia lato sensu,
rispondono a due distinte esigenze del pensiero: le prime hanno per oggetto quei
rapporti condizionalmente necessari delle cose e dei fenomeni che costituiscono
la «Natura»: la seconda riesce invece alla costruzione e rappresentazione del
reale a titolo di « mondo » o «universo». Hanno torto quei positivisti che
vorrebbero sostituire la storia con le scienze di leggi, estendendo a quella il
contenuto logico e il tipo epistematico di queste; ma è anche infondata (o
fondata soltanto sopra un’analisi insufficiente delle categorie sotto le quali
viene pensato il reale come natura, e sovra persistenti vedute astrattistiche e
sostanzialistiche) la svalutazione del conoscere matematico-naturalistico. Se
la costruzione della storia è il termine d’arrivo di tutto il conoscere, ogni
progresso della conoscenza storica ha per condizione il progredire delle
scienze di leggi; e se queste avessero un valore puramente convenzionale,
neanche la storia potrebbe aspirare a un valore filosofico («II problema delle
scienze storiche). BERTAZZI (vedasi), prof, di st. della fil. a Catania,
fecondo studioso del pensiero antico, medievale e moderno, ha avviato ampie
ricerche sovra «I presupposti fondamentali della storia della filosofia.
Asturaro, prof, di fil. mor. a Genova, considera i problemi morali dal punto di
vista dell’evoluzionismo, che, meglio del semplice associazionismo, offre il
modo di conciliare il naturale egoismo con l’ideale del disinteresse («Saggi di
fil. mor.): si adoperò sopratutto a sistemare la sociologia mediante la
classificazione e seriazione dei fatti sociali: approfondì la dottrina del
metodo delle scienze morali e la dottrina della classificazione delle scienze (
« La sociologia, i suoi metodi e le sue scoperte). Ma della vastissima
letteratura sociologica che dilagò per l’Italia sul finire dello scorso secolo
e nel primo decennio del presente, non è il caso di far parola: sopra quella
emergono per l’austera serietà degli intendimenti e la rigorosa fedeltà al
metodo positivo gli « Elementi di scienza politica di MOSCA (vedasi), prof, di
diritto costituzionale a Roma, e il «Trattato di sociologia generale di PARETO:
questi scrittori, se pure non fecero professione di filosofia, con il loro
pensiero robusto e originale esercitarono grandissima influenza sopra la
formazione delle giovani generazioni. Scolaro d’ARDIGÒ, LORIA (vedasi), prof,
di economia politica a Torino, sociologo ed economista dei più eminenti,
ricercò un principio che lo guidasse alla spiegazione organica della vita
sociale: non si propose la soluzione di problemi speculativi, ma intese il
materialismo storico come un ferreo determinismo economico e ne trasse nel modo
più intransigente estreme illazioni (Le basi economiche della costituzione
sociale). Diffuse con parola lucida colorita efficace la conoscenza del
movimento sociologico contemporaneo («La sociologia, il suo compito, le sue
scuole, i suoi recenti progressi Verso la giustizia sociale). La concezione
della storia come divenire automatico e fatale dei processi economici, e la
interpretazione del materialismo storico come applicazione della filosofia
materialistica alla storia, sono state vigorosamente combattute da MONDOLFO
(vedasi), prof, di st. della fi!, a BOLOGNA. LABRIOLA (vedasi), prof, di fil.
mor. a Roma, aveva sostenuto che il materialismo storico deve fondarsi sopra
una dottrina di attività, sopra la marxista filosofia della praxis: l’uomo non
è un essere passivo e inerte, docile all’azione delle condizioni esistenti:
queste, mentre limitano e ostacolano la sua azione, lo stimolano a volgersi
contro di esse per reagirvi e trasformarle: le condizioni stesse che l’uomo ha
create sono da lui, nel processo della lotta fra le classi, superate e
trasformate. Il marximo del L., contro ogni teoria dei fattori storici,
artificiosamente separati ed entificati, rivendica il principio della unità
della vita e della storia («Saggi intorno alla concez. mater. della st. » ).
Anche MONDOLFO, autore di pregevoli saggi di psicologia (Studi sui tipi
rappresentativi) e di storia della filosofia (Condillac, La morale di Hobbes, Le
teorie mor. e poi. di Helvétius, Il dubbio metodico e la st. della fil., Il
pensiero di Ardigò» «La fil. di Bruno nella interpretaz. di F. Tocco» Rousseau
nella formaz. della cose, mod., Acri e il suo pensiero) e studioso di problemi
pedagogici e culturali («Libertà della scuola), interpreta il materialismo
storico come intuizione volontaristica della vita e concezione critico-pratica
della storia (Il materialismo stor. di F. Engels, Sulle orme di Marx). A
fondamento della ricostruzione della dottrina sta lo stesso criterio, per cui
la dialettica reale del Marx si opponeva alla dialettica hegeliana della idea,
ossia il principio, derivato dall’umanismo del Feuerbach, che restituisce
all’uomo la sua concreta realtà ed azione nella vita, affermando di fronte alla
realtà dello spirito la realtà della natura. La conoscenza e la storia umana si
sviluppano in un rapporto dialettico fra soggetto (bisogni, aspirazioni,
volontà degli uomini) e oggetto (condizioni naturali e storiche): questo si
pone come limite, ostacolo e perciò stimolo progressivo all’attività umana e
alle conquiste e creazioni, ch’essa compie nella diuturna sua lotta, e che si
convertono nelle condizioni nuove, alle quali nuovamente spetterà la funzione
di limite e perciò d’impulso a nuovi sforzi di superamento. In questo
volontarismo concreto, che riconosce fra i bisogni umani la preminente
impellenza del bisogno economico, è l’essenza del processo storico e, insieme,
la direttiva di ogni azione aspirante a inserirsi efficacemente nella storia.
Alla conoscenza della dottrina e dell’attività politica degli estremi partiti
rivoluzionari ha contribuito validamente ZOCCOLI (vedasi) (« L’anarchia Gii
agitatori Le idee I fatti), autore anche di saggi sopra la filosofia dello
Schopenhauer e del Nietzsche e già prof, di fil. mor. a Catania. Largo
contributo recarono i positivisti agli studi di filosofia giuridica, nei quali
aveva già stampato un’orma profonda ARDIGÒ (vedasi) con la sua Sociologia. Uno
sforzo di conciliazione fra le dottrine positivistiche e il criticismo si
ravvisa nei tre volumi delle Opere di VANNI (vedasi), prof, di f. d. d.° a
Roma, che assegna alla fil. del dir. il triplice problema gnoseologico,
fenomenologico, deontologico: mette in luce la esigenza gnoseologica implicita
nello stesso positivismo comtiano e illustra la dottrina etico-giuridica di
Spencer: segna le linee fondamentali di un programma critico di sociologia,
riconoscendo la caratteristica della vita sociale nella «storicità-. Le sue
Lezioni ebbero grande efficacia sulla educazione mentale di parecchi giuristi.
Piuttosto eclettica che propriamente positivistica è la dottrina di Carle,
prof, di f. d. d.° a Torino (« La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita
soc.» «La F. d. d°. nello Stato mod.),
ispirata ai principii dello storicismo. La necessità di una larga concezione
sociologica e storicistica del diritto fu sostenuta da BRUGI (vedasi), prof,
d’istituz. di d° civ. a Pisa ( Introduzione enciclopedica alle Se. giur. e soc.
4 , seguace e propugnatore dei principii della scuola storica, il quale accolse
e illustrò la dottrina d’ARDIGÒA; da DALLARI (vedasi) (La esigenza del posit.
crit. per lo studio fil. del dir. » Il pensiero fil. di Spencer, Il nuovo
contrattualismo nella fil. soc. e giur.. F. d. d.° e scienza storica
dell’incivilimento); e da SOLARI (vdasi) (La scuola del diritto naturale nelle
dottrine etico-giuridiche, «La idea individ. e la idea soc. nel d°. privato» li
probi, mor.), professori di f. d. d°. a Pavia e Torino. Rigoroso positivista è
FRAGAPANE (vedasi), prof, di f. d. d°. a BOLOGNA, che sostenne contro il
contrattualismo l’unità dell’individuo e del gruppo, dell’idea e del fatto,
della coscienza e della società (Contrattualismo e sociol. contemp.), applica
al campo della filosofia giuridica il metodo genetico evolutivo (Il probi,
delle origini del dir.) e combattè l’eclettismo di VANNI (vedasi), negando il
compito deontologico della f. d. d.° Obbiettò e limiti della f. d. d.° .
Scolaro di FRAGAPANE e illustratore dell’opera di VANNI è FALCHI (vedasi),
prof, di f. d. d.° a Parma («L’opera di I. Vanni» Sulla differenziaz. del
diritto dalla mor. » «Le mod. dottrine
teocratiche» I fini dello Stato e la funz. del Potere »), che negò la
legittimità della esigenza metafisica nella f. d. d.° Particolare attenzione
all’aspetto psicologico della fenomenologia giuridica presta MICELI (vedasi),
prof, di f. d. d.° a Pisa, che sostenne la riduzione della f. d. d.° per la
parte speculativa alla filosofia morale, e per la parte tecnica alla dottrina
generale del diritto (« Le fonti del d.° dal p. d. v. psichico-soc. » Principii
di F. d. d.° »). Considerarono la vita del diritto da un punto di vista
evoluzionistico e antropologico SCHIATTARELLA (vedasi), AGUANNO (vedasi), e PAPALE
(vedasi),prof, di f. d. d.° rispettivamente a Palermo, Messina, Catania. Dalla
scuola dell’Ardigò sono usciti Alessandro Grappali e Alessandro Levi: il primo
(n. 1874), prof, di f. d. d.° a Modena, contribuì alla critica della Sociologia
del Maestro dal punto di vista del materialismo storico (« La genesi soc. del
fenomeno scientifico), fece conoscere in Italia le principali correnti del
pensiero sociologico straniero (« Saggi di sociologia » I fondamenti giu.el
solidarismo) e assegna alla sociologia la triplice funzione critica, sintetica
e teleologica («Sociologia e psicologia). LEVI (vedasi), prof, di f. d. d.°a
Catania, assegna alla filosofia il compito di discutere il problema
gnoseologico, e conseguentemente intende la f. d. d.°come logica o gnoseologia
del diritto, differenziato dalla economia e dall’etica come una distinta forma
logica o guisa dello spirito umano; assume come concetto fondamentale
dell’ordinamento giuridico, quello di rapporto giuridico, individuazione della
forma logica del diritto, che è l’apprezzamento delle attività nel loro profilo
intersoggettivo: «ubi societas, ibi ius». («Contributi ad una teoria fil.
dell’ordine giur.» F. d. d.°e tecnicismo giuridico Saggi di teoria del d.° » « La Fil. poi. di Mazzini). BARTOLOMEI
(vedasi), prof, di f. d. d.° a Napoli, in un saggidiscusse, alla stregua di una
metafisica monistica e apprezzò con equanimità e acume « I principii fondam.
dell’etica di ARDIGÒ e le dottrine della fi], scientifica, ma il suo ulteriore
pensiero si svolse in direzione piuttosto criticistica che non positivistica. DONATI
(vedasi), prof, di f. d. d.° a Macerata, porta contributi allo studio del
diritto come fenomeno, e si è poi rivolto specialmente alle ricerche storiche,
rendendosi benemerito degli studi vichiani («Interesse e attività giuridica» 11
socialismo giur. e la riforma del d.° » Il rispetto della legge dinanzi al principio
di autorità. Critica alla Fil. civ. di Hobbes »
«Autografi e documenti vichiani inediti o dispersi » Essenza e finalità
della scienza del d°). VACCA (vedasi) traccia le linee di un programma di f. d.
d.° sulla base del metodo sperimentale («Il d.° sperimentale. Il positivismo è
portato naturalmente a contribuire a quel movimento che può definirsi di
filosofia della scienza. Positivistico è l'atteggiamento assunto nel suo libro
«Scienza e opinioni» da VARISCO (vedasi), prof, di fil. a Roma, il quale non
potrebbe esser annoverato oggi più tra i positivisti, dopo la revisione e le
integrazioni alle quali è stato indotto dal suo indomito spirito di ricerca. Il
V. distingue assolutamente pensiero e realtà. Questa si compone d’infiniti
corpuscoli, estesi ma fisicamente indivisibili, dotati di proprietà
psico-fisiche. Fisicamente, i corpuscoli si muovono e all’occasione si urtano;
e, quantunque duri, negli urti si comportano come se fossero elastici. La
fisica del V. si riduce integralmente a una meccanica, sul genere di quella di
SECCHI (vedasi): l’accadere fisico è quello che ha luogo tra i corpuscoli,
mentre l’accadere psichico è provocato, In ogni corpuscolo, degli urli a cui va
soggetto. Non esistono mentalità indipendenti dal fatto del nostro pensare (il
V. mantiene anche oggi questo suo concetto, che per altro ha reso più
coerente). L’esigenza del nostro pensiero non è se non l’esigenza causale dei
fatti psichici che lo costituiscono, Ciascun fatto psichico (separatamente
preso) è insieme una forza, e un conoscere affatto embrionale, ma certo
assolutamente. Quello che è vero va distinto da quello che consta. P. es.:
consta che C è conseguenza necessaria di P; consta che il remo nell’acqua si
vede spezzato. Ma C non è vera che sotto condizione; e che il remo sia
spezzato, non è puntovero. Quello che consta non è dunque vero, in generale,
che relativamente; peraltro è un vero noto e certo. Al di là di quello che
consta c’è un vero assoluto (p. es., la dipendenza necessaria di C da P è
assolutamente vera), che può essere in parte ignoto, o non conosciuto con
certezza. Per giungere alla cognizione del vero assoluto, è necessario che ci
fondiamo su quello che consta. E a ciò si riduce quello, che dal V. fu chiamato
il suo positivismo: constano soltanto le conclusioni delle scienze positive
(dimostrative, secondo GALILEI BUONAUTI, il quale riteneva opinabili tutte le
altre dottrine). Fine della filosofia,secondoilV.,ilqualeinpropositononmutò
molto le sue opinioni, è la discussione del problema, se oltre alla natura
psico-fisica ci sia o non ci sia un soprannaturale, cioè se la religione sia o
non sia giustificata. Ed egli rispondeva allora che alla riflessione il
soprannaturale non può constare; il sentimento del soprannaturale, qualunque ne
sia il valore oggettivo, non può essere tradotto in cognizione distinta, non
può servire di fondamento alla costruzione del sapere. 1 nomi di ENRIQUES e di RIGNANO
si trovano associati nell’impresa di promuovere con la rivista Scientia
(fondata e tuttora fiorente sotto la direzione del R.) la coordinazione del
lavoro scientifico, la critica dei metodi e delle teorie, e di affermare un
apprezzamento più largo dei problemi della scienza. «Problemi della scienza»
s’intitola il saggio con il quale l’E. , matematico di fama già mondiale, si
annunziò come rappresentante di un positivismo che può dirsi critico, dominato
come tale, dalla consapevolezza della esigenza gnoseologica. La teoria della
conoscenza, sostenuta dall’E., deriva dall’esame della scienza, non accettata
dogmaticamente ma investigata nelle sue origini e nel suo significato: ed è ben
giustificata la definizione della sua costruzione come positivismo critico:
l’E. infatti elimina il dualismo di assoluto e relativo, sostanza e fenomeno
rappresenta il lavoro scientifico come un progresso senza fine, perchè sono
senza fine i rapporti che legano fra loro le cose, e il concatenamento delle
cause naturali: e questo progresso concepisce come procedimento di
approssimazioni successive, dove dalle deduzioni parzialmente verificate e
dalle contraddizioni eliminanti l’errore delle ipotesi implicite, sorgono nuove
induzioni più precise, più probabili, più estese ricerca la origine empirica
delle concezioni metafisiche, alle quali può attribuirsi soltanto il valore
d’ipotesi, capaci talora di preparare scoperte e teorie scientifiche fa oggetto
di studio il fondamento psicologico e il contenuto sperimentale delle supreme
categorie logiche opera una revisione delle stesse dottrine positivistiche, con
il fine di escluderne i residui metafisici assume come criterio della verità la
esperienza, la quale dimostra se sussista o meno l’accordo fra l’elemento
subiettivo della previsione e l’elemento obbiettivo della realtà riconosce come
dati immediati della realtà non le sensazioni pure, ma piuttosto i rapporti fra
sensazioni e volizioni che condizionano le nostre aspettative, e ne esprimono
gl’invarianti elementari riconosce pertanto che la nostra credenza a qualcosa
di reale suppone un insieme di sensazioni che invariabilmente susseguono a certe
condizioni volontariamente disposte riesce con la definizione del reale come
invariante della corrispondenza fra volizioni e sensazioni a unificare, contro
le teorie della scienza, nominalistiche e convenzionalistiche, la comprensione
del «fatto bruto» e quella del «fatto scientifico». Tutta l’opera dell’E. è
ispirata alla fede razionale nel valore della scienza e al principio della
continuità e interdipendenza di scienza e filosofia. Nella valutazione del
contrasto razionalismo-storicismo il pensiero dell’E. va sempre più evolvendosi
nel senso del razionalismo, ch’egli cerca tuttavia di comporre con l’empirismo
da un lato e con lo storicismo dall’altro («Scienza è razionalismo» «Per la storia della logica). RIGNANO
(vedasi), lib. doc. a Pavia, ha coltivato gli studi sociologici biologici
psicologici: ha esposto criticamente la sociologia comtiana, soprattutto dal
punto di vista metodologico («Là sociol. nel Corso di Fil. pos. di A. C. ): ha
spiegato il meccanismo di trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti con
una ipotesi ontogenetica, che rende conto dei fatti recati a favore così del
preforniismo come della epigenesi. L’altra ipotesi sussidiaria
suH’accutnulazione specifica, che sarebbe la proprietà fondamentale ed esclusiva
della energia nervosa, base della vita, spiega i fenomeni mnemonici
propriamente detti e la proprietà mnemonica della sostanza vivente in generale.
Così la ipotesi centroepigenetica rientra fra le teorie delio sviluppo, ed è
fornito un modello energetico, capace di dare una idea della natura intima
della vita (Sulla trasmissibilità dei caratteri acquisiti). Hanno origine e
natura mnemonica anche le tendenze affettive (« Essais de synthèse
scientifique). L’analisi del ragionamento, cioè del più complesso tra i fatti
psichici, porta a studiare gli altri fatti, sempre meno complessi, che lo
costituiscono, fino ai due più elementari, che dànno luogo a tutti gli altri:
da un lato, cioè, sensazioni ed evocazioni sensoriali, dall’altro, tendenze
affettive (« Psicologia del ragionamento). Così la sola proprietà mnemonica
spiega e unifica tutte le manifestazioni finalistiche della vita, dalla
ontogenesi e dal preadattamento anatomo-fisiologico ali’ambiente, fino
agl’istinti più complessi e alle più alte manifestazioni del pensiero (« La
memoria biologica). I nomi di Varisco, d’Enriques e di Rignano mostrano come il
pensiero italiano abbia preso parte attiva a quel movimento di revisione
critica della scienza, che è una delle caratteristiche più notevoli del pensiero
contemporaneo. Ma non debbo dimenticare
pur vedendomi costretto, per non esorbitare dai limiti del mio tema, a
un accenno sommario e pur troppo insufficiente
l’opera di Peano (Calcolo geometrico, 1 principii di Geometria
logicamente esposti) e de’ suoi discepoli Pieri, Padoa, Forti, la quale tanto
ha contribuito a dare alla matematica una rigorosa sistemazione
logico-deduttiva, con tendenza nominalistica, escludendo qualsiasi appello
all'intuizione. E vuol essere anche ricordato il valore logico e filosofico
che, partendo dagl’insegnamenti di PEANO (vedasi) e di GARBASSO (vedasi) (Fisica
d’oggi. Filosofia di domani), PASTORE (vedasi), prof, di fil. teor. a Torino,
ha dato alla logica-matematica e alla teoria dei modelli meccanici (Sopra una
teoria della scienza Logica formale dedotta dalla consideraz. di modelli
meccanici » «Del nuovo aspetto della
scienza e della fil.» «Sillogismo e
proporzione» «Il pensiero puro» «Il problema della causalità). Il calcolo
logico, secondo il P., non è che uno degl’infiniti modelli con cui si può
rappresentare l’ordine dei fenomeni e prevederli; e tutti sono immagini o
simboli equivalenti dell’infinita verità. Ma nelle sue ultime opere PASTORE
(vedasi), superando la posizione di questo suo iniziale nominalismo, accenna ad
orientarsi verso unaforma di panlogismo. Al positivismo anzi al positivismo più
rigoroso ed estremo va pure ascritta la « filosofia scettica » di RENSI
(vedasi), prof, di fil. mor. a Genova, pensatore fervido, scritore suggestivo,
polemista animoso. Egli muove in tutt’i suoi libri principali una vivace
battaglia contro l’idealismo assoluto, negando radicalmente ogni assolutezza
delle forme o attività spirituali, e sostenendo che nell’ambito della sfera
della pura ragione (in quanto cioè la pura ragione, o lo spirito, costruisca
cavando esclusivamente dal proprio fondo, a priori, e si concepisca non come
determinata dal fatto, dal dato, ma come generante essa l’oggetto) impera
sovrana e invincibile l’antinomica ossia lo scetticismo. Ma, quindi, certezza
v’è solo nella constatazione sensibile del fenomeno come tale, e a questa
certezza è parallelo l’accordo universale, in ciò, delle menti. Comincia il
regno dell’incertezza, della mera opinione, e quindi della fantasia (e perciò
in un certo senso dell’arte) quando si vuole salire oltre la constatazione del
fenomeno per interpretarlo. Dunque, o la filosofia è la constatazione del
fenomeno, ed è positivismo e scienza; o è l'interpretazione di esso, ed è mera
espressione d'impressioni, cioè arte, e, dal punto di vista del sapere,
scetticismo (« Lineamenti di Fil. scettica » ). Di conseguenza, anche nel campo
pratico, morale e diritto non sono costruzioni razionali che lo spirito cavi
con apodittica assolutezza dal proprio fondo, ma sono determinati, qua e là variamente,
dalla «Autorità» del fatto esteriore, come il positivismo sofistico e quello
hobbesiano avevano scorto («Il diritto», ib. «Filosofia dell’Autorità» «Introduzione alla scepsi etica). Anche
l’estetica è, come forma a priori dello spirito, nient’altro che scepsi
estetica (« La scepsi estetica) e come «bello» non può valere se non la
valutazione di fatto che pronuncia il gruppo sociale o la specie. Negli ultimi
suoi scritti (L'irrazionale, il lavoro, l’amore, Interiora Rerum, Realismo) RENSI
(vedasi) accentua i caratteri realistici e nello stesso tempo pessimistici del
suo scetticismo. Non come positivista, ma come scettico, vuol essere qui
ricordato LEVI (vedasi), prof, di st. d. fil. a Pavia e operoso cultore della
st. d. fil. ant. (« Il concetto del tempo nei suoi rapporti coi probi,
dell’essere e del divenire nella fil. gr. sino a Platone» « Id. nella fil. di Platone» «Sulle
interpretaz. immanentistiche della fil. di PI.»), mod. («La fil. di Berkeley) e
conteinp. (« L’indeterminismo nella fil. frane, contemp. » ecc.). Il L. («Sceptiea) rappresenta un
radicale scetticismo che eliminando da sè ogni elemento dommatico, sfugge alla
consueta accusa d’intima contraddizione. Tutte le metafisiche, compreso l’idealismo
assoluto, si fondano sopra una concezione realistica, che, in quanto voglia
rispondere a esigenze non pratiche ma puramente teoretiche, è senza
giustificazione, anzi in contrasto con il presupposto fondamentale del
conoscere (costituito dal mio io pensante): tuttedico — fuorché una, il solipsismo,
che da questo presupposto direttamente deriva, e che, sebbene criticabile
perchè includente innegabili irrazionalità, è fra tutte la più plausibile.
Contro il positivismo, il solipsismo sostiene che il dato dell’esperienza esige
una interpretazione del pensiero, e però non ha valore per sè. L’estetica del
L. («La fantasia estetica) si riassume nella tesi che « l’opera d’arte nasce
dal mistero, ha caratteri non determinabili completamente ed esaurientemente e
suscita in chi la contempla uno stato particolarissimo, irreducibile e non del
tutto definibile ». In SICILIA (non Italia) il positivismo si presenta con
aspetti caratteristici nella filosofia dell’identità di CORLEO (vedasi), prof,
di fil. mor. a Palermo, e nel radicale empirismo di GUASTELLA (vedasi), prof,
di fil. teor. a Palermo. In CORLEO., positivistico è il metodo, o il punto di
partenza: ma egli con la pura osservazione dei fatti e senza nulla presupporre
vuol giungere alla metafisica e a conclusioni eminentemente razionalistiche.
Non vi è qualità la quale non si riduca a quantità, e questa riduzione che è il
compito della scienza, rende possibile la costruzione di una filosofia che
adegui la esattezza della matematica. CORLEO ha una concezione atomistica della
vita psicologica: dalle percezioni che sono gli atti primordiali del pensiero,
e, presentandosi come in parte identiche, in parte non identiche fra loro, sono
tutte complessi, identici con la somma delle parti risultano l’analisi e la
sintesi spontanee, che operano sopra le percezioni stesse, onde i punti simili
di queste si presentano similmente, e i punti per cui si differenziano si
separano naturalmente: così si spiegano le formazioni mentali superiori. Lo
stesso fondamentale assioma della identità non è dunque che un dato della esperienza,
emergente dalla osservazione del fatto del pensiero: ma è un tale dato che
consente di trovare nell’empirico l’assoluto, perchè assoluto è che
identicamente apparisca ciò che identicamente apparisce. La noologia del C. è
per un verso psicologia empirica: ma per l’altro verso è, in quanto la sua
psicologia è piuttosto una schematizzazione matematica di esperienze
psicologiche, anche logica e gnoseologia. La esperienza si eleva al grado di
concetto per virtù della legge di priorizzazione, onde gli elementi costanti
della rappresentazione di un oggetto «prendono il davanti», diventando tipo e
norma degli altri, e quel che vieti dopo, o si assimila a ciò che precedette e
riproduce quegli elementi costanti, o non si assimila e non li riproduce: qui è
la fonte della universalità e della necessità: ma i giudizi si fondano tutti
sull’analisi del fatto o del concetto e sul riconoscimento d’un’identità
parziale o totale: non esistono giudizi sintetici a priori. Alla stregua del
principio d’identità il C. esamina e critica le idee madri (categorie) e
procede a rettificare e giustificare, contro i positivisti, le idee della
metafisica, da quella di atomo a quella di Dio, mostrando che esse hanno pure
fondamento positivo e valore obiettivo, perchè sono composte con elementi presi
dalla esperienza mediante l’astrazione e la sintesi degli astratti (« Fil.
univ. Il sistema della fil. univ. ovvero la fil. dell’identità). GUASTELLA
procede sulle orme del Mill, sforzandosi di ridurre il pensiero di lui a
maggior coerenza, e professa un assoluto nominalismo. Il suo sistema
nell’aspetto ontologico, è un fenomenismo radicale (esse est percipi) e,
nell’aspetto logico, psicologico e gnoseologico, un non meno radicale
empirismo. Fenomenismo, perchè questa dottrina non afferma niente, nè come
conosciuto nè come inconoscibile, ai di là del mondo empirico, intendendosi per
mondo empirico l’insieme dei fatti di cui si ha esperienza o che s’inferiscono
da questi in virtù della generalizzazione dei rapporti costanti osservati fra
di essi, ed essendo esso null’altro che la stessa esperienza. Empirismo, cioè
una dottrina sul criterio della verità, che tra i motivi delle nostre
affermazioni di quelle che non sono semplici atti di memoria o comparazione non
ammette come legittimo che la induzione, e respinge come illegittimi l’evidenza
intrinseca (non confermata dall’induzione) e l’influenza della passione e della
volontà. Il pensiero ha natura sensibile, e non è costituito se non da imagini
concrete e particolari: non esistono giudizi a priori : tutte le nostre
proposizioni sono affermazione o negazione della esistenza di certi fatti
particolari. Anche le nozioni di causa (notevole la critica dissolvente del
concetto di causa efficiente) e di sostanza derivano daglielementi del senso. Non
si può affermare altra esistenza che quella dei fenomeni: fenomeni interni o
subbiettivi nei quali si risolve il Me, fenomeni della natura esteriore, che si
risolvono in sensazioni reali o possibili: non vi è altra scienza possibile che
quella delle uniformità di successione, coesistenza, somiglianza tra i
fenomeni. E il fenomeno è il fatto dell’esperienza, e non esiste se non in
quanto se ne ha esperienza: ma questa conoscenza fenomenica è completa e
assoluta. Anche la credenza nella esistenza degli altri soggetti ha fondamento
nella esperienza, che dà cosi la via di sfuggire al solipsismo. Il postulato
della corrispondenza tra spirito e realtà deve essere ammesso come
obbiettivamente valido, senza uopo di prova, perchè esso è anzi implicito in
ogni prova, e non si potrebbe contestarlo senza rinunziare all’uso del
pensiero: rientra, in sostanza, nel postulato universale, che noi dobbiamo aver
fiducia nelle nostre facoltà. La parte più originale della dottrina di
GUASTELLA è la Filosofia della Metafisica, cioè la ricerca del fondamento
psicologico delle costruzioni metafisiche e la dimostrazione del loro carattere
illusorio. Quel fatto che è la metafisica, richiede di essere spiegato: come
nasce la tendenza irresistibile a trascendere la esperienza, e come si
determinano le varie forme sotto cui ci apparisce questo preteso al di là dei
fenomeni? Tale tendenza è tutt’uno con quella che porta ad assimilare tutti i
fenomeni e tutte le idee che ci formiamo su di essi ai fenomeni, e alle idee
sui fenomeni, che ci sono più familiari: particolarmente ai fenomeni
dell’azione della volontà sul nostro corpo donde la filosofia volizionale — e
del movimento per urto — donde la filosofia meccanica o impulsionistica («Saggi
sulla teoria della con. I. Sui limiti e l’ogg. della con. a priori. II. Fil.
della Metafisica» «Le ragioni del fenomenism). Non e il compito di L.
considerare le relazioni del positivismo italiano con le filosofie ch’esso
trova già vigoreggianti al suo primo manifestarsi, e con le altre correnti che
successivamente, in antitesi o in continuità con esso, hanno avuto o'ritrovato
fortuna tra noi. La precedente rassegna analitica basta a dimostrare la
profondità, l’ampiezza, la fecondità di un movimento che scaturisce da una
necessità, immanente allo spirito umano. Fin dal suo apparire il positivismo fu
accompagnato in Malia con i segni aperti di una ostilità che non ha disarmato
mai : è leggenda tanto più insistentemente ripetuta quanto più esaurientemente
sfatata ch’esso abbia mai ottenuto il predominio nell’insegnamento superiore o
aspirato a esercitarvi una tirannica dittatura. Ha tenacemente resi¬ stito
all’imperversare di polemiche, le quali hanno sovente trasceso i limiti segnati
alla critica onesta e serena, mossa unicamente da zelo di verità. Seguendo la
traccia d’ARDIGÒ, e trovando in sè la virtù di reagire contro la tendenza al
semplicismo e al rozzo empirismo, è venuto progressivamente interiorizzandosi e
affinando in sè il senso della esigenza storica e critica: inflessi- bile nel
rivendicare alla filosofia la stffi autonomia e la sua distinta funzione, ha
tenuto fede al patto di alleanza con la scienza, stretto sul fondamento della
unità di metodo : e non è certamente questa la sua minore benemerenza verso la
cultura nazionale. Firenze, R. Università. Nome compiuto: Ludovico Limentani. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limentani”.
Limentani.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Limone: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della simbolica del potere – la scuola d’Atella -- filosofia
basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Atella). Abstract. Grice:
“When I decided to educate my pupils on Peirce, I avoided his ramblings on ‘simbolo,’
since it fits less nicely than his other categories of ‘sign’ in my over-all
proposal of getting rid of his latinate prose and reduce all to ‘mean,’ which
the Italians have, but only derivatively – mentire and the post-formation,
ment-are!” Filosofo italiano. Atella, Potenza,
Basilicata. Grice: “I like Limone; like me, he has explored the idea of value
in terms of catastrophe – I didn’t. He has explored the poetics of philosophy –
and he has investigated on a concept that Strawson and I always found
fascinating, that of a person!” -- “Che cosa è, nel mondo umano, la persona?” “Tutto.” “Che cosa è, nel mondo
contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e memoria, Rubbettino. La sua ricerca filosofica
si inserisce nel solco del personalismo comunitario. Si laurea a Napoli e
il Roma. Studia a Parigi e a
Châtenay-Malabry, sede dell'Association des amis de Mounier, presso la Comunità
dei muri bianchi, cui appartenevano Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna
a Napoli. I suoi interessi di ricerca abbracciano aspetti epistemologici,
etici, filosofico-pratici e simbolici. Al centro della sua attenzione teoretica
è “la persona”. Fonda la rivista "Persona” e "Symbolicum" sulla
simbolica. SIMBOLO. Sonda in profondità l’idea di persona. Là dove la persona
non è né la semplice nobilitazione dell’essere umano in generale, né una
singola unità seriale. Della persona si può dare idea, non “concetto”, perché
l’idea è aperta come la vita, mentre il concetto è chiuso. L’idea di persona,
però, non è l’idea di un quid ma di un “QVIS” perché la persona è un “chi” (“Someone
is hearing a noise”) non un “che” (“Something is hearing a noise”)– That’s why
it’s very wrong to call “the chair is red” as third-PERSON seeing that the
chair is hardly a person!” è l’idea di un’essenza che non può essere separata
dalla concreta singola esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto
idea di un “quis”, la persona si presenta come l’altro versante del teorema
d’incompletezza di Gödel. Il significato della persona si delinea all’interno
di una costellazione in cui essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è
prospettiva ontologica sussistente e la sua verità; -è la parte di un tutto che
solo parzialmente è parte, perché per altro verso si presenta come un tutto, in
quanto è irriducibile al tutto e indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente
una regola che riesce, e non riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa
che resiste alla possibilità di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un
appartenere che resiste all’idea di appartenere. L’essere della persona
richiama, a suo modo, il problema delle antinomie di Russell. Un tale
arcipelago di paradossi costituisce, però, una forza virtuosa che interroga
ogni sistema. La persona si configura come invenzione teorica, paradosso logico
e misura epistemologica, e rappresenta il punto strutturale di base che istituisce
la visione del gius-personalismo. Altri saggi: “Tempo della persona e sapienza
del possibile: Valori, politica, diritto (ESI, Napoli); “Tempo della persona e
sapienza del possibile: Per una teoretica, una critica e una metaforica del
personalismo (ESI, Napoli); La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi,
Milano. Bellezza e persona, su “Aisthema” “La macchina delle regole, la verità
della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in
La macchina delle regole, la verità della vita (Angeli, Milano); Che cos’è il
gius-personalismo? Il diritto di esistere come fondamento dell’esistere del
diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della
scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità e tecnica (Angeli,
Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile. La persona fra potere
e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria – cf. Grice,
“Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare come diritto
alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia d’un vento
(Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua
(Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine
millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo
sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria).
Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila:
distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato
(Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV.
Melchiorre, Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto
farina. Nome compiuto: Giuseppe Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo,
la dimensione del simbolo, ventennio,
fascismo, simbolica del potere, mistica fascista, damnatio memoriae, la
composita, la simbolica, simbolo, composito. Strawson, “The concept of a
person” – Ayer: “The concept of a person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Limone: la composita” --. Luigi
Speranza, “Grice e Limone: umano e persona” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lisi: la ragione conversazionale e la
diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taranto). Abstract.
Grice: “Cuoco calls Pythagoras the father of Italian philosophy – strictly, the
father of philosophy in Magna Graecia – as Cicero refers to this uncivilized area
of the peninsula!” -- Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean. When
the Pythagoreans were being persecuted in Italy, L. escapes and makes his way
to Teba. There he becomes the tutor of Epaminonda, the city’s military leader. He writes a letter to Ipparco. Lisi.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lisi”.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lisiade: all’isola – la diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia siciliana – scuola di Catania. filosofia italiana –
Luigi Speranza (Catania). Abstract.
Grice: “Cuoco calls Pythagoras the father of Italian philosophy – he could just
as well have said, ‘and Sicilian philosophy, too!’ -- Filosofo italiano. Catania, Sicilia. A Pythagorean
according to Giamblico di Calcide. Lisiade. Refs. Luigi Speranza, “Grice e
Lisiade.”
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lisibio: la ragione conversazionale e la
diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto). Abstract: Grice: “Pythagoras was not an Italian, but he
became an Italian by adoption – at Crotona – and his son was Italian enough,
having been born there. But upon the destruction of the headquarters of his
sect in that seaside village, his teachings spread all over: Taranto,
Meloponto, Sibari, and the rest! His doctrines have made a nationalist philosopher
such as Cuoco to refer to Pythagoras as the father of Italian philosophy!” -- Filosofo
italiano. Taranto, Puglia. A
Pythagorean according to Giamblico di Calcide. Lisibio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Lisibio.”
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lisimaco: la ragione conversazionale al
portico romano -- Roma – filosofia
toscana – filosofia fiorentina – scuola di Firenze -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice:
“Philosophers can be sneaky – and allowed to be so! Consider the funny names
that some -isms have in classical philosophy: stoicismus – try to define it essentially!
The idea of the porticus is such an accident to this -ism that it never ceases
to irritate me when someone calls himself a ‘stoic’!” -- Filosofo italiano. Firenze,
Toscana. He belonged to The Porch. The tutor of Amelio Gentiliano. Since Amelio
comes from Firenze, that may be taken as having been the home of L. as well. Lisimaco.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lisimaco.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Livi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del consenso sociale
– la scuola di Prato -- filosofia toscana -- filosofia italiana – l’aporia: se
cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato). Abstract. Grice: “There
is a word we don’t use at Oxford much, although perhaps we should. I gave many
seminars with Warnock on SENSING, but few on CO-SENSING. The Italians have a
word for this, consenso – and they build a whole philosophy around it!” Filosofo
italiano. Prato, Toscana. Grice: “Livi is one of the few Italian philosophers
who have taken Moore’s ‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi
justifies common-sense, not unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’”
Allievo di Gilson, collabora con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia la scuola filosofica del senso comune,
rappresentata dalla Common-Sense Association, che ha come organo ufficiale la
rivista "SENSVS COMMVNIS” – cf. Grice on Malcolm, Moore -- . Alethic
Logic". Tra i suoi numerosi discepoli o estimatori vi sono Renzi, autore
di importanti saggi di Storia della Metafisica, Bettetini, Arecchi,
Spatola, Covino ed Arzillo. Fondatore di
Vinci, membro associato della Accademia d’AQUINO, decano e professore emerito
della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense. Firma con
Giovanni Paolo II alcune parti dell'enciclica Fides et ratio. «Senso
comune» è il termine utilizzato da Livi – apres Malcolm, Moore e Grice -- in chiave
anti-cartesiana per individuare le certezze naturali e incontrovertibili
possedute da ogni uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a
priori, ma di un sistema organico di certezze universali e necessarie che
derivano dall'esperienza immediata e sono la condizione di possibilità di ogni
ulteriore certezza. – cf. Grice, “Common Sense” --. Grice, “Common Sense and
Ordinary Language,” “Common Sense and Scepticism” --. Ha per primo precisato quali siano queste certezze e
ha provato con il metodo della presupposizione che esse sono in effetti il
fondamento della conoscenza umana. Il senso comune comprende dunque l'evidenza
dell'esistenza del mondo come insieme di enti in movimento; l'evidenza dell'io,
come soggetto che si coglie nell'atto di conoscere il mondo; l'evidenza di
altri come propri simili; l'evidenza di una legge morale che regola i rapporti
di libertà e responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di Dio come fondamento
razionale della realtà, prima causa e ultimo fine, conosciuto nella sua
esistenza indubitabile grazie a una inferenza immediata e spontanea, la quale
lascia però inattingibile il mistero della sua essenza, che è la Trascendenza
in senso proprio. Queste certezze sono a fondamento di un sistema di logica
aletica su base olistica. Tra gli studi recenti sul sistema della logica
aletica elaborato da lui vanno ricordati i saggi di AGAZZI, "Valori e
limiti del senso comune" (Angeli, Milano), Ottonello ("L.", in
"Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo ("La riabilitazione del
SENSO COMUNE", in "Memoria e progresso", Fede et Cultura,
Verona), di Arzillo, “Il fondamento del giudizio -- una proposta teoretica a
partire dalla filosofia del SENSO COMUNE (Vinci, Roma ); Renzi, La logica
aletica e la sua funzione critica -- analisi della proposta di L. (Vinci,
Roma). Hanno scritto su L. anche Andolfo, storico della filosofia antica, Sacchi,
Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson, Fabro ed Agazzi
ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della speculazione metafisica in
dialogo con grandi filosofi antichi (Platone, Aristotele, la Scesi, Agostino),
del Medioevo (Anselmo, Aquino, Scoto) e dell'età moderna (VICO, Kierkegaard,
Rosmini-Serbati). Convinto assertore del metodo realistico di interpretazione
dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni utilizzando sistematicamente gli
strumenti dialettici offerti dai filosofi della scuola analitica. Suoi critici
più intransigenti sono stati, da una parte, l’idealista Severino, e dall'altra
il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri saggi: “Cistiano e filosofo
-- il problema (L'Aquila: Japadre);
“Cristiano e comunista” (Torre del Benaco: Colibrì); “Filosofia del SENSO
COMUNE -- Logica della scienza (Milano: Ares); “IL SENSO COMUNE tra
razionalismo e la scesi in VICO” (Milano: Massimo); “Lessico filosofico latino”
(Milano: Ares); “Il principio di coerenza – SENSO COMUNE e logica epistemica”
(Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano: Mondadori); “La filosofia in eta
antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico della filosofia, Roma:
Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità del pensiero
(Fondamenti di logica aletica) Roma: Laterano); “Razionalità della fede nella
Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica” (Roma:
Vinci); “La ricerca della verità -- Dal SENSO COMUNE alla dialettica” (Roma:
Vinci); L'epistemologia d’AQUINO e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni );
“SENSO COMUNE e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e
perché se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia
in eta antica: aspetti sociali”, La filosofia antica e medioevale; moderna;
contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento, Roma: Alighieri); “Logica
della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “SENSO
COMUNE e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima”
(Roma: Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri);
“Premesse razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula
fidei” (Roma: Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i
criteri di valutazione e la dottirna sociale della chiesa” (Roma: Vinci);
Dizionario critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio
della metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “IL SENSO
COMUNE al vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del SENSO COMUNE. Logica
della scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come
distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia
religiosa" (Roma: Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza
della verità. Il sistema della logica aletica e il procedimento della
giustificazione epistemica” (Roma: Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica
del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi
del pensiero. Come la verità viene al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e
Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica
scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa", su Gli equivoci della teologia morale dopo
l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci);
“Aquino filosofo” in Piolanti, AQUINO nella storia della filosofia”
(Roma: Vaticana); “La filosofia di Gilson", in Piolanti, Gilson, filosofo, Roma: Vaticana, "L'unità dell'ESPERIENZA nella
gnoseologia in AQUINO", in Piolanti "Noetica, critica e metafisica in
chiave tomistica", Roma: Vaticana); “SENSO COMUNE e unità delle
scienze"[cf. Grice, Einhiet Wissenschaft]
in Martinez "Unità e autonomia del sapere: il dibattito",
Rome: Armando, Ledda, In memoriam: Corrispondenza Romana, antoniolivi.Vinci, su
editriceleonardo ISCA Commonsense
Association ca-news; fidesetratio. Ilgiudiziocattolico. Antonio Livi. Keywords: ‘il senso
commune in Vico” – Grice develops a sceptical defence in his early “Common
sense and scepticism,” “mainly motivated by what he sees as a ‘cavalier
attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” – Grice: “I’m not sure
Livi would agree with my idea, but I think he would – certainly Vico took the
sceptic challenge possibly most seriously than anyone and Livi is an expert on
Vico. Vico’s line of defense lies on the connection, conceptual he thinks,
between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm and I have to reach a
consensus that we are going to use ‘know’ for things like ‘I know that s is p,’
say, there is cheese on the table, there is a mermaid on the table. Etc. And
that “if I’m not dreaming” may not always be a conversationally appropriate
defeater!” – Nome compiuto: Livi. Keywords:
consenso sociale, amoris laetitia, Letizia dell’amore -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Livio: la ragione conversazionale e la
storia romana come fonte della morale romana – etica togata -- Roma – filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Abstract.
Grice: “I give only ONE example from the History of England in my seminars: “Decapitation
willed Charles I’s death” – On the other hand, there’s Livio – a philosopher who
sprinkled his philosopjhical treatises with such an abundance of historical
references that the vulgus knows him as a historian, rather!” Filosofo
italiano. Padova, Veneto. Disambiguazione
– "Livio" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Livio
(disambigua). (latino) «Neque indignetur sibi Herodotus aequari Titum Livium»
(italiano) «Che Erodoto non s'indigni che gli venga eguagliato Tito Livio»
(Quintiliano, Institutio oratoria, X, 1, 101) Busto di Tito Livio, opera di
Lorenzo Larese Moretti (1858-1867) Tito Livio (in latino Titus Livius[1];
Patavium, 59 a.C. – Patavium, 17 d.C.) è stato uno storico romano, autore degli
Ab Urbe condita, una storia di Roma dalla sua fondazione fino alla morte di
Druso, figliastro di Augusto, nel 9 a.C. È considerato uno dei maggiori storici
dell'Antica Roma, assieme a Tacito.[2] Biografia Ritratto di Livio Secondo
Girolamo, il quale a sua volta si rifà al De historicis di Svetonio, nacque nel
59 a.C.[3] a Padova.[4] Quintiliano ha tramandato la notizia secondo la quale
l'oratore Asinio Pollione rilevava in Livio una certa patavinitas
("padovanità" o peculiarità padovana), da intendersi come patina
linguistica rivelatrice della sua origine,[5] mentre il celebre epigrammista
Valerio Marziale ricorda l'accentuato moralismo della sua terra,[6] tipico del
carattere di Livio, tanto quanto le sue tendenze politiche conservatrici.[7] Lo
stesso Livio, citando Antenore, mitico fondatore di Padova, all'inizio della
sua monumentale opera, conferma indirettamente le proprie origini patavine.[8]
Per tutta la sua vita, ha dimostrato sempre un amore sfrenato per la sua città
natale.[senza fonte] I Livii erano di origine plebea, ma la famiglia poteva fregiarsi
di antenati illustri in linea materna: nella Vita di Tiberio Svetonio ricorda
che la Liviorum familia «era stata onorata da otto consolati, due censure, tre
trionfi e persino da una dittatura e da un magistero della cavalleria».[9]
Verosimilmente, Tito Livio fu educato nella città natale, istruito prima da un
grammatico, con cui apprese a scrivere in un buon latino e imparò altresì il
greco, e poi da un retore, che lo avvicinò «all'eloquenza politica e
giudiziaria».[10] Uno degli avvenimenti più importanti della sua vita fu il
trasferimento a Roma per completare gli studi; fu qui che entrò in stretti
rapporti con Augusto, il quale, secondo Tacito,[11] lo chiamava
"pompeiano", ossia filo-repubblicano; questo fatto non compromise la
loro amicizia, tanto che godette sempre della stima e dell'ospitalità
dell'imperatore, e per suo consiglio il nipote e futuro imperatore Claudio
compose un'opera storica.[12] Non ebbe tuttavia incarichi pubblici, ma si
dedicò alla redazione degli Ab Urbe condita libri per celebrare Roma e il suo
imperatore, e si impose ben presto come uno dei più grandi storici del suo
tempo. Fu anche autore di scritti di carattere filosofico e retorico andati
perduti.[13] Ebbe un figlio, che egli esortò a leggere Demostene e Cicerone,[14]
autore di un'opera di carattere geografico, e una figlia, che sposò il retore
Lucio Magio.[15] Non si sa quando sia tornato a Padova, ma è certo che qui vi
morì nel 17 d.C., secondo Girolamo: «T. Livius historiographus Patavii
moritur».[16] Opere Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura
latina (31 a.C. - 14 d.C.). Gli Ab Urbe condita libri Lo stesso argomento in
dettaglio: Ab Urbe condita libri. Voce da controllare Questa voce o sezione
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delle Historiae di Livio Ab Urbe condita, 1715 Iniziata nel 27 a.C., la
raccolta Ab Urbe condita si componeva di 142 libri che narravano la storia di
Roma dalle origini (nel 753 a.C.) fino alla morte di Druso (9 a.C.), in forma
annalistica; è molto probabile che l'opera si dovesse concludere con altri 8
libri (per un totale di 150) che proseguissero fino alla morte di Augusto,
avvenuta nel 14 d.C.[senza fonte] I libri furono successivamente divisi in decadi
(gruppi di 10 libri) che avrebbero dovuto coincidere con determinati periodi
storici. Dell'intera opera ci è pervenuta solo una piccola parte, per un totale
di 35 libri, cioè quelli dall'I al X e dal XXI al XLV (la prima, la terza, la
quarta decade e cinque libri della quinta). Gli altri sono conosciuti solo
tramite frammenti e riassunti ("Periochae"). I libri che si sono
conservati descrivono in particolare la storia dei primi secoli di Roma dalla
fondazione fino al 293 a.C., fine delle guerre sannitiche, la seconda guerra
punica, la conquista della Gallia cisalpina, della Grecia, della Macedonia e di
una parte dell'Asia Minore. L'ultimo avvenimento importante che si trova è
relativo al trionfo di Lucio Emilio Paolo a Pidna. Già il titolo dell'opera dà
l'idea della grandezza dei propositi dello storico. Livio utilizzò il metodo
storiografico che alterna la cronologia storica alla narrazione, spesso
interrompendo il racconto per annunciare l'elezione di un nuovo console, dato
che questo era il sistema utilizzato dai Romani per tener conto degli anni.
Nell'opera, Livio denuncia inoltre la decadenza dei costumi ed esalta al
contrario i valori che hanno fatto la Roma eterna. Lo stesso Livio affermò
inoltre che la mancanza di dati e fonti certe precedenti al sacco di Roma da
parte dei Galli, nel 390 a.C., aveva reso il suo compito assai difficile. A
rendere più arduo il compito dello storiografo fu il fatto che non poteva
accedere, come privato cittadino, agli archivi e dovette accontentarsi di fonti
secondarie (documenti e materiali già elaborati da altri storici). Allo stesso
modo, molti storici moderni ritengono che, per la mancanza di fonti puntuali e
precise, Livio abbia presentato per le stesse vicende sia una versione mitica
sia una versione "storica", senza privilegiare nessuna delle due
versioni, ma lasciando alla discrezione del lettore la decisione su quale sia
la più verosimile. Nella prefazione è l'autore a spiegare che «quanto agli
eventi relativi alla fondazione di Roma o anteriori, non cerco né di
confermarli né di smentirli: il loro fascino è dovuto più all'immaginazione dei
poeti che alla serietà dell'informazione» (ne è un esempio la presenza
nell'opera del mito dell'ascensione al cielo di Romolo e di un racconto secondo
il quale lo stesso Romolo sarebbe stato ucciso). Il suo talento non va tuttavia
ricercato nell'attendibilità scientifica e storica del lavoro quanto nel suo
valore letterario (il metodo con cui impiega le fonti è criticabile poiché non
risale ai documenti originali, qualora ve ne siano, ma utilizza quasi
esclusivamente fonti letterarie). Livio scrisse larga parte della sua opera
durante l'impero di Augusto; nonostante ciò, la sua opera è stata spesso
identificata come legata ai valori repubblicani e al desiderio di una restaurazione
della repubblica. In ogni modo, non vi sono certezze riguardo alle convinzioni
politiche dell'autore, dal momento che i libri sulla fine della repubblica e
sull'ascesa di Augusto sono andati perduti. Certamente Livio fu critico nei
confronti di alcuni dei valori incarnati dal nuovo regime, ma è probabile che
il suo punto di vista fosse più complesso di una mera contrapposizione
repubblica/impero. D'altro canto, Augusto non fu affatto disturbato dagli
scritti di Livio, e anzi lo incaricò dell'educazione di suo nipote, il futuro
imperatore Claudio. Nella Ab Urbe condita (libro IX, capp. 17–19) si trova la
prima ucronia conosciuta, quando Livio immagina le sorti del mondo se
Alessandro il Grande fosse partito per la conquista dell'occidente anziché
dell'oriente. Lo storico si dice convinto che, in tal caso, Alessandro sarebbe
stato sconfitto dalla maggiore organizzazione dell'esercito e dello Stato
romano. Stile "Titus Livius historicus" in un'illustrazione delle
Cronache di Norimberga. Livio fu sempre accusato di patavinitas
("padovanità"); ancora oggi non si è riusciti a capire quale sia il
significato preciso del termine: la maggior parte dei critici rileva in ciò una
critica nei confronti dello stile "provinciale" dello storico (ma di
suddetta provincialità non si rilevano tracce negli scritti a noi pervenuti)
mentre altri, come il Syme, ritengono che il termine riguardi più la sfera
morale e ideologica. Questa critica è stata mossa inizialmente da Asinio
Pollione, politico e letterato romano. Quintiliano definì il suo stile come una
lactea ubertas (letteralmente "abbondanza di latte"), per indicare
che la prosa di Livio è scorrevole e allo stesso tempo dolce e piacevole per il
lettore. Lo stile di Livio è caratterizzato da architetture ben studiate e da
un periodare fluente. A Livio interessa comporre un'opera dilettevole sulla
storia di Roma, non facendolo scientificamente (come faceva Tucidide in
Grecia), ma raccogliendo semplicemente le notizie dando così piacevolezza
all'opera. Ciò lo allontana dallo stile secco e chiuso tipico di Polibio e fa
sì che la sua narrazione venga caratterizzata da sfumature definibili
"drammatiche", senza eccessi. La storia per lui è "Magistra
Vitae" dal punto di vista morale, vivendo infatti in un periodo difficile
per la società romana riteneva che il modello da seguire per tornare la grande
potenza di un tempo sarebbe stato quello degli antichi romani, per primo quello
di Romolo. Livio era un grande nostalgico del passato soprattutto riguardo alla
morale e ai valori che avevano reso grande Roma, che in quel periodo erano in
grande declino. Livio attribuisce ai vari personaggi che pone sotto analisi dei
caratteri quasi assoluti, facendoli diventare dei paradigmi di passioni (tipi).
Un altro elemento tipico della drammatizzazione è quello di mettere in bocca ai
personaggi dei discorsi, sia in forma diretta che indiretta, informazioni utili
ai fini della narrazione, soprattutto per quanto riguarda la parte
"dilettevole" del suo intento. I discorsi sono infatti costruiti in
maniera fantasiosa, e di fatto non sono da prendere come verità storiche
oggettive ma come esigenze di stampo narrativo e psicologico. Spesso lo storico
padovano rileva come una situazione stia precipitando, quando all'ultimo
istante si ha un ribaltamento di fronte inatteso, il tipico procedimento
teatrale greco del "deus ex machina". Dal punto di vista prettamente
stilistico Livio procede sulle orme di Erodoto (più fiabesco) e segue il
modello di Isocrate, con la sua eloquenza piacevolmente narrativa. Fama di Tito
Livio tra i posteri L'opera di Livio fu un esempio di stile e di rigore
storiografico durante l'epoca dell'Impero, venendo copiata nelle biblioteche
imperiali. Successivamente, nel Medioevo, il testo fu copiato anche nelle
abbazie cristiane. Livio ebbe famosi ammiratori, tra cui Dante Alighieri, che
nel XXVIII canto dell'Inferno della Divina Commedia cita un episodio cruento
della Battaglia di Canne, preso da Livio, ed elogia lo storico: «come Livio
scrive, che non erra» (XXVIII, 12). Anche Niccolò Machiavelli lo stimava e
scrisse i famosi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Note ^ Titus è il
praenomen, cioè il nome personale; Livius è il nomen, cioè il nome gentilizio,
che significa "appartenente alla gens Livia". Dunque, Tito Livio non aveva
il cognomen, il terzo nome, quello di famiglia, cosa peraltro non insolita in
epoca repubblicana. In ciò le fonti classiche sono concordi: Seneca (Ep.,
100,9), Tacito (Ann., IV,34,4), Plinio il Giovane (Ep., II,3,8) e Svetonio
(Claud., 41,1) lo chiamano Titus Livius; Quintiliano lo chiama Titus Livius
(Inst. Or., VIII,1,3; VIII,2,18; X,1,101) o semplicemente Livius (Inst. Or.,
I,5,56; X,1,39). Nell'epigrafe sepolcrale di Patavium, che con tutta
probabilità lo riguarda, è chiamato, con l'aggiunta del patronimico, T(itus)
Livius C(ai) f(ilius) (CIL V, 2975). ^ Tommaso Gnoli, Livio, Tito, in
Enciclopedia dei ragazzi, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2006. ^
Chronicon, anno Abrami 1958 (= 59 a.C.): «Messala Corvinus orator nascitur et
T. Livius Patavinus scriptor historicus». Tuttavia Messalla Corvino nasce nel
64 a.C. Probabilmente l'errore è dovuto alla somiglianza dei nomi dei consoli
dei due anni, Cesare e Figulo e Cesare e Bibulo. Il luogo di nascita è
confermato anche da Asconio Pediano, Pro Cornelio, Simmaco, Epistulae, IV, 18,
e Sidonio Apollinare, Carmina, II, 189, oltre che da Asinio Pollione.
Quintiliano, Institutio oratoria Pollio deprehendit in L. Patavinitatem e: «in
Tito L. mirae facundiae viro putat inesse Pollio Asinius quamdam Patavinitatem.
Marziale, Epigrammaton: Tu quoque nequitias nostri lususque libelli Uda,
puella, leges, sis Patavina licet. Ricordate da Cicerone, Philippica durante la
guerra civile: Patavini eiecerunt missos ab Antonio, pecunia, militibus et,
quod maxime deerat, armis nostros duces adiuverunt. Ab Urbe condita libri.
Svetonio, Tiberius: Quae familia, quamquam plebeia, tamen et ipsa admodum
floruit octo consulatibus, censuris duabus, triumphis tribus, dictatura etiam
ac magisterio equitum honorata. Solinas, Introduzione a Tito Livio, Storia di
Roma, Milano, Mondadori. In Annales, Tacito fa dire a Cremuzio Cordo: L.,
eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudibus tulit,
ut Pompeianum eum Augustus appellaret; neque id amicitiae eorum offecit. Svetonio,
Claudius, Seneca, Epistulae: scripsit enim et dialogos, quos non magis
philosophiae adnumerare possis quam historiae, et ex professo philosophiam
continentis libros. Quintiliano, Institutio oratoria: apud L. in epistula ad
filium scripta, legendos Demosthenem atque Ciceronem, tum ita ut quisque esset
Demostheni et Ciceroni simillimus». Solinas, cit., p. XIII; all'opera del
figlio di Livio accenna Plinio il Vecchio. Chronicon, anno Abrami 2033 (= 17
d.C.). Bibliografia Ab Urbe condita libri, edizione del XV secolo Tito L.,
Storia di Roma dalla Sua Fondazione, edizioni BUR, Testo Latino a fronte. Trad.
e Note di Michela Mariotti (Si riferisce al Volume 13, edizione della seconda
ristampa 2008) Angelo Roncoroni, Roberto Gazich, Elio Marinoni, Elena Sada, Studia
Humanitatis vol. 3 La formazione dell'Impero L., Storia di Roma, Newton
Compton, Milano, 1997 (6 volumi) traduzione di Gian Domenico Mazzocato Opera di
Giovanna Garbarino Storie Sansoni, 1918, commenti di Carolina Lanzani Tito
Livio, Ab urbe condita, Stampate nella inclita cittade di Venetia, per Zovane
Vercellense ad istancia del nobile ser Luca Antonio Zonta fiorentino. L., Ab
Urbe condita. Libri 6.-23., Venetiis, apud Carolum Bonarrigum, 1714. (LA) Tito
L., Ab Urbe condita. Libri, Venetiis, apud Carolum Bonarrigum. Manfredi, Codici
di Tito Livio nella Biblioteca di Niccolò V, in Italia medioevale e umanistica,
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Romana di Tito L. V · D · M Storici romani Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Età augustea Portale Letteratura Categorie: Storici
romaniStorici del I secolo a.C.Storici del I secoloRomani del I secolo
a.C.Romani del I secoloNati nel 59 a.C.Morti nel 17Nati a PadovaMorti a
PadovaPersonaggi citati nella Divina Commedia (Inferno)Tito
Livio[altre]Although famous as one of the great Roman historians, he is also a
philosopher, who popularises the genre of the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo.
DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI L. di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA,
EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o vi mando
un presente, il quale se non corrisponde agl’obblighi clic io ho con voi, è
tale senza dubbio, quale ha potuto Machiavelli mandarvi maggiore. Perchè in
quello io ho espresso quanto io so, quanto io ho imparato per una lunga pratica
e continova lezione delle cose del mondo. E non porlendo nè voi nè altri
disiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho donato più. Bene vi
può incrcsccre della povertà dello ingegno mio, quando siano queste mie
narrazioni povere; e della fallacia del giudizio, quando io in molte parli,
discorrendo, m'inganni. Il che essendo, won so quale di noi si abbia ad esser
meno obbligato all’altro; o io a voi, che mi avete forzalo a scrivere quello
ch’io mai per me medesimo non arci scritto; o voi a me, quando scrivendo non
abbi soddisfatto. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano
tulle le cose degli amici: dove si considera più sempre l’intenzione di chi
manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo io ho
una salisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molle
sue circostanze, in questa sola so eh io non ho preso errore, di avere delti
voi, ai quali sopra tutti gli altri questi miei Discorsi indirizzi: sì perché,
facendo questo, ini pnre aver mostro qualche gratitudine de benefizii ricevuti:
si perchè e mi pare esser uscito fuora dell’uso comune di coloro che scrivono,
i quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare; e,
accecati dall’ambizione c dall’avarizia, laudano quello di tutte le virtuose
qualitadi, quando di ogni vituperevole parte doverrebbono biasimarlo. Onde io,
per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono Principi, ma
quelli che per le infinite buone parti loro meriterebbono di essere; nè quelli
che polrebbono di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non
polendo, vorrebbono farlo. Perchè gl’uomini, volendo giudicare dirittamente,
hanno a stimare quelli che sono, non quelli che possono esser liberali; e così
quelli che sanno, non quelli che, senza sapere, possono governare un regno. E
gli scrittori laudano più Icronc Siracusano quando egli era privato, che Perse
Macedone quando egli era re: perchè a Icronc a esser principe non manca altro
che il principato; quell’altro non avera parte alcuna di re, altro che il
regno. Godetevi, pertanto quel bene o quel male che voi medesimi avete voluto:
e se voi starete in questo errore, che queste mie oppinioni vi siano grate, non
mancherò di seguire il resto della istoria, secondo che nel principio vi
promisi. Valete Ancouaciiè, per la invida natura degl’uomini, sia sempre stato
pericoloso il ritrovare modi ed ordini nuovi, quanto il cercare acque e terre
incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni
d’altri; nondimeno, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di
operare, senza alcun rispetto, quelle cose che io creda rechino comune
benefìzio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo
stata per ancora da alcuno pesta, se la mi arrecherà fastidio e diffìcultù, mi
potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie
fatiche considerassero. E se T ingegno povero, la poco esperienza delle cose
presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo mio conato difettivo
e di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno, che con più virtù, più
discorso e giudizio, potrà a questa mia intenzione satisfare: il che se non mi
arrecherà laude, non mi dovrebbe partorire biasimo. E quando io considero
quantoonore si attribuisca all’antichità, c comemolte volte, lasciando andare
moltialtri esempi, un frammento d’una antica statua sia stato comperato
granprezzo, per averlo appresso di sè, onorarne la sua casa, poterlo fare
imitare da coloro che di quella arte si dilettano; e come quelli poi con ogni
industria si sforzano in tutte le loro opererappresentarlo: e vcggendo,
dall’altrocanto, le virtuosissime operazioni che le istorie ci mostrano, che
sono state operate da regni cda repubbliche auliche, dai re, capitani,
cittadini, datori di leggi, ed ultri che si sono per la loro atfaticati, esser
più presto ammirate che imitate; au/i in tanto da ciascuno inogni parte
fuggite, che di quella antica virtù non ci è rimaso alcun seguo: posso fare che
insieme non me nelavigli e dolga; e tanto più, quanto veggio nelle differenze
che intra iladini civilmente nascono, o nelle inalattie nelle quali gl’uomini
incorrono, essersi sempre ricorso a quelli giudiciio a quelli rimedi che
dagl’antichi sono stati giudicati o ordinati. Perchè le leggi civili non sono
altro che sentenzio date dagli antichi iurcconsulti, le quali, ridotte in ordine,
a’presenti nostri iureconsulti giudicare insegnano; nè ancora la medicina è
altro che cspcrienzia fatta dagli antichi medici, sopra la quale fondano i
medici presenti li loro giudicii. Nondimeno, nell’ordinare le repubbliche, nel
mantenere gli Stati, nel govcrnai e i regni, nell’ordinare la milizia ed
amministrar la guerra, nel giudicare i sudditi, nell’accrescere l’imperio, non
si trova uè principi, nè repubbliche, nè capitani, nè cittadini che agl’esempi
degl’antichi ricorra. Il che mi persuado che nasca non tanto dalla debolezza
nella quale la presente educazione ha condotto il mondo, o da quel male che uno
ambizioso ozio ha fatto a molte provincie c città cristiane, quanto dal nou
avere vera cognizione delle istorie, per non trarne, leggendole, quel senso, nè
gustare di loro quel sapore che le hanno in sè. Donde nasce che infiniti che
leggono, pigliano piacere di udire quella varietà dell’accidenti che in esse si
contengono, senza pensare altrimeute d’imitarle, giudicando l’imitazione non
solo difficile ma impossibile: come se il cielo, il sole, gl’elementi,
gl’uomini fossero variati di moto, d’ordine e di potenza, da quello eli’egli
erano anticamente. Volendo, pertanto, trarre gl’uomini di questo errore, ho
giudicalo necessario scrivere sopra tutti quelli libri di L. che dalla
malignità dei tempi non ci sono stati interrotti, quello che io, secondo
l’antiche e modern cose, giudico esser necessario per maggiore intelligenzia
d'essi; acciocché coloro che questi miei discorsi leggeranno, possino trarne quella
utilità pella quale si debbe ricercare la cognizione della istoria. G benché
questa impresa sia difficile, nondimeno, aiutato da coloro che mi hanno ad
entrare, sotto aquesto peso confortato, credo portarlo in modo che ad un altro
reste breve cammino a condurlo al luogo destinato. Quali siano stati
universalmente i principit’di qualunque città, c quale fosse quello di ROMA.
Coloro che leggeranno qual principio fosse quello della città di ROMA, e da
quali legislatori e come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù si
sia per più secoli mantenuta in quella città; e che di poi ne sia nato
quell’imperio, al quale quella repubblica aggiunse. E volendo discorrere prima
il nascimento suo, dico che tutte le città sono edificate o dagl’uomini natii
del luogo dove le s’edificano, o dai forestieri. Il primo caso occorre quando
agl’abitatori dispersi in molte e piccole parli non par vivere sicuri, non
potendo ciascuna per sè, e per il sito e per il piccol numero, resistere
all’impeto di chi l’assalta; e ad unirsi per loro difensione, venendo il
nemico, non sono a tempo; o quando fossero, converrebbe loro lnsciare
abbandonati molti de’loro ridotti, e cosi verrebbero ad esser sùbita preda dei
loro nemici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o da loro
medesimi, o d’alcuno che sia infra di loro di maggior autorità, si ristringono
ad abitar insieme in luogo eletto da loro, più comodo a vivere e più facile a
difendere. Di queste, infra molle altre, sono state Atene e Vincaia. La prima,
sotto l’autorità di Teseo, fu per simili cagioni dall’abitatori dispersi
edificata; l’altra, sendosi molti popoli ridotti in certe isolette che erano
nella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle guerre che ogni dì, per lo
avvenimento di nuovi barbari, dopo la declinazione dell’imperio romano,
nascevano in ITALIA, cominciano infra loro, senza altro principe particolare
clic gli ordinassi, a vivere sotto quelle leggi che parvono loro più atte a
mantenerli. Il che successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette
loro, non avendo quel mare uscita, e non avendo quelli popoli che affliggevano
ITALIA, navigi da poterli infestare: talché ogni picciolo principio li potò
fare venire a quella grandezza nella quale sono. Il secondo caso, quando da
genti forestiere è edificata una città, nasce o da uomini liberi, o che
dipendano d’altri come sono le colonie mandate o da una repubblica o d’un
principe, per Sgravare le loro terre d’abitatori, o per difesa di quel paese
che, di nuovo acquistato, vogliono sicuramente e senzas pesa mantenersi; delle
quali città IL POPOLO ROMANO ne edifica assai, e per tutto l’imperio suo:
ovvero le sono edificate d’un principe, non per abitarvi, nia per sua gloria;
come la città d’Alessandria d’Alessandro. E per non avere queste cittadl la
loro origine libera, rade volte occorre che le facciano progressi grandi, e
possinsi intra i capi dei regni numerare. Simile a queste fu l’edificazione di
FIRENZE, perchè (fi edificata da’soldati di SILLA, o, a caso, dagl’abitatori
dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga pace che sotto
OTTAVIANO nacque nel mondo, si ridussero ad abitare nel piano sopra Arno) si
edifica sotto l’imperio romano; nè potette, ne’principii suoi, fare altri
augumentiche quelli che per cortesia del principe li erano concessi. Sono
liberi l’edificatori delle cittadi quando alcuni popoli, o sotto un principe o
da per sé, sono costretti, o per morbo o per fame o per guerra, od abbandonare
il paese potrio, e cercarsi nuova sede: questi tali, oegli abitano le cittadi
elle e’ trovano nei paesi eli’ egli acquistano, come fa Moisè; o ne edificano
di nuovo, come fa ENEA. In questo caso è dove si conosce la virtù dello
edificatore, e la fortuna dell’edificato: la quale è più o meno meravigliosa
secondo che più o menoè virtuoso colui che ne è stato principio. La virtù del
quale si conosce in duoi modi: il primo è nell’elezione del sito; F altro nella
ordinazione delle leggi. Eperchè gli uomini operano o per necessità o per
elezione; e perchè si vede quivi esser maggiore virtù dove l’elezione ha meno
autorità; è da considerare se sarebbe meglio eleggere, per la edificazione
delle cittadi, luoghi sterili, acciocché gl’uomini, costretti ad indùstriarsi,
meno occupati dall’ozio, vivessino più uniti, avendo, pellla povertà del sito,
minore cagione di discordie; come intervenne in Raugia, e in molte altre
cittadi in simili luoghi edificate: la quale elezione sarebbe senza dubbio più
savia e più utile quando gli uomini fossero contenti a vivere delloro, e non
volcssino cercare di comandare altrui. Pertanto, non potendo gl’uomini
assicurarsi se non colla potenza, è necessario fuggire questa sterilità del
pnese, e porsi in luoghi fertilissimi; dove, potendo pell’ubertà del sito
ampliare, possa e difendersi da chi l’assalta, e opprimere qualunque alla
grandezza sua si opponesse. G quanto a quell’ozio che l’arrecasse il sito, si
debbe ordinare che a quelle necessitadi le leggi la costringhino che’l sito non
la costringesse; ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno abitato in
paesi amenissimi e fertilissimi, c alti a pròdurre uomini oziosi ed inabili ad
ogni virtuoso esercizio: chè, per ovviare aquelli danni i quali l’amenità del
paese, mediante l’ozio, arebbero causati, hanno posto una necessità d’esercizio
a quelliche avevano a essere soldati: di qualità che, per tale ordine, vi sono
diventat imigliori soldati che in quelli paesi i quali naturalmente sono stati
aspri e sterili Intra i quali fu il regno degl’Egizi, che non ostante che il
paese sia amenissimo, tanto potette quella necessità ordinata dalle leggi, che
vi nacquero uomini eccellentissimi; e se li nomi loro non fussino dalla
antichità spenti, si vedrebbe come meriterebbero più laude che Alessandro
Magno, c molti altri dei quali ancora è la memoria fresca. E chi avesse considerato
il regno del Soldano, e l’ordine de’Mammaluchi e di quella loro milizia, avanti
che da Sali, Gran Turco, fusse stata spenta; arebbe veduto ili quello molti
esercizi circa i soldati, ed arebbe in fatto conosciuto quanto essi temevano
quell’ozio a che la benignità del paese gli poteva condurre, se non v’avessino
con leggi fortissime ovviato. Dico, adunque, essere più prudente elezione porsi
in luogo fertile, quando quella fertilità con le leggi infra’ debili termini si
restringe. Ad Alessandro Magno, volendo edificare una città per sua gloria,
venne Dinoerate architetto, e gli mostra come ei la poteva fare sopra il monte
Albo; il quale luogo, oltre allo esser forte, potrebbe ridursi in modo che a
quella città si darebbe forma umana; il che sarebbe cosa meravigliosa e raro, e
degna della sua grandezza: e domandandolo Alessandro di quello che
quell’abitatori viverebbono, rispose, non ci averepensato: di che quello si
rise, e lasciatostare quel monte, edifica Alessandria, dove gl’abitatori
avessero a stare volentieri pella grassezza del paese, e pella comodità del
mare e del Nilo. Chi esaminerò, adunque, l’edificazione di Roma, se si prende
Enea per suo primo progenitore, sarà di quelle citladi edificate da’forestieri;
se Romolo, di quelle edificate dagl’uomini natii del luogo; ed in qualunciic
modo, la Vedrà avere principio libero, senza depcndere d’alcuno: vedrà ancora a
quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa, e gl’altri, la
costringessino; talmente clic la fertilità del sito, la comodità del mare, le
spesse vittorie, la grandezza dell'imperio, non la poterono per molti secoli
corrompere, e Ir» » mantennero piena di tante virtù, djp^quante mai fusse
alcun’altra repubblica ornata. E perchè le cose operate da lejj, ^e che sono da
L. celebrate, sono seguite o per pubblico o per privato consiglio, o dentro o
fuori della cittade, io comincerò a discorrere sopra quelle cose occorse
dentro, e per consiglio pubblico, le quali degne di maggiore annotazione
giudicherò, aggiungendovi tutto quello che da loro dependessi: coni quali
Discorsi questo primo libro, ovvero Questa prima parte, si terminerà. Di quante
spezie sono le repnbbtiche, e di quale fu la Repubblica Romana. Io voglio porre
da parte il ragionare di quelle cittadi clic hanno avuto il loro principio sottoposto
ad altri; e parlerò di quelle che hanno avuto il principio 'ontano do ogni
servitù esterna, nia si ; j sono subito governate per loro arbitrio, o come
repubbliche o come principato: U quali hanno avuto, come diversi principi,
diverse leggi ed ordini. Perchè ad alcune, o nel principio d’esse, o dopo non
molto tempo, sono state date d’un solo le leggi, e ad un tratto; come quelle
che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in
più volte, e secondo l’accidenti, come Roma. Talché, felice si può chiamare
quella repubblica, la quale sortisce uno uomo sì prudente, che le dia leggi
ordinate in modo, che senza avere bisogno di correggerle, possa vivere
sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le osservò più che ottocento
anni senza corromperle, o senza alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario,
tiene qualche grado d’infelicità quella città, che, non si sendo abbattuta ad
uno ordinatore prudente, è necessitata da sè medesima riordinarsi: e di queste
ancora è più infelice quella che è più discosto dall’ordine; e quella è più
discosto, con suoi ordini è al tutto fuori del dritto cammino, che la possi
condurre al perfetto e vero fine: perchè quelle clic sono iu questo grado, è
quasi impossibile che per qualche accidente si rassettino. Quel le altre che,
se le non hanno l’ordine perfetto, hanno preso il principio buono, e atto a
diventare migliori, possono pell’occorrenza dell’accidenti diventare perfette.
Ma fia ben vero questo, mai non s’ordineranno senza pericolo perchè l’assai
uomini non s’accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine
nella città, se non è mostro loro d’una necessità che bisogni farlo; e non
potendo venire questa necessità senza pericolo, è facil cosa che quella
repubblica rovini, avanti che la si sia condotta a una perfezione d’ordine. Di
che ne fa fede appieno la repubblica di Firenze, la quale fu dallo accidente
d’Arezzo, nel 11, riordinata, e da quel di Prato, nel XII, disordinata.Volendo,
adunque, discorrere quali furono li ordini della città di Roma, e quali
accidenti alla sua perfezione la condussero) dico, come alcuui che hanno
scritto delle repubbliche, dicono essere in quelle uno de'tre stati, chiamati
da loro Principato, d’Ottimati e Popolare; e come coloro che ordinano una
città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito.
Alcuni altri, e secondo l’oppinione di molti più savi, hanno oppinione che
siano di sei ragioni governi; delti quali tre ne siano pessimi; tre altri siano
buoni in loro medesimi, ma sì focili a corrompersi, che vengono ancora essi ad
essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono i soprascritti tre: quelli clic
sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre dependono; c ciascuno d’essi è
in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall’uno
all’altro: perchè il Principato facilmente diventa tirannico; li Ottimati con
facilità diventano stato di pochi; il Popolare senza diflìcultà in licenzioso
si converte. Talmente che, se uno ordinatore di repubblica ordina in una città
uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo; perchè nessuno rimedio
può farvi, a far che non sdruccioli nel suo contrario, pella similitudine che
ha in questo caso la virtù ed il vizio. Nacquono queste variazioni di governi a
caso intra li uomini: perchè nel principio del mondo, sendo l’abitatori rari,
vissono un tempo dispersi, a similitudine delle bestie; di poi, multiplicando
la generazione, si ragunorno insieme, e, per potersi meglio difendere,
cominciorno a riguardare fra loro quello che fusse più robusto c di maggiore
cuore, c fecionlo come capo, e lo obedivano. Da questo nacque la cognizione
delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree: perchè, veggendo
che se uno noceva al suo benefattore, ne veniva odio e compassione intra
gl’uomini, biasimando li ingrati ed onorando quelli che fusscro grati, e
pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano esser fatte a loro; per
fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi
contea facesse: donde venne la cognizione della giustizia. La qual cosa fa che
avendo di poi ad eleggere un principe, non andano dietro al più gagliardo, ma a
quello che fussi più prudente c più giusto. Ala come di poi si comincia a fare
il principe per successione, e non pei’ elezione, subito cominciorno li eredi a
degenerare dai loro antichi; e lasciando 1’opere virtuose, pensano che i
principi non avessero a fare altro clic superare l’altri di sontuosità e di
lascivia c d’ogni altra' qualità deliziosa: in modo che, cominciando il principe
ad essere odialo, e per tale odio a temere, e passando tosto dal timore
all’offese, ne nasce presto una tirannide. Da questo nacquero appresso i
principi» delle rovine, c delle conspirazioni e congiure contea i principi; non
fatte da coloro clic fussero o timidi o deboli, ma da coloro che per
genei'osità, grandezza d’animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano gl’altri; i
quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel principe. La
moltitudine, adunque, seguendo l’autorità di questi potenti, s’arma contra al
principe, c quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli,
avendo in odio il nome d’uno solo capo, constituivano di loro medesimi un
governo; e nel piincipio, avendo rispetto alla passata tiratinide, si
governavano secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni loro comodo alla
comune utilità; e le cose private e le pubbliche con somma diligenzia governano
c conservavano. Venuta di poi questa amministrazione ai loro figliuoli, i
quali, non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai provato il
male, e non volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi
all’avarizia, all’ambizione, all’usurpazione delle donne, feciono clic d’uno
governo d’Ottimati diventassi un governo di pochi, senza avere rispetto ad alcuna
civiltà: tal che in breve tempo intervenne loro come al tiranno; perchè
infastidita da’loro governi la moltitudine, si fe ministra di qualunque
disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori; e cosi si levò presto
alcuno che, colI’aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca
la memoria del principe e delle ingiurie ricevute da quello, avendo disfatto lo
Stato de’pochi e non volendo rifare quell del principe, si volsero allo Stato
popolare; c quello ordinarono in modo, che nè i pochi potenti, nè uno principe
v’avesse alcuna autorità. E perchè tutti gli Stali nel principio hanno qualche
reverenza, si mantenne questo Stato popolare un poco, ma non molto, massime
spenta che fu quella generazione che l’aveva ordinato; perchè subito si venne
alla licenzia, dove non si temeno nè li uomini privati nè i pubblici; di
qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni di mille ingiurie:
talché, costretti per necessità, o per suggestione d’alcuno buono uomo, o per
fuggire tale licenzia, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di grado
in grado, si riviene verso la licenzia, nei modi e pelle cagioni dette. E
questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate, e
si governano: ina rade volte ritornano nei governi medesimi; perchè quasi
nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molle volte per
queste mutazioni, c rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare,
una repubblica, mancandoli sempre consiglio e forze, diventa suddita d'uno
Stato propinquo, clic sia meglio ordinato di lei: ina dato che questo non
fusse, sarebbe atta una repubblica a rigirarsi infinito tempo in questi
governi. Dico, adunque, che lutti i detti modi sono pestiferi, pella brevità
della vita che è ne’ tre buoni, e pella malignità che è ne’ tre rei. Talché,
avendo quelli che prudentemente ordinano leggi conosciuto questo difetto,
fuggendo ciascuno di questi modi per se stesso, n’elessero uno che partieipasse
di lutti, giudicandolo più fermo e più stabile; perchè l’uno guarda l’altro,
scudo in una medesima città il Principato, li Ottimati ed il Governo Popolare.
Infra quelli che hanno per simili constituzioni meritato più laude, è Licurgo;
il quale ordina in modo le sue leggi in Sparta che dando le parti sue ai He,
agli Ottimali e al Popolo, fa uno Stato che durò più che ottocento anni, con
somma laude sua, e quiete di quella città. Al contrario intervenne a Solone, il
quale ordina le leggi in Atene che per ordinarvi solo lo Stato popolare lo fa
di sì breve vita che avanti morisse vi vide nata la tirannide di Pisistrato: e
benché di poi anni quaranta ne fusscro cacciati gli suoi eredi, c ritornasse
Atene in libertà, perchè la riprese lo Stato popolare, secondo gl’ordini di
Solone; non lo tenne più cliccento anni, ancora che per mantenerlo facesse
molte constituzioni, pelle quali si reprime la iusolenzia grandi c la licenzia
dell’universale, le quali non furou da Solone considerate nientedimeno, perchè
la non le mescola colla potenzia del Principato e con quella dclli Ottimali,
visse Atene, spetto di Sparta, brevissimo tempo. Ria vegniamo a ROMA; la quale
nonostante che non ha uno Licurgo che la ordinasse in modo, ilei principio, che
la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno sono tanti gl’accidenti che in
quella nacquero, pella disunione che era intra la Plebe ed il Senato che quello
che non fa uno ordinatore lo fa il caso. Perchè, se ROMA non sortì la prima
fortuna, sortì la seconda; perchè i primi ordini se sono defettivi, nondimeno
non deviarono dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perchè
ROMOLO e tutti gl’altri re fanno molte e buone leggi, conformi ancora al vivere
libero: ma perchè il fine loro fu fondare un regno e non una repubblica, quando
quella città rimane libera, vi mancano molte cose che era necessario ordinare
in favore della libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E
avvengachè quelli suoi re perdessero l’imperio pelle cagioni e modi discorsi;
nondimeno quelli clic li cacciarono, ordinandovi subito duoi Consoli, che
stessino nel luogo del re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà
regia: talché, essendo in quella Repubblica i Consoli ed il Senato, veniva solo
ad esser mista di due qualità delle tre soprascritte: cioè di Principato e di
Ottimali. Restavali solo a dare luogo al Governo Popolare: onde, essendo
diventata la Nobiltà romana insolente, si leva il Popolo contro di quella;
talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua
parte; e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassino con tanta
autorità, che potcssino tenere in quella Repubblica il grado loro. E cosi
nacque la creazione de’Tribuni della plebe; dopo la quale creazione venne a
essere più stabilito lo stato di quella Repubblica, avendovi tutte le tre qualità
di governo la parte sua. E tanto li fu favorevole la fortuna, che benché si
passa dal governo de’Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e
per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse: nondimeno non si
tolse mai, per dare autorità alli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità
regie; nè si diminuì l’autorità in tutto all’Ottimati, per darla al Popolo; ina
rimanendo mista, fa una repubblica perfetta: alla quale perfezione venne pella
disunione della Plebe e del Senato. Quali accidenti facessino creare in Roma i
Tribuni della plebe; il che fa la Repubblica più perfetta. Come dimostrano
lutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena d’esempi ogni
istoria, è necessario a chi dispone una repubblica, ed ordina leggi in quella,
presupporre tutti gli uomini essere cattivi, e clic li abbinosempre od usure la
malignità dell’animo loro, qualunchc volta ne abbino libera occasione: e quando
alcuna malignità sta occulta un tempo, procede d’una occulta cagione, ebe, per
non si essere veduta esperienza del contrario, non si conosce; ma la fa poi
scoprire il tempo, il quale dicono essere padre d’ogni verità. Pare clic fusse
in Roma intra la Plebe cd il Senato, cacciati I Tarquiili, una unione
grandissima; e che i Nobili, avessino deposta quella loro superbia, c russino
diventati d'animo popolare, c sopportabili da qualuncbc, ancora ebe infimo.
Stette nascoso questo inganno, nè se ne vide la cagione, infino ebe i Tarquini
vissono; de’quali temendo la Nobiltà, ed avendo paura che la Plebe mal trattata
non s’accostasse loro, si porta umanamente con quella: ma come prima furono
morti I Tarquini, e die a’ Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare
contro Olla Plebe quel veleno che s’avevàno tenuto nel petto, ed in tutti i
modi che potevano la offendevano: la qual cosa fa testimonianza a quello che di
sopra ho detto, che gl’uomini non operano mai nulla bene, se non per necessità;
ma dove la elezione abbonda, e che vi si può usare licenzia, si riempie subito
ogni cosa di confusione e di disordine. Però si dice che la fame e la povertà
fu gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per sè
medesima senza la legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando quella
buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria. Però, mancati i
Tarqnini, che con la paura di loro tenevano la Nobiltà a freno, convenne
pensare a uno nuovo ordine ehe facessi quel medesimo effetto che facevano i
Tarquini quando erano vivi. E però, dopo molte confusioni, romori e pericoli di
scandali, che nacquero intra la Plebe c la Nobiltà, sivenne per sicurtà della
Plebe alla creazionc ile’ Tribuni; e quelli ordinarono con laute preminenze e
tanta riputazione, che potcssino essere sempre di poi mezzi intra la Plebe e il
Senato, eovviare alla insolenzia de’Nobili. Che la disunione della Plebe c del
Senato romano fece libera e polente quella Repubblica. H0U njt fil ùi òVvil
tf,; il "iit’ lo non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che
furono in Roma dalla morte de’Tarquini alla creazione de’Tribuni; e di poi
alcune cose contro la oppinionc di molti clic dicono. Roma esser stata una
repubblica tumultuaria, e piena di tanta confusione, clicse la buona fortuna c
la virtù militare non avesse supplito a’loro difetti, sarebbe stata inferiore
ad ogni altra repubblica. Io non posso negare che la fortuna e la milizia non
fussero cagioni dell’imperio romano; ma e’ mi pare bene, che costoro non
s’avvegghino, clic dove è buona milizia, conviene clic sia buono ordine, e rade
volte anco occorre clic non vi sia buona fortuna. Ma vegniamo all i altri
particolari di quella città. Io dico clic coloro clic dannano I tumulti intra i
Nobili c la Plebe, mi pare clic biasimino quelle cose che furono prima cagione
di tenere libera Roma; c clic considerino più a’romori ed alle grida clic di
tali tumulti nascevano, che a’buoni effetti clic quelli partorivano: e che non
considerino come ei sono in ogni repubblica duoi umori diversi, quello del
popolo, c quello dei grandi; c come tutte le leggi che si fanno in favore delia
libertà, nascono dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere
seguito in Roma: perchè da’Tarquini ai Gracchi, che furono più di trecento
anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio, radissime sangue. Nè si
possono, per tanto, giudicare questi tumulti nocivi, nè una repubblica divisa,
che in tanto tempo pelle sue differenze non mondò in esilio più che otto o
dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora condennò in
danari. Nè si può chiamare in alcun modo, con ragione, una repubblica
inordinata, dove siano tanti esempi di virtù; perchè li buoni esempi nascono
dalla buona educazione; la buona educazione dalle buone leggi; e le buone leggi
da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perchè chi esaminerò
bene il fine d’essi, non troverà ch’egliabbino partorito alcuno esilio o
violenza in disfavore del comune bene, ma leggi ed ordini in benefizio della
pubblica libertà. E se alcuno dicesse: i modi erano straordinari, e quasi
efferati, vedere il Popolo insieme gridare contro il Senato, il Senato contra
il Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe,
partirsi tutta la Plebe di Roma le quali tutte cose spaventano, nonclic altro,
chi legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi, con i quali il popolo
possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle ciltadi che uelle cose
importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali la città di Roma aveva
questo modo, che quando quel Popolo voleva ottenere una legge, o e’faceva alcuna
delle predette cose, o e’non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto
che a placarlo bisogna in qualche parte satisfargli. E i desiderò de’popoli
liberi, rade volle sono perniziosi alla libertà, perchè e’na seono o da essere
oppressi, o da suspizionc di avere a essere oppressi. E quando queste oppinioni
fussero false, e’vi è il rimedio delle concioni, che sorga qualche uomo da
bene, che, orando, dimostri loro come c’ s’ ingannano: e li popoli, come dice
CICERONE, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente
cedono, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero. Debbesi, adunque,
più parcamente biasimare il governo romano, e considerare che tanti buoni
effetti quanti uscivano di quella repubblica, non erano causati se non da ottime
cagioni. E se i tumulti furono cagione della creazione dei Tribuni, meritano
somma laude; perchè, oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare,
furono constituiti per guardia della libertà romana. Dove più sccurnmentc si
ponga la guardia della libertà, o nel Popolo o ne’Grandi; c c/uali hanno
maggior cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere.
Quelli clic prudentemente hanno constituita una repubblica, intra le più
necessarie cose ordinate da loro, è stato constituire una guardia alla liberta:
e secondo che questa è bene collocala, dura più o meno quel vivere libero.
Eperché in ogni repubblica sono uomin grandi e popolari, si è dubitato nelle
mani di quali sia meglio collocata detta guardia. Ed appresso i Lacedemoni, c,ne’nostri
tempi, appresso de’Viniziani, la è stata messa nelle mani de’Nobili; ma
appresso de’Romani fu messa nelle mani della Plebe. Per tanto, è necessario
esaminare quale di queste repubbliche avesse migliore elezione. E se siandassi
dietro alle ragioni, ci è che dire da ogni pajte: ma se si esaminassiil fine
loro, si piglierebbe la parte de’Nobili, per aver avuta la libertà di Sparla c
di Vinegia più lunga vita che quella di Roma. E venendo alle ragioni, dico,
pigliando prima la parte de’Romani, come e’si debbe mettere in guardia coloro
d’una cosa, che hanno menoappetito d’usurparla. E senza dubbio, se si considera
il fine de’nobili e deili ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di
dominare, cd in questi solo desiderio di non essere dominati; e, per
conseguente, maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare
d’usurparla che non possono li granili: talché, essendo i popolani preposti a
guardia d’una libertà, ò ragionevole ne abbino più cura: e non la putendo
occupare loro, non permettino clic altri la occupi. Dall’altra parte, chi
difende l’ordine sparlano e veneto, dice clic coloro che mettono la guardia in
inano de’potenti, fanno due opere buone: I’una, che satisfanno più
all’ambizione di coloro che avendo più parte nella repubblica, per avere questo
bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più; I’altra, clic bevano una
qualità di autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione d’infinite
dissensioni escandali in una repubblica, e alta a ridurre la nobiltà a qualche
disperazione, che col tempo faccia cattivi eliciti. E ne danno per esempio la
medesima Roma, che per avere i Tribuni della plebe questa autorità nelle mani,
non bastò loro aver un Consolo plcbeio, che gli vollono avere ambe due. Da
questo, c’voltano la Censura, il Pretore, e tuttili altri gradi dell’imperio
della città: nè bastò loro questo, chè, menati dal medesimo furore, cominciorno
poi, col tempo, a adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobiltà;
donde nacque la potenza di Alarlo, e la rovina di Roma. E veramente, chi
discorressebene I’una cosa c l’altra, potrebbestare dubbio, quale da lui fusse
eletto per guardia tale di libertà, non sapendo quale qualità d’uomini sia più
nociva in una repubblica, o quella ohe desidera acquistare quello che non ha,‘
o quella che desidera mantenere l’onore già acquistato. Ed in fine, chi
sottilmente esaminerà tutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni d’una
repubblica che vogli fare uno imperio, come Roma; o d’una che li basti
mantenersi. Nel primo caso, gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel
secondo, può imitare Yinegia e Sparta per quelle cagioni. Ma, per tornare a
discorrere quali uomini siano in una repubblica piu nocivi, o quelli clic
desiderano d’acquistare, o quelli clic temono di perdere lo acquistato;
dicodie, scudo fatto Marco Meiiennio dittatore, e Marco Fulvio maestro
de’cavalli, tutti duoi plebei, per ricercare certe congiure clic s’erano falle
in Capovaconlro a Roma, fu dato ancora loro autorità dal Popolo di poter
ricercare chiin Roma per ambizione e modi straordinari s’ingegnasse di venire
al consolato, ed agli altri onori della città. Eparendo alla Nobiltà, che tale
autorità fusse data al Dittatore contro a lei, sparsero per Roma, clic non i
nobilierano quelli che cercavano gli onori per ambizione e modi straordinari,
ma gl’ignobili, i quali, non confidatisi nel sangue e nella virtù loro,
cercavano pervie straordinarie venire a quelli gradi; e particolarmente
accusano il Dittatore. E tanto fu potente questa accusa, che Mencnnio, fatta una
conclone c dolutosi deite calunnie dategli da’Nobili depose la dittatura, e
sottomessesi ai giudizio che di lui fussi fatto dal Popolo; c di poi, agitala
la causa sua, ne fu assoluto: dove si disputò assai, quale sia più ambizioso, o
quel che vuolemantenere o quel che vuole acquistare; perchè facilmente 1’uno e
l’altro appetito può essere cagione di tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il
più delle volte sono causali da chi possiede, perchè la paura del perdere
genera in loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare;
perchè non pare agli uomini possedere sicuramente quello clic l’uomo ha, se non
si acquista di nuovo dell’altro. E di più vi è, che possedendo molto, possono
con maggior potenzia c maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di più,
che li loro scorretti e ambiziosi portamenti accendono ne’petti di chi non
possiede voglia di possedere, o per vendicarsi contro di loro spogliandoli, o
per potere ancora loro entrare in quella ricchezza c in quelli onori clic
veggono essere male usati dagli altri. Se in 1 ionia si poteva ordinare uno
stalo che togliesse via le inimicizie intra il Popolo ed il Senato. Noi abbiamo
discorsi di sopra gli effetti che facevano le controversie intra il Popolo ed
il Senato. Ora, sendo quelle seguitate in fino al tempo de’Gracchi, dove furono
cagione della rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma
avesse fatti gl’effetti grandi che la fece, senza che in quella fussino tali
inimicizie. Però mi è parso cosa degna di considerazione, vedere se in Roma si
poteva ordinare uno stato che togliesse via dette controversie. Ed a volere
esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle repubbliche le quali senza
tante inimicizie c tumulti sono state lungamente libere, e vedere quale stato
era il loro, e se si poteva introdurre in Roma. In esempio tra lì antichi ci è
Sparta, tra i moderni Yinegia, state da me di sopra uominate. Sparla fece uno
Re, con un picciolo Senato, che la governasse. Vinegia non ha diviso il governo
con i nomi; ma, sotto una appellazione, lutti quelli che possono avere
amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale modo lo dette il caso, più
che la prudenza di elùdette loro le leggi: perchè, sendosi ridotti in su quegli
scogli dove è ora quella città, pelle cagioni dette di sopra, molti abitatori;
come furon cresciuti in tanto numero, che a volere vivere insieme bisogna loro
far leggi, ordinorono una forma di governo; c convenendo spesso insieme
ne’consigli a deliberare della città, quando parve loro essere tanti che fussero
a sufficienza ad un vivere politico, chiusono la via a tutti quelli altri che
vi venissino ad abitare di nuovo, di potere convenire ne’loro governi: e, col
tempo, trovandosi in quel luogo assai abitatori fuori del governo, per dare
riputazione a quelli clic governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri
Popolani. Potette questo modo nascere e mantenersi senza tumulto, perchè quando
e’nacque, qualunque allora abita in Vinegia fu fatto del governo, di modo che
nessuno si poteva dolere; quelli che di poi vi vennero ad abitare, trovando lo
Stato fermo c terminato, non avevano cagione nè comodità di fare tumulto. La
cagione non y’era, perchè non era stato loro tolto cosa alcuna: la comodità non
v’era, perché chi regge gli teneva in freno, c non gl’adopera in cose dove e’
potessino pigliare autorità. Oltre di questo, quelli che di poi vennono ad
abitare Vinegia, non sono stali molli, c di tanto numero, che vi sia
disproporzione da chi gli governa a loro che sono governati; perchè il numero
de’Gentiluomini o egli è eguale a loro, o egli è superiore: sicché, per queste
cagioni, Vinegia potette ordinare quello Stalo, e mantenerlo unito. Sparta,
come ho detto, essendo governata da un Re c da una stretto Senato, potette
mantenersi così lungo tempo, perchè essendo in Sparta pochi abitatori, ed
avendo tolta la via n chi vi venisse ad abitare, ed avendo prese le leggi di
Licurgo con reputazione, le quali osservando, levano via tutte le cagioni
de’tumulti, poterono vivere uniti lungo tempo: perchè Licurgo colle sue leggi
fece in Sparta più cqualità di sustanze, e meno equalità di grado; perchè quivi
era una eguale povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi, perchè i gradi della
città si distendevano in pochi cittadini, ed erano tenuti discosto dalla plebe,
uè gli nobili col trattargli male dettero mai loro desiderio di avergli. Questo
nacque dai Re spartani, i quali essendo collocati in quel principato e posti in
mezzo di quella nobiltà, non avevano maggiore rimedio a tenere fermo la loro
degnità, ehc tenere la plebe difesa da ogni ingiuria: il che fa che la plebe
non temeva, c non desiderava imperio; e non avendo imperio nè temendo, era
levatavia la gara che la potessi avere con !unobiltà, c la cagione de’tumulti;
e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma due cose principali causarono questa
unione: T una esser pochi gli abitatori di Sparta, e per questo poterono esser
governati da pochi; l’altra, che non accettando forestieri nella loro
repubblica, non avevano occasione nè di corrompersi, nè dicrescere in tanto che
la fusse insopportabile a quelli pochi che la governavano. Considerando,
adunque, tutte queste cose, si vede come a’ legislatori di Roma era necessario
fare una delle due cose, a volere che Roma stessi quieta come le sopraddette
repubbliche: o non adoperare la plebe in guerra, corne i Viniziani; o non
aprire la via a’forestieri, come gli Spartani. E loro feceno 1’una e l’altra;
il che dette alla plebe forza ed augumento, ed infinite occasioni di
tumultuare. E se lo stato romano veniva ad essere più quieto, ne seguiva questo
inconveniente, ch’egli era anco più debile, perchè gli si tronca la via di
potere venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che volendo Roma
levare le cagioni de’tumulti, leva ancole cagioni dello ampliare. Ed in tutte
le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai
cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Per tanto, se tu vuoi
fare un popolo numeroso ed armato per potere fare un grande imperio, lo fai di
qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantienio
piccolo o disarmato per potere maneggiarlo, se egli acquista dominio, non lo
puoi tenere, o diventa sì vile, che tu sei preda di quaiunche ti assalta. E
però, in ogni nostra deliberazione si debbe considerare dove sono meno
inconvenienti, c pigliare quello per migliore partito: perchè tutto netto,
tutto senza sospetto non si trova mai. Poteva, adunque, Roma a similitudine di
Sparta fare un Principe a vita, fare un Senato piccolo; ma non poteva, come
quella, non crescere il numero de’cittadini suoi, volendo fare un grande
imperio; il che fa che il Re a vita ed il picciol numero del Senato, quanto
alla unione, glisarebbe giovato poco. Se alcuno volesse, per tanto, ordinare
una repubblica dinuovo, arebbe a esaminare se volesse ch’ella ampliasse, come
Roma, di dominio e di potenza, ovvero ch’ella stesse dentro a brevi termini.
Nel primo caso, è necessario ordinarla come Roma, edare luogo a’tumulti e alle
dissensioni universali, il meglio che si può; perchè senza gran numero di uomini,
e bene armati, non mai una repubblica potrà crescere, o se la crescerà,
mantenersi. Nel secondo caso, la puoi ordinare come Sparta c come Yinegia: ma
perchè l’anipitale è il veleno di simili repubbliche, tlebbc, in tutti quelli
modi che si può, citi le ordina proibire loro lo acquistare; perchè tali
acquisti fondati sopra una repubblica debole, sono al tutto la rovina sua. Come
intervenne a Sparta ed a Yinegia: delle quali la prima avendosi sottomessa
quasi tutta la Grecia, mostra in su uno minimo accidente il debole fondamento
suo; perchè, seguita la ribellione di Tebe, causata da Pelopitia, ribellandosi
l’altre cittadi, rovinò al tutto quella repubblica. Similmente Yinegia, avendo
occupato gran parte d’Italia, e la maggior parte non con guerra ma con danari e
con astuzia, come la ebbe a fare prova delle forze sue, perde in una giornata
ogni cosa. Crederei bene, che a fare una repubblica che dura lungo tempo, fussi
il miglior modo ordinarla dentro come Sparla o come Yinegia; porla in luogo
forte, e di tale potenza, che nessuno credesse poterla subito opprimere; e
dall’altra parte, non fussi si grande, che la fussi formidabile a’vicini: c
così potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perchè, per due cagioni si fa
guerra ad una repubblica: Cuna per diventarne signore, l’altra per paura
ch’ella non ti occupi. Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto
toglie via; perchè, se la è difficile ad espugnarsi, come io la presuppongo,
sendo bene ordinata alla difesa, rade volte accadere, o non mai, che uno possa
fare disegno d’acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi per
esperienza, che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per paura
di sè gli faccia guerra: e tanto più sarebbe questo, se e’fusse in lei
constituzione o legge che le proibisse l’ampliare. E senza dubbio credo, clic
polendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e’sarebbe il vero
vivere politico, e la vera quiete d’una città. Ma scudo tutte le cose degli
uomini in moto, c non potendo stare salde, conviene che le saglino o clic le
scendino; e a molte cose che la ragione non t' induce, t’induce lo necessità:
talmente che, avendo ordinata una repubblica atta a mantenersi non ampliando, e
la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a torre via i fondamenti
suoi, ed a farla rovinare più presto. Così, dall’altra parte, quando il Cielo
le fusse si benigno, che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l’olio
la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sè,
sorebbono cagione della sua rovina. Pertanto, non si potendo, come io credo,
bilanciare questa cosa, nò mantenere questa via del mezzo a punto; bisogna,
nell’ordinare la repubblica, pensare alla parte più onorevole; ed ordinaria in
modo, che quando pure la necessità la inducesse ad ampliare, ella potesse
quello ch’ella avesse occupato, conservare. E, per tornare al primo
ragionamento, credo che sia necessario seguire l'ordine romano, e non quello
dell’altre repubbliche; perchè trovare un modo, mezzo infra l’uno e l’altro,
non credosi possa: e quelle inimicizie che intra il popolo ed il senato
nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario a
pervenire alla romana grandezza. Perchè, oltre all’altre ragioni allegate dove
si dimostra Y autorità tribun zia essere stata necessaria per la guardia della
libertà, si può facilmente considerare il benefizio che fa nelle repubbliche
l’autorità dello accusare, la quale era intra gl’altri commessa a’Tribuni.
Quanto siano necessarie in una repubblica le accuse per mantenere la libertà. A
coloro che in una città sono preposti per guardia della sua libertà, non si può
dare autorità più utile e necessaria, quanto è quella di potere accasare i
cittadini ai popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando che pcccassino
in alcuna cosa contea allo stato libero. Questo ordine fa duoi effetti
utilissimi ad una repubblica. Il primo è che i cittadini, per paura di non
essere accusati, non tentano cose contro allo Stato: e tentandole, sono
incontinente e senza rispetto oppressi. 1/ altro è che si dà via onde sfogare a
quelli umori che crescono nelle citladi, in qualunque modo, contea a qualunque
cittadino: e quando questi umori non hanno onde sfogarsi ordinariamente,
ricorrono a’modi straordinari, che fanno rovinare in tutto una repubblica. G
non è cosa che faccia tanto stabile e ferma una repubblica, quanto ordinare
quella in modo, che l’alterazione di questi umori che l’agitano, abbia una via
da sfogarsi ordinata dalie leggi. Il che si può per molti esempi dimostrare, e
massime per quello che adduce L. di CORIOLANO, dove ei dice, che essendo
irritala contro alla Plebe la Nobiltà romana, per parerle che l Plebe avesse
troppa autorità mediante la creazione de’Tribuni che la difendevano; ed essendo
Roma, come avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed avendo il
Senato mandato per grani in Sicilia; Coriolano, nimico alla fazione popolare,
consiglia come egli era venuto il tempo da potere gastigare la Plebe, e torte
quella autorità die ella si aveva acquistata c in pregiudizio della nobiltà
presa, tenendola affamata, c non li distribuendo il frumento; la qual sentenza
sendo venuta alii orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione contro a
Coriolano, che allo uscire del Senato lo arebbero tumultuariamente morto, se gli
Tribuni non 1’avessero citato a comparire a difendere la causa sua. Sopra il
quale accidente, si nota quello che di sopra si è detto, #quanto sia utile e
necessario che le repubbliche, con le leggi loro, diano onde sfogarsi oli’ira
clic concepc l’universalità contra a uno cittadino; perchè quando questi modi
ordinari non vi siano, si ricorre agli estraordinari; c senza dubbio questi
fanno molto peggiori effetti che non fanno quelli. Perchè, se ordinariamente
uno cittadino è oppresso, ancora che li fusse fatto torto, ne seguita o poco o
nessuno disordine in la repubblica: perchè l’esecuzione si fa senza forze
private, e senza forze forestiere, che sono quelle che rovinano il vivere
libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici, che hanno i termini loro particolari,
nè trascendono a cosa che rovini la repubblica. E quanto a corroborare questa
oppinione con gli esempi, voglio che degli antichi mi basti questo di
Coriolano; sopra il quale ciascuno consideri, quanto male saria resultato alla
repubblica romana, se tumultuariamente ci fussi stato morto; perchè ne nasceva
offesa ila privati a privati, la quale offesa genera paura; la paura cerca
difesa; pella difesa si procacciano i partigiani; dai partigiani nascono le
parti nelle cittadi; dalle parti la rovina di quelle. Ma sendosi governata la
cosa mediante chi ne aveva autorità, si vennero a tór via tutti quelli mali che
ne potevano nascere governandola con autorità privata. Noi avemo visto
ne’nostri tempi, quale novità ha fatto alla repubblica di Firenze non potere la
moltitudine sfogare l’ nniino suo ordinariamente contra a un suo cittadino;
come accadde nel tempo di VALORI, clic era come principe della città: il quale
essendo giudicalo ambizioso da molti, e uomo che volesse con la sua audacia e
animosità trascendere il vivere civile; e non essendo nella repubblica via a
poterli resistere se non con una setta contraria alla sua; ne nacque che non
avendo paura quello, se non di modi straordinari, si comincia a fare fautori
che lo difendessino; dall’altra parte, quelli clic lo oppugnano non avendo via
ordinaria a reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie: intanto che si venne
alle armi. E dove, quando pell’ordinario si fusse potuto opporseli, sarebbe la
sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a spegnere pello
straordinario, seguì con danno non solamente suo, ma di molti altri nobili
cittadini. Potrebbesi ancora allegare, a fortificazione della soprascritta
conclusione, l’accidente seguito pur in Firenze sopra SODERINI; il quale al
tutto segui per non essere in quella Repubblica alcuno modo d’accuse contra
alla ambizione de’potenti cittadini: perchè l’accusare un potente a otto
giudici in una repubblica, non basta: bisogna che i giudici siano assai, perchè
pochi sempre fanno a modo de’pochi. Tanfo che, se tali modi vi fussono stati, o
i cittadini lo arebbono accusato, vivendo egli male; e per tal mezzo, senza far
venire l’esercito spagnuolo, arebbono sfogato l’animo loro: o non vivendo male,
non arebbono avuto ardire operarli contra, per paura di non essere accusati
essi: e cosi sarebbe da ogni parte cessato quello appetito che fu cagione di
scandalo. Tanto che si può concludere questo, che qualunque volta si vede che
le forze esterne siano chiamate da una parte d’uomini che vivono in una città,
si può credere nasca da’cattivi ordini di quella, per non esser dentro a quello
cerchio, ordine da potere senza modi islraordinari sfogare i maligni umori che
nascono nelli uomini: a che si provvede al tutto con ordinarvi le accuse alii
assai giudici, e dare riputazione a quelle. Li quali modi furono in Roma sì
bene ordinati, che in tante dissensioni della Plebe e del Senato, mai o il
Senato o la Plebe o alcuno particolare cittadino non disegnò valersi di forze
esterne; perche avendo il rimedio in casa, non erano necessitati andare per
quello fuori. E benché gl’esempi soprascritti siano assai sufficienti a
provarlo, nondimeno ne voglio addurre un altro, recitato da L. nella sua
istoria: il quale riferisce come, scudo stato in Chiusi, città in quelli tempi
nobilissima in TOSCANA, da uno Lucumone violata una sorella d’Aruntc, c non
potendo Arunte vendicarsi pella potenia del violatore, se n'andò a trovare i
Franciosi, che allora regnano in quello luogo che oggi si chiama Lombardia; e
quelli confortò a venire con annata mano a Chiusi, mostrando loro come con loro
utile lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta: che se Arunte avesse
veduto potersi vendicare con i modi della città, non arebbe cerco le forre
barbare. Ma come queste accuse sono utili in una repubblica, così sono inutili
e dannose le calunnie. Quanto le accuse sono utili alle repubbliche, tanto sono
perniziose le calunnie. Non ostante che la virtù di Cnmmillo, poi ch’egli ebbe
libera Roma dall’oppressione de’Franciosi, avesse fatto che tutti i cittadini
romani, parer loro tòrsi reputazione o cedevano a quello; nondimeno MAULIO
Capitolino non poteva sopportare chegli fusse attribuito tanto onore e tanta
gloria; parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il
Campidoglio, aver meritato quanto CAMMILLO; c quanto all’altre belliche laudi,
non essere inferiore a lui. Di modo che, carico d’invidia, non potendo
quietarsi pella gloria di quello, c veggendo non potere seminare discordia
infra i Padri, si volse alla Plebe, seminando varie oppinioni sinistre intra
quelfb. E intra V altre cose che dice, era come il tesoro il quale si era
adunato insieme per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stato usurpalo
da privati cittadini; e quando si riavesse, si poteva convertirlo in pubblica
utilità, alleggerendo la Plebe da’tributi, o da qualche privato debito. Queste
parole poterono assai nella Plebe; talché comincia avere concorso, ed a fare u
sua posta tumulti assai nella città: la qual cosa dispiacendo al Senato, e
parendogli di momento e pericolosa, crea uno Dittatore, perchè ei riconoscesse
questo caso, e frenasse lo impeto di MANLIO. Onde che subito il Dittatore lo fa
citare, e eondussonsi in pubblico all’incontro l’uno dell’altro; il Dittatore
in mezzo de’Nobili, e MANLIO in mezzo della Plebe. Fu domandato Manlio che dove
dire, appresso a chi fusse questo tesoro che ei dice, perchè ne era cosi
desideroso il Senato d’intenderlo come la Plebe: a che MANLIO non risponde
particularmenfe; ma, andando fuggendo, dice come non era necessario dire loro
quello die e’si sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere in carcere. È
da notare per questo testo, quanto siano nelle città libere, ed in ogni altro
modo di vivere, detestabili le calunnie; e come per reprimerle, si debbe non
perdonare a ordine alcuno che vi faccia a proposito. Nè può essere migliore
ordine a torle via, che aprire assai luoghi alle accuse; perchè quanto le
accuse giovano alle repubbliche, tanto le calunnie nuocono: e dall’altra parte
è questa differenza, che le calunnie non hanno bisogno di testimone, nè
d’alcuno altro particulare riscontro a provarle, in modo che ciascuno da
ciascuno può essere calunniato; ma non può già essere accusato, avendo le
accuse bisogno di riscontri veri, e di circostanze, che mostrino la verità
dell’accusa. Accusatisi gl’uomini a’magistrati, a’popoli, a’consigli;
calunniatisi pelle piazze è per le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa
meno 1’accusa, c dove le città sono meno ordinate a riceverle. Però, uno
ordinatore d’una repubblica debbe ordinare che si possa in quella accusare ogni
cittadino, senza alcuna paura o senza alcuno sospetto; e fatto questo e bene
osservato, debbe punire aeremente i calunniatori: i quali non si possono dolere
quando siano puniti, avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui che gli
avesse per le logge calunniato. E dove non è bene ordinata questa parte,
seguitano sempre disordini grandi:perchè le calunnie irritano, c non castigano
i cittadini; e gli irritali pensano di valersi, odiando più presto, che temendo
le cose che si dicono contea a loro. Questa parte, come è detto, era bene
ordinata in Roma; ed è stata sempre male ordinala nella nostra città di
FIRENZE. E come a Roma questo ordine fa molto bene, a FIRENZE questo disordine
fa molto male. E chi legge le istorie di questa città, vedrà quante calunnie
sono state in ogni tempo date a’suoi cittadini che si sono adoperati nelle cose
importanti di quella. Dell’uno dicevano ch’egli aveva rubati danari al comune;
dell altro, che non aveva vinto una impresa per essere stato corrotto; e che
quell’altro per sua ambizione aveva fatto il tale e tale inconveniente. Del che
ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione;
dalla divisione alle sètte; dalle sètte alla rovina. Che se fusse stato in
Firenze ordine d’accusare i cittadini, c punire i calunniatori, non seguivano
infiniti scandali che sono seguiti: perchè quelli cittadini, o condennati o
assoluti che russino, non arebbono potuto nuocere alla città; e sarebbono stati
accusati meno assai clic non ne erano calunniali, non si potendo, come ho
detto, accusare come calunniare ciascuno. Ed intra l’altre cose di clic si è
valuto alcuno citadino per ventre alla grandezza sua, sono state queste
calunnie: le quali venendo conira a’cittadini potenti che allo appetito suo si
opponevano, facevano assai per quello; perchè, pigliando la parte del Popolo, e
confirmandolo nella mala oppiatone eh’egli aveva di loro, se lo fece amico. E
benché se ne potesse addurre assai esempi, voglio essere contento solo d’uno.
Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca, comandato da GUICCIARDINI (si
veda), commissario di quello. Vollono o i cattivi suoi governi, o la cattiva
sua fortuna, che Ja espugnazione di quella città non seguisse. Pur, comunque il
caso stesse, ne fu incolpato inesser Giovanni, dicendo com’egli era stato
corrotto da’Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita da’nimici suoi, condusse
messer Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché, per giustificarsi, ei
si volessi mettere nelle mani del Capitano; nondimeno non si potette mai
giustificare, per non essere modi in quella repubblica da poterlo fare. Di che
ne nacque assai sdegno intra li amici di messer Giovanni, che erano la maggior
parte delli uomini Grandi, ed infra coloro che desideravano fare novità in
Firenze. La qual cosa, e per queste e per altre simili cagioni, tanto crebbe,
che ne seguì la rovina di quella repubblica. Era dunque MANLIO Capitolino
calunniatore, e non accusatore, ed i Romani mostrarono in questo caso appunto,
come i calunniatori si debbono punire. Perchè si debbe fargli diventare
accusatori; e quando 1’accusa si riscon tri vera, o premiarli, o non punirli:
ma quando la non si riscontri vera Uf»5 Come egli è necessario esser solo a
volere ordinare una repubblica di nuovo, o al lutto fuori delti antichi suoi
ordini riformarla. E’porrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro
nella istoria romana, non avendo fatto alcuna menzione ancora degli ordinatori
di quella Repubblica, nè di quelli ordini che o alla religione o alla milizia
riguardassero. E però, non volendo tenere più sospesi gli animi di coloro che
sopra questu parte volessino intendere alcune cose; dico, come molti per
avventura giudicheranno di cattivo esempio, che uno fondatore d’un vivere
civile, quale è ROMOLO, abbia prima morto un suo fratello, di poi consentito
alla morte di Tito TAZIO Sabino, eletto da lui compagno nel regno; giudicando
per questo, che gli suoi cittadini potessero coll’autorità del loro principe,
per ambizione e desiderio di comandare, offendere quelli che alla loro autorità
s’opponessino. La quale oppinionc sarebbe vera, quando non si considerasse che
line l’avesse indotto a fare lai OMICIDIO. E debbesi pigliare questo per una
regola generale: clic non mai o di rado occorre che alcuna repubblica o regno
sia da principio ordinato bene, o al tutto di nuovo fuori delti ordini vecchi
riformato, se non è ordinato d’uno; anzi è necessario che uno solo sia quello
clic dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione. Però,
uno prudente ordinatore d’una repubblica, e che abbia questo animo di volere
giovare non a sé ma al BENE COMUNE, non alla sua propria successione ma alla
comune patria, debbe ingegnarsi d’avere l’autorità solo; nè mai uno ingegno
savio riprende alcuno d’alcuna azione istraordinaria, che per ordinare un regno
o constituire una repubblica usasse. Conviene bene, che, accusandolo il fallo,
lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di ROMOLO, sempre lo
scuserà: perchè colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare,
si debbe riprendere. Debbe bene in tanto esser prudente e virtuoso, che quella
autorità che si ha presa, non la lasci ereditaria ad un altro: perchè, essendo
gl’uomini più proni al male che al bene, potrebbe il suo successore usare
ambiziosamente quello che da lui virtuosamente fusse stato usato. Oltre di
questo, se uno è atto ad ordinare, uoti è la cosa ordinata per durare molto,
quando la rimanga sopra le spalle d’uno; ma si bene, quando la rimane alla cura
di molti, e che a molti stia il mantenerla. Perchè, cosi come molti non sono
atti ad ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato dalle
diverse oppinioni che sono fra loro; cosi conosciuto che lo hanno, non si
accordano a lasciarlo. E che ROMOLO fusse di quelli che NELLA MORTE DEL
FRATELLO e del compagno meritasse scusa; e che quello che fece, fusse per IL
BENE COMUNE, e non per ambizione propria; lo dimostra lo avere quello subito
ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse, e secondo l’oppinione del
quale deliberasse. E chi considera bene P autorità che ROMOLO si riserbò, vedrà
non se ne essere riserbata alcun’altra che comandare alli eserciti quando s’era
deliberata la guerra, e di ragunare il Senato. Il che si vide poi, quando Roma
divenne libera per la cacciata de’Tarquini; dove da’Romani non fu innovato
alcun ordine dello antico, se non che in luogo d’uno Re perpetuo, fussero duoi
Consoli annuali; il che testifica, tutti gli ordini primi di quella città
essere stati più conformi ad uno vivere civile e libero, che ad uno assoluto e
tirannico. Polrebbesi dare in corroborazione delle cose sopraddette infiniti
esempi; come Licurgo, Solonc, ed nitri fondatori di regni e di repubbliche, i
quali poterono, per aversi attribuito un’autorità, formare leggi a proposito
del bene comune; ma gli voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne
solamente uno, non si celebre, ma da considerarsi per coloro che desiderassero
essere di buone leggi ordinatori: il quale è, che desiderando Agide re di
Sparta ridurre gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Mcurgo gli
avessero rinchiusi, parendoli che per esserne in parte deviati, la sua città
avesse perduto assai di quella antica virtù, e, per conseguente, di forze e
d’imperio; fu ne'suoi primi principii ammazzato dalli Efori spartani, come uomo
che volesse occupare la tirannide. Ma succedendo dopo lui nel regno Cleomene c
nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti eh’egli aveva
trovati di Agide, dove si vede quale era la mente ed intenzione sua, conobbe
non potere fare questo bene alla sua patria se non diventa solo di autorità;
parendogli, pell’ arabizione degli uomini, non potere fare utile a molti contra
alla voglia di pochi: e presa occasione conveniente, fa ammazzare tutti
gl’Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; di poi rinnova in tutto le
leggi di Licurgo. La quale deliberazione era atta a fare risuscitare Sparta, e
dare a Clcomcne quella reputazione che ebbe Licurgo, se non fussc stato la
potenza de’Macedoni e la debolezza dell’altre repubbliche greche. Perchè,
essendo dopo tale ordine assaltato da’Macedoni, e trovandosi per sè stesso
inferiore di forze, c non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo
disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato adunque tutte
queste cose, conchiudo, come a ordinare una repubblica è necessario essere
solo; c ROMOLO per LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa, e non biasmo.
Quanto sono laudabili i fondatori d’una repubblica o dJ uno regno, tanto quelli
dJ una tirannide sono vituperabili. Intra tutti gli uomini laudati, sono i
laudatissimi quelli die sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso
dipoi, quelli che hanno fondato o repubbliche o regni. Dopo costoro, sono
celebri quelli che, preposti alti esercìti, hanno ampliato o il regno loro, o
quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini iilterati; e perchè
questi sono di più ragioni, sono celebrati ciascuno d’essi secondo il grado
suo. A qualunque altro uomo, il numero de’quali è infinito, s’attribuisce quut’
che parte di laude, la quale gli arreca l’arte e l’esercizio suo. Sono, pello
contrario, infumi e detestabili gli uomini destruttori delle religioni,
dissipatori de’regni e delie repubbliche, inimici delle virtù, delle lettere, e
d'ogni altra arte che arrechi utilità ed onore alla umana generazione; come
sono gli empii e violenti, gl’ignoranti, gl’oziosi, i vili, e i dappochi. E
nessuno sarà mai sì pazzo o si savio, si tristo o si buono, che, propostogli la
elezione delle due qualità d’uomini, non laudi quella che è da laudare, e
Biasini quella che è da biasmare: nientedimeno, di poi, quasi tutti, ingannati
da un falso bene e da una falsa gloria, si lasciano andare, o voluntariamente o
ignorantemente, ne’gradi di coloro che meritano più biasimo che laude; c potendo
fare, con perpetuo loro onore, o una repubblica o un regno, si volgono alla
tirannide: nè si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria,
quanto onore, sicurtà, quiete, con satisfazione d’animo, e’fuggono; e in quanta
infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine incorrono. Ed è
impossibile che quelli che in stato privato vivono in una repubblica, o che per
fortuna o virtù ne diventano principi, se leggcssino l’istorie, e delle memorie
delle antiche cose facessino capitale, che non volessero quelli tali privati,
vivere nella loro patria piuttosto Soipioni che Cesari; e quelli che sono
principi, piuttosto Agesilai, Timolconi e Dioni, clic Nabidi, Falari e Dionisi:
perchè vedrebbono questi essere sommamente vituperati, e quelli eccessivamente
laudati. Vedrebbono ancora come Timoleone e gli altri non ebbero nella patria
loro meno autorità che si avessiuo Dionisio e Falari; ma vedrebbono di lungo
avervi avuto più sicurtà. Nè sia alcuno che si inganni pella gloria di Cesare,
sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori: perchè questi che lo laudano,
sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla lunghezza dello imperio, il
quale reggendosi sotto quel nome, non permette che gli scrittori parlassero
liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne
direbbono, vegga quello che dicono di CATILINA. E tanto è più detestabile
GIULIO (si veda) CESARE, quanto più è da biasimare quello che ha fatto, che
quello che ha voluto fare un inule. Vegga ancora con quante laudi celebrano
BRUTO (si veda); talché, non potendo biasimare quello pella sua potenza,
e’celebrano il nemico suo. Consideri ancora quello eh’ è diventato principe in
una repubblica, quante laudi, poiché ROMA fu diventata imperio, meritarono più
quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni, che quelli
che vissero al contrario: e vedrà come a Tito, Nerva, Traiano, ADRIANO,
Antonino e Marco, non erano necessari i soldati pretoriani nè la moltitudine
delle legioni a difenderli, perchè i costumi L loro, la benivolenza del Popolo,
l’amore i del Senato gli difende. Vedrà ancora come a Caligola, Nerone,
Vitellio, ed a tanti altri scellerati imperadori, non bastarono gl’eserciti
orientali ed occidenItili a salvarli conira a quelli nemici, che li loro rei
costumi, la loro malvagia vita aveva loro generati. E se la istoria di costoro
fusse ben considerata, sarebbe assai ammaestramento a qualunque priucipe, a
mostrargli la via della gloria o del biasmo, e della sicurtà o del timore suo.
Perchè, di ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimiuo, sedici ne
furono ammazzati, dicci morirono ordinariamente; c se di quelli che furono
morti ve ne fu alcuno buono, come Galba e Pertinace, fu morto da quella
corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata nc’soldati. E se tra quelli
che morirono ordinariamente ve ne fu alcuno scellerato, nome Severo, nacque
d’una sua grandissima fortuna e virtù; le quali due cose pochi uomini
accompagnano. Vedrà ancora, pella lezione di questa istoria, come si può
ordinare un regno buono: perchè tutti gl'imperadori che succederono all’imperio
per eredità, eccetto Tito, furono cattivi; quelli che per adozione, furono
tutti buoni, come furono quei cinque da Nervo a Marco: e come P imperio cadde
negli eredi, ei ritornò nella sua rovina. Pongasi, adunque, innanzi un principe
i tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con quelli che erano stati prima e
che furono poi; edipoi elegga in quali volesse essere nato,o a quali volesse
essere preposto. Perchè in quelli governali da’buoni, vedràun principe sicuro
in mezzo de’suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo:
vedrà il Senato con la sua autorità, i magistrati con i suoi onori; godersi i
cittadini ricchi le loro ricchezze; la nobiltà c la virtù esaltata: vedrà ogni
quiete ed ogni bene; e, dall’altra parte, ogni rancore, ogni licenza,
corruzione e ambizione spenta: vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e
difendere quella oppinione che vuole. Vedrà, in fine, trionfare il mondo;
pienodi riverenza e di gloria il principe, d’amore e di sveurilà i popoli. Se
considererà, di poi, tritamente i tempi degli altri imperadori, gli vedrà
atroci per le guerre, discordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra
crudeli: tanti principi morti col ferro, tante guerre civili, tante esterne; P
Italia afflitta, e piena di nuovi infortunii; rovinate e saccheggiate le città
di quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da’suoi cittadini disfatto, desolati
gl’antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii: vedrà
il mare pieno di esilii, gli scoglipieni di sangue. Vedrà in Roma seguire
innumerabili crudeltadi; e la nobiltà, le ricchezze, gli onori, e sopra tutto
ia virtù essere imputata a peccato capitale. Vedrà premiare li accusatori,
essere corrotti i sèrvi contro al signore, i liberi contro al padrone; e quelli
a chi fusscro mancati i nemici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora
benissimo quanti obblighi Roma, Italia, e il mondo abbia con Cesare. E senza,
dubbio, se e’ sarà nato d’uomo, si sbigottirà I da ogni imitazione dei tempi
cattivi, c accenderassi d’uno immenso desiderio di seguire i buoni. E
veramente, cercando un principe la gloria del mondo, doverrebbe desiderare di
possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per
riordinarla come lloinolo. E veramente i cieli non possono dare all i uomini
maggiore occasione di gloria, nè li uomini la possono maggiore desiderare. E
se, a volere ordinare bene una città, si avesse di necessità n dcporrc il
principato, meriterebbe quello clic non la ordinasse, per non cadere di quel
grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il principato ed ordinarla, non si
merita scusa alcuna. E in somma, considerino quelli a chi i cieli danno tale
occasione, come sono loro proposte due vie: 1’una che gli fa vivere sicuri, e
dopo la morte gli rende gloriosi; I’altra gli fa vivere in continove angustie,
e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia. Delta religione
de’Romani. Ancora che Roma avesse il primo suo ordinatore ROMOLO, e che da
quello abbia riconoscere come figliuola il nascimento e la educazione sua;
nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di ROMOLO non bastano a tanto
imperio, niessono nel petto del Senato romano di eleggere NUMA (si veda)
Pompilio per SUCCESSORE A ROMOLO, acciocché quelle cose che da lui fossero
state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate. II quale trovando un popolo
ferocissimo, e volendolo ridurre nelle ubbidienze civili con le arti della
pace, si volse alla religione, come oosa al tutto necessaria a volere mantenere
una civiltà; e la costituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore
di Dio quanto in quella Repubblica: il che facilitò qualunque impresa che il
Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E ehi discorrerà
infinite azioni, e del popolo di Roma lutto insieme, e di molli de’Romani di
per sé, vedrà come quelli cittadini temevano più assai rompere il giuramento
che le leggi; come coloro clic stimavano più la potenza di Dio, che quella
degli uomini: come si vede manifestamente per gli esempi di SCIPIONE e di
MANLIO TORQUATO. Perchè, dopo la rotta che Annibale aveva dato a’Romani a
Canne, molti cittadini si erano adunati insieme, c sbigottiti e paurosi si
erano convenuti abbandonare l’ITALIA, e girsene in Sicilia: il che sentendo SCIPIONE,
gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano gli costrinse a giurare di non
abbandonare la patria. LUCIO MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu di poi
chiamato Torquato, era stato accusato da MARCO POMPONIO, Tribuno della plebe;
ed innanzi che venissi il di del giudizio, Tito andò a trovare Marco, e
minacciando d’ammazzarlo se non giura di levare l’accusa al padre, lo costrinse
al giuramento; e quello, per timore avendo giurato, gli levò t'accusa. E cosi
quelli cittadini i quali l'amore della patria e le leggi di quella non
ritenevano in ITALIA, vi furon ritenuti da un giuramento che furono forzati a
pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col padre, la
ingiuria che gli aveva fatta il figliuolo, c i’onore suo, per ubbidire al giuramento
preso: il che non nacque da altro, che da quella religione che Numa aveva
introdotta in quella città. E vedesi, chi considera bene le istorie romane,
quanto serviva la religione a comandare agli eserciti, a riunire la plebe, a
mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare li tristi. Talché, se si avesse a
disputare a quale principe Roma fusse più obbligata, o a ROMOLO o a Numa, credo
più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perchè dove è religione, facilmente
si possono introdurre l’armi; e dove sono l’armi e non religione, con
diflìcultà si può introdurre quella. E si vede che a ROMOLO per ordinare il
Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell’
autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere congresso
con una Ninfa, la quale lo consiglia di quello ch’egli avesse a consigliare il
popolo: e tutto nasce perchè voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella
città, e dubita che la sua autorità non basta. G veramente, mai non fu alcuno
ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo, che non ricorresse a Dio;
perchè altrimenlc non sarebbero accettate: perchè sono molli beni conosciuti da
uno prudente, i quali non hanno in sè ragioni evidenti da potergli persuadere
ad altri. Però gli uomini savi, che vogliono torre questa diflìcultà, ricorrono
a Dio. Cosi fece Licurgo, cosi Solone, cosi molti altri che hanno avuto il
medesimo fine di loro. Ammirando, adunque, il popolo romano la bontà e la
prudenza sua, cede ad ogni sua deliIterazione, Ben è vero che l’essere quelli
tempi pieni di religione, e quelli uomini, con i quali egli aveva a
travagliare, grossi, gli detlono facilità grande a conseguire i disegni suoi,
potendo imprimere in loro facilmente qualunche nuova forma. E senza dubbio, ehi
volesse ne’presenti tempi fare una repubblica, più facilità troverebbe negli
uomini montanari, dove non è alcuna civilità, che in quelli che sono usi a
vivere nelle città, dove la civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà più
facilmente una bella statua d’uno marmo rozzo, che d’uno male abbozzato
d’altrui. Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da
Piuma fu intra le prime cagioni della felicità di quella città: perchè quella
causò buoni ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona fortuna
nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino
è cagione delia grandezza delle repubbliche, cosi il dispregio di quella è
cagione della rovina d’esse. Perchè, dove manca il timore di Dio, conviene che
o quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d’un principe che supplisca
a’difetti della religione. E perchè i principi sono di corta vita, conviene che
quel regno manchi presto, secondo che manca la virtù d’esso. Donde nasce che i
regni i quali dependono solo dalla virtù d’uno uomo, sono poco durabili, perchè
quella virtù manca colla vita di quello; e rade volte accade che la sia
rinfrescata colla successione, come prudentemente ALIGHIERI (si veda) dice: tt
Rade volte risurge per li ramiL'umana probitade: e questo vuolo Quel che la dà,
perchè da lui si chiami. „Non è, adunque, la salute di una repubblica o d’uno
regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che
l’ordini in modo, clic, morendo ancora, la si mantenga. E benché agli uomini
rozzi più facilmente si persuade uno ordine o una oppinione nuova, non è per
questo impossibile persuaderla ancora agli uomini civili, e che si presumono
non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere nè ignorante nè rozzo:
nondimeno da Savonarola fu persuaso che parla con Dio. lo non voglio giudicare
s’egli era vero o no, perchè d’un tanto uomo se ne debbe parlare con reverenza:
ma io dico bene, che infiniti lo credevano, senza avere visto cosa nessuna
istraordinaria da farlo loro credere; perchè la vita sua, la dottrina, il
soggetto che prese, erano sufhzienti a fargli prestare fede. Non sia, pertanto,
nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quello che è stato
conseguito da altri; perchè gli uomini, come nella Prefazione nostra si disse,
nacquero, vissero e morirono sempre con un medesimo ordine. Di quanta
importanza sia tenere conto della religione j e come la Italia per esserne
mancata mediante la Chiesa romana y è rovinata. Quelli principi, o quelle
repubbliche, le quali si vogliono manienere incorrotte, hanno sopra ogni altra
cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della religione, e tenerle sempre
nella loro venerazione; perchè nissuno maggiore indizio si puote avere della
rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile
a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata la religione dove l’uomo
è nato; perchè ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche
principale ordine suo. La vita della religione gentile era fondata sopra i responsi
delti oracoli e sopra la setta delli aridi e delli aruspici: tutte le altre
loro cerimonie, sacrifìcii, riti, dependevano da questi; perchè loro facilmente
credevano che quello Dio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo
futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i tempii, di qui
i sacrifici!, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli:
perchè l’oracolo di Deio, il tempio di GIOVE Aminone, ed altri celebri oracoli,
tenevano il mondo in ammirazione, e devoto. Come costoro cominciarono dipoi a
parlare n modo de’potenti, e questa falsità si fu scoperta ne’popoli, divennero
gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono, adunque,
i Principi d’uria repubblica o d’un regno, i fondamenti della religione che
loro tengono, mantenerli; e fatto questo, sarà loro facil cosa a mantenere la
loro repubblica religiosa, e, per conseguente, buona ed unita. C debbono, tutte
le cose che nascono in favore di quella, come che le giudicassino false, favorirle
ed accrescerle; e tanto più Io debbonofare, quanto più prudenti sono, e quanto
più conoscitori delle cose naturali. E perchè questo modo c stato osservato
dagli uomini savi, ne è nata l’oppinione dei miracoli, che si celebrano nelle
religioni eziandio false: perchè i prudenti gli aumentano, da qualunche
principio e’si nascano; e l’autorità loro dà poi a quelli fede appresso a
qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai; e intra gli altri fu, che
saccheggiando i soldati romani la città de’Veienti, alcuni di loro entrarono
nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla immagine di quella, e dicendole vis
venire Romani, parve od alcuno vedere che la accennasse; ad alcun altro, che
ella dicesse di si. Perchè, sendo quelli uomini ripieni di religione (il che
dimostra L. perchè nell’entrare nel tempio, vi entrarono senza tumulto, tutti
devoti e pieni di reverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda
loro per avventura si avevano presupposta: la quale oppiuione e credulità, da
Cammillo e dagli altri principi della città fu ni tutto favorita ed
accresciuta. La quale religione se ne’ Principi della repubblica cristiana si
fusse mantenuta, secondo che dal datore d’essa ne fu ordinato, sarebbero gli
stati e le repubbliche cristiane più unite e più felici assai ch’elle non sono.
Nè si può fare altra maggiore conieltura della declinazione d’essa, quanto è
vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della
religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e
vedesse l’uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser
propinquo, senza dubbio, o la rovina o il flagello. E perchè sono alcuni
d’oppinione, che’l ben essere delle cose d’Italia dipende dalla Chiesa di Roma,
voglio contro ad essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne
allegherò due potentissime, le quali, secondo me, non hanno repugnanza. La,
prima è, che per gli esempi rei di quella i corte, questa provincia ha perduto
oguI divozione ed ogni religione: il clic si i lira dietro infiniti
inconvenienti e infiniti disordini; perchè, così come religione si presuppone
ogni bene, dove ella manca si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, colla
Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo, d’essere diventati
senza religione c cattivi: ma ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è cagione
della rovina nostra. Questo è die la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra
provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se
la non viene tutta alla obedienza d’una repubblica o d’uno principe, come è
avvenuto alla Francia. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo
termine, nè abbia aneli’ella o una repubblica o uno principe che la governi, è
solamente la Chiesa; perchè, avendovi abitalo e tenuto imperio temponile, non è
stata sì potente nè dì tal virtù, che l'abbia potuto occupare il restante
d’Italia, e farsene principe; e non è stata, dall’altra parte, si debile, che,
per paura di non perder il dominio delie cose temporali, la non abbi potuto convocare
uno potente che la difenda contra a quello che in Italia fusse diventato troppo
potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando mediante
Carlo Magno la ne cacciò i Lombardi, eh’ era no già quasi re di tutta Italia; e
quando ne’ tempi nostri ella tolse la potenza a’Veneziani con l’aiuto di
Francia; di poi ne cacciò i Franciosi eoa l’aiuto de’ Svizzeri. Non essendo,
dunque, stata la Chiesa potente da potere occupare l’Italia, nè avendo permesso
che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto un
capo; ma è stata sotto più principi e signori, da’quali è nata tanta disunione
e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere stata preda, non solamelile
di barbari polenti, ma di qualunque I’ assalta. Di clic noi altri Italiani
abbiamo obbligo colla Chiesa, c non con altri. E chi ne volesse per esperienza
certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza, che
mandasse ad abitare la corte romana, coll’autorità che l’ha in Italia, in le
terre de’Svizzeri; i quali oggi sono quelli soli popoli che vivono, e quanto
alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e vedrebbe
che in poco tempo furebbero più disordine in quella provincia i costumi tristi
di quella corte, che qualunchc altro accidente clic in qualunche tempo vi
potessi surgere. Come t Romani si servirono della religione per ordinare la
città, e per seguire le loro imprese e fermare i tumulti. Ei non mi pare fuor
di proposito addurre alcuno esempio dove i Romani si servirono della religione
per riordinare la cillà, e per seguire l’imprese loro; e quantunque in L. ne
siano molti, nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato il Popolo
romano i Tribuni, di potestà consolare, e, fuorché uno, tutti plebei; ed essendo
occorso quello anno peste c fame, e venuti certi prodigii; usorono questa
occasione i Nobili nella nuova creazione de’Tribuni, dicendo che li Dii erano
adirati per aver Roma male usata la maestà del suo imperio, e che non era altro
rimedio a placare gli Dii, che ridurre la elezione de’Tribuni nel luogo suo: di
che nacque che la Plebe, sbigottita da questa religione, creò i Tribuni tutti
nobili. Vedesi ancora nella espugnazione della città de’Ycienti, come i
capitani degli eserciti si valeno della religione per tenergli disposti ad una
impresa: ehè essendo il lago Albano, quello anno, cresciuto mirabilmente, ed
essendo i soldati romani in fastiditi pella lunga ossidione, e volendo
tornarsene a Roma, trovarono i Romani, come Apollo e certi altri responsi dicevano
che quell’anno si espugnerebbe la città de’Veienti, che si deriva il Ingo
Albano: la qual cosa fece ai soldati sopportare i fastidi della guerra e della
ossidione, presi da questa speranza d’espugnare la terra; e stettono contenti a
seguire la impresa, tanto che Cammillo fatto Dittatore espugna detta città,
dopo dieci anni che l’era stala assediata. E cosi la religione, usata bene,
giovò e pella espugnazione di quella città, e pella restituzione dei Tribuni
nella Nobiltà: chè senza detto mezzo difficilmente si sarebbe condotto e l’uno
e l’altro. Non voglio mancare di addurre a questo proposito un altro esempio.
Erano nati in Roma assai tumulti per cagione di Terentillo Tribuno, volendo lui
promulgare certa legge, per le cagioni che di sotto nel suo luogo si diranno; e
tra i primi rimedi che vi usò la Nobiltà, fu la religione: della quale si
servirono i duo modi. Nel primo fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere,
come alla città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno
pericoli di non perdere la libertà: la qual cosa, ancora che fusse scoperta da’
Tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne’petti della plebe, che la raffreddò
nel seguirli. L’altro modo fu, che avendo uno APPIO ERDONIO, con una
moltitudine di sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini, occupato
di notte il Campidoglio, in tanto che si poteva temere, che se gli Equi ed i
Volsci, perpetui nemici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono
espugnata; e non cessando i Tribuni per questo d’insistere nella pertinacia
loro di promulgare la legge Terentilla, dicendo che quello in sulto era
fittizio c non vero: uscì fuori del Senato uno Publio Rubezio, cittadino grave
e di autorità, con parole parte amorevoli, parte minacciatiti, mostrandoli i
pericoli della città, e l’intempestiva domanda loro; tanto che e’constrinse la
Plebe a giurare di non si partire dalla voglia del Consolo: onde che la Plebe
obediente, per forza ricupera il Campidoglio. Ma essendo in tale espugnazione
morto Publio Valerio consolo, subito fu rifatto consolo Tito Quinzio; il quale
per non lasciare riposare la Plebe, nè darle spazio a ripensare alla legge
Terentilla, le comanda s’uscissi di Roma per andare contra a’Volsci, dicendo
che per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il Consolo, era
obbligata a seguirlo: a che i Tribuni s’opponevano, dicendo come quel
giuramento s’era dato al Consolo MORTO, e non a lui. Nondimeno L. mostra, come
la Plebe per paura della religione volle più presto obedire al Consolo, che
credere a’ Tribuni; dicendo in favore della antica religione queste parole:
Nondum htiDPj quce nunc tenet sceculum, negligcntict Dcùm venerai, nec
interpretando sibi quisque jasjurandum et legcs aplas a La ‘faciebal. Per la
qual cosa dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor degnila,
s’accordarono col Consolo di stare all’obedienza di quello; e che per uno anno
non si ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli per uno anno non
potessero trarre fuori la Plebe alla guerra. E cosi la religione fa al Senato
vincere quella diffìcultà, che senza essa mai non arebbe vinto. I Romani
interpretano gli auspicii secondo la necessità, con la prudenza mostravano
d’osservare la religione j quando forzali non l’osservavano; c se alcuno
(emwariamente la dispregia, lo punivano. Non solamente gl’auguri! erano il
fondamento in buona parte dell'antica religione de’Gentili, ma ancora erano
quelli che erano cagione del bene essere della Repubblica romana. Donde i
Romani ne uvevano più cura che d’alcuno altro ordine di quella; ed usavangli
ne’comizi consolari, nel principiare l’imprese, nel trai’ fuori gl’eserciti,
nel fare le giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o militare;
nè maisarebbono iti ad una espedizionc, che non avessino persuaso ai soldati
che gli Dei promettevano loro la vittoria. Ed infra gli altri nuspicii, avevano
negli eserciti certi ordini di aruspici, che e’chiamavano Pollarii: e qualunque
volta eglino ordinavano di fare la giornata col nemico, volevano che i Pollarii
fucessino i loro auspicii; e beccando i polli, combattevano con buono augurio:
non beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la ragione mostra
loro una cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii fossero avversi, la
fannp in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi tanto attamente, che non
pare che la fucessino con dispregio dello religione: il quale termine fu usato
da Papirio consolo in una zuffa clic fece importantissima coi Sanniti, dopo la
quale restorno in lutto deboli ed afflitti. Perchè sendo Papirio in su’campi rincontro
ai Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo per
questo fare la giornata, comandò ai Pollarii che fucessino i loro auspicii; ma
non beccando i polli, e veggendo il principe de’Pollarii la gran disposizione
dello esercito di combattere, e la oppinione che era nei capitano cd in tutti i
soldati di vincere, per non torre occasione di bene operare a quello esercito,
riferi al Consolo come gli auspicii procedevano bene: talché Papirio ordinando
le squadre, ed essendo d’alcuni de' Pollarii detto a certi soldati, i polli non
aver beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio nipote del Consolo; e quello
riferendolo al Consolo, rispose subito, eh’ egli attendesse a fare l’oflìzto
suo bene, e che quanto a lui ed allo esercito gli auspicii erano rolli; e se il
Pollarlo aveva detto le bugie, ritornerebbono in pregiudicio suo. E perchè lo
effetto corrispondesse al pronostico, comandò ni legati clic constituìssino i
Pollarii nella primo fronte della zuffa. Onde nacque che, andando contra ai
nemici, sendo da un soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò il principe
de’Pollarii; la qual cosa udita il Console, disse come ogni cosa procede bene,
e col favore degli Dii; perchè lo esercito colla morte di quel bugiardo si era
purgato da ogni colpa, e da ogni ira che quelli avessino preso contra di lui. E
cosi, col sapere bene accomodare t disegni suoi agli auspicii, prese partito di
azzuffarsi, senza clic quello esercito s’avvedesse che in alcuna parte quello
avesse negletti gl’ordini della loro religione. Al contrario fece APPIO Pillerò
in Sicilia, nella prima guerra punica: che volendo azzuffarsi con l’esercito
cartaginese, fa fare gli auspicii a’Pollarii; e referendogli quelli, come i
polli non beccavano, disse: veggiamo se volessero bere; e gli fece giUare in
mare. Donde che, azzuffandosi, perdette la giornata: di che egli ne fu a Roma
condennato, e Papirio onorato; non tanto per aver l’uno vinto e l’altro
perduto, quanto per aver 1’uno fatto contra agli auspicii prudentemente e
l’altro temerariamente. Nè ad altro line tende questo modo dello aruspicare,
che di fare i soldati confidentemente ire alla zuffa; dalla quale confidenza
quasi sempre uasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente usala dai Romani,
ma dalli esterni: di che mi pare d’addurre uno esempio. Come i Sanniti, per
estremo rimedio alle cose loro afflitte, ricorsono alla religione. Avendo i
Sanniti avute più rotte dai Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in
Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro capitani; ed essendo stali vinti i
loro compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; ncc suis, nec extcrnis viribus
jam slare polcrant: t amen bello non abstinebantj adeo ne infeliciler quidem
defensae libcrtatis tcedcbalj et vinci quarti non tentare victorianij malebant.
Onde deliberarono far ultima prova: e perché ei sapevano che a voler vincere
era necessario indurre ostinazione negli animi de’soldati, c che a indurla non
v’era miglior mezzo che la religione; pensarono di ripetere uno antico loro
sacrifìcio, mediante Ovio Faccio, loro sacerdote. Il quale ordinarono in questa
forma: che, fatto il sacrificio solenne, e fatto intra le vittime morte e gli
altari accesi giurare lutti i capi dello esercito, di non abbandonare mai la
zuffa, citarono i soldati ad uno ad uno; ed intra quelli altari, nel mezzo di
più centurionicon le spade nude in mano, gli facevano prima giurare che non
ridirebbono cosa che vedessino o sentissino; di poi, con parole esecrabili e
versi pieni di spavento, gli facevano giurare e promettereagli Dii, d’essere
presti dove gli imperadori gli comandassino, c di non si fuggire mai dalla
zuffa, e d’ammazzarequalunque vedessino che si fuggisse: la qual cosa non
osservata, torna sopra il capo della sua famiglia e della su stirpe. Ed essendo
sbigottiti alcuni diloro, non volendo giurare, subito da’ loro centurioni erano
morti; talché gli altriche succedevano poi, impauriti dalla ferocità dello
spettacolo, giurarono tutti.E per fare questo loro assembramento più magnifico,
sendo quarantamila uomini, ne vestirono la metà di pannibianchi, con creste e
pennacchi sopra lecelate; e così ordinati si posero presso ad Aquilonia. Contra
a costoro venne Papirio; il quale, nel confortare i suoi soldati, disse: Non
enim crislas vulnerafacere, et pietà alque aurata scuta transirc ttomanum
pileum. E per debilitarela oppinione clic avevano i suoi soldatide’ nemici per
i) giuramento. preso, disse che quello era per essere loro a timore, non a
fortezza; perchè in quel medesimo tempo avevano uvere paura de’cittadini, degli
Dii, c de’nemici. E venuti al conflitto, furono superati i Sanniti; perchè la
virtù romana, ed il timore conccputo pelle passate rotte, superò qualunque
ostinazione ei potessino avere presa per virtù della religione e per il
giuramento preso. Nondimeno si vede come a lóro non parve potere avere altro
rifugio, nè tentare altro rimedio a poter pigliare speranza di ricuperare la
perduta virtù. Il che testifica appieno, quanta confidcnzia si possa avere
mediante la religione bene usata. E benché questa parte piuttosto, per
avventura, sirichiederebbe esser posta intra le cose estrinseche; nondimeno,
dependendo d’uno ordine de’più importanti della Repubblica di Roma, mi è parso
da commetterlo in questo luogo, per non dividere questa materia, cd averci
aritornare più volte. Un popolo uso a vìvere sotto un principe, se per qualche
accidente diventa libero, con difficultà mantiene la libertà. Quanta difficultà
sia ad uno popolo uso a vivere sotto un principe, preservare di poi la libertà,
se per alcuno accidente l’acquista, come l’acquistò Roma dopo la cacciala
de’Tarquini; io dimostrano infiniti esempi che si leggono nelle memorie delle
antiche istorie. E tale difficultà è ragionevole; perchè quel popolo è non
altrimenti che uno animale bruto, il quale, ancora che di feroce natura e
silvestre, sia stato nudrito sempre in carcere ed in servitù, che di poi
lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi, nè
sappiendo le latebre dove siabbia a rifuggire, diventa preda del primo che
cerca rincatenarlo. Questo medesimo interviene ad uno popolo, il quale setido
uso a vivere sotto i governi d’altri, non snppiendo ragionare nè delledifese o
offese pubbliche, non cognoscendo i principi nè essendo conosciutoila loro,
ritorna presto sotto un giogo, il quale il più delle volte è più grave che
quello che per poco innanzi si avevalevato d’in su’1 collo: e trovasi in queste
difficullà, ancora che la materia non sia in tutto corrotta; perchè in uno
popolo dove in lutto è entrata la corruzione, non può, non che picciol tempo, ma
punto vivere libero: e però i ragionamenti nostri sono di quelli popoli dove la
corruzione non sia ampliata assai, c dove sia più del buono che del guasto.
Aggiungesi alla soprascritta, un’altra difficultò; la quale è che lo Stato che
diventa libero si fa partigiani nemici, e non partigiani amici. Partigiani
nemici gli diventano tutti coloro che dello Stalo tino dei dìscorsi Tannico si
prevalevano, pascendosi delle ricchezze del principe; a’quali sendo tolta la
facoltà del valersi, non posso vivere contenti, e sono forzati ciascuno di
tentare di riassumere la tirannide, per ritornare nell’autorità loro. Non si
acquista partigiani amici; perchè il vivere libero propone onori e premii,
mediami alcune oneste e determinate cagioni, e fuori di quelle non premia nè
onora alcuno; e quando unoha quelli onori e quelli utili che gli paremeritare,
non confessa avere obbligo concoloro che lo rimunerano. Oltre a questo, quella
comune utilità che del viverelibero si trae, non è da alcuno, mentreche ella si
possiede, conosciuta: la qualeè di potere godere liberamente le cosesue senza
alcuno sospetto, non dubitaredell’onore delle donne, di quel de’figliuoli, non
temere di sè; perchè nissuno confesserà mai aver obbligo conuno che non
1’offenda. Però, come disopra si dice, viene ad avere lo Statolibero c che «li
nuovo surge, partigianinon partigiani amici. E vonemicilendo rimediare a questi
inconvenienti,c a quegli disordini che le soprascritte diflìculta si
arrecherebbono seco, non ciè più potente rimedio, nè più valido, nè più sano,
nè più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto: i quali, come l’istoria
mostra, non furono indotti, insieme con altri gioveni romani,n congiurare
contra alla patria per altro, se non perchè non si potevano valere
straordinariamente sotto i Consoli, come sotto i Re; in modo che la libertà di
quel popolo par che fusse diventata la loro servitù. E chi prende a governare
una moltitudine, o per via„ di libertà o per via di principato, e non si
assicura di coloro che a quell’ordine nuovo sono nemici, fa uno Stato di poca
vita. Vero è ch’io giudico infelici quelli principi, che per assicurare lo
Stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nemici la moltitudine:
perchè quello che ha per nemici i pochi, facilmente e senza molti scandali, si
assicura; ma chi ha per nemico 1’universale, non si assicura mai; e quanta più
crudeltà usa, tanto diventa più debole il suo principalo. Talché il maggior
rimedio che si abbia, è cercare di farsi il popolo amico. E benché questo
discorso sia disformo dal soprascritto, parlando qui d’un principe e quivi
d’una repubblica; nondimeno, per non avere a tornare più in su questa materia,
ne voglio parlare brevemente. Volendo, pertanto, un principe guadagnarsi un
popolo che gli fusse nemico, parlando di quelli principi che sono diventati
della loro patria tiranni; dico eh’ci debbe esaminare prima quello che il
popolo desidera, e troverà sempre ch’ei desidera due cose; Y una vendicarsi
contro a coloro che sono cagione che sia servo; l’altra di riavere la sua libertà.
Al primo desiderio il principe può satisfare in tutto, al secondo in parte.
Quanto al primo, ce n’è lo csempio appunto. Clearco, tiranno d’Eraelea, scudo
in esilio, occorse che, per controversia venuta intra il popolo e gli ottimati
d’Eraclea, veggendosi gl’ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco, c
congiuratisi seco lo missono, contea alla disposizione popolare, in Eraclea, c
toisono la libertà al popolo. In modo che, trovandosi Clearco intra
l’insolenzia degl’ottimati, i quali non poteva in alcun modo nè contentare nè
correggere, c la rabbia de’popolari, che non potevano sopportare l’avere
perduta la libertà, deliberò ad un tratto liberarsi dal fastidio de’grondi, c
guadagnarsi il popolo. E presa sopra questo conveniente occasione, tagliò a pezzi
tutti gli ottimali, con una estrema satisfazione de’popolari. E così egli per
questa via satisfece ad una delle voglie che hanno i popoli, cioè di
vendicarsi. Ma quanto all’altro popolare desiderio di riavere la sua libertà,
non potendo il principe satisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle
che gli fanno desiderare d’essere liberi; e troverà che una piccola parte di
loro desidera d’essere libera per comandare; ma tutti gli altri, che sono
infiniti, desiderano la libertà per vivere securi. Perchè in tutte le
repubbliche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non aggiungono
mai quaranta o cinquanta cittadini: e perchè questo è piccolo numero, è facil
cosa assicurarsene, o con levargli via o con far lor parte di tanti onori, che secondo
le condizioni loro essi abbino in buona parte a contentarsi. Quelli altri, ai
quali basta vivere securi, si satisfanno facilmente, facendo ordini e leggi,
dove insieme con la potenza sua si comprenda la sicurtà universale. E quando
uno principe faccia questo, e che il popolo vegga che per accidente nessuno ei
non rompa tali leggi, comincerà in breve tempo a vivere sccuro e contento. In
esempio ci è il regno di Francia, il quale non vive securo per altro, che per
essersi quelli Re obbligati ad infinite leggi, nelle quali si comprende la
securtn di tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello Stato, volle che quelli Re,
dell’arme e del danaio facessino a loro modo, ma che d’ogni altra cosa non ne
potessino altrimenti disporre che le leggi si ordinassino. Quello principe,
adunque, o quella repubblica che non si assicura nel principio dello stato suo,
conviene che si assicuri nella prima occasione, come fecero i Romani. Chi
lascia passare quella, si pente tardi di non aver fatto quello che dove fare.
Sendo, pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ci recuperò la
libertà, potette mantenerla, morti i figliuoli di BRUTO e spenti i Tarquini,
con tutti quelli rimedi ed ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fussc
stato quel popolo corrotto, nè in Roma nè altrove si trovano rimedi validi a
mantenerla. Uno popolo coitoIIo, venuto in libertà, si può con difficullà
(grandissima mantenere libera. lo giudico che gli era necessario, o die i Re si
estinguessino in Roma, o che Roma in brevissimo tempo divenissi debole, e di
nessuno valore: perchè, considerando a quanta corruzione erano venuti quelli
Re, se l'ussero seguitati così due o tre successioni, e che quella corruzione
che era in loro, si fossi cominciata a distendere per le membra; come le membra
fussino state corrotte, era impossibile mai più riformarla. Ma perdendo il capo
quando il busto era intero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi cd
ordinati. E debbesi presupporre per cosa verissima, che una città corrotta che
vive sotto un principe, ancora che quel principe con tutta la sua stirpe si
spenga, inai non si può ridurre libera; anzi conviene che Putì principe spenga
l’allro; e senza creazione d’un nuovo signore non si posa mai, se già la bontà
d’uno, insieme con la virtù, non la tenessi libera; ma durerà tanto quella
libertà, quanto durerà la vita di quello: come intervenne a Siracusa di Dione e
di Timoleone, la virtù de’quali in diversi tempi, mentre vissero, tenne libera
quella città; morti clic furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma non si
vede il più forte esempio che quello di Roma; la quale cacciati i Tarquini,
potette subito prendere e mantenere quella libertà: ma morto Cesare, morto
Caligula, morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non potette inai, non
solamente mantenere, ma pure dare principio alla libertà. Nè tanta diversità di
evento in una medesima città nacqueda altro, se non da non essere ne’ tempi
de’Tarquini il popolo romano ancora corrotto; ed in questi ultimi tempi essere
corrottissimo. Perchè allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i Re,
bastò solo furio giurare che non eon sentirebbe mai che a Roma alcuno regnasse;
e negli altri tempi, non bastò T autorità e severità di BRUTO, con tutte le
legioni orientali, a tenerlo disposto a volere mantenersi quella libertà che
esso, a similitudine del primo BRUTO, gli aveva rendutu. Il che nacque da
quella corruzione che le parli mariane avevano messa nel popolo; delle quali
essendo capo Cesare potette accecare quella moltitudine, eh’ella non conobbe il
giogo che da sè medesima si mette in sul collo. E benché questo esempio di Roma
sia da preporre a qualunque altro esempio, nondimeno voglio a questo proposito
addurre innanzi popoli conosciuti ne’nostri tempi. Pertanto dico, che nessuno
accidente, benché grave e violento, potrebbe redurre mai Milano o Napoli
libere, per essere quelle membra tutte corrotte. H che si vide dopo la morte di
VISCONTI; che volendosi ridurre Milano alia libertà, non potette e non seppe
mantenerla. Però, fu felicità grande quella di Koma, che questi Re diventassero
corrotti presto, acciò ne fussino cacciati, cd innanzi che la loro corruzione
fosse passata nelle viscere di quella città: la quale incorruzione fu cagione
che gl’infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono,
non nocerouo, anzi giovarono alla Repubblica. E si può fare questa conclusione,
che dove la materia non è corrotta, i tumulti cd altri scandali non nuòcono:
dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non son mosse
da uno che con una estrema forza le facci osservare, tanto che la materia
diventi buona. Il che non so se sie mai intervenuto, o se fusse possibile
ch’egli intervenisse: perchè c’si vede, come poco di sopra dissi, che una città
venuta in declinazione per corruzione di materia, se mai occorre che la si
levi, occorre per la virtù d’uno uomo eh’è vivo allora, non per la virtù dello
universale clic sostengo gli ordini buoni; c subito che quei tale è morto, la
si ritorna nei suo pristino abito; come intervenne a Tebe, la quale per la
virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di repubblica e di
imperio; ma morto quello, la si ritornò ne’primi disordini suoi. La cagione è,
che non può essere un uomo di tanta vita, che’l tempo basti ad avvezzare bene
una città lungo tempo male avvezza. E se unod’una lunghissima vita, o due
successioni virtuose conlinove non la dispongono; come una manca di loro, come
di sopra è detto, subito rovina, se già con molti pericoli c molto sangue c’
non la facesse rinascere. Perchè tale corruzione e poca attitudine olla vita
libera, nasce da una inequulità che è in quella città: e volendola ridurre
equale, è necessario usare grandissimi estraordinari; i quali pochi sanno o
vogliono usare, come in altro luogo più particolarmente si dirà. In che modo
«ci.c; mi corrotte si potesse mantenere tino stalo liòerOj essendovi; o non
essendovi, ordinartelo. Io credo clic non sia fuori di proposito, nè disformo
dal soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si può
mantenere lo stato libero, scndovi; o quando e’non vi fosse, se vi si può
ordinare. Sopra la qual cosa dico, come gli è mollo difficile fare o l’uno o
l'altro: e benché sia quasi impossibile darne regola, perchè sarebbe necessario
procedere secondo i gradi della corruzione; nondimnneo, essendo bene ragionare
d’ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E presuppongo una città
corrottissima, donde verrò ad accrescere più tale difficoltà; perché non si
trovano nè leggi nè ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Perchè,
così come gli buoni costumf, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; cosi le
leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’buoni costumi. Oltre di questo, gli
ordini e le leggi fatte in una repubblica nel nascimento suo, quando erano gli
uomini buoni, non sono di poi più a proposito, divenuti che sono tristi. E se
le leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano mai, 0 rade
volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano, perchè gli
ordini, che stanno saldi, le corrompono. E per dare ad intendere meglio questa
parte, dico come in Roma era l’ordine del governo, o vero dello Stato; c le
leggi di poi, che con i magistrati frenavano i cittadini. L’ordine dello Stato
era l’autorità del Popolo, del Senato, dei Tribuni, dei Consoli, il modo di
chiedere e del creare i magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini
poco o nulla variarono nelii accidenti. Variarono le leggi che frenavano 1
cittadini; come fu la legge degli adulferi!, la suntuaria, quella della
ambizione, e molte altre; secondo clic di mano in mano i cittadini diventavano
corrotti. Ma lenendo fermi gli ordini dello Stato, che nella corruzione non
erano più buoni, quelle leggi che si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli
uomini buoni; ma sarebbonn bene giovate, se con la innovazione delle leggi si
fussero rimutati gli ordini. G che sia il vero che tali ordini nella città
corrotta non fossero buoni, e’si vede espresso in due capi principali. Quanto
al creare i magistrati e le leggi, non dava il Popolo romano il consolato, e
gli altri primi gradi della città, se non a quelli che lo dimandavano. Questo
ordine fu nel principio buono, perchè e’non gli domandavano se non quelli
cittadini che se ne giudicavano degni, ed averne la repulsa era ignominioso; si
che, per esserne giudicati degni, ciascuno opera bene. Diventò questo modo,
poi, nella città corrotta perniziosissiiuo; perchè non quelli che avevano più
virtù, ma quelli che avevano più potenza, domandavano i magistrali; e
gl’impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano di domandargli per paura.
Vcnnesi a questo inconveniente, non ad un tratto, ma per i mezzi, come si cade
in tutti gli altri iuconveiiienti: perchè avendo i Romani domata l’Affrica e
l’Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ohidienza, erano divenuti sicuri
della libertà loro, nè pare loro avere più nimici che dovessero fare loro
paura. Questa securtà e questa debolezza de’nemici fece che il Popolo romano,
nel dare il consolato, non riguarda più la virtù, ma la grazia; tirando a quel
grado quelli che meglio sapevano iutrattenere gli uomini, non quelli che
sapevano meglio vincere i nemici: di poi, da quelli che avevano più grazia,
discesero a dargli a quelli che avevano più potenza;talché i buoni, per difetto
di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno Tribuno, e qualunque
altro cittadino, proporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino
poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era
questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni; perche sempre fu bene, che
ciascuno clic intende uno bene per il pubblico, lo possa proporre; ed è bene
che ciascuno sopra quello possa dire l’oppinione sua, acciocché il Popolo,
inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini
cattivi, diventò tale ordine pessimo, perchè solo i potenti proponevano leggi,
non per la comune libertà, ina perla potenza loro;ccontra a quelle non poteva
parlare alcuno per paura di quelli: talché il Popolo veniva o ingannato o
sforzato a deliberare la sua rovina. Ero necessario, pertanto, a volere che
Roma nella corruzione si mantenesse libera, che, cosi come aveva nel processo
del vivere suo fatte nuove leggi, l’avesse fatti nuovi ordini: per«thè altri
ordini e modi di vivere si debbe ordinare in un soggetto cattivo, che in un
buono; nè può essere la forma simile in una materia al tutto contraria. Ma
perchè questi ordini, o e’si hanno a rinnovare tutti ad un tratto, scoperti che
sono non esser più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschiuo per
ciascuno; dico che 1’una e l’altra di queste due cose è quasi impossibile.
Perchè, a volergli rinnovare a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno
prudente, che veggio questo inconveniente assai discosto, e quando e’nasce. Di
questi tali è facilissima cosa che in una città non ne surga mai nessuno: e
quando pure ve ne surgesse, non potrebbe persuadere mai ad altrui quello che
egli proprio intendesse; perchè gli uomini usi a vivere in un modo, non lo
vogliono variare; e tanto più non veggiendo il male in viso, ma avendo ad
essere loro mostro per con letture. Quando ad innovare questi ordini ad un
(ratio, quando ciascuno conosce clic non sono buoni, dico che questa inutilità,
clic facilmente si conosce, è diffìcile a ricorreggerla: perchè a fare questo,
non basta usare termini ordinari, essendo i modi ordinari cattivi; ma è
necessario venire allo istraordinario, come è alla violenza ed all’armi, e
diventare innanzi ad ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a
suo modo. E perchè il riordinare una città al vivere politico presuppone uno
uomo buono, ed il diventare per violenza principe di una repubblica presuppone
un uomo cattivo; per questo si troverà che radis sime volte accaggia, che uno
uomo buono voglia diventare principe per vie cattive, ancoraché il fine suo
fusse buono; e che uno reo divenuto principe, voglia operare bene, e che gli
caggia mai nell’animo usare quella autorità bene, che egli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce la diffìcultà, o impossibilità, che è nelle
città corrotte, a mantenervi una repubblica, o a crearvela di nuovo. E quando
pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più
verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocché quelli uomini i
quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere corretti, lusserò
da una podestà quasi regia in qualche modo frenati. Ed a volergli fare per
altra via diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa, o al tutto
impossibile; come io dissi di sopra che fece Cleomene; il quale se, per essere
solo, ammazzò gli Efori; e se ROMOLO, per le medesime cagioni, AMMAZZO IL
FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e d ipoi usarono bene quella loro autorità;
nondimeno si debbe avvertire che V uno e T altro di costoro non avevano il
soggetto di quella corruzione macchiato della quale in questo capitolo
ragioniamo, e però poterono volere e, volendo, colorire il disegno loro. Dopo
uno eccellente principio si può mantenere un principe debole; ma dopo un
debole, non si può con un (diro debole mantenere alcun regno. Considerato la
virtù ed il modo del procedere di ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI,
si vede come Roma sortì una FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO
E BELLICOSO, 1’altro quieto e religioso, il terzo simile di ferocia a Romolo, e
più amatore della guerra che della pace. Perchè in Roma era necessario che
surgesse ne’primi principii suoi un ordinatore «lei vivere civile, ina era bene
poi necessario che gli altri Re ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO; ALTRIMENTI
QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda de’suoi vicini. Donde si può
notare che uno successore non di tanta virtù quanto il primo può mantenere uno
Stato per la virtù di colui che PImretto innanzi, e si può godere te sue
fatiche: ma s’egli avviene o che sia di lunga vita, o che dopo lui non surga un
altro che ripigli la virtù di quel primo, è necessitato quel regno a rovinare.
Cosi, per il contrario, se due, 1’uno dopo P altro, sono di gran virtù, si vede
spess che fanno cose grandissime, e che ne vanno con la fama in fino al cielo.
Davit, senza dubbio, fu un uomo per arme, per dottrina, per giudizio
eccellentissimo; e fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti ed abbattuti tutti
i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo un regno pacifico: quale egli si
potette con le arti «Iella pace, e non della guerra, conservare; e si potette
godere felicemente la virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboan
suo figliuolo; il quale non essendo per virtù simile allo avolo, nè per fortuna
simile al padre, rimase con fatica erede della sesta parte del rt'guo. Baisit,
sultan de’Turchi, ancora die fusse più amatore della pace che della guerra,
potette godersi le fatiche di Maumelto suo padre; il quale avendo, come Davit,
battuti i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da poterlo con F arte della
pace facilmente conservare. Ma se il figliuolo suo Salì, presente signore,
fusse stalo simile al padre, c non all’avolo, quel regno rovinava: ma e’si vede
costui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto con questi
esempi, clic dopo uno eccellente principe si può mantenere un principe debole;
ma dopo un debole non si può con un altro debole mantenere alcun regno, se già
e’non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi antichi lo
mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno in su la guerra.
Couchiudo pertanto con questo discorso, clic LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che la
potette dare spazio a Numa Pompilio di potere molti anni con 1’arte della pace
reggere Roma: ma dopo lui successe Tulio, il quale pei’la sua ferocia riprese
la reputazione di ROMOLO: dopo il quale venne Anco, in modo dalla natura
dotato, che poteva usare la pace, e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a
volere tenere la via della pace: ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo
effeminato, lo stimavano poco: talmente che pensò che, a voler mantenere Roma,
bisogna volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa. Da questo
piglino esempio tutti i principi che tengono stato, che chi somiglierà Numa, lo
terrà o non terrà, secondo ehe i tempi o la fortuna gli girerà sotto: ma chi
somiglierà Romolo, e lui come esso armato di prudenza e d’armi, lo terrà in
ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è tolto. K certamente
si può stimare che se Roma sortiva per terzo suo Re un uomo che non sapesse
colle armi renderle la sua reputazione, non arebbe mai poi, o con grandissima
dilTìcultà, potuto pigliare piede, nè fare quelli effetti ch’ella fece. E così,
in mentre eh’ ella visse sotto i Re, la portò questi pericoli di rovinare sotto
un Re o debole o tristo. Due continove successioni di principi virtuosi fanno
grandi effetti: c come le repubbliche bene ordinate hanno di necessità virtuose
successioni: c però gli acquisti ctl auQumcnli loro sono grandi. Poi che Roma
ebbe cacciati i Re, mancò di quelli pericoli i quali di sopradetti che la
porta, succedendo in lei uno Re o debole o tristo. Perchè la somma dello
imperio si ridusse nc’ Consoli, i quali non per eredità o per inganni o per
ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed erano
sempre uomini eccellentissimi: de’quali godendosi Roma la virtù e la fortuna di
tempo in tempo, potette venire a quella sua ultima grandezza in altrettanti
unni, che la era stata sotto i Re. Perchè si vede, come due coutinove
successioni di principi virtuosi sono suffìzienti ad acquistare il mondo: come
furono Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno, il clic tanto più debbe fare
una repubblica, avendo il modo dello eleggere non solamente due successioni, ma
infiniti principi virtuosissimi, che sono l’uno dell'altro successori: la quale
virtuosa successione fia sempre in ogni repubblica bene ordinata. Quanto
biasimo meriti quel principe e quella repubblica che manca d'armi proprie.
Debbono i presenti principi c le moderne repubbliche, le quali circa le difese
ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro medesime j e pensare,
con lo esempio di Tulio, tale difetto essere non per mancamento d’uomini alti
alla milizia, ma per colpa loro, che non hanno saputo fare i loro uomini
militari. Perchè Tulio, scudo stata Roma in pace quaranta anni, non trovò,
succedendo lui nel regno, uomo che fussc stato mai alla guerra: nondimeno,
disegnando lui fare guerra, non pensò di valersi nè di Sanniti, nè di Toscani,
nè di altri che fussero consueti stare nell'armi; ma deliberò, come uomo
prudentissimo, di valersi de’ suoi. E fu tanta la sua virtù, che in un tratto
il suo governo gli potè fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna
altra verità, che se dove sono uomini non sono soldati, nasce per difetto del
principe, e non per altro difetto o di sito o di natura: di che ce n’è uno
esempio freschissimo. Perchè ognuno sa, come ne’ prossimi tempi il re
d’Inghilterra assaltò il regno di Francia, nè prese altri soldati clic i popoli
suoi; e per essere stato quel regno più clic trenta anni senza far guerra, non
aveva nè soldato nè capitano che avesse mai militato: nondimeno, ei non dubitò
con quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i quali
erano stati continovamcnte sotto l'armi nelle guerre d’Italia. Tutto nacque da
essere quel re prudente uomo, e quel regno bene ordinato; il quale nel tempo
della pace non intermette gli ordini della guerra. Pelopida ed Epaminonda
tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e trattola dalla servitù dello imperio
spartano; trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo di popoli
effeminati; non dubitarono, tanta era la virtù loro ! di ridurgli sotto Parrai,
e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti spartani, e vincergli:
e chi he scrive, dice come questi due in breve tempo mostrarono, che non
solamente in bacedemonia nascevano gli uomini di guerra, ma in ogni altra parte
dove nascessino uomini, pur che si trovasse chi li sapesse indirizzare alla
milizia, come si vede che Tulio seppe indirizzare i Romani. E VIRGILIO non
potrebbe meglio esprimere questa oppinione, nè con altre parole mostrare
d’aderirsi a quella, dove dice: u Desidesque movebit Tullus in arma viros.
Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani, e dei Tulio, re di
Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quel popolo fusse signore dell’altro,
di cui i soprascritti tre uomini vincessero. Furono MORTI TUTTI I CURIAZI
albani, restò vivo uno degli Orazi romani; e per questo, restò Mezio, re
albaiio, con il suo popolo, suggello ai Romani. E tornando quello ORAZIO
VINCITORI IN ROMA e scontrando una sua sorella, che era ad uno de’tre Curiazi
morti maritata, clic PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello
Orazio per questo fallo fu messo'in giudizio, e dopo molte dispute fu libero,
più per li prìeglii del padre, clic per li suoi meriti. Dove sono da notare Ire
cose: una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare tutta la
sua fortuna; l’altra, che non mai in una città bene ordinata li devmeriti con
li ineriti si ricompensano; la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si
debba o possa dubitare della inosservanza. Perchè, gl’importa tanto a una città
lo essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli Re o di
quelli Popoli stessero contenti che tre loro cittadini gli avessino sottomessi;
come si vide che volle fare Mezio: il quale, benché subito dopo la vittoria
de’Romani si confessassi vinto, e promettessi la obedienza a Tulio; nondimeno
nella prima espedizione che egli ebbono a convenire contra i Veienli, si vide
come ci cercò d’ingannarlo; come quello che tardi s’era avveduto della temerità
del partito preso da lui. E perchè di questo terzo notabile se n’’è pnr luto
assai, parleremo solo degli altri due ne’seguenti duoi capitoli. Che non si
debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte le forze; c per questo j
spesso il guardare i passi è dannoso. Non fu mai giudicato partito savio
mettere a pericolo tutta la fortuna tua, e non tutte le forze. Questo si fu in
più modi. L’uno è facendo come Tulio e Mezio, quando e’ commissouo la fortuna
tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini quanti avea l’uno e l’altro
di costoro negli eserciti suoi, alla virtù e fortuna di tre de’loro cittadini,
clic veniva ad essere una minima parte delle forze di ciascuno di loro. Nè si
avvidono, come per questo partito tutta la fatica che avevano durata i loro
antecessori nell’ordinare la repubblica, per farla vivere lungamente libera e
per fare i suoi cittadini difensori della loro libertà, era quasi che suta
vana, stando nella potenza di sì pochi a perderla. La qual cosa da quelli Re
non potè esser peggio considerata. Cadesi ancora in questo inconveniente quasi
sempre per coloro, che, venendo il nemico, disegnano di tenere i luoghi
diffìcili, e guardare i passi: perchè quasi sempre questa deliberazione sarà
dannosa, se giù in quello luogo diffìcile comodamente tu non potessi tenere
tutte le forze tue. In questo caso tuie partito è da prendere; ma scndo il
luogo aspro, e non vi potendo tenere tutte le forze tue, il partito è dannoso.
Questo mi fa giudicare cosi lo esempio di coloro che, essendo assaltati da un
nemico potente, ed essendo il paese loro circondato da’monti e luoghi alpestri,
noti hanno mai tentato di combattere il nemico in su’passi e in su’monti, ma
sono iti ad incontrarlo di là da essi: o, quando non hanno voluto far questo,
lo hanno aspettato dentro a essi monti, in luoghi benigni e non alpestri. E la
cugioite ne è suta la preallegata: perchè, non si polendo condurre alla guardia
de’luoghi alpestri molli uomini, sì per non vi potere vivere lungo tempo, si
per essere i luoghi stretti e capaci di pochi; non è possibile sostenere un
nemico clic venga grosso ad urtarti: ed al nemico è facile il venire grosso,
perchè la intenzione sua è passare, e non fermarsi; ed a chi l’aspetta è
impossibile aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più tempo, non sapendo
quando il nemico voglia passare in luoghi, com’io ho detto, stretti e sterili.
Perdendo, adunque, quel passo che tu ti avevi presupposto tenere, e nel quale i
tuoi popoli e lo esercito tuo confidava, entra il più delle volte ne’popoli e
nel residuo delle genti tue tanto terrore, che senza potere esperimentare la
virtù di esse, rimani perdente; c così vieni ad avere perduta tutta la tua
fortuna con parte delle tue forze. Ciascuno sa con quanta diftìcultà Annibaie
passasse r Alpi che dividono la Lombardia dalia Francia, e con quanta
difficoltà passasse quelle che dividono la Lombardia dalla Toscana: nondimeno i
Romani l’aspettarono prima in sul Tesino, e di poi uel piano d’Arezzo; e vollon
più tosto, che il loro esercito fusse consumato dal nemico nelli luoghi dove
poteva vincere, che condurlo su per l’Alpi ad esser destrutto dalla malignità
del sito. E chi leggerà sensatamente tutte le istorie, troverà pochissimi
virtuosi capitani over tentato di tenere simili passi, e per le ragioni dette,
e perchè e'non si possono chiudere tutti; sendo i monti come campagne, ed
avendo non solamente le vie consuete e frequentate, ma molte altre, le quali se
non sono note a’forestieri, sono note a’paesani; con l’aiuto de’quali sempre
sarai condotto in qualunque luogo, contra alla voglia di citi ti si oppone. Di
che se ne può addurre uno freschissimo esempio, nel T 51 5 . Quando Francesco
re di Francia disegna passare in Italia per lu recuperatone dello Stalo di
Lombardia, il maggiore fondamento clic facevano coloro eli’erano alla sua
impresa contrari, era che gli Svizzeri lo terrebbono a’passi in su’monti. E,
come per esperienza poi si vide, quel loro fondamento restò vano: perché,
lasciato quel re da parte due o tre luoghi guardati da loro, se ne venne per
un’altra via incognita; e fu prima in Italia, e loro appresso, che lo avessino
presentilo. Talché loro isbigottiti si ritirarono in Milano, e tutti i popoli
di Lombardia si aderiron alle genti franciose; sendo mancali di quella
oppinione avevano, che i Franciosi dovessino essere tenuti su’ monti. Le
repubbliche bene ordinate costituiscono premii c pene aJ loro cittadini; ne
compensano mai r uno con l’altro. Erano stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI,
avendo con la sua virtù VINTI I CURIAZIl. Era stato il fallo suo atroce, avendo
MORTO LA SORELLA: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio ai Romani, che io
condussero a disputare della vita, non ostante che gli meriti suoi fossero
tanto grandi c sì freschi. La qual cosa a chi superficialmente la considerasse,
parrebbe uno esempio d’ingratitudine popolare: nondimeno chi la esaminerà
meglio, e con migliore considerazione ricercherà quali debbono essere gli
ordini delle repubbliche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo assoluto,
che per averlo voluto condeunare. E la ragione è questa, che nessuna repubblica
bene ordinata, non mai cancellò i demeriti con gli meriti de’suoi cittadini; ma
avendo ordinati i preraii ad una buona opera e le pene ad una cattiva, ed
avendo premiato uno per aver bene operato, se quel medesimo opera di poi male,
lo gastica, senza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi
ordini sono bene osservati, una città vive libera molto tempo; altrimenti,
sempre rovinerà presto. Perchè, se ad un cittadino che abbia fatto qualche
egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla riputazione che quella cosa
gli arreca, una audacia e confidenza di potere, senza temer pena, fare qualche
opera non buona; diventerà in brievc tempo tanto insolente, che si risolverà
ogni civilità. È ben necessario, volendo clic sia temuta la pena per le triste
opere, osservare i premii per le buone; come si vede che fece Roma. C benché
una repubblica sia povera, e possa dare poco, debbe di quel poco non astenersi;
perchè sempre ogni piccolo dono, dato ad alcuno per ricompenso di bene ancora
che grande, sarà stimato, da chi lo riceve, onorevole e grandissimo. È notissima
la istoria di ORAZIO CODE e quella di MUZIO SCEVOLA: come V uno sostenne i
nemici sopra un ponte, tanto che si tagliasse: l’altro si arse la mano, avendo
errato, volendo ammazzare Porscna, re delli Toscani. A costoro per queste due
opere tanto egregie, fu donato dal pubblico due staiora di terra per ciascuno.
È nota ancora la istoria di MANLIO Capitolino. A costui, per aver salvato il
Campidoglio da' Galli che vi erano a campo, fu dato da quelli che insieme eon
lui vi erano assediati dentro, una piccola misura di farina, il quale premio,
secondo la fortuna che allora corre in Roma, fu grande; e di qualità che, mosso
poi Manlio, o da invidia o dalla sua cattiva natura, a far nascere sedizione in
Roma, e cercando guadagnarsi il popolo, fu, senza rispetto alcuno de’suoi
meriti, gittato precipite da quello Campidoglio ch’egli prima, cou tanta sua
gloria, aveva salvo. Chi vuole riformare uno stalo antico in una città libera,
ritenga almeno l’ombra desmodi antichi. Colui che desidera o clic vuole
riformare uno stato d’una città, a volere elle sia accetto, e poterlo con
satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l’ombra almanco
de’modi antichi, acciò che a’popoli non paia avere mutato ordine, ancora che in
fatto gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai passati; perchè lo
universale degli uomini si pasce così di quel che pare, come di quello che è;
anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono, che per quelle clic
sono. Per questa cagione i Romani, conoscendo nel principio del loro vivere libero
questa necessità, avendo in cambio d’un Re creali duoi Consoli, non vollono
ch’egli avessino più clic dodici littori, per non passare il numero di quelli
che ministravano ai Re. Olirà di questo, facendosi in Roma uno sacrifizio
anniversario, il quale non poteva esser fatto se non dalla persona del Re; e
volendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia degli
Re alcuna cosa dell’antiche j, creorono un capo di detto sacrifìcio, il quale
loro chiamorono Re Sacrifìcolo, e lo sottomessono al sommo Sacerdote:
talmentechè quel popolo per questa via venne a satisfarsi di quel sacrifizio, e
non avere mai cagione, per mancamento di esso, di desiderare la tornata dei Re.
E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare uno antico
vivere in una città, e ridurla ad uno vivere nuovo c libero. Perchè alterando
le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle alterazioni
ritenghino più delr antico sia possibile; e se i magistrati variano e di numero
e d'autorità e di tempo dagli antichi, che almeno ritengliino il nome. E questo
debbe osservare colui che vuole ordinare una potenza assoluta, o per via di
repubblica o di regno: ma quello che vuol fare una potestà assoluta, quale
dagli autori è chiamala tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente
capitolo si dirò. Un principe nuovo, in i ima città o provincia presa da lui, 1
debbe fare ogni cosa nuova. Qualunque diventa principe o d’unacittà o d’uno
Stato, e tanto più quando i fondamenti suoi lussino deboli, c non si volga o
per via di regno o di repubblica alla vita civile; il mcgliore rimedio che egli
abbia a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa di
nuovo in quello Stalo: come è, nelle città fare nuovi governi con nuovi nomi,
con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i poveri ricchi, fece Davil quando
ei diventò Re: qui csuricnles implevil bonis, et divites dimirti inanes;
edificare oltra di questo nuove città, disfare delie fatte, cambiare gli
abitatori da un luogo ad un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta
in quella provincia, e che non vi sia nè grado, nè ordine, nè stato, uè
ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te; c pigliare per sua mira
Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale con questi modi, di piccolo
Re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gl
uomini di provincia in provincia, come i mandriani tramutano le mandrie loro.
Sono questi modi crudelissimi, e nemici d’ogni vivere, non solamente cristiano,
ma umano; e debbegli qualunche uomo fuggire, c volere piuttosto vivere privato,
che Re con tanta rovina degli uomini: nondimeno, colui che non vuole pigliare
quella prima via del bene, quando si voglia mantenere, convien die entri in
questo male. >la gli uomini pigliano certe vie del mezzo, clic sono
dannosissime; perchè non sanno essere nè tutti buoni nè tutti cattivi: come ne
seguente capitolo, per esempio, si mostrerà. Sanno rarissime volle gli uomini
essere al lutto tristi o al fulto buoni. Papa Giulio secondo, andando na
Bologna per cacciare di quello Stato la casa de’Bentivogli, la quale aveva
tenuto il principato di quella città cento anni, voleva ancora trarre
Giovampagoto Buglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che
aveva congiurato contro a tutti gli tiranni che occupavano le terre della
Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e deliberazione nota a
ciascuno, non aspettò di entrare in quella città con lo esercito suo che lo
guardasse, mn % entrò disarmato, non ostante vi fusse dentro Giovampagolo con
genti assai, quali per difesa di sè aveva ragunate. Sicché, portato da quel
furore con il quale governa tutte le cose, colla semplice sua guardia si
rimesse nelle mani del nemico; il quale d ipoi ne menò seco, lasciando un
governadore in quella citta, che rendesse ragione pella Chiesa. Fu notala dagli
uomini prudenti che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di
Giovampagolo; uè potevano stimare donde si venisse che quello noti avesse, con
sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il nemico suo, e sè arricchito di
preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le lor delizie. Nè si
poteva credere si fusse astenuto o per bontà, o per conscienza che lo
ritenesse; perchè in un petto d’un uomo facinoroso, che si tene la sorella, che
aveva morti i cugini cd i nepoti per regnare, non poteva scendere alcuno
pietoso rispetto: ina si conchiuse, che gli uomini no sanno essere
onorevolmente tristi, o perfettamente buoni; e come una tristizia ha in sè
grandezza, o è in alcuna parte generosa, eglino non vi sanno entrare. Cosi
Giovampagolo, il quale non stimava essere incesto e pubblico parricida, non
seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendon giusta occasione, fare una impresa,
dove ciascuno avesse ammirato l’animo suo, e avesse di sè lasciato memoria
eterna; sendo il primo che avesse dimostro ai prelati, quanto sia da stimar
poco chi vive c regna come loro; ed avesse fatto una cosa, la cui grandezza
avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, clic da quella potesse depeudere.
Per qual cagione i Romani furono meno ingrati agli loro cittadini che gli
Ateniesi. Qualunque legge le cose fatte dalle repubbliche, troverà in tutte
qualche spezie di ingratitudine contro a’suoi citladini; ma ne troverà meno in
Roma che in Atene e per avventura in qualunque altra repubblica. E ricercando
la cagione di questo, parlando di Roma c di Atene, credo accadesse perchè i
Romani avevano meno cagione di sospettare de’suoi cittadini, che gli Ateniesi.
Perchè a Roma, ragionando di lei dalla cacciata dei Re intino a Siila e Mario,
non fu mai tolta la libertà da alcuno suo cittadino: in modo che in lei non era
grande cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli
inconsideratamente intervenne bene ad Atene il contrario: perché, sendole tolta
la libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo, e sotto uno inganno di
bontà; come prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie ricevute e
della passata servitù, diventò acerrima vendicatrice non solamente degli
errori, ma delP ombra degli errori de' suoi cittadini. Di qui nacque l’esilio e
la morte di tanti eccellenti uomini; di qui Pordine dello ostracismo, ed ogni
altra violenza che contra i suoi ottimati in vari tempi da quella città fu
fatta. Ed è verissimo quello che dicono questi scrittori della civiltà: che i
popoli mordono più fieramente poi ch’egli hanno recuperala la libertà, che poi
che l’hanno conservala. Chi considerrà adunque, quanto è detto, non biasimerà
in questo Atene, nè lauderà Roma; ma ne accuserà solo la necessità, per la
diversità degli accidenti che in queste città nacquero. Perchè si vedrà, chi
considererà le cose sottilmente, che se a Roma fusse siila tolta la libertà
come a Atene, non sarebbe stata Roma più pia verso i suoi cittadini, che si
fusse quella. Di che si può fare verissima conieltura per quello che occorse,
dopo la cacciata dei Re, contra a Collatino ed a Publio Valerio: de’quali il
primo, ancora elicsi trovasse a liberare Roma, E MANDATO IN ESILIO NON PER
ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro, avendo sol «lato di
sè sospetto per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per essere
fatto esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due
sospettosa e severa, che Farebbe usata la ingratitudine come Atene, se da’suoi
cittadini, come quella ne’primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fosse
stata ingiuriata. G per non avere a tornare più sopra questa materia della
ingratitudine, ne dirò quello ne occorrerà nel seguente capitolo. Quale sia più
ingrato, o un popolo j o un principe. Egli mi pare, a proposito della
soprascritta materia, da discorrere quale usi con maggiori esempi questa
ingratitudine, 0 un popolo, o un principe. E per disputare meglio questa parte,
dico, come questo vizio della ingratitudine nasce o dalla avarizia, o dal
sospetto. Perchè, quando o un popolo o un priacipe ha mandato fuori un suo
capitano in una cspedizione importante, dove quel capitano, vincendola, ne
abbia acquistata assai gloria; quel principe o quel popolo è tenuto allo incontro
a premiarlo: e se, in cambio di premio, o ei lo disonora o ei T offende, mosso
dalla avarizia, non volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli; fa uno
errore che non ha scusa, anzi si tira dietro una infamia eterna. Pure si
trovano molti principi che ci peccano. E Cornelio TACITO dice, con questa
sentenzia, la cagione: Proclivius est inj ur ite, quarti beneficio vicem
cxsolvcre, quia grafia oneri, ultio in questu fiabe tur. Ma quando ei non lo
premia, o, a dir meglio, l’offende, non mosso da avarizia, ma da sospetto;
allora merita, e il popolo e il principe, qualche scusa. E di queste
ingratitudini usate per tal cagione, se ne legge assai: perchè quello capitano
il quale virtuosamente ha acquistato uno imperio al suo signore, superando i
nemici, e riempiendo sè di gloria e gli suoi soldati di ricchezze; di
necessità, e con i soldati suoi, e con i nemici, e coi sudditi propri di quel
principe acquista tanta reputazione, che quella vittoria non può sapere di
buono a quel signore che lo ha mandato. G perchè la natura degli uomini è
ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a ntssuna sua fortuna, è
impossibile che quel sospetto che subito nasce nel principe dopo la vittoria di
quel suo capitano, non sia da quel medesimo accresciuto per qualche suo modo o
termine usato insolentemente. Talché il principe non può peusare ad altro che
assicurarsene; e per fare questo, pensa o di farlo morire, o di torgli la
reputazione che egli si ha guadagnala nel suo esercito e ne’suoi popoli: e con
ogni industria mostrare che quella vittoria è nata non per la virtù di quello,
ma per fortuna, o per viltà dei nemici, o per prudenza degli altri capitani
clic sono stati seco in tale l’azione. Poiché Vespasiano, sendo in Giudea fu
dichiarato dal suo esercito imperadore; Antonio Primo, che si trova con un
altro esercito in llliria, prese le parti sue, e ne venne in Italia contea a
Vitellio il quale regna a Roma, e virluosissimamente ruppe due eserciti
Vitelliani, c occupò Roma; talché Muziano, mandato da Vespasiano, trova per la
virtù d’Antonio acquistato il tutto, e vinta ogni diffìcultà. Il premio che
Autonio ne riportò, fu che Muziano gli tolse subito l’ubidienza dell’esercito,
e a poco a poco io riduce in Roma senza alcuna autorità: talché Antonio ne andò
a trovare Vespasiano, il quale era ancora in Asia; dal quale fu in modo
ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in nessun grado, quasi disperato morì. E
di questi esempi ne sono piene le istorie. Ne’nostri tempi, ciascuno che al
presente vive, sa con quanta industria e virtù Ferrante, militando nel regno di
Napoli contra a’ Franciosi per Ferrando Re di Ragona, conquistasse e vince quel
regno; e come, per premio di vittoria, ne riportò che Ferrando si parti da
Ragona, e, venuto a Napoli, in prima gli levò la obedienza delle genti d’arme,
c di poi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco in Spagna; dove poco
tempo poi, inonorato, mori. È tanto, dunque, naturale questo sospetto
ne’principi, che non se ne possono difendere; ed è impossibile ch’egli usino
gratitudine a quelli che con vittoria hanno fatto sotto le insegne loro grandi
acquisti. E da quello che non si difende un principe, non è miracolo, nè cosa
degna di maggior considerazione, s.e un popolo non se ne difende. Perchè,
avendo una città che vive libera, duoi fini, V uno lo acquistare, l’altro il
mantenersi libera; conviene che nell’una cosa e nell’altra per troppo amore
erri. Quanto agli errori nello acquistare, se ne dirà nel luogo suo. Quanto
agli errori per mantenersi libera, sono, intra gli altri, questi: di offendere quei
cittadini elicla doverrebbe premiare; aver sospetto di quelli in cui si
doverrebbe confidare. E benché questi modi in una repubblica venuta alla
corruzione siano cagione di grandi mali, c che molle volte piuttosto la viene
alla tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che per forza si tolse quello
che la ingratitudine gli negava; nondimeno in una repubblica non corrotta sono
cagione di gran beni, e fanno che la ne vi\e libera più, mantenendosi per paura
ili punizione gli uomini migliori, e meno ambiziosi. Vero è che infra tutti i
popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra discorse, Roma fu la
meno ingrata: perchè della sua ingratitudine si può dire che non ci sia altro
esempio che quello di Scipione; perchè Coriolano c Cammillo fumo fatti esuli
per ingiuria che l’uno e l’altro aveva fatto alla Plebe. Ma all’uno non fu
perdonato, per aversi sempre riserbato contea al Popolo l’animo nemico; Paiteo
non solamente fu richiamato, ma per tutto il tempo della sua vita adorato come
principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione, nacque d’un sospetto che i
cittadini cominciorno avere di lui, che degli altri non s’era avuto: il quale
nacque dalla grandezza del nemico che Scipione aveva vinto; dalla reputazione
che gli aveva data la vittoria di sì lunga e pericolosa guerra; dalla celerità
di essa; dai favori che la gioventù, la prudenza, e le altre sue memorabili
virtuti gli acquistavano. Le quali cose furono tante, che, non che altro, i
magistrati di Roma temevano della sua autorità: la qual cosa spiaceva
agl’uomini savi, come cosa inconsueta in Roma. E parve tanto straordinario il
vivere suo, che CATONE PRISCO, riputato santo, fu IL PRIMO a fargli contra; e a
dire che una città non si poteva chiamare libera, dove era un cittadino che
fusse temuto dai magistrati. Talché, se il popolo di Roma 1 seguì in questo
caso L’OPINIONE DI CATONE, merita quella scusa che di sopra ho detto meritare
quelli popoli e quelli principi che per sospetto sono ingrati. Conchiudendo
adunque questo discorso, dico, che usandosi questo vizio della ingratitudine o
per avarizia o per sospetto, si vedrà come i popoli non mai per T avarizia la
usorno, e per sospetto assai i manco che i principi, avendo meno cagione di
sospettare: come di sotto si dirà. Quali modi debbo usare un principe o una
repubblica per fuggire questo vizio della ingratitudine: c quali quel capitano
o quel cittadino per non essere oppresso da quella. Un principe, per fuggire
questa necessità di avere a vivere con sospetto, o esser ingrato, debbe
personalmente andare nelle espedizioni; come facevano nel principio quelli
imperadori romani, come fu ne’tempi nostri il Turco, c come hanno fatto e fanno
quelli che sono virtuosi. Perchè, vincendo, la gloria e lo acquisto è tutto
loro; e quando non vi sono, sendo la gloria d’altrui, non pare loro potere
usare quello acquisto, s’ei non spengono in altrui quella gloria che loro non
hanno saputo guadagnarsi, e diventare ingrati ed ingiusti: e senza dubbio, è
maggiore la loro perdita, che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per
poca prudenza, e’si rimangono a casa oziosi, c mandano un capitano; io non ho
che precetto dar loro altro, che quello che per lor medesimi si sanno. Ma dico
bene a quel capitano, giudicando io che non possa fuggire i morsi della
ingratitudine, che faccia una delle due cose: o subito dopo la vittoria lasci
lo esercito c rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni atto
insolente o ambizioso; acciocché quello, spogliato d’ogni sospetto, abbia
cagione o di premiarlo o di non lo offendere: o, quando questo non gli paia di
fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li
quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe suo,
facendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e faccia nuove amicizie coi vicini,
occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e
di quelli che non può corrompere s’assicuri; e per questi modi cerchi di punire
il suo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie non ci
sono: ma, come di sopra si disse, gli uomini non sanno essere nè al tutto
tristi, nè al tutto buoni: e sempre interviene che, subito dopo la vittoria,
lasciare lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare
termini violenti e che abbino in sè Tonorevole, non sanno; talché, stando
ambigui, intra quella loro dimora ed ambiguità, sono oppressi. Quanto ad una
repubblica, volendo fuggire questo vizi dello ingrato, non si può dare il
medesimo rimedio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle cspedizioni
sue, sendo necessitate a mandare un suo cittadino. Conviene, pertanto, che pei
rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la repubblica romana,
ad esser meno ingrata che l’altre: il che nacque dai modi del suo governo.
Perchè, adoperandosi tutta la città, e gli nobili e gli ignobili, nella guerra,
surgeva sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati di varie
vittorie, che il popolo non avea cagione di dubitare di alcuno di loro, sendo
assai, c guardando P uuo Patirò. E in tanto si mantenevano interi, e respettivi
di non dare, ombra di alcuna ambizione, uè cagione al popolo, come ambiziosi,
d’offendergli; che venendo alla dittatura, quello maggior gloria ne riporta,
che più tosto la depone. E cosi, non potendo simili modi generare sospetto, non
generavano ingratitudine. In modo che, una repubblica che nott voglia avere
cagione d’essere ingrata, si debbo governare come Roma; c uno cittadino che
voglia fuggire quelli suoi morsi, debbc osservare i termini osservati dai cittadini
romani. Che » capitani romani per errore commesso ?io« furono mai
istraordinariamcnlc puniti; nè furono mai ancora puniti quando, pella ignoranza
loro o tristi partiti presi da loro, ne fissino seguiti danni alla repubblica.
1 Romani, non solamente, come di sopra avemo discorso, furono manco ingrati die
V altre repubbliche, ma furono ancora più pii e più respctlivi nella punizione
de’loro capitani degli eserciti, che alcune altre. Perchè, se il loro errore
fussc stato per malizia, e’lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza,
non che lo punissino, e’ lo premiavano ed onoravauo. Questo modo del procedere
era bene considerato da loro: perchè e' giudicavano che fusse di tanta
importanza a quelli che governavano gl’eserciti loro, lo avere l’animo libero
ed espedito, e senza altri estrinsechi rispetti nel pigliare i parliti, che non
volevano aggiugnere ad una cosa per sè stessa difficile e pericolosa, nuove
difficultà c pericoli; pensando che aggiugttendovcli, nessuno potesse essere
che operasse mai virtuosamente. Verbigrazia, e’mandavano uno esercito in Grecia
contra a Filippo di Macedonia, o in Italia contra ad Annibale, o contro a
quelli popoli che vinsono prima. Era questo cupitano clic era preposto a tale
espedizione, angustiato da tutte quelle cure che s’arrecavano dietro quelle
faccende, le quali sono gravi e importantissime. Ora, se a tali cure si
fus»sino aggiunti più esempi di Romani ch’eglino avessino crucifissi o
altrimenti morti quelli che avessino perdute le giornale, egli era impossibile
che quello capitano intra tanti sospetti potesse deliberare strenuamente. Però,
giudicando essi che a questi tali fusse assai pena la ignominia dello avere
perduto, non gli vollono con altra maggior pena sbigottire. Uno esempio ci è,
quanto allo errore commesso non per ignoranza. Erono Sergio e Virginio a campo
a Veio, ciascuno preposti ad una parte dello esercito; de’quali Sergio era
all’incontro donde potevano venire i Toscani, c Virginio dall’altra parte.
Occorse che sendo assaltato Sergio dai Falisci e da altri popoli, sopportò
d’essere rotto c fugato prima che mandare per aiuto a Virginio. E dall’altra
parte, Virginio aspettando che si umiliasse, volle piuttosto vedere, il
disonore della patria sua, e la rovina di quello esercito, clic soccorrerlo.
Caso veramente esemplare e tristo, c da fare non buona coniettura della
Repubblica romana, se 1’uno c l’altro non fusscro stati gasligali. Vero è che,
dove un’altra repubblica gli a r ebbe puniti di pena capitale, quella gli punì
in danari. II che nacque non perchè i peccali loro non meritassino maggior
punizione, ma perchè gli Romani voiiono in questo caso, per le ragioni già
dette, mantenere gli antichi costumi loro. E quanto agii errori per ignoranza,
non ci è il più bello esempio che quello di VARRRONE (si veda): per la temerità
del quale sendo rotti i Romani a Canne d’Annibaie, dove quella Repubblica porta
pericolo della sua libertà; nondimeno, perchè vi fu ignoranza e non malizia,
non solamente non lo gastigorno ma lo onororno, e gl’anda incontro nella tornata
sua in Roma tutto l’Ordine senatorio; e non lo potendo ringraziare della zuffa,
Io ringraziarono eh’ egli era tornato in Roma, c non si era disperato delle
cose romane. Quando Papirio Cursore volevu fare morire Fabio, per avere contea
al suo comandamento combattuto coi Sanniti; intra le altre ragioni che dal
patire di Fabio erano assegnale conira alla ostinazione del Dittatore, era che
il Popolo romano in alcuna perdita de’suoi Capitani non aveva fatto mai quello
che Papirio nella vittoria voleva fare. Una repubblica o uno principe non e sia
conira ad una consuetudine antica della città, è scandalosissimo. Egli è
sentenza degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel male
c stuccarsi nel benej e come dul1’una e dall’altra di queste due passioni
nascono i medesimi effetti. Perchè, qualunque volta è tolto agli uomini il
combattere per necessità, combattono per ambizione: la quale è tanto potente
ne’petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gl’abbandona. La cagione
è, perchè la natura ha creati gl’uomini in modo, che possono desiderare ogni
cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il
desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di
quello che si possiede, e la poca satisfazionc di esso. Da questo nasce il
variare della fortuna loro: perchè desiderando gli uomini, parte d’avere più,
parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla
guerra; dalla quale nasce la rovina di quella provincia, e la esaltazione di
quel1’altra. Questo discorso ho fatto perchè alla Plebe romana non bastò
assicurarsi de’ Nobili per la creazione de’Tribuni, al quale desiderio fu
constretta per necessità; che lei subito, ottenuto quello, comincia a
combattere per ambizione, e volere con la Nobiltà dividere gli onori e le
sustanze, come cosa stimata più dagli uomini. Da questo nacque il morbo che
partorì la contenzione della legge agraria, ed in (ine fu causa della
distruzione della Repubblica romana. E perchè le repubbliche bene ordinate
hanno a tenere ricco il pubblico, e li loro cittadini poveri; convenne che
fusse nella città di Roma difetto in questa legge: la quale o non fusse fatta
nel principio in modo che la non si avesse ogni di a ritrattare; o che la si
differisse tanto in farla, che fusse scandotoso il riguardarsi indietro; o
sendo ordinata bene da prima, era stata poi dall’uso corrotta; talché, in
qualunque modo si fusse, mai non si parlò di questa legge in Roma, che quella
città non anda sottosopra. Aveva questa legge duoi capi principali. Ter l’uno
si dispone clic non si potesse possedere per alcun cittadino più che tanti
iugeri di terra; per V altro, che i campi di che si privavano i nimici, si
dividessino intra il popolo romano. Veniva pertanto a fare di duoi sorte offese
ai Nobili: perchè quelli che possedevano più beni non permetteva la legge
(quali erano la maggior parte de’Nobili), ne avevano ad esser privi; e
dividendosi intra la Plebe i beni de’nimici, si toglieva a quelli la via dello
arricchire. Sicché, venendo ad essere queste offese contra ad uomini potenti, e
che pare loro, contrastandola, difendere il pubblico; qualunque volta, com’è
detto, si ricorda, anda sottosopra quella città: ed i Nobili con pazienza ed
industria la temporeggiavano, o con trac fuora un esercito, o che a quel
Tribuno che la propone s’opponesse uno altro Tribuno; o talvolta cederne parte;
ovvero mandare una colonia in quel luogo che si avesse a distribuire: come
intervenne del contado di Anzio, pel quale surgendo questa disputa della legge,
si mandò in quel luogo una colonia traila di Roma, alla quale si consegnasse
detto contado. Dove L. usa un termine notabile, dicendo clic con ditTìcultà si
trovò in Roma eli i desse il nome per ire in detta colonia: tanto era quella
Plebe più pronta a volere desiderare le cose in Homa, che a possederle in Anzio
! Andò questo umore di questa legge così travagliandosi un tempo, tanto che i
Romani cominciarono a condurre le loro armi nell’estreme parti d’Italia, o
fuori di Italia; dopo al qual tempo parve che la restasse. Il che nacque perchè
i campi che possedevano i nimici di Roma essendo discosti dagli occhi della
Plebe, cd in luogo dove non gli era facile il coltivargli, veniva meno ad
esserne desiderosa: ed ancora i Romani erano meno punitori tic’ loro nemici in
siinil modo; e quando pure spogliavano alcuna terra del suo contado, vi
distribuivano colonia. Tanto che per tali cagioni questa legge stette come
addormentata inOno a’Gracchi: da’quali essendo poi svegliata, rovinò al tutto
la libertà romana; perchè la trovò raddoppiata la potenza de’suoi avversari, e
si accese per questo tante odio intra la Plebe ed il Senato, che si venne
all’armi ed al sangue, fuor d’ogni modo e costume civile. Talché, non potendo i
pubblici magistrati rimediarvi, nè sperando più alcuna delle fazioni in quelli,
si ricorse a’rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di farsi uno capo che
la difendesse. Pervenne in questo scandalo e disordine la Plebe, e volse la sua
riputazione a Mario, tanto che la lo fece quattro volte Consolo; ed in tanto
continuò con pochi intervalli il suo consolato, che si potette per sè stesso
far Consolo tre altre volte. Contra alla qual peste non avendo la Nobiltà
alcuno rimedio, si volse a favorir Siila; e fatto quello capo della parte sua,
vennero alle guerre civili e dopo molto sangue e variar di fortuna, rimase
superiore la Nobiltà. Risuscitorono poi questi umori a tempo di Cesare c di
Pompeo; perchè, fattosi Cesare capo della parte di Mario, c Pompeo di quella di
Siila, venendo alle mani rimase supcriore GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO
TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale, adunque, principio
e fine ebbe la legge agraria. E benché noi mostrassimo altrove, come le
inimicizie di Roma intra il Senato c la Plebe mantenessero libera Roma, per
nascerne da quelle leggi in favore della libertà; e per questo paia disforme a
tale conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per questo, io non
mi rimuovo da tale oppinionc: perchè egli è tanta P ambizione de’grandi, che se
per varie vie ed in vari modi la non ò in una città sbattuta, tosto riduce
quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge
agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta, per
avventura, molto più tosto iti servitù, quando la Plebe, e con questa legge c
con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato la ambizione de’Nobili.
Vedasi per questo ancora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori.
Perchè la Nobiltà romana sempre negli onori eedè senza scandali istraordinari
alla Plebe; ma come si venne alla roba, fu tanta la ostinazione sua nel
difenderla, che la Plebe ricorse, per Sfogare 1’appetito suo, a quelli
istraordinari che di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori i
Gracchi; de’quali si dcbbe laudare più la intenzione che la prudenza. Perchè, a
voler levar via uno disordine cresciuto in una repubblica, e per questo fare
una legge che riguardi assai indietro, è partito male considerato; e, come di
sopra largamente si discorse, non si fa altro che accelerare quel male a che
quel disordine ti conduce: ma temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o
per sè medesimo col tempo, avanti che venga al fine suo, si spegne. Le
repubbliche deboli sono male risolute, e non si sanno deliberare; c se le
pigliano mai alcuno partito j nasce più da necessità che da elezione. Essendo
in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli Volaci ed agli
Equi che fusse venuto il tempo di potere oppressar Roma; fatti questi due
popoli uno grossissimo esercito, assalirono gli Latini e gli Ernici, e
guastando il loro paese, furono constretti gli Latini c gli Ernici farlo
intendere a Roma, c pregare che fussero difesi da' Romani: ai quali, sendo i
Romani gravati dal morbo, risposero che pigliassero partito di difendersi da
loro medesimi e con le loro armi, perchè essi non li potevano difendere. Dove
si conosce la generosità e prudenza di quel Senato, e come sempre in ogni
fortuna volle essere quello che fusse principe delle deliberazioni che avessero
a pigliare i suoi; nè si vergognò mai deliberare una cosa che fusse contraria
al suo modo di vivere o ad altre deliberazioni fatte da lui, quando la
necessità gliene comanda. Questo dico perchè altre volte il medesimo Senato
aveva vietato ai detti popoli l’armarsi e difendersi; talché ad uno Senato meno
prudente di questo, sarebbe parso cadere del grado suo a concedere loro tale
difensione. Ma quello sempre giudicò le cose come si debbono giudicare, e
sempre prese il meno reo partilo per migliore; perchè male gli sapeva non
potere difendere i suoi sudditi; male gli sapeva che si armassino senza loro,
per le ragioni dette, e per molte altre che si intendono: nondimeno, conoscendo
che si sarebbono armati, per necessità, a ogni modo, avendo il nimico addosso;
prese la parte onorevole, e volle che quello clic gli avevano a fare, lo
facessino con licenzia sua, acciocché avendo disubbidito per necessità, non si
avvezzassino a disubbidire per elezione. E benché questo paia partito che da
ciascuna repubblica dove esser preso; nientedimeno le repubbliche deboli e male
consigliate non gli sanno pigliare, nè si sanno onorare di simili necessità.
Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto calare Bologna agli accordi suoi.
Dipoi, volendosene tornare a Roma per la Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo
a domandare il passo per sé e per il suo esercito. Consultossi in Firenze come
si avesse a governare questa cosa, nè fu mai consigliato per alcuno di
concedergliene. In che non si seguì il modo romano: perchè, sendo il Duca
armatissimo, ed i Fiorentini in modo disarmati che non gli potevano vietare il
passare, era molto piu onore loro, che paresse che passasse con permissione di
quelli, che a forza; perchè, dove vi fu al tutto il loro vituperio, sarebbe
stato in parie minore quando I’avessero governata altrimenti. Ma la più cattiva
parte che abbino le repubbliche deboli, è essere irresolute; in modo che lutti
i partili che le pigliano, gli pigliano per forza; e se vieti loro fatto alcuno
bene, lo fanno forzato, c non per prudenza loro. Io voglio dare di questo duoi
altri esempi, occorsi ne’tempi nostri nello stato della nostra città, nel mille
cinquecento. Ripreso che il re Luigi XII di Francia ebbe Milauo, desideroso di
rendergli Pisa, per aver cinquanta mila ducati che gli erano stati promessi da’
Fiorentini dopo tale restituzione, mandò gli suoi eserciti verso Pisa,
capitanati da monsignor Beaumonte; benché francese, nondiraanco uomo in cui i
Fiorentini assai confidavano. Condussesi questo esercito e questo capitano intra
Cascina e Pisa, per andare a combattere le mura; dove dimorando alcuno giorno
per ordinarsi alla espugnazione, vennero oratori Pisani a Beaumonte, e gli
offerirono di dare la città allo esercito francese con questi patti: che, sotto
la fede del re, promettesse non la mettere in mano de’Fiorentini, prima che
dopo quattro mesi. Il qual partito fu dai Fiorentini al tutto rifiutato, in
modo che si seguì nello andarvi a campo, e partissene con vergogna. Nè fu
rifiutato il partito per altra cagione, che per diffidare della fede del re;
come quelli che per debolezza di consiglio si erano per forza messi nelle mani
sue: e dall’altra parte, non se ne fidavano, nè vedevano quanto era meglio che
il re potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e non la rendendo scoprire P
animo suo, che non la avendo, poterla loro promettere, e loro essere forzati
comperare quelle promesse. Talché molto più utilmente arebbono fatto a
consentire che Beaumonlc V avesse, sotto qualunque pròmessa, presa: come se ne
vide la espcrienza di poi, die essendosi ribellato Arezzo, venne a’soccorsi
de’Fiorentini mandato dal re di Francia monsignor Imbalt con gente francese; il
qual giunto propinquo ad Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare accordo
con gli Aretini, i quali sotto certa fede volevano dare la terra, a
similitudine de’Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale partito; il che veggendo
monsignor Imbalt, e parendogli come i Fiorentini se ne inlendessino poco,
comincia a tenere le pratiche dell’accordo da se, senza participazione
de’Commessaci: tanto che e’io conchiuse a suo modo, e sotto quello colle sue
genti se ne entra in Arezzo, facendo intendere a’Fiorentini come egli erano
matti, e non s’intendevano delle cose del mondo: che se volevano Arezzo, lo
fucessino intendere al re, il quale lo poteva dar loro molto meglio, avendo le
sue genti in quella città, che fuori. Non si resta in Firenze di lacerare e
biasimare detto Imbalt; nè si resta mai, infino a tanto che si conobbe che se
Beaumonte fusse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo. E
cosi, per tornare a proposito, le repubbliche irresolute non pigliano mai
partiti buoni, se non per forza, perchè la debolezza loro non le lascia mai
deliberare dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellalo da una
violenza, che le sospinga, stanno sempre mai sospese. In diversi popoli si
veggono spesso i medesimi accidenti. E’si conosce facilmente per chi considera
le cose presenti e l’antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono
quelli medesimi desiderii e quelli medesimi umori, e come vi furono sempre: in
modo che gli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate,
prevedere in ogni repubblica le future, c farvi quelli rimedi che dagli antichi
sono stati usati; o non ne trovando degli usati, pensarne de’nuovi, pella
similitudine degl’accidenti. Ma perchè queste considerazioni sono neglette, o
non intese da chi legge; o se le sono intese, non sono conosciute da chi
governa; ne seguita che sempre sono i medesimi scandali in ogni tempo. Avendo
la città di Firenze perduto parte dell’imperio suo, come Pisa ed altre terre,
fu necessitata a fare guerra a coloro che l’occupano. E perchè chi l’occupa era
potente, ne seguiva che si spende assai nella guerra, senza alcun frutto; dallo
spendere assai ne risulta assai gravezze; dalle gravezze, infinite querele del
popolo; e perchè questa guerra era amministrata d’uno magistrato di dieci
cittadini che si chiamano i Dieci della guerra, 1’universale comincia a
recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione della guerra e delle spese
d’essa; e corniliciò a persuadersi che tolto via detto magistrato, fusse tolto
via la guerra: tanto che avendosi a rifare, non se gli fecero gli scambi; e
lasciatosi spirare, si commisero le azioni sue alla Signoria. La qual
deliberazione fu tanto perniziosa che non solamente non leva la guerra come
l’universale si persuade; ma tolto via quelli uomini che con prudenza
l’amministravano, ne seguì tanto disordine, die, oltre a Pisa, si perde Arezzo
e molti altri luoghi: in modo che, ravvedutosi il popolo dell’errore suo, e
come la cagione del male era la febbre e non il medico, rifece il magistrato
de’Dieci. Questo medesimo umore si leva in Roma conira al nome de’Consoli:
perchè, veggendo quello Popolo nascere 1’una guerra dall'altra, e non poter mai
riposarsi; dove e'dovevano pensare che la nascesse dalla ambizione de’vicini
che gli volevano opprimere; pensano nascesse dall’ambizione dei Nobili, che non
potendo dentro in Roma gastigar la Plebe difesa dalla potestà tribunizia, la
volevano condurre fuori di Roma sotto i Consoli, per opprimerla dove non aveva
aiuto alcuno. E pensarono per questo, che fusse necessario o levar via i
Consoli, o regolare in modo la loro potestà, che e’non avessino autorità sopra
il popolo, nè fuori nè in casa. Il primo che tentò questa legge, fu uno
Terentillo tribuno; il quale propone che si dovessero creare cinque uomini che
dovessino considerare la potenza de’Consoli, e limitarla. II che altera assai
la Nobiltà, parendoli che la maiestà dell’imperio fusse al tutto declinata,
talché alla Nobiltà non restasse più alcuno grado in quella Repubblica. Fu
nondimeno tanta l’ostinazione dei Tribuni, che il nome consolare si spense; e
furono in fine contenti, dopo qualche altro ordine, piuttosto creare Tribuni
con potestà consolare, che i Consoli: tanto avevano più in odio il nome che le
autorità loro. E cosi seguitorno lungo tempo, infino che conosciuto io errore
loro, còme i Fiorentini ritornorno ai Dieci, così loro ricreorno i Consoli. La
creazione del DECEMVIRATO in Roma, e quello che in essa è da notare: dove si
considera, intra molte altre cose, come si può salvare per simile accidente, o
oppressore una repubblica. Volendo discorrere particolarmente sopra
gl’accidenti che nacquero in Roma pella creazione del decemvirato, non mi pare
soperchio narrare prima tutto quello che segui per simile creazione, e dipoi
disputare quelle porti che sono in esse azioni notabili: le quali sono molte, e
di grande considerazione, cosi per coloro che vogliono mantenere una repubblica
libera, come per quelli che disegnassino sommetterla. Perchè in tale discorso
si vedranno molti errori fatti dal Senato e dalla Plebe in disfavore della
libertà; e molli errori fatti d’APPIO, capo del decemvirato; in disfavore di
quella tirannide ch’egli s’aveva presupposto stabilire in Roma. Dopo molte
deputazioni c contenzioni seguite intra il Popolo e la Nobiltà per fermare
nuove leggi in Roma, pelle quali e’si stabilisse più la libertà di quello
stato; mandarono, d’accordo, Spurio Postumio con duoi altri cittadini ad Atene
pegl’essenti di quelle leggi che Solone da a quella città, acciocché sopra
quelle potessero fondare le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne
alla creazione degl’uomini eh’avessino ad esaminare e fermare de.tte leggi; e
ercorno dieci cittadini per un anno, tra i quali fu creato APPIO CLAUDIO, il
primo filosofo romano, uomo sagace ed inquieto. E perchè e'potessimo senza
alcuno rispetto creare tali leggi, si levarono di Roma tutti gli altri
magistrati, ed in particolare i Tribuni e i Consoli, e levossi lo appello al
Popolo; in modo che tale magistrato veniva ad essere al tulio principe di Roma.
Appresso ad APPIO si ridusse tutta 1’autorità degli altri suoi compagni, per
gli favori clic gli fa la Plebe: perché egli s’era fatto in modo popolare colle
dimostrazioni, che pare meraviglia eh’egli avesse preso sì presto una nuova
natura c uno nuovo ingegno, essendo stato tenuto innanzi a questo tempo un
crudele persecutore della Plebe. Governaronsi questi Dieci assai civilmente,
non tenendo più che dodici littori, i quali andavano davanti a quello ch’era
infra loro preposto. E bench’egli avessino 1’autorità assoluta, nondimeno
avendosi a punire un cittadino romano per omicidio, lo citorno nel conspelto
del Popolo, e da quello lo fecero giudicare. Scrissero le loro leggi in dicci
tavole, ed avanti che le confirmassero, le messono in pubblico, acciocché
ciascuno le potesse leggere c disputarle; acciocché si conoscesse se vi era
alcuno difetto, per poterle binanti alla confirmazionc loro emendare. Fece, in
su questo, Appio nascere un rornorc per Bomn, che se a queste dieci tavole se
n’ aggiungcssiuo due altre, si darebbe a quelle la loro perfezione; talché
questa oppinionc dette occasione al Popolo di rifare i Dieci per uno altro
anno: a che il Popolo s’accorda volentieri; si perchè i Consoli non si
rifacessino; sì perchè speravano loro potere stare senza Tribuni, sendo loro
giudici delle cause, come di sopra si disse. Preso, adunque, partito di
rifargli, tutta la Nobiltà si mosse a cercare questi onori, ed intra i primi
era Appio; ed usa tanta umanità verso la Plebe nel domandarla, che la comincia
ad essere sospetta a suoi compagni: credebant cnim liaud gratuitam in lanla
superbia comilatcmfore. E dubitando d’opporsegli apertamente, diliberarono
farlo con arte; e benché e’fusse minore di tempo di tutti, dettono a lui
autorità di proporre i futuri Dieci al popolo, credendo eh’egli osservasse i
termini degl’altri di non proporre sè medesimo, sendo cosa inusitata e
ignominiosa in Roma, Me vero imprdimentum prò occasione arripuit; e nominò sè
intra i primi, con meraviglia e dispiacere di tutti i Nobili: nominò poi nove
altri al suo proposito. La qual nuova creazione fatta per uu altro anno,
cominciò a mostrare al Popolo cd alla Nobiltà lo error suo. Perchè subito Appio:
finem fedi ferenda aliena persona; e comincia a mostrare la innata sua
superbia, ed in pochi dì riempiè di suoi costumi i suoi compagni. E per
Sbigottire il Popolo ed il Senato, in scambio di dodici littori, ne feciono
cento venti. Stette la paura eguale qualche giorno; ma cominciarono poi ad
intrattenere il Senato, e battere la Plebe: e s’alcuno battuto dall’uno,
appella ali’altro, era peggio trattalo nell’appeltagione che nella prima causa.
In modo che la Plebe, conosciuto l’errore suo, comincia piena d’afflizione a
riguardare in viso i Nobili; et inde libcrtatis captare a urani, linde
servitutem tiinendoj in cum s taluni rempublicam adduxerant. E alla Nobiltà era
grata questa loro afflizione, ut ipsij teedio prcesenliunij Consules desiderar
ent. Vennero i di clic terminavano l’anno: le due tavole delle leggi erano
fatte, ma non pubblicate. Da questo i Dicci presono occasione di continovare
nel magistrato, c cominciorono a tenere con violenza lo Stato, e farsi
satelliti della gioventù nobile, alla quale davano i beni di quelli che loro
condannavano. Quibus donis Juventus coirumpebatur, et malebat liccnliam suoni,
i quatn omnium liberlatcm. Nacque in questo tempo, che i Sabini ed i Volsci
mossero guerra a’Romani: in su la qual paura cominciarono i Dieci a vedere la
debolezza dello Stato loro; perchè senza il Senato non potevano ordinare la
guerra, e ragunando il Senato pare loro perdere lo Stato. Pure, necessitati,
presono questo ultimo partito: e ragunali i Senatori insieme, molti de’Senatori
parlorono contro alla superbia de’Dieci, ed in particolare Valerio ed Orazio: e
l’autorità loro si sarebbe al tutto spenta, se non che il Senato, per invidia
della Plebe, non volle mostrare l’autorità sua, pensando che se i Dieci
deponevano il magistrato voluntarii, che potesse essere che i Tribuni della
plebe non si rifacessero. Dcliberossi adunque la guerra; uscissi fuori con due
eserciti guidati da parte di detti Dieci; APPIO rimase a governare la città.
Donde nacque che s’innamora di Virginia, e che volendola torre per forza, il
padre VIRGINIO, PER LIBERARLA, L’AMMAZZO: donde seguirono i tumulti di Roma e
degl’eserciti; i quali ridottisi insieme col rimanente della Plebe romana, se
n’andarono nel Monte Sacro, dove stettero tanto clic i Dieci deposono il
magistrato, e che furono creali i Tribuni ed i Consolide ridotta Roma nella
forma dell’antica sua libertà. Notasi, adunque, per questo testo, in prima
esser nato in Roma questo inconveniente di creare questa tirannide, per quelle
medesime cagioni che nascono la maggiore parte delie tirannidi nelle città: e
questo è da troppo desiderio del popolo d’esser libero, e da troppo desiderio
de’nobili di comandare. E quando c’non convengono a fare una legge in favore
della libertà, ma gettasi qualcuna delle parti a favorire uno, allora è che
subito la tirannide surge. Convennono il Popolo ed i Nobili di Poma a creare i
Dieci, e crearli con tanta autorità, per desiderio che ciascuna delle parti
aveva, 1’una di spegnere il nome consolare, l’altra il tribunizio. Creati che
furono, parendo alla Plebe che Appio fusse diventato popolare c battesse la
Nobiltà, si volse il Popolo a favorirlo. E quando un popolo si conduce a far
questo errore di dare riputazione ad uno perchè balta quelli che egli ha in
odio, e che quello uno sia savio, sempre interverrà che diventerà tiranno di
quella città. Perchè egli attende, insieme con il favore del popolo, a spegnere
la nobiltà; e non si volterà inai all’oppressione del popolo, se non quando ei
V arà spenta; nel qual tempo conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove
rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato tirannidi in
le repubbliche: c se questo modo avesse tenuto APPIO, quella sua tironnide
arebbe preso più vita, e non sarebbe mancata si presto. Ma ei fece tutto il contrario,
nè si potette governare più imprudentemente; cliè per tenere la tirannide, c’si
fece inimico di coloro che glie T avevano data c che gliene potevano mantenere,
ed amico di quelli che non erano concorsi a dargliene e che non gliene arebbono
potuta mantenere; e perdèssi coloro che gl’erano amici, e cerca d’avere amici
quelli che non gli potevano essere amici. Perchè, ancora che i nobili
desiderino tiranneggiare, quella parte della nobiltà che si truova fuori della
tirannide, è sempre inimica al tiranno; nè quello se la può mai guadagnare
tutta, pell’ambizione grande e grande avarizia che è in lei, non polendo il
tiranno avere nè tante ricchezze nè tanti onori che a tutta satisfaccia. E così
Appio, lasciando il Popolo ed accostandosi a’Nobili, fa uno errore
evidentissimo, e pelle ragioni dette di sopra, e perchè a volere con violenza
tenere una cosa, bisogna che sia più potente chi sforza, che chi è sforzato.
Donde nasce che quelli tiranni che hanno amico l’universale ed mimici i grandi,
sono più sicuri; per essere la loro violenza sostenuta da maggior forze, che
quella di coloro che hanno per inimico il popolo ed amica la nobiltà. Perchè
con quello favore bastano a conservarsi le forze intrinseche; come bastorno a
Nabide tiranno di Sparta, quando tutta Grecia ed il popolo romano l’assalta: il
quale assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il popolo, con quello si
difese; il che non arebbe potuto fare avendolo inimico. In quello nitro grado
per aver pochi amici dentro, non bastano le forze intrinseche, ma gli conviene
cercare di fuora. Ed hanno ad essere di tre sorti: 1’una satelliti forestieri,
die li guardino la persona; l’altra armare il contado, che faccia quell’oflìzio
che arebbe a fare la plebe; la terza aderirsi co’vicini potenti, che li difendino.
Chi tiene questi modi e gli osserva bene, ancora ch’egli avesse per inimico il
popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma APPIO non poteva far questo di
guadagnarsi il contado, scudo una medesima cosa il contado e Roma; c quel che
poteva fare, non seppe: talmente che rovinò nc’ primi principii suoi. Fecero il
Senato ed il Popolo in questa creazione del decemvirato errori grandissimi:
perchè ancora che di sopra si dica, in quel discorso che si fa del Dittatore,
che quelli magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il popolo,
sono nocivi alla libertà; nondimeno il popolo debbe, quando egli ordina i
magistrali, fargli in modo che gl’abbino avere qualche rispetto a diventare
tristi. E dove e’si debbe proporre loro guardia per mantenergli buoni, i Romani
la levorono, facendolo solo magistrato in Roma, ed annullando tutti gli altri,
pell’eccessiva voglia che il Senato aveva di spegnere i Tribuni, e la Plebe di
spegnere i Consoli; la quale gli acceca in modo che concorsono in tale
disordine. Perchè gl’uomini, come dice il re Ferrando, spesso fanno come certi
minori uccelli di rapina; ne’quali è tanto desiderio di conseguire la loro
preda a che la natura gl’incita che non sentono un altro maggior uccello che
sia loro sopra per ammazzargli. Conoscesi, adunque, per questo discorso, come
nel principio proposi, l’errore del Popolo romano, volendo salvare la libertà;
e gl’errori d’APPIO, volendo occupare la tirannide. Sahare dall’umilila alla
superbia j dalla pietà alta crudeltà senza debiti mezzij è cosa imprudente ed
inutile. Oltre agli altri termini male usati da APPIO per mantenere la
tirannide, non fu di poco momento saltare troppo presto d’una qualità ad
un’altra. Perchè l’astuzia sua nello ingannare la Plebe, simulando d’essere
uomo popolare, fu bene usata; furono ancora bene usati i termini che tenue
perchè i Dieci s’avessino a rifare; fu ancora bene usata quella audacia di
creare sè stesso contra all’oppinione della Nobiltà; fu bene usato creare
colleghi a suo proposito: ma non fu già bene usato, come egli ebbe fatto
questo, secondo che di sopra dico, mutare in un subito natura; e d’amico,
mostrarsi nimico alla Plebe; d’umano, superbo; di facile, difficile; e farlo
tanto presto, che senza scusa veruna ogni uomo avesse a conoscer la fallacia
dell’animo suo. Perchè chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito
diventar tristo, io debbe fare per gli debiti mezzi; ed in modo condurvisi
colle occasioni, che innanzi che la diversa natura ti tolga de’favori vecchi,
la te ne ubbia dati tanti degli nuovi, che tu non venga a diminuire la tua
autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e senza amici, rovini. Quanto
gl’uomini facilmente si possono corrompere. Notasi ancora in questa materia del
decemvirato, quanto facilmente gl’uomini si corrompono, e fatinosi diventare di
contraria natura, ancora che buoni e bene educati; considerando quanto quella
gioventù ch’Appio si aveva eletta intorno, comincia ad essere amica della
tirannide per uno poco d’utilità che gliene conseguiva; e come Quinto Fabio,
uno del numero de’secondi Dieci, sendo uomo oliimo, accecalo da un poco di
ambizione, e persuas dulia malignità d’APPIO, muta i suoi buoni costumi in
pessimi, e diventò simile a lui. Il che esaminato bene, fa tanto più pronti i
legislatori delle repubbliche o de’regni a frenare gl’appetiti umani, c torre
loro ogni speranza di potere impune errare. Quelli che combattono pella gloria
propria, sono buoni e fedeli soldati. Considerasi ancora pel soprascritto
trattato, quanta differenza è d’uno esercito contento e che combatte pella
gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte pell’ambizione d’altri.
Perchè, dove gl’eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi sotto i
Consoli, sotto i Decemviri sempre perderono. Da questo essempio si può
conoscere parte delle cagioni dell’inutilità de’soldati mercenurii; i quali non
hanno altra cagione clic li tenga fermi, che un poco di stipendio che tu dai
loro. La qual cagione non è nè può essere bastante a fargli fedeli, nè tanto
tuoi amici, che voglino morire per le. Perchè in quelli eserciti che non è una
affezione verso di quello per chi e’combattono, che gli facci diventare suoi
partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basta a resistere ad uno
nimico un poco virtuoso. G perchè questo amore non può nascere, nè questa gara,
d’altro che da’sudditi tuoi; è necessario a volere tenere uno stato, a volere
mantenere una repubblica o uno regno, armarsi de’sudditi suoi: come si vede che
hanno fatto tutti quelli che con gl’eserciti hanno fatti grandi progressi.
Avevano gl’eserciti romani sotto i Dieci quella medesima virtù; ma perchè in
loro non era quella medesima disposizione, non facevano gl’usilati loro
effetti. Ma com prima il magistrato de’Dieci fu spento, e che loro come liberi
cominciorno amilitare, ritorna in loro il medesimo animo; e per conscguente, le
loro imprese avevano il loro fine felice, secondo l’antica consuetudine loro.
Una moltitudine senza capo è inutile: e non si debbo minacciare prima, c poi
chiedere l'autorità. Era la Plebe romana pello accidente di Virginia ridotta
armata nel Monte Sacro. Manda il Senato suoi ambasciadori a dimandare con quale
autorità egli avevano abbandonati i loro capitani, e ridottisi nel Monte. E
tanta era stimata l’autorità del Senato che non avendo la Plebe intra loro capi,
ninno si ardiva a rispondere. E L. dice, ohe e’non manca loro materia a
rispondere, ma manca loro chi fa la risposta. La qual cosa dimonstra appunto
l’inutilità d’una moltitudine senza capo. Il qual disordinefu conosciuto da
Virginio, e per suo ordine si cre venti Tribuni militari, che fussero loro capo
a rispondere e convenire col Senato. Ed avendo chiesto che si manda loro
Valerio ed Orazio, ai quali loro direbbono la voglia loro, non vi volsono
andare se prima i Dieci non deponevano il magistrato: ed arrivati sopra il
Monte dove era la Plebe, fu domandato loro da quella, che volevano che si
creassero i Tribuni della plebe, e che s’avesse ad appellare al Popolo d’ogni
magistrato, e che si dessino loro tutti i Dieci, chè gli volevano ardere vivi.
Laudarono Valerio cd Orazio le prime loro domande; biasimorono l’ultima come
impia, dicendo: Crude litatcm dannatisj in crudclitaiem ruitis; e
consigliamogli che dovessino lasciare il fare menzione de’Dieci, e ch’egli
attendessino a pigliare l’autorità e potestà loro: di poi non mancherebbe loro
modo a satisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia c poca prudenza
è domandare una cosa, e dire prima: io voglio far male con essa; perchè non si
debbo mostrare l’animo suo, ma vuoisi cercare d’ottenere quel suo desiderio in
ogni modo. Perchè e’ basta a dimandare a uno le armi, senza dire: io ti voglio
ammazzare con esse; potendo poi che tu bai l’arme in mano, satisfare allo
appetito tuo. E cosa di malo esempio | non osservare una legge falla, c massime
dallo autore d'essa: e rinfre scare ogni di nuove ingiurie in una t città, è a
chi la governa dannosisi simo. Seguito lo accordo, e ridotta Roma in l’antica
sua forma, Virginio citò Appio innanzi al Popolo a difendere la sua causa.
Quello comparse accompagnato da molti Nobili. Virginio comandò che fussc messo
in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva
che non era degno di avere quella nppellagionc che egli aveva distrutta, ed
avere per difensore quel Popolo che egli aveva offeso. Appio replica, come
e’non aveano a violare quella appellagionc ch'egli avevano con tanto desiderio
ordinata. Pertanto egli fu INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE
STESSO. E benché la scellerata vita d’Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno
fu cosa poco civile violare le leggi, e tanto più quella che era fatta allora.
Perchè io non credo che sia cosa di più cattivo esempio in una repubblica, che
fare una legge e non l’osservare; e tanto più, quanto la non è osservata da chi
l’ha falla. Essendo Firenze stala riordinala nel suo stato con l'aiuto di frate
Savonarola, gli scritti del quale mostrano la dottrina, la prudenza, la virtù
dello animo suo; ed avendo intra P altre conslituzioni per assicurare i
cittadini, fatto fare una legge, che si potesse appellare al popolo dalle
sentenze che, per caso di Stato, gli Otto c la Signoria dessino; la qual legge
persuase più tempo, e con difficoltà grandissima ottenne: occorse che, poco
dopo la confirmazicne d’essa, furono condcunati a morte dalla Signoria per
conto di Stato cinque cittadini; e volendo quelli appellare, non furono
lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più riputazione a quel
frate, che nessun altro accidente: perchè, se quella appellagione era utile, ei
doveva farla osservare; s’ella non era utile, non doveva farla vincere. E tanto
più fu notato questo accidente, quanto che il frate in tante predicazioni che
fece poi clic fu rotta questa legge, non mai o dannò chi P aveva rotta, o lo
scusò; come quello che dannare non voleva, come cosa che gli torna a proposito;
e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l’animo suo ambizioso e
paitigiano, gii tolse riputazione, e dettegli assai carico. Offende ancora uno
Stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo de’tuoi cittadini nuovi umori, per
nuove ingiurie ebe a questo e quello si fucciano: come intervenne a Roma dopo
il decemvirato. Perché tutti i Dieci, ed altri cittadini, in diversi tempi
furono accusati e condannati: in modo che gli era uno spavento grandissimo in
tutta la Nobiltà, giudicando che e’non si avesse mai a porre fine a simili
condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobiltà non fusse distrutta. Ed arebbe
generato in quella città grande inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non
vi fusse stato provveduto; il qual fece uno editto, che per uno anno non fusse
lecito ad alcuno citare o accusare alcuno cittadino contano: il che rassicurò
tutta la Nobiltà. Dove si vede quanto sia dannoso ad una repubblica o ad un
principe, tenere con le continove pene ed offese sospesi e paurosi gli animi
dei sudditi. E senza dubbio, non si può tenere il più pernicioso ordine: perchè
gli uomini che cominciano a dubitare di avere a capitar male, in ogni modo
s’assicurano ne’pericoli, e diventano più audaci, e meno rispettivi a tentare
cose nuove. Però è necessario, o non offendere mai alcuno, o fare le offese ad
un tratto; e dipoi rassicurare gl’uomini, e dare loro cagione di quietare e
fermare l’animo. Gl’uomini salgono da una ambizione ad unJ altra; c prima si
cerca non essere offeso t dipoi d’offendere altrui. Avendo il Popolo romano
ricuperala la libertà, ritornato nel suo primo grado, ed in tanto maggiore,
quanto si erano fatte dimolte leggi nuove In corroborazione della sua potenza;
pare ragionevole che Roma qualche volta quictasse. Nondimeno, per esperienza si
vide il contrario; perchè ogni di vi surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E
perchè L. prudentissimamente rende la ragione donde questo nasce, non mi pare
se non a proposito riferire appunto le sue parole, dove dice che sempre o il
Popolo o la Nobiltà insuperbiva, quanto l’altro s’umiliava; e stando la Plebe
quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili ad ingiuriarla; ed i
Tribuni vi potevano fare pochi rimedi, perchè ancora loro erano violati. La
Nobiltà, dall’altra parte, ancora che gli pare che la sua gioventù fusse troppo
feroce, nondimeno aveva a caro ch’avendosi a trapassare il modo, lo
trapassassino i suoi, e non la Plebe. E cosi il desiderio di difendere la
libertà fa che ciascuno tanto si prevaleva, eh’egli oppressava l’altro. E V
ordine di questi accidenti è, che mentre clic gli uomini cercano di non temere,
cominciano a far temere altrui; e quell ingiuria ch’egli scacciano da loro, la
pongono sopra un altro: come se fussc necessario offendere, o essere offeso.
Vedesi, per questo, in quale modo, fra gl’altri, le repubbliche si risolvono; e
in che modo gl’uomini salgono d’una ambizione ad un’altra; e come quella
sentenza di SALUSTIO posta in bocca di GIULIO Cesare, è verissima: quod omnia
mala exempla bonis mitiis orla sunt. Cercano quelli cittadini clie
ambiziosamente vivono in una repubblica, la prima cosa di non potere essere
offesi, non solamente dai privati, ma eziam da’magistrali: cercano, per potere
fare questo, amicizie; e quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o con
sovvenire di danari, o con difendergli da’potenti: e perchè questo pare
virtuoso, s’inganna facilmente ciascuno, c per questo non vi si pone rimedio;
intanto che egli senza ostacolo perseverando, diventa di qualità, che i privati
cittadini ne hanno paura, ed i magistrati gli hanno rispetto. E quando egli è
saJito a questo grado, c non si sia prima ovvialo alla sua grandezza, viene od
essere in termine, che volerlo urtare è pericolosissimo, pelle ragioni che io
dissi di sopra del pericolo che è nello urtare uno inconveniente che abbi di
già fatto augumento in una città: tanto che la cosa si riduce in termine, che
bisogna o cercare di spegnerlo con pericolo d’una subita rovina j o lasciandolo
fare, entrare in una servitù manifesta, se morte o qualche accidente non te ne
libera. Perchè, venuto a’soprascrilti termini, che i cittadini ed i magistrati
abbino paura ad offender lui e gli amici suoi, non dura di poi molta fatica a
fare che giudichino ed offendino a suo modo. Donde una repubblica intra
gl’ordini suoi debbe avere questo, di vegghiarc che i suoi cittadini sotto
ombra di bene non possino far male; e di’egli abbino quella riputazione che
giovi, e non nuoca, alla libertà. Gli nomini j ancora clic si ingannino ncJ
generali j nei particolari non si ingannano. Essendosi il Popolo romano recato
a noia il nome consolare, e volendo che potessiao esser fatti Consoli uomini
plebei, o che fusse limitata la loro autorità; la Nobiltà, per non deonestare
l’autorità consolare nè coll’una nè coll’altra cosa, prese una via di mezzo, e
fu contenta che si creassino quattro Tribuni con potestà consolare, i quali
potcssino essere cosi plebei come nobili. Fu contenta a questo la Plebe,
parendogli spegnere il consolato, ed avere in questo sommo grado la parte sua.
Nacquene di questo un caso notabile: che venendosi alla creazione di questi
Tribuni, e potendosi creare tutti plebei, sono dal Popolo romano creati tutti
fiobiii. Onde L. dice queste parole: Quorum comitiorum eoenlus docuit, alias
animo sin contcntione libertatis et honoris, alios secundum deposita certamina
in incorrupto judicio esse. Ed esaminando donde possa procedere questo, credo
proceda che gii uomini nelle cose generali s’ingannano assai, nelle particolari
non tanto. Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il consolato, per
avere più parte in la città, per portare più pericolo nelle guerre, per esser
quella che colle braccia sue mantene Roma libera, e la fa potente. E parendogli
questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere questa autorità in ogni modo.
Ma come la ebbe a fare giudizio degli uomini suoi particolarmente, conobbe la
debolezza di quelli, e giudica che nessuno di loro merita quello che tutta
insieme gli pare meritare. Talché vergognatasi di loro, ricorse a quelli che Io
meritano. Della quale deliberazione meravigliandosi meritamente L., dice queste
parole: /lane modestiam, aquila IcmquCj et allitudinem animi, ubi moie in uno
inveneris, qua: lune populi universi fuit? In corroborazione di questo, se ne
può addurre un altro notabile essempio, seguito in Capova da poi che Annibaie
ebbe rotti i Romani a Canne; pella qual rotta sendo tutta sollevata Italia,
Capova sta ancora per tumultuare, pell’odio eli’ era intra il Popolo ed il
Senato; e trovandosi in quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e
conoscendo il pericolo che porta quella città di tumultuare, disegna con suo
grado riconciliare la Plebe con la Nobiltà; e fatto questo pensiero, fece
ragunare il Senato, c narrò loro Podio che M popolo aveva contra di loro, ed i
pericoli che portano d’essere ammazzati da quello, e data la città ad Annibaie,
sendo le cose de’Romani afflitte: di poi soggiunse, che se volevano lasciare
governare questa cosa a lui, farebbe in modo che s’unirebbono insieme; ma gli
voleva serrare dentro al palazzo, e co fare potestà al popolo di potergli
gastigare, salvargli. Cederono a questa sua oppinione i Senatori, e quello
chiamò il Popolo a coocione, avendo rinchiuso in palazzo il Senato; e disse
com’egli era venuto il tempo di potere domare la superbia della Nobiltà, e
vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella, avendogli rinchiusi tutti sotto
la sua custodia: ma perchè crede che loro non volessino che la loro città
rimanesse senza governo, era necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi,
crearne de’nuovi. E per tanto aveva messo tutti gli nomi degli Senatori in una
borsa, e comincierebbe a trargli in loro presenza j ed egli farebbe i tratti di
mano in mano morire, come prima loro avessino trovato il successore. E
cominciato a trarne uno, fu al nome di quello levato un rumore grandissimo,
chiamandolo uomo superbo, crudele ed arrogante: e chiedendo Paeuvio che
facessino lo scambio, si racchetò tutta la conclone; c dopo alquanto spazio, fu
nominato uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi a
ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in un altro: o così seguitando di
mano in mano, tutti quelli che furono nominati, gli giudicavano indegni del
grado senatorio. In modo che Pacuvio, presa sopra questo occasione, disse: Poiché
voi giudicate che qucslu città stia male senza Senato, ed a fare gii scambi
a’Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia bene che voi vi
riconciliate insieme; perchè questa paura in la quale i Senatori sono stati,
gli arà fatti in modo raumiliare, che quella umanità che voi cercavate altrove,
troverete in loro. Ed accordatisi a questo, ne segui l’unione di questo ordine;
e quello inganno in che egli erano si scoperse, come e’furono constretti venire
a’particolari. Ingannansi, olirà di questo, i popoli generalmente nel giudicare
le cose e gli accidenti di esse j le quali di poi si conoscono particolamento,
si avveggono di tale inganno. Sendo stati i principi della città cacciati da
Firenze, e non vi essendo alcuno governo ordinato, ma piuttosto una certa
licenza ambiziosa, ed andando le cose pubbliche di inale in peggio; molti
popolari veggiendo la rovina della città, e non ne intendendo altra cagione, ne
accusavano la ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini, per poter
fare uno Stato a suo proposito, c torre loro la libertà: c stavano questi tali
per le logge c per le piazze, dicendo male di molti cittadini, e minacciandoli
che se mai si trovassero de’Signori, scoprirebbono questo loro inganno, e gli
gastigarebbono. Occorre spesso che de’simili ne ascendeva al supremo
magistrato; e come egli era salilo in quel luogo, e che e’vedeva le i cose più
dappresso, conosce i disordini donde nascevano, ed i pericoli che soprastavano,
e la difficoltà del rimecitarvi. C veduto come i tempi, e no gli uomini,
causano il disordine, diventa subito d’un altro animo, c di un’altra fatta;
perché la cognizione delle cose particolari gli toglieva via quello inganno che
nel considerare generalmente si aveva presupposto. Dimodoché, quelli che lo
avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo
magistrato stare quieto, credevano che nascesse, non per più vera cognizione
delle cose, ma perchè fusse stalo aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo
questo a molti uomini c molte volte, ne nacque tra loro un proverbio, che dice:
Costoro hanno uno animo in piazza, cd uno in palazzo. Considerando, dunque,
tutto quello si è discorso, si vede come e’si può fare tosto aprire gl’occhi
a’popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl’inganna, ch’egli abbino a
descenderc ai particolari; come fa Pacuvio in Capova, ed il Senato in Roma.
Credo ancora, che si possa conchiudere, che mai un uomo prudente non debbe
fuggire il giudizio popolare nelle eo9e particolari, circa le distribuzioni
de'gradi e delle dignità: perchè solo in questo il popolo non s’inganna; e se
s’inganna qualche volta, Ha sì raro, che s’inganneranno più volte i pochi
uomini che avessino a fare simili distribuzioni. Nè mi pare superfluo mostrare
l’ordine che teneva il Senato per isgannare il popolo nelle distribuzioni sue.
Chi vuole che uno magistrato non sia dato ad un vile o ad un tristo j lo facci
domandare o ad un troppo vile e troppo tristo, o ad uno troppo nobile c troppo
buono. Quando il Senato dubita che i Tribuni con potestà consolare non fussino
fatti d’uomini plebei, tene uno de’duoi modi: o egli fa domandare ai più
riputati uomini di Roma; o veramente, per i debiti mezzi, corrompe qualche
plebcio sordido ed ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di miglior qualità,
pell’ordinario lo domandano, anche loro lo domandassino. Questo ultimo modo fa
che la Plebe si vergogna a darlo; quel primo fa che la si vergogna a torlo, li
che tutto torna a proposito del precedente discorso, dove si mostra che il
popolo se s’inganna de’generali, de’particolari non s’inganna. Se quelle città
che hanno avuto il principio libcrOj come Romaj hanno diffìcultà a trovare
leggi che le mantenghino; quelle che lo hanno immediate servo, ne hanno quasi
una impossibilità. Quanto sia difficile, nell’ordinare una repubblica,
provvedere a tutte quelle leggi che la mantenghino libera, lo dimostra assai
bene il processo della Repubblica romana: dove non ostante che fussino ordinate
di molte leggi da ROMOLO prima, di poi da Nuraa, da Tulio Ostilio e Servio, ed
ultimamente dai dieci cittadini creali a simile opera; nondimeno sempre nel
maneggiare quella città si scoprivano nuove necessità, ed era necessario creare
nuovi ordini: come intervenne quando crearono i Censori, i quali furono uno di
quelli provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse
in libertà. Perchè, diventati arbitri de’costumi di Roma, furono cagione
potissima che i Romani diflerissino più a corrompersi. Feciono bene nel
principio della creazione di tal magistrato uno errore, creando quello per
cinque anni; ma, di poi non molto tempo, fu corretto dalla prudenza di Mamereo
dittatore, il qual per nuova legge ridusse detto magistrato a diciolto mesi. Il
che i Censori che vegghiavano, ebbono tanto per male, che privorno Mamcrco del
senato: la qual cosa e dalla Plebe c dai Padri fu assai biasimata. perchè la
istoria non inostra che Mamerco se ne potesse difendere, conviene o che lo
istorico sia difettivo, o gl’ordini di Roma in questa parte non buoni: perchè
non è bene che una repubblica sia in modo ordinata, ebe un cittadino per
promulgare una legge conforme al vivere libero, ne possa essere senza alcuno
rimedio offeso. Ma tornando al principio di questo discorso, dico che si dehbe,
per la creazione di questo magistrato, considerare, che se quelle città che
hanno avuto il principio loro libero, e che per se medesimo si è retto, come
Roma, hanno difHcultà grande a trovar leggi buone per mantenerle libere; non è
meraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediate servo,
abbino, non che dilfìcultà, ma impossibilità ad ordinarsi mai in modo che le
possino vivere civilmente e quietamente. Comesi vede che è intervenuto alla
città di Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto
all’imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto governo d’altri, stette un
tempo soggetta, e senza pensare a sè medesima: di poi, venuta l’occasione di
respirare, comincia a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati cogl’antichi,
che erano tristi, non poterono essere buoni: e così è ita maneggiandosi per
dugento anni che si lia di vera memoria, senza avere mai avuto stato pel quale
ella possa veramente essere chiamata repubblica. E queste diflicultà che sono
state in lei sono state sempre in tutte quelle città che hanno avuto i
principii simili a lei. E benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi,
si sia dato ampia autorità a pochi cittadini di potere riformarla; non pertanto
mai l’hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte loro:
il che ha fatto non ordine, ma maggiore disordine in quella città. E per venire
a qualche essempio particolare, dico come intra le altre cose che si hanno a
considerare d’uno ordinatore d’una repubblica, è esaminare nelle mani di quali
uomini ci ponga 1’autorità del sangue coutra de’suoi cittadini. Questo era bene
ordinato in Roma, perchè e’si poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se
pure fussc occorsa cosa importante, dove il differire l’esecuzione mediante la
appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del Dittatore, il quale
eseguiva immediate; al qual rimedio non rifuggivano mai, se non per necessità.
Ma Firenze, c Y altre città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano questa
autorità collocata in un forestiero, il quale mandato dal principe fa tale
uffizio. Quando di poi vennono in libertà, mantennero questa autorità in un
forestiero, il quale chiamano Capitano: il che, per potere essere facilmente
corrotto da’cittadini potenti, era cosa perniciosissima. Ma di poi, murandosi
per la mutazione degli Stati questo ordine, creorno otto cittadini che
facessino l’uffizio di quel Capitano. Il quale ordine, di cattivo, diventò
pessimo, per le cagioni che altre volte sono dette: che i pochi furono sempre
ministri dc’poehi, e de’più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia;
la quale ha dieci cittadini, che senza appello possono punire ogni cittadino. E
perchè e’non basterebbono a punire i potenti, ancora die ne nvessino autorità,
vi hanno constituito le Quarnntie: c di più, hanno voluto che il Consiglio
de’Pregai, elicè il Consiglio maggiore, possa gastigargli; In modo che non vi
mancando l’accusatore, non vi manca il giudice a tener gl’uomini potenti a
freno. Non è dunque meraviglia, reggendo come in Roma, ordinata da sè medesima
e da tanti uomini prudenti, surgevano ogni di nuove cagioni pelle quali s’aveva
a fare nuovi ordini in favore del viver libero j se nelle altre città che hanno
più disordinalo principio, vi surgono tuli difficoltà, che le non si possino
riordinar mai. iVon dcbbc uno consiglio o uno magistrato potere fermare le
azioni della città. tirano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato c Gneo
Giulio Mento, i quali sendo disuniti, avevano ferme tutte le azioni di quella
Repubblica. Il che veggcndo il Senato, gli conforta a creare il Dittatore, per
fare quello che pelle discordie loro non poteva fare. Ma i Consoli discordando
in ogni altra cosa, solo in questo erano d’accordo, di non voler creare il
Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto
de’Tribuni; i quali, con l’autorità del Senato, sforzarono i Consoli ad
ubbidire. Dove si ba a notare, in prima, la utilità del tribunato; il quale non
era solo utile a frenare l’ambizione che i potenti usano contra alla Plebe, ma
quella ancora ch’egli usano infra loro: 1’altra, che mai si debba ordinare in
una città, che i pochi possino tenere alcuna deliberazione di quelle che
ordinariamente sono necessarie a mantenere la repubblica. Yerbigrazia, se tu
dai una autorità nd uno consiglio di fare una distribuzione di onori c di
utile, o ad uno magistrato di amministrare una faccenda; conviene o imporgli
una necessità perchè ei l’abbia a fare in ogni modo; o ordinare, quando non la
voglia fare egli, che la possa e debba fare un altro: altrimenti, questo ordine
sarebbe difettivo e pericoloso; come si vede che era in Roma, se alla
ostinazione di quelli Consoli non si poteva opporre l’autorità de’Tribuni.
Nella Repubblica veneziana il Consiglio grande distribuisce gl’onori e
gl’utili. Occorre alle volte che l’universalità, per isdegno o per qualche
falsa suggestione, non crea i successori ai magistrati della città, ed a quelli
che fuori amministravano lo imperio loro. Il che era disordine grandissimo:
perchè in un tratto, e le terre suddite e la città propria mancavano de’suoi
legittimi giudici; nè si poteva ottenere cosa alcuna, se quella universalità di
quel Consiglio non si satisfaceva, o non s’ingannava. Ed avrebbe ridotta questo
inconveniente quella città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si
fusse provveduto: i quali, presa occasione conveniente, fecero una legge, che
tutti i magistrati che sono o fussino dentro e fuori della città, mai
vacassero, se non quando fussino fatti gli scambi e i successori loro. E cosi
si tolse la comodità a quel Consiglio di potere, con pericolo della repubblica,
fermare le azioni pubbliche. Una repubblica o uno principe debbe mostrare di
fare per liberalità quello a che la necessità lo consiringe. Gl’uomini prudenti
si fanno grado sempre delle cose, in ogni loro azione, ancora che la necessità
gli constringesse a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal
Senato romano, quando ei deliberò che si desse lo stipendio del pubblico agli
uomini che militavano, essendo consueti militare del loro proprio.Ma veggendo
il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e per questo
non potendo nè assediare terre, uè condurre gl’eserciti discosto; e giudicando
essere necessario potere fare 1’uno e 1’altro; delibera che si dessino detti
stipendi; ina lo feciono in modo, che si fecero grado di quello a che la
necessità gli constringeva; e fu tanto accetto alla Plebe questo presente, che
Roma anda «sottosopra pella allegrezza, parendole uno benefizio grande, quale
mai speravano di avere, e quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché
i Tribuni s’ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando come ella era
cosa che aggrava, non alleggeriva, la Plebe, scodo necessario porre i tributi
per pagare questo stipendio; nientedimeno non potevano fare tanto che la Plebe
non lo avesse accetto: il che fu ancora augumentalo dal Senato pel modo che
distribuivano i tributi; perchè i più gravi ed i maggiori furono quelli
chVposono alla Nobiltà, e gli primi che furono pagati. A reprimere la insolenza
d’uno che surga in una repubblica potente, non vi c più securo e meno
scandaloso modo, che preoccuparli quelle vie pelle quali e’viene a quella
potenza. Yedesi per il soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la
Nobiltà colla Plebe pelle dimostrazioni fatte in benefizio suo, sì del
stipendio ordinato, s’ancora del modo del porre i tributi. Nel quale ordine se
la Nobiltà si fosse mantenuta, si sarebbe levato via ogni tumulto in quella
città, e sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che egli avevano colla Plebe,
e, per conseguente, quella autorità. E veramente, non si può in una repubblica,
e massime in quelle che sono corrotte, con miglior modo, meno scandaloso e più
facile, opporsi all’ambizione d’alcuno cittadino, che preoccuparli quelle vie,
pelle quali si vede che esso cammina per arrivare al grado che disegna, li qual
modo se fusse stalo usato contra Cosimo de’Medici, sarebbe stato miglior
partito assai per gli suoi avversari, che cacciarlo da Firenze: perchè, se
quelli cittadini che gareggiavano seco, avessino preso lo stile suo di favorire
il popolo, gli venivano senza tumulto e senza violenza a trarre di mano quelle
arme di che egli si valeva più. SODERINI s’aveva fatto riputazione nella città
di Firenze con questo solo, di favorire l’universale: il che nello universale
gli da riputazione, come amatore della libertà della città. E veramente, a
quelli cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era molto più facile
ed era cosa molto più onesta, meno pericolosa, e meno dannosa pella repubblica,
preoccupargli quelle vie colle quali si fa grande, che volere contrapporsegli,
acciocché colla rovina sua rovinasse tutto il resto della repubblica: perchè,
se gli avessero levate di mano quelle armi colle quali si fa gagliardo (il che
potevano fare facilmente), arebbono potuto in lutti i consigli, e in tutte le
deliberazioni pubbliche, opporsegli senza sospetto, e senza rispetto alcuno. E
se alcuno replica, che se i cittadini che odiavano Piero, feciono errore a non
gli preoccupare le vie colle quali ei si guadagna riputazione nel popolo, Piero
ancora venne a fare errore, a non preoccupare quelle vie pelle quali quelli
suoi avversari lo facevano temere; di’che Piero merita scusa, si perchè gli era
difficile il farlo, sì perchè le non erano oneste a lui: imperocché le vie
colle quali era offeso, ciano il favorire i Medici; con li quali favori essi io
battevano, e alla fine !o rovinorno. Non poteva, pertanto, Piero onestamente
pigliare questa parte, per non potere distruggere con buona fama quella libertà
alla quale egli era stato preposto a guardia: di poi, non potendo questi favori
farsi segreti e ad uno tratto, erano per Piero pericolosissimi; perchè
comunelle ei si fusse scoperto amico de’Medici, sarebbe diventato sospetto ed
odioso al popolo; donde ai nimici suoi nasce molto più comodità di opprimerlo,
che non avevano prima. Debbono, pertanto, gli uomini in ogni partito
considerare i difetti ed i pericoli di quello, e non gli prendere, quando vi
sia più del pericoloso che dell’utile; nonostante che ne fusse stata data
sentenza conforme alla deliberazion loro. Perchè, facendo altrimenti, in questo
caso interverrebbe a quelli come intervenne a Tullio; il quale volendo torre i
favori a Marc’Antonio, gliene accrebbe. Perchè, sondo Marc’Antonio stato
giudicalo inimico del Senato, ed avendo quello grande esercito insieme adunato,
in buona parte, dei soldati che avevano seguitato la parte di Cesare; Tullio,
per torgli questi soldati, confortò il Senato a dare riputazione ad Ottaviano,
e mandarlo con lo esercito e con i Consoli contra a Marc' Antonio: allegando,
che subito che i soldati che seguitavano Marc’Antonio, scntissino il nome
d’Ottaviano nipote di Cesare, e che si fa chiamar Cesare, lascerebbono quello,
c si aceosterebbono a costui; e così restato Marc’Antouio ignudo di favori,
sarebbe facile lo opprimerlo. La qual cosa riuscì tutta al contrario; perchè
Marc’Antonio si guadagnò Ottaviano; e lasciato Tullio ed il Senato, si accostò
a lui. La qual cosa fu al tutto la destruzione della parte degl’Ottimati. Il
che era facile a conietturare: nè si dove credere quel che si persuase Tullio,
ma tener sempre conto di quel nome che con tanto gloria aveva spenti i nimici
suoi, ed acquistatosi il principato in Roma; nè si dovea credere mai potere, o
da suoi eredi o da suoi fautori, avere cosa che fusse conforme al nome libero.
Il popolo molte volte desidera la rovina sua j ingannato da una falsa spezie di
bene: e come le grandi speranze e gagliarde promesse facilmente lo muovono.
Espugnata che fu la città de’Veienti, entrò nel Popolo romano una oppinione,
che fusse cosa utile per la città di Roma, che la metà de’Romani andasse ad
abitare a Veio; argomentando che, per essere quella città ricca di contado,
piena di edifizii e propinqua a Roma, si poteva arricchire la metà de’cittadini
romani, e non turbare per la propinquità del sito nessuna azione civile. La
qual cosa parve al Senato ed a’più savi Romani tanto inutile e tanto dannosa,
che liberamente dicevano, essere piuttosto per patire la morte, che consentire
ad una tale deliberazione. In modo che, venendo questa cosa in disputa,
s’accese tanto la Plebe contra al Senato, che si sarebbe venuto alle armi cd al
sangue, se il Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi e stimati
cittadini; la riverenza dc’quali frenò la Plebe, che la non procede più avanti
colla sua insolenza. Qui si hanno a notare due cose. La prima, che’l popolo
molte volte, ingannato da una falsa immagine di bene, desidera la rovina sua; e
se non gli è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, d’alcuno
in chi esso abbia fede, si pone in le repubbliche infiniti pericoli c danni. E
quando la sorte fu che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta
occorre, sendo stato ingannato per l’addietro o dalle cose o dagli’uomini; si
viene alla rovina di necessità. Ed ALIGHIERI (si veda) dice a questo proposito,
nel discorso suo che fa De Monarchia che il popolo molte volte grida viva la
sua morie j C muoia la sua vita. Da questa incredulità nasce, che qualche volta
in le repubbliche i buoni partiti non si pigliano: come di sopra si disse
de’Veneziani, quando assaltati da tanti inimici non poterono prendere partito
di guadagnarsene alcuno colla restituzione delle cose tolte ad altri (pelle
quali era mosso loro la 'guerra, e fatta la congiura de’principi loro contro),
avanti che la rovina venisse. Pertanto, considerando quello che è facile o
quello che è diffìcile persuadere ad un popolo, si può fare questa distinzione:
o quel che tu hai a persuadere rappresenta in prima fronte guadagno, o perdita;
o veramente pare partito animoso, o vile: e quando nelle cose che si mettono
innanzi ai popolo, si vede guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdila;
e quando e’paia animoso, ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della
repubblica, sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudine: e così fia sempre
difficile persuadere quelli partiti dove apparisce o viltà o perdita, ancoraché
vi fusse nascosto sotto salute e guadagno. Questo che io ho detto, si conferma
con infiniti esempi, romani e forestieri, moderni ed antichi. Perchè da questo
nacque la malvagia opinione che surse in Roma di Fabio Massimo, il quale non
poteva persuadere al Popolo romano, che fusse utile a quella Repubblica
procedere lentamente in quella guerra, e sostenere senza azzuffarsi l’impeto
d’Annibaie; perchè quel Popolo giudica questo partito vile, c non vi vede
dentro quella utilità vi era; nè Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla
loro: c tanto sono i popoli accecati in queste oppinioni gagliarde, che benché
il Popolo romano avesse fatto quello errore di dare autorità al Maestro
de’cavalli di Fabio di potersi azzuffare, ancora che Fabio non volesse; e che
per tale autorità il campo romano fusse per esser rotto, se Fabio colla sua
prudenza non vi rimedia; non gli basta questa esperienza, che fa di poi consolo
VARRONE (si veda), non per altri suoi meriti che per avere, per tutte le piazze
e tutti i luoghi pubblici di Roma, promesso di rompere Annibaie, qualunque
volta gliene fusse data autorità. Di che ne nacque la zuffa e rotta di Canne, e
presso che la rovina di Roma. Io voglio addurre a questo proposito ancora uno
altro essempio romano. Era stato Annibaie in Italia otto o dieci anni, aveva
ripieno di occhione de’Romani tutta questa provincia, quando venne in Senato
Marco Centenio Penula, uomo vilissimo (nondimanco aveva avuto qualche grado
nella milizia), ed offersegli, che se gli davano autorità di potere fare
esercito d’uomini volutitari in qualunque luogo volesse in Italia, ei darebbe
loro, in brevissimo tempo, preso o morto Annibaie. Al Senato parve la domanda
di costui temeraria; nondimeno ei pensando che s’ella se gli negasse, e nel
popolo si fusse di poi sapula la sua chiesta, che non ne nascesse qualche
tumulto, invidia e mal grado contro all’ordine senatorio, gliene concessono:
volendo più tosto mettere a pericolo tutti coloro che lo seguitassino, che fare
surgere nuovi sdegni nel Popolo; sappiendo quanto simile partito fusse per
essere accetto, e quanto fusse difficile il dissuaderlo. Anda, adunque, costui
con una moltitudine inordinata ed incomposita a trovare Annibaie; e non gli fu
prima giunto all’incontro, che fu con tutti quelli che lo seguitavano rotto e
morto. In Grecia, nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo gravissimo
e prudentissimo, persuadere a quel popolo, che non fusse bene andare ad
assaltare Sicilia: talché, presa quella deliberazione contra alla voglia
de’savi, ne segue al tutto la rovina d’Atene. Scipione quando fu fatto consolo,
e che desidera la provincia d’Affrica, promettendo al tutto la rovina di
Cartagine; a che non s’accordando il Senato pella sentenza di Fabio Massimo,
minaccia di proporla nel Popolo, come quello clic conosce benissimo quanto
simili deliberazioni piaccino a’popoli. Potrebbesi a questo proposito dare
esempi della nostra città: come fu quando messere Ercole Bentivogli,
governadore delle genti fiorentine, insieme con Giacomini, poiché ebbono rotto
llartolommeo d’Alviano a San Vincenti, andano a campo a Pisa; la qual impresa
fu deliberata dal popolo in su le promesse gagliarde di messcr Ercole, ancora
che molti savi cittadini la biasimassero: nondimeno non vi ebbero rimedio,
spinti da quella universale volutila, la qual era fondata in su le promesse
gagliarde del governadore. Dico, adunque, come non è la più facile via a fare
rovinare una repubblica dove il popolo abbia autorità, che metterla' in imprese
gagliarde: perchè, dove il popolo sia d’alcuno momento, sempre fieno accettale;
nè vi arà, chi sarà d’altra oppinione, alcuno rimedio. Ma se di questo nasce la
rovina della città, ne nasce ancora, e più spesso, la rovina particolare
de’cittadini che sono preposti a simili imprese: perchè, avendosi il popolo
presupposto la vittoria, eomee’vienc la perdita, non ne accusa nè la fortuna,
nè la impotenza di chi ha governato, ma la tristizia e l’ignoranza sua; e
quello il più delle volte o ammazza, o imprigiona, o confina: come intervenne a
infiniti capitani Cartaginesi, ed a molti Ateniesi. Nè giova loro alcuna
vittoria che pello addietro avessino avuta, perchè tutto la presente perdita
cancella: come intervenne a Giacomini nostro, il quale non avendo espugnata
Pisa, come il popolo aveva presupposto ed egli promesso, venne in tanta
disgrazia popolare, che non ostante infinite sue buone opere passate, visse più
per umanità di coloro che n’avevano autorità, che per alcun’altra cagione che
nel popolo lo difendesse. Quanta autorità abbia uno uomo grande a frenare una
moltitudine concitata. Il secondo notabile sopra il testo nel superiore
capitolo allegato, è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una moltitudine concitata,
quanto è la riverenza di qualche uomo grave e d’autorità, che se le faccia
incontro j nè senza cagione dice VIRGILIO (si veda): “Tutn vietate graverà ac
meritis si forte virum Conspexere, sileni, arrectisque aur^®n^ci Per tanto,
quello che è proposto a uno esercito, o quello che si trova in una città, dove
nasce tumulto, debbe rappresentarsi in su quello con maggior grazia e piu
onorevolmente che può, mettendosi intorno l’insegne di quel grado che tiene,
per farsi più reverendo. Era, pochi anni sono, Firenze diviso in due fazioni,
Fratesche ed Arrabbiate, che cosi si chiamano; e venendo ali’arme, ed essendo
superati i Frateschi, intra i quali era Soderini, assai in quelli tempi
riputato cittadino; cd andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per
saccheggiarla; suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si
trova a sorte in casa: il quale, subito sentito il romore e veduta la turba,
messosi i più onorevoli panni indosso, e di sopra il rocchetto episcopale, si
fa incontro a quelli armati, e colla persona e COLLA PAROLA GLI FERMA; la qual
cosa fu per tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo,
adunque, come e’non è il più fermo nè il più necessario rimedio a frenare una
moltitudine concitata che la presenza d’uno uomo che per presenza paia e sia
reverendo. Vedesi, adunque, per tornare al preallegato testo, con quanta
ostinazione la Plebe romana accetta quel partito d’andare a Yeio, perchè Io
giudica utile, nè vi conosce sotto il danno vi era ? e come nascendone assai
tumulti, ne sarebbero nati scandali, se il Senato con uomini gravi e pieni di
riverenza non avesse frenato il loro furore. Quanto facilmente si conduellino
le cose in quella città dove la moltitudine non è corrotta: e che dove è e
qualità, non si può fare principato / e dove la non èj non si può far
repubblica. Ancora clie di sopra si sia discorso assai quello sia da temere o
sperare delle città corrotte; nondimeno non mi pare fuori di proposito
considerare una deliberazione del Senato circa il voto ehe Cammillo fa di dare
la decima parte ad Apolline della preda de’Veienti: la qual preda sendo venuta
nelle mani della Plebe romana, nè se ne potendo altrimenti riveder conto, fa il
Senato uno editto, che ciascuno dove rappresentare al pubblico la decima parte
di quello gl’aveva predalo. E benché tale deliberazione non ha luogo, avendo di
poi il Senato preso altro modo, c per altra via satisfatto ad Àpolliue in
satisfazione della Plebe; nondimeno si vede per tali deliberazioni quanto quel
Senato confidasse nella bontà di quella, e come e’giudica che nessuno fusse per
non rappresentare appunto tutto quello che per tale editto gl’era comandato. E
dall’altra parte si vede, come la Plebe non pensa di fraudare in alcuna parte
l’editto con il dare meno che non dove, ma di liberarsi da quello con il
mostrarne aperte indignazioni. Questo essempio, con molti altri che di sopra si
sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel Popolo, e
quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non
si può sperare nulla di bene; come non si può sperare nelle provincic che in
questi tempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra tutte le altre; ed
ancora la Francia di tale corruzione ritengono parte. E se in quelle provincie
non si vede tanti disordini quanti nascono in Italia ogni di, deriva non tanto
dalla bontà de'popoli, la quale ìh buona parte è mancata; quanto dallo avere
uno re che gli mantiene uniti, non solamente pella virtù sua ma pell’ordine di
quelli regni che ancora non sono guasti. Vedesi bene nella provincia della
Magna, questa bontà e questa religione ancora in quelli popoli esser grande; la
qual fa che molte repubbliche vi vivono libere, ed in modo osservano le loro
leggi, che nessuno di fuori nè di dentro ardisce occuparle. E che sia vero che
in loro regni buona parte di quella antica bontà, io nc voglio dare uno
essempio simile a questo detto di sopra del Senato e della Plebe romana. Usano
quelle repubbliche, quando gli occorre loro bisogno d’avere a spendere alcuna quantità
di danari per conto pubblico, che quelli magistrati o consigli che ne hanno
autorità, ponghino a tutti gli abitanti della città uno per cento, o dua, di
quello che ciascuno ha di valsente. E fatta tale deliberazione secondo 1’ordine
della terra, si rappresenta ciascuno dinanzi agli esecutori di tale imposta; e,
preso prima il giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa a
ciò deputata quello clic secondo la conscienza sua gli pare dover pagare: del
qual pagamento non è testimonio alcuno, se non quello che paga. Donde si può
conictturare quanta bontà e quanta religione sia ancora in quelli uomini. E
debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma: perchè, quando la non si
pagasse, non pitterebbe la imposizione quella quantità che loro disegnassero
secondo le antiche che fussino usitate riscuotersi; e non gitlando, si
conoscerebbe la fraude; e conoscendosi, arebbon preso altro modo che questo. La
quale bontà è tanto più d’ammirare in questi tempi quanto ella è più rara: anzi
si vede essere rimasa sola in quella provincia. Il che nasce da due cose: Y
una, non avere avuti commerzi grandi co’vicini; perchè nè quelli sono ili a
casa loro, nè essi sono iti a casa altrui; perchè sono stati eontenli di quelli
beni, e vivere di quelli cibi, vestire di quelle lane che dà il paese: d’onde è
stata tolta via LA CAGIONE D’OGNI CONVERSAZIONE, ed il principio d’ogni
corruttela; perchè non hanno possuto pigliare i costumi nè franciosi nè
spagnuoli nè italiani, le quali nazioni tutte insieme sono la corruttela del
mondo. L’altra cagione è, che quelle repubbliche dove s’è mantenuto il vivere
politico ed incorrotto, non sopportano che alcuno loro cittadino nè sia nè viva
ad uso di gentiluomo: anzi mantengono infra loro una pari equalità, ed a quelli
signori e gentiluomini che sono in quella provincia, sono inimicissimi; c se
per caso alcuni pervengono loro nelle mani, come priacipi di corruttela e
cagione d’ogni scandalo, gl’ammazzano. E' per chiarire questo nome di
gentiluomini quale e’sia dico che gentiluomini sono chiamali quelli che ociosi
vivono de’proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna
cura o di coltivare, o di alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali
sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia; ma più perniciosi sono
quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella, ed hanno sudditi
che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti d’uomini ne sono pieni il regno di
Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie
non è mai stata alcuna repubblica, nè alcuno vivere politico; perchè tali
generazioni d’uomini sono al tutto nemici d’ogni civiltà. Ed a volere in
provincie fatte in simil modo introdurre una repubblica, non e possibile: ma a
volerle ri-ordinare, s’alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi
un regno. La ragione è questa, che dove è tanto la materia corrotta che le
leggi non bastino a frenarla, vi bisogna ordinare insieme con quelle maggior
forza; la quale è una mano regia, che colla potenza assoluta ed eccessiva pone
freno alla eccessiva ambizione e corruttela de’potenti. Verificasi questa
ragione coll’esempio di Toscana: dove si vede in poco spazio di terreno stale
longamente tre repubbliche, Firenze, Siena e Lucca; e le altre città di quella
provincia essere in modo serve, che, coll’animo e coll’ordine, si vede o che le
mantengono, o che le vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per non
essere in quella provincia alcun signore di castella, c nessuno o pochissimi
gentiluomini; ma esservi tanta equalità, che facilmente da uno uomo prudente, e
che delle antiche civilità avesse cognizione, vi si introdurrebbe un viver
civile. Ma lo infortunio suo è stato tanto grande, che infino a questi tempi
non ha sortito alcuno uomo che lo abbia potuto o saputo fare. Trassi adunque di
questo discorso questa conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai
gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non gli spegne tutti: e
che colui che dove è assai EQUALITA vuole fare uno regno o uno principato, non
lo potrà mai fare se non trae di quella equalità molti d’animo ambizioso ed
inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome, donando loro
castella e possessioni, c dando loro favore di sustanze e d’uomini; acciocché,
posto in mezzo di loro, mediante quelli mantenga la sua potenza; cd essi,
mediante quello, la loro ambizione; e gli altri siano constretti n sopportare
quel giogo che la forza, e non altro mai, può far sopportare loro. Ed essendo
per questa via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi
gl’uomini ciascuno nell’ordine loro. E perchè il fare d’una provincia atta ad
essere regno una repubblica, c d’una atta ad essere repubblica farne un regno,
è materia da uno uomo che per cervello e per autorità sia raro; sono stati
molti che Io hanno voluto fare, e pochi che lo abbino saputo condurre. Perchè
la grandezza della cosa parte sbigottisce gl’uomini, parte in modo
gli’mpedisce, che ne’primi principii mancano. Credo che a questa mia oppiatone,
che dove sono gentiluomini non si possa ordinare repubblica, pare contraria la
esperienza della repubblica veneziana, nella quale non usano avere alcuno grado
se non coloro che sono gentiluomini. A che si risponde, come questo essempio
non ci fa alcuna oppugnazione, perchè i gentiluomini in quella repubblica sono
piu in nome che in fatto; perchè loro non hanno grandi entrate di possessioni,
sendo le loro ricchezze grandi fondate in sulla MERCANZIA e cose mobili; e di
più, nessuno di loro tiene castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gl’uomini:
ma quel nome di gentiluomo in loro è nome di degnila e di riputazione, senza
essere fondato sopra alcuna di quelle cose che fa che nell’altre città si
chiamano i gentiluomini. E come l’altre repubbliche hanno tutte le loro divisioni
sotto vari nomi, così Vinegia si divide in gentiluomini e popolari; e vogliono
che quelli abbino, ovvero possino avere, tutti gl’onori; quelli altri ne sieno
al tutto esclusi. Il che non fa disordine in quella terra. Gonstituisca,
adunque, una repubblica colui dove è, o è fatta una grande egualità; ed
all’incontro ordini un principato dove è grande inequalità: altrimenti fa cosa
senza propprzione, e poco durabile. Innanzi che segnino i grandi accidenti in
una città o in una provincia, vengono segni che gli pròìioslicanOj o uomini che
gli predicono. Donde e’si nasca io non so, ina si vede pei’gli antichi e per
gli moderni essempi, che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in
una provincia, che non sia stato, o d’indovini o da revelazioni o da prodigi, o
d’altri segni celesti, predetto. E per non mi discostare da casa nei provare
questo, saciascuno quanto da Savonarola fusse predetta innanzi la venuta del re
Carlo di Francia in Italia; e come, olirà di questo, per tutta Toscana si disse
esser sentite in aria e vedute genti d’arme, sopra Arezzo, che s’azzuffavano
insieme. Sa ciascuno olirà di questo, come avanti la morte di Lorenzo de’Medici
vecchio fu percosso il duomo nella sua più alta parte con una saetta celeste,
con l'ovina grandissima di quello edilìzio. Sa ciascuno ancora, come poco
innanzi che Soderini, quale era stato fatto gonfaloniere a vita dal popolo
fiorentino, fosse cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente
d’un fulgore percosso. Potrcbbesi, olirà di questo, addurre più essempi, i
quali per fuggire il tedio lascerò. Narrerò solo quello che L., innanzi alla
venuta de’Franciosi in Roma: cioè, come uno Marco Cedizio plebeio, riferì al
senato avere udito di mezza notte, passando pella Via Nuova, una voce maggiore
ch’umana, la quale l’ammoniva che riferisse ai magistrati, come i Franciosi
venivano a Roma. La cagione di questo credo sia d’essere discorsa ed
interpretata d’uomo che abbia notizia delle cose naturali e soprannaturali: il
che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo aere, come vuole
alcuno filosofo, pieno d’intelligenze; le quali per naturale virtù prevedendo
le cose future, ed avendo compassione agl’uomini, acciò si possino preparare
alle difese, gl’avvertiscono con simili segni. Pure, comunelle si sia, si vede
cosi essere la verità; e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose
istraordinarie e nuove alle provincie. La plebe insieme è gagliarda; di per se
è debole. Erano molti Romani, scudo seguita pella passata de’Franciosi la
rovina della lor patria, andati ad abitare a Yeio, contea alla constituzione ed
ordine del senato: il quale, per rimediare a questo disordine, comanda per i
suoi editti pubblici che ciascuno, infra certo tempo e sotto certe pene, torna
ad abitare a Roma. De’quali editti, da prima per coloro contea a chi
e’venivano, si fu fatto beffe; di poi, quando s’appressò il tempo
dell’ubbidire, tutti ubbidirono. E L. dice queste parole: Ex fcrocibus
universtSj singtili metti suo obedienfes fuere. E veramente, non si può mostrare
meglio la natura d’una moltitudine in questa parte che si dimostra in questo
testo. Perchè la moltitudine è audace nel parlare molte volte contra alle
deliberazioni del loro principe; di poi, come veggono la pena in viso, non si
fidando l’uno dell’altro, corrono ad ubbidire. Talché si vede certo, che di
quel che si dica uno popolo circa la mala o buona disposizion sua, si debbe
tenere non gran conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo mantenere,
s’egli è ben disposto; s’egli è mal disposto, da poter provvedere che non
t’offenda. Questo s’intende per quelle male disposizioni che hanno i popoli,
nate da qualunque altra cagione, che o per avere perduto la libertà, o il loro
principe stato amato da loro, e che ancora sia vivo; perchè le male disposizioni
che nascono da queste cagioni, sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno
bisogno di grandi rimedi a frenarle:1'altre sue indisposizioni fieno facili,
quando ci non abbia capi a chi rifuggire. Perchè non ci è cosa, dall’un canto,
più formidabile ch’una moltitudine sciolta e senza capo; e, dall’altra parte,
non è cosa più debole: perchè, quantunque ella abbi 1’armi in mano, fia facile
ridurla, purché tu abbi ridotto da potere fuggire il primo impeto; perchè
quando gl’animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede d’aversi a tornare
a casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi, e pensare alla salute loro,
o con fuggirsi o coll’accordarsi. Però una moltitudine così concitata, volendo
fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra sè medesima un capo che la
corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fa la Plebe romana,
quando dopo la morte di Virginia si partì da Roma, e per salvarsi feciono infra
loro venti Tribuni: e non facendo questo, interviene loro scmj)re quel che dice
L. nelle soprascritte parole, che tutti insieme sono gagliardi; e quando
ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole. La
moltitudine è più savia e più costante che un principe. Nessuna cosa essere più
vana e più inconstante che la moltitudine: cosi L. nostro, come tutti gli altri
filosofi affermano. Perchè spesso occorre, nel narrare l’azioni degl’uomini,
vedere la moltitudine avere condannato alcuno a morte, e quel medesimo di poi
pianto e sommamente desiderato: come si vede avere fatto il Popolo romano di
Manlio Capitolino, il quale avendo CONDENNATO A MORTE, sommamente di poi
desidera. E le parole dell’autore son queste: Populum brevi, posteaquam ab co
periculum nullum eral, desiderium rjus tenuit. Ed altrove, quando mostra
gl’accidenti che nacquero in Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di
Ierone, dice: Hcec natura mulliludinis est : aut umiliter servii, aut superbe
domi natur. Io non so se io mi prenderò una provincia dura, e piena di tanta
difficoltà, che mi convenga o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico;
volendo difendere una cosa, la quale da tutti gli scrittori è accusata. Ma,
comunehc si sia, io non giudico nè giudicherò mai essere difetto difendere
alcune oppinioni colle ragioni, senza volervi usare o la autorità o la forza.
Dico adunque, come di quello difetto di che accusano i filosofi la moltitudine,
se ne possono accusare tutti gl’uomini particolarmente, e massime i principi;
perchè ciascuno che non sia regolato dalle leggi, farebbe quelli medesimi errori
che la moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perchè e’sono
c sono stati assai principi, e de’buoni e de’savi ne sono stati pochi; io dico
de’principi che hanno potuto rompere quel freno che gli può correggere; intra i
quali non sono quegli re che nascevano in Egitto, quando in quella antichissima
antichità si governa quella provincia colle leggi; nè quelli che nascevano in
Sparta; nè quelli che a’nostri tempi nascono in Francia: il quale regno è
moderato più dalle leggi, che alcuno altro regno di che ne’nostri tempi si abbi
notizia. E questi re che nascono sotto tali constituzioni, non sono da mettere
in quel numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno uomo per sè,
e vedere se egli è simile alla moltitudine: perchè a rincontro loro si debbe
porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi come sono loro; e si
trova in lei essere quella medesima bontà che noi veggiamo essere in quelli, e
vedrassi quella nè superbamente dominare nè umilmente servire: come era il Popolo
romano, il quale mentre durò la Repubblica incorrotta, non servì mai umilmente
nè mai dominò superbamente; anzi con li suoi ordini e magistrati tenne il grado
suo onorevolmente. E quando era necessario insurgerc contra a uno potente, lo
fa; come si vede in Manlio, ne’Dieci, ed in altri che cercorno opprimerla: e
quando era necessario ubbidire a’Dittatori ed a’Consoli per la salute pubblica,
lo fa. E se il Popolo romano desidera Manlio Capitolino morto, non è
meraviglia; perchè e’desidera le sue virtù, le quali erano state tali, che la
memoria d’esse reca compassione a ciascuno; cd arebbono avuto forza di fare
quel medesimo effetto in un principe, perchè 1’è sentenza di tutti i filoofi,
come la virtù si lauda e s’ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, infra
tanto desiderio, fusse risuscitato, il Popolo di Roma arebbe dato di lui il
medesimo giudizio, come ei fa, tratto che l’ebbe di prigione, che poco di poi
lo condenna a morte; nonostante die si vegga di principi tenuti savi, i quali
hanno fatto morire qualche persona, e poi sommamente desideratala: come
Alessandro, Clito ed altri suoi amici; ed Erode, Marianne. Ma quello che lo
istorico nostro dice della natura della moltitudine, non dice di quella che è
regolata dalle leggi, come era la romana; ma della sciolta, come era la
siracusana: la quale fa quelli errori che fanno gl’uomini infuriati e sciolti,
come fa Alessandro magno, ed Erode, ne’casi detti. Però non è più d’incolpare
la natura della moltitudine che de’principi, perchè tutti egualmente errano,
quando tutti senza rispetto possono errare. Di che, oltre a quello che ho
detto, ci sono assai essempi, ed intra gl’imperadori romani, ed intra gli altri
tiranni e, principi; dove si vede tanta incostanza e tanta variazione di vita,
quanta mai non si trova in alcuna moltitudine. Conchiudo, adunque, contea olla
comune oppimene, la qual dice come i popoli, quando sono principi, sono vari,
mutabili, ingrati; affermando che in loro non sono altrimente questi peccati
che si siano ne’principi particolari. Ed accusando alcuni i popoli ed i
principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s’inganna;
perchè un popolo che comanda e sia bene ordinato, sarà stabile, prudente e
grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe, eziandio
stimato savio: e dall’altra parte, un priucipe sciolto dalle leggi, sarà
ingrato, vario ed imprudente più che uno popolo. E che la variazione del
procedere loro nasce non dalla natura diversa, perchè in tutti è ad un modo: e
se vi è vantaggio di bene, è nei popolo; ma dallo avere più o meno rispetto
alle leggi, dentro alle quali l’uno e l’altro vive. E chi considerrà il Popolo
romano, lo vede essere stato per quattrocento anni iuimico del nome regio, ed
amatore della gloria e del bene comune della sua patria: vedrà tanti essempi
usati da lui, clic testiiuoniauo 1’una cosa e l’altra. £ se alcuno m’allega
l’ingratitudine eh7 egli usa centra a Scipione, rispondo quello die di sopra
lungamente si discorse in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno
iugraii de’principi. Ma quanto alla prudenza ed alla stabilità, dico, come uno
popolo è più prudente, più stabile e di miglior giudicio che un principe. E uon
senza cagione si assomiglia la voce d7 un popolo a quella di Dio; perchè si
vede una oppinioue universale fare effetti meravigliosi ne’pronostichi suoi:
talché pare che per occulta virtù e’prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto
al giudicare le cose, si vede rarissime volte, quando egli ode due concionanti
che tendino in diverse parti, quando e’sono di egual virtù, che non pigli’ia
oppinione migliore, e che non sia capace di quella verità ch’egli ode £ se
nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra;
molte volte erra ancora uri principe nelle sue proprie passioni, le quali sono
molle più che quelle de’popoli. Yedesi ancora, nelle sue elezioni ai
magistrati, fare di lunga migliore elezione che uno principe; nè mai si
persuaderà ad un popolo, che sia bene tirare alla degnila uno uomo infame e di
corrotti costumi: il che facilmente e per mille vie si persuade ad un principe.
Yedesi un popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli stare
in quella oppinione: il che non si vede in uno principe. E dell’una e
dell’altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il Popolo romano:
il quale, in tante centinaia d’anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni,
non fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe tanto in
odio il nome regio che nessuno obbligo di alcuno suo cittadino che tenta quel
nome, potette fargli fuggire le debite pene. Yedesi, oltra di questo, le città
dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e
molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto un principe ! come fa
Roma dopo la cacciata de’re, ed Atene da poi che la si liberò da Pisistrato. Il
che non può nascere d’altro, se non che sono migliori governi quelli de’popoli
che quelli de’principi. Nè voglio che s’opponga a questa mia oppinione tutto
quello che lo istorico nostro ne dice nel preallcgato testo, ed in qualunque
altro; perchè, se si discorreranno tutti i disordini de’popoli, tutti i
disordini de’principi, tutte le glorie de’popoli, tutte quelle de’principi, si
vede il popolo di bontà e di gloria essere di lunga supcriore. E se i principi
sono superiori a’popoli nell’ordinare leggi, formare vite civili, ordinare
statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose
ordinate, eh’egli aggiungono senza dubbio alla gloria di coloro che l’ordinano.
Ed in somma, per epilegare questa materia, dico come hanno durato assai gli
stati de’principi, hanno durato assai gli stati delle repubbliche, el’uno e
l’altro ha avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi: perchè un principe che
può fare ciò che vuole, è pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole, non è
savio. Se, adunque, si ragionerà d'un principe obbligato alle leggi, ed’un
popolo incatenalo da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se
si ragionerà dell’uno e dell’altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che
nei principe; e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Perchè ad un popolo
licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono esser parlato, e facilmente
può essere ridotto nella via buona: ad un principe cattivo non è alcuno che
possa parlare, nè vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può far coniettura
della importanza della malattia dell’uno e dell’altro: chè se a curare la
malattia del popolo bastano le parole, ed a quella del principe bisogna il
ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi, che dove bisogna maggior cura,
siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si temono le pazzie
che quello fa, nè si ha paura del mal presente, ma di quello che ne può
nascere, potendo nascere infra tanta confusione un tiranno. Ma ne’principi
tristi interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel futuro si
spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa far surgere una
libertà. Sì che vedete la differenza dell’uno e dell’altro, la quale è quanto
dalle cose che sono, a quelle che hanno ad essere. Le crudeltà della
moltitudine sono contra a chi ei temono clic occupi il ben comune: quelle d’un
principe sono contro a chi ci temono che occupi il bene proprio. Ma la oppiti
ione contro ai popoli nasce perchè de’popoli ciascuno dice male senza paura e
liberamente, ancora mentre che regnano: de’principi si parla sempre con mille
paure e mille rispetti. Nè mi pare fuor di proposito, poiché questa materia mi
vi tira, disputare di quali confederazioni altri si possa più fidare, o di
quelle falle con una repubblica, o di quelle fatte con ui> principe. Di
quali confederazioni, o lega, altri si può più fidare; o di quella fatta con
una repubblica, o di quella fatta con uno principe. Perchè ciascuno dì occorre
che P uno principe con l’altro, o V una repubblica con l’altra, fanno lega ed
amicizia insieme; ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo
intra una repubblica ed uno principe mi pare d’esaminare qual fede è più
stabile, e di quale si debba tenere più conto, o di quella d’una repubblica, o
di quella d’uno principe, lo, esaminando tutto, credo che in molti casi e’siano
simili.ed in alcuni vi sia qualche disformità. Credo per tanto, che gli accordi
fatti per forza non ti saranno nè da un principe nè da una repubblica
osservali; credo che quando la paura dello stato venga, l'uno e l'altro, per
non lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà ingratiludine. Demetrio, quel
che fu chiamato espugnatore delle cittadi, fa agl’Ateniesi infiniti benefici!:
occorse di poi, che sendo rotto da’suoi inimici, e rifuggendosi in Atene, come
in città amica ed a lui obbligata, non fu ricevuto da quella: il che gli dolse
assai più che non aveva fatto la perdita delle genti e dell’esercito suo.
Pompeio, rotto che fu da Cesare in Tessaglia, si rifuggia in Egitto a Tolomeo,
il quale era pello addietro da lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto.
Le quali cose si vede che ebbero le medesime cagioni; nondimeno fu più umanità
usata e meno ingiuria dalla repubblica che dal principe. Dove è, pertanto, la
paura, si trova in fallo la medesima fede. E se si trova o una repubblica o uno
principe, che per osservarti la fede aspetti di rovinare, può nascere questo
ancora da simili cagioni. E quanto al principe, può molto bene occorrere che
egli sia amico d’un principe potente, che se bene non ha occasione allora di
difenderlo, ei può sperare che col tempo e lo restituisca nel principato suo; o
veramente che, avendolo seguito come partigiano, ei non creda trovare nè fede
nè accordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quelli principi
del reame di Napoli che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle
repubbliche, fu di questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina per
seguire le parti romane; e di questa Firenze, per seguire le parti franciose. E
credo, computata ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si
trova qualche stabilità più nelle repubbliche, che ne’principi. Perche, sebbene
le repubbliche avessino quel medesimo animo e quella medesima voglia che un
principe, lo avere il moto loro tardo, fa che le porranno sempre più a
risolversi che il principe, e per questo porranno più a rompere la fede di lui.
Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le repubbliche sono di lunga
più osservanti degli accordi che i principi. E potrebbesi addurre essempi, dove
uno miuinio utile ha fatto rompere la fede ad uno principe, e dove una grande
utilità non ha fatto rompere la fede ad una repubblica: come fu quello partito
che propose Temistocle agl'ateniesi, a’quali nella conclone disse che aveva uno
consiglio da fare alla loro patria grande utilità; ma non lo poteva dire per
non lo scoprire, perchè scoprendolo si toglieva l’occasione del farlo. Onde il
popolo d’Atene elesse Aristide, al quale si comunic la cosa, e secondo dipoi
che paresse a lui se ne deliberasse: al quale Temistode mostrò come I’armata di
tutta Grecia, ancora che stesse sotto la fede loro, era in lato che facilmente
si poteva guadagnare o distruggere; il che fa gl’Ateniesi al tutto arbitri di
quella provincia. Donde Aristide riferì ai popolo, il partito di Temistocle
essere utilissimo, ma disonestissimo: per la qual cosa il popolo al tutto lo
ricusa. II che non arebbe fatto Filippo Macedone, e gl’altri principi che più
utile hanno cerco e più guadagnato col rompere la fede, che con verun altro
modo. Quanto a rompere i patti per qualche cagione d’inosservanza, di questo io
non parlo come di cosa ordinaria; ma parlo dì quelli che si rompono per cagioni
istrasordinarie: dove io credo, per le cose (lette, che il popolo facci minori
errori che il principe, e per questo si possa Fidar più di lui che del
principe. Come il consolato e qualungue altro magistrato in Roma si (lava senza
rispetto di età. E’si vede pell’ordine della istoria, come la Repubblica
romana, poiché’i consolato venne nella Plebe, concesse quello ai suoi cittadini
senza rispetto d’età o di sangue; ancora cbe il rispetto dell’età mai non fusse
in Roma, ma sempre s’anda a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio cbe la
fusse. Il che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo
nell! Ventitré anni: e Valerio detto, parlando ai suoi soldati, disse come il
consolato crai prcetnium virfulisj, non sanguinis. La qual cosa se fu bene
considerata, o no, sarebbe da disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso
questo per necessità; e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in ogni città
che volesse fare gli effetti che fece Roma, come altra volta si è detto: per i!
chè e’non si può dare agl’uomini disagio senza premio, nè si può torre la
SPERANZA di conseguire il premio senza pericolo. E però a buona ora convenne
che la Plebe avesse speranza di avere il consolato; e di questa SPERANZA si
nutrì un tempo senza averlo. Di poi non bastò la speranza, che e’convenne che si
venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe ad alcuna cosa
gloriosa, la può trattare a suo modo, come altrove si disputa: ma quella elle
vuole fare quel che fe Roma, non ha a fare questa distinzione. E dato che così
sia, quella del tempo non ha replica; anzi è necessaria: perchè nello eleggere
uno giovane in uno grado che abbi bisogno d’una prudenza di vecchio, conviene,
avendovelo ad eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire
qualche sua nobilissima azione. E quando un giovane è di tanta virtù, che si
sia fatto in qualche cosa notabile conoscere; sarebbe cosa dannosissima che la
città non se «e potesse valere allora, e che la avesse ad aspettare che fusse
invecchiato con lui quel vigore deir animo, quella prontezza, della quale in
quella età la patria sua si poteva valere: come si valse Roma di Valerio
Corvino, di Scipione, di Pompeio e di molti altri che trionfarono giovanissimi.
Laudano sempre gli uomini, ma noti sempre ragionevolmente, gli antichi tempi, e
gli presenti accusano: ed in modo sono delle cose passate partigiani, che non
solamente celebrano quelle etadi che da loro sono state, pella memoria che ne
hanno lasciata gli scrittori, conosciute; ma quelle ancora che, sendo già
vecchi, si ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro
oppinionc sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado varie essere le
cagioni he a questo inganno gli conducono. E la prima credo sia, che delle cose
antiche non s’intenda al tutto lu verità; e che di quelle il più delle vollesi
nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia; e quelle altre
che possono partorire loro gloria, si remlino magnifiche ed amplissime. Però
che i più dei filosofi in modo alla fortuna de’vincitori ubbidiscono, che per fare
le loro vittorie gloriose, non solamente accrescono quello che da loro è
virtuosamente operato, ma ancora le azioni de’nimici in modo illustrano, che
qualunque nasce di poi in qualunque delle due provincie, o nella vittoriosa o
nella vinta, ha cagione di maravigliarsi di quelli uomini e di quelli tempi, ed
è forzato sommamente laudargli ed amargli. Olirà di questo, odiando gli uomini
le cose o per timore o per invidia, vengono ad essere spente due potentissime
cagioni dell’odio nelle cose passate, non ti potendo quelle offendere, e non ti
dando cagione d’invidiarle. Ma al contrario interviene di quelle cose che si
maneggiano e veggono; le quali, pei l’intera cognizione di esse, non t’essendo
in alcuna parte nascoste e conoscendo in quelle insieme con il bene molte altre
cose che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle alle antiche molto inferiori,
ancora che in verità le presenti molto più di quelle di gloria e di fama
meritassero: ragionando non delie cose pertinenti alle arti, le quali hanno
tanta chiarezza in sè, che i tempi possono torre o dar loro poco più gloria che
per loro medesime si meritino; ma parlando di quelle pertinenti alla vita e
costumi degli uomini, delle quali non se ne veggono sì chiari testimoni.
Replico, pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare
soprascritta; ma non essere già sempre vero che si erri nel farlo. Perchè
qualche volta è necessario che giudichino la verità; perchè essendo le cose
umane sempre in molo, o le salgono, o lescendono. E vedesi una città o una
provincia essere ordinata al vivere politico da qualche uomo eccellente; ed, un
tempo, pella virtù di quello ordinatore, andare sempre in augumento verso il
meglio. Chi nasce allora in tale stato, ed ei laudi più li antichi tempi che i
moderni, s’inganna; ed è ausato il suo inganno da quelle cose che di sopra si
sono dette. Ma coloro che nascono di poi, in quella città o provincia, che gli
è venuto il tempo che la scende verso la parte più rea, allora non s’ingannano.
E pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stalo
ad un medesimo modo, ed in quello esser stato tanto di buono quanto di tristo;
ma variare questo tristo e questo buono di provincia in provincia: come si vede
per quello si ha notizia di quelli regni antichi che variavano dall’uno
all’altro pella variazione de’costumi; ma il mondo resta quel medesimo. Solo vi
era questa differenza, che dove quello aveva prima collocata la sua virtù in
Assiria, la colloca in Media, di poi in Persia, tanto che la ne venne in Italia
ed a Roma: e se dopo l’imperio romano non è seguito imperio che sia durato, nè
dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme; si vede nondimeno essere
sparsa in di molte nazioni dove si vive virtuosamente; come era il regno
de’Franchi, il regno de’Turchi, quel del Soldano; ed oggi i popoli della Magna;
e prima quella setta Saracina che fa tante gran cose, ed occupa tanto mondo,
poiché la distrusse l’imperio romano orientale. In tutte queste provincie,
adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste sètte è stata quella
virtù, ed è ancora in alcuna parte d’esse, che si desidera, e che con vera
laude si lauda. E chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati più che i
presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce in Italia ed in Grecia, e non sia
divenuto o in Italia oltramontano o in Grecia turco, ha ragione di biasimare i
tempi suoi, e laudare gli altri: perchè in quelli vi sono assai cose, che gli
fanno meravigliosi; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi d’ogni
estrema miseria, infamia e vituperio: dove non è osservanza di religione, non
di leggi, non di milizia; ma sono maculati d’ogni ragione bruttura. E tanto
sono questi vizi più detestabili quanto ei sono più in coloro che seggono prò
tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati. Ha tornando al
ragionamento nostro, dico che se il giudicio degl’uomini è corrotto in
giudicare quale sia migliore, o il secolo presente o l’antico, in quelle cose
dove pell’antichità ei non ha possuto avere perfetta cognizione come egli ha
de’suoi tempi; non doverrebbe corrompersi ne’vecchi nel giudicare i lempi della
gioventù e vecchiezza loro, avendo quelli e questi egualmente conosciuti e
visti. La qual cosa sarebbe vera, se gl’uomini per tutti i tempi della lor vita
l'ussero del medesimo giudizio, ed avessero quelli medesimi appetiti: ma
variando quelli, ancora che i tempi nou variino, non possono parere agl’uomini
quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre considerazioni
nella vecchiezza, che nella gioventù. Perchè, mancando gl’uomini quando li
invecchiano di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza; è necessario che
quelle cose che in gioventù pareno loro sopportabili e buone, ineschino poi
invecchiando insopportabili e cattive; e dove quelli ne doverrebbono accusare
il giudicio loro, n’accusano i tempi. Sendo ultra di questo, gl’appetiti umani
insaziabili, perchè hanno dalla natura di potere e voler desiderare ogni cosa,
e dalla fortuna di potere conseguirne poche; ne risulta continuamente una mala
contentezza nelle menti umane, ed un fastidio delle cose che si posseggono: il
che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri;
ancora che a fare questo non fussino mossi d’alcuna ragionevole cagione. Non
so, adunque, se io meriterò d’essere numerato tra quelli che si ingannano, se
in questi mia discorsi io lauderò troppo i tempi degli antichi Romani, e
biasimerò i nostri. E veramente, se la virtù che allora regna, ed il vizio che
ora regna, non fussino più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto,
dubitando non incorrere in quello inganno di che io accuso alcuni. Ma essendo
la cosa si manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente
quello che intenderò di quelli e di questi tempi; acciocché gl’animi de’giovani
che questi mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad
imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perchè gl’è
offizio di uomo buono, quel bene che pella malignità de’tempi e della fortuna
tu non hai potuto operare insegnarlo nd altri, acciocché sendone molti capaci,
alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo ne’discorsi
del superior libro parlato delle deliberazioni fatte da’Romani pertinenti al di
dentro della città, in questo parleremo di quelle che’l Popolo romano fa
pertinenti all’augumento dell’imperio suo. Quale fu più cagione dell’imperio
ch’acquistarono i Romani, o la virtùj o la fortuna. Molti hanno avuta
oppinione, intra i quali è Plutarco, gravissimo filosofo, che’1 Popolo romano
nell’acquistare lo imperio e più favorito dalla fortuna che dalla virtù. Ed
intra l’altre ragioni che n’adduce, dice che per confessione di quel popolo si
dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue vittorie, avendo
quello edificati più templi alla fortuna ch’ad alcuna altra divinitai. E pare
che a questa oppinione si accosti L.; perchè rade volte è che facci parlare ad
alcuno Romano, dove ei racconti della virtù, che non v’aggiunga la fortuna. La
qual cosa io non voglio confessare in alcun modo, nè credo ancora si possa
sostenere. Perchè, se non s’è trovato mai repubblica che abbi fatti i progressi
che Roma, è nato che non si è trovata mai repubblica che sia stata ordinata a
potere acquistare come Roma. Perchè la virtù degl’eserciti gli feciono acquistare
I’imperio; e l’ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovato dal suo
primo legislatore, gli fa mantenere l’acquistato. Dicono costoro, che non avere
mai accozzate due potentissime guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e non
virtù del popolo romano; perchè e’non ebbero guerra con i Latini se non quando
egli ebbero non tanto battuti i Sanniti, quanto che la guerra fu da’Romani
fatta in difensione di quelli; non combatterono con i Toscani se prima non
ebbero soggiogati i Latini, ed enervati colle spesse rotte quasi in tutto i
Sanniti: che se due di queste potenze intere si fussero, quando erano fresche,
accozzate insieme, senza dubbio si può facilmente conietturare che ne sarebbe
seguito la rovina della romana Repubblica. Ma, comunelle questa cosa nasce, mai
non intervenne ch’eglino avessino due potentissime guerre in un medesimo tempo:
anzi parve sempre, o nel nascere dell’ una, l’altra si spegnesse; o nel
spegnersi dell’una, l’altra nasce. Il che si può facilmente vedere pell’ordine
delle guerre fatte da loro: perchè, lasciando stare quelle che feciono prima
che Roma fusse presa dai Franciosi, si vede che, mentre che combatterno con
gl’Equi e con i Volsci, mai, mentre questi popoli sono potenti, non si levarono
contro di lor uitre genti. Domi costoro, nasce la guerra contea ai Sanniti; e
benché innanzi che finisse tal guerra i popoli latini si ribellassero
da’Romani, nondimeno quando tale ribellione segui, i Sanniti erano in lega con
Roma, e con il loro esercito aiutorono i Romani domare l’insolenza latina. I
quali domi, risurse la guerra di Sannio. Battute per molte rotte date a’Sanniti
le loro forze, nacque la guerra de’Toscani; la qual composta, si rilevarono di
nuovo i Sanniti pella passata di Pirro in ITALIA. Il quale come fu ribattuto e rimandatoin
Grecia appiccarono la guerra con i Cartaginesi: nè {ìrima fu tal guerra finita
che tutti i Franciosi, e di là e di qua dall’Alpi, congiurarono conti ai
Romani; tanto che intra Popolonia e Pisa, dove è oggi la torre a San Vincenti,
furono con massima strage superati. Finita questa guerra, per ispazio di venti
anni ebbero guerra di non molta importanza; perchè non eombatterono con altri
che con I LIGURI, e con quel rimanente de’Franciosi che era in Lombardia. E
così stettero tanto che nacque la guerra cartaginese, la qual per sedici anni
tenne occupata Italia. Finita questa con massima gloria, nacque la guerra
macedonica; la quale tìnita, venne quella d’Antioco e d’Asia. Dopo la qual
vittoria, non restò in tutto il mondo nè principe nè repubblica che, di per sè,
o tutti insieme, si potessero opporre alle forze romane. Ma innanzi a quella
ultima vittoria, chi considerrà l’ordine di queste guerre, ed il modo del
procedere loro, vedrà dentro mescolate colla fortuna una virtù e prudenza
grandissima. Talché, chi esaminasse la cagione di tale fortuna, la ritroverebbe
facilmente: perchè gli è cosa certissima, che come un principe e un popolo
viene in tanta riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per
sè paura ad assaltarlo, e ne tema, sempre interverrà che ciascuno d’essi mai lo
assalterà, se non necessitato; in modo che e’sarà quasi come nell’elezione di
quel polente, far guerra con quale di quelli suoi vicini gli parrà, e gii altri
colla sua industria quietare. I quali, parte rispetto alla potenza suo, parte
ingannati da quei modi che egli terrà per nddormentargli, si quietano
facilmente; e gli altri potenti che sono discosto, e che non hanno coinmerzio
seco, curano la cosa come cosa longinqua, e che non appartenga loro. Nel quale
errore stanno tanto che questo incendio venga loro presso: il quale venuto, non
hanno rimedio a spegnerlo se non colle forze proprie; le quali di poi non
bastano, sendo colui diventato potentissimo. Io voglio lasciare andare, come i
Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo romano i Yolsci e gli Equi; e per
non essere troppo prolisso, mi farò da’Cartaginesi: i quali erano di gran
potenza c di grande estimazione quando i Romani combattevano con i Sanniti e
con i Toscani; perchè tii già tenevano tutta 1’Affrica, tenevano ia Stintigna e
la Sicilia, avevano dominio in parte della Spagna. La quale polenza loro,
insieme coll’esser discosto ne’confini dal Popolo romano, fa che non pensarono
mai d’assaltare quello, nè di soccorrere i Sanniti e Toscani: anzi fecero come si
fa nelle cose che crescono, più tosto in lor favore collegandosi con quelli, e
cercando l’amicizia loro. Nè s’avviddono prima dell’errore fatto che i Romani,
domi tutti i popoli mezzi infra loro ed i Cartaginesi, cominciarono a
combattere insieme dell’imperio di Sicilia e di Spagna. Intervenne questo
medesimo a’Franciosi che a’ Cartaginesi, e cosi a Filippo re de’Macedoni, e ad
Antioco; e ciascuno di loro crede, mentre che il Popolo romano era occupato
coll’altro, che quell’altro lo supera, ed essere a tempo, o con pace o con
guerra, difendersi da lui. In modo che io credo che la fortuna che ebbono in
questa parte i Romani, 1’arebbono tutti quelli principl che procedessero come i
Romani, c fussero di quella medesima virtù che loro. Sarebbeci da mostrare a questo
proposito il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle provincie
d’altri, se nei nostro trattato de’principati non ne avessimo parlato a lungo;
perchè in quello questa materia è diffusamente disputata. Dirò solo questo
brevemente, come sempre s’ingegnarono avere nelle provincie nuove qualche amico
che fusse scala o porta a salirvi o entrarvi, o mezzo a tenerla: come si vede
che pel mezzo de’Capovani entrarono in Sannio, de’Camertini in Toscana,
de’Mamertini in Sicilia, de’Saguntini in Spagna, di Massinissa iti Affrica,
degl’Eloli in Grecia, d’Eumene ed altri principi in Asia, de’Massiliensi e
dell’Edui in Francia. E così non mancarono mai di simili appoggi, per potere
facilitare l’imprese loro, e nel’acquistare le provincie e nel tenerle. Il che quelli
popoli ch’osserveranno, vedranno avere meno bisogno della fortuna che quelli
che ne saranno non buoni osservatori. E perchè ciascuno possa meglio conoscere
quanto potè più la virtù che la fortuna loro ad acquistare quello imperio; noi
discorreremo di che qualità furono quelli popoli con i quali egli ebbero a
combattere, e quanto erano ostinati a difendere la loro libertà. Con quali
popoli i Romani ebbero a combattere, e come ostinatamente quelli difendevano la
loro libertà. Nessuna cosa fece più faticoso a’Romani superare i popoli
d’intorno, c parte delle provincie discosto, quanto l’amore che in quelli tempi
molti popoli avevano alla libertà; la quale tanto ostinatamente difendevano che
mai se non da una eccessiva virtù sarebbono stati soggiogati. Perchè, per molti
essempi si conosce a quali pericoli si mettessino per mantenere o ricuperare
quella; quali vendette e’ facessino contra a coloro che l’avessino loro
occupata. Conoscesi ancora nelle lezioni delle istorie, quali danni i popoli e
le città riccvino pella servitù. E dove in questi tempi ci è solo una provincia
la quale si possa dire che abbia in sè città libere, ne’tempi antichi in tutte
le provincie erano assai popoli liberissimi. Vedesi come in quelli tempi
de’quali noi parliamo al presente, in Italia, dall’Alpi che dividono ora la
Toscana dalla Lombardia, insino alla punta d’Italia, erano molti popoli liberi;
com’erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che in quel
resto d’Italia abitano. Nè si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di
quelli che regnano in Roma, e Porsena re di Toscaua; la stirpe del quale come
s’estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede bene come in quelli tempi
che i Romani andarono a campo a Veio, la Toscana era libera: e tanto si godea
della sua libertà, e tanto odia il nome del principe, che avendo fatto i
Veienti per loro difensione un re in Veio, e domandando aiuto a' Toscani contra
ai Romani; quelli, dopo molte consulte fatte, deliberarono di non dare aiuto
a’Veienti, infino a tanto che vivessino sotto’1 re; giudicando non esser bene
difendere la patria di coloro che l’avevano di già sottomessa ad altrui. E
facil cosa è conoscere donde nasca ne’popoli questa affezione del vivere
libero; perchè si vede per esperienza, le cittadi non avere mai ampliato nè di
domiuio nè di ricchezza, se non mentre sono state in libertà. E veramente
meravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza venne Atene per ispazio
di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra
tutto meravigliosissima cosa è a considerare, a quanta grandezza venne Roma,
poiché la si liberò da’suoi Re. La cagione è facile ad intendere; perchè non il
bene particolare, ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza
dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle repubbliche; perchè
lutto quello che fa a proposito suo, s’eseguisce; e quantunque e’torni in danno
di questo o di quello privato, e’sono tanti quelli per chi detto bene fa, che
lo possono tirare innanzi contra alla disposizione di quelli pochi che ne
fussino oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove il più
delle volte quello che fa per lui, offende la città; e quello che fa pella
città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra un viver
libero, il manco male che ne resulti a quelle città, è non andare più innanzi,
nè crescere più in potenza o in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre,
interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse
un tiranno virtuoso, il quale, per animo e per virtù d’arme ampliasse il
dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a quella repubblica, ma a lui
proprio: perchè e’non può onorare nessuno di quelli cittadini che siano valenti
c buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto di loro. Non
può ancora le città che egli acquista, sottometterle o farle tributarie a
quella città di che egli è tiranno: perchè il farla potente non fa per lui; ma
per lui fa tenere lo Stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia
riconosca lui. Talché di suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la sua
patria. E chi volesse confermare questa oppinione con infinite altre ragioni,
legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tirannide. Non è meraviglia adunque
che gl’antichi popoli con tanto odio perseguitassino i tiranni, ed nmassiiio il
vivere libero, e che il nome della libertà fusse tanto stimato da loro: come
intervenne quando Girolamo nipote di lerone siracusano fu morto in Siracusa,
che venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non era molto
lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e pigliare 1’armi contro agli
ucciditori di quello; ma come ei sentì che in Siracusa si gridava libertà,
allettato da quel nome, si quietò tutto, pose giti l’ira contra a’tirannicidi,
e pensò come iti quella città si potesse ordinare un viver libero. Non è
meraviglia ancora che i popoli faccino vendette istraordinaric contra a quelli
che gli hanno occupata la libertà. Di che ci sono stali assai esempi, de’quali
n’intendo referire solo uno, seguilo in Coreica, città di Grecia, ne’tempi
della guerra peloponnesiaca; «love sendo divisa quella provincia in due
fazioni, delle quali 1’una seguita gl’Ateniesi, l’altra gli Spartani, ne nasce
che di molte città, che erano infra loro divise, l’una parte segue l’amicizia
di Sparta, l’altra d’Atene: ed essendo occorso clic nella detta città
prcvalessino i nobili, e togliessino la libertà al popolo, i popolari per mezzo
degl’Ateniesi ripresero le forze, e posto le mani addosso a tutta la nobiltà,
gli rinchiusero in una prigione capace di tutti loro; donde gli traevano ad
otto o dieci per volta, sotto titolo di mandargli in esilio iti diverse parli,
e quelli con molti crudeli essempi fanno morire. Di che sendosi quelli che
restano accorti, deliberano, in quanto era a loro possibile, fuggire quella
morte ignominiosa; ed armatisi di quello potevano, combattendo con quelli vi
volevano entrare, l’entrata della prigione difendevano; di modo che il popolo,
a questo romore fatto concorso, scoperse la parte superiore di quel luogo, e
quelli con quelle rovine sufìbeorno. Seguirono ancora in delta provincia molti
altri simili casi orrendi e notabili: talché si vede esser vero, che con
maggiore impeto si vendica una libertà che ti è suta tolta che quella che li è
voluta torre. Pensando dunque donde possa nascere, che in quelli tempi antichi,
i popoli fussero più amatori della libertà che in questi; credo nasca da quella
medesima cagione che fa ora gl’uomini manco forti: la quale credo sia la diversità
dell’educazione nostra dalla antica, fondata nella diversità della religione
nostra dall’antica. Perchè avendoci la nostra religione mostra la verità e la
vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo: onde i Gentili stimandolo
assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più
feroci. Il che si può considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi
dalla magnificenza de’sacrificii loro, all’umilila de’nostri; dove è qualche
pompa più dilicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Quivi
non manca la pompa nè la magnificenza delle cerimonie, ma vi s’aggiunge
1’azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocia, ammazzandovisi
moltitudine d’animali: il quale aspetto sendo terribile, rende gl’uomini simili
a lui. La religione antica, oltre di questo, non beatifica se non gl’uomini
pieni di mondana gloria: come erano capitani d’eserciti e principi di
repubbliche. La nostra religione glorifica più gl’uomini umili e contemplativi
che gl’attivi. Ha di poi posto il sommo bene nell’umilila, abiezione, nello
dispregio delle cose umane: quell’altra lo pone nella grandezza dell’animo,
nella fortezza del corpo, ed in tutte l’altre cose atte a fare gl’uomini
fortissimi. E se la religione nostra richiede che abbi in te fortezza, vuole
che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere,
adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agl’uomini
scellerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come
l’università degl’uomini, per andare in paradiso, pensa più a sopportare le sue
battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il mondo, e
disarmato il cielo, nasce più senza dubbio dalla viltà degl’uomini che hanno
interpretato la nostra religione secondo l’ozio, e non secondo la virtù. Perchè
se considerassino come la permette l’esultazione e la difesa della patria,
vedrebbono come la vuole che noi l’amiaino ed onoriamo, e prepariamoci ad esser
tali che noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni, e si false
interpretazioni, che nel mondo non si vede tante repubbliche quante si vedeva
aulicamente; nè, per conscguente, si vede ne’popoli tanto amore alla libertà
quanto allora: ancora che io creda piuttosto essere cagione di questo, che
l’imperio romano colle sue arme e sua grandezza spende tutte le repubbliche e
lutti i viveri civili E benché poi tal imperio si sia risoluto, non si sono
potute le città ancora rimettere insieme nè riordinare alla vita civile, se non
in pochissimi luoghi di quello imperio. Pure, comunelle si fusse, i Romani in
ogni minima parte del mondo trovano una congiura di repubbliche armatissime, ed
ostinatissime atia difesa della libertà loro. Il che mostra che'1 Popolo romano
senza una rara ed estrema virtù mai non l’arebbe potute superare. E per darne
esseinpio di qualche membro, voglio mi basti l’essempio de’Sanniti:i quali pare
cosa mirabile, e L. lo confessa, che fussero sì potenti, e 1’arme loro si
valide che potessero infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del
primo Papirio, resistere a’Romani (che fu uno spazio di XLVI anni), dopo tante
rotte, rovine di terre, e tante stragi ricevute nel paese loro; massime veduto
ora quel paese dove erano tante cittadi e tanti uomini, esser quasi che
disabitato: ed allora vi era tanto ordine, e tanta forza, eh’egli era
insuperabile, se da una virtù romana non fusse stato assaltato. E facil cosa è
considerare donde nasce quello ordine, c donde proceda questo disordine; perchè
tutto viene dal viver libero allora, ed ora dal viver servo. Perchè tutte le
terre e le provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra dissi,
fanno i progressi grandissimi. Perchè quivi si vede maggiori popoli, per essere
i matrimoni più liberi, e più desiderabili dagl’uomini: perchè ciascuno procrea
volentieri quelli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il
patrimonio gli sia tolto; thè eT conosce non solamente che nascono liberi e non
schiavi, ma che possono mediante la virtù loro diventare principi. Veggonvisi
le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla
cultura, e quelle che vengono dall’arti. Perchè ciascuno volentieri multiplica
in quella cosa, e cerca d’acquistare quei beni, che crede acquistati potersi
godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensano ai privati ed a’pubblici
comodi; e l’uno e l’altro viene meravigliosamente a crescere. II contrario di
tutte queste cosesegue in quelli paesi che vivono scivi; c tanto più mancano
del consueto bene, quanto è più dura la servitù. E di tutte le servitù dure,
quella è durissima cheli sottomette ad una repubblica: E una, perchè la è più
durabile, e manco si può sperare d’uscirne; Y altra, perchè il fine della
repubblica è enervare ed indebolire per accrescere il corpo suo, tutti gli
altri corpi. Il che non la un principe che ti sottometta, quando quel principe
non sia qualche principe barbaro, destruttore de’paesi, e dissipatore di tutte
le civilità degli uomini, come sono i principi orientali. Ma s’egli ha in sè
ordini umani ed ordinari, il più delle volte ama le città sue soggette
egualmente, ed a loro lascia l’arti tutte, e quasi lutti gl’ordini antichi.
Talché, se le non possono crescere come libere, elle non rovinano anche come
serve; intendendosi della servitù in quale vengono le città servendo ad un forestiero,
perchè di quella d’uno loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considerrù,
adunque, tutto quello che si è detto, non si meraviglierà della potenza che i
Sanniti avevano sendo liberi, e della debolezza in che e’vennero poi servendo:
e L. ne fa fede in più luoghi, e massime nella guerra d’Annibaie, dove ei
mostra che essendo i Sanniti oppressi d’una legione d’uomini ch’era in Nola,
mandano oratori ad Annibale a pregarlo che gli soccorresse; i quali nel parlar
loro dissono, che avevano per cento anni combattuto con i Romani con i propri
loro soldati e propri loro capitani, e molte volte avevano sostenuto duoi
eserciti consolari e duoi consoli; e che allora a tanta bassezza erano venuti,
che non si potevano a pena difendere da una piccola legione romana che era.
Roma divenne grande città rovinando le città circonvicine, e ricevendo i
forestieri facilmente aJ suoi onori. Crescit inlerea Roma Albce ruinis. Quelli
che disegnano che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni
industria ingegnare di farla piena d’abitatori; perchè senza questa abbondanza
di uomini, mai non riuscirà di fare grande una città. Questo si fa in duoi
modi; per amore, e per forza. Per amore, tenendo le vie aperte e secure
a’forestieri che disegnassero venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno
vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e mandando
gl’abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu tanto osservato in
Roma che nel tempo del sesto Re in Roma abitano ottantamila uomini da portare armi.
Perchè i Romani vollono fare ad uso del buono cultivatore; il quale, perche una
pianta ingrossi, e possa pròdurre e maturare i fruiti suoi, gli taglia i primi
rami che la mette, acciocché, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta,
possino col tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E che questo modo tenuto
per ampliare e fare imperio, fusse necessario e buono, lo dimostra I’essempio
di Sparta e d’Atene: le quali essendo due repubbliche armatissime, ed ordinate
d’ottime leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dell’imperio romano;
e Roma pare più tumultuaria, e non tanto bene ordinata quanto quelle. Di che
non se ne può addurre altra cagione che la preallegata: perchè Roma, per avere
ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette di già mettere
in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non passano mai ventimila
per ciascuna. Il che nacque, non d’essere il sito di Roma più benigno che
quello di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Perché Licurgo, fondatore
della repubblica spartana, considerando nessuna cosa potere più facilmente
risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fa ogni cosa
perchè i forestieri non avessino a conversarvi: ed, oltre al non gli ricevere
ne’matrimoni, alla civiltà, ed alle altre conversazioni che fanno convenire
gl’uomini insieme, ordina che in quella sua repubblica si spende monete di
cuoio, per tor via a ciascuno il desiderio di venirvi per portarvi mercanzie, o
portarvi alcuna arte; di qualità che quella città non potette mai ingrossare di
abitatori. E perchè tutte l’azioni nostre imitano la natura, non è possibile nè
naturale che uno pedale sottile sostenga un ramo grosso. Però una repubblica
piccola non può occupare città nè regni che siano più validi nè più grossi di
lei; e se pure gl’occupa, gP interviene come a quello albero che avesse più
grosso il ramo che’l piede, che sostenendolo con fatica, ogni piccolo vento lo
fiacca: come si vede che intervenne a Sparla, la quale avendo occupate tutte le
città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe, che tutte l’altre cittadi se
gli ribellarono, e rimase i! pedale solo senza rami. Il che non potette
intervenire a Roma, avendo il piè si grosso, che qualunque ramo poteva
facilmente sostenere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gl’altri
che di sotto si diranno, fa Roma grande e potentissima. Il che dimostra L. in
due parole, quando disse: Crcscit intcrea Roma Albce ruinis. Le repubbliche
hanno tentili tre modi circa l’ampliare. Chi ha osservato l’antiche istorie,
Iruova come le repubbliche hanno tre modi circa l’ampliare. L’uno è stato
quello ch’osservorono i Toscani antichi, d’essere una lega di più repubbliche
insieme, dove non sia alcuna che avanzi l’altra nè di autorità nè di grado; e
nello acquistare, farsi 1’altre città compagne, in simil modo come in questo
tempo fanno i Svizzeri, e come nei tempi antichi feciono in Grecia gl’Achei e
gl’Etoli. E perchè gli Romani feciono assai guerra con i Toscani, per mostrar
meglio la qualità di questo primo modo, ini distenderò in dare notizia di loro
particolarmente. In Italia, innanzi all’imperio romano, furono i Toscani per
mare e per terra potentissimi: e benché delle cose loro non ce ne sia
particolare istoria, pure c’è qualche poco di memoria, e qualche segno della
grandezza loro; e si sa come e’mandarono una colonia in su’l mare di sopra, la
quale chiamarono Adria, che fu si nobile, che la dette nome a quel mare
ch’ancora i Latini chiamano Adriatico. Intendesi ancora, come le loro arme
furono ubbidite dal Tevere per infìno ai piè dell’Alpi, che ora cingono il
grosso d’Italia; non ostante che dugento anni innanzi che i Romani crescessino
in molte forze, detti Toscani perderono l’imperio di quel paese che oggi si
chiama la Lombardia; la quale provincia fu occupata da’Franciosi: i quali mossi
o da necessità, o dalla dolcezza dei frutti, e massime del viuo, vennono in
Italia sotto Bellovcso loro duce; e rotti e cacciati i provinciali, si posono
in quel luogo, dove edificarono di molte cittadi, e quella provincia chiamano
GALLIA, dal nome che tenevano allora; la quale tennono fino che da’Romani
fussero domi. Vivevano, adunque, iToscani con quella equalità, e procedevano
nello ampliare in quel primo modo che di sopra si dice: e furono dodici città,
tra le quali era Chiusi, Yeio, Fiesole, Arezzo, Volterra, e simili: i quali per
via di lega governavano lo imperio loro; nè poterono uscir d’Italia
cogl’acquisti; e di quella ancora rimase intatta gran parte. L’altro modo è
farsi compagni j non tanto però che non ti rimanga il grado del comandare, la
sedia dell’imperio ed il titolo dell’imprese: il quale modo fu osservato
da’Romani. Il terzo modo è farsi immediate sudditi, e non compagni; come fecero
gli Spartani e gl’Ateniesi. De'quali tre modi, questo ultimo è al tutto inutile;
come c’si vide che fu nelle sopraddette due repubbliche: le quali non
rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel dominio che le non
potevano tenere. Perchè, pigliar cura d’avere a governare città con violenza,
massime quelle che tassino consuete a viver libere, è una cosa diffìcile e
faticosa. E se tu non sei armato e grosso d’armi, non le puoi nè comandare nè
reggere. Ed a voler esser così fatto, è necessario farsi compagni che ti
aiutino ingrossare la tua città di popolo. E perchè queste due città non
feciono nè1l’uno nèll’altro, il modo del procedere loro fu inutile. E perché
Roma, la quale è nello esempio del secondo modo, fa l’uno e l’altro; però salse
a tanta eccessiva potenza. E perchè la è stata sola a vivere cosi, è stata
ancora sola a diventar tanto potente: perchè, avendosi ella fatti di molti
compagni per tutta Italia, i quali in di molte cose con eguali leggi vivevano
seco; e dall’altro canto come di sopra è detto, sendosi riservato sempre la
sedia dell’imperio ed il titolo del comandare; questi suoi compagni venivano,
che non se n’avvedevano, colle fatiche e col sangue loro a soggiogar sè stessi.
Perchè, come cominciorono a uscire con gl’eserciti d’Italia, e ridurre i regni
in provincie, e farsi soggetti coloro che per esser consueti a vivere sotto i
Re, non si curano d’esser soggetti; ed avendo governadori romani, ed essendo
stati vinti d’eserciti con ii titolo romano; non riconoscevano per superiore
altro che Roma. Di modo che quelli compagni di Roma ch’erano in Italia, si trovano
in un tratto cinti da’sudditi romani, cd oppressi d’una grossissima città come
era Roma; e quando e’si avviddono dello inganno sotto i! quale erano vissuti,
non furono a tempo a rimediarvi: tanta autorità aveva presa Roma colle
provincie esterne, e tanta forza si trova in seno, avendo la sua città
grossissima ed armatissima. E benché quelli suoi compagni, per vendicarsi delle
ingiurie, gli congiurassino contea, furono in poco tempo perditori della
guerra, peggiorando le loro condizioni; perchè di compagni, diventarono ancora
loro sudditi. Questo modo di procedere è stato solo osservato da’Romani: nè può
tenere altro modo una repubblica che voglia ampliare; perchè la esperienza non
te ne ha mostro nessuno più certo o più vero. Il modo preallegato delle leghe,
come viverono i Toscani, gl’Achei e gl’Etoli, e come oggi vivono i Svizzeri, è
dopo a quello de’Romani il miglior modo; perchè non si potendo con quello
ampliare assai, ne seguitano duoi beni: l’uno, che facilmente non ti tiri
guerra addosso; l’altro, che quel tanto che tu pigli, lo tieni facilmente. La
cagione del non potere ampliare, è lo essere una repubblica disgiunta, e posta
in varie sedi: il che fa che difficilmente possono consultare e deliberare. Fa
ancora che non sono desiderosi di dominare: perchè essendo molte comunità
a’participarc di quel dominio, non istimano tanto tale acquisto, quanto fa una
repubblica sola, che spera di goderselo tutto. Governansi, oltra di questo, per
concilio, c conviene che siano più tardi ad ogni deliberazione che quelli che
abitano dentro ad un medesimo cerchio. Vedesi ancora per esperienza, che simile
modo di procedere ha un termine fisso, il quale non ci è esempio che mostri che
si sia trapassato: e questo è di aggiugnere a dodici o quattordici comunità; di
poi non cercare di andare più avanti: percliè sendo giunti al grado che par
loro potersi difendere da ciascuno, non cercano maggiore dominio; sì perchè la
necessità non gli stringe di avere piò potenza; si per non conoscere utile
negli acquisti, pelle cagioni dette di sopra. Perchè gli arebbono a fare una
delle due cose; o seguitare di farsi compagni, e questa moltitudine farebbe
confusione; o gl’arebbono a farsi sudditi: e perchè e’veggono in questo
difficultà, e non molto utile nel tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando
e’sono venuti a tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltano a due
cose: P una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni; c per questi mezzi
trarre da ogni parte danari, i quali facilmente intra loro si possono
distribuire: 1’altra è militare per altrui, e pigliar stipendio da questo e da
quello principe che per sue imprese gli soldo; come si vede che fanno oggi i
Svizzeri, e come si legge che facevano i preallegati. Di che il’è testimone L.,
dove dice che, venendo a parlamento Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio
Flamminio, e ragionando d'accordo alla presenza d’un pretore degl’Etoli; in
venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu da quello rimproverato
l’avarizia e la infidelità, dicendo che gl’Etoli non si vergognavano militare
con uno, e poi mandare loro uomini ancora al servigio del nimico; talché molte
volte intra dnoi contrari eserciti si vedevano le insegne di Etolia. Conoscesi,
pertanto, come questo modo di procedere per leghe, è stato sempre simile, ed ha
fatto simili effetti. Vedesi ancora, che quel modo di fare sudditi è stato
sempre debole, ed avere fatto piccoli profitti; e quando pure egli hanno
passato il modo, essere rovinati tosto. E se questo modo di fare sudditi è
inutile nelle repubbliche armate, in quelle che sono disarmate è inutilissimo:
come sono state ne’nostri tempi le repubbliche d’Italia. Conoseesi, pertanto,
essere vero modo quello che tennono i Romani 5 il quale è tanto più mirabile
quanto e’non ee il’era innanzi a Roma essempio, e dopo Roma non è stalo alcuno
elio gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si trovano solo i Svizzeri e la
lega di Svevia che gli imita. E, come nel fine di questa materia si dirà, tanti
ordini osservati da Roma, così pertinenti alle cose di dentro come a quelle di
fuora, non sono ne’presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non n’è
tenuto alcuno conto; giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili, alcuni
non a proposito ed inutili: tanto che standoci con questa ignoranza, siamo
preda di qualunque ha voluto correre questa provincia. E quando la imitazione
de’Romani paresse difficile, non doverrebhe parere cosi quella degli antichi
Toscani, massime a’presenti Toscani. Perchè, se quelli non poterono fare uno
imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in Italia quella potenza che
quel modo del procedere concesse loro. Il che fu per un gran tempo securo, con
somma gloria d’imperio e d’arme, e massima laude di costumi e di religione. La
qual potenza e gloria fu prima diminuita da’Franciosi, di poi spenta da’Romani;
e fu tanto spenta che ancora che duemila anni fa la potenza de’Toscani fusse
grande al presente non ce n’è quasi memoria. La qual cosa m’ha fatto pensare
donde nasca questa oblivione delle cose. Che la variazione delle sèlle e delle
lingue insieme coll'accidente de' diluvi o delle pesti j spegno la memoria
delle cose. A quelli FILOSOFI che hanno voluto che’l mondo sia stato eterno,
credo che si potesse reificare, che se tanta antichità fusse vera, e’sarebbe
ragionevole che ci fusse memoria di più che cinque mila anni; quando e’non si
vede come queste memorie de’tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali
parte vengono dagli nomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagl’uomini,
sono LE VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè quando surge una setta
nuova, cioè una religione nuova, il primo studio suo è, per darsi reputazione,
estinguere la vecchia; e quando egli occorre che gl’ordinatori della nuova
setta sono di lingua diversa, la spengono facilmente. La qual cosa si conosce
considerando i modi che ha tenuti la religione cristiana contra alla SETTA
GENTILE; la quale ha cancellati tutti gl’ordini, tutte le ceremonie di quella,
e spenta ogni memoria di quella antica teologia. Vero è che non gl’è riuscito
spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagl’uomini eccellenti di quella:
il die è nato per AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il che fecero
forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perchè, se
l’avessino potuta scrivere con nuova lingua, considerato l’altre persecuzioni
gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge i
modi tenuti da san Gregorio e dagli altri capi della religione cristiana, vedrà
con quanta ostinazione e’perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo P
opere de’poeti e delli istorici, minando le immagini, e guastando ogni altra
cosa che rendesse alcun segno della antichità. Talché, se a questa persecuzione
egli avessino aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo
ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto, che quello che ha voluto fare la
religione cristiana contra alla setta gentile, la gentile abbi fatto contra u
quella che era innanzi a lei. E perchè queste sètte in cinque o in seimila anni
variarono due o tre volle, si perdè in memoria delle cose fatte innanzi a quel
tempo. E se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa favolosa, e non è
prestato loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che benché
e’renda ragione di quaranta o cinquanta mila anni, nondimeno è riputata, come
io credo che sia, cosa mendace. Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono
quelle che spengono l’umana generazione, e riducono a pochi gl’abitatori di
parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione
d’acque: e la più importante è questa ultima, sì perchè la è più universale, sì
perchè quelli che si salvano sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali non
avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a’posteri. E se
infra loro si salvasse alcuno che n’avesse notizia, per farsi riputazione e
nome, la nasconde, e la perverte a suo modo; talché ne resta solo a’successori
quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inondazioni, pesti e
fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perchè ne sono piene tutte le
istorie, sì perchè si vede questo effetto della oblivione delle cose, sì perchè
e’pare ragionevole che sia: perchè la natura, come ne’corpi semplici, quando vi
è ragunato assai materia superflua, muove per sè medesima molte volte, e fa una
purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo
misto della umana generazione, che quando tutte le provincie sono ripiene
d’abitatori, in modo che non possono vivere, nè possono andare altrove, per
esser occupati e pieni tutti i luoghi; e quando l’astuzia e malignità umana è
venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno
de’tre modi; acciocché gl’uomini essendo divenuti pochi e battuti, vivano più
comodamente, e diventino migliori. Era adunque già tu Toscana potente, piena di
religione e di virtù; aveva i suoi costumi e la sua LINGUA PATRIA: il che tutto
è stato spento dalla potenza romana. Talché di lei ne rimane solo la memoria
del nome. Come i Romani procedevano nel fare la guerra. Avendo discorso come i
Romani procedeno nell’ampliare, discorreremo ora come e’ procedeno nel fare la
guerra; ed in ogni loro azione si vede con quanta prudenza i diviano dal modo
universale degl’altri, per facilitarsi la via a venire a una suprema grandezza.
L’intenzione di chi fa guerra per elezione, o vero per ambizione, è acquistare
e mantenere l’acquistato; e procedere in modo con esso, che I’arricchisca c non
impoverisca il paese e la patria sua. È necessario dunquc, e nell’acquistare e
nel mantenere, pensare di non spendere; anzi far ogni cosa con utilità del
pubblico suo. Chi vuol fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e
modo romano: il quale fu in prima di fare le guerre, come dicono i Franciosi,
corte e grosse; perchè, venendo in campagna con eserciti grossi, tutte le
guerre eh’egli ebbono co’Latini, Sanniti e Toscani le espedirono in brevissimo
tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono dal principio di Roma infino
all’ossidione de’ Yeienti, tutte si vedranno espedite, quale in sei, quale in
dieci, quale in ventidi. Perchè l’uso loro era questo: subito che era scoperta
la guerra, egli uscivano fuori con gl’eserciti all’incontro del nimico, e
subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici, perchè non fussc guasto
loro il contado affatto, venivano alle condizioni; ed i Romani gli condennavano
in terreni: i quali terreni gli convertivano in privati comodi, o gli
consegnavano ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro,
veniva ad esser guardia de’confini romani, con utile di essi coloni, che
avevano quelli campi, e con utile del pubblico di Roma, che senza spesa teneva
quella guardia. Nè poteva questo modo esser più seeuro, o più forte, o piu
utile: perchè mentre che i nimici non erano in su i campi, quella guardia basta:
come e’fussino usciti fuori grossi per opprimere quella colonia, ancora i
Romani uscivano fuori grossi, e venivano a giornata con quelli; e fatta e vinta
la giornata, imponendo loro più gravi condizioni, si tornavano in casa. Così
venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di loro, e forze in sè
medesimi. E questo modo vennono tenendo infino che mutorno modo di procedere in
guerra: il che fu dopo l’ossidione de’Veienti; dove, pei’potere fare guerra
lungamente, gl’ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non essere
necessario, essendo le guerre brevi, non gli pagavano. E benché i Rotflani
dessino IL SOLDO, e che per virtù di questo ei potessino fare le guerre più
lunghe, e per farle più discosto la necessità gli tenesse più in su’campi; nondimeno
non variarono mai dal primo ordine di finirle presto, secondo il luogo ed il
tempo; nè variarono mai dal mandare le colonie. Perchè nel primo ordine gli
tenne, circa il fare le guerre brevi, olirà il loro naturale uso, T ambizione
de’Consoli; i quali avendo a stare un anno, e di quello anno sei mesi alle
stanze, volevano finire la guerra per trionfare. Nel mandare le colonie, gli
tenne 1’utile e la comodità grande che ne risulta. Variarono bene alquanto
circa le prede, delie quali non erano cosi liberali come erano stati prima; sì
perchè e non pare loro tanto necessario, avendo i soldati lo stipendio; sì
perchè essendo le prede maggiori, disegnano d’ingrassaie di quelle in modo il
pubblico, che non lussino constretti a fare le imprese con tributi della città
li quale ordine in poco tempo fece il loro erario ricchissimo. Questi duoi
modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa il mandar le colonie,
feciono che Roma arricchiva della guerra j dove gli altri principi e
repubbliche non savie ne impoveriscono. E ridusse la cosa in termine, che ad un
Consolo non pare poter trionfare, se non porta col suo trionfo assai oro ed
argento, e d’ogni altra sorte preda, nell’erario. Cosi i Romani con i
soprascritti termini, e coti il finire le guerre presto, sendo contenti con
lunghezza straccare i nemici, e con rotte e con le scorrerie e con accordi a
loro avvantaggi, diventarono sempre più ricchi e più potenti. Quanto terreno i
Romani danno per colono. Quanto terreno i Romani distribuiisino per colono, credo
sia molto diffìcile trovarne la verità. Perchè io credo ne dessino più o manco,
secondo i luoghi dove e mandano le colonie. E giudicasi che ad ogni modo ed in
ogni luogo la distribuzione fusse parca: prima, per poter mandare più uomini,
sendo quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi perchè vivendo loro
poveri a caso, non era ragionevole che volessino che I loro uomini abbondassino
troppo fuora. E L. dice, come preso Veio e’vi mandorno una colonia, e
distribuirono a ciascuno tre iugeri e sette once di terra; che sono al modo
nostro. Perchè, oltre alle cose soprascritte, e giudicavano che non lo assai
terreno, ma il bene coltivato bastasse. È necessario bene, che tutta la colonia
abbi campi pubblici dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove
prendere del legname per ardere; senza le quali cose non può una colonia
ordinarsi. La cagione perchè i popoli si partono da luoghi patriij cd inondano
il paese altrui. Poiché di sopra si è ragionato del modo nel procedere della
guerra osservato da’Romani, c come i Toscani furono assaltati da’Franciosi; non
mi pare alieno dalla materia discorrere, come e’si fanno di due generazioni
guerre. L’una è fatta per ambizione de’principi o delle repubbliche, che
cercano di propagare lo imperio; come furono le guerre che fece Alessandro
Magno, e quelle che feciono i Romani, e quelle che fanno ciascuno di, 1’una
potenza con F altra. Le quali guerre sono pericolose, ma non cacciano al tutto
gl’abitatori d’una provincia; perchè e’basta al vincitore solo la ubbidienza
de’popoli, e il più delle volte gli lascia vivere con le loro leggi, e sempre
con le loro case, e ne’loro beni. L’altra generazione di guerra è, quando un
popolo intero con tutte le sue famiglie si beva d’uno luogo, necessitato o
dalla fame o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e nuova provincia; non per
comandarla, come quelli di sopra, ma per possederla tutta particolarmente, e
cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di quella. Questa guerra è
crudelissima e paventosissima. E di queste guerre ragiona SALUSTIO nel fine
dell’Iugurtiuo, quando dice che vinto lugurta, si senti il moto de’Franciosi
che venivano in Italia: dove e’dice che’l Popolo romano con tutte le altre
genti combattè solamente per chi dovesse comandare, ma con i Franciosi si combattè
sempre per la salute di ciascuno. Perchè ad un principe o una repubblica
spegnere solo coloro che comandano; ma a queste popolazioni conviene spegnere
ciascuno, perchè vogliono vivere di quello che altri vive. I Romani ebbero tre
di queste guerre pericolosissime. La prima fu quella quando Roma fu presa, la
quale fu occupata da quei Franciosi che avevano tolto, come di sopra si disse,
la Lombardia a’Toscani, e fattone loro sedia; della quale L. ne allega due
cagioni: la prima, che furono allettati dalla dolcezza delle frutte, c del vino
di Italia, delle quali mancavano in Francia; la seconda che, essendo quel regno
francioso moltiplicato in tanto di uomini, che non vi si potevano più nutrire,
giudicarono i principi di quelli luoghi, che fusse necessario che una parte di
loro anda a cercare nuova terra; e fatta tale deliberazione, elcssono per
capitani di quelli che si avevano a partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re
de’Franciosi: de’quali Belloveso venne in Italia, e Si» coveso passò in
Ispagna. Dalla passata del quale Belloveso, nacque l’occupazione di Lombardia,
c quindi la guerra che prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa, fu quella
che fecero dopo la guerra cartaginese, quando tra Piombino e Pisa ammazzarono
più che dugentomila Franciosi. La terza è quando i Todeschi e Cimbri vennero in
Italia: i quali avendo vinti più eserciti romani, furono vinti da Mario.
Vinsero adunque i Romani queste tre guerre pericolosissime. Ne era necessario
minore virtù a vincerle; perchè si vede poi, come la virtù romana manca, e che
quelle arme perderono il loro antico valore, fu quello imperio distrutto da
simili popoli: i quali furono Goti, Vandali c simili, che occuparono tutto lo
imperio occidentale. Escono tali popoli de’paesi loro, rome di sopra si disse,
cacciati dalla necessitò: e la necessitò nasce o dalla fame, o da una guerra ed
oppressione clic ne’paesi propri è loro fatta; talché e’sono constretti cercare
nuove terre. E questi tali, o e’sono grande numero; ed allora con violenza
entrano ne' paesi altrui, ammazzano gl’abitatori, posseggono i loro beni, fanno
uno nuovo regno, mutano il nome della provincia: come fa Moisè, e quelli popoli
che occuparono lo imperio romano. Perchè questi nomi nuovi che sono nella
Italia e nelle altre provincie, non nascono d’altro che d’essere state nomate
così da’nuovi occupatoci: come è la LA LOMBARDIA, CHE SI CHIAMAVA GALLIA
CISALPINA: LA FRANCIA SI CHIAMAVA GALLIA TRANSALPINA, ed ora è nominata
da’Franchi, chè cosi si chiamano quelli popoli che l’occuparono: la Schiavoniu
si chiamava ILLIRIA, l’Ungheria PANNONIA; l’Inghilterra BRITANNIA: c molte
altre provincie che hanno mutato nome, le quali è tedioso raccontare. Moisè
ancora chiama Giudea quella parte di SORIA occupata da lui. E perchè io ho
detto di sopra, che qualche volta tali popoli sono cacciati della propria sede
per guerra, donde sono constretti cercare nuove terre; ne voglio addurre lo
essempio de’Maurusii, popoli anticamente in Soria: i quali, sentendo venire i
popoli ebraici, e giudicando non poter loro resistere, pensarono essere meglio
salvare loro medesimi, t’ lasciare il paese proprio, che per volere salvare
quello, perdere ancora loro; e levatisi con loro famiglie, se ne andano in
Affrica, dove posero la loro sedia, cacciando via quelli abitatori che in quelli
luoghi trovarono. G così quelli che non avevano potuto difendere il loro paese,
poterono occupare quello d’altrui. E PROCOPIO, che scrive la guerra che fece
Bellisario co’Vandali occupatori dell’Affrica, riferisce aver letto lettere
scritte in certe colonne ne’luoghi dove questi Maurusii abitano, le quali
diceno: S os Maurusii, qui fugimus a facie Jesu latronis filii flava. Dove
apparisce In cagione della partita loro di Soria. Sono, pertanto, questi popoli
formidolosissimi, sendo cacciati d’una ultima necessità; e s’egli non
riscontrano buone armi, non saranno mai sostenuti. Ula quando quelli che sono
constretti abbandonare la loro patria non sono molti, non sono sì pericolosi
come quelli popoli di chi s’è ragionato; perchè non possono usare tanta
violenza, ma conviene loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo,
mantenervisi per via d’amici e di confederali: come si vede che fa ENEA,
Didone, i Massiliesi e simili; i quali lutti, per consentimento de’vicini, dove
e’posorno, poterono mantenervisi. Escono i popoli grossi, e sono usciti quasi
tutti de’paesi di Scizia; luoghi freddi e poveri: dove, per essere assai
uomini, cd il paese di qualità da non gli potere nutrire, sono forzati uscire,
avendo molte cose che gli cacciano, e nessuna che gli ritenga. E se da
cinquecento anni in qua, non è occorso che alcuni di questi popoli abbino
inondato alcuno paese, è nato per più cagioni. La prima, la grande evacuazione
che fece quel paese nella declinazione dello imperio; donde uscirono più di
trenta popolazioni. La seconda è che la Magna e1’Ungheria, donde ancora
uscivano di queste genti, hanno ora il loro paese bonificato in modo, che vi
possono vivere agiatamente; talché non sono necessitati di mutare luogo.
Dall’altra parte, sendo loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a
tenere che gli Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di potere
vincergli o passargli. E spesse volte occorrono movimenti grandissimi
da’Tartari, che sono di poi dagl’Ungheri e da quelli di Polonia sostenuti; e
spesso si gloriano, che se non fussino 1’arme loro, la Italia e la chiesa
arebbe molle volle sentito il peso degl’eserciti tartari. E questo voglio basti
quanto a’prefati popoli. Quali cagioni comunemente faccino nascere le guerre
intra i polenti. La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i
Sanniti, che erano stati in lega gran tempo, è una cagione comune che nasce
infra tutti i principati potenti. La qual cagione o la viene a caso, o la è
fatta nascere da colui che desidera muovere la guerra. Quella che nacque intra
i Romani ed i Sanniti, fu a caso; perchè la intenzione de’Sanniti non fu,
muovendo guerra a’Sidicini, e di poi a’Campani, muoverla ai Romani. .\Ia sendo
i Campani oppressati, e ricorrendo a Roma fuora della oppinione de’Romani e
de’Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro
difendergli, e pigliare quella guerra che a loro parve non potere colloro onore
fuggire. Perchè e’pare bene a’Romani ragionevole non potere difendere i Campani
come amici, eontra ai Sanuiti amici, ma pare ben loro vergogna non gli
difendere come sudditi, ovvero raccomandali; giudicando, quando e’non avessino
presa tal difesa, torre la via a tutti quelli che disegnassino venire sotto la
potestà loro. Ed avendo Roma per fine l’imperio e la gloria, e non la quiete,
non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione da principio alla
guerra conira a’Cartaginesi, per la difensione che i Romani presono
de’Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a caso. Ma non fu già a caso di poi
la guerra che nacque infra loro; perchè Annibaie capitano Cartaginese assalta i
Saguntini amici de’Romani in Ispagna, non per offendere quelli, ma per muovere
l’arme romane, ed avere occasione di combatterli, c passare in Italia. Questo
modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e
che si hanno e della fede, e d’altro, qualche rispetto. Perchè, se io voglio
fare guerra con uno principe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran
tempo oservati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò io un
suo amico che lui proprio 5 sappiendo massime, che nello assaltare lo amico, o
ci si risentirà, ed io arò V intento mio di fargli guerra; o non si risentendo,
si scuoprirà la debolezza o la infidelità sua di non difendere un suo
raccomandato. E l’una e I'altra di queste due cose è per torgli riputazione, e
per fare più facili i disegni miei. Debbesi notare, adunque, e pella dedizione
de'Campani, circa il muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e di più, qual
rimedio abbia una città che non si possa per sè stessa difendere, e voglisi
difendere in ogni modo da quel clic l'assalta: il quale è darsi Uberamente a
quello che tu disegni che ti difenda; come feciono i Capovani ai Romani, ed i
Fiorentini al ré Roberto di Napoli: il quale non gli volendo difendere come
amici, gli difese poi come sudditi contra alle forze di Castruceio da Lucca,
die gli opprimeva. I danari non sono il nervo della guerra j secondo che è la
comune oppi ninne. Perchè ciascuno può cominciare una guerra a sua posta, ma non
finirla, debbe uno principe, avanti che prenda una impresa, misurare le forze
sue, e secondo quelle governarsi. Ma debbe avere tanta prudenza, che delle sue
forze ei non s’inganni; ed ogni volta s’ingannerà, quando le misuri o dai
danari, o dal sito, o dalla benivoienza degli uomini, mancando dall’altra parte
d’arme proprie. Perchè le cose predette ti accrescono bene le forze, ma le non
te ne danno; e per sè medesime sono nulla; e non giovano alcuna cosa senza
l’arme fedeli. Perchè i danari assai, non ti bastano senza quelle; non ti giova
la fortezza de! paese; e la fede‘e benivoienza degli uomini non dura, perchè
questi non ti possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte,
ogni lago, ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori
mancano. I danari ancora non solo non ti difendono, ina ti fanno predare più
presto. Nè può essere più falsa quella comune oppinione che dice che i danari
sono il nervo della guerra. La quale sentenza è detta da Quinto Curzio nella
guerra che fu intra A'ntipatro macedone c il re spartano: dove narra, che per
difetto di danari il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto; che se
ei differiva la zuffa pochi giorni, veniva la nuova in Grecia della morte
d’Alessandro, donde e sarebbe rimaso vincitore senza combattere. Ma mancandogli
i danari, e dubitando che lo esercito suo per difetto di quelli non Io
abbandonasse, fu constretto tentare la fortuna della zuffa: talché Quinto
Curzio per questa cagione afferma, i danari essere il nervo della guerra. La qual
sentenza è allegata ogni giorno, v da’principi non tanto prudenti che basti,
seguitata. Perchè, fondatisi sopra quella, credono che basti loro a difendersi
avere tesori assai, e non pensano che se’1 tesoro basta a vincere, che Dario
arebbe vinto Alessandro, i Greci nrebbon vinti i Romani; ne’nostri tempi il
duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed i
Fiorentini insieme non arebbono avuta difficultà in vincere Francesco Maria,
nipote di papa Giulio II, nella guerra d’Urbino. Ma tutti i soprannominali
furono vinti da coloro che non il danaro, ma i buoni soldati stimano essere il
nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re di Lidia mostrò a Solone
ateniese, fu un tesoro innumerabile; c domandando quel che gli pare della
potenza sua, gli rispose Solone, che per quello non lo giudica più potente;
perchè la guerra si fa col ferro e non coll’oro, e che poteva venire uno che
avesse piu ferro di lui, e torgliene. Olir’a questo, quando, dopo la morte
d’Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò in Grecia, e poi in
Asia; e mandando i Franciosi oratori al re di Macedonia per trattare certo
accordo; quel re, per mostrare la potenza sua e per {sbigottirli, mostrò loro
oro ed argento assai: donde quelli Franciosi che di già avevano come ferma la
pace, la j uppono; tanto desiderio in loro crebbe di torgli quell’oro: e cosi
fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua difesa accumulata.
1 Yeniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, perdeno
tutto lo Stato, senza potere essere difesi da quello. Dico pertanto, non l’oro,
come grida la comune oppinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni
soldati: perchè 1’oro non è suflìzienle a trovare i buoni soldati, ma i buoni
soldati son ben sutlìzienti a trovare l’oro. Ai Romani, s’egli avessero voluto
fare la guerra più con i danari che con ii ferro, non sarebbe bastato avere
tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese che fcciono, e le
difficoltà che vi ebbono dentro. Ma facendo le loro guerre con il ferro, non
patirono mai carestia dell'oro; perchè da quelli che li temevano era portato
l’oro infino ne’campi. E se quel re spartano per carestia di danari ebbe a
tentare la fortuna della /uffa, intervenne a lui quello, per conto de’danari,
che molte volte è intervenuto per altre cagioni; perchè s’è veduto che,
mancando ad uno esercito le vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di
fame o azzuffarsi, si piglia il partito sempre d’azzuffarsi, per essere più
onorevole, e dove la fortuna ti può in qualche modo favorire. Ancora è
intervenuto molte volte, che veggendo uno capitano al suo esercito nimico
venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi con quello e tentare la fortuna
della zuffa; o aspettando eh’egli ingrossi, avere a combattere in ogni modo,
con mille suoi disavvantaggi. Ancora si è visto (come intervenne ad Asdrubale
quando nella Marca fu assaltato da Claudio Verone, insieme con l’altro consolo
romano), che un capitano che è necessitato o a fuggirsi o a combattere, come sempre
elegge il combattere; parendogli in questo partito, ancora che dubbiosissimo,
potere vincere; ed in quello altro, avere a perdere in ogni modo. Sono,
adunque, molte necessitati che fanno a uno capitano fuor della sua intenzione
pigliare partito d’azzuffarsi; intra le quali qualche volta può essere la
carestia de’danari: nè per questo si debbono i danari giudicare essere il nervo
della guerra, più che le altre cose che inducono gli uomini n simile necessità.
Non è, adunque, replicandolo di nuovo. 1’oro il nervo della guerra; ma i buoni
soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ina è una necessità che
i soldati buoni per sè medesimi la vincono; perchè è inipossibile che a’buoni
soldati manchino i danari, come che i denari pei loro medesimi truovino i buoni
soldati. Mostra questo che noi diciamo essere vero, ogni istoria in mille
luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli Ateniesi a fare guerra con
tutto il Peloponneso, mostrando che e potevano vincere quella guerra colla
industria e colla forza del danaio. E benché in tale guerra gl’ateniesi
prosperassino qualche volta, in ultimo la perdeno; e valsoti più il consiglio e
gli buoni soldati di Sparta, che la industria ed il danaio d’Atene. Ma L. è di
questa oppinione più vero testimone che alcuno altro, dove discorrendo se
Alessandro Magno fusse venuto in Italia, s’egli avesse vinto i Romani, mostra
esser tre cose necessarie nella guerra; assai soldati e buoni, capitani
prudenti, e buona fortuna: dove esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessino
in queste cose, fa di poi la sua conclusione senza ricordare mai i danari.
Doverono i Capovani, quando furono ricfiiesti da’Sidicini che prendessino
l’arme per loro contea ai Sanniti, misurare la potenza loro dai danari, c non
dai soldati: perchè, preso ch’egli ebbero partito d’aiutarli, dopo due rotte
furono constretti farsi tributari de’Romani, se si vollono salvare. Non è
partito prudente fare amicizia con un principe che abbia più oppinionc che
forze. Volendo L. mostrare l’errore de’Sidicini a fidarsi dello aiuto
de’Campani, e l’errore de’Campani a credere potergli difendere, non lo potrebbe
dire con più vive parole, dicendo: Campani magie nomen in auxilium
Sidicinorunij quam vires ad prcesidium atlulcrunl. Dove si debbe notare che le
leghe si fanno co’principi che non abbino o comodità d’aiutarti pella distanzia
del sito, o forze di farlo per suo disordine o altra sua cagione, arrecano più
fama che aiuto a coloro ehe se ne fidano: come intervenne ne’dì nostri
a’Fiorentini, quando il papa ed il re di Napoli gl’assaltarono; che essendo
amici del re di Francia, trassono di quella amicizia magis nomcn, r/nam
praesidium: come interverrebbe ancora a quel principe, che confidatosi di
Massimiliano imperatore, fa qualche impresa; perchè questa è una di quelle
amicizie che arrecherebbe a chi la fa magis nomcn 9 quam prassi ditinij come si
dice in questo testo, che arrecò quella de’Capovani ai Sidicini. Errarono,
adunque, in questa parte i Capovani, per parere loro avere più forze che non
avevano. E così fa la poca prudenza delti uomini qualche volta, che non
sappiendo nè potendo difendere sè medesimi, vogliono prendere imprese di
difendere altrui: come fecero ancoro i Tarentini, i quali, sendo gl’eserciti
romani allo Incontro dell’esercito de’Sanniti, mandorono ambasciadori al
consolo romano, a fargli intendere come ci volevano pace intra quelli duoi
popoli, e come erano per fare guerra centra a quello che dalla pace si
discostasse, talché il consolo, ridendosi di questa proposta, alla presenza di
detti ambasciadori fa sonare a battaglia, ed al suo esercito comandò che anda a
trovare il nimico, mostrando ai Tarentini col1’opera e non colle parole – GRICE
A MAN OF WORDS AND NOT OF DEEDS IS LIKE A GARDEN FULL OF WEEDS -- di che
risposta essi erano degni. Ed avendo ragionato dei parliti che pigliano i
principi al contrario pella difesa d’altrui, voglio parlare di quelli che si
pigliano pella difesa propria. Scegli è meglio, temendo d’essere assaltalo o
inferire, o aspettare la guerra. lo lio sentito d’uomini assai pratichi nelle
cose della guerra qualche volta disputare, se sono duoi principi quasi d’eguali
forze, se quello più gagliardo abbi bandito la guerra contra a quello altro,
quale sia miglior partito per Poltro; o aspettare il nimico dentro ai confini
suoi, o andarlo a trovare in casa, ed assaltare lui: e ne fio sentito addurre
ragioni d’ogni parte. E chi difende l’andare assaltare altrui, n’allega il
consiglio che Creso da a Ciro, quando arrivato in su’confini de’Massageli per
fare lor guerra, la lor regina Tarniri gli manda a dire, ch’elegge quale
de'duoi partiti volesse; o entrare nel regno suo, dovè essa Ip aspetterebbe; o
volesse che ella venisse a trovar lui. E venuta la cosa in disputazionc, Creso,
contra all’oppinione degl’altri, dice che s’andasse a trovar lei; allegando che
s’egli la vince discosto al suo regno, che non gli torrebbe il regno, perchè
ella arebbe tempo a rifarsi; pia se la vince dentro a’suoi confini, potrebbe
seguirla in su la fuga, e non le dando spazio a rifarsi, torli io Stato. Allegane
ancora il consiglio che da Annibaie ad Antioco, quando quel re disegna fare
guerra ai Romani: dove ei mostra come i Romani non si potevano vincere se non
in Italia, perchè quivi altri si poteva valere delle arme e delle ricchezze e
degl’amici loro; chi gli combatte fuora d’Italia, e lascia loro l’Italia
libera, lascia loro quella fonte, che mai li manca vita a somministrare forze
dove bisogna; e conchiuse che ai Romani si poteva prima torre Roma che
l’imperio; prima l’Italia che l’altre provincie. Allega ancora Agatocle che non
potendo sostenere la guerra di casa, assalta i Cartaginesi clic glieuc
facevano, e gli ridusse a domandare pace. Allega SCIPIONE che per levare la
guerra d’Italia, assalta l’Affrica. Chi parla al contrario dice, che chi vuole
fare capitare male uno nimico, lo discosti da casa. Allegane gl’Ateniesi, che
mentre che feciono la guerra comoda alla casa loro, restarono superiori; e come
si discostarono, ed andarono cogl’eserciti in Sicilia, perderono la libertà.
Allega le favole poetiche, dove si mostra che Anteo, re di Libia, assaltato da
Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che Io aspettò dentro a’confini del suo
regno; ma come e’se ne discosto per astuzia di Ercole, perdè lo Stalo e la
vita. Onde è dato luogo alla favola di Anteo, che sendo in terra ripiglia le
forze da sua madre, che era la Terra; e che Ercole avvedutosi di questo, lo
leva in alto, e discostollo dalla terra. Allegane ancora i giudizi moderni.
Ciascuno sa come Ferrando re di Napoli fu ne’suoi tempi tenuto uno savissimo
principe: e venendo la fama, duoi anni avanti la sua morte, come il re di
Francia Carlo Vili voleva venire ad assaltarlo, avendo fatte assai
preparazioni, ammalò; e venendo a morte, intra gli altri ricordi che lasciò ad
Alfonso suo figliuolo, fu che egli aspettasse il nimico dentro al regno; e per
cose del mondo non traesse forze fuori dello Stato suo, ma lo aspettasse dentro
aisuoi confini tutto intero; il che non fuosservato da quello; ma mandato uno
esercito in Romagna, senza combattere perdè quello c lo Stato. Le ragioni che,
oltre alle cose dette, da ogni parte si adducono, sono: che chi assalta viene
con maggiore animo che chi aspetta, il che fa più confidente lo esercito;
toglie, oltra di questo, molte comodità al nimico di potersi valere delle sue
cose, non si potendo valere di quei sudditi che sieno saccheggiati; e per avere
il nimico in casa, è constretto il signore avere più rispetto a trarre da loro
danari ed affaticargli: sicché e’viene a seccare quella fonte, come dice
Annibaie, che fa che colui può sostenere la guerra. Oltre di questo, i suoi
soldati, per trovarsi ne’paesi d’ altrui, sono più necessitati a combattere; e
quella nccessila fa virtù, come più volte abbiamo detto. Dall’altra parte si
dice; come aspettando il nimico, si aspetta con assai vantaggio, perchè senza
disagio alcuno tu puoi dare a quello molti disagi di vettovaglia, e d’ogni
altra cosa che abbia bisogno uno esercito: puoi meglio impedirli i disegni
suoi, per la notizia del paese cheta hai più di lui: puoi con più forze incontrarlo,
per poterle facilmente tutte unire, ma non potere già tutte discostarle da
casa: puoi sendo rotto rifarti facilmente; sì perchè del tuo esercito se ne
salverà assai, per avere i rifugi propinqui; si perchè il supplemento non ha a
venire discosto: tanto che tu vieni arrischiare tutte le forze, e non tutta la
fortuna; e discostandoti, arrischi tutta la fortuna, e non tutte le forze. Ed
alcuni sono stati che per indebolire meglio il suo nimico, Io lasciano entrare
parecchie giornate in su il paese loro, e pigliare assai terre; acciò che
lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo esercito, e possiulo dipoi
combattere più facilmente. Ma, per dire ora io quello che io ne intendo, io
credo che si abbia a fare questa distinzione: o io ho il mio paese armato, come
i Romani, o come hanno i Svizzeri; o io l’ho disarmato, come avevano i
Cartaginesi, o come Y hanno i re di Francia e gl’Italiani. In questo caso, si
debbe tenere il nimico discosto a casa; perchè scudo la tua virtù nel danaio e
non negli uomini, qualunque volta ti è impedita la via di quello, tu sei
spacciato; nè cosa veruna te lo impedisce quanto la guerra di casa. In essempi
ci sono i Cartaginesi; i quali mentre che ebbero la casa loro libera, poterono
colle rendite fare guerra con i Romani; e quando la avevano assaltata, non
potevano resistere ad Agatoeie. I Fiorentini non avevano rimedio ulcuuo con
Castruccio signore di Lucca, perchè ci faceva loro la guerra in casa; tanto che
gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re Roberto di Napoli. Ma morto
Castruccio, quelli medesimi Fiorentini ebbero animo di assaltare il duca di
Milano in casa, ed operare di torgli il regno: tanta virtù monstrarono nelle
guerre louginque, e tanta viltà nelle propinque. Ma quando i regni sono armati,
come era armata Roma e come sono i Svizzeri, sono più difficili a vincere
quanto più ti appressi loro: perchè questi corpi possono unire più forze a
resistere ad uno impeto, che non possono ad assaltare altrui. Nè mi muove in
questo caso I’autorità di Annibaie, perchè la passione e Y utile suo gli faceva
cosi dire ad Antioco. Perchè, se i Romani avessino avute in tanto spazio di
tempo quelle tre rotte in Francia ch’egli ebbero in Italia da Annibaie, senza
dubbio erano spacciati: perchè non si sarebbono valuti de’residui degli
eserciti, come si valsono in Italia; non arebbono avuto a rifarsi quelle
comodità; nè potevano con quelle forze resistere ai nimico, che poterono. Non
si trova che, per assaltare una provincia, loro mandassino mai fuora eserciti
clic passassino cinquantamila persone; ma per difendere la casa ne misono in
arme conira ai Franciosi, dopo la prima guerra punica, diciotto centinaia di
migliaia. Nè arebbono potuto poi romper quelli in Lombardia, come gli ruppono
in Toscana; perchè contro a tanto numero di ninnici non arebbono potuto
condurre tante forze sì discosto, nè combattergli con quella comodità. I Cimbri
ruppono uno esercito romano in la Magna, nè vi ebbono i Romani rimedio. Ma come
egli arrivorono in Italia, e che poterono mettere tutte le loro forze insieme,
gli spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli fuori di casa, dove e’non
possono mandare più che un trenta o quarantamila uomini; ma vincergli in casa,
dove e’ne possono raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiuggo adunque di
nuovo, che quel principe che ha i suoi popoli armati ed ordinali alla guerra,
aspetti sempre in casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia a
rincontrare: ma quello che ha i suoi sudditi disarmati, ed il paese inusitato
della guerra, se la discosti sempre da casa il più che può. E così r uno e
l’altro, ciascuno nel suo grado, si difenderà meglio. Che si viene di bassa a
gran fortuna più colla fraude che colla forza. Io stimo essere cosa verissima,
che rado, o non mai, intervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a
gradi grandi, senza la forza e senza la fraude; purché quel grado al quale
altri è pervenuto, non ti sia o donalo, o lasciato per eredità. Xè credo si
truovi mai che la forza sola basti, ma si troverà bene che la fraude sola
basterà: còme chiaro vedrà colui che legge la vita di Filippo di Macedonia,
quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili, che d’infima ovvero di
bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o ad imperi grandissimi. Mostra
Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità dell’ingannare; consideralo
che la prima ispedizione che fa fare a Ciro contea il re d’Armenia, è piena di
fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fa occupare il suo regno; e
non conchiude altro per tale azione, se non che ad un principe che voglia fare
gran cose, è necessario imparare a ingannare. Fagli, olirà di questo, ingannare
Ciassare, re de’Medi, suo zio materno, in più modi; senza la quale fraude
mostra che Ciro non poteva pervenire a quella grandezza che venne. Nè credo che
si truovi mai alcuno constiluito in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio
solo colla forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene solo colla fraude: come fa
Galeazzo per tor lo Stato e lo imperio di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E
quei che sono necessitati fare i principi ne’principi! degli augumenti loro,
sono ancora necessitate a fare le repubbliche, infimo che le sieno diventate
potenti, e che basti la forza sola. E perchè Roma tenne in ogni parte, o per
sorte o per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò
ancora di questo. Nè potè usare, nel principio, il maggiore inganno, che
pigliare il modo di sopra discorso da noi, di farsi compagni; perchè sotto
questo nome se li fece servi: come furono i Latini, ed altri popoli
all’intorno. Perchè prima si valse dell’arme loro in domare i popoli convicini,
e pigliare la riputazione dello Stato: di poi, domatogli, venne in tanto
augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i Latini non si avviddono mai di
essere al tutto servi, se non poi che viddono dare due rotte ni Sanniti, e
costrettigli ad accordo. La (piale vittoria, come ella accrebbe gran
riputazione ai Romani eoi principi longinqui, clic mediante quella sentirono il
nome romano e non l’armi; così generò invidia e sospetto in quelli che vedevano
e sentivano l’armi, intra i quali furono i Latini. E tanto potè questa invidia
e questo timore, che non solo i Latini, ma le colonie che essi avevano in
Lazio, insieme con i Campani, stati poco innanti difesi, congiurarono contra al
nome romano. E mossono questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra,
che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non i Romani, ma
difendendo i Sidicini contra ai Sanniti; a’quali i Sanniti facevano guerra con
licenza de’Romani. E che sia vero che i Latini si movessino per avere
conosciuto questo inganno, lo dimostra L. nello bocca di Annio Setiuo pretore
latino, il quale nel consiglio loro disse queste parole: Nam, si etìam mine sub
umbra feederis cequi servitutem pati possumus etc. Yedesi pertanto i Romani
ne’primi augumenti loro non essere mancati eziam della fraude; la quale fu
sempre necessaria ad usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi
gradi salire: la quale è meno vituperabile quanto è più coperta, come fu questa
de’Romani. Ingannatisi molte volle gli uomini j credendo coll’umilila vincere
la superbia.Vedesi molle volte come l’umilila non solamente non giova, ma
nuoce, massimamente usandola cogl’uomini insolenti, che, o per invidia o per
altra cagione, hanno concetto odio teco. Di che ne fa fede lo istorico nostro
in questa cagione di guerra intra i Romani ed i Latini. Perchè, dolendosi i
Sanniti con i Romani, che i Latini gli avevano assaltati, i Romani non vollono
proibire ai Latini tal guerra, desiderando non gli irritare: il che non
solamente non gli irritò, ma gli fece diventare più animosi contro a loro, e si
scopersono più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal prefato
Annio pretore latino nel medesimo concilio, dove dice: Tentaslis patientiam
negando mililem: (jais dubitai cxarsisse eos ? Pcrtulerunt (amen hunc dolorem.
Excrcitus nos parare adversus Snmnilcs feederatos suos audierunl, ncc mnverunt
se ab urbe. I
Inde hcec illis tanta modestia j, ni si a eonscienlia virium, et n os trarum,
et suarum? Conoscesi, pertanto,
chiarissimo per questo testo, quanto la pazienza de’Romani accrebbe l’arroganza
de’Latini. E però, mai uno principe debbe volere mancare del grado suo, e non
debbe mai lasciare alcuna cosa d’accordo, volendola lasciare onorevolmente, se
non quando e’la può, o e’si crede che la possa tenere: perchè gli è meglio
quasi sempre, sendosi condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare
nel modo detto, lasciarsela torre colle forze che con la paura delle forze.
Perchè se tu la lasci con In paura, lo fai per levarli la guerra, ed il più
delle volte non te la lievi: perche colui a chi tu arai con una viltà scoperta
concesso quella, non starà saldo, rao ti vorrà torre delle altre cose, e si
accenderà più contra di te, stimandoti meno; e dall'altra parte, in tuo favore
troverai i difensori più freddi, parendo loro che tu sia o debole, o vile: ma
se tu, subito scoperta la voglia dello avversario, prepari le forze, ancoraché
le siano inferiori a lui quello ti comincia a stimare; stimanti più gli altri
principi allo intorno; ed a tale viene voglia di aiutarti, sendo in su P arme,
che abbandonandoti non ti aiuterebbe mai. Questo si intende quando tu abbia uno
inimico; ma quando ne avessi più, rendere delle cose che tu possedessi ad
al’euno di loro per riguadagnarselo, ancoraché fusse di già scoperta la guerra,
e per smembrarlo dagli altri confederati tuoi inimici, fia sempre partito
prudente. Gli Stati deboli sempre fieno ambigui nel risolversi: e sempre le
deliberazioni lente sono nocive.in questa medesima materia, ed in questi
medesimi principi! di guerra intra i Latini ed i Romani, si può notare come in
ogni consulta è bene venire allo individuo di quello die si ha a deliberare, e
non stare sempre in ambiguo, nè in su lo incerto della cosa. Il che si vede
manifesto nella consulta che feciono i Latini, quando c’pensavano alienarsi
da’Romani. Perchè avendo presentito questo cattivo umore che ne’popoli latini
era entrato, i Romani, per eertificarsi della cosa, c per vedere se potevano
senza mettere mano all’arme riguadagnarsi quelli popoli, fecero loro intendere,
come e’mandassero a Roma otto cittadini, perchè avevano a consullare colloro. I
Latini, inteso questo ed avendo conscienza di molte cose fatte centra alla
voglia de’Romani, fcciono consiglio per ordinare chi dovesse ire a Roma, e
dargli commissione di quello ch’egli avesse a dire. Estando nel consiglio in
questa disputa, ANNIO loro pretore disse queste parole: Ad sumiuam veruni
nostrarum pertinerc arbitrar, ut vogilctis magis, quid agendum nobis, quam quid
loqucndum sii. Facile crii, cxphcatis consiliis j accommodarc rebus nerba.
Sono, senza dubbio, queste parole verissime, e debbono essere da ogni principe
e da ogni repubblica gustate: perchè nell’ambiguità e nell’incertitudine di
quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole; ma fermo una
volta 1’animo, e deliberalo quello sia da eseguire, è facil cosa trovarvi le
parole, lo ho notato questa parte più volentieri, quanto io ho molte volte
conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle pubbliche azioni, con danno i’con
vergogna della repubblica nostra. E sempre mai avverrà, che ne’partiti ilubbii,
e dove bisogni animo a deliberargli, sarà questa ambiguità, quando abbino ad
esser consigliati e deliberati d’uomini deboli. Non sono meno nocive ancora le
deliberazioni lente e tarde, che ambigue; massime quelle che si hanno a
deliberare in favore di alcuno amico: perchè colla lentezza loro non si aiuta
persona, e nuocesi a sè mede simo. Queste deliberazioni così fatte procedono o
da debolezza d’animo e ili forze, o da malignità di coloro che hanno a
deliberare; i quali, mossi dalla passimi propria di volere rovinare lo Stato o
adempire qualche suo desiderio, non lasciano seguire la deliberazione, ma la
impediscono e l’attraversano. Perchè i buoni cittadini, ancora che vegghino una
foga popolare voltarsi alla parte perniciosa, mai impediranno il deliberare,
massime di quelle cose che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo liranno
in Siracusa, essendo la guerra grande intra i Cartaginesi ed i Romani, vennono
i Siracusani in disputa se dovevano seguire l’amicizia romana o la cartaginese.
E tanto era l’ardore delle parti che la cosa sta ambigua, uè se ne prende
alcuno partito; insino a tanto che Apollonide, uno de’primi in Siracusa, con
una sua orazione piena di prudenza, mostrò come non era da biasmare chi teneva
E oppinione ili aderirsi ai Romani, nè quelli che volevano seguire la parte
cartaginese; ma era bene da detestare quell’ambiguità e tardità di pigliare il
partito, perchè vede al tutto in tale ambiguità la rovina della repubblica; ma
preso che si fusse il partito, qualunque e’si fosse, si poteva sperare qualche
bene. Nè potrebbe mostrare più L. che si faccia in questa parte, il danno che
si tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo ancora in questo caso de’Latini:
perchè, sendo i Latini ricerchi da loro gli stessine neutrali, e che il re
venendo in Italia gli avesse a mantenere nello Stato e ricevere in proiezione:
e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu differita tale ratificazione
da chi per poca prudenza favoriva le cose di Lodovico: intantoehè, il re già
sendo in su la vittoria, e volendo poi i Fiorentini ratificare, non fu la
ratificazione accettata; come quello che conobbe i Fiorentini essere venuti
forzati, e non voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla città di Firenze
assai danari, e fu per perdere lo Stato: come poi altra volta per simile causa
li intervenne. E tanto più fu dannabile quel partito, perchè non si servi
ancora il duca Lodovico; il quale se avesse vinto, arebbe mostri molti più
segni d’inimicizia conira ai Fiorentini, che non fece il re. E benché del male
che nasce alle repubbliche di questa debolezza se ne sia di sopra in uno altro
capitolo discorso; nondimeno, avendone di nuovo occasione per un nuovo
accidente, ho voluto replicarne, parendomi, massime, materia che debba esser
dalie repubbliche simili alla nostra notala. Quanto i soldati ne’nostri tempi
si disformino dall’anttcht ordini. ha più importante giornata che fu mai fatta
in alcuna guerra con alcuna nazione dal Popolo romano, fu questa che ei fece
con i popoli latini, nel consolato di Torquato e di Decio. Perchè ogni ragione
vuole, che cosi come i Latini per averla perduta diventarono servi, così
sarebbono stati servi i Romani, quando non l’avessino vinta. E di questa
oppinone è L.; perchè in ogni parte fa gl’eserciti pari d’ordine, di virtù,
d’ostinazione c di numero: solo vi fa differenza, che i capi dell’esercito
romano furono più irtuosi che quelli dell’esercito latino. Yedesi ancora come
nel maneggio di questa giornata nacquero duoi accidenti non prima nati, e che
di poi hanno rari esempi: che de’duoi Consoli, per tenere fermi gl’animi
de’soldati, ed ubbidienti al comandamento loro, e diliberati al combattere,
1’uno ammazzò sè stesso, e I’altro il figliuolo. La parità, che L. dice essere
in questi eserciti, era che, per avere militato gran tempo insieme, erano pari
di lingua, d’ordine e d’arme: perchè nell’ordinare la zuffa tenevano uno modo
medesimo $ e gl’ordini ed i capi degl’ordini avevano medesimi nomi. Era dunque
necessario, sondo di pari forze e di pari virtù, che nascesse qualche cosa
istraordinaria, che fermasse e facesse più ostinati gl’animi dell’uno che
dell’altro: nella quale ostinazione consiste, come altre volte si è detto, la vittoria;
perchè, mentre che la dura ne’petti di quelli che combattono, mai non danno
volta gl’eserciti. E perchè la durasse più ne’petti de’Romani che de’Latini,
parte la sorte, parte la virtù de’Consoli fece nascere, che Torquato ebbe ad
ammazzare il figliuolo, e Decio sè stesso. Mostra L., nel mostrare questa
purililà di forze, tutto l’ordine che tenevano i Romani nell’eserciti e nelle
zuffe. Il quale esplicando egli largamente, non replicherò altrimenti; ma solo
discorrerò quello che io vi giudico notabile, e quello che per essere negletto
da tutti i capitani di questi tempi, ha fatto negli eserciti e nelle zuffe di
molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si raccoglie, come lo
esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali toscanamente si
possono chiamare tre schiere; e nominavano la prima astati, la seconda
principi, la terza triarii: e ciascuna di queste aveva i suoi cavalli.
Nell’ordinare una zuffa, ei mettevano gl’astatiinnanzi; nel secondo luogo, per
diritto, dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi; nel terzo, pure nel
mede»imo filo, collocano i triadi. I cavalli di tulli questi ordini gli
ponevano a destra ed a sinistra di queste tre battaglie; le schiere de’quali
cavalli, dalla forma loro e dal luogo, si chiamavano alce, perchè parevano come
due alie di quel corpo. Ordinavano la prima schiera delli astati, che era nella
fronte, serrata in modo insieme che la potesse spignere e sostenere il nimico.
La seconda schiera de’principi, perchè non era la prima a combattere, ma bene
le conveniva soccorrere alla prima quando fusse battuta o urtata, non la
facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi, e di qualità che la
potesse ricevere in sè senza disordinarsi la prima, qualunque volta, spinta dal
nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza schiera de’triadi aveva ancora
gl’ordini più radi che la seconda, per potere ricevere in sè, bisognando, le
due prime schiere de’principi e degli astati. Collocate, dunque, queste schiere
in questa forma, appiccavano la zuffa: e se gl’astati erano sforzati o vinti,
si ritiravano nella radila degl’ordini de’principi; e tuttiinsieme uniti, fatto
di due schiere un J corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora erano
ributtati e sforzati, si ritiravano tutti nella radila degl’ordini de’trioni; e
tutte tre le schiere diventate un corpo, rinnovavano la zuffa: dove essendo
superati, per non avere più da rifarsi, perdeno la giornata. E perchè ogni
volta che questa ultima schiera de’triarii si adopera, lo esercito era in
pericolo, ne nacque quel proverbio: Res redacta est ad triarios; che ad uso
toscano vuol dire: Noi abbiamo messo I’ultima posta. I capitani dei nostri
tempi, come egli hanno abbandonato tutti gli altri ordini, e della antica
disciplina ei non ne osservano parte alcuna, cosi hanno abbandonata questa
parte, la quale non è di poca importanza: perchè chi si ordina da potersi nelle
giornate rifare tre volte, ha ad avere tre volte inimica la fortuna a volere
perdere, ed ha ad avere per riscontro una virtù che sia atta tre volte a
vincerlo. Ma chi non sta se non in su M primo urto, come stanno oggi gli
eserciti cristiani, può facilmente perdere; perchè ogni disordine, ogni mezzana
virtù gli può torre la vittoria. Quello che fa agli eserciti nostri mancare di
potersi rifare tre volte, è lo avere perduto il modo di ricevere I una schiera
uelP altra. Il che nasce perchè al presente sf ordinano le giornate con uno di
questi duoi disordini: o ei mettono le loro schiere a spalle P una delP altra,
e fanno la loro battaglia larga per traverso, e sottile per diritto; il che la
fa più debole, per aver poco dal petto alle schiene. E quando pure, per farla
più forte, ei riducono le schiere per il verso de’ Romani, se la prima fronte è
rotta, non avendo ordine di essere ricevuta dalla seconda, s’ingarbugliano
insieme tutte, e rompono sè medesime: perché se quella dinanzi è spinta, ella
urta la seconda; se la seconda si vuol far innanzi, ella è impedita dalla
prima: donde che urlando la prima la seconda, e la seconda la terza, ne nasce
tanta confusione, che spesso uno minimo accidente rovina uno esercito. Gli
eserciti spagnuoli e franciosi nella zuffa di Ravenna, dove mori monsignor de
Pois, capitano delle genti di Prandi (la quale fu, secondo i nostri tempi,
assai bene combattuta giornata) s’ordinarono con uno de’soprascritti modi; cioè
clic l’uno e1’altro esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle: in
modo che non venivano avere nè 1’uno nè 1’altro se non una fronte, ed erano
assai più per il traverso cìie per il diritto. E questo avviene loro sempre
dove egli hanno la campagna grande, come gli avevano a Ravenna: perché,
conoscendo il disordine che fanno nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo
fuggouo quando e’possono col fare la fronte larga, coni’ t detto; ma quando il
paese gli ristringe, si stanno nel disordine soprascritto, senza pensare il
rimedio. Con questo medesimo disordine cavalcano per il paese inimico, o se
e’predano, o se e’ fanno altro maneggio di guerra. Ed a santo Regolo in quel di
Pisa, ed altrove, dove i Fiorentini furono rotti da' Pisani ne’tempi della
guerra che fu tra i Fiorentini e quella città, per la sua ribellione dopo la
passata di Carlo re di Francia in Italia, non nacque tal rovina d’altronde,
clic dalla cavalleria amica; la quale sendo davanti e ributtata da’nimici,
percosse nella fanteria fiorentina, e quella ruppe: donde tutto il restante
delle genti dierono volta: e messcr Ciriaco dal Borgo, capo antico delle
fanterie fiorentine, ha affermato alla presenza mia molte volle, non essere mai
stato rotto se non dalla cavalleria degli amici. 1 Svizzeri, che sono i maestri
delle moderne guerre, quando ei militano coi Franciosi, sopra tulle le cose
hanno cura di mettersi in lato, che la cavalleria amica, se fusse ributtata,
non gli urti. E benché queste cose paiano facili ad intendere, e facilissime a
farsi; nondimeno non si è trovato ancora alcuuo de’nostri contemporanei
capitani, che gl’antichi ordini imiti, e gli moderni corregga. E benché
gl’abbino ancora loro tripartito l’esercito, chiamando 1’una parte antiguardo,
l’altra battaglia e l’altra retroguardo; non se ne servono ad altro che a
comandargli nelli alloggiamenti: ma nello adoperargli, rade volte è, come di
sopra è detto, che a tutti questi corpi non faccino correre una medesima
fortuna. E perchè molti, per scusare l’ignoranza loro, allegano che la violenza
dell’artiglierie non patisce che in questi tempi s’usino molti ordini
degl’antichi, voglio disputare questa materia, ed esaminare se l’artiglierie
impediscono che non si possa usare l’antica virtù. Quanto si debbino sii inave
dagl’eserciti ne'presenti tempi l’artiglierie; e se quella oppiatone che se ne
ha in universale j è vera. Considerando io, oltre alle cose soprascritte,
quante zuffe campali (chiamate ne’ nostri tempi, con vocabolo francioso, giornate,
e dagl’Italiani fatti d’arme) furono fatte dai Romani in diversi tempi; mi è
venuto in considerazione l’oppinione universale di molti, che vuole che se in
quelli tempi fussino state le artiglierie, non sarebbe stato lecito a’Romani,
nè sì facile, pigliare le provincie; farsi tributari i popoli, come e’feciono;
nè arebbono in alcuno modo fatti si gagliardi acquisti. Dicono aiTcora, che
mediante questi instrumenti de’fuochi, gli uomini non possono usare nè mostrare
la virtù loro, come e’ potevano anticamente. E soggiungono una terza cosa: che
si viene con piu diflìeultà alle giornale che non si veniva allora, nè vi si
può tenere dentro quegli ordini di quelli tempi; talché la guerra si ridurrà
col tempo in su le artiglierie. E giudicando non fuora di proposito disputare
se tali oppiuioui sono vere, e quanto l’artiglierie abbino cresciuto o
diminuito di forze agl’eserciti, e se le tolgano o danno occasione ai buoni
capitani d’operare virtuosamente; comiucerò a parlare quanto alla prima loro
oppinione: che gl’eserciti antichi romani non arebbono fatto gl’acquisti che
feciono, se l’artiglierie lussino state. Sopra che, rispondendo, dico: come
e’si fa guerra o per difendersi, o per offendere; donde si ha prima ad
esaminare a quale di questi duoi modi di guerra le faccino più utile, o più
danno. E benché sia che dire fla ogni parte, nondimeno io credo che senza
comparazione faccino più danno a chi si difende, che a chi offende. La ragione
che io ne dico è, che quel che si difende, o egli è dentro a una terra, o egli
è in su’campi dentro ad uno steccato. S’egli è dentro ad una terra, o questa
terra è piccola, come sono la maggior parte delle fortezze, o la è grande. Nel
primo caso, chi si difende è al tutto perduto, perchè l’impeto delle
artiglierie è tale che non trova muro, ancoraché grossissimo, che in pochi
giorni ei non abbatta; e se chi è dentro non ha buoni spazi da ritirarsi e con
fossi e con ripari, si perde. Nè può sostenere 1’impeto del nimico che volesse
di poi entrare pella rottura del muro, nè a questo gli giova artiglieria ch’ha:
perchè questa è una massima, che dove gl’uomini in frotta e con impeto possono
andare, l’artiglierie non gli sostengono. Però i furori oltramontani nella
difesa delle terre non sono sostenuti: son bene sostenuti gl’assalti italiani,
i quali non in frolla, ma spicciolati si conducono alle battaglie, le quali
loro, per nome mollo proprio, chiamano scaramuccio. E qucsli che vanno con
questo disordine e questa freddezza ad una rottura d’un muro dove sia
artiglierie, vanno ad una manifesta morte, c conira a loro l’artiglierie
vogliono: ma quelli clic in frotta condensati, e che l’uno spinge l’altro,
vengono ad una rottura, se non sono sostenuti o da fossi o da ripari, entrano
in ogni luogo, e l’artiglierie non gli tengono; e se ne muore qualcuno, non
possono essere tanti che gl’impedischino la vittoria. Questo esser vero, si è
conosciuto in molte espugnazioni fatte dagl’oltramontani IN ITALIA, e massime
in quella di BRESCIA: perchè, sendosi quella terra ribellata da’Franciosi, e
tenendosi ancora per il re della Gallia la fortezza, hanno I VENEZIANI, per
sostenere l’impeto che ila quella potesse venire nella terra, munita tutta la
strada d’artiglierie che dalla fortezza alla città scende, e postane a fronte e
ne’fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno. Delle quali monsignor di Fois non
fa alcuno conto; anzi quello con il suo squadrone, disceso a piede, passando
pel mezzo di quelle, occupa la città, nè per quelle si sentì eli’egli avesse
ricevuto alcuno memorabile danno. Talché, chi si difende in una terra piccola,
conte è detto, e trovisi le mura in terra, e non ha spazio di ritirarsi con i
ripari e con fossi, ed hasi a fidare in su l’artiglierie, si perde subito. Se
tu difendi tuta terra gronde, e che tu hai comodità di ritirarti, sono
nondiinanco senza comparazione più utili l’artiglierie a chi è di fuori, che a
chi è dentro. Prima, perchè a volere ch’una artiglieria nuoca a quelli che sono
di fuora, tu sei necessitato levarti con essa dal piano della terra; perchè,
stando in sul piano, ogni poco d’argine e di riparo che il nimico fa, rimane
sicuro, e tu non gli puoi nuocere. Tanto che avendoti ad alzare, e tirarti sul
corridoio delle mura, o in qualunque modo levarti da terra, tu ti tiri dietro
due difficoltà. La prima, che non puoi condurvi artiglieria della grossezza e
della potenza che può trarre colui di fuora, non si potendo ne’piccoli spazi
maneggiare le cose grandi. L’altra, che quando bene tu ve la potessi condurre,
tu non puoi fare quelli ripari fedeli e sicuri, per salvare detta artiglieria,
che possono fare quelli di fuora, essendo in su terreno, ed avendo quelle
comodità e quello spazio che loro medesimi vogliono: talmentechè, gli è
impossibile a chi difende una terra, tenere l’artiglierie ne’luoghi alti,
quando quelli che soli di fuora abbino assai artiglierie e polenti; e se egli
hanno a venire con essa ne’luoghi bassi, ella diventa in buona parte inutile.
Talché la difesa della città si ha a ridurre a difenderla colle braccia, come
anticamente si fa, e colla artiglieria minuta: di che se si trae un poco
d’utilità rispetto a quella artiglieria minuta, se ne cava incomodità che
contrappesa alia comodità della artiglieria; perchè, rispetto a quella, si
riducono le mura delle terre, basse e quasi sotterrate ne’fossi: talché, com’e’si
viene alle battaglie di mano, o per essere battute le mura o per essere ripieni
i fossi, ha chi è dentro molti più disavvantaggi che non ha allora. E però si
disse giovano questi instrumenti molto più a chi campeggia le terre che a chi è
campeggiato. Quanto alla cosa di ridursi in uno campo dentro ad uno steccato
per non fare giornata, se non a tua comodità o vantaggio. Dico che in questa
parte tu non hai più rimedio ordinariamente a difenderti di non combattere, che
s’avessino gl’antichi; e qualche volta, per conto dell’artiglierie, hai
maggiore disavvantaggio. Per chè, s’il nimico ti giunge addosso, ed ha un poco
di vantaggio del paese, come può facilmente intervenire; e truovìsi più alto di
te; o che nello arrivare alio tu non hai ancora fatti i gini, e copertoli bene
con que luto, e senza che tu hai alcun ti disalloggia, e sei forzato usci
fortezze tue, e venire alla zuffa intervenne agli Spagnuoli nel nata di RAVENNA
i quali essent nili tra il fiume del Ronco ed gine, per non l’avere tirato U
che bastasse, e per avere i Frai poco il vantaggio del terreno, constretti
dall’artiglierie usci fortezze loro, e venire alla zi dato, come il più delle
volte de sere, che il luogo che tu hai coll campo è più eminenti altri
all’incontro, e che gli ar; sino buoni e sicuri, tale che, r il sito e 1’altre
tue preparazio miro non ardisse d’assaltarti; in questo caso a quelli modi c
cainente si veniva, quando uno il suo esercito in lato da non pi sere offeso: i
quali sono, co paese, pigliare o campeggiare le terre tue amiche, impedirti le
vettovaglie; tanto che tu sarai forzato da qualche necessità a disalloggiare, e
venire a giornata; dove l’artiglierie non operano molto. Considerato, adunque,
di quali ragioni guerre feciono i Romani, e reggendo come ei feciono quasi tutte
le lor guerre per offendere altrui, e non per difender loro; si vedrà, quando
sieno vere le cose dette di sopra, come quelli arebbono avuto più vantaggio, e
piu presto arebbono fatto i loro acquisti, se le fussino state in quelli tempi.
Quanto alla seconda cosa, che gl’uomini non possono mostrare la virtù loro,
come ei potevano anticamente, mediante l’artiglieria; dico eh’egli è vero, che
dove gl’uomini spicciolati si hanno a mostrare, eh’e’portano più pericoli che
allora, quando avessino a scalare una terra, o fare simili assalti, dove
gl’uomini non ristretti insieme, ma di per sè 1’uno dall’altro avessiuo a
comparire. E vero die gli capitoni e capi degli stanno sottoposti più al perii!
morte che allora, potendo esser con le artiglierie in ogni lu giova loro lo
essere nelle ultii «Ire, e muniti di uomini fortissi dimeno si vede che l’uno c
P questi duoi pericoli fanno ra danni istraordinari: perchè munite bene non si
scalano, i con assalti deboli ad assaltarh volerle espugnare, si riduce la una
ossidionc, come anticamen ceva. Ed in quelle clic pure pe si espugnano, non
sono molto i pericoli che allora: perchè n cavano anche in quel tempo a fendeva
le terre, cose da trarre se non erano si furiose, facevam all’ammazzare gli
uomini, *il s fello. Quanto alla morte de’ci de’condottieri, ce ne sono, in v
tro anni che sono state le guerre simi tempi in Italia, meno esempi, che non
era in dieci anni di tempo appresso agii antichi. Perchè, dal conte Lodovico
della Mirandola, che morì a Ferrara quando i Veniziani pochi anni sono
assaltarono quello Stato, ed il Duca di Nemors, che muore alla Ciriguuola, in
fuori; non è occorso che d’artiglierie ne sia morto alcuno; percdiè monsignor
di Pois a Ravenna mori di ferro, e non di fuoco. Tanto che, se gli uomini non
dimostrano particolarmente la loro virtù, nasce non dalle artiglierie, ma dai
cattivi ordini, e dalla debolezza degli eserciti; i quali, mancando di virtù
nel tutto, non la possono dimostrare nella parte. Quanto alla terza cosa detta
da costoro, che non si possa venire alle mani, fc che la guerra si condurrà
tutta in su P artiglierie, dico questa oppinione essere al tutto falsa; e così
ila sempre tenuta da coloro che secondo P antica virtù vorranno adoperare gli
eserciti loro. Perchè, chi vuole fare uno esercito buono, gli conviene, con
eser più apertamente questo errore, mare più i cavalli che le fantei uno altro
essempio romano. E Romani a campo a Sora, ed i usciti fuori della terra una tu
cavalli per assaltare il campo, fece all’incontro il Maestro de romano con la
sua cavalleria, e di petto, la sorte dette che nel scontro i capi dell’uno e
dell’alticito morirono; e restali gli alti’governo, e durando nondimeno I i
Romani per superare più faclo inimico, scesono a piede, e cc sono i cavalieri
nimici, se si voi fendere, a fare il simile: e co questo, i Romani ne
riportarom toria. Non può esser questo eì maggiore in dimostrare quanto virtù
nelle fantericche ne’cavag che se nelle altre fazioni i Con cevano discendere i
cavalieri i era per soccorrere alle fanterie i tivano, e che avevano bisogno
ili aiuto; ma in questo luogo e’discesono, non per soccorrere alle fanterie nè
per eombattere con uomini a piè de’nimici, ma combattendo a cavallo co’cavalli,
giudicareno, non potendo superargli a cavallo, potere scendendo più facilmente
vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una fanteria ordinata non possa
senza grandissima diffìcultà esser superata, se non da una altra fanteria.
Crasso e Marc’Antonio romani corsone per il dominio de’Parti molte giornate con
pochissimi cavalli ed assai fanteria, ed all’incontro avevano innumerabili
cavalli de’Parti. Crasso vi rimase con parte dello esercito morto. Marc’Antonio
virtuosamente si salvò. Nondimanco, in queste afflizioni romane si vede quanto
le fanterie prevalevano ai cavalli: perchè essendo in un paese largo, dove i
monti son radi, ed i fiumi radissimi, le marine longinque, e discosto da ogni
comodità; nondimanco Marc’Antonio, al giudicio de’Parti medesimi, mente si
salvò; nè mai ebbe tutta la cavalleria pnrtica te ordini dello esercito suo. Se
rimase, chi leggerà bene le s vedrà come e’vi fu piuttosto che forzato: nè mai,
in tutti sordini, i Parti ardirono di uri sempre andando costeggiando
pedendogli le vettovaglie, prò gli e non gli osservando, lo et od una estrema
miseria. Io avere a durare più fatica in p quanto la virtù delle fanterie lente
ebe quella de’cavalli, fussino assai moderni essenv rendono testimonianza
pieniss è veduto novemila Svizzeri i da noi di sopra allegata, and frontale
diecimila cavalli ed fanti, e vincergli: perchè i cf li potevano offendere: i
fanti, ] gente in buona parte guascoi ordinata, stimavano poco. Yi ventiseimila
Svizzeri andare a trovare sopra Milano Francesco re di Francia, che aveva seco
ventimila cavalli, quarantamila fanti e cento carra d’artiglieria; e se non
vinsono la giornata come a Novara, combatterono due giorni virtuosamente; e
dipoi, rotti che furono, la metà di loro si salvarono. Presunse Marco Regolo
Attilio, non solo con la fanteria sua sostenere i cavalli, ma gli elefanti; e se
il disegno non gli riuscì, non fu però che la virtù della sua fanteria non
fusse tanta, che ei non confidasse tanto in lei che credesse superare quella
difficoltà. Replico, pertanto, che a voler superare i fanti ordinati, è
necessario opporre loro fanti meglio ordinati di quelli: altrimenti, si va ad
una perdita manifesta. Ne’tempi di FilippoVisconti, duca di Milano, scesouo ili
Lombardia circa sedicimila Svizzeri: donde il Duca avendo per capitano allora
il Carmignuola, lo manda con circa mille cavalli e pochi fanti allo incontro
loro. Costui non sappiendo combatter loro, n’anda ad inc nari o d’amici ei non
può tenere lungamente tale esercito, è matto al tuttose non tenta la fortuna
innanzi che tale esercito s’abbia a risolvere: perchèaspettando, ei perde al
certo; tentando, potrebbe vincere. Un’altra cosa ci è ancora da stimare assai:
la quale è, che si debbe, eziandio perdendo, volere acquistar gloria; e più
gloria si ha adesser vinto per forza, che per altro inconveniente che t’abbia
fatto perdere. Sì ch’Annibaie dove essere constretto la queste necessità. E dì
Scipione, quando Anuibaferita la giornata, e non stalo l’animo andarlo a tghi
forti, non pativa, pevinto Siface, e acquistate Affrica, che vi poteva sta
comodità come in Italia, terveniva ad Annibaie, ql’incontro di Fabio; nèciosi,
che erano all’inctzio. Tanto meno ancoragiornata colui che coll’il paese
altrui; perchè, trare nel paese del niiviene quando il nimico scontro,
azzuffarsi seco; er la più corta, e per vincere ogni di (Tic ulta nè dar tempo al
marchese a diliberarsi, ad un tratto mossele sue genti per quella via, cd al
marchese significa gli mandasse le chiavi diquel passo. Talché il marchese,
occupato da questa subita diliberazione, glimandò le chiavi: le quali mai gli
arebbemandate se Pois più lepidamente si fusscgovernato, essendo quel marchese
in legaeoi papa e coi Viniziani, ed avendo uusuo figliuolo nelle mani del papa;
le quali cose gli danno molte oneste scuse a negarle. Ma assaltato dal subito
partito, pelle cagioni che di sopra si dicono, le concesse. Cosi feciono i
Toscanie o i Sanniti, avendo pella presenza dell’esercito di Sannio preso
quelle arme che gli avevano negato per altri tempi pigliare. Qual sia miglior
partito nelle giornale, o sostenere lf impeto de’nimicij c sostenuto urtargli;
ovvero dapprima con furia assaltargli. Erano Decio e Fabio, consoli romani, con
due eserciti all’incontro degli eserciti dei Sanniti e dei Toscani; e
venendoalla zuffa ed alla giornata insieme, è danotare in tal fazione, quale di
due diversi modi di procedere tenuti dai dueConsoli sia migliore. Perchè Decio
conogni impeto e cor ogni suo sforzo assalta il nimico; Fabio solamente lo
sostenne, giudicando V assalto lento essere più utile, riserbando l'impeto
suonell’ultimo, quando il nimico avesse perduto il primo ardore del combattere,
e come noi diciamo, la sua foga. Dove si vede, per il successo della eosa, che
a Fabio riuscì molto meglio il disegno che a Decio: il quale si straccònei
primi impeti; in modo che, vedendo la banda sua piuttosto in volta
diealtrimenti, per acquistare con la morte quella gloria alla quale colla
vittorianon aveva potuto aggiungere, ad imitazione del padre sacrificò sè
stesso perle romane legioni. La qual cosa intesada Fabio, per non acquistare
manco onore vivendo, che s’avesse il suo collega acquistato morendo, spinse
innanzi tutte quelle forze che s’aveva a tale necessità riservate; donde ne
riportò una felicissima vittoria. Di qui si vede che’l modo del procedere di
Fubio è più sicuro e più imitabile. Donde nasce che una famìglia iìi una città
tiene un tempo imedesimi costumi. E’pare clic non solamente 1’una città
dall’altra abbi certi modi ed institutidiversi, e procrei uomini o più duri
opiù effeminati. Ma nella medesima città si vede tal differenza esser nelle
fumiglie l’una dall’altra. H che si riscontraessere vero in ogni città, e nella
città di Roma se ne leggono assai essempi:perché e’si vede i Manlii essere
statiduri ed ostinati, i Pubi icoli uomini benigni ed amatori del popolo, gli
Appiiambiziosi e nimici della Plebe: e cosimolte altre famiglie avere avute
ciascunale qualità sue spartite dall’altre. La qualcosa non può nascere
solamente dal sangue, perchè e’conviene eh’ei varii mediante la diversità dei
matrimoni; ma è necessario venga dalla diversa educazione che ha una famiglia
dall’altra. Perchè gl’importa assai che un giovanetto dai teneri anni cominci a
sentirdire bene o male di una cosa; perchè conviene che di necessità ne faccia
impressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della
vita sua. E se questo non fosse, sarebbe impossibile che tutti gl’Appii
avessino avuta la medesima voglia, c Rissino statiagitati dalle medesime
passioni, come nota L. in molti di loro: e per ultimo, essendo uno di loro
fatto Censore, ed avendo il suo collega alla fine de’diciotto mesi, come ne
dispone la legge, deposto il magistrato, Àppio non lo volle deporre, dicendo
che lo poteva tenere cinque anni secondo la prima legge ordinata dai Censori. E
benchésopra questo se ne facessero assai concioni, e se ne generassino assai
tumulti, non pertanto ci'fu mai rimedio che volesse deporlo, conira alla
volontà delPopolo e della maggior parte del Senato. E chi leggerà l’orazione
che gli fece contro Publio Sempronio tribuno della plebe, vi noterà tutte
l’insolenze oppiane, e tulle le bontà ed umanità usale da infiniti cittadini
per ubbidire alle leggi e dagl’auspicii della loro patria. Che un buon
cittadino per amore della patria debbo dimenticare l’ingiurie’ private.Era
Manlio consolo con l’esercito conira ai Sanniti ed essendo stato in una zuffa
ferito, e per questo portando legenti sue pericolo, giudicò il Senato esser
necessario mandarvi Papirio Cursore dittatore, per sopplire ai difetti del
Consolo. Ed essendo necessario che’l Dittatore fusse nominato da Fabio, il
quale era con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico, che
non volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo,
che,posti da parte gli privati odii, dovesseper benefìzio pubblico nominarlo.
Il che Fabio fece, mosso dalla carità della patria; ancora che col tacere e con
molti altri modi facesse segno che tale nominazione gli premesse. Dal quale
debbono pigliare essempio tutti quelli, che cercano d’essere tenuti buoni
cittadini. Quando si vede fareuno errore grande ad un nimico, si debbe credere
che vi sia sono inganno. Essendo rintaso Fulvio Legato nello esercito che i
Romani avevano in Toscana, per esser ito il Consolo per alcune cerimonie a
Roma; i Toscani, per vedere se potevano avere quello alla tratta, posono un aguato
propinquo ai campi romani, e mandarono alcuni soldati con veste di pastori con
assai armento, e gli feciono venire alla vista dell’esercito romano: i quali
così travestiti s’accostarono allo steccato del campo; onde il Legato
meravigliandosi di questa loro presunzione, non gli patendo ragionevole, tenne
modo ch’egliscoperse la fraude; e cosi restò il diigno de Toscani rotto. Qui si
può comoramente notare, che un capitano dieserciti non debbe prestar fede ad
uno errore che evidentemente si vegga fare al nimico: perchè sempre vi sarà
sottofronde, non sendo ragionevole che gli uomini siano tanto incauti. Ma
spesso il disiderio del vincere acceca gl’animi degl’uomini, che non veggono
altro che quello pare facci per loro. I Franciosi avendo vinti i Romani ad
Allia, e venendo a Roma, e trovando le porte aperte e senza guardia, stettero
tutto quel giorno e la notte senza entrarvi, temendo di fraude, e non potendo
credere clic fusse tanta viltà c tanto poco consiglio ne’petti romani, che gli
nbbandonassino la patria. Quando nel 4508 s’andò per gli Fiorentini a Risa a
campo, Alfonso del Mutolo, cittadino pisano, si trova prigione dei Fiorentini,
e promise che s’egli era libero, darebbe una porta di Pisa all’esercito
fiorentino. Fu costui libero. Di poi, per praticare la cosa, venne molte volte
a parlare coi mandati dc’commissari; e veniva non di nascosto, ma scoperto, ed
accompagnato da’ Pisani; i quali lasciava da parte, quando parla eoi
Fiorentini. Talmentechè si poteva conietturare il suo animo doppio; perchè non
era ragionevole, se la pratica fussc stata fedele, eh’ egli 1’ avesse trattata
sì alla scoperta. Ma il disiderio che s’aveva d’aver Pisa, accecò in modo i
Fiorentini, che condottisi coll’ordine suo alla porta a Lucca, vi lasciarono
più loro capi ed altre genti con disonore loro, pel tradimento doppio che fece
detto Alfonso. Una repubblica, a volerla mantenere libera, ha ciascuno di
bisogno di nuovi provvedimenti; e per guali meriti Quinto Fabio fu chiamato
Massimo. E di necessità, come altre volte s’è letto, che ciascuno dì in una
città grande 'taschino' accidenti che abbino bisogno elei medico; e secondo che
gli importano più, conviene trovare il medico più savio. E se in alcune città
nacquero mai simili accidenti, nacquero in t\oma e strani ed insperati; come fu
quello quando e’parve cha tutte le donne romane avessino congiurato contra ai
loro mariti d’ammazzargli: tante se ne trovò clic gli avevano avvelenati, e
tante eh’ avevano preparato il veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella
congiura de’baccanali, clic si scopri nel tempo dellaguerra macedonica, dove
erano già inviluppati molti migliaia d’uomini e di donne; e se la non si
scopriva, sarebbe stata pericolosa per quella città; o seppure i Romani non
fussino stati consueti a gasligare le muititudiui degl’uomini erranti: perchè,
quando e’non si vedesse per altri infiniti segni la grandezza di quella
Repubblica, e la potenza dell’esecuzioni sue, si vede per la qualità della pena
che la impone a chi erra. Nè dubita far morire per via di giustizia una legione
intera per volta, ed una città tutta; e di confinare ottoo diecimila uomini con
condizioni straordinarie, da non essere osservate da un solo, non che da tanti:
come intervennea quelli soldati che infelicement combatteno a Canne, i quali
confina in Sicilia, e impose loro che non alkergassino in terre, e che
mangiassino ritti. Ma di tutte 1’altre esecuzioni era terribile il decimare
gl’eserciti, dove a scorte da tutto uno esercito è morto d’ogni dieci uno. Nè
si poteva, a gasligare una multitudine, trovare più spaventevole punizione di
questa. Perchè quando una moltitudine erra, dove non sia 1’autore certo, tutti
non si possono gastigare, per esser troppi; punirne parte e parte lasciare
impuniti, si farebbe torto a quelli che si punissino, e gl’impuniti arebbono
animo di errare un’altra volta. Ma ammazzare la decima parte a sorte, quando
tutti la meritano, o, 1'è punito si duole della sorte; ehi non è punito, ha
paura che un’altra volta non tocchi alui, e guardasi di errare. Sono punite,
adunque, le venefiche e le baccanali secondo che meritano i peccali loro. K.
benché questi morbi in una repubblica faccino cattivi effetti, non sono a
morte, perchè sempre quasi s’ha tempo a correggerli: ma non s’ha già tempo in
quelli che riguardano lo stato, i quali se non sono da un prudente corretti,
rovinano la città. Erano in Roma, pella liberalità che i Romani usano di donare
la civilità a’forestieri, nate tante genti nuove, che le comincia avere tanta
parte ne’suffragi, che’l governo comincia a variare, e partivasi da quelle cose
e da quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio
che è censore, mette tutte queste genti nuove da chi dipende questo disordine
sotto quattro tribù, acciocché non potessino, ridotte in si piccioli spazi, corrompere
tutta Roma. È questa cosa ben conosciuta da Fabio, e posto vi senza alterazione
conveniente rimedio; il quale è tanto accetto a quella civilità, che merita
d’esser chiamato Masssirno. Machiavelli a Zanobi Buondelmonti e Rucellai
salute. Tito Livio. Keywords: filosofia romana, Romolo, metafisica e storia,
Grice, Strawson, Pears – when history came o age. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Livio” – The SwmmingPool Library, Villa Speranza. For H. P. G. Grice’s Gruppo
di Gioco. Tito Livio. Refs.: “Luigi Speranza, “Grice e Livio”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Lodovici: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della virtù – verso la meta – la meta è l’origine – la scuola
di Messina -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Messina). Abstract.
Grice: “In my ‘Logic and conversation,’ I gave as an example of patent tautology
which is implicature-loaded or laden, that of ‘Women are women’. However,
sexual dymophism came late in my reflections on pirotology. In my seminars on philosophical
psychology and philosophical biology I sum up some functions: ‘breathe (why?),
excretion, digestion, reproduction – in no particular order. Aristotle himself
was confused about sexual reproduction, perhaps influenced by Socrates, given
that Socrates apparently never reproduced! But of course, Aristotle is wrong.
In Ancient Athens, Xanthippe was the wife of the philosopher Socrates, and the
mother of their three sons: Lamprocle, Sofronisco, and Menesseno. Historical
accounts portray Xanthippe as a spirited woman, often described as having a
difficult or challenging demenaor, which was unuaual for Athenina women of the
time. Hoever, these portrays might also reflect the societal biases against outspoken
women in Ancient Athens, and some scholars argue that her actions could be
interpreted as a form of resistance against societal expectations. Socrates is
said to have chosen Xanthippe because of her challenging nature, as he believed
that tolerating her would help him navigate interactions with people in
general. Socrtes and Xanthippe’s marriage reported occurred after 423 BC, with
their eldest son, Lamprocle, bour around 415 or 414 BC. The other two sons,
Sofronisco and Menesseno, were younger and were still children at the time of
Socrates’s trial and death. There are differing accounts regarding the
MOTHERHOOD of all three sons, with some sources suggesting Socrates had a
second wife named MYRTO. However, the story of the second marriage is generally
doubted by scholars. While their marriage is often depicted as tumultuous, it
appears a bond existed between them. Xanthippe was presente at Socrates’s
death-bed, demonstrating a degree of affection and concern. Socrates himself,
while rarely mentioning his family, did so on occasion, suggesting their
importance to him.” Filosofo siciliano.Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Grice:
“I like Emanuele Samek Lodovici – very Italian – his metamorfosi della gnosi is
good!” -- samek lodovici -- one of the two. Il suo pensiero d'impronta metafisica si oppone al
materialismo e al riduzionismo. Esperto della filosofia di Plotino,
Sant'Agostino e Marx, si occupa dello gnosticismo che a suo parere si trova
ripresentato in diverse filosofie e ideologie dell'età moderna e
contemporanea. Figlio del bibliotecario e bibliografo Sergio Samek
Lodovici, nativo di Carrara, che lo chiamò come suo fratello maggiore, noto
medico e politico. Rimase in Sicilia per breve tempo per poi vivere sempre a Milano.
Scampò a soli cinque anni alla tragedia di Albenga, quando dopo il naufragio di
un'imbarcazione carica di bambini era stato inserito nel gruppo delle piccole
salme, ma il tempestivo intervento di un medico lo salvò. Di formazione e
cultura cattoliche, studia a Milano dove si laurea con «Filosofia classica e
spiritualità cristiana nel Commento di Sant'Agostino al Vangelo di San
Giovanni». Insegna aTorino. Pubblicò due monografie, una su Agostino (con il
contributo del C.N.R.), e l'altra sulla gnosi moderna, che gli valsero la
cattedra di Filosofia a Trieste. In una
lettera Noce si riferiva così. Nella prima delle sue due opere fondamentali, Dio
e mondo, inizia considerando la grave accusa rivolta da Heidegger alla
metafisica, ovvero di non aver compreso che cos'è l'«essere» e di aver
reificato Dio, di averlo cioè reso una «cosa». Questa critica può essere
legittima ma non nei riguardi della metafisica neoplatonica nella forma in cui
è stata mediata da Agostino. Individua il fulcro di tale metafisica nella
dottrina della «partecipazione» delle idee col mondo, in forza della quale il
rapporto di Dio col mondo è una relazione sostanziale e non oggettualità.
In Metamorfosi della gnosi, delinea una fenomenologia della cultura come
influenzata da una mentalità inconsciamente gnostica. Tale mentalità ha assunto
in sé le tesi dello gnosticismo antico, ovvero la sostanziale negatività del
mondo, la possibilità di redenzione dalla oscurità del mondo attraverso un
sapere salvifico (gnosi) e la possibilità di un redenzione del mondo
realizzata, senza bisogno della grazia divina, dalla sola azione dell'uomo
tramite la politica e/o la scienza. Così nel pensiero gnostico la
finitezza e la creaturalità vengono disprezzate e rifiutate, con l'ambizione di
creare l'Uomo Nuovo e la Gerusalemme terrena. Insomma, sintesi del pensiero
gnostico è quella formulazione che trova il proprio culmine nel «rifiuto di non
poter essere Dio»; in tal modo nella visione gnostica non è più Dio, ma l'uomo
gnostico a identificarsi con l'infinito, sgravato com'è da qualsiasi
limite. Da ciò appaiono evidenti gli obiettivi polemici e critici di ogni
metamorfosi dello gnosticismo rappresentato nelle forme del riduzionismo
antireligioso, del prometeismo marxista, della filosofia
radical-relativista diffusa attraverso i media, della corruzione della memoria
storica attuata anche attraverso la corruzione del linguaggio ed infine nella strategia
della distruzione della famiglia, che è stata potentemente colpita in
particolare con la rivoluzione sessuale e con alcuni tipi di femminismo.
Per quanto riguarda la sua pars construens, Safferma che proprio a partire
dalla post-marxistica crisi del pensiero secolarista gnostico si deve delineare
la necessità di ritornare alla tradizione metafisica, da lui indicata sulla
linea di Platone, Plotino e soprattutto Agostino. In sintonia con l'ermeneutica contemporanea, e
pur evitandone le derive nichilistiche, riconosce la struttura storicamente
condizionante del linguaggio nei confronti dell'esistenza e della conoscenza,
secondo una sua favorita formula per cui «chi non ha le parole non ha le cose»,
e d'altra parte il filosofo riconosce anche la funzione inversa del linguaggio
per cui, oltre che elemento condizionante, esso è anche il mezzo con cui l'uomo
storico può trascendere i vincoli della storia e del linguaggio stesso (i
baconiani «idola fori» e «idola theatri») ed esprimere le verità eterne. Rievoca
la valenza dell'autocoscienza della ragione e delle sue vastissime
potenzialità, sia in bene che in male, e a partire da queste, ne ricorda i
limiti, i fallimenti storici e le costitutive incapacità che emergono
specialmente nel momento in cui essa viene elevata ad una illuministica
idolatria, concretizzandosi nella moderna vita di massa che «ha affermato la libertà politica da ogni
autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; ha
affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha
affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, solo per
prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo.»
Piuttosto, una ragione accorta deve, restando autonoma, interagire con la
religione, per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le
risposte prime ed ultime. Tipica poi del suo pensiero è la «cultura del ricordo», intesa come
cultura non di una memoria archeologica bensì di una memoria che guardando ai
fallimenti del passato possa liberare il presente dalle menzogne ideologiche e
dai progetti utopistici che, ripetendosi nella storia, hanno generato i
totalitarismi del XX secolo, e che oggi producono la dittatura del relativismo
e del nichilismo. Così la memoria assume una funzione spirituale nel senso che «mi rende migliore di quello che sono». La
riflessione è dunque nel complesso di carattere etico-sapienzale, consapevole
che in ogni agire umano si esplica la ricerca della felicità, una ricerca che,
per essere efficace e compiuta, deve però essere immune da qualsiasi utopismo
onirico: è alla luce di questa precisazione che può affermare che «non vi è
nessuna felicità senza virtù, in altre parole non vi è nessuna felicità senza
quell'unica attività che è in grado di rendere l'uomo pienamente umano», perciò
«non si può pretendere che l'acquisto della felicità non passi attraverso lo
sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza», ed è in tal modo che
trovano un senso il limite umano e la sofferenza. Non sfugge al filosofo la
coscienza della precarietà della felicità umana, però questa «ben lungi dallo
spingerci alla tristezza per l'insaziabilità dell'uomo, va tuttavia vistaottimisticamente,
come l'indizio che è un'altra la felicità conforme al livello spirituale degli
esseri umani», perché «ultima hominis felicitas non est in hac vita. Saggi: “
Plotino nel In Johannis Evangelium di Agostino, in Contributi dell'Istituto di filosofia, Vita e
Pensiero, La Lettera ai Galati” in Marcione e Tertulliano, in «Aevum», Milano, Agostino,
in Questioni di storiografia filosofica,
La Scuola, Brescia); Sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, Vita e
Pensiero, Marxismo o Cristianesimo, Ares, Sesso, matrimonio e concupiscenza in,
Etica sessuale (Milano); Tra cosmologia e metafisica. Note sul concetto di
cosmo, in “Il demoniaco nella musica, Giappichelli, La felicità e la crisi della cultura radicale
ed illuministica, in La crisi della
coscienza politica e il pensiero personalista, Libreria Gregoniana, “Dio e
mondo: relazione, causa e spazio” (EStudium); “Metamorfosi della gnosi” Ares, Dominio dell'istante, dominio della morte.
Alla ricerca di uno schema gnostico, in «Archivio di Filosofia», Istituto di
studi filosofici, Roma, “La gnosi e la genesi delle forme, in «Rivista di
Biologia», Il gusto del sapere, Universitas); “L'arte di non disperare. Il
gusto del sapere Estratti di L'arte di
non disperare M. Picker, Il mio professore di filosofia, Studi
Cattolici, Alabiso, La critica dell'attacco macro-strutturale al cristianesimo,
Catania. Giacomo L., Profili. L., Studi Cattolici, Sciffo, Le maschere della
gnosi, «Avvenire», Barbiellini Amidei, Il filosofo che insegna l'arte della speranza.,
in «Corriere della Sera», filosofo che insegna arte_della_co shtml G. Feyles,
La battaglia di Samek, in «Tempi», tempi la-battaglia-di-samek Fumagalli, L. e
Noce: Gnosi e secolarizzazione, Santa Croce, Roma //sergiofumagalli/files/ tesi.pdf
Taddeo, Verità e diritto, Trento G. Segre,
una vita per la Verità, «la Bussola Quotidiana» /la nuova bussola quotidiana.com/it/archivio
Storico Articolo-emanuele-samek- lodoviciuna vita-per-la-verit- A. Galli, Il
ritorno della gnosi, in «Avvenire», Anna, L'origine e la meta. Ares, Milano. Gnosticismo Cattolicesimo, Noce, Voegelin, Mathieu
su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Il gusto del sapere Universitas, Documentazione
interdisciplinare di scienza e fede, Gnosi moderna e secolarizzazione
nell'analisi” Fumagalli, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, “la
gnosi come vero avversario della verità di Restelli, sito "Cultura Cattolica.
Nome compiuto: Emanuele Samek Lodovici. Lodivici. Keywords. la virtù, l’amore sessuuale,
il sessuale – la sessualita, il maschile, il machio, il sesso maschile, il vir,
virile, virilita. Refs.: Luigi Speranza, “ Grice e Lodovici” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lodovici:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma)
The author of a fascinating essay on philosophical psychology. Figlio di
Emanuele Samek Ludovici. Giacomo Samek Lodovici. Lodovici. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Lodovici.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lombardi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia
campanese – filosofia napoletana -- scuola la filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Abstract. Grice: “At Oxford, we say Galileo – in Italy,
where they know better, they say BONAIUTO!” The surname BONAIUTI became
associated with the Galilei family through an ancestor named Galileo Bonaiuto.
Here’s how it happened. In the fifteenth century, Galileo Bonaituo was a
prominent physician, professor, and politician in Florence. In the the late
fourteenth century, his descedants began refering to thsmelves as GALILEI in
his honour. While the family officially retained the BONAIUTI surname for
generations, they started using GALILEI or GALILEO informally in honour of his
ancestor. The famous astronomer Galileo Galilei inherited both his given name
and the family name (Galilei) fom his ancestor, Galileo Bonaiuti. Therefore,
the association begain in the late 14th and 15th
centuries through the prominence and influence of Galileo Bonaiuti in Florence.
Abstract. Grice: “The Italians have a thing for the plural – witness all the
surnames ending in -i. True, Lombardo IS a philosopher, too!” Filosofo italiano. Grice: “I like Lombardi; he took
seriously my idea of Philosophy’s Longitudinal Uniity, and like Passmore or
Warnock, engaged iin a study of the ‘last hundred years of Italian philosophy.
This shows that his interests on Kant, etc., are Italian-based, mainly!” Il padre e avvocato e docente di diritto e procedura
penale a Napoli, già allievo prediletto di Bovio, deputato prima e dopo il
fascismo, autore di scritti vari di sociologia. La madre Rosa Pignatari fu
nipote di Ciccotti, nella cui casa era
cresciuta. Tradusse alcuni degli scritti di Marx nelle Opere edite dal Ciccotti
e la Storia del movimento operaio di Edouard Dolleans. Laureato e libero docente in filosofia lavora
in filosofia. Pubblica “Il mondo degli uomini” (Firenze, Le Monnier) Insegna a
Roma. Presidente della Società Filosofica Italiana e (sin dalla fondazione)
della Società filosofica romana, diresse il "Centro di Ricerca per le
Scienze Morali e Sociali" presso l'Istituto di filosofia della Roma. Direttore
della rivista De Homine cui si è affiancato il Bollettino Bibliografico per le
Scienze morali e sociali. Membro dell’Accademia nazionale dei Lincei. Gli e
conferito il premio nazionale "Croce" per la filosofia. Saggi: “L'esperienza e l'uomo.”“Fondamenti di
una filosofia umanistica” (Firenze: Sansoni); “Il mondo morale;”“Feuerbach” (Firenze:
Nuova Italia); “Feuerbach e Marx: “Kierkegaard” (Firenze: La Nuova Italia); “La
libertà del volere” (Milano: Bocca); La filosofia critica, Roma: Tumminelli;
“Il problema kantiano, “Commento alla Critica della ragion pura” Kant vivo (Firenze:
Sansoni); Nascita del mondo modern (Firenze: Sansoni); Concetto e problemi di
Storia della filosofia” (Asti: Arethusa); “Le origini della filosofia” (Asti:
Arethusa); “Libertà” (Asti, Arethusa); “Dopo lo Storicismo” (Firenze: Sansoni);
“Ricostruzione filosofica” (Asti: Arethusa); “La filosofia italiana” Asti:
Arethusa, Il piano del nostro sapere, Asti: Arethusa); “La posizione dell'uomo
nell'universo, Firenze: Sansoni); “Problemi della libertà, Firenze: Sansoni, Filosofia e civiltà” (Firenze: Sansoni, Saggi
Manoscritti inediti Scritti vari di filosofia, Scritti politici Filosofia e
Società, Firenze: Sansoni, Filosofia e Società Firenze: Sansoni, Il senso della
storia” (Firenze: Sansoni); Aforismi inattuali sull'arte” (Firenze: Sansoni); Galilei:
un ante-signano”(Firenze: Sansoni, scritti per l'università, Firenze: Sansoni,
“Continuità e Rottura, Firenze: Sansoni, Una svolta di civiltà, n.d.: ERI, Gaetano
Calabrò, Torino: Filosofia, Atti del Congresso internazionale di Filosofia,
Milano: Castellani et C Editori, Il materialismo storico Atti del Congresso
internazionale di Filosofia; Roma: Fratelli Bocca, Il problema della filosofia
oggi Varie Taccuini di viaggio Dodici canzoni napoletane, su versi di Salvatore
Di Giacomo, Firenze: Forlivesi, Torino: Edizioni di Filosofia, Treccani
L'Enciclopedia italiana. Un contributo significativo per la costruzione della
filosofia italiana contemporanea, Lincei, in Biblioteca di Filosofi, Sapienza Roma.
Nome compiuto. Franco Lombardi. Lombardi. Keywords: la filosofia italiana,
Galilei. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Lombardi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Longino: la ragione conversazionale e il filosofo della
regina -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “I was criticised for giving as an
example of a patent tautology that of ‘Woemn are women’ – versus the oddity of ‘Men
are men’ – but I was having Queen Zenobia in mind. As a philosopher having encountered
philosophy through the classics – at Oxford – I was very familiar with Longino,
the famous adviser to Queen Zenobia, and it always struck me that when the
Queen was indeed defeated by the Romans, she is safely taken to Roma, whereas
his adviser, who happened to be a Roman citizen by birth – was promptly
executed!” Filosofo italiano. An adviser to Queen Zenobia. Oddly, when Zenobia is
defeated by the Romans, she is taken off to Rome, whereas her adviser is
executed. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Longino.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Longino: la ragione conversazionale e il diritto romano
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract: Grice: “It’s very sad – yet typical of
Italian historiography – that, for all of Longino’s achievements as a
philosopher of law, he is best remembered by posterity as one of the 50 murderers
of Giulio Caesare!” Filosofo italiano. A
legal scholar and theorist. Uno degl’uccisori di GIULIO (si veda) Cesare. Nome
compiuto: Gaio Cassio Longino. Longino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Longino’.
Luigi Sperranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Longano:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo naturale –
filosofia molisese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ripalimosani). Abstract. Grice: “At Oxford, nobody really cared when
I gave my lecture on ‘meaning’ at the Oxford philosophical society, that Longan
had been defended my naturalism of signification for years then!” – Grice: “Longano’s
emphasis on ‘natura’ and ‘naturale’ certainly were part of my inspiration for ‘natural’
meaning – although I was reserved in my uses of ‘natura’ as a noun – except when
to refer to my wanton disposition as a gift of ‘saggia natura’!” Any student of
Grice’s philosophy should make a lot of sense of Longano’s contributions. A
systematic philosopher, like Grice, he bases his research on ‘signs’ and
‘signification’. Keywords: segno, signum. Filosofo italiano. Ripalimosani,
Campobasso, Molise. Grice: “Longano took ‘naturalness’ so seriously that he
would apply it to anything: ‘man’ (‘uomo naturale’) and morals (‘morale
naturale’).” “I like Longano; he is a systematic logician, as I’m not –
therefore he thinks that to study semantics, which logic is, starts with
studying signs – as I did in my seminars on Peirce – so Longano is the one I
was referring when I mentioned what ‘people were at when they display an
interest in natural versus conventional signs; he also has interesting things
to say about my favourite parts of speech, syncategoremata!””Allievo di ZURLO,
si trasfere a Campobasso e quindi a Napoli dove divenne allievo di GENOVESI. Fa parte della massoneria ed è considerato un
importante esponente dell'illuminismo, è sostenitore dello stretto rapporto tra
anima e corpo e di una visione dell'uomo nella sua interezza. Propugna la
rinascita dell'Italia, proponendo un piano di riforme e il superamento del
feudalesimo. Altri saggi: “Piano di un corpo di filosofia morale; ossia,
Estratto d'un corso di Etica, di economia e di politica” (Napoli,“Dell'Uomo
Natural Napoli, “Saggio sul commercio” (Napoli, presso Vincenzo Flauto,
Raccolta di Saggi economici per gli abitanti delle due Sicilie, Napoli, presso
Sangiacomo e Campo, “Dell'uomo e della sua morale natura -- Esame fisico, e
morale dell'uomo, Napoli, Morelli, Dell'uomo, e sua morale natural, Della
morale naturale, Napoli, M. Morelli, Dell'uomo Religioso e cristiano, Dell'uomo
religioso, Napoli, Morelli, “Logica” Viaggio per lo contado di Molise ovvero
descrizione fisica, economica e politica del medesimo, Napoli, Viaggio per la
Capitanata, Napoli, Sangiacomo, Il Purgatorio ragionato, Lepore, postfazione di
Martelli, Campobasso, Palladino, Philosophiae rationalis elementa; De arte
logica, Napoli; De metaphysica, Napoli, Orsino; De Jure humanae, Napoli,
Biblioteca provinciale di Foggia; L'anno di Genovesi, su biblioteca provincial
foggia. Gaetano, su webcache .googleusercontent.com A. Rao, L'amaro della
feudalità: la devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli, Guida,
Rizzo, La civiltà del Purgatorio: riformismo e anti-clericalismo nella
provincia molisana, S. Borgna, su delpt.unina, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. I I BIBLIOTECA NAZ.
Vittorlo Emanuele III i \.A NAPOLI t V' PHILOSOPHIÆ RATIONALI*? ELEMENTA A V f
T. N DE ARTE £OGIC4 r i u ^ u A Pe rerum ideis, et signi 'f, Jej% erroribus et
ycritate NEAp0Ll s fcE CLARIS DIALE C TIGiE SCRIPTORIBUS. AD GANTORIUM. I 1 V v
% r Philosophia, Josephe pr^claridiime, in quam uno Dialectica studio
ingredimur, rerun divinarum, kumanarumque sapientiam conticet » Hinc Dialectica
inchoat, qutf sapientia perficit. At vir acerrimi ingenii, divine memori e, et
per quam longa meditatione, ac lectione contritus Antonius Genuensis meus
amicus, et magister, multa in sua arte logica > pluraque in aliis
desiderans, neminem plane, qui jure appellari Dialecticus posset, dicebat.
Habebat itaque vir magnus comprehensam ani * f. 4 m quem si imitari non
possfimifs, at qualif esse debeat, poterimus fortasse dicere i “ Ars disserendi
licet a ratione proficiscatur j proindeque quolibet in homine ingenita;
verum,tamen a Græcis primo elaborata, atque ab usdem et monumentis, et literis
est cepta mandari. Testes enim sunt, j arieter plurimos philosophos illustres,
etiam *pene innumerabiles oratores, uti Lysias, Isocrates, Hyperides,
JEschines, Lycurgus, Pericles, DemOslheoes, aliique plures. Quibus si artem
disserendi demas, omnem eorum vim, atque loquendi ce piam prorsus evertes.
Equidem si hac arte Pericles ( mitto eet«fos ) fuisset orbatus', quo pacto
tanta cum delectatione aculeos, reliquisset in animis eorum, i. a a qui-O
qi/ibns esset auditus i Quis putet suhtUitateni ingenii L. Bruto defuisse, qui
ex oraculo Apollinis tam acute conjecerit, qui summam prudentiam simulatione
stu/titi.c texerit, quique Civitatem perpetuo dominatu llt er at am
fAagistratibus annuis, legibus, ju liciisque devinxerit ? Quis denique putet Appium
Cvium, Catonem majorem, Cn. Servilium, Tib. Gracchum, t-. Cott..m, P. Scxvolam,
L. Crassum, C. Antonium, Hortensium, C. Cxsarem, Ciceronem, aliosque
disertissimos Itali x oratores nulla Qialecticx Arte fuisse imbutos ? Verum huc
In loco non quxrimus, qui fuerint clari Didfectici, sed quanti pretii eorum
scripta; tempus est igiiur, ai id quod instituimus, acie edere. Dialectica a
Grxcis exorta } ut superius j bnte Christum an. 4 66., Zenoni ex urbe P,lea in
hucahia postea Velia Parmenidis Auditori tribuitur, At Zenonis Logica, quid aliud,
hi si ars nixandi, cavilldndique, ex qua Eleatici Sophistx profanarunt, quorum
intolerabilem arrogantiam Socrates Atheniensis prxstan tissi no vir ingenio j
atque morum probitate it - lustris abhorrens, irohica subtilitate eorum iru st
i tuta refellere solebat. Eleaticam scholam Leucippus Abderita Zelionis
discipu'us ante Christum an. 452. sumthopere illustravit. Etenim is fuit
atomorum sententix auctor, cujus doctrinam primus instauravit Democritus etiant
Abderita, ante Chri s 3 stuni stum 420. ac postremo Epicurus Atheniensis, a quo
initium schola Epicurea ante Chr. 300. an. accxpit . At Socrates, qui cum
floreret ante Chr. 41S. >»• owi«/ genere virtutis r hac tamen fuit luitde
clarissimus, quod omnium primus homines felices. reddere studuit. Ille enim non de rerum natura,
atque astrorum motu, iit superiores philosophi, sed de animo, de
perturbationibus, de bonis et malis, deyue humana vita, aC moribus sdpienter
disputavit. Quantum vero ad ijusdem Dialecticam y tota versabatur in eo t quod
principio omnia vocabula definita vellet, deinde quibusdam minutis
interrogatiunculis propositiones per necessariam consecutionem ita acute
teperet, donec adprxceps inconsideratos adversarios perduceret. Hujus tanti
viri domus t ciinctx Greci.e quasi ludus cum esset, atque officina dicendi,
minime mirum, si ejus ex uberrimis sermonibus extiterint tot, thntique
doctissimi viri. Sed,, inquies, qui isti tandem fuerint ? Hoc in nomine,
inquam, non sunt habendi, nisi ii qui maxima cum citra Dialecticam coluerunt,
quorum illustriores fuerunt Plato, ei qito Academici, Euclides, ex quo
Megarenses ptomanarunt. Itemque Anihistenes Cynicorum p arens % atque
Aristippus sbct.t Cyren.torum Conditor. Hisce veluti ouatuor familiis universd
veterum Dialecticorum multitudo conclusu, ad hxc usque tempora est 'ptopagata.
Quare distincte me pro kejm iessisse deliror,, si eorundem Xripta Logici
'perpendam Plato ante Chr. 39 - an ‘ Codrit ex parte p!U iris, et Solone ex
parte .matris editus, in sua adolescentia exercitationibus gymnasticis, pictu ¥
pro morum philosophia Dialecticam præcipuum m medum f eluit • Hinc ejus
auditorei, ut ex Lærtio discimus dicti sUAt,et Megarenses Ut Dialectici Quantum
ad ejusdem disserendi artem, tota erat iA quadam inductionum, ac conclusionum
serie, eX qua disputandi pressa, ratione Eubolides illius distipuius muti a
sophismatum genera invertit, adhibuitqhe .. At Diodorus, qui dicitkr. Crbhus,
hujus schoU alumnus sumtno nitore conjectus est, quoniam Stilponis argutias
refellere ignoravit i Megareu i urguendi modus in Europi barbarie renovatus
inter NOmirta/ium, et Singularium, atque in u ter AQUINO (vedasi) et
Scotistarum scholas diutii sime regnavit .. j Altet ' Sacratis discipulus fuit
Aristippus ] qui ante Chr. 406. an, floruit i Hic, r* l/r^/ Cyrenarum Socratis
fama fercitUs, Athenas Venit, ut eum audiret, Aristippus fuit Secta CyrenuicX
auctor 4 At tjus sequaces j eque Physicam ac Dialecticam n egi exedunt. Non
miretis l et tur ) si ‘tohr.em ititer et voluptatem nbllum discrimen (funerent.
Quin imo interiorem dumitaxat voluptatis, uut doloris Sensum putabant ven es^f
judicium, quia sentiatur. Verum pbtestne quisquam dicere, inter eUm, qhi doleat
t et inter eum qui in 'voluptate sit, nihil inter esse. Aut ita, qui sentiat f
non apertissime msamai. 1 ix..J Postremiis Socratis disciphlus fuit Anthiste- '
• n * s -Atheniensis, Cynicorum secta; Jnstituior i Paucissima hic de arte
disserendi scripsit, ut ex Lærtio, in ejus vita Dos iit in gymnasio, Otqtie
Diogenem Sinopeuhl, quem Cynicum cognominant, ' habuit auditorem. En, Josepht
doctissime, Pelui i surculos Dia/ecticie piante, quam Zerin seruit Soctates y
fj usque discipuli excoluerunt. Dicendum medo est f quales ei quatito? fructus
unhsquisque eorum produxerit i iLx Platonis auditoribus, ceteris presiitere
Aristoteles Schole Peripatetice institutor et princeps, atque Xenocrates
Magister Xenonis Cittici, aili Stoicorum est parens i Aristoteles Stagirites
Nicomachi Filius, magnique Alexandri preceptor, floruit ante Chn an. 350. Hic enim adeo prestavit, ut excepto Platone, parem
noti invenias. Quis enim illo gravior in loqtiendo, in sententiis argui ior }
iri docendo copiosiot in edisserendo subtilior, a’c tandem in inveniendo,
disponendoque admirabilior ? Referti sunt ejus libri et omnigena rerum
cognitioni, et verbis illustribus i Senex impie tatis crimine a sacerdotibus
accusatus, aufugit t ln Isyceeo eidem successit Theophrastus il/iai auditor,
quo mortuo pene siluit licet in ets docuerint Eicon, Aristo, Critolaus,
Demetrius Phalereus ) et Strato cognomento physicus 4 Quod spectat ad
Aristotelis Dialecticam, in qua fuit pnestantissimus y ejus libri sunt de
rcttione disserendi multi, et multum probati 4 Etenim veteres scriptores artis
hujus usque a principe illo, atque inventore Zenone repetitos unum in locum
conduxit, et naminatim cujus que prscepta magna conquisita tura perspiouS 00 *
te> Conscripsit, et enodata diligentissime exposuit i Scis enim nihil esse
simul et inventum, et perfectum. Stagirites itaque omnium primus attulit hanc
artem omnium artium maximam, - et quasi lucem ad ea, quit- confusa, jejuna, et
exilia cntum ante annos scripta erant. Ad Platonis scholdrti refertur quoque
Zeno Cittieus ante Chr. 300. an. qui fuit Xenocratis Chalcedonii discipulus.
Trigesimo sum xtatii anno Athenais ivit, ht iiras illos nosceret, 'quorum opeta
lectitarat. Principio Craten deinde Stilponefn i Xenocratem, atque Diodorum
Crontim audivit. In Stoa scholam ape* ruit, habuit que nonnullos discipulos,
quos morum honestate plus, quam scientiis informabat i Etenint multa de justitia,
de fortitudine, de temperantia, de amicitia, deque hujusmodi ahis Stoici
graviter, et enucleate scripserunt. Quantum autem ad artem disserendi, quam ab
Oratoria arte sej ungerent, nihil in eo genete, quod ad disputandum valet,
prætermissum est. Quaque Dialectici
nunc tradunt, et docent, nomie ab illis philosophis instuta suhtj ' kt inventa
? At, inquies, pr teter dinumeratos iisdem fere iempbrihus floruerunt etiam
Parmenides, Xenocrates Ciren.ei, Stilpo Megarensis, ac denique Epicurus tantx
scholte conditor, qui si Dialectici non sunt habendi, nescio hoc nometi cui
tribui possit. Sed quid insipientius, quarti isti omnes i Parmenides enim, et
Xenocrates iritrtt H increpabant eorum arrogantiam, quasi irafi, Hui cum sciri
nihil possit, audeant se scire dicere. Uipsum dicendum de Cyrenxis qdi hegant
esse quid quam, qtlod percipi possit extrinsecus, sed ea se sola percipere,
qti.e tactil intimo sentiant. Nihil
de Stilpone. Quam fnu'ta ille cofitra sensus, 'quam multa contra omnia, qu.e in
consuetudine probantur ? Nihilque de Epicuro, 1 eujus tt>ta Dialectiea in
sensibus erat. It e mq ile ex Dialectica tollit definitiones: nihil de
diitisione ddcet: non quomodo efficiatur concludaturqile ratio, tradit: non qua
via captiosa solvantur, ambigua distinguari tar, oftetidit. Tu quidem, inquis,
loiurrt Epicurum e philosophorum choro sustulisti. Ita sane, flatu qtiomodo
philosophiis, qui disserendi artem nullam habuit ? qui in physicis tam
plumbeus, qui Solem bipedalem facit, qui de atomis tot puerilia fingit ', qiii
tandem regulam veri, et falsi in sensibus ponit ? Nonne hxc discere liidus
esset ? Verum ab hoc tam crediilo, qui numquam setlsus mentiri putat,
discidamus. Insuper pressifis affis, et inquis, quod Arce silas, ChrysippuS,
Pyrrho, et Carneades summi Dialectici fuerint, qtioniam Arcesilas fuit medix
Academix parens, Chrysippus fitlcire putabatur porticuih Stoicorum, Pyrrho
scepil eorum' sectam, et Carneades novam Academiam eonJidit. Primum Arcesilas
Pilanx natus in JEolide *ntc! ante Chr. 290. floruit; Cratique in Academia
successit. Juxta Lærtium Arcesilus omnium primus utramque in partem disserere
aggressus est. Quod esi omnino falsum ex ipso Lærtio, qui in ejusdem vita etiam
scripsit: Primui Orationis modos, quos Plato tradiderat, novit, 'effecitque per
interrogationem ct resportsionem contentiosius Id ipsum asserit Cic. libro de
Oratore tertio: Arce silis primum., qui Polemonem audierat, ex variis Platonis
libris, et sermonibus Socratis, hoc maxime arripuit f nihil esse certi quod aut
sensibus, aut animo percipi possit: quem fuerunt eximio qubdar/i Usum lepore
dicendi, aspernatum esse omne animi, sensusque judicium; primumque instituisse,
tlon quid ipse sentiret, ostendere; sed centra id quod quisque se sentire
dixisset, disputare. Ai darius libro de finibus secundo: Socrates percontando,
atque interrogando elicere solebat eorum opinibnes, quibuscum disserebat j iit
ad ea, qu.c hi respo id ssent, si quid vi letetur, diceret. Qui mos cum a
posterioribus non esset retentus, Arcesilus euiti revocavit, tt instituit • Hoc
ipsum in questionibus Academicis novam appellant, qux milii vetus videtur;
siquidem Platonem ex illa veteri nume • j. ramus, cujus in libris nihil
affirmatur, ei iri utramque partem multa disseruntur, de omnibus queritur,
nihil certi dicitur. Hac de cau. sa sicut i Tib. Gracchum populi Poma ni per '.
turbatorem, ita Arcesi/am Reip. philosophorum „ e fversorem appellavit:
Habendus ergo Dialecticus, pt quidem summus, qui negat quicquam sciri y neque
comprehendi posse, ne illud ipsum quod fi. ocrates, st nihil scire ? Sed si
nihil sciri; ni hi /que comprehendi possit, quo pacto rationis artificia
convellere posse, dicebat ? Insuper notiis innotescit probabilitatem maximam
vim habere in artibus. Artes autem sine»scientiis esse non posse. Qua cum fint,
pateretur fortasse hoc "Raffæl Urbinus aut Michæl- An gelus, aut Titianus
nihil se scire, cum in eorum operibus esset tanta solerjia ? Vide quxso, quos,
et quantos laqueos sibi Scepticf texuerunt. Quantum ad Chrysippum Cilicum
professione Stoicum, et Zenonis Auditorem, qui ante Chr. £ 30. an. vixit, scis illum
fuisse virum et vafrum, et ingeniosum. Scis etiam eundem scriptitasse plusquam
septigentos libros, quorum pars maxima in Dialecticis versabatur. Sed
intellege, ouid Scioppius in Elementis philosophia sioictp moralis: neque tamen,
ait, defendere, ac negare velim fuisse Stoicorum non paucos, qui specie ingenui
illecti >, inanibus argutiis Ipdibria quadam excitando severissima, et
gravissima ortionis in contemptum adduxerint; quorum princeps jure dici possit
Chrysippus, qui cum esset magna ingenii vi p radit us, mireque ad quidvis
excogitandum celer et acutus, nihil aque solebat labofare, quam ut non
reliquarum tantum' sectarum inventoribqs contradiceret, sed a Magistris etiam
su/q Zeno» % e none, et Cieant e pleri sque in rebuS dissideret,, 1'uitne
summus Dialecticus, teste eodem Scioppio, qui persep.e scripsit eadem, sæpius
sibi contraria, ac repugnautia ? Sequitur Pyrrho Peloponesiacus, qui primo '
picturam exercuit, atque artate Alexandri Magni, quem suis in bellis comitatus
est, floruit. Pyrrho Anaxagarxr auditor, illa ipsa Sentiit, qur Arcesilas,
proindeque nihil decerni > neque quidquam comprehendi posse dicebat. At de
Pyrrhoniis ita A. Gellius lib. %l. Cum h.ec autem consimiliter tam Pyrrhanii
dicant, quam Academici, dtjjtrre tamen inter sese, et propter alia qu.edam, et
vel maxime propter ea existimati sunt, quod Academici quidem ipsui/t illud
nihil posse comprehendi comprehendunt; et nihil posse s discerni, quasi
discernunt: Pyrnhoaiii ne ii quidem ullo pacto videri verum dicunt, quod aihil
esse verum videtur. Sextus autem Empyricuf Pyrrhonios inter, et Academicos
aliud discri- ' pien invenit, scilicet: Arcesi/as amnem judicii suspensionem
habuit bonam, atque solam adjipiationem uti semper malam putavit. Sed Pyrrho,
ej usque auditares adfirmationem non esse secundum naturam, verum secundum id
quod apparet, disputabant. Qui i multa ? Inter mortem, et vitam Pyrrho nullum
discsrimcn agnovit, quod Epictetus, licet hanc sectam diligeret, damnabat.
Sequitur po (tremo loco Carneades illustris philosophus Grecus, qui habetur
teri i a- Acas/t- pii* parens, et floruit ante Ckr. 160. an. vegum qui
Academi,e auctor ? nonne scis Carnea liem fuisse veteris instaut atorem, vel
venuq assertorem ? Hinc f icero hero
de nat. Deor. primo: la philosophia, ratio contra omnia disserendi, nullamque
rem aperte judicandi, profecta a Socrate, repetita ah Arcesila, confirmata a
Carneade usque ad nostram viguit xtatem. Hic enim disputans, omnibus veris
false; quicdam adjuncta esse tanta similitudine, ut in iis nulla insit
judicandi, ac assentiendt nota « At, inquies, eum maximum fuisse Dialecticum,
quoniam de eo sic CICERONE (si veda) scripsit • Carneadis yis incredibilis illa
dicendi, et varietas argumentorum perquam esset optanda nobis: qui pullam in
illis suis disputationibus rem defendit, quam non probarit, nullam oppugnavit,
quam non everterit • Ulterius dices ? Nonne, ipse Cicero eum extimuit, cum it;
libro de legibus primo ait: perturbatricem autem harum omnium Academiam hanc ab
Arcesila, et Carneade recentem exoremus, ut sileat. Nam si invaserit in hxc, que
satis scite nobis instructa, et composita videntur, nimias edet ruinas. Quam
quidem ego placare cupio, submovere tton audeo. Ex quibus tandem optime
concludis ^ Carneadem summum fuisse Dialecticum • Sit sane Carneades Dialecticus,
et quident nummus. Dic mihi, vir prestantissime, cum Logici finis sit veritatem
cujusque generis in pdtiqare, estne Dialecticus f qui eam tollit, tf ejusdemque
est eversor ? nonne in Senatu Rol\ mano maxima populi frequentia cum is pro
justitia, et in justitiam Jisputasset, eam radicitus evulserit i Ulterius qui
de omnibus dubitat t dubiamne quoque reddit sui ipsius assertionem ? Similiter
} qui universa ut falsa habet, nonne eidem est quoque falsum, quod ipse asserit
l Hinc profecto intelliges Ciceronem timuisse Carneadem, non ut potentem
Logicum, sed ut iniqu.e mentis hominem, quem sapienter placatum malebat, quam
submotum; amicum potius quam hostem implacabilem, inexpiabi/emque optabat. Quid
tnirum ? Diis manibus ne noceant) fortasse nos ip i quotidie non litamur 1
Satis multa de veterrimis Dialecticæ Scriptoribus. qui eam /em vel invenerunt,
vel auxerunt^ vel perpoliverunt ad Cx-aris usque ætatem. Secundo autem
ecclesi.e s.ecu/o, Alexandriæ, ad quam veluti meYcutum bonarum artium cum
literati omnes confluerent, invaluit quadam philosophandi ratio, quæ
ecclectica, dicebatur. Ejus erat ex singulis philosophorum scholis tum temporis
florentibus qux-dam exprcepere, aliaque mutare. Qu.e phihj^Qpnsndi ratio adeq
placuit sanctissimis, ct doctissimis ecclesia.' Patribus, Ut 'statim per
universum Christianorum orbem propagata fuerit. Huic accessit, quod novatores
quinti suculi Aristoteleis, ac Stoicis præsidiis abutentes no tros Doctores
adgrediebantur, qui ut adversantium argumentationibus occurrerent, fadem
deputandi arte etiam, imbuebantur. Quamobrem "Dialectica iTla ex Stoica,
atque Peripatetica conflabatur, qute usque ad sxculum duodecimum in occidente
fuit tradita, maxime quia S. Augustinus eam discipulis suis commendasse
dicitur. Verum labente duodecimo sæculo, scholastici t sive christiani
occidentales Aristotelis libros • ab Arabibus versos, atque ab iisdem
interpretatos accepere. Sed pernimio rixandi ardore ducti, Dialecticam, ac
Metaphysicam per se obscuras, atque involutas novis subtilitatibus, novisque
contortissimis qucstiunculis ac laqueis ideo foedarunt, ut nihil supra • Etenim
cum linguie Grxc saltem præcipuos, minime expendit ? Qui ver sabulorum, et
propositionum naturam non exponit ? lllene Dialecticus, qui veritates cujusfue
generis non videt, et principia, ex quibus oriuntur, /10« ostendit ? lllene
denique Dialecticus, 71« /k*Ai 7 4/f rerum definitionibus, ac divisionibus,
nihilque de errorum caussis, >0rumque emendatione, t/oeer. Petrus Ramus ex
pauperrimis editus parentibus anno 1516., quamvis hebes,, ac /cr/zf stupidus,
quamvis sero, ef duram servitutem in Navarrte collegio serviret; verumtamen
Cleantis instar oleo, ef lucerna mafkpuum disciplinarum lumen sibi comparavit.
Quin imo tanto sciendi desiderio exarsit, ut solo labore, et diligentia in id
Hierarum splendoris pervenerit, ut trigesimo sue etatis anno adversus
Aristotelem scripserit, atque sequentem thesin sustinere ausus sit: Quæcumque
ab Aristotele dicta fuissent, esse commentitia. Rei novitate attoniti, atque temeritate judices
percussi irrito conatu per diem integrum fuit Magistratus. Ita barbari barbare
vocabant ejusmodi scholastica exercitia. Sic Freigius in vita Petri Rami.
Scripsit Ramus istitutiones Logicas r qu ali ia. plures. Lockiuf suam Logicam e
fi Jit. ouatuor libris comprehensam, in quorum primo pro aris, et focis
disputavit universas rerum ideas repetendas esse partim a sensibus
exterioribus, partim a mentis reflexione. Quamobrem hac in re Aristotelis
opinionem instauravit, et Cartesianorum Doctrinam sustulit. In secundo libro
agit, quo pacto ide.e ipsæ acquiruntur. Tractat in tertio de vocibus, earumque
proprietatibus. Quartus denique in cognitionibus humanis in genere, Ac sigillat
im in veritatibus y qux tam ex ratione y quam ex historia eruuntur, versatur.
Sed qu* viri docti in eo damnant, sunt 1. repetitio earumdem rerum, et quod
maxime mirum, nullius momenti: 2. res involutas, vel non extricat, vel male
enodat, g. irrito conatu autesivit materiam esse cogitantem. His dictis, nunc reliquorum
Dialecticorum, si placet, States, et gradus prosequamur. Quod in Anglia Lokius,
idipsum fecerunt in Gallia Manotte; in Germania Christianus ThomasiuSy Andreas
Rudigerus, et Christianus V/olfius; in Italia denique Antonius Genuensis t A/oysius
Verneus Lusitanus, atque Ab. Angelonus.De quibus singillatim, et ne nimius
sim,Stricte dicam. fc 4 Ma t \ Mari oli e m rebus phy sitis diutissime
versatus, etiam logicam edidit duas in partes tributam, quarum aiteru quasdam
propositione * per se claras, ceu principia continet. Alter m vero modos, ex
quibus veritates cujusque generis 'ab iisdem principiis deduci possunt. Hinc
qute arguendi ratio, et quo pacto errores, er sophismata internoscenda sunt,
notat, Summopere hic auctor commendandus ob claritatem suarum cogitationum, ob
rerum ordinem, atque ob exemplorum delectum. Verum, quia artem Criticam tam
necessariam ne quidem tetigit: nihil de veritate probabili egit: omnigenus
errorum caussas non vidit: sequitur Ma~ riotti Logicam mancam esse’, et imperfectam.
Christianus
Thomasius Hahe natus anno 1 727. in Introductione ad philosophiam Aulicam
nievis, atque erroribus, quibus Dialectici superiores Logicam infuscarunt,
detersit. Verum tanta
Eruditionis moles viris doctis est omnino inutilis, tyrones opprimit. Hoc in'
numero ha* bendus quoque Audreas Eudigerus. Denique Christianus Wofius maximi
nominis vir accuratissime vocabula definivit, atque acutissime veritates
cujusque generis detexit, demonstravitque. Inquis ergo, hanc unam esse Logicam
perfectam ? Minime, inquam, nam lectores rerum minutissimarum atque inutilium
perpetua demonstratione laborant. Insuper exemplorum copia eosdem fatigat, i.
perfectam criticam t' picam M* tradidit i Denique hctienom tine ulla
delectatione homines negligunt. Sequitur Gt nuens is ai omnia sumi na natus,
qui a magistris parum institutus, naturam habuit admirabilem * Omnia magna
erant in eo, sed corporis actio singularis. Manus enim, humeri, latera, oc«/i,
status proceritas, gratia, incessus, omnisque motus cum verbis 4, sententiisque
consentiens, erant hujusmodi, ut statuo nihil fieri potuisse perfectius.. Unus,
ut scis, Josepkus Ciri Ilus omnium eloquentium jurisperitissimus, • «
jurisperitorum emnium eloquentissimus cum eo in Cathedrapoterat decertare.
Illius viri domus cuncte Ita U lia, quasi ludus quidam patuit, atque officina
docendi. Magnus philosophus, et perfectus magister inter parietes aluit illam
gloriam, quam nemo quidem est postea consequutus • Hujus viri egregii
interitus, non modo prasentem literatorum Civium, bonorumque penuriam attulit,
sed etiam et auctoritatis, et prudentia triste nobis desiderium reliquit •
Verum id, quod propositum erat, prosequamur. Quinque in libros tribuit ejus
Dialectice Institutiones tertio editas anno 1 7-66., quarum finis cum sU humane
rationis perf ectio, act eam comparandam gradatim accedere curavit, proindeque
libro primo mentem emendare tot, tantisque erroribus tum animi, tum corporis
foedissime inquinatam, studuit • Illam reddidit y rerum omnium inventricem in
secundo. Hin * idearum origo,
et genera. Hinc sensuum usus efue humana, ARTIS LOG I C M f UMENTA INTRODUCTIO
y f,. ( 'trf I • ••rt' *1
• -I • v • Logic 9 Rorumque progressibus «De Logica Docente De mentis humana
actibus. Quibus partibus constat homo. Homo est animal rationis compos Q Uisqu*
scit hominem esse rationis cofri» potem, per quam consequentia cernit, pene
universas rerum causas cognoscit. Insuper plurima inter se componens, atque
rebus prresentibus annectens futuras, non modo totius vitæ cursum facile videt,
sed etiam corporum coelestium ordinem intelligit. Prseterea hac divina rationis
vi, nonne innumerabiles scientias, artes, atque infinita instrumentorum, et
machinarum genera invenit ? Quid plura ? Huic uni tribuenda sunt societatis
primordia, hominum juta, atque officia Denique ratio ipsa est nostra morum
norma, quam si sequamur ducem, non aberrabimus» Spiritus a corpore, in quo
discriminatur. Qu* cum sint, quisque intelligit naturairf mentis humame toto
coelo ab illa corporis differre. Etenim corporis est divisibilitas, co A 3 lor
De mentis actibus lor, figura, inertia, partium resolutio. Denique neque movit,
neque movetur, nisi ab alio corpore impellatur. Nulla itaque vis in eo, nulla
comprehensio, nullaque judicandi, ratiocinandi, reminiscenaique vis inhopret.
Verum hrec, atque alia ejusdem generis injiint in homine. Tribuenda sunt igitur
ejus menti, cujus .natura quicquid extensum, divisibile, figuratum, atque
corporeum respuere debet. Ex quibus perspicue constat ex corpore, atque anima
hominem constare. Mens sensuum exteriorum ope ideis imbuitur, Ex dictis liquido
patet corpus esse in homine unam ex partibus præcipuis. Hinc etiam patet non
posse universas mentis humanæ vi. res comprehendi, multoque minus explicari,
nisi prius quæ in ipso- corpore obveniunt, intelligantur. Etenim a natura ita
comparati sumus, quod sicuti corporum ictus nostros sensus veluti explicant,
ita sensus externi, mentis vires ceu creant atque exsuscitant. Ex quo sequitur
nullam posse dari ia mente actionem, nisi a sensibus exterioribus ea
commoveatur, et sensus ipsi delitescerent, si in iisdem nulla corporum heret
percussio. A sensibus igitur exterioribus exordiendum esse ducp • tum salina,
quæ ad nares ducuntur, ac 'nervos olfactorios afficiunt, ex quo in cerebro
odoris, vel fætoris sensatio excitatur. Maximæ utilitatis est hic sensus
gustui. Animalibus autem suffiicit ad cibos distinguendos, proindeque in illis
est ex quisitior, nam iisdem deficit alius judicandi modus. 16. Quid gustus,
ejusque fabricatio • ([ustus situs est in parte exteriori lingux,‘qux tt £>
vel in basi. Tactus in lingua exercetur, sed alio sensu. Nam partes oleosæ;
atque salinx ciborum cum liquoribus salivalibus mixtæ, et resolutæ linguæ
papillas quodam rriodo afficiunt Ex quo oritur saporum perceptio, qux in variis
hominibus, atque animalibus vari» est, pro papillarum dispositione. Hinc tantæ
in saporibus vatietates, qux xtatis, sexus, consuetudinis, morbi, atque
temperamenti retionem sequuntur* Hinc denique tanta hujus sensus inconstantia»
Quid Tactus. Tactus denique est unus sensus in universa corporis superficie
diffusus, licet in extremis digitorum, atque pedum sit vividior. Sensatio oritur ex corporum impressionibus, qux in
nostro corpore fiunt. Impressiones vero, nervorum. ope in cerebro
transferuntur. Hinc eorporum multitudo, durities, frigus, calor, gravitas,
asperitas. Sensus cur non perfectiores. if. Verum multi exquirunt, £iir sensus
tara pauci, et tani imperfecti * Utraque exquisiEorumque progressibus, tio
inepta. Primum si sensus
essent etiam jniUe, fortasse mentis operationes essent plures, quam modo sunt?
minime quidem. Quin imo pro universis mentis actibus explicandis, sufficit unus
sensus. Quid si deinde perfectiores ? Dicam, quod eadem ratione, qua in hominibus
augerentur voluptates, augerentur quoque molesti*. Ha?c de sensibus
exterioribu*,. De t ensibus interiobus, Numerantur sensus interiores. Sensus
interiores, ut superius, sunt«eV 3 moria, vis %emreramenti y \is affectuum,
etttentio, ac sensus moralis. De omnibus, quam breviter ad tyronum captum. t.
02. Q uiJ cerebrum, et cerebellum. Universa cerebri massa, duas in partes
præcipuas ab anatomi peritis dispescitur, quarum altera cerebrum, altera Vero
cerebellum appellatur. Cerebri substantia natu, jra mollis, atque pene
infinitis cellulis re-, pletur, in quibus modo nobis .prorsus incognito, non
solum imprimuntur, verum etiam diutissime retinentur bbjectorum exteriorum
idex, sive simulacra, sive species, cum eorumdem relationibus etiam abstractis,
et perquam longo ordine implicatis. Mihi sufficit velle, statimque idex bovis,
canis, domus, urbis teproducuntur, eaque distinte tissime quasi in tua. &
I>' mentis actibus que eomposita distinguuntur. Primi generi» »unt illa
quatuor omnibus nota: videlicet ckulericum, sanguineum, melancolicum, ac flegsnuticum.
Ad secundum genus referuntur ea, qus ex iisdem componuntur, ut sunt choxtT ico
sanguineum, cholerico melancolicum, et eho-lerico JLeg muticum. Sanguineo-melancolicum, etc. Rari homines dantur, qui
ab uno dumtaxat temperamento dominantur. In pniversis temperamentum mixtum
reperitur. joc AUi temperamentorum effectus,, ir _ Hominum temperamenta si quis
consideret, profecto iptelliget rationem, cur alii sunt pæne stupidi ac bardi,
alii vero ingeniosi: Cur alii pro rebus metaphysicis, atque abstractis sunt
facti, alii pro enucleanda solummodo verborum vi. Alii videntur pene nati
philosophi, alii oratores, aliique pqetx. Nonne -temperamentorum vis amnium
artium, et teieutiarum; utiune omnium virtutum, ac visiorum velu|i officina sit
-habenda ? £x hac de,nique
homines inertes, mendaces, flagitiosi t «c sacrilegi oriuntur. Animi quid
passiones. Accedunt te.tio loco passiones, sive affefctus, sive perturbationes;
qux non sunt, nisi quedam animi, atque corporis .commotiones ab objectis
exterioribus in nobis ope -sensuum excitato. Harum .omnium sedes in cqrde
collocatur, qupd nervorum intercostalx propagatione cerebro adhæret, Hac de
causa cet Eor umque protrusimus. \j februm, et cor amice i ater se conspirant.
Etenim pro ut ideæ boni, vel mali in cerebro ceu pinguntur, et sunt viviJ* }
sic cordis vibrationes vel retardantur, vel adcelerantur. En ratio, quare modo
animus cordis motibus, modoque cor animi commotionibus inservit. 2 7* Prxcipua
passionum divisio. Multiplex est passionum partitio. Præcipuæ vero sunt amor,
odium, timor, spes, ambitio, avaritia, etc. qua? cujusque vis sit, et quid in
nostris judiciis hac induunt, suo loco dicemus. Si quis vero amplissimam
tractationem desideret, legat opus, inscriptum: Homo na~ tur.i/is a me tertio
editus« 28. Quid Attentio. Quid meditatio • Quarta mentis operatio est
meditatio, quS quoddam vinculum ac nexum inter ideas ponimus. In meditatione
profunda sensuum exercitatio relaxatur » Parum differt homo perquam longa
meditatione contritus ab eo, qui sen- Rorumque progressibus S sensibus caret.
Hujusmodi fuit Nicolaus arcanus pnestantissimus Mathematicus, as Antonius
Genuensis recentissimoj-um philosophorum facile princeps, ac denique N artus
Lama rerum physicarum, ac mathematicarum peritissimus quibuscum familiariter
viri. Quid obstructio, rationisque compositio. Sed mens non modo percipit,
reagit, recordatur, ac diutina meditatione conteritur, sed ideas etiam sua
natura conjuctas, concipit divisas. Et e contrario, qux reapse sunt divisæ, ut
conjunctus percipit. Harum a tera vocatur mentis abstractio, altera vero
rationis compositio dicitur. Ad primum actum idex justitir, prudenti )iodo
easdem iterum componens veritates invenit, easque in infinitum auget. Qui
rationis compositione magis polient* Sed est obtusi, atque hebetis ingenii
ideas sejungere, easdemque, recte componere ? minime quidem. Imo 'est dumtaxat
virorum acris ingenii, naturas vi; atque arte prxstan- tisT X 9 tilius Regulus,
est æqualitatis, sive convenientix judicium. At si dicam. Italia modo flaret,
ut in Augusti t itate, continetur hoc in judicio inæqualitatis narratio. Nam
falsum est, quod nunc Italia floret s. Eoruniaue progressibus, Quid
ratiocinatio. Quid si mens duas inter se ideas comparans, non distinguit, num
hæ inter se conveniant, vel disconveniant ? Tum illas cum tertia idea comparat
jquacunt convenire,vel disconvenire inteliigit. En octava mentis operatio, quæ
ratiocinatio nuucupatur. ex gr. Ignoro num solis materia sit necne ignea. Dico.
Quicquid urit, est ignis Verum radii sons urunt. Ergo solis materia est ignea.
Insuper: Quicquid est ponderosum, est corpus. At lapides sunt ponderosi.
Lapides igitur sunt corpora 1 Duplex ratiocinandi vis, Ex dictis facile
intelligitur duo ratiocinii genera dari. Aliud dicitur adfirmans, aliud vero
negans. Ratiocinatio vocatur affirmans, dummodo ideæ conveniunt cum teitia, cum
qua comparantur. Alias dicitur negans. 1 limi generis est hoc: Corpus in partes
dividi » fur, Sed piant £ suas in paries resolvuntur. Flaatte igitur sunt
corpora. Secundi gereris est illud: quicquid cogitat, judicat, raioci natur,
quoque vult, et recordatur, non est corporeum. Mens autem humana ‘ percipit,
judicat, ratiocinatur, et recordatur. Mens igitur humana non est natura
corporea. Quid ratiociniotum senes Quid si una idea
non sufficiat pro enucleando nostro ratiocinio ? Tunc accipiantur duæ, vel tres,
vel quatuor aliæ ideæ, et fiat quxdant ratiocinationum series. ex. gr. estne
spi «t De mentis actibus, spiritus humanus immortalis ? Hunc in modum
ratiocinor. Spiritus cogitat. QuicquiJ cogitat est natura simplex. Quod
ejusmodi est, mutationi non est obnoxium. Quod autem non mutatur, non
destruitur Spiritus igitur est immortalis. Quid methodus Postrema mentis
operatio consistit in quodam rerum ordine ac via ' quem ipsa sequitur tum in
veritatum investigatione, tum que in earumdem explicatione; qui modus methodus
appellatur. Pr .edictorum actuum reductio. Hujusmodi sunt universi mentis
humanæ actus, qui licet facillime reduci possent d simplicem perceptionem,
etenim simplex comprehensio est reflexio, abstractio, compositio, meditatio,
recordatio, atque ipsa judicandi, ratiocinandique vis Verumtamen. Mens vel ope
sensuum exteriorum, vel propria reflexione ideis imbuatur; Si primo modo ideæ
dicuntur directx. Si secundo vocantur reflexæ. Insuper reflexæ vel duarum
Idearum comparatione, vel ex duarum comparatione cum tertia oriuntur. Hinc
duobus capitibus universa comprehendam. Primo enim capite de ideis directis, in
sequenti de ideis reflexis sermo erit. Eo^umqifb progressibus i »f Pe Ueis
directis, quas ope sensuum exsteriorum mens excipit, 5 *- Idearum partitio • I
N recesendis omnibus ideis, ut ordine piT>cedam, exquiram primo earum
originem, deinde illarum naturam, tum quo pacto menti obversantur,
distinguuntur. Que idee sensibiles, et objectio % Quantum ad Originem, aliæ
dicuntur sensibiles, directa, atque adventitia’, qui omnes a sensibus
proveniunt. Aliæ vero reflexæ, quæ ex earumdem comparatione fiunt. Primi
generis sunt ideæ fi guræ, coloris, saporis, som t frigeris, ac caloris. Ad
secundum genus referuntur omnes ideæ abstractæ, uti sunt idee justitiæ,
pulchritudinis, prudenti e, liberalitfr tis, magnitudinis, etc. Quid idete
primitivte, et quid secundari* Hinc patet ompes ideas vel a sensibus, vel ab
ipsa mente oriri • Qux a sensibus, dicuntur ideæ primitive, qux autem ab ipsa
mente oriuntur, vocantur secundarie. Patet etiam nullo pacto mentem posse ideas
abtractas efficere, nisi adsint primitivæ. Dicito igitur ruentis vires a
sensuum impulsionibus excitari, ac ceu creari. Quid idee simplices, et composite
• ldeje, quo ad earumdem naturam in simplices, j6 De intnth actibus, ces, et in
compositas distinguuntur. Ide?e simplices sunt ilice, in quibus partes, seu
alix idex non interveniunt, ut idea coloris, frigoris, motus, voluptatis, ac
doloris. Compositx vero dicuntur idex, si in
iisdem alix idex simplices distinguntur. Hujusmodi sunt idex corporis, navis, urbis, domus, etc*
etenim hx plurimis ideis simplicibus componuntur. 6q. Quotuplicis generis sunt
i dee compos it. e. Prxterea idex compositx vel aliis ideis simplicibus ejusdem
generis, vel diversi generis constant. Si primum, idex compositx dicuntur
similares, si alterum dissimilares. Ad primum genus revocantur idex diei, et
milliarii, qux constant ex ideis ejusdem generis. Ut idex urbis, domus, exercitus.
Nam uti partes diei sunt hoax, minuta prima, et minuta secunda, et milliarii
partds sunt stadia, pas r us, pedes, et pollices, ipsæ non sunt nisi vel
temporis, vel mensurx longitudines, /Quid idea clarte et obscur.e, etc. Tertio
loco Idex ad mentem relatx, multiplicis sunt generis. Primo alix sunt clare,
vel obscure; alix distincte vel confuge; alie complete vel incomplete; alix
denique adequate atque inadeqvate. i. si lapidem ab arbore dignoscam, »4ea
dicitur clara, alias obscura. q. Si- meum horologium a mille aliis distinguam,
idea dicitur distincta; siu minus confusa. 3* Si omnes magnetis proprietates
sciam, ' mi- E orumque progressibus. mihi est idea cnmpleta hujus lapidis,
aliter est incompleta. Denique si mihi innotescant non solum omnes magnetis proprietates,
sed gradus etiam cujusque proprietatis, tunc illa idea dicitur adæquata, alias
inadxquata. Qua: substantiarum, et modorum i de. e. Itemque ad mentem
referuntur ideæ substantiarum, et modorum. Primi generis sunt idea? tabulæ, in
qua scribo, chartæ, equi, bovis, etc. quæ ex se subsistunt. Secundi generis
sunt ideæ figurx, caloris, saporis, gravitatis, et frigoris, quæ non existunt a
substantiarum ideis sejunctæ. de causa, neque puelli, neque senes sunt valido
judicio, quoniam puellis deest idearum multitudo, et quædam fluidorum
xquabilitas, atque elasvicius, Viris autem senio confectis deficiunt idex, ob
memorix labilitatem. f6. Quid vis ratiocinatrix, At sive mentis imbecillitate,
sive idearum multitudine, et varietate raro contingit, ut ex simplici idearum
comparatione, earum convenientis, vel disconvenientis relationem quis inveniat,
requiritur itaque ut easdem cum tertia comparet. Hujusmodi mentis actus,
ratiocinatio appellatur. ex. gr. scire quis aveat, num planta. sit corpus. Hunc
in modum ratiocinatur. Quicquid videtur, ac tangitur, vocatur corpus. Sed
piant* videntur, atque tanguntur. Piant x igitur sunt corpora, Duplex est
ratiocinandi genui, Duo ratiocinandi genera dari possunt. Vel enim dux idex,
quarum relatio nobis est incognita, cum tertia conveniunt, necne. Si primum
ratiocinatio dicitur adfirmans. Si alterum negans nuncupatur • Primi generis
est hoc ratiocinium. Quacumque videmus, tangimus, atque in partes dividimus,
sunt corpora. Piant x autem, et animantia videmus, tangimus, atque suas in
partes dividimus. Planta igitur, et animantia sunt corpora. Secundi ger netis
est hoc aliud. Qu*vis substantia cogitans, ratiocinanS, et memoria, est prxdita
spiritum nominamus • Nullum vero corptj cogitat, neque r. In quo ratiocinandi
vis consistat. Ex dictis manifesto colligitur omnem viin * ratiocinii huic uni
principio inniti. Qu, . Quantum ad primum in veterrima; historia sacra omnium
gentium, etiam imiTnnium jnvenitur, quod Dei idea fuerit omnibus hominibus
ubique locorum, ac temporum pene insita. Ab illis annalibus discimus, quibus
cxiemoniis eumdem coluerunt, quibus symbolis designarunt, quomodo in
calamitatibus invocarunt, et qua ratione placarunt ceu iratum* Insuper notantur
in iis annalibus tormentorum Rorumque progressibus. genera, atque execrabiles
formulæ, quibus impii publice excruciabantur. Quid plura ? Scimus etiam ex
ipsis populorum præjudicia, superstitiones, deliria, absurditates, fxditates,
aliaque innumerabilia, quæ Dei cultum vel foedarunt, vel destruxerunt. De
memoria ad naturam relata (, ex quo historia naturalis Eorumque progressibus.
hac tantæ rationis vi Theologia oritur, quæ Dei existentiam, ejusque adtributa
rimatur t cujus abusus, sunt impietas, et superstitio, quarum altera rerum
omnium opificem arroganter oppugnat, altera vero fædat. Præterea rationi quoque
spirituum tum bonorum, tuin malorum cognitio est adtribuenda. Nonne denique
tantæ rationis auxilio ipsam rationem intelligimus ? Nonne eidem etiam debemus
notitiam vitx futuræ, morum regulam nostrorum, quæ sint præmia,ac penæ? Item quæ sunt sperantia, credenda, et timenda ? 93.
De ratione ai naturam relata, ex qua physica. Alterum rationis objectum est
natura, sive munius, quod in corporibus in genere, atque in eorumdem
proprietatibus, et qualitatibus versatur. Etenim ratio vel abstracte corporum
proprietates Gonsiderat, vel ipsa corporum genera. Utraque hxc contemplatio
scientiam physicam eificit. Ipsa est, quæ quicquid in coelo, in atmospharra, in
tellure, ejusque in visceribus continetur, proindeque astra, me theora,
universa animantium genera, omne-' plantarum classes, fossilium, ac metallorum
et mineralium series comprehendit. Ad plenissimam hujus d i vinar scientis
cognitionem conjungitur mathesis, tum pura, tum mixta, ut Arithmetica,
Geometria plana, ac solida, atque Algebra, Mechanica, Dinamica, Hidraiv ika,
Ars B^llistica, Cosmographia, Optica, Dio-: Di I De mentis actibus. Dioptriaa,
Catoptrica, Sectiones Conicæ, Trigonometria tam spharica, quam triangularis. Ad
naturæ scientiam quoque referuntur Astronomia, Anatomia, Physiologia, Medicina,
Botanica, Venatio, Agricultura, chyinica, Metallurgica, atque pmnium animalium,
et plantarum historia, 94. De ratione quo ad hominem, ex quo ethica, /* **»*
UB.If, •» Ej usque progressibus. 49 L | B, tl. - Signorum Artificialium ortu,
ac progressu quibus humanæ mentis actus clarius explicantur. '*ne innumerabiles
aliæ voces, quæ substantias videntur notare, sed revera earumdem relationes
exprimunt, Hujusmodi sunt pulchritudo, deformitas, stupiditas \ paupertas,
nobi•iitas, sanctitas, justitia, alixqqe. Iri ipsum .dici posset de
adverbiis docte, erudite, elefitnter } diligenter, recte, etc. Octava vocum
classis • Octavo loco distinguuntur rerum si S na, sive voces in claras er
obscuras; in istinctas et confusas; in completas et in incompletas; tandem in
ad.equatas, atque in inadxquatas. Primi generis sunt voces: quercus, ovis,
aper: obscuræ vero sunt voces, vis, energia, atfractio, gravitas. Distinet*
sunt Cicero, C.csar, Pompejus, Sertoriut, Sylla. Circuli autem trianguli,
quadrati, etc. sunt voces completæ. Contraq. incompletx sunt sequentes, lignum,
lapis, pisces. Denique adxquatx sunt: linea, superficies et trian°ulum-,\ndiA?e
aliquis Italus. Htec de sermqnis elementis, tam in genere, quam in specie. A
quo pacto hujusmodi voces sunt inter se, vel cum tertia conjungendæ, vel
separandæ, px quibus propositiones, et syllogismi efficiuntur, in sequentibus
capitibus fuse disseretur. Quid propositio, qua judicia explicantur. Jidicium
alibi definitum, est mentis actus, quo duas ideas inter se comparans, ipsa
percipit illarum æqualitatem, aut inæqualitatem illarumque convenientiam, ve|
disconvenientiam. Qua de re propositio non est aliud nisi mentis judicium, quod
verbis exprimitur. Ex. gr. Sol est ingentissima Mundi moles. Luna est corpus
opacujn. In quibus propositionibus: soli tribuitur maxima moles jl unse Alitem
opacitas. Dicitur etiam propositio, De Lojuela, licet si subjecto removetur
qualitas quædam. JEx, gr, Itali hodierni non habent suorum majorum virtutem.
Qua in propositione sejungitur virtus ab illis Italis qui modo vivunt. Duobus
terminis constat propositio Hinc patet unamquamque propositionem ex duobus
terminis constare debere, quorum alter dicitur subjectum, alter vero
prædicatum, quod plerumque est aliqua subjecti qualitas. Sic in prima
propositione: sol est subjectum • Ingentissim vero moles f est prxdicatuin.In
secunda luna dicitur subjectum, opacitas vero prædicatum. Propositio constat
etiam ex verbo » Hinc etiam patet, quod propositionis termini conjungendi sunt,
vel separandi cum verbo, alias nulla habetur judicii expressio. Etenirti
sublato verbo, quod affirmationem, aut negationem continet, termini neque
affirmant, neque negant, sed dumtaxat res designant. Ex quo sequitur, quod
quævis propositio, præter duos terminos, constare quoque debet ex popula, quæ
plerumque sumitur ex verbo sum, es, est, Sic corpus est extensum • Spiritus est
substantia cogitans. Duplex est propositionum genus. Ex quo sequitur tertio,
quod ut judiciorum,sic etiam duplex datur propositionum genus .Sunt enim
propositionum aliæ affirmantes alia? nega/ttes. Dicuntur propositiones
affirmantes illæ, in quibus prxdicgta cum Subjectis Ejusque progressibus. 6 $
etis conjunguntur. In quibus vero prjedicata a subjectis separantur,
propositiones negativæ appellantur. Ad primum genus revocantur: Leo est ferox.
Homo est rationis compos, Samnites sunt bellicosi. Ad secundum referuntur:
Materia non cogitat. Spiritus non est extensus. Deus non est ipse mundus. Aliud
est judicium verum, alia autem propositio adfirtnans. Priusquam ad alia
deveniamus, duo hic notanda ducimus. Primum est, quod persarpe evenit, quod
licet judicium sit verum, ejus tamen enunciatio est negativa. Gontraq. judicium
falsum cum enunciatione affirmativa quandoq.exponitur.Primi generis est propositio:
Deus non est ipse mundus. Secundi generis est bxc altera: Deus est ipse mundus.
In primo exemplo judicium verum, negative exprimitur. In secundo judicium
falsum adiirmative enunciatur. Quandoq. propositiones carent terminis, ft ipso
verbo. Notandum secundo, quod quævis propositio non semper habet duos terminos,
sed quandoq. omittitur unus, vel alter. Ex. gr. Dux regit, deest pr-xdicatuin,
nempe mitites. Filium verberat, deticit subjectum, scilicet Pater. Inveniuntur
fandem qujedam propositiones, in quibus et subjectum, et prædicatum omittuntur,
ut in illis Cæsaris, per quam notis yerbis ad Senatum, populum q. Koma E um t •
JJe Loquela. num scriptis: Veni, vi di, vici. propo. sitio nes sunt, et reapse
continent suos terminos, hoc est 2 Ego fui videns. Ego fui venien*,'Ego fui
victor. De Materiat Forma, e t propositioni* Quantitate Otk Quid propositio
necessaria, repugnans., ti’cmtins. gr. Amicitia homines supponit equal (S, vel
ipsa ejjicit Conditionales sunt, in quibus inest aliqua conditio, sine qua
prxdicatum nullo pacto subjecto convenire potest, ex. gr. Si spiritus t st sui
naturi substantia cogitans, nequit esse ^ corporeus Que causales. Causales sunt
illx propositiones, in quibus notatur causa, qua pfxdicatum subjecto convenit,
necne. ex. gr. Deus non potest innocentem punire, quia justus. Que relate.
Delate sunt illx * in quibus inest aliqua terminorum ratio, ex.gr. Homo in
artibus, atq. scientiis projicit, f>ro ut est attentus j et labor at » =• i
ftjusque progressibus i iff 52. Qule
Jiscretiva. Deniqufc, appellantur discreiiva, si inter terminos notetur quidim
collisib. ex. gr. Castruccius Castracanus fioh militum numefro, sed virtute
Flerentinos vicit i De aliis propositionibus compositis. Sequuntur
propositiones secundi generis, qui vidfcntur esse simplices, at resolnt* Sunt
iquoqbe tompositx, ipsiq. sex in classes etiahi distingubntur. 54. Qua dicuntur
exilusivtt. Vocantilr prbpdsitiones exclusivx illæ bmnes, in quibus prædicatum
universa subjecta excludit, ptxtfer udum. e*, gr. Una felicitas ex omnibus
bonis, est Optabilis. Qua comparativæ. Comparativa surit illa:, quæ oriuntur ex
subjectorum, vel prxdicatbrum relatione, ex. gr. Scipio Africanus fuit
prxstantiorfAnnibale. Q. I ab iUs Maximus fuit prudcntior Mi Terentio Varrone.
i> 6. Qua ihcaptiva. Inceptiva sunt illæ, in quibiis prædicatum nusquam
subjecto convenit, sed fcsepit convenire. eX. gr. Regnum Neapolis inci* pit
modo artibus, scientiisque florere. Qua desit iv a. Desitiva dicuntur
propositidnes J iri qbibus pridicatum desinit subjecto conveni e. ex. gr. Roma
cessavit eloquentia cum CICERONE (vedasi) interitu i t s S yo De Loquela, Que
continuativ* Postremo loco, si pridicatum, quod antea subjecto convenit, etiam
in presens convenit, hujusmodi propositio appellatur coi 1tinuativa. e*.; gr.
hali etiatnniim perseverant esse sagacissimi. Prmdctx propositiones, cur
compositie. At dicetis, quomodo mpdicgr propositiones habendi' sunt compositx
Respondetur, quod harum unaquteq.' duas in nobis excitat ideas, temporis nempe
vel personarum, vel qualitatum. Sic in primo e-xemp 6^ jam allato: Sota
felicitas ex omnibus bonis est ^ expetibilis, æquivalet huic: neque diviti*,
neque scienti*, neque gloria, neque honores, sed una felicitas maximum continet
hdnum, proirfdeque expetibilis. Irt Comparativa. Dicemus,^ quod Scipio, et
Atmibal fuerunt ambo duces, verum Scipio in gradu majori. Illudque ipSum dici
posset de inceptivis, de desitivis, neque continuativis, etenim irt
incasptivis, prædicatum quod nuittquam retro convenit modo competit. In
Desitivis contra, quod retro couvenit, non amplius competit.. Denique iri
ultimis quod retro convenit, m prxsens etiam competit. Nonne ha: tres
piopositiones quantam temporum: rationem con tinent? v Quid propositio incidens
»• frater huc usqtTe dinumeratas propositiones j tam siriiglic*, luam’ Ej usque
progressibus. flantur et aliæ, quar incidentes nuncupantur, quæ ad compositas
referri commode possunt. Incidentes æque subjecto, ac prædicato conveniunt.
Subjecti incidens est hæc: Attilius Regulus omnium Romanorum fortissimus a
Poenis interficitur. Prædicati incidens est hxc alia. Octavianus deseruit Ciceronem,
qui omnium philosophorum, et oratorum fuit jacile princeps. In utroq. etiam
datur propositio incidens. Antonius, Lepidus, et Octavianus Senatum, populumq.
Romanum confregerunt, non eorum virtute, sed audacia. Hxc de propositionis
materia, sequitur ejusdem forma. Propositionis cu jusque FORMA in terminorum
unione, vel in eorumdem separatione consistit, ex quo propositionum
c;j)irmatio,ve l earumdem negatio oritur, ex. gr. Beneficentia exercitium
hominem reddit Deo gratum. Dicitur hxc adfirmativa propositio. Et contra
nominatur n-gativa, si subjecto prtedicatum non conveniat ut: .Horno
intemperans nequit esse sanus i Quo in loco notandum ut alibi, quod judicia vera
cum propositionibus negdntibusi et judicia falsa cum propositionibus
adhrmativis enunciari possint, attamen ipsa judicia eorum vim nusquam amittunt.
Qur notanda in propositionis forma.
Notatur secundo, quod in omnibus proposi* tionibus affirmantibus terminorum
unip necessario sequi debeat subjecti, non autem prjedicoti E 4 si- De LoyOeli,
SIGNIFICATIONEM: ex. gr. Omnis leo est animali Non intelligitur, quod omnis leo
sit omne genus animalis. At in propositionibus negantibus, prædicatum prorsus
excluditur, ex. gr* Nulla planta est animal. ^Equivalet huic: nulla planta est
ulla animantium species. Hisce expositis, reliquum est, ut de propositionis
quantitati aliqua dicantur. Quid ouantitds propositionis. Hic pro propositionis
quantitate haud intelligitur, quam major, aut minor terminorum significationis
extensio, qui in propositione continentur. Hinc primo sequitur posse dari duas
propositiones inter se maxime discrepantes, quarum altera dicitur universalis:
altera vero singularis. Primi generis est hæc: omnes homines ratione sunt
proditi * Alterius generis est hæc alia: Petrus ra* tiocinatur. Alia
propositionurh vatietai. Præterea tam propositio universalis, quam singularis
esse possunt ambæ affirmantes, vel artihx negantes * Propositiones ojnnes
universales sive sunt affirmativæ, sive negativæ, quibusdam notis
distinguuntur} qtix siirtt: omnis, et nullus. Prima universalibus
affirmantibus, altera universalibus negantibus inservit. Singulares vero
propositiones articulis, hic, et ille notantur. •? quibusdam vulgaribus
propositionum adjectionibus Qitid propositionum oppositio. Hoc in loco nomine
adjectionis veniune qucedam propositionum qualitates, qu» sunt oppositio y
icquipollentia j atque conversio propositionum. Principio? oppositio duarum
propositionum comparationem exprimit, qu* licet iisdem terminis constent,
attamen ipsæ differre possunt inter se, vel solS forma, vel sola quantitate,
vel in utraque. Si pugnent in sola forma, retenta quantitate, hæ propositiones
vel sunt ambæ universales, vel ambæ peculiares. Si primum, dicuntur contrari
dicendum est, quod tunc duce propositiones sunt ejusdem vis, ac valoris et
arquepollent, quando altera alteri substitui possit, quin earum vis mutetur 1
ex. gr. Quicquid est justum., esi etiam honestum. Contraque fuod est honestum,
est quoq. justum. Ex quo patet tunc dari requipollentiam,
atq. Conversionem inter duas propositiones, quando ha? reciprocari possint.
Hujusmodi sunt jam jam allata?. Huc revocantur rerum definitiones, eaturnque
divisiones. Cum autem definitiones, ac rerum divisiones non sint, nisi totidem
mentis judicia, intelligitur easdem locum habere in propositionibus. Dicamus
itaq. quid sint, et quotupliciter, maxime quod quamplures Dialectici JLogicam
esse artem bene definiendi, atque dilidendi dixerunt. Definitio est propositio,
quS terminorum Ejusque progressibus. 7 ? rtam ope aliqua idea completa, et
determi, nata explicatur. ex. gr. Homo est animal quoddam ratione preditum,
civile, atq. ad felicia tatem aptum natum. Itemq. definitiones adhibemus pro
rerum notis distinguendis, ut eas ab aliis facillime secernamus. Nonne cum
dicam hominem esse, animal ratione præditum, civile % atq. ad propriam
felicitatem naturo, factum a exteris animantibus eundem non distinquamusS 73
Bone definitionis not.e. Ex quo sequitur Debere ingredi in definitionibus rerum
notas intrinsecas: quandoq. etiam possibiles. ex. gr. Homo non modo es% animal
rationale, civile, et ad felicitatem comparandam factam, sed quoque harbitauin
moralium capax, Alite bone definitionis note, Ex quo consequitur *. pro omni
rerum ambiguitate removenda, necessum est, ut definitionis termini sint clari,
atque definitiones cum rebus definitis reciprocentur. Hinc bene definitur. homo
animal ratiocinaris, nam ott)ne animal ratione pr editum, est homo., Definitiones
rea/es, sunt quoq. nominales. Ex quo tertio, colligitur non dari definitio,
lies reales, atq. essentiales, ut scholx loquuntur, nam rerum essentialia nobis
non innotescunt. Omnes itaque definitiones sunt nQ« minum definitiones, vel
potius descriptiones, 7 6. Quid rerum divisio. Deniq, rerum divisio est
resolutio totius in suas par. Ue Loquela,, parte? prscipuas, qur dicitur
physica in quantitatibus solidis, idealis autem in abstra~ ftis. Ad primam
divisionem spectat illa corporis humani partitio jn partes solidas, etjluidas.
Ad alteram retertur illa hgurarum planarum apud Geometras in trilateras,
quatrilateras, ct multilateras. Divisionis utilitas est maxima jn rebus per
quam maxime implicitis, et per quam longis, quoe uno veluti mentis intuitu, ne
q. videri, neq. comprehendi possunt. Sed ex quo orationis claritas, nisi ex recte deficitis,
et rectius divisis propositionibus ? Alia propositionum penera. Postremo
semigeometroe jrecentes, qui nominibus mathematicis tantopere abuntuntur,
dictis quoque accensent propositiones, quas ipsi dicunt practieas, Theoreticas,
demonstrabiles, indemonstrabiles, axiomata, postulata, problemata, Theoremata,
schflta, corollaria, lemmata, et si qu* sint alia vobis omnibus per quam
cownita. Sequitur syllogismus de quo Aristoteles apud Grsecos quarnplurimos
libros scripsisse scin)us ex Lærtro, i C ir v. •t 4 Ejusjue pragrf sibus. \l
»'* .-ia « c, if* .: V », J • i •r«r ; *A f -- ^ V^-; *#•* >5,I His omnibus
ultimo loco addendum est ixemplum, quod fit, cum ex rebus notis ad incognita
profcedamus. Ex. gr. Lacedemones, Athenienses, et Romani fuerunt liberi, qui
agriculturam, et militiam exercuerunt • Q UI " cumque igitur Status has
artes maximo animi, tardore colit, erit etiam liber. Ex antedicti jnodis hic
est prsestantior, etenim ab exemplis ortum habuerunt et progressus ars medica;
agrorum cultura, navigatio, pictura, sculptura, poesis, tactica, etc. Ecquis
est inter homines, qui aliquo exemplo cognito non lucitur, btiatn ad aliquod
scelus patrandum j ftonne Alexander Mstgnus Achillem, « L.l Cæsar Alexandrum
est imitatus? Quid plura • F 4 N? Ue erruriubs .accenduntur et inflammantur* i
\m ul ac accensa sunt, ex statu, tanta; omnigenæ ignorantiæ trans.it homo in
rerum quamplurimarnm scientiam. Verumtamen in tanti temporis longinquitate,
atq. in tanta artium,, scientiarumq. progressione mens humana adhuc res
infinita», ignorat, atq. omnfgeqa errorum colluvie pxne tabescit. Eam itaque
curare tabescentem unius .philosophi est cum prxceptis', et institutis. Sed
prius tantx imbeci i' itatis causas noscere, atq. præcipuas extricare, fit opus
Difficultas in addiscendo «> Quicumque artem aliquam, etiamsi mecha» liicam,
vel scientiam sibi comparare sedulo studet, quandain difficultatem in se
sentit, qux fere adeo magna est, ut eam difficillime superet. Quid hoc
manifestius jn sbcietate civili? Forsitan esse possunt, ut iisdem lubet, omnes
maximi philosophi, omnes Poetx, matheniatum cultores, atq. artifices magni
nominis ?. Rerum sciendarum infinita multitudo. Tanta es.t rerum, naturalium
copia, tanta artium, scientiarumq. multitudo, tantaq. re-, rura falsarum, vel
dubiarum infinitas, ut mens iisdem prope obruatur. Nonne hoc delegare dementis
esset. Libido rerum multiplicium Quid si hisce errorum causis, libido quoque
«ccedat multas, ac diversas artes j multas et e ’ di- JSorumque progressibus *
jf diversas scientias eodem teinporfe comparan» di ? Profecto quxvis mens ex
imbecilla evadet imbecillior, et majorum errorum fiet capax. Alia errorum cauta
in sensuum obtusi ' i ' * tat e. ‘ v Addite bis omnibus sensuum exteriorum
quandam obtusitatem, atq. sonsuum interiorum naturalem dispositionem, quibus
rerum corporearum ceu venenantur, et mutantqr jmagines. Nonne eadem de re
diversi judicant varii homines, quia djversa corporis temperatione dominantur £
Marius Pater natura audax agebat audacter. Contrft Q. P':jbius maximus
verrucosus natura lentus, lefttjssinie proqessit, adeoq. ille pro Cimbris
delendis, hic pro Annibale delassando, factus Alienationes, et distractiones.
Mentis imbecillitas etiam eruitur ex tot, tantisq. alienationibus tum
voluntariis, tunt physicis, quæ nonnullis hominibus adeo inficerent, ut pacne
insensiles appareant. In flcgmaticis
inertia solet esse maximi Altera errorum causa in nuturie phænomenis. 1 Deducitur etiam errorum causa
ex indeclinabj T li difficultate cojvnoscencfi rerum vires, essentias,
relationes, et fines. Ausi sunt quamplurimi hrec omnia rimari; at eorum
absurditates nemo nus adhuc dinumerare potuit. De erroribus Jn repetitionibus
et contradictionibus. Mentis imbecillitas quoqu^ eruitur ex tot, tantisque
repetitionibus parumdem rerum, atque ex tot, tantjsq. contrarietatibus, quibus
ne quidem summi viri carent. Hujusmodi exempla sunt sexcenta, qux hic recensere
t»eque liibet, neq. juvat. In systematum absurditatibus. His omnibus adjungite
tot systemata absurda, tot phænomena inenodabilia, tot hypotheses commentitias,
quibus maxime reeentiorum libri scatent. E x meditationis inertia ^ Mentis item
imbecillitas colligitur e? meditandi inertia, quoe omnibus hominibus est pxne
communis. Hac de causa paucissimi sunt, qui rerum causas cognoscere curant.
Quid turpius, quam se ipsum nescire, et cujam sui corporis artis medies
imperitis committere ? Ex corporis humani lentitudine. At animum inbecijlimupi
reddunt qusdam forporis lentitudo, atque affectuum vjs, quie eum ita
percutiunt, conturbant, et commovent, ut mens sola rerum superficie sit
contenta. Ex nimio sui ipsius amore. His omnibus addendum, quod nemo unus
propriæ debilitatis, sit conscius, neque sibi testis esse velit. Quisquis enim
aliqua de re j ud i-Eornmaue progressibus, gg judicium affert, putat non posse
melius dijudjcari. 14. Alia errorum causa ex parentibus. Quid si hisce omnibus
breviter adumbratis prsecipuis errorum causis, ultimo loco addal tis, quod
parentes, nutrjces, magistri, theatra, ineptorum librorum lectio, ipse
multitudinis consepsus pueros depravant', atque abducunt a vero ? En errorum
omnium principes causas, quas singillatim indicare cura, bo, ut declinare
possitis. P ex judicia populari. Præter jam dic$a, sunt et alia, uti pr*ju*
dicia popularia, quæ ut piant», et animantia regionibus sunt adcpmodata. Quis ea cognoscit, et cognita ab iisdem audeat se
liberare ? Nonne decipi, et
decipere seculuiq peitaturDe erroribus j De erroribus mentis t - quo ad Sensus
exteriores. Visus prostantia. * X sensibus, visus est reliquis pr®stantior,
quia illius ope majori 'idearum numero mens perfunditur, quam cum cjrteris.
Ptenim hoc uno corporum colbres, 'Hgurts, magnitudines', distantiis, motum,
atq. hu usce immensæ universitatis pulchritudinem percipimus, quo orbati, nulla
esset coeli fornicepS, nulla prtur® et scnlptth® proportio, nulla rerum
dispositio, nullaq. tantæ natur® immensitas nobis obversaretur. Attamen quis
crederet ? Ilcc sensu mens niaximopere decipitur. x 7» Ex visu. i. Mens errat,
cum quis objectorum existentiam, qu® non videt, audacter negat. Profecto nemo
æris fluidum, neque inhnita animalcula, neq. corpora longe procul dissita
jntuetur, licet existant. I P. Ex visu. IT. Decipimur in judicando de rerum
distantiis, eteniin credimus solem, lunam, et nubes ®qualiter a nobis distare. Verumtamen nubes non attolluntur, prxterquam ad duo,
vel milliaria. Luna funerat distantiam Eorumque progressibus. 07 33 Sol denique juxta Kebleri
supputatione nonagintas miriones excedit. Ex visu. HI. Sj inter dyas Urbes, vel
montes maxime dj^ijos, interposita sit vallis etiamsi amplissima, 'procul
visi', apparet una eademque urbs, atq. unus idemq. mons. ac. Ex visu, Fallimur
etiam, quo ad corp.orum figuras. Nam ellypsis cominus perspecta a circii. lp
non distinguit ujr. Et Turris angularis videtur sphærica. rtemq. du lineæ
parallela longissime protensse, videntur convergentes. Qontraq, duo parietes
divergentes APPARENT paraliel Quid amplius? linea tortuosa procul visa, nobis recta
apparet. Campanæ fremitus, dum sonat, non intuetur, etiamsj sonitus. audiri
nequeat, nisi partium metallicarum vibrationibus > at 4 * ærl 5 undis.
liludq. ipsum dicito de aquis paludosis ac lutulentis. no. Ex VISU. Eademq.
deceptio notatur in lucis propagatione, cujus motus putatur fieri puncto
temporis, attamen est successivus licet celerrimus. New/tonus enim eam
percurrere quolibet minuto. secundo 20. semidiametros terrestres, scii., 202.
milli^ria Italica putavit. Ex visu: Prxterea sol. videtur diametri
bipedaroribus, lis. Itemq. Planetx majores, atq. stellx prirus magnitudinis
apparent tanquam faculæ accensa;, verumtamen. præstantissimi Astronomi recentes
Tellurem esse asserunt solis vix partem milionesimam. Nihil dicendum de Jove,
deque Saturno. Decipimur quoque cum judicamus colores omnes corporibus
adhærere, licet in iis non reperitur, nisi quædam radiorum lucis retlexio,
cujus angulum si varies, motatur quoque color Si in fili extremo ponatur carbo
accensus, atq. tanta celeritate circum torqueatur, ut minuto secundo circulus
absolvatuy, circulum igneum minime interruptum distinctissime intuemur. Ex
visu. Decipimur item adspicientes remum in aqua aliqua immersum, ruptum
judicamus. In apice akissimi montis solem videmus matutino tempore, attamon est
ejusdem ctrum. Vf. Ex visa. V t V'; Ex audit - ’ 'vc«*Jdl Ut lucis radii, sic
acris und.e obstaculi inipactx resiliunt* £* hac ær» rep$fCu*, sio ne, oritur
vocis repetitio, quam æch uro dicimus, hujusmodi vocis repetitiones. fiud ratis
locorum distantiis. V Sylvestres autem credunt esse homines, qui eosdem
‘ludificant. Quod est iaW. n •" * &* odMTMPk'* A Odoratus menti quoq.i
causas errorum trifcuit, qui sunt sequentes. Brimo putamus omnes odores ac
fxtores corporibus inessed. Quod est omuino falsum. Nam corporibus non
inhxrent, prxterquam effluvia, sive pafm insensibiles nobis voluptatem, vel
jbolestjam excitant. Si primufn, sensaodorem. Si secundum wem. Hinc, sequitur,
quod si toixmktitur odor, vel fator. E odoratu*. '. m'-Secundo decipimur, diim
judicamus ofnn honines qtte ac nos odorem, vel fetorem alicujus qprporis
sentire. Fortasse est una eademq* nari««nfebricatio m amnibus homi,bus Quis
eniifa ignorat eundem hominem rtfdrbo- laborantem non sentire odores, titl
prius ? Cur fta ? quia sensus dispositio non est eadem. Hinc bjwfnali - tempore
non setr+ s* I '4 aL M i Eorumqut progm rsi&us timus, quæ tempore æstivo
nos conturbant. Ex gustatu. Sequitur gustatus. Hic sensus licet nobis maximæ
utilitati, attamen est etiam multorum errorum causa. Primo judicamus sapore ni, sci!, amarum vel dulcem
esse in dapibus. Verumtamen in ipsis non inest, quam qujedam particularum
multitudo, quæ linguæ nervulos plus, minusve afficiunt. Ex gustatu. o.
Decipimur, cum putamus omnes honunes ceque ac nos sentite saporem in dapibus,
amaritudinem, aut dulcedinem in vino, etc. Quod ne quidem in ipso homine
contingere . «otest, quoniam ejusdem linguæ dispositio perpetuis mutationibus
subjacet. Ex tactu. Sequitur ultimo loco tactus •, qui reliquis est minus
erroneus. Corpora enim, quæ video esse possunt spectra [MACBETH saw Banquo;
Hamlet saw his father – DISIMPLICATVRA]; sonitus, quem atu dio esse potest vis
phantasiæ, illud, ipsum dicito de' fætor ibus, et saporibus. At equum,
parietem, aquam, ignem si tetigero, de eorum existentia dementis esset
addubitare. Quid plura? U110 judice tactu, scimus nos existere, atq. extare
infinita alia corpora extra nos\ a quibus continuo impellimur, et commovemur.
Licet res sic se habet, verumtamen hoc sensu mens decepta, frequentissime
errat. r* 'Wfc* ttt tn»,« • «oWawtf x 4% / q q 40. Ex tactu.Vas ære repletum
*qufc ponoerostnh putamus, ac si ab illo fluido esset orbatum. Quis nescit ærem
ponderare, uti extera cor* pora ? atque ex hoc errore oritur alter. Arbitrantur
en; tn otunfcs homines æiem in nobis, neq. in se i so gravitare, attamen
reCentissimi philosophi centies experti sunt ærem gravitate, illiusq. columnam,
qus nobis imminet, æquari ponderi asperrimas intuemur. Ex tactu. Insuper
judicamus quædarri corpora esse sua natura frigida, quædam alia ex se calida.
Calorem, itaq. et frigus corporibus inesi se credimus. Quod est omnino falsum.
Etonim calor, et frigus sunt qnxdam anitni nostri sensationem; quas in nobis,
uti odores, ' 1 * ' k ' tft f / qigjped (S Eorurtique progressibus. et Sapores,
corpora exteriora in nobis excitant. Ex tactu 4 V. Decipimur quoque, cum manum
ca dam irt aqua frigida mergamus, aqoam sentimus calidam, et contra. Quin
advertatur * quod ma«us, aqua sit calidior, vel rigl, dior. Ex. gr. Si in manu
sint calonS 8. S ra ‘ dus, in aqua autem frigiditatis. Aqua sentiri debet
calida, uti Contra si in aqua sint decem frigiditatis gradus, et in manu
caloris. Manus sentitur frigida, ut sex. Ex tactu denique decipimur, curri a, s
? th judicium feramus de corporum duiitie, mollitudine, flexibilitate, etc. qux
suos gradus habent. Nonne quotidie experimur > quo uni durum, alteri molle
videtur*vv, »* ». f Jflu. O/i •jv 5.'*' ir:-k,K Pqui temperamento cholerico
dominantur, sunt rmgmt.nm rerum promissores, superbi, audaces, vaferrimi, ambitiosi,
crudeles. Sanguinei amem sunt Venerei, vinosi, voluptuarii, brevius ad Sa
omnia. rapiuntur, qu* sensus alliciunt, et mulcent. Melancolici plerumq. sunc
confusi, laboribsi, diffidentes, atq. acerrimi judicii Flegmaticos denique
experimur pavidos, superstitiosos, somnolentos, serviles, confusos, atq. tam in
virtutum, quini in vitiorum exercitatione inerres. Ex temperamento. Quæ cum ita
sint, quisjue intelligit, quod hi omnes eodem de objecto diverse jfidl are
debeant, e >rUmque judicia natur* cujasque e«e adtemperata. Ex qno
necessario sequitur idem periculum sanguineis minimi, rnelancolicis, et
flegmacicis Maxirhi moifienti obve rsari. Ex quo etiam sequitur, quod una,
eademqtie res esse debet uni maxirrce voluptatis, alteri vero maximi doloris.
Hinc quoque redditur ratio, quare unus judex illum ipsum absolvit, quem alter
damnat. Nonne tanta judiciorum varietas, a diversa corpoj-Um constituzione
repetenda ? Nonne hac est multorum causa errorum? Mentis errores ex passionum
vehementia. III nostrorum errorum fons, idtmque uber. th 6 fi e erroribus,
liberrimus in passionibus inest. Quid singula» jjersequar, cutn omnes ad unum
sui ipsiu»'; amorem reducantur? Etenim ex immoderato sui ipsius amore exortæ
sunt tot populorum cædes, patri» proditiones, parricidia, flagitia, scelera,
incendia, provinciarum, urbiumque direptiones. Quis ea recensere valeret, quar
Cyrus major Persarum Rex, quæ Alexander Macedo, quxque tandem ipsi ROMANI
gesserunt ? Legite quæso vitæ humanæ monumenta historica H tam recentia, quam
illa ab ultima antiquitate repetita, in iis tanquam in tabula innumerabiles
amicos proditos, Sanctiora iædera neglecta, innocentium tnilliones modo unius
ambitioni, modo avaritix, modo libidini, modoque crudelitati immolatos esse
videbitis. Dici posset hoc
ipsum singillatim de timore, de spe, de ambitione, coeterisque. Quid plura ? Nulla in homine passio immodica,qux
martyrum mil'lione» non recenset. Ex attentionis defectu «ja. Sequitut attentio, ex cujus
neglecta plurimum quoque decipimur. Erramus, cum nostra attentio licet finita,
eam in quam piurima objecta distrahamus, a. Sæpissime attentio uni objecto
adhærens, reliqua nos ignorare facit. Ipsaq. augetur vel minuiut, pro ut nostra
militas est major, vel miti >r .Ex attentionis neglectu fere contirftt.t,
quod de rebus involutis, et implicitis judidelationes noverimus ? Deniq. ex
slttentioni defectu ortum ducunt tot, ac tanta præjudicia popularia, mentis
alienationes, atq. aWrdi* tates. Nihil dicarri de sensu mbrali, qui tiumq. nos
decipit v Ha-e de mentis erroribus quo ad sensus exteriores, et interiores i
ertorib ., guo ai animi sensationes. Ex sensationibus errores. ITT' X omnibus
iis, qua? huc usque maxima P.f curti brevitate extricata sunt, liquido patet
universaS animi sensationes prædictorum sensuum tam naturalem, quam temporaneam
dispbsitionem sequi debere. Cum
hi sensua jnagna sunt in \'arietate, non modo inter homines, sed fctiam in ipso
homine, sequi quoque debet, quod unius sensatio abs alterius 4 serisatlone
distinguenda. En ratio cur idem corpus, neq.:eque durum, neq. atque pohderosum,
vel molle, vel odorum, vel fætidum omnes sentiunt. En quoque ratio # quare dictatum
illud sit verum. Quot homines, tot sententia. Rerum enim judicia a senr
sationibus, sensationes vero a sensuum textura oriuntur. Varietas itaq.
sensuum, etiam judici orum diversitatem affert. Qua? cum sint* videamus ftiodo
f quo pacto a sensationibus Recipiamur. quæ non sunt nisi r ‘ to- • y % t t®,
P? errjg/fyt *, totidem rectiones no is conspnse, vel dissq «ce, habeantur
absolutæ. ajcfe/hr Jfceptio m IV. Decipitor quo® e cum Dei, horainunj, et
plant»‘win actiones putentur ejusdem generis, tametsi tofo cxlo differant.
Sequitur aiiu deceptio. V. Sim; it r Dliitur, dym ideas spirituales onnhi
extensas, et mitf riales ^oncipiat. Judicia fa^sa 'x prava idearum unione • i.
JEr^at e-inn, si qu* sint conjuncta,, separata esse ju icet. Coi.traque qu?e
nonnisi jn tote separantur, concipit conjuncta.,, Suoqi noris gereris suat
Poetarum fabuljp. Secunda autem sunt to F-,oms irrotibus. Omfiis eirctilus qua
tuor angulis rectis equahit Circulus autem est figura plana. Omnis itaqui
figura plana quatuor rectis tequatur. V syllogismi vitiositas. Syllogismus est
vitiosus, si quis e præmissis negantibus velit affirmativi concludere. Contraqi si e* præmissis ajentibus velit aliquid
negativi concludere « Primi generis fcst: Arabes non sunt Christiani. ITALI non
sunt Arabes. Ergo ITALI sunt jChristiani » Secundi generis est hic: Africani
sunt inertes. Eurtrpæi autem stmt naturS laboriosi. Africani igitur non Sunt
Europii. Alter syllogismi defectus. Erratur etiam vi haspirationis. Ex. gn
Quicquid amas, non comedis. Sed pisces hatnai pisces ergo non comedis rir. VII
syllogismi defectus. Mens errat in syllogismo conficiendo j si quid pro causa
ponatur, quod reapse non sit Causa. Ex. gr. Literarum studium breviorem reddit
Litbratorum vitam. Octava syllogismi vitiositas Illud quoq. dicendum si quis
pro deffiotiStrato habeat, quod est in qUatstiotie. Ex. gr» Si quis diceret.
Mundi cl atrum ist illud, ii i quo universi corpora tendunt 1 Atqui omnia mundi
corpora in Tellurem decidunt. TellitS igitu? ttst mundi centrum. Nona
syllogismorum vitiositas Vili. Vitiosus pariter est Syllogismus, si quid
Ttorumque progressibus « t 4 f qtlidquam alicui substanti* absolute tribuatur t
qiiod eidem per decidens competit. Ex. gr. P/anetx f uti tellus, sunt corpora
opaca. Ergo habitatores habent. 1 14* Error ab exemplo. Mens errat in exemplo,
quando ex r t cognita ad incognitam quis deveniat, quin eidem rtJrum circumstanti*
non concurrant. Ex. gr. Prima bella civilia inter pairicios, et plebeos,
fecerunt Romam maximam, atque potentissimam. Ergo si omnes Europx status bella
intestina foverent .(Q tiod utiq. est falsum) Redderentur potentiores. Ex
enthymemate i Errat mens in enthimemate ob idem principium. Ex. gr. Dux
valentinus statum Ecclesia a tyrannis vindicavit. Fuit ergo maximtis imperator.
Duodecima ex sorite vitiositas. Captiosa est argumentatio si in aliqua
jiroposititinum serie, una est erronea. Tunc Quotquot sunt, omnes rUunt. Ex.gr.
Ex omnibus terrx partibus Europa est melior. Ex EUiopse statibiis Italia. Ex
Italiis regionibus regnum Neapolis et ex sensu exteriori fqi cilhme decipiatur,
neces/e duco, V t uni stnsui nusquam dedatis; Quamobrem plures Vint adhibendi. Sic visus ab auditu: et tactus
ex gustu emendatur. Propria Votura tst notanda. nus. homine adeo discriminatur.
Vt raro eveniat, dW «fc conspirent ami est eorundem memori, temperationis,
passionum, atque attentionis differentia, ex quibus * iam tanta judiciorum
varietas, atque tanta errorum origo. Si quis igitur eosdem velit def mare,
sedulo perpendat hxc omnia. Quod si errores si nequeat evellere, salæm eosdem
minuit, Sensationes sunt cuique proprix. H>Sensationes cujusq. generis sunt
cuiq.komini JS orumque progressibus. ilf peculiares, atque in ipso homine
variant. Qua igitur in iis contentio. Si ipse sint re/at.e ? Excitanda est
attentio. Ex attentionis contemptu, quamplurimi errores. Ipsa igitur est
excitanda, et adhibenda. Ratio est quoque excolenda, quam si unans sequamur
ducem, nusquam aberrabimus. Vpcabula
obscura vitanda. Quid vocibus, uti animi nostri SIGNIS, utilius? Sint itaque
clare, perspicua, et non a communi usu remote. ltemque vocabula complicata,
emphatica, methaphorica, atque SIGNIFICATIONIS expertia, vitato. Declinanda
sunt enunciationes absurd.t, Sint enunciationes judiciis conformes,
decliænturque falsa;, obscure, atque absurde. Ars Sophistica philqsopho est
ableganda t Definito res. Sed definitiones sint rebus clariores. Ille autem amnibus
prestant, que cum rebus definitis reciprocentur. Vitato syl ^g is mos erroneos.
Ars enim Sophistica a philosopho est ableganda.Nusquam a re cognita ad
incognitam deveniatis, nisi prius omnes rerum circumstantias perpendatis.
Soritem raro adhibito Soritem raro adhibito t quia plerumq. est argumentatio
captiosa De erroribus, A scepticismi spiritu procul estote. A scepticismi
spiritu, maxime inconsiderato longe procul abesto. Argumentum, analogi£ fugito.
Neq. immodica sciendi curiositas vos abripiat. Quamobrem. Libidinem comparandi
multas, et diversas scientias uno eodemaue tempore vitato. Alienationes voluntarias fugito.
Ab alienat usibus voluntariis vos ab alienato. Phisic.r autem si sint,
attentione miniiendtt. i tll 1Rc- Morumque progressibus. is J Rerum causas
cognoscere studeto. Rerum omnium
causas, et fines cognoscere studeto. Aliter nemo esse potest felix.
Contrarietates, et repetitiones fuggito. Contrarietates, ac repetitiones
fuggito. Contrarietas enim mentis defectum, repetitio vero memori labilitatem
accusat scriptoris. Inertiam vitato. Prxterea perquam longa meditatione vos
contritissimos volo } et quandam insitam inertiam vitato. Affectuum vis
immodica est temperanda. Quid vehementius, quam passionum vis\ maxime rn at at
e vestra tam fervida\ Eam igitur compescite catenis. 146, Propria debilitas est
cognoscenda, et cwranda. Pandem nemo unus homo adhuc inventus est propria
debilitatis conscius, neque sibi tesris voluit esse. Eam igitur cognoscere prius curato, de in adsidua
librorum lectione, virorum consuetudine bonorum } atq. ex sui ipsius
meditatione vel minuito, vel eradicato. Hactenus de errorum ortu, ac progressibus. Ej usque
progressibus Qua veritas moralis Itemq. si nostra jqdicia factis respondeant,
Veritas dicitur moralis. Hujusmodi sunt historica? narrationes; qusq. nos ab
aliis quotidie inaudimus, yel legimus. Qu£ veritas certa. Præterea si veritas
ita est quotuplex sit dubietas. Denique
dubietas, vel ponitur in squali rationum contrariarum squalitate, ut omnia
insecta ortiuntur ex ovis, vel ab animalculis spermaticis, vel a putredine.
H.xc dicitur positiva. I a ‘ Illa De Veritate Illa vero; «Jirs i.n idearum
ignoratione consiStic, aopellatur negativa. ' Estne stellarum mt~ tperus par',
vel impar ?.g. Quid', et quot u ple x sit f alsit as* Ex dictis clare
ihtettigituf falsitatem esse disconvenientiam nostrorum judiciorum ab. objectis
exterioribus, vel. ab eorumdem. relationibus, vel ab ipsis fecti$ auditis, vel
lectis, ex quo consequitur tot dari genera falsitatum, 1 quot numerantur veritatis'
genera. Dantur itaque
fahitates sensibiles, discursive ac morales. Q intus ita delinitis, priusquam
veritas cujusque generis investigetur, de veritatis existepti paucissima dicam.
De Cujusq. veritatis exist entia. Exiseit veritas sensibilis. fTlAmetsi mens
nostra ek unoquoque sensu, X atq. ex sui ipsius judiciis, et ratiociniis
quandoque decipiatur, existunt tamen veritates sensibiles,, atq. abstractæ, ut
ex sequentibus. I. Quis addubitare potest de tot, tantorumque. Corporum
existentia, qua?, nos ambiunt? Nonne pæne infinita objecta nostris sensibus
quotidie obversantur ? quot, et quantos Homines, plantas, animalia, atq.
xdilicia videmur.' Idipsum dicito de sonis, de saporibus, de odoribus, atque de
sensationibus quas i n No- Hjustpit progresiibus Yfobis ex tactu oriuntur. Quas
veritates si quis denegaret, habendus esset demens ac delinis. Existunt itaque
veritates sensibiles. Quid plura ? Nisi extarent hujusmodi veritates, ne quidem
existentiam nostram sentiremus. Existunt veritates abstracte. Mens humana
prarter ideas sensibiles, quamplurimas alias investigat illas comparans inter
se, vel cum tertia. Ex qua comparatione judicia, et ratiocinia nascuntur. Hinc
veritates methaphysicæ, et matematicæ. Hinc artium, scientiarumq. principia, ex
quibus infinitæ demonstrationes oriuntur. It. Existunt veritates morales.
Denique si in aliqua narratione constabilienda, non modo testes, historia, et
traditio sive oralis, sive scripta, verum etiam monumenta concurrant, non est
de illa minime dubitandum. Quis
enim sane mentis homo dubitaret CICERONE (si veda) fuisse Consulem, in Formiano
habuisse villam ? Quis dubitaret GIULIO (si veda) CESARE fuisse .occisum,
OTTAVIANO (si veda) fuisse Romanum Imperatorem ? Existunt itaque, veritates
sensibiles, demonstrativæ, et morales. Error scepticorum. Ex His huc usque
adumbratis sane eruitur afnotx mentis fuisse illos omnes, qui prædictas
veritates acerrime, ac pugnacissime denegarunt, uti fuerunt Accademici,
Pyrrhonii, Cyrenaici, qui ausi sunt ipsas nostras comprehensiones impugnare.
GIRGENTI (si veda) enim Ve Veritate, asservit abstrusa esse omnia, nibil nes
sentire, nihilque cernere. Nonne hi excxcant nos orbantq. sensibus ? Philo
negavit quidquam esse, quod comprehendi posset, sic judicium tollit incogniti,
et cogniti i Democritus contra solis sensibus credidit. VELIA (si veda), et
Xenophanes quasi irati increpabant eorum arrogantiam, qui cuin sciri nihil
possent, audeant se scire dicere. Neque sunt audienda contorta, et aculeata
Diodori, atque Alexini sophismata. Quid absurdius illorum fallacibus
j.onclusiunculis ? ad unum itaq. omnes veritatis impiignatores disputarunt
nihil percipi, nihil congnosci, nihilq. sciri posse, sed veritates in profundo
esse demersas. Cur ita?, Quia angusti sunt sensus, imbecilli animi > brevii
curricula vitæ. EJasyue progressibus De cu. yusq. veritatis /tota. t .*3« fuo
cntenum veritatis Quæritur hoc in capite, quo criterio verum a falso
distinguimus. L’ORTO, qui soUs sensibus credebant, veritates alterius gelieris
respuebant: Platonici; atq; Stoici judicium veri } ac falsi in una mente
potiebant i Fuerunt, et sunt, qui in ntroq. veritatis notam colldcant. Sensus
scilicet i ri veritatibus physicis, mentem vero, in abstractis. Denique
judiciorum' certitudinem in evidentia potuit Cartesius, quatti in physicam,
methaphysicam, et moralem dispescuit; Prima locun? habet in rebus sensibilibus;
in veritatibus abitractis altera; ultima vero in auctoritate; Refelluntur
eptcurei i; At harum omnium opinionuni qualis vera tit, an falsa liHbrriirife
dicarri Quommodd soli sensus esse possUnt judicium veri, ac falsi f si ipsi
sint tam fallaces ? non ne decipimur nos ab oculis, ab auribus, ab olfactu,
gustatu t tactuque ? si soli sensus riotant veri, ac falsi comprehenderent, sol
esset magnitudine bipedalis j stellæ rion essent plures, quani videntur. REMVS
IN AQUA ESSET FRACTVS, parelii essent soles reales ec. Denique si soli tdnsus
judicium veri, ac falsi continerent, i. L 4 quæRefellantur platonici, ac
Stoici. An ponenda veritatis noti in una mente, sensibus exclusis ? Falluntur
quoque, qui ita philosophantur. Nam sublatis sensibus, nullum daretur in mente
judicium, nulla ratiocinatio, nullaque veritas, Quæ mens sine judi«*ts, et quæ
judicia, et ratiocinia sine ideis, et quæ tandem idæ sine sensibus; quibus
sublatis, nulla esset in mente operatio ? Constat itaq. Pluton icorum, ac
Stoicorum opinionem esse fallacem. Quid si in utroaue. Q n 'd dicendum, si tam
in sensibus, quam in mente, quod erat tertia ex notis propositis ? Sensus
quippe mentem corrigere possunt, mens autem emendare sensus. Sed in mente ipsa
ponendum est principium, quod quærimus, quoniam una mens capax est veritatis,
sensus enim materiam»judicandi eidem dumtaxat præbent.' 17* NH novi in Cartesii
evidentia. Ultimo loco, quo ad Cartesii evidentiam, dico, quod hæc opinio eadem
difficultate qua prædictæ opiniones, laboret. Etenim cum Cartesius tot
evidentiæ genera posuisset^ quot sunt veritatis species, vellem ab eo scire,
quo pacto, quod mihi visum est evidens, esse evidens sciam ? quomodo judiciorum
meorum. Ejustque progrehibus. f%% rum evidentiam cognoscam quomodo deniq. rerum
auditarum quamobrem non ab alio quærendum principio, nisi a sensibus in
veritatibus physicis, u mente in abstractis, atque ab aliorum fide in
narrationibus historicis. Quæ omnia singillatim disputata sunt, ac refutata.
Quid veritatis crittrium. Hisce quam breviter enucleatis, ad propositum.
Exquirimus hoc in loco veritatem primam, qui alia demonstratur. Propositionem
nempe hic quærimus ex se certam, cuique cognitam, atque cujusque veritatis cew
fulcrum, quæ sui natura demonstrari nequit ipsi omnes alias demonstrare
possumus. iq. A dubietate oritur veritas. Principio veritatis est capax, qui
dubitat. Nam qui omnia adfirmat, propositionem etiam sui adversarii esse veram
dicit. Contra qut Universa negat, quæque ipse dicit, quoque negat. Philosophus
itaque in veritatis investigatione a dubitatione incipere delet. Sunt enim
dubietates tamqaam nodi, quos philosophus resolvere debpt. At qui semper
dubitat, nnsquam veritates invenit, prqindeq. a dubitando debet desistere. Nam.
in dubietatum catena, si daretutf progressus in infinitum, nihil sciremus. Idem
nequit esse-» et non esse. Principium itaque pro omnigena veritate reperienda,
est illud ipsum, qiiod LIZIO initio suæ Methaphysicæ præscripsit. JSIihil pots$ n* Veritate,
potest simul esse, et noti esse. Videamus ttuSdo, num hæc propositio sit certa,
evidens atque adæquata. Expendendum nempe num hujusmodi principium sit clarum
cuiq; cognitum, num denique cujusq; veritatis genera constabiliat; Ex quo
veritas sensibilis, L Veritas phisica a sensibus oritur. Si mihi igitur obversetur
vesevus ignivomus, dubito de ejusdem existentia ? Turic tactum adhibeo,
aliosq'. homines sentio Si mihi alii, uti ego, judicent vesuvium esse
ignivomurri. Nori potest non
existere. Alias esset, et non esset mons ignivomus. Quo nihil absurdius; Si dicat. Illa musica, quæ me
tantopere allicit, alios excruciat. Esto. Sed si musici existet, nenio negat.
Istudq. ipsum dicito de odoribus, saporibus, ac de sensationibus frigoris, ac,
caloris quæ nori extarent * nisi earum objecta existerent. Ex qud veritas
methaphisica. Ratiocinia tunc efficimus dum duas ideas cuni tertia comparemus,
ex qua comparatione earumdem æqualitas y vel inæqualitas deducitur; ex f gr. Quiequid est extensum est
corporeum. Tabula vero est extensa i Tabula igitur est corporea. Extensionis
itaq. idea convenit tam corpori, quam tabulæ; Corpus igitur, et tabula
conveniunt inter se; Alias tabula esset, et non esset corpus. Quod est iterum
absurdum; ai i V., >, £jusque progressibus i Sx quo veritas historica.
Tertio loco, si in aliqua historica narratione testes sunt oculati, historia,
traditio, atque itionuihenta æque concurrant, potestne de facto quis dubitare ?
Demus igitur Medos, Babilonios, Græcos, et ROMANOS numquam extitisse, nonne
essent, et non essertt simul tot historise, totq. ac tanta monumenta ab ultima
antiquitate repetita? Concludamus omne
verum, ac falsum a dubietate oriri, et cujusq. veritatis notam positam asse in
constabilita superius allata propositione sua natura certa, cuiq.cognita, atq.
adæquata. Quæ cum sint, jid
ulter riora procedamus. Quid } et quotuplex sit methodus. Methodus est via
quædam, qua nostra ju-J dicia i ac ratiocinia ita disponimus, ut Veritates
invenire, vel jam inventas cum aliis communicare possimus. Licet alii regulas tradant inveniendi; addiscendi;
exponendi, atqv disputandi j duæ tamen mihi videntur præcipuæ, alteri,
inveniendi, altera explicandi. Pri- 1 Cia analytica, secunda vero synthetica.
Una via. conjuncta separamus, altera disjuncta unimus. Primus modus rerum
inventioni j alter earumdim explicationi inseruit. winalysis, idem est ac
totius suas in partes 1 k4 quibus cdti* flantur lapides montis vesevi, eosdem
in su ultima principia reducit, ita illorum componentia reperit. Analytkicæ
contraria est sinthetica methodus, sive compositio, quæ ex quibusdam
generalibus principiis varia componendo in unum colligimus, itt alios doceamus.
Regulæ utriusq. methodi, in sequentibus capitibus fuse exponantur. Et Methodo
reperiendte veritatis sensibilis Oq. Htcc a sensibus, Certitudo, quam physicam
adpellavimus; ex sensibus exterioribus provenit eaq. nuncupatur etiam
intuitiya. Quare si objecta exteriora a sensibus retnpveas, hxc veritas on
amplius extat. Hinc ruitur primo, quod hæc certitudo nostrorum sensuum rationem
sequi debet. Etenim pro ut sensus sunt bene conformati, et objecta exteriora
multiplicia,, eo major nostrarum cognitionum sphæra fit, atq. augetur. Sensus
esse debent bene constituti • Sequitur secundo, quod si nostrorum sen* suum
fabricatio sit vitiosa, objecta non cernimus distinta. En ratio, cur ii, qui
morbd hjcterico laborant, universa objecta sub coloro Ei usque progressibus M*
croceo 'vi/ent. En quo ratio, «nny^ fci corpora remota, et presbyti,qu* sibi
sont proximiora, non cernunt. veritates referuntur, quæ constantissima
observatione, atq. diutinis experimentis liquido constant. Hujusmodi sunt, quæ
ex antiquis LIZIO, iElianus, Plinius, tum jecta impellit. Def. Benevolentia est
quoddam animidtsiderium, quo ad egenos juvandos rapimur. ax. 1, Bona in natura
sunt pæne infinita. et viem sceleratus. Quid monumenta i Quid si pr®dictis
ultimo loco momi-i intenta, qu® modo extant, addatis, nemo. «anus dubitat.
Reapse quis dubitat Samnites £xtitisse, et fuisse tam bellicosos. si urbes a Lb
ttjusgiii progressiius æstus marini causa, et sexcenta alia Reg. Si qutesilurti
resolvi possit, tunc videto si resolvi posset in omnes ejus partes, vel in una,
Hujus generis sunt quædam quæsita, qua plures in partes adspicienda sum ex. gr.
ltius refertur ad familias, ad civitates, ad imperia, ad hominum coetum, nisi
hac omnia considerentur quæsitum non potest Bene definiri, maxime quod uni
familiæ, uni civi, tati, uniq. imperio potest' esse u ilis, aliis vero maximo
detrimento. Quam ad regulam si animadvertissent tot tantique recentes luxus
scriptores, non consenuissent vel in eo laudando, vel vituperando. Reg. Si
quxsitum sit solutionis capax t extricandum tunc remanet, num sit simplex, vel
compositum scilicet num unum, vel plura membra habeat. Illud quippe est perquam
adcuratfc definiendum, alias -erratur. Sic in malorum origine videndum primo
quid sit malum. Deinde num existat in universo, tum si sit ejusdem, vel
multiplicis generis Demum si sit multiplex, distinguendum in omnes ejusdem cl
astes. Eorumque progressibus 'fes. Dicito hoc ipsum de voce luxus superius
memorata. Reg. Si q tussitum resolvi possit, tunc constabilienda sunt principia
clara frnm, ata. omni ex parte manifesta px contemptu hujus præclarissimi
reguli Hobbesii conclusiones sunt falsæ, quia la Isis principiis innituntur.
Hunc in errorem inciderunt quoq. omnes Pyrrhonii, aliiq. veritatis
infipugnatores. Reg. Propositiones
quot quot sunt, omnes Jluere debent veluti totidem illationes ex principiis
superius, firmatis ac stabilitis. Quod tunc evenit, quando omnes ita inter se
conneetantur, ut ceu quandum catenam efficiant atq. una ab alia nascatur. Qui
id non consequuntur, habendi sunt ingenii plumbei. En ratio cur juventus
neccsse est, ut; consenescat in addiscendis Euclidis Geometriæ libris planis.
Etenim in illorum lectione modus adquiritur demonstrandi, admiratur in iis, quo
pacto secunda de monstratur ex prima propositione, et tertia ex secunda. Sic
deinceps. Aristotelis æthica eodem ordine est conscripta, qua in addiscenda juvenum
profectas esset major. Nam non de rebus abstractis, sed de homine agitur,
verumtamen nemo unus eam legit, accurat. Cur ita ? quia eorum institutores
nondum sciunt Aristotelem extitisse, fuisse virum doctissiunim j Br
Peritote-».. gt mmn, ad Nicomacum scripsisse decem de sethica libros. Reg.
Conditis, sub qnk subjecto prgdicutum convenit, est adcuratissime definiendum*
Eapnitn philosophi munus est rationem, reddere t fiio pacto effectu! ad causatn
referatur. Queritur enim a seeulo præterito usq.* ad prarsentem diem, num luxus
sit statui alicui UtiSfS'? 1 '.
J '.w,;-' j, fi; -i 't. •• *>fi Huc usq, universi scriptores in genere
quæsitum extricarunt. Sed false omnes. Itaq. eum vel commendarunt, vel
vituperarunt. Cur ita ? Quia quarsitum non fuit iniqua m bene ptopositum i Sed
dicendum tst: pratsens luxus est utilitati, vel detrimento regno neapolis I,
vel Rom.el Quæsito ita proposito, videndum mini otnnes artes primitiva, et
secundaria possint ne numerum artificum majorem h«» bere? Si possint, necessum
est, ut ii^pleantWr. Siti aditer, et remanent in toto regno centum millia qui
laborare possunt, iisdemqj -Occupatio deficit. Quaro isti centum millia vuftis,
ut iiiOpes vagentur, vel ut expellantur e* statu, vel occidantur, num denique
in artibds itfjAis Occupandi ? Quis npn videt 1»^ xum non modo esse huit statui
uttlem, sed ilittirti decemriufn' ? ‘-fi RVg. 9. Si in qudsitb rOfoleemdo,
vobis non ebniiiigat cettiiadiheth repetite, tunc probabiollialtm auffite,
riebir eyuhg.antd» niti MafKiri l V ' pro -Ejusque progressibus 1 6f
probabilitas. Verum cavete, ne hypotheses velati theses habeatis. Quæritur nuin
sol, circa tellurem, ve] hæc circa illum moveatur. Certitudo omnino defecit.
Quærenda est probabilita. Utraq. est probabilis. Tunc quære probabiliorem. Mibi
videtur illa Cupertiici, quia mjnus me allicit. Nam facillime intelligo
revolutionem diurnam terrx circa seipsam, atq. illam annuam circa solem in
eccliptica „ et sojis re: «jlunonem circa proprium axem vigmti septem dierum
spatio. Reg. Non omnia quxsita sunt ejusdem geperis, alia enim sunt physica,
alia metaphysica t aha denique moraba. Si physica sensus, observationes,
a/iosq. homines interrogate. Si i nethaphysica, adhibenda est ratio, ac
demonstratio. Sin denique moralia. Notate testes, historiam, traditionem, ac
monumenta. Licet hxc sint per se clara, verumtarnen in rebus facti, nulla
ratioctnii. Dum facta video, rationem non audio Sxpe etiam in re clara, et
manifesta, qua mpluri mi testibus utuntur. Fortasse testes imiorem rationem
habent j quam ipsa ratiocinia firmissimis principiis constabilita? Reg. ii. Quo pacto in narrationibus historicis
procedendum, si monumenta amplius non extern ? Codices consulite, quibus in
legendis funditus sciri debet scriptoris lingua. At ca~ L 4 vrr# De Veritate,j
t t ' J veto ne Verslones vulgares, Hef. itxicos conmunes adhibeatis. Seri
quorsuih hcpc - Quia 'nulla lingua in aliam translatari optime potest. Quatvis
.enim lingua suas habet pecujiares proprietates, sectam, religionem, imperiv
firmam, mores denique y 'propensiones, adjectus, educationem, studia,
exercitia, ac partium studium. Hrc enim omhia ad plenissima scriptoris sensa
intelligenda mixime conducunt • Natn quiiumque- scribit etiam nolens suis in
libris I transfundit suos mores, adfectus y temperamentum, opiniones,
scientiam, oartium studium, atq. alia sibi propria. Brevius sjuicumq. scribit,
se ipsum describit, Quid liber, quam Sermo scriptus Nonne sermone, aliorum
animos pæne videmus?. Hoc fusius, ac 1»T Ejusqie progrersibnj • i est
diligentissime versandum, verum maxima, cura lectitanda, sunt omnia, ut
scriptoris mens ex universis ejusdem operibus constet Potent enim esse, quod
aliquod rejecisset. En ratio quare quampluritni in judicando errant. Quia vel
integrum librum non legunt, vel non intelligunt. Quid si. reliqua scriptoris
opera, ignorent, vel non curant scire ? At quid statuendum, si scriptor de aliorum opiaionibus,
vel factis agat? Reg. 14. Tunc exquirite primo, an scire potuerit, Num fuerit
perspicax. 3. An in judicando adeuratus. 4« Num in referendo sincerus • In
quibus si uni eorum defecerit, fidem ei denegate. Sin minus, eundem habete et
diligentem, et sincerum, et veracem. Hujusmodi
sunt optimi historici noti. LIVIO (si veda), SALLUSTIO (si veda), Cornelius
TACITO (si veda) præstantissimi fuerunt historiæ scriptores. Apud recentiores
MACHIAVELLI (si veda), Franciscus GIUCCIARDINI (si veda), Bernardus SEGNI (si
veda), Angelus de Constantia, Robertson, Hum, atq. historix universalis anglJci
scriptores. Quid si ex uno scriptore quamplures acceperint. Reg.Si quamplurimi,
etiamsi mille ex uno scriptore sua traxerunt, omnes simul tatl%. valent,
quantum unus, quem transcripserunt. Quod si clare constet historicum fuisse J
cujus nomen præfert. Sic Jjbnr de consolatione CICERONE (si veda) adscriptus;
est ' Hgarjii .Ergo spurius. Contra VirgHii .®neidos., suflt Virgilii, nam, ab
ejus obitu ad præsentem usque ætatem eidem tribuitur. IlJudq. ipsum dicitp de
CICERONE (si veda), ORAZIO (si veda), COLUMELLA (si veda), M. VARRONE (si veda)
operibus. Tertio loco si in Codice m°dp aliquid legitur, quod in
scriptqcis:$t#te, vel antiquis Codicibus non legentur, dicitur interpolatus.
Denique si jaunc aliquid desideretur, quod fa antiquis :jpndieihu» etfeat,
appellatur mutilatus. HdSjjtm omnium exempla surtt pæne infinita, jju
brevitatis gratia omittuntur; et quS rdtione fiæc omnia internosci possunt ?
Reg. Dicito illum librum esse spurium, jt. -Si scribendi stylus, vel cogitdndi
ratio non sit illius scriptoris, cujus nonfen profert. . j&i a scriptoribus
corvis non sit memoraV Si adeo ineptus, ut cui tribuatur, nullo. EjuspK
progressibus n *7P lo modo possit convenire. 4. Dengue libe habendus eit
'spurius, -si antiqui eum rejecet irini /; - iV .. ..Reg. Contra^ liber
habendus est genuinus I. Si stylus, et cogitandi modus illi conve • ni aut,
cujus nomen > prxsefert: 2» Si a scriptoribus Coxvis sit memoratus: Si
antiqui de libri genuitaie, minime dubitarim. Reg. Lib^r habendus est
interpolatus t vel spurius y si facta, et personor memorentur scriptoris xtate
posteriores. Ipsum dicito de vocibus, ac locutionibus. Ultimo loco si doctrinas
•Si st e mati sibi proposito contrarias contineat Quid si scriptor fuerit
ineptissimus*. Reg. Codex est mutilatus si in eo aiiquid desit, quod
vetustissimis in codicibus legebatur: 2. Si qux continet y vani, cottfuseq
leguntur. Hæc pro auctoritate humana satis esse duco. Quo ad divinam, præter ea
superius dicta notanda sunt etiam quæ sequuntur. Reg Oportet perpendere .Nam
Deus loquutus fuerit' Cui loquutus: Quo in loco: quando: quid'., Hæc omnia
manifestissima sunt in quinque Pentafheuchi libris a Mose scriptis. Nam Deus
loquu,tus cum universo Populo Hæbrreorum. In mote Sinai, post eorum egressum ab
iEgypto. Quæ autem loquutus fuerit in duabus Tabulis lapideis continebatur *
Quse licet j De Veritate, j' v> . licet constent;, veruuuamen videndam
insu-, i f *. Per. Reg,. Num qu& Deus dixit, ai/ aoj incorrupta, vel
interpolata, vel mutilata pervenerint. 2. i 1 / sensus, ac vrria possint varii
accipi. Si autem varie accipi possint, nemo «aaa fuo arbitratu, ac teneri
intellegat, W aat (Catholicæ Scclesix judicio, standam erit., Hujusmodi sunt
præcipuæ rCgulæ, qua? methodo analitic.e maxime inserviunt. Quæ autem sequuntur
ad syntketicam spectant. Ej usque progressibus De regulis explicanda veritatis,
tam viva voce, quam scriptis I T' X omnibus animantium generibus unus 1/ homo
veritatis capax, est quoq. loquela præditus, qii^ sui animi intimiora sensa
exprimit. At mirabilior ejt scriptura, qua cum absentibus temporis, ac loci
loquimur Sed si philosqphi, si parentes, si ludimagistri desiderent, ut
juventus utiliter hæc divina rationis instrumenta adhibeant, sequentes regulas
ob oculos habeant. r Reg. i. Initio cujusq. facultatis, magister doceat, quid
ea" sit, que fuerit ejusdem origo, progressus, vicissitudines, scriptores,
atq. quas in partes ea distinquatur. v; •, Cur itl ? ut sciant auditores, quæ
ipsi comparant, atq. univers® scienti® quandam designationem ceu^ in parva
tabula adumbratam habesmt. In quibus enucleandis una, vel akeia lectio sufficit,
ne rerum multitudine detineantur ii, qui paucis prsceptis sunt imbuendi. Reg.
st. Maxima cum brevitate [H. P. GRICE: Quantitas: be maximally brief], ac
claritate simul primo controversis: status proponatur, deinde suas in paries
dividatur; tum inutilibus resectis, omnia sensim sine sensu explicentur In hoc
a quatnplnrimis erratur. Neq.enim -v t pro- «r ffif •• - J-dolemata sciunt
acute propd n ere, neque omnes, nodos extricare. Veriwn omne tempus in
congerenda cujtisq. generis eruditione sine ullo ordine, judicio, lepore
tevurit. Qujf GrammaticorutntForensium^c medicorum pleynmq. est perquam inepta
scribendi ratio. Reg. Vocabula omnia definiantur, ut quid sit res de qua
agitur, plenissime intelligatur l Hujus iftilissim* regulæ contemptus juvenes
impedit, ut bene iatelligant, atque addiscant. Reg. 4. Ex definitionibus
officiantur axioma* ta; atq % postulata, ex quibus clein emitis præpositionum
series eruatur. Hæc rectissima docendi ratio, quam sibi sumunt Geometr, est
illorum omnium, tjui sciunt ratiocinari. Divus Thfcmav’ non erat Geometra,
veramtamtn quia divino ingenio præditus ordine scripsit. Quid dicendum de Aristotelis
ethica tam pressp et ta!n stricto ordine Conscripta Reg. ij. Definitis universe
scientia vocabulis, initium sumatur a rebus simplicifribus t ac facilioribus,
atq. ad maximi Compositas 9 jfuxijpeq. difficiles procedatur. Sin aliter fiat.,
discipuli non krtelligunt. Reg.'
In rationum ''catena conficienda, ita ordiatur, ut altera 1 alteri prxluceat,
atq. altera alteri inserviat. Ex quo tandem integrum disciplinæ systema
compingatur omni ex parte connexum. Reg. Ej usque progressibus. ut sciatur
tempus, W, w r«nf gesta. fc '- . „ Reg. 14. natUrd j ' ac pravus. Ergo pontus
ut educationi defrrtur, proinde? magister curat auditores redde-, re laboriosos
longius, quam res tanta dici poscit.. Pritpo arithmetica est scientia, qua
mentem instruit, ut ea expedite ac recte super qtiibusdam cyphris numericis
operetur. At qua de causa ? ut nempe veritates inveniat. Hac scientia licet
quamplurimis contineatur regulis, ut additione, subtractione, multi plicatione,
ac divisione, attamen additio, subtractio, multiplicatio, ac divisio tam in
quantitatibus integris, quam in fractionibus cujusque generis ad additionem,
atque subtractionem reducuntur. Itemque regula aurea, societatis, alligationis,
positionis, ac combinationis; nonne ha? omnes, et si qua? sint alia? etiam
infinitæ, revocantur ad unicam regulam aureEtenim multiplicatio nihil aliud
est, quam ipsa additio concisa: et divisio est ipsa subtractio. Sic si mihi
multiplicandum esset g. per 4. duos modos adhibere possum, vel M fi 8. qua- «
\1 lif *,. quatuor seriam, factaque summa habebitur 32. alter modus est si 4.
accipiam octo: vel octo accipiam quater, productus erit semjper 32. ex quo
pate't multiplicationem non esse, nisi ipsam additionem compendiosam. Id i^nm
dicendum est de "divisione; nam ha?c est ipsa subtractio, cum hoc uno
discrimine, .quod subtrætio fiat semel, scilicet ex quantitate majori dematur
minor, ut quod remanet, videatur. In divisione vero subtractio fieri debet
secundum numeros divisoris. Sic si dividere vellem 484. per quatuor. Fieri
debet in uno quoque .numero hinc primo ingreditur semel, in secundo bis, ip
tertio etiam semel, quotus erit 121. Ergo in primo numero subtractio fuit unius
numeri 4. in secundo subtractio dupli 4. et postremo etiam unius 4. Ex quo 'etiam liquet divisionem
non esse, nisi ipsam subtractionem. Quod quidem non inteligendum solum de
numeris integris, verum etiam de fractis, ac de fractorum fractis. At si quis
inquiet; ad quam regulam referuntur potentiarum elevationes, atque radicum
omnium extractiones Respondebitur, quod potentiarum elevationes sola
multiplicatione conficiuntur 1 ' extractftfnes vero radicum cujusque generis et
multiplicatione, ac divisione, hoc est ex additione, et subtractione simul.
Sequitur postrema scientias nume ricæ regula, qu* est sola aurea, ad quam quot.
quot sunt, omnes reducantur. Verum quid continet hrec: nisi quo pacto fex
tribus numeris cognitis inveniri possit quartus numerus proportionalis
incognitus Hoc parumper perpendamus in tyromim gratiam. Ad quatuor classes,
omnes problematum numericorum resolutiones vulgares ari/ thmetki reducunt,
nempe ad regulam auream sive trium; ad societatem: ad alligationem, atque ad
falsam et duplicem positionem. Primo regula aurea sive directa, vei indirecta:
sive simplex vel composita est inventio quarti numeri proportionalis, post tres
alios datos: ut 4. boves ararunt I. terr® jugera, quot jugera arassent 16.
eodem tempore ? Itemque 4. messores metunt quandam segetum quantitatem
8.diebus, quæritur quanto tempore eundem campum messuissent if. messores? In
utroque problemate semper quartus proportionalis inveniendus est, cum hoc uno
discrimine, quod In primo problemate multiplicatur secundus, cum tertio,
productufn dividatur per primum, hoc est te3. per -4. quartus pfo» portionalis
est ja. In secundo autem problemate 'multiplicatur inter se primus cum
secundo-, productum dividatur per tertium, videlicet 3*. per 16. quotus, hoc
est quartus proportionalis est. Sin autem utraque sit M 4 cora- quibus mentis
adus clarius explicantur De Jignorum artificialium origine De linguatum omnium
natura De linguarum artate conjicienda De vocum divijione De propojitionibus De
mater i a, forma, £r propofitionis quantitate 6e errorib.me ntis quo ad jenjus
exteriors De errorib, quo ad animi /enfationes De errorib. quo ad ip/ius mentis
adtus.iOQ De errorib. quo ad animi Jigna relatis, de illorum abufu De errorib.
quo ad propo [itiones De errorib, quo ai /yllogi/mos, aliofq. arguendi modo s.
De errorib. qui ex prava puerorum eJucurione oriuntur Ve errorum emendatione De
veritatis ortu, ejufq. p r Ogre£ibus Quid, O quotuplex Jtt veritas cujufq.
veritatis exifientiaJ uip, et quotuplex Jtt veritas De cujufq. veritatis nota.
Quid, et quotuplex Jit methodus De methodo inueniind.e veritatis fenftbilis Dg
methodo demon/irqnd £ Veritatis De methodo reperiendx veritatis prob De
veritate probabili De regulis pradlicis reiie philo fophandi De regulis
explicande veritatis, tu n: viva voce, tum {criptis De Logices redudione ad
arithmeticam. ACJA.jpfd/L<rsa SLIOTECA NAZ. Vittorlo Emanuele III NAPOLI DE
ARTE RECTE COGITANDE LECTIONES SEX. DE ARTE RECTE COGITANDI LECTIONES SEX
NEAPOLI EX OFFICINA MICHÆLIS MORELLI. PUBLICA AUCTORITATE. IILUSTRISS. AC
REVSRftfWSS. VIRO MATTHjEO JANUARIO T E S T iE-P ICCOLOmINEO ARCHIEPISOOPO
CARTHAGINIENSI, j ET FERDINANDI IV REGIS A SACRIS, ET COWSILIIS, AC REGU
AR-CHIGYMSfASII prefecto Q Uct omnia Deus Opt. Max. d rerum primordiis condidit
homini condidit hominemque i~ ppfum alteri homini. Hinc fit, ut qui ex
hominibus majori cura j diligentiaque aliorum quarunt utilitatem, ac praCtpue
in literis, artibufquc provehendis, qua funt cujufque bene conflitutee
Retpublics ornamentum, ii exteris proflantes, jure inclyti habeantur,
*f§rnamque flbi comparent famam. Inter hu-jufmodi viros quinam hac noflra
tempeflate merito adnumerandus, quam tu vir Illuflrijftme, ac Rcverendijftme ?
qui ft in exteris dignitatibus Tibi collatis pro tua humanitate, prudentia,
juflitia quod Caput 1 cfl, pro tua in omni re liter aria, penitiori cognitione
ipfarum literarum, ear umque cultorum Te praflanttjftmum patronum femper
prafliteris, tamen ab eo tempore, gwo //£* Regii Archigymnafli Prxfcllura fuit
demandata, ita eas, eofque provexifli } ut fub te uno utrique nati videantur 4
Pro tuo igitur bumanijjimo ingenio, «r me, ac meum libellum de arte rcSle
cogitandi, qui nunc primum in lucem prodit, ac tibi libenti animo nuncupo, rogo
excipias optime vale. Neap. pridie non. Ap.iyy'/* \s.LE- DE EXIGUO HISTORIjC
LOGIGE COMMENTARIO ale£tica, qua» eft ars perficienda rationis humana, a Gracis
exorta Zenonii Eleati Parmenidis auditori, 8 c adoptione filio tribuitur, ut ex
Ariftotele, Sexto Empiribo, et Lærtio. Verum Zenonis Logica reapfe non fuit,
nifi ars rixandi * et cavillandi i ex qua Eleatici Sophifta profluxerunt |
quorum audaciam Socrates pra- • a 4 ftan- [Floruit Zeno circa olympiadem 79.,
qui juxta Valerium Maximum lib. 3 cap. 3. Nearco Agrigenti Tyranno aurem morfu
corripuit. Plutarchus Vero ad verfus 'Colotem fcripfit Zenonem fuam linguam
dentibus amputatam in Tyrannum expuifle. Hujus philofophi principia naturalia
rejecit LIZIO libro Metaphysicoautn tertio cap. 4. ftantiflimo vir ingenio,
atque morum innocentia Angularis retundens, non aperto marte eos aggrediebatur,
.fed quadam difputandi dexteritate proprios errores confiteri eofdem cogebat.
Hinc Socratis Logica tota erat in eo, ut primo vocabula omnia vellet defjnita,
deinde quibufdam, minutis interrogationibus propofitiones omnes per neceffariam
confecutionem ita te? xeret, donec ad præceps inconfideratos adverfarios
perduceret. A Socrate quamplurimæ philofophorum familiæ profe&æ funt,
quarum celebra- [Ante Socratem philofophi JEthicæ ftudium neglexerant. Hic vero
maximo ingenio, corde, ac fpiritu omfiium primus homines felices reddere
curavit. Is enim de anima, de paflkmibus, d'. vitiis, virtutibus, pulcritudine,
deque hujufmodi aliis, quæ vel cum nobis, vel cum focietate conjunfta funt,
fapientiflime difputavit. Adverfarios hironia, atque induftione refutabat.
Xenophon, et ACCADEMIA ejus do&rinam, et vitam fcripferunt. Irreligionis
crimine adcufatos, quia Græcis fuperftidonem deteftabatur, ac Dei bratiffimæ,
quasque Diale&icam furtimo cum honore excoluerunt, memorantur ACCADEMIA a
ACCADEMIA Athenienfi, Meg a unitatem confitebatur, veneno obiit in carcere. Quæ
hujus praiftantiflimi viri fenfa fuerunt, quo ad Deum, animam, res morales,
aconomicas, atque politicas leggi poffunt in Lærtio. Plato jEgynenfis, Codro ex
parte Patris, et Soloni ex Matre conjun&us, 87. olympiade natus eft. In
pueritia in exercitationibus gymnafticis, pi£luræ,muficas, poefis, atque
eloquentias ftudio operam navavit. Verum cum Homerum legeret fe excuflit, ac philofophiac
fe totum dedit. Principio Cratilum, atque Heraclitum, poftremo o£lo annis
Socratem audivit, quem in fuis cafibus non deferuit. Quin imo univerfa ejus
bona pro Magiftri incolumitate judicibus obtuLit. Poft Socratis mortem petivit jEgyptum, deinde
ITALIAM, atque in fchola Pythagorica CROTONE METAPONTO TARANTO REGGIO
initiatus. Athenas redux, fcholam aperuit prope Ceramicum, in quo monumenta
eorum erant, qui Marathone tam glori ofe occubuerant. Plato moriens fua bolo
garici ab Euclide Megarensi, Cyrenai bona illis reliquit, qui folitudini,
quieti, meditationi, atque filentio vacarent. Inter quam plurimos ejus
difcipulos recenfentur LIZIO, Speufippus, Xenocrates, Hyperides, Lygurgus,
Demoftenes, atque Ifocrates* Plato fuit vir divini ingenii, laboriosus,
temperans, agendo loquendoque gravis, patiens, atque urbanus. Toto vitæ
curriculo juventutem inftituit, obiitque ætate 81. Annorum Perfeus Mitridates
ftatuarrt, et LIZIO altare elevaverunt. Itemque dies fu» nativitatis habitus eft facer. Qu* autem
de Diale&ica, de rebus phyficis moralibus, politicifque pertra&avit,
funt pene divina. Is fuit Primæ ACCADEMIA au&or, cui fucceflerunt
Speufippus, Xenocrates, Polemon, Crates, et Crantor, quam deinceps inftauravit
Arcefilas, poftremo Carneades, qui Medi, ac Terti ACCADEMIA principes fuerunt.
Platonis do£irina primum inftaurata fuit fub Augufto, et Tiberio a Theone
Smyrnenfi, atque Alcinoo; fub TRAIANO (si veda) a Phavorino; fub ANTONINO (si
veda) Pio a L. Apulejo, et Numcnio Apamenfi: fub Ccmtiaici ab Ariftipo Cyrene
Afri es urbe; na- COMMODO a Maximo Tyrio, Plut. ac Galeno.Exa£la autem barbarie
eam excoluerunt BefTarionus FICINO (si veda), Angelus POLIZIANO (si veda)
Aretinus Calderinus, Joannes Picus PICO (si veda) Mirandolanus. In ACCADEMIA libris aliquam Trinitatis notionem
deprehendifle nonnulli fibi vifi funt. Sed hac in re videnda eft Joannis
Frederici Meyer diflertatio, Samuel Crellius, Joannes Clericus. Euclides
fpiriturri fui magillri non feq nutus eft, etenim pro morum philofophia,
Logicam coluit, ex quo ut in Lærtio ejus auditores di£U funt et Me garenjes et
Dialctttci. Is Athenas no£lu ibat tunica muliebri indutus, pallio verficolore
amiflus* caputque rica velatus e domo fua Megara ad Socratem commeabat, ut ejus
sermonum ac confiliorum fieret particeps. Rurfumque fub lucem millia pafluum
paulo amplius viginti, eadem tunica teftus redibat Ita A GELLIO (si veda) lib.
Euclides enim in arguendo nonnifi conclufionibus utebatur. Qua•r$ Eubulides
ejus fucceftor multa fophifmatum genera invenit, adhibuitque. At nato, LIZIO ab
LIZIO (e) LIZIO Diodorus hujus auditor moerore mortuus eft, quoniam Stilponis
argutias refellere ignoravit, quique Euclidseus fpiritus Europse regnavit inter
Nominales, ac Reales; inter Thomiftas et Schotiftas. LIZIO Macedo Nicomachi, ac
Pheftiadis filius, Platonem audivit circiter 20. annos, immenfam au£orum.
legionem habuit. In Lycæo fchoiam aperuit abfente Speufippo Platonis nepote.
Alexandrum Philippi Macedonum Regis filium docuit. Senefcens impietatis crimine
adcufarur a Sacerdotibus, fugi it. Quo ad ejus mortem alii 0 in ./Euripum fe
præcipitaffe, alii fibi ipli necem intulifle ferunt. Hujus philosophi opera
sunt pene innumera, ut ex Lærtio. Quas LIZIO de historia naturali, de arte
oratoria, de poesi, de ethica, de rebus aiconomicis, politicisque sunt quippe
admiranda. Eidem in Lyc2eo fucceflit TheoDhraftus suus discipulus, quo mortuo
pene filvit, licet in eo docuerit Lycon, Ariston, Critolaus, Diodorus,
Demetrius Phalaræus, ac LIZIO, denique PORTICO a Zenone Cittieo. 1 r
princognomerito phy (iens. Verum fub Imperatoribus Romanis alias viguit hæc doftrina.
At illo imperio proftrato omnino evanuit. Sed iterum Romanorum Pontificum cura
poft ^urops barbariem denuo inftaurata, eam fummopere excoluerunt Albertus
Magnus, D. Thomas, LOMBARDO (si veda), Scotus, aliique. Majori autem cum
fucceffu dein culta a POMPONAZZI (si veda), ZABARELLA (si veda), Francifco
atque Alexandro PICCOLOMINI (si veda) Senenfibus: Itemque ab Andrea Cassalpino,
Cæsare Cremonino CREMONINI ROBERTI (si veda), qui Harveo præfuit in nobili
fanguinis circulatione. Hac in philefophia floruit quoque Melan&onius
Germanus, qui poftea Nominales et Reales, variafqne fcholafticorum feftas
infequutus eft, Quiq. etiam PORTICO, Scepticos, atque L’ORTO damnabat. Pcftremo
hanc do&rinam coluerunt Nicolaus Taurellius, Michæl Picartus, Cornelius
Martini, et Hermannus Corringius cum quo LIZIO philofophia corruit. Zeno
Cittieus Mnefii filius ætate triginta trium annorum Athenas primum ivit cipium
habuerunt. Verum qua», aq qualis fuit illorum omnium ars disputandi: Itemque in
quibus laudanda,sVei culpanda, licet a propofito non eflet aliecurri, attamen
quia hujufmodi exquifitiome ivit, ut purpuram venderet, iliofque tam celebres
viros cognofcerct, quorum libros perlegerat. Quo cum perveniflet, Cratem
primum, illoque religio Stilponem decem annos audivit, coluit etiam Xenocratem,
Diodorum Cronum, Polemonem inter» rogavit, quorum omnium cognitionibus maxime
imbutus fcholam aperuit in PORTICO, quamplurimofque habuit auditores, quos
vita? potius honeftate, quam leflionibus inftituere folebat. Zeno 88 annorum
artate occubuit, Artam oratoriam a Diale&ica non dillinxit. Zenonifc
dtfcipuli fuerunt Philonides, Calippus, Pofidonius, Zenodes, Scion, Cleantes,
Ariston Chius Miltiadis ftlius, Herillus Carthaginenfis, Sphoerus, Cleantes
Lycius, Zeno et Antipater Tharfenfes, Diogenes Babylonius. Apud Romanos ftoica
doflrlna in fummo fuit honore. Poft literarum inftaurationem eam coluerunt
Juftus Lypfius me ab inftituto fummopere abalienaret præteritur, atque oculo
peregrino reliqua percurram. Poft hos omnes floruit L’ORTO Arhenienlis, qui
Xenocratem, et Pamphilumflus, Gafpar Scioppius, Daniel Heinhus, aliique
complures, L’ORTO maximus philofcphus Gargetti L’ORTO in Attica ojfymp.Top. ex
Neocle et Chereftrata editus unus eorum fuit, quos Atfienienfes in Infulam
Samos miferunt, Hic puer Matri piaculari præibat, atque aliquo piaculo domos
conta&as circumibat. Ita Lomeyer de Lujtrationibus. Hoc exorciftx genus
inhonorum erat apud antiquos. Rediit Athenas decimo fux setatis anno, trigeflmo
vero fexro scholam in viridario aperuit, ibique cum fuis amicis tranquille
vixit, Quamplurimos habuit difcipulos, ad quem ex omnibus Græcia: urbibus
confluebant, quocum etiam vitam vivebant, nam L’ORTO dicere folebat, ut ex
CICERONE (si veda), de finibus lib: *• omn r f »™ rerum, quas ad beate vivendum
faptentia comparaverat, nihil ejfe amscitia majus, nihil uberius, nihilque
ju-cun Ium Platonicos, et Theophraflum Veri pzcundius. ^Jeque hoc oratione
folum, fed etiam moribus, ac vita comprobabat. Ejus fequaces adeo Magiflro
adhasferunt, ut etiam mortuus fpiraret in fummailla tot animorum confenfione
fui memoria. ita Gajfcndus de vita, (y moribus L’ORTO. Philofophia»
corpufcularis Epicurus non fuit au£lor, fed infkurator. Hunc momordit ejus
difcipulus Metrodorus, qui ad Carneadem tranfiit. Etiam CICERONE (si veda)
GIARDINO convitiis laceffivit, at ejus caufam dixerunt Alexander ab Alexandro,
Cœlius Rhodiginus, Joannes Francifcus PICO (si veda) Mirandolanus, Marcus
Antonius Bonciajius, Palingeniur, Andreas Arnaldus, Francifcus de Quævedo,
denique Gassendus. Quibus omnibus præfuit ipfe Lærtius, qui fcripfit in ejus
vita: nam fan&itatis in Deos, et charitatis in patriam fuit in eo affe£tus
ineffabilis. Ipfe CICERONE (si veda) de finibus lib. Ac mihi quidem, quod ipse
bonus vir fuit, et multi epicurei fuerunt, et hodie funt, et in amicitiis
fideles, &.in omni vita conflantes, Sc graves, nec voluptate, fed officio
confilia, LIZIO audivit. Hujus Canonica sive b Diamoderantes, hsec videtur
major vis honeflatis, et minor voluptatis. Ita enim vivunt quidam, ut eorum
vitam refellat oratio, atque ut cæteris exiftimentur, dicere melius, quam
facere, at Epicurus voluit melius facere, quam dicere. Quamobrem Seneca de vita
beata cap. 2. fcripfit: non ab Epicuro impulfi luxuriantur, fed vitiis dediti
luxuriam fuam in philofophiæ finu abfcondunt; 8c eo concurrunt, ubi audiunt
laudari voluptatem. Nec æftimatur voluptas illa Epicuri quam fobria, et ficca
fit: fed ad nomen ipfum ad volant, quærentes libidinibus fuis patrocinium
aliquod ac velamentum. Hic in inultis culpatur, ut ex tot |§ntifque fcriptoribus tam antiquis,
quani recentibus. Maxima vero animi conflantia, qua femper vixerat urinæ
doloribus correptus ætatis 67. an. 0 lymp.Hic vocabulo voluptatis juventutem
allexit, at in fuis le£lionibus nihil aliud, quam virtutes, temperantiam,
frugalitatem, bonum publicum, an imi fortitudinem, vita; negle&um, ac
voluptates animi, non autem corporis difcipuios docebat. Dialc&ica paucas
regulas de fermoris perfpicuitate, deque reflo ratiocinandi ordine, quas
fophiflis fu ætatis oppofuit, continebat. Qu*que legi poflunt in Lærtio fuo
difcipulo, in Stanleyo, in l'hpr mafio, atque in Bruckero, H*c de veteribus
celebrioribus philosophis, qui Dialefticam vel invenerunt, vel auxerunt, vel
perpoliverunt ad Cælaris ufque jEtatem, at fecundo ecclefi* feculo Alexandri*,
ad quam quafi ad bonarum artium mercatum literati omnes confluebant, invaluit
quadam philofophia,'qu* ccclettlca dicebatur, cujus nobile inllitutum erat ex
fingulis philofophi fe- Ad ejus fcholam pr*ter 'virbs confluxerunt etiam muliqp?s
celeberrimas, ut Themiflia Leontii uxor, Philenides, Erotia, Hedia, Marmaria,
Bodia, Phedria, neq. ejus cives, neque ejus adverfarii eum vel libidinis, vel
impietatis crimine adcufarunt. GIARDINO
ORTO Philofophia fine ulla interruptione culta fuit ad Augqflum ufque, LUCREZIO
(si veda) eandem collegit. Eandem quoque coluerunt Celfus, Lucianus, et
Diogenis Lærtius, H*c phjlofophicum Ceftis tunc temporis florentibus qimlam
excerpere, quxdam mutare, aliterque exprimere. Verum hsc philofophandi ratio dofliflimis
ecclefias Patribus adeo placuit, ut ftatim per omnem Chriflianum orbem fuerit
ditfufa. His acceflit, quod ha:retici quinti feculi Ariftotelads, ac PORTICO
prafidiis abutentes, dolores noftros adgrederentur, qui ut adverfariorum
argumentationibus, atque irrifionibus occurrerent, eadem difputandi arte etiam
imbuti funt. Dialectica itaque eccle&ica ex PORTICO, atque ex Ariftotelica
componebatur, qua2 ufque ad duodecimum ieculum in occidente fuit tradita,
maxime quia b z B.. cum ROMA sepulta iterum revixit initid feculi decimi
feptimi, atque ignominia formarum plafticarum alias atomos in priftinum
fplendorem alii reponunt Magnarius Luxemburgenfis edidit primus ejus Demotritum
revivtfcentem, Magnano fucceflit Gaffendus vir pradlantiflimo ingenio an. 15P2.
Poft Gassendum coluerunt raolierius, Bumerius,.‘Vandomus, Bovillonius, Catinat,
Polignac itemque abbas Gennet,Fontauellius aliique quarn plurimi, viri.
Aliguftinus fuis difcipiilis eam commendaflfe fertur. Seculo autem duodecimo
ScholalHci?fivt Chriftiani occidentales LIZIO libros ab Arabibus versos, ab
iifdem interpretatos accepere. At hi nimio rixandi ftudio du&i Logicam, ac
Metaphyficam fatis quidem obscuras atque IMPLICITAS novis subtilitatibus,
novifque quseftiunculis ac laqueis foedarunt. Etenim cum linguam Grxcam
ignorarent, Ariftotelem neque legere, neque interpretari poffent, ejuR dem
VALLA (si veda) Roriis natus. anno quinquagefinio suæ statis occubuit. Is
incultam fermonis barbariem elegantiarum libris dsfasdare curavit. Ut ex Jovio.
Natnra mordacilTimus CICERONE (si veda) vellicabar, LIZIO carpebat, VIRGILIO
(si veda) fubfannabat, uni tantum GIARDINO affurgebat. Hic cum pauca in Logica
fui temporis animadvertilfet, adverfus Magiftros fe fe offerebat, ac planum
diceret nullam efle Logicam, prater Laurentianam. In libro de voluptate, ac
vero bono GIARDINO .adhæfit. Hic omnium primus philosophiam ex pyriffimis
fontibus, non ex dem Utiliora neglexerunt, fophiftica duntaxat amplificarunt.
Scholaftici itacjuc LIZIO denominati funt, et denominantur, licet eorum
pauciflimi LIZIO legerint. Hujulmodi Logica futnmo in honore habita fuit ufque
ad feculum XV. illiufque veftigia etiamnum manent in quamplurimis Monacorum
familiis. Verum initio decimi fexti fcculi, primum VALLA (si veda) et Agricola,
dein* b 3 de ex lutulentis rivulis falubriter hauriendam effe docuit, explofa
penitus fcholallicorum difciplina, qui tunc temporis principatum obtinebat.
Rodolphus Agricola apud Frifios ortus Hic enim tanquam athleta multa tulit,
fudavit,& allit abftinuitque venere, et vino, ut magis magifque literis
vacaret. Poltque Parifiis, et Ferrarii Gricam, ac LATINAM LINGVAM comparavit,
reliquum itatis partim Hebdcrbergi, partimque Wormatii duxir. Pofl: ejus mortem
Lovanii editus fuit liber temeritate judices concuffi, irrito conatu per diem
integrum imagiftramvt fuit i ut barbari barbare vocabant. ItaFreigius in vita
Petri Rami. Scripfit inftirutioves Logicas, atque in LIZIO trviniadverfhnes, Ex
Triumvirali fenrentia ejus libri damnati furtt. At paulo poft Diaia&tcx,
atque eloquentia Cathedras obtraurtTTandem in S. Bartolomad prælio occifus eft.
Baco magnus Cancellarii fub Jacobo i. unuseorum eft qui ora* nes perfefliones,
atque imperfectiones fcholaftica; philofophiæ cognovit, oftenditque: itetftque
vehementi (lime laboravit pro ea perficienda. Hujus traClatio de augmentis
ferendarum eft perquam utilis Literarqmafliduitate dx ditiflimo obiit pauper.
In fcientiarum organo do rebus Logicis difertiflime difputavic, in quibus modum
optime conficiendæ Induclionis difleruit, cum AriftotelicI methodum docerent
conficiendi fylidgifmi. Quo in mas Hobbefius, qui licet luam Logicam computandi
anem infcripferit, verum tamen ut cæteræ illius temporis fcholaftiGa
garrulitate etiam fcatet. a Poft hos meliori methodo atque acriori ingenii
acumine de Logica egit Cartesius vir doctifiimus y cujus libellus de methodo
rationis rettc dirigendæ, inquirenda in J cientiis veritatis eft valde
praftans. Etenim is primus fuit, qui. conculcatis vetuftiffimis au&oritatis
præjudiciis ad veritatem inveniendam aljos excitavit • Itemque non ex aliorum
judicio, virum ex propriis viribus omnia explir in opere o&odecim annds
confumpfit. Hic unus novæ philofophue praxurfor fuit. Hobbefius Malmesburii
ornis pfiuja ætate piaxiraos habuit progreffus in linguis, quinquennio
philolophiæ scholafticæ operam dedit. Deinde ITALIAM, ac Galliam peragravit.
Tucididem in linguam artglicam vertit, ut fbtus Democratici conftifiones
notaret. Lutetiæ an. i) Lockius Vyrigton prope Briftblium natus an. i6p. prima
literarum rudimenta in Collegio Oxfortenfi, accepit, quaque illi eide tn
-puerilia vifa funt. At Cartefti opera illum acuerunt. A Cartefii operibus ad
medicinam tranfir, qua de re anathomen, hiftoriam naturalem, atque chymicam
comparavit. Peragravit primo Germaniam ac Pruffiam, deinde Galliam atque
ITALIAM cu«l Comite Noftumberlando-Heflico morbo correptus Galliam venit 1 qua
benigne exceptus fuit » Vix ad Angliam redux y Babris anglice editis artem
cogitandi comprehendit. Hos Petrus Coste in Gallicum sermonem, Burrigidius vero
IN LATINVM VERTIT. Lockius enim fummo mentis acumine rerum caufas rimatur,
vires humana rationis computat, denique Logicos docuit qua via (e
explicaripoflent, neque erubefeere fe nefeire, quod reapfe ignorant.
Cartefianos aggreditur, ac difputat omnes ideas vel fenfuum ope, vel
meditatione oriri: Ostendit quo pa&o unaquaque idea adquiratur:
Diligentiffime artem criticam expofuit. Poftremo de humana cognitione, de
veritate cujuslibet generis, de ratione, de fide, ceterifque aliis fufe lateque
pertraftavit. Attamen reprehenditur. Bataviam petivit, atque ab Anglia rege
requifitus ire noluit. De Intelle£lu humano librum confecit, quem edidit: rure
compofuit librum de Imperio civili, in quo tyrannidis injuftiriam expofuit:
eoque in loco compofuit prater librum de puerorum educatione, etiam aliquas
epifiolas, ac Chriflianifmum ratiocinatum, quo in libro Rationis vires nimium,
Quod fæpiffime eadem magno verborum adparatu repetat. Quod quædam inutilia
addat: Quod exempla neceflaria omittat, Quod libertatis arbitrium non re£le
explicuerit. Ex Lockii Schola Joannes Clericus præftantiffimus philofophus
prodiit, qui univerfa judicandi prscepta ia fu a arte critica complexus cft.
Nam 1. de ideis. de judiciis, ac propofitionibus: de methodo, poftremo de
argumentatione ac fvllogifmo difleruit. Poft Clericum mariotte Gallus doflif
fimus vir Logicam duas in partes divifam edidit, quarum altera in quibusdam
propofitionibus evidentilTimis verfatur; altera vero qua via ex præmiffis
propofirid mium y quam par eft, prædicat, vitamque sternam iis offert, qui
Chrifto credunt, legemque naturalem exercent. Occubuit num materia poflit cogitare, conatus eft
oftendere. At quid intereft utrum materia fit cogitans, nec nej? Quid enim
intereft, fi medtis human® fimplicitas in tuto collocetur ? Fortaffe ipfa
efficere poffet, juftitiam injuftiriamve noftrarum a&ionum, noftram futuram
felicitatem, veritatefque fyftematis politici ?. 1 tionibus alis deduci re£te
poflint, perrra£lat. Culpatur primo quod de veritate probabili, deque arte
critica nihil dixerit; Itemque quod ratiocinandi artem confufe tranaverit \
quod omnium errorum caufas non patefecerit, Quod in Anglia Lockius, atque in
Gallia Clericus, ac Mariorte, identidem in Germania fecerunt Chriltianus
Thomasius, Eeibnitzius, Wolfius, aliique complures. Primus enim fine prateriti
feculi introduttione ad Philosopbiam Aulicam, Dialecticam a nugis, atque
erroribus, quibus eam maxime infufcaverant fcholaftici, emendavit. Id quoque
fecit Andreas Rudigerus etiam Germanus in fua pbilofopbia Syntbetica, atque in
libello de fenfu veri, ac falfi. Id ipfum dici » i ' {q) Leibnitzius Lypfis
natus in Saxonia editus elt in lucem ex Schmuch, illi præmortuus pater a matre
fuit inftitutus. Vix ex Ephebis egrelfus maximam librorum copiam, quam eidem
pater relique„ rat, legit, at «cognita magiftri indigentia, ad Thomasium omni
in re literaria, io dici poffet de Francjfeo Buddæo, de Leibnitaio >(q),
Chriftiaoo Wolfio, deque aliis pene innumeris, de quibus verbum nullum addam,
ne propofita: brevitatis limites praft^iantur. His omnibus accenlendi denique
lune præclariflimi viri Antonius Genuenfis (GENOVESI, si veda) neapolitanus
noster præceptor maximo vir ingenio, ac per quam longa meditatione, ac lectione
contritus aliaue. fortuna dignus, Aloysius Vernejus Lusitanus, Sorias Pisanus
PISANO (si veda), Salvator Rugerius (ROGERIO – si veda), atque Angelonus P.
Cœlestinus (CELESTINO – si veda) ambo Neapolitani. Quorum omnium opera amo,
atque excolo, primum ob rerum gravitatem, fecundum ob methodi claritatem, in
tota Germania infignem avolavit. Sub tanto præceptore historiam, et Politices
artem calluit, Peragravit deinde omnem Germaniam, atque ITALIAM pro describenda
Ducum Brunswifcorum hiftoria. Cum rediiffet Codicem Juris Qentium diplomaticum
edidit.. ejus vita legitur m Kortholt, Eckard, » s tem, k SERMONIS LATINI
nitorem, Pifanum ob methodum, atque præcepta Logica, alium præter res, etiam OB
LINGVA LATINA ELEGANTIAM postremum propter ejus methodum darifliraam. VMnis humana perfe&io ab officiorum, et virtutum
adcurato exercitio unice pendet. Verum nulJum eft officiorum, ac virtutum
laudabile exercitium, nifi a natura: notitia, ejufque. auftore, qui eam ad
proprium dirigit finem: hæc vero rerum Iatebrofarum cognitio. est laborum, ac
speculationum profundiffimarum fru&us, quæ, rationem requirunt omni ex pane
illuftratam. Ratio autem est quædam ip homine vis y five facultas, qua 8c
noeram, et aliorum corporum exiftentiam, eorumque relationes cognofcimus; qua
fumus liberi; qua alia feparamus, aliaque conjungimus; qua præterea a quantitatibus
cognitis ad occultas incognitas pervenimus; ac idearum, $c judiciorum feries
neceflario vinculo conne£timus: et qua, SIGNORVM ope, noftra intimiora animi
sensa ALIIS COMMVNICAMVS, errores cognofcimus, veritates detegimus: qua denique
juftum abinjufto, bonum a malo, honeftum a turpi facile decernimus, Haic vis,
quaecumque illa fit, dum vivimus ex sensuum applicatione oritur; experientiis,
atque obfervationibus augetur, Audio vero Logices perficitur. Ex quibus fane
concluditur, Logicam elfe fummo emolumento iis omnibus, qui vel fe ipfos, vel
alios perficere curant, Cum igitur mihi propofitum fuerit ipfam juventuti
enucleare, refla via ac ratione proceflifle arbitror, fi primo de mentis
humanae operationum ortu, ac progrelfibus, tum DE SIGNIS, quibus eas aliis
explicamus; deinde de errorum, ac veritatum fontibus, atque augmentis
pertractaverim. Haec vero omnia quatuor leflionibus compleflar: quarum prima:
duae docentem, dqae vero poftremae leflioqes Logicam utentem., yt ajunt,
cohflituent. Quibus ultimo loco accedet de Logicas redu&ione ad
Arithmeticam breviflima leflio, ut a Dhfiefttco fupputandi necefi fitas
agnofeatur. LE- DE ORIGINE
OPERATIONUM RATIONIS HUMANÆ, E1USQUE MAXIMIS PROGRESSIBUS. Illud quidem maximum
efl, »g/a animum videre. CICERONE (si veda) Tufc.t. Quibus partibus confiet
homo. 'X omnibus animantium generibus nobis ufque adhuc cognitis, unus homo vi
fuz rationis ceteris praftat, quia hujus facultatis beneficio non modo feipfum,
fed infinita quoque obje&a exteriora cognofcit. Etenim diutina corporum
imprefiione in fuos fenfus, eorum exiftentiam primo intelliglt, deinde mentis
meditatione illorum adtributa, qualitates, 8 c relationes comprehendit. Itemque
natur* leges, rerum ordinem rimatur: rerum praeteritarum recordatur, eafque cum
praefentibus conjungens, futuras pr*fcit, ac veluti. intuetur. Quid multa? ad
propriam felicitatem contendit, proprise exiftenti* principium mundique
conditorem fk intelligit, et colit. Hanc maximam ac pene divinam rationis vim
mihi delineare nitenti, vifum eft, primo idearum originem enucleare, tum quo
paflo eajdem vel inter fe, vel cum aliis pofltnt combinari. Sed priufquam ad h*c perpendenda aggrediamur, de
hominis partibus paucifiima dicamus. Principio infunt in homine par. tes, quas videmus,
dividimus, contremamus, dimetimur; quaque funt extenf*, relilleffres,
mutabiles. Verum haec, atqu$ ejufmodi alia corporis funt adtributa. Homo itaque
ex corpore conftat, Infuper quilibet homo quodam vehementiflimo natur* impetu
ad veritatis mfrxime utilis ftudium, ad bonum com. parandum, ad malum
declinandum ducitur. Rurfus ordinem, pulchritudinem, perfeftionem amat;
eidemque jullitia, honsr flas, De mentis aftibus. 5 flas, libertafque placet. Praterea flepe magno animi mrcrore angitur, eodem
tempore quo elt omni ex parte fanus. Contra quandoque ell hilaris, licet ejus
corpus maximis cruciatibus torqueatur. His omnibus accedunt tot abftraftiones,
atque alienationes invita:, tot rerum peregrinarum inventa, tot artes, tot
difciplina. Qua: omnia ronnifi ab homine prorfus hebete, ac veluti plumbeo,
materia: folida, atque in ertiflima: tribui poflunt. Quamobrem homo corpore, et
fpiritu conflat. Quod (i quis ulterius urgeret, ac diceret, hominem ex fola
materia conflari; quaererem ab eo: unde tanta cogitandi vis, tanta agendi libertas,
tantaque rerum etiam abditiflimarum fcientia? uflde tanta fciendi, dominandique
cupiditas? unde denique tanta fenlationum contrarietas, axionum oppofitio,
virium interiorum pugna, tot tantique confciefni» laniatus. Ex quibus omnibus
planiflime deduci arbitror: primo hominem ex corpore, et fpiritu conflari:
errafle eos, qui vel solo corpofe, vel uno fpiritu ipsum conflare crediderunt:
eos quoque fuiffe deceptos, qui fpiritum ipfius Dei modificationera, vel
particulam efle fcripferunt. Qua autem ratione fpiritus io corpus, corpus vero
in fpiritum agat, et inter fe mutuo pene colloquantur, ac fe intelligant,
omnino ignoratur, ficuti etiam ignoratur in qua corporis parte animus locatus
fit. Cordatiflimorum quippe virorum hac de re opinio eft pro capite. At amotis
his tricis, quseraraus feria, atque ad propofitum accedamus. XUifque Icit omnem
cerebri raaffam per concavum fpinas ufque ad ejus os facrum protendi. Quifque
etiam Icit ex hac mafla telam nervofam oriri, qua: fenfuum texturam efficit. De quibus mox. Sensus igitur
est: quadam animi vis, qua corporum externorum impressiones sentimus. Verum
latiore SIGNIFICATIONE sensus omnem vim mentis exprimit, qua objeciorum
exteriorum ideas, sive simulacra, sive species, sive idola De mentis aftibus. 7
concipimus, sive quicquid interius sentimus. Primi generis fune ideæ omnium
rerum, quas vel videmus, vel tangimus, vel audimus. Secundi vero generis funt
omnium voluptatum, ac dolorum ideæ. Ex quibus intelligitur, fenfus vel esse
interiores, vel exteriores. Exteriores funt quinque notiflimi, quorbnl quatuor
fedes habent peculiares, unus vero tactus efl in toto corpore diffufus f imo et
reliqui ad hunc folum reducuntur. Interiores autem fenfus funt totidem alii,
fcilicet memoria, temperamentum, pajjiones, attentio, ac denique fenfus moralis
senfus porro tam interiores, quam exteriores in omnibus lio»minibus
diflinguuntur; etenim omnes partes folida:, ac fluid in quoque homine toto cado
inter fe funt diverbe, varieque complicatæ. Quid multa? In eodem homine
temporis progreffu omnis flru&ura muratur. De fmgulis, 8c primo loco de
exterioribus. Vifus efl fenfuurti eminentiflimus, nam vis vifiva ita
requirebat, cum ipfa fit orizontis extenfioni proportionalis, et propter
hominis .indigentias efl duplex. Oculi funt duo globuli, tribus præcipuis
tunicis fepti, quarum concavitates totidem A 4 humoribus replentur, adeo
denfis, ut lucem refrangere poflint. Hujus autem refraftio ita a natura
comparata eft, ut in oculorum fundo, five retina objeftorum inverfas pingat
imagines. Qu« porro a nervo optico excepta, ignoto nobis modo, in cerebro, non
folum imprimuntur fecundum reales corporum magnitudines, figuras, fitus,
colores, fed quoque diutiffime in ipfo cerebro, quin deleantur, impreflse
remanent. Cum autem in omni animantium genere, maximeque in homine iapfu
temporis hujus organi figura, humoruni deniitas, atque ipfa fibrarum textura
mutetur, inexplicabilis ideo eife debet videndi differentia. Qua: omnia fi quis
adcurate fupputaret, univerfam vis vifiva: quantitatem habebit. Auditus eft
alter senfus duplicatus, in auribus fitus. Auricula exterior pro æris
undulationibus, ex corporis fonori vibratione produ£tis excipiendis, infervit.
Hic ær tamquam in infundibulo tortuofo receptus tympanum ingreditur, atque ex
hoc tranfit in labyrinthum, cui nervi acuftici adharent, quorum ope ufque ad
cerebri fibras communicatur corporis De mentis actibus. £ fonori fremitus, qui etiam ignota ratione in nobis
ideam foni excitat. Qux cum ita fint, patet quod pro defipiendo foni gradu,
fupputanda eft primo corporis fonori elafticitas: iftus quantitas: obje&i
fonori diftantia. æris reflftentia: denique ipfius organi a&ualis ftatus.
In naribus porro eft odoratus; quæ quibufdam nervulis capillaribus velli untur,
ab ipfo cerebro productis. Scitur vero ex corporibus fetidis, atque odorir
maximam effluviorum copiam continuo exhalare, qua: ærem circumvolant. Scitur
etiam, quod ejufmodi particulæ infenfiles narium nervulos olfa&orios
vellicant, ex quibus excitatur in cerebro odoris, vel fetoris fenfatio. Hujus
senfus propterea vis habetur ex effluviorum numero, eorumque impetu, ex fucci
nervei fubtilitate, atque ex fibrarum cerebri elafticitate. Quam proximus
odoratui eft guJius, in lingua, ac palaro fitus. Lingua enim eft fuperius te£la
quadam membrana quaqua verfus iqnumeris foraminibus repleta, ex quibus
innumerabiles papilfe nerveas taftui rigidæ fe produnt. Particufe \x falinas,
oleofas, fulphureas, aliæqige quamplurima: in cibis contentæ iftos nervulos
titillant, ex quibus rerum fapidarum, vel infipidarum idea in tlobis excitatur.
Gradus hujus
fenfationis fupputatur: i. ex particularum numero, et qualitate, 2. ex noftra
naturali, et momentanea difpolitione. Tandem taStus in omnes corporis, tam
interiores, quam exteriores partes eft diffufus. Medulla enim oblongata inter
colli vertebras, et fpinas lateraliter nonnulla nervorum paria protendit, qui v
in omnem corporis fuperficiem propagantur, atque ita mirabiliter inter fefe
ordiuntur, ut portentofam membranas reticularis telam efficiant. Hinc evenit,
quod quaslibet impreffio,quas in hac fit,ftatim cerebro communicatur, atque
imprimatur idea corporis exterioris. Ad hunc fenfum referuntur omnes
fenfationes frigoris, caloris, gravitatis, afperitatis, &c. Vis hujus
fenfus habetur ex, vi premente, atque ex noftra aquali, et naturali
difpofitione. Hujufmodi eft
fabrica fenfuum exteriorum, quos vulgus multiplicatos vellet, atque etiam
perferiores. At fi sensus eflent etiam centum, attamen humanat mentis
operationes eflent ilis ipfe, quas modo habemus, nam fenfuum multiplicitate non
augerentur, verum fola idearum sphoera evaderet major. Quantum vero ad horum
imperfe&ionem, eft quoque inepta querela, nam fx fenfus eflent perferiores,
illa ipfa ratione, qua voluptatum numerus fieret major, eadem quoque dolorum
copia fieret numerofior « Nefcimus igitur quid petamus. TpXpofita hominis parte
exteriore, perpendendum nunc eft ejus interius mirabile magifterium, quod
fummopere in cognitiones, atque in aftus humanos influit. Senfus interiores
funt memoria, temperamentum, paffiones, attentio, ac fenfus moralis. De quibus
quambreviter ad Tyronum captum verba faciam. Univerfa cerebri maflfa duas in
partes difpefcirur, quarum altera cerebrum, alterum cerebellum nuncupatur. Hæc
fubftantia mollis infinitis peno cellulis, five flexionibus repletur, in
quibus, modo nobis incognito, non folum imprimuntur, fed quoq. retinentur
objectorum exteriorum imprefliones, cum eorundem relationibus, etiam
abftra&is, et perquam longo ordine implicatis. Mihi fufficiet duntaxat velle,
et itatim in hac fubftantia imagines canis, bovis, equi, domus, navis,
exercitus &c. diftinCte intueor. Itemq. hujufmodi ideæ tanta vi
imprimuntur, ut iis licet femel vilis, recorder tamen cujufq. magnitudinem,
colorem, litum, dimenliones, et cetera. His accedit, quod in hac mirabili
cerebri fabrica, manent non folum obje&orum ideæ hefterna die mihi
obverfatæ, fed etiam illæ, quæ olim meam pueritiam profperam, hilaremque
reddiderunt. Itemq. in ea pilæ celeritatem, teftudinis tarditatem, ignis vim,
vulpis vafritiem, Sinenfium vanitatem, a1 iaque infinita quafi lego. Quid
multa. In hac una tanquam in libro diftinCtiflimis characteribus obfignato tot
philofophicarum meditationum feriem, tot fyftematurn abfurditates, tot
imperiorum yiciflitudines, uno verbo univerfos humanæ rationis progreflus, et
natura ipfius revolutiones pene intueor. Haic vis, quæcumq. illa fit, memoria
nominatur: Ipfaq. crefcit, decrefcitq. in eodem homine; fere femper in
fene£lute debilitatur, et nimia morborum vi etiam prorfus ammittitur, ut ex
hiftoria. Temperamentum eft folidorum, ac fluidorum conftitutio, quæ fere in
Angulis hominibus differt. Ex hoc facile enodatur, cur ex hominibus alii funt
obtufi, torpidi, ac lenti; alii contra a&uofi, violenti, iracundi. Itemq.
dantur homines fere femper hilares, feftivi, et lætantes; alii contra
taciturni, mærentes, triftefque. Denique funt 8c qui facillime omnia, ac clare
intelligunt. Sunt alii, qui pauciflima, et obfcure concipiunt. Unde hæc tanta
varietas, nifi ex varia folidorum, et fluidorum permixtione. In quamplurimis porro fibra funt debiles; in aliis
vero refiftentes. Itemque dantur fibra magis, vel minus elafticac, magis vel
minus molles, ac cædentes, atque ex vafis alia funt latiora, alia mediocria,
aliaque angustiora. Quibus pofitis, fequi neceflario deber, fluida non poffe in
omnibus a*que circulare. Ex quo intelligltur dari cfiverfa temperamentorum
genera. Datur ideo cbolericum sanguineum, melancholicum, O phlegmaticum in
hominibus temperamentum. Et quoniam in fanguineis fluida æquabiliter cwrunt,
ideo funt hilares, aperti, fecuri, eloquentes, benefici, urbani, intrepidi. At
quia in cholericis fluida funt fubtiliora, et vafa apertiora, idcirco cholerici
funt celeres, impetuofi, iracundi, ambitiofi, atque ad vindi&am propenfi.
Temperamentum melaocolicum eft fanguineo inferius. Etenim melancolici funt
lenti, taciturni, acri ingenio, acrique judicio. At omnium lentiflimi funt
phlegmatici, ob eorundem fluidorum fpiffitudinem, et vaforum anguftias. Hinc
fit, quod phlegmatici funt vultu triftes, tardi, timidi, diffidentes, avari,
obtufi, denique in virtutibus, $c vitiis mediocres. Quicunque igitur omnem
terræ fuperficiem mente perluftraverit, generarim inveniet, primo climata
frigida homines modificare ad temperamentum phlegmaticum, calida vero ad
cholericum: deinde inveniet in quam proxime frigidis homines effe
melancholicos; in quam proxime calidis efle fanguineos. Verum hac in genere.
Nam indifcriminattm ubique locorum omnia temperamenta dominamur. Quin imo in
ipfo homine, eademque familia notantur diverfa hominum temperamenta. Quæ cum
ita fint, fenfationes non poliunt elfe easdem in omnibus hominibus, et ne in
ipfo quidem homine, Pajfiones, five affe&us, iive perturbationes, five
quodvis aliud vocabulum adhibeas, funt quadam animi commotiones ab objeflis
exterioribus excitata. Ha rum omnium fedes eft in corde, quo4 nervorum ope
cerebro adhæret, Partiones licet multas, ac vari®, omnes tamen totidem amoris
fui ipfius funt modificationes ac veluti reafliones, quarum unaquaque in
noftras ideas, et judicia maxime influit. Verum partionum vis, atque
energia a tyronibus facilius fentitur, quam iifdem explicari poflit. Quartus
fenfus interior eft attentio, qua nihil aliud eft, quam quadam infita mentis
occupatio in objeSo nobis cognito. Ex quo ftatim intelligitur, quod attentio
fit quadam vis obje£H impreffione anterior, nobis a Deo data, ut minutim rerum
qualitates explorare valeamus. Hinc etiam intelligitur, attentionem, efle
quandam mentis energiam, qua; vel in toto objefto, vel in aliqua ejus parte
occupatur, ut illius ideam adsquatam habeat. Attentionis vis eft in ratione
compofita tum indigentiæ prsfentis, tum temperamenti, atque educationis:
Itemque attentio varia eft pro finium diverfirate Denique fcnfus moralis eft
quædam anterior animi difpofitio, qua, fine ullo magiftro turpia ab honeftis,
bona a malis, folo natur® impetu, diftinguimus. Eadem igitur ratione, qua quis
dulcia potius, quam amara guftat, ita honefta et bona potius confequi, quam
turpia, 8 c mala amat. Hsc animi humani vis eft phyfica, ac veluti mechanica,
ipfoque Rationis prscclaro lumine multo anterior, et vividior, atque ex fe ipfa
explicatur in quolibet homine. Hinc pene infinita hominum multitudo
beneficentiam, et juftitiam amat, earumque oppofita deteftatur, etiamfi ignoret
in natura inefle quandam vivendi normam omnibus communem, conflantem, sternam;
quam quifque fine magiftro fcit, fine interprete intelligit, fine coailione
fequitur: quaque denique omnes pueri, adulti, urbani, fyi-, veftrefque homines,
ut oculis, ut auribus, ut guftu libere utuntur. Ex hoc fenfu oritur in quovis
'homine illa probitas, qua: ingenita dicitur, quasque lenti tur ab omni humana
coniideratione, a qualibet rationum fubtilirate, a præmiis, atque a poenis
iplis femota, ac diftintia. Ex di&is clarilTime intelligittir, animum percipere
bonum, et malum cum eorumdem gradibus non dillimili raticne, quam qua colores
intuetur, harmoniam concipit, odores lentit, pulchritudinem diligit, et
abnormia deteftaiur. Ex ditiis quoque colligitur, hunc fenfum effe univerlalem,
reliquofque completii, nam ex unoquoque fe inflruit,ut de objettorum exteriorum
bonitate, ac pravitate dijudicare poflit. Hæc de lenfibus tam exterioribus,
quam interioribus, qui veluti totidem fenfationum animi fulcra, ac fundamenta
habendi fuut. Qua: omnia, nifi quis diltin&c comprehenderit, nullo pa£lo
intelligcre poterit, quid ex tot tantilque obje&orum imprelfionibus animo
ipfi contingat, ut ex fequentibus clarum erit. De Animi Scnfattonibus, OI ne
objeftis exterioribus nullap eflent in homine fenfationes, et fine his nulla in
eo eflfet fcientia, vel ars. ScnJ
'ationis nomine hic venit illa interior animi commotio, qui ex corporum
prifentia, five preflione in nobis excitatur. Cum autem fenfationes fenfuum
numerum, Sc difpofitionem fequantur, fecundum eorumdem ordinem explicabuntur.
Si quis autem quacfiverit, Utrum idei, Sc fenfationes fint ejedem, vel
diverlse: Num fenfationes, quas animus ab objeftis excipit fibi ipfi, vel
objectis fint confom: Ex quo oritur tanta impreflionum vis, atque impetus:
Quare inter fe non confundantur tot fenfationes, et fibrarum fremitus, qui
animum concutiunt: Tandem quo pa£Io easdem nofiro arbitratu comparemus, cum
ipfi non fint, nifi totidem cerebri commotiones, et rea&iones ab ipso animo
difitinfl®: ex quibus omnibus, aliifque tandem is concludit.• fenlationum De
mentis anibus. i» ertum, earumque progrefTum, et varietatem inexplicabiles
nodos continere Principio fenfationes vifu defini-' tx non verfantur, nifi in
corporum figuris, coloribus, magnitudinibus, diftantiis, et motu determinando.
Preliis enim ocuhs ex luce a corporibus reflexa, fenfatio fecundum vim
prementenj, atque ocuh flruauram modificatur. Ex his 'pref. 1 lombus in nobis
attentio excitatur, qu primum de noftri exiftentia, deinde de objecto exteriori
nos inftruir. Tum an prefliones lint nobis confentanea, necne ex quibus denique
fenfationes grata vel molefla eruuntur, atque ex his voluptates, vel dolores
producuntur: qua postrema non folum animi, fed etiam omnium e ju felem
deliberationum fulcra ac vires motrices habenda funt. Secundo animus ex una in
aliam fenfationem tranfir, id elt ex voluptate m dolorem, atque ex hoc in illam
ex quo tranfitu, 8c cenationis; et Jurationis lenfationes adquirit. Cellatio
itaque efl dolorum,. vel voluptatum fufpenfio; duratio autem ell horum continuata
fuccefEx ejufmodi fenfationum vel fufpenfione, vel alterna fucceflione oriuntur
in nobis defdcris, et detcflationes. Quia ubi voluptas, vel dolor, ibi
attentio. Itemque ubi fenfatio nobis confona; ibi voluptas; ubi fenfatio nobis
diffona, ibi dolor. Amamus autem voluptates, dolores odimus. Ex primis igitur oriri debent
desideria erga voluptatum objeela; atque ex fecundis deteflationes erga dolorum
caulas. Quapropter defideria, atque abominationes ex fenfationibus ipfis
pratentibus cum præteritis germinant. Senfationum itaque memoria noftrum
fpiritum, tum ipfiufque progreffus excitat. Sed ex quo fenfationum memoria.
Quum ab aliquo objefto procul abfumus, ipfum neque flati m, neque totum ex
animo deletur, nam pro ut attentio fuerit major, vel minor, diutius in animo
ejus imprefiio remanet. Memoria igitur ex
attentione, Sed ex quo attentio ? Ex di£lis, nulla memoria fine attentione.
Nulla autem attentio fine indigentiis, vsl noflris,vel alioruui. Itemt|ue
quilibet homo jugiter eget, alias non confervatur. Ergo quilibet indiget, ut,fc
tueatur, necdfaria fibi comparet, noDe trientis risibus. citura declinet: verum
neutrum fine atternione obtinetur, necefiitate itaque ha mo eil attentus,
adfcoque fublata attentione, nulla hominis dari poteft tuitio; et eontraquc remotis
omnibus indigentiis j nulla in eo attentio. Denique memoria differt ab
ifriaginatione, I.-Quia memoria efl: imbecil la, vivida imaginatio. Prima locum
habet arque in rebus abftraftis, et materialibus, altera vero in folis
corporeis. Vis memoris ideas
ordinate unit, i magi natrix autem eafdern unit difpares, confundit et
difiociat fimilares.4. Tandem memoria ex a&uum repetitione et fit, et
corroboratur; imaginatio ex fola natura oritur. Ex huc ufque expolitis,
fequitur r. Animum humanum variis habitibus posse imbui, ut (impliciter
fentiendi, et fen* tiendi tam voluptates quam dolores, desiderandi, abominandi,
reminifeendi, imaginandi. Sequitur
2. Mentem ab uno fenfii tot habitibus imbui, quot ex quinque imbuitur. Qui non
alia de caula nobis multiplicati funt, quam pro fenfationuni multitudine
augenda. Sequitur Univerfos mentis habitus effe totidem attentionis ac
defideriorum gradus diverfos.At fenlationes, ac defideria ipfa non funt, nifi
totidem merse fenfationes, videtur itaque quod quot quot funt mentis a£lus,
omnes ad lolas fenfationes revocari poflint. Sequitur denique 4. pro omni
mentis humana: energia enucleanda fufficere unum fehfum, minime vero
depravatum, ut clarius ex fequentibus fiet. Auditus fonos percipit, quin ad
majorem, vel minorem obje&i fonori diitantiam advertat. Initio quilibet
amat fonos fimplices, poftea etiam maxime compofitos. Identidem de odoratu dici
poflet. Guftu eafdem facultates, ac vires adquirimus, quas vifu, auditu, atque
odoratu comparamus. In faporum multiplicitate vix unus et confufe fentitur. Hic
fenfus eft cseteris charior, nam pro vita fufti nenda unice neceflarius.
Tametfi homo videat, audiat, contre&et, itcmque odores,& fapores
fentiat, verumtamen harum omnium ortum ignorat. Deinde etiamli ta&us ex
reliquis fenfibus minimam habeat vim, homo tamen omnis omnino ta£lus
fenfationis expers, De menti s ælibus. 25 pers, non poflet vivere. Ita fere
fenfuum corporis EXPLANATA analyfi, fenlationumque natura, ac varietate
expofita, ordo poftulat, ut de prajcipuis mentis humanne a&ibus aliqua
dicamus. Dtf mentis aftibm in genere .. T)Rinium Perceptio, five a/mt, X ell
primus mentis a£Ius, quo fenfuum ope corporum externorum exiftentiam,five
impreffiones fentimus: Hinc fenfatio, idea, quomodo in neceffitatibus
invocarunt, quaque ratione iratum placabant. Itemquc notau funt tormentorum De
mentis attibus, 4 j genera, atque execrabiles formula:, quibus impii
excruciabantur. Contra qux vitx honeftas, qux morum innocentia, qux jullitia,
qux pietas pro futura felicitate confequenda requirebantur. ScimuS denique ex
ipfis tot populorum prxjudieia, fuperftitiones, deliramenta, abfurditates,
foeditates, aliaque innumera puerilia, qux Dei cultum vel foedarunt, vel
deflruxcrunt. Secundo quantum ad naturx hisloriam, eidem debentur aflrorum notitix;
fcilicet quid fint aflra, quo ordine difpofita, quibus in orbitis, et quomodo
moveantur, quibus viribus xquilibrantur, quibus ratis temporibus proprios
cuffus conficiant. Eidem debetur metheororum hifloria, maris, St terrx,
animalium j plantarum, et foffilium cognition. Eidem denique totius naturx
revolutionum periodicarum defcriptio debetur. Tertio humana hiftoria quid eft,
nifx ipfius memorix produ£tio. In hac enim videtur qualis fuit primitivus
humani generis flatus, qux focietatuia civilium origo, imperiorum omnium
viciffitudines, tyrannorum feritas, heroum gloria, ambitioforum vafrities, qui
navigatio, quale commercium, terne productiones, hominum induftria, leges,
ufus, con fuet udi nes, bella, foedera, magiflratus, militia i ve&igalia,
fcientia; litterati, morbi, exercitia gymnaftica populorum tranfmigrationes,
linguaz, urbium, provinciarumque devaftationes, fpirituum vis, juventutis
inftitutio, ludi, feftivitates, feri», aliaque Ad Rationem referuntur etiam
Deus, natufa, et homo. Quantum ad Deum
Philofophia, qu» eft tam excelfa, ut hominem pene divinum reddat, Rationis eft
filia. H»C licet infinite
extenfa, attamen tria funt ejufdem pracipua obje£ta, nempe Deus, natura, et
homo. Profe&o naturalis Rationis progreffio eft incipere ab individuis ad fpecies
ab his ad genera \ atque a generibus ad univerfalia * Hax mentis vis
metaphyficam produxit^ quam tanta cum utilitate quotidie adplicamus ad Deum, ad
naturam, ad hominem Quæ fcientia minime feparari poteft a mathematicis, qua; in
puras, Se in mixtas difpefcuntur. Arithmetica, Geometria, Algebra, ad primas;
ad alteras vero Mechanica, Dinamica, Hidraulica, Balliftica, Cofmographia,
Geographia, Chronologia, Gnomonica, Optica, Dioptrica, Catoptrica,
coniiciendique ars referuntur. Similiter ad natura fcientias fpeftant etiam
Notomia phyfiologia, Medicina, Botanica, Venatio, Agricolrura, paftoralis,
metallurgica, Chymica, magia naturalis, aliaque hujufmodi pvero ipfx hominum
indigentis. En quo pafto LINGVA mentis vires, contraque mens vocum
multitudinem, proprietatem, atque energiam invenit, et auxit. Ex diflis fane
colligitur duplicem clari in homine fe exprimendi modum. Alter nempe eft
naturalis, qui in corporis motibus; alter vero artificialis, qui m lingux
modificatione sive in vocis modulatione confiftit. Ex di&is quoque
colligitur vocum ortum, cuidam lingux conatui, augmentum indigentiis, denique
perieftionem fpiritus culturæ, afliduifque vitæ uftbus deberi. Verum ita femel
enodata LINGVA, IDEÆ APVD HOMINES fic redditæ funt COMMVNES, ac familiares, ut
nihil fupra. Deinceps cognira etiam fuit neceflitas loquendi hominibus loci,
vel temporis ratione remotis. Quapropter varias imagines excogitarunt, quibus
mentis a£lus EXPLICATI sunt. Hinc pro defignandis homine, equo, leone, bove,
eorum figuras defignarunt. En quo pafto a&ioni LINGVÆ NATVRALI, accelferunt
primo foni articulati pro præsentibus, et scriptura pro abfentibus. Quæ scriptura initio fuit tota
SYMBOLICA, ut tres frumenti fpica: tres annos notabant. Ex SYMBOLICA evafit
Hieroglyphica, quam etiamnum frequentiflime adhibemus in nummis, in
pi&uris, in fculpturis. Sed ad exprimendos noftri animi impetus poftremo maximum
in modum influxerunt quoque pene infinita belli, pacifque inftrumenta. Atque
hinc facile eruitur 1. voces nihil aliud efle, quam quadam figna abitraria, quæ
prater fonum, in nobis quoque excitant CONCEPTVM MENTIS, ut horno j præter
fonum huic voci proprium, * D 2 ex 'Ac Progrejffu SIGNORVM 6 r gnum, et parvum;
re&um et curvum, grave 8 c leve. Sic
Gallia eft magna cum Regno Neapolis comparata, at eft perquam parva Sinenfium
Imperio relata. Hinc intelligitur, quod licet omnes relationes fint ideales,
vcrumtamen Diale&ici eas diftinguunt in ideales, atque reales. Ideales
funt, qua: intercedunt inter ideas abftradas, ut inter Tacqueti, et Cavallerii
Geometrias. Reales funt, qua: reperiuntur inter pondus auri, et argenti. In
hunc cenfum referri quoque poflunt pene innumeras voces, qua; fubftantias
videntur notare, fed vere relationes exprimunt, quia ipfæ non explicant, nifi
qualitates, ut pulcritudo, deformitas, do&rina, ftupiditas, vitiofitas,
fon&itas, juftitia. Itemque hujufmodi nomina videntur effe abfoluta,&
funt relativa. Etenim unus homo refpe&u alterius deformis videtur, pulcher,
et cetera, Id ipsum dici polfet de adverbiis dofle, erudite, diligenter &c.
Ultimo loco dantur termini, sive voces simplices, (y compostt a; C lar ce, 8c
obscura; dijlintta, et confufce, compleice, fk incompleta j adæquata, (D 1
inadaquata. Primi generis fuqc
linea; et superfides. Dc Ortu, ficies Protomartyr, et archimandrita Secundi
generis, funt corpus, et anima. Tertii generis funt Petrus, et homo. Ultimi
vero generis funt circulus, et vis. His omnibus accenfenda: etiam funt voces
fmgulares, ut Annibal; generales, ut planta; univerfales, ut res; determinata,
ut equus a, canis b; indeterminata, ut equus, et leo. Si quæ fint alia; voces,
quas prætereo, etiam facili negotio reduci poffunt ad has jam expofitas. Hæc de
elementorum orationis do&rina', five de vocibus tam in genere, quam in
fpecie; verum quo pa 6 to eædem vel inter fe, vel cum aliis poflint combinari,
dicam brevius, quam res tanta pofcat, adeoque, De ftmplici vocum combinatione 3
ftve de propofttione, r Alibi diftum e/1 judicium duas ideas, vel fenfationes
requirere; unam rei, quacum conjungitur, vel feparatur aliqua qualitas; alteram
vero illius, quæ eidem tribuitur, vel removetur. Ex g.. i 1 v Sol eft ingentiflima ignis moles. Luna i
• est corpus opacum. In prima propofitione: ignis a6lio foii, 8c in altera
terra; opacitas Lunæ tribuitur. Contraque fi judicium ex qualitatum remotione a
rebus, quibus non conveniunt .Sic i ITALI hodt emi non habent prijlinam
virtutem. Et: homo in maximis divitiis innutritus raro eji mi/cricors. In
quibus fane propofitioi nibus ab Italis pratentibus majorum gloria, atque ab opulentis
mifericordia feparatur. Ex quibus liquet, quod cum fit judicium oratio verbis
exprefla, ea conflare debet ex duobus terminis, quorujn alter rem, de qua
agitur, exprimat, alter quod eidem tribuitur, vel removetur. Sic agrorum
cultura cfi utilis. Ha:c propolitio duos habet terminos: alter eft agrorum
cultura; alter utilis, quorum primus dicitur antecedens five fubjeclum;
fecundus vero vocatur confequens five adtributum five prædicatum. Cum vero
voces ex earum inventione non inferviant, nifi pro objcftis denominandis, hinc
fequitur, quod fi quis adfirmare, vel negare aliquid velit, oportet, ut verbum
aliquod adhibeat, cum quo At fi dicam: Brutus Roma pugnavit, ut fervaret
reliquias morientis libertatis. Incidens eft in prædicato, Itemque datur etiam
propofitio hypothetica, cum nempe fubje&o prædicatum convenit fub aliqua
conditione, ut: Refp. tunc erit florida, cum juventus fuerit optime inftituta.
Ha?c de propofitionis materia, fequitur nunc ejus forma. Propofitionis forma in
terminorum unione, vel in eorumdem feparatione confiftit, ex quo oritur
propofitionum adfirmatio vel negatio. Sic: virtute quamprotcime homines
accedunt ad Deum. Contraque: vitium non eft utile Harum altera dicitur ajens,
altera vero negans. Quo in loco notandum est quod in propofitionibus
affirmativis terminorum unio fequi debeat fubjetti, non vero prædicati
extenfionem. Ex. g. Omnis leo eft
animal. Non intelligitur, quod omnis leo fit omne animantium genus. At in
propofitionibus negantibus prædicatum omnino excluditur. Ex. g. Nulla planta
est anima f sequivalet huic: nulla planta eft nulla animalium fpecies. Hæc de
forma propofitionum perquam fatis Reftat, ut poftremo loco de propofitionis
quantitate aliqua dicamus, quæ nihil aliud eft y quam major, aut minor
terminorum vis, quæ in propofitionibus continetur. Cum autem termini yo De
Ortu, mini maximam, vel minimam SIGNIFICATIONIS extenfionem habere poftint,
hinc fequitur, dari debere duas propofitiones inter fe maxime diftantes, quarum
altera dicatur universalis, altera vero fingularis. Ut: univerfi homines
ratiocinantur t eft primi generis: Petrus ratiocinatur, efl fecundi generis.
Itemque amba; effe poffunt vel' adfirmativa, vel negativa. Nota propolitionum
univerfalium eft vel omnis, vel nullus. Singularium vero propofitionum nota
eft, hic, ille, et cetera. Inter has duas propofitiones maxime extremas dantur
et alias intermedias, qua: particulares atque indeterminata; vocantur. Ut:
aliquis homo ejl dottus. I temque: aliqua figura omnes angulos habet duobus
redis aquale Notandum hoc in loco eft quod poflit dari propofitio qua; videatur
fingularis,verumtamen eft univerfalis. Et con tra. Hi nefit, quod; ut
propofitio fit univerfalis, requiritur. Ut plures rerum fpecies fub fe
comprehendat. Ex. g. Omne triangulum; Omnes planta, omnes lapides. 2.
Requiritur ut prædicatum abfolure, vel faltem hypbthetice alicui fpeciei Ac
Progrejf 4 SIGNORVM ciei conveniat. Ex. g. homo honestus ejl Reip. utilis.
Requiritur, ut generis prædicatum etiam omnibus individuis conveniat. Ex. g.
aurum in fluido demerfum in eius fundum incidit. Idem eft ac (t dicerem; Omne /olidum gravitate
fpeciflca majus aqua in fundum decidit. Omnes propofitiones univerfales in metapbyflcas, et
morales dividuntur. Primæ funt, in quibus neque genus aliquod, neque individuum
excipitur. Ex. gr. omnis homo ex corpore, (D* fpiritu conflat. Hæc propofitio
adpellatur quoque abfoluta, utpote fubftantiæ elfentialibus innixa. In quibus
vero aliquod genus, vel species, vel individuum excipitur, denominantur
morales, ut omnes Galli a temperamento sanguineo, (y omnes Hifpa. ni a
cbolerico dominantur. Nam falfum eft, quod omnes Galli, vel omnes Hifpani,
nullo excepto, fint fanguinei, et cholerici. Denique quotquot funt univerfales
propofitiones, omnes funt vel adflrmativa, vel negativa, quas brevitatis gratia
fcholaftici hifGe quatuor alphabeti Uteris indigitant, quæque funt. A, E, 1, 0. Prima; duæ affirmativas, duæ autem
poftremæ negativas defignant. Infu E 4, P De Ortu, per A denotat univerfalem
affirmativam, E negativam. Ex poftremis I affirmativam particularem, O
negativam quoque particularem. Denique E continetur in A, et O in E-, dummodo
propofitiones fmt ejufdem generis. Sic: Omnia animantium genera fentiunt. Oves
vero funt animantes.’ Ergo fentiunt. Et fic: quicquid non componitur, nequit in partes
clivuli. Spiritus non componitur. Non ejl itaque diviftbilis. De quibufditm
vulgaribus propofitionum adfetlionibus. Hic affe£lionum nomine veniunt quxdam
propofitionum qualitates, qua; funt: oppofttio, a qui poli enti a, et
converfto. Primo oppofitio duarum propofitionum
comparationem denotat, qua; licet iifdem terminis conflent, attamen ipfæ
variare pofTunt v$l in fola forma, vel in fola quantitate, vel in utraque. Si
pugnent in fola forma, retenta quantitate, tunc vel funt amba; univerfales, vel
ambæ particulares, Si primum, dicuntur Ac Prdgrcjfu SIGNORVM iur contraria, ut
.OMNIS ITALVS EST SAGAX. NVLLVS ITALVS EST SAGAX. Sin alias, dicuntur
fubcontraria: ut aliquis l iteratus ejl boneflus\ aliquis liter atus non ejl
bonejlus f Si vero pugnent in quantitate, retenta forma, tunc vocantur
fubaltema, quæ efle poffunt, vel ambæ affirmantes, vel negantes Primi generis
eft hæc; omnis homo laboriofus ejl etiam bonejlus: aliquis laboriofus ejl
bonejlus Secundi generis eft hæc altera: nulla fuperjlitio ejl utilis: aliqua
fuperjlitio ejl utilis. Poftremo duæ propofitiones poffunt inter fe æque
pugnare tum in quantitate, tum in forma, quo cafu dicuntur contradi Horia; ut:
omnis tyrannus ejl generi humano detrimento: aliquis tyrannus non ejl generi
humano detrimento. Quantum ad æquipollentiam, dico quod tunc du$ propofitiones
fint ejufdem valoris, vel æquepollent, cum altera alteri fubftituti poteft,
quin earum vis, vel. valor mutetur; ut: quicquid ejl vere jujlum ejl utile. Et
contra: quod sjl vere utile, ejl jujlum. Quo 1 eft de unica æqui pollentia
fimplici. Ex quo fequitur primo, quod tunc detur æquipollintia inter duas
propofitiones, cum definitio reciprocari poteft cum definito. Ex. g. machina,
qux horas diei defxgnat, horologium adpcllatur. Et contra: horologium ejl
machina, qua horas diei deftgnat. Secundo fit, ut quod fubje&o convenit,
praidicato quoque conveniat. Sic omnis Japiens legislator Reipuhlica
tranquillitatem promovet. Et viceverfa omnis Reip. proj perit as a
fapientijfimo legislatore provenit. Ex quo etiam fit, quod omnis propofitionum
converfio fit etiam sequipollentia > proindeque de ea. nullum verbum. Cum
definitiones, ac divifiones non fint, nili totidem judicia, hinc intelligitur
eafdem locum habere in propofitionibus. Definitio itaque eft propofitio, qua
quorumdam terminorum ope aliqua idea completa, vel determinata exprimitur. Ex.
g. Homo eft animal ratione pra$ ditum, civile, atque ad propriam felicitatem
propenfum. Itemque definitiones adhibemus pro rerum notis diftinguendis, ut eas
ab aliis facile fecernamus. Sic: homo efl animat rationale, civile, ad bea
titudinem f alium. Hlfce notis diftinguitur adeo a ceteris animantibus, ut
aliter ab iifdem diftingui non pollet .Ac Progrcjfu SIGNORVM Ex his fequitur.
Debere ingredi in definitionibus folas notas intrinfecas. Sequitur pofle quoque
ingredi poflibiles, 8 c impoflibiles, dummodo impoflibilitas non fit abfoluta,
ut: homo eft animal ratiocinans, politicum, ad felicitatem fatlum, vaiiifque
habitibus moralibus imbutum. Ex his fequitur. Pro omni rerum ambiguitate
removenda neceffe eft, ut termini fint perquam clari. Quod tunc definitio
dicitur generis, aut fpeciei, cum utriufque effentialia dinumerantur. Quod illa
fit definitio particularis, quæ eft rei adeommodata. Verum cum pmer rerum eflentialia
etiam nomina definire poflimus, propterea dantur quoque definitiones nominales.
Hinc univerfæ definitiones in reales, 8 c nominales diftinguuntur. Primi
generis funt definitiones circuli, quadrati, trianguli. Secundi generis funt
definitiones infiniti, trilateræ, quatrilateræ figuræ. In quo notent juvenes,
quod licet Diale&ici definitiones reales adpellent illas, quæ ex genere, et
differentia confiant, verumtamen ipfæ quoque funt »0minalcs. Nam etiam
definitionibus realibus nihil aliud intelligitur, quam illud ipfum, quod illo
vocabulo Philofophi comprehendunt. Sic: homo ejl animal rationis compos, humana
figura praditum, quid eft aliud, quam hujus nominis definitio? Cur ita ? Quia
nemo unus adhuc fcivit rerum effentias, aut Tuet unquam. Denique divifio eft
totius refohitio in fuas partes componentes. Quæ dicitur phyfica in
quantitatibus extenfis r et compofitis: idealis in abstractis. Ad phyficam refertur humani
corporis divifio in partes solidas, et fluidas. Ad alteram vero figurarum planarum partitio in
trilateras, quatrilateras, et multilateras. Divifionis utilitas eft maxima in
rebus maxime complicatis ac longis, quæ uno veluti mentis intuitu videri, aut
comprehendi minime poliunt. Præterea iftis propofitionibus accedunt quadam
alia, quæ apud Geometras palfim inveniuntur, fcilicet propofitio T beor cHica
et praftica, demonflrabilis in demonflrabilis. Itemque axioma, pofiulatum,
problema, theorema, fcholium, corollarium lemma, et si quæ fint alia, quæ utpote
omnibus notæ, de iifdem locati non arbitror. Ac Progrejfu SIGNORVM De Compofita
Terminorum combinatione J five de syllogifmo, m Cum ratiocinatio fit
convenientis, vel difconvenientis ratio, quam duas idea: habent cum tertia;
intelligifur inde, quod ficuri ideæ cum terminis, et judicia cum
propofitionibus explicantur, fic fyllogifmo ratiocinatio enunciatur. Ex quo
intelligitur, quod fyllogifmus fit oratio, qua mentis vis aliis communicatur:
atque etiam intelligitur, quod omnis fyllogifmus ex tribus propofitionibus
conflare debeat. Verum ejufmodi proportiones inter fe ita funt colliganda, ut
non modo terminum medium habeant communem, fed requiritur etiam, ut termini
extremi inter fe uniantur. Ex. g. Omne grave tendit deorfum. Lapis autem eji gravis.
Cadit ergo. In quo fyllogifmo tres termini vel propofitiones funtropofitiones,
Termini funt gravis, apis, deorfum, Propofitiones vero funt Omne grave tendit
deorfum. Lapis ejl gravis, Ergo tendit deorfum. Quarum duæ prima: dicuntur
pramijfa, poflrema vero vocatur conci ufio nuenfis, aliique complures late
fufeque de tot tantifque variis fyllogifmorum figuris difputaverint, attamen
eaj mihi femper vira: funt mera» fubtilitates fcholaftica:, omnino inutiles,
hoc confilio potius ea pmerire volui, quam juventutem in nugis detinere. Ac
ProgreJJu SIGNORVM. De quibufdam vulgaribus argumentandi i modis. Primo pra fua
maxima claritate poteft in fyllogifmo omitti major propofitio, qui argumentandi
'modus 'dicitur eutbimeema. Ex.
g. Hic homo cbolerico temperamento dominatur. Ergo e fi cru ielis y ubi
ioielligitur hax major propofitio: £foirumque temperamento cbolerico domina t.
r efl crudelis. Hic autem bomo temperamtnto cbolerico dominatur. Ergo efl
crudelis, Secundo cuique propofitioni addi poteft ratio, qua prædicaturi convenit
fubje&o, idque fieri poteft in utrifque propofitionibus. Hic modus apud oratores
frequentiffimus, apud Diale&icos perquam rarus, dicitur; Epicberema. Sic: in corpore civili quifque debet alium dilidere y
aliter nequit in eodari harmonia politica. Petrus y autem, Francifcus, aliique
funt in corpore civili. Ergo fe mutuo diligere debent. Tertio ficuti. ex tribus
fyllogifmi propofitionibus, ‘una tac.eri poteft ob F 2 maximam ejus evidentiam,
ita aliquando ad manifeltandum perquam longum, atque IMPLICATVM ratiocinium
tres propoiitiones nou fufficient, fed oportet alias addere, vel faltim alium
fyllogifmum, vel qnthimema. In primo cafu argumentum dicitur /ornes, in altero
Profyllogifmus. Quantum ad foritem, ipfe e(l quadam propofitionum feries, ita
connexa, ut pradicatum prima propofttionis in fubjetium fecundec tranfeat:
pradicatum fecunda: in fubjettum tertia, et ita deinceps, donec in. concluftone
fubjeElum prima uniatur cum pradicato ultima propofttionis. Sic: lueratur ut laboratur:
laboratur ut confumitur: confumitur ut luxus: luxus ex divitiis divitia vero,
ut commercium. Lucratur itaque ut commercium majus, vel minus efl. Atque hinc
intelligitur, foritem dici. bypotbeticion, fi ex fyllogifmis hypotheticis
conflet. Ex„ g. ft Deus efl fapientiffimus, prafcire omnia mala debuit ft mala
prafcita fuerint, fublata funt\ fi mala fuerint fublata, mundus a Deo creatus
efl ceteris melior. Sed Deus efl fapientijjimus. Mundus ergo a Deo creatus ejl
reliquis melior v Ac Ptogrejfu /ignorunt» Quantum ad profyllogifmum, ipfe ejl
merus fyllogifmus, cujus conci ufio in pramijjtam alterius fyllogifmi tranfit.
Ex. g. Omne ens fua natura iners, ejl corporeum. Spiritus autem non ejl iners,
jed attuo fus. Ergo non ejl corporeus. Verum quicquid non ejl corporeum in
partes dividi nequit. Spiritus itaque humanus non cjl refolubilis De errorum
fimus l His omnibus additur, naturas res cffe adeo innumeras, ac complicatas,
ut nemini adhuc contingerit de iifdem adcurate judica. Denique quis umquam
propria debilitatis libi teftis eft? Quicumque fane de aliqua re judicium
adfert, exiftimat de ea non poffe melius judicari. Quamobrem ut Intellectus hos
errores vel devitet, vel minuat, hic pro mea virili nunc curabo, atque ut
ordine noftra procedat oratio, errores fecundum ea ipfa principia, qus in
altera parte enucleata funt, expendam, fcilicet juxta Mentis, ac lingua;
operationes Quod fi dicenda non fuffecerint ad omne ignoranti, errorumque velum
difcindendum, fufficient tamen tyronibus et ut minus errata fortafle efficient.
De Mentis erroribus ad fenfus exteriores relatis. Sicuti fit ubi optici varient
vel in lentium difpofitione, vel numero, objefta majora, vel minora, magis,
minufve diftantia adparent, ita oculi cum non Mentis ortu, ne progrcffibusl 95
fint, quam todidem tubuli optici, inter fs maxime differentes, tam ob eorum
tunicas, quam ob eorum humores; ex tali varietate variæ prorfus fenfationes,
at. proinde ab iis complures errorum caufæ oriantur neceffe eft. Erratur Cum
quis objeflorum exiftentiam negat, quæ ipfe non videt oculo inerim; at oculus
microscopio armatus infinita intuetur, qux ei fine tali auxilio non
obverfabantur Decipimur in diffantiis; nam fol, luna ^ 8c nubes videntur
^qualiter diftare, verumtamen nubes non attolluntur nifx ad duo Y vel tria
milliaria Italica: Luna excedit 333330. fol vero, juxta Kepleri fupputationes,
nonaginta miliones fuperat. Duæ urbes cum valle intermedia, etiamfi inter fe
diflantiffimæ, cominus vifx, videntur 1 una eademque Decipimur quo ad corporum
figuras ellypsis enim procul vifa. a circulo non diftinguitur; Itemque duæ
lineæ parallelæ apparent convergentes; 8c duo 'parietes divergentes videntur
paralleli; et linea flexa ac torfuofa apparet refla. Quarto campana pulfata,
licet ejus partes interiori fremitu concuffæ, attamen videntur omnes De en orum
nes immobiles. Id ipfum dici poflet de aquis paludofis, ac lutulentis. In
propagatioue Jucis etiam decipimur, cujus motus pulatur fieri in inflanti, cum
tamen iit fuccefiivus. Hinc Newtonus obfervavit quolibet min uto fecundo ea in
percurrere. Semidiametros terreflres, vid. 8, 202. milliaria. Poflremo erramus
quantum ad rerum magnitudines, nam folaris difci diameter duorum, vel trium,
pedum videtur, verumtamen folis magnitudo ab aftronomis eft millione major 'if
ipfa tellure. Alias mentis deceptiones, quo ad vifum omitto, ne hac in re
nimius efTe videar. Sequitur auditus,. 1. hic fenfusi nos decipit dum judicamus
fonum, vel concentum effe in ipfis inflrumentis, cum re vera fit in nobis.
Etenim in inftrumentis non reperiuntur, quam cordarum vibrationes, quæ ærem
movent. Itaque ære deficiente, debent etiam deficere ejus undulationes, adeoque
fonus, ut in machina pneumatica, atque in altiffimis montibus facillime
obfervatum. Decipimur, dum judicamus alios eodem modo fentire, ac nos. Quod
nequit accidere ob diverfam aurium ftrufturam. Erramus, dum fonum referimus
verfus illam partem, ex qua ad nos pervenit, iicet corpus fonorum fit alibi
Quarto denique fepiflime unum fonum cum alio confundimus. Odoratu, et guftu
etiam' fallimur. r. Odores, 8 c fapores in objeftis extare putamus, cum in iis
non fit,- nifi fola partium difpofitio, five effluviorum, qu narium, et linguai
papillas nerveas titillant: His fenfibus turbatis fetida, atque infipida
corpora judicamus, qualia reapfe non funt. g.jEflimamus eundem fetoris, odoris,
et faporis gradum ab orpnibus circumflantibus a:que fentiri: Quod fane eft
omnino falfum, nam harum senfationum gradatio fequi debet organorum
difpofitiones Ta£us in gravitatis, afperitatft, caloris, et frigoris
fenfationibus verfatur; et in his omnibus perpetuo decipimur Vas ære repletum
æftimatur æque ponderofum, ac fi ære elfet orbatum. Ex quo judicamus aliquid
non gravitare fupra nos, judicamus id elfe ponderis expers. Quapropter ærem non
æftimamus gravem, attamen columna æris, quæ nobis imminet, putatur æqualis
ponderi. mercurii pollicum: Si folidum in, fluido demereatur, amittit in eo
tantum ponderis, quantum eft volumen fluidi folidi volumini asquale, adeoque
ipfamet auri moles gravitat minus in aqua, quam in vino; et minus in vino, quam
in ære. Corporum quot quot funt fuperficies, etiamfi omnes appareant lævisiatæ,
attamep mycrofcopio yifaf, eas jntuemur afperas. Judicamus quadam corpora fua
natura calida, contraque alia frigida; verumtamen palor, et frigus non funt,
nifi quadam interiores corporis noftri fenfationes. Hinc fi manu frigida
tangatur aqua calida, hæc fentitur frigida. Et contra fi manus calida mergatur
in aqua frigida, hæc fentitur calida. Sane hæc tanta fenfationum contrarietas,
eft in nobis ipfls, Id |pfum dicendum est de voluptatibus, ac doloribus,
corumque gradibus, nam quicquid ipfa funt, ad nos semper sunt referenda. Hæc de
mentis erroribus, quo ad sensus exteriores, illos nunc percurramus, qui ad iq»
feriores fpe&ant. De mentif prroribus ad sensus interiores relatis f Interiores
hominis sensus alibi X descripti, sunt memoria, temperamentum, affectus,
attentio, ac sensus moralis. Perpendatur modo quo pafto ab iifdem decipiamur.
Primo memoria, cui universam cognitionum nostrarum sphceram debemus, in
quamplurimis nos decipit. Prompte non exhibet nobis ideas alias conceptas,
cujus defectus quilibet est confcius, 8 c maxime fcnes; Unam pro alia idea,
unum pro alio nomine, unumque locum pro alio nobis subministrat; Sua vi, atque
energia aliquando mi-rus vividas vividioribus ideis præfert: Sæpiffime in ipsis
narrationibus maximi momenti deeft. Idelas, earumque SIGNA, etiam improbo labore dispositas,
inter se confundit. Facilius retinet ilia y quæ ad nos, quam quæ ad alios
fpeflant. Denique quandoque est adeo vivida, pt phantasia evadat. Hinc fane
visiones, G 2, illusiones, ab alienationes, phanatismus y exftafis, et quidam
mentis furor oriuntur: Hinc etiam voluptatis, ac doloris gradus dependent.
Secundo loco cum temperamentum fit certa solidorum, aq fluidorum, constitutio,
intelligitur, quod ipsum esse poffit magis, vel minus lentum; magis vel minus
vividum, adeoque fuftimopere influere debet in nostras idearum intellectiones,
in nostra judicia, atque in ipsa ratiocinia. En causa, cur cholerici fere
omnes flnt ambitiofl, ac crudeles. Contra sanguinei urbani, et misericordes.
Cur melancholici taciturni, ac ratiocinatores; contra phlegmatici timidi,
pufillanimes, excordes, avari. Atque hine facile eruitur horum omnium propeniiones
et judicia debere efle varia. Nam primi fsunt magni pro? miffores, superbi,
audaces, vafri, ambitiofl. Secundi apti, nati ad venerem, ad vinum, ad
libidinem, ad ludos, brevius ad un iverfa, qu® fenfus alliciunt, et mulcent:
itcmque funt.hilares, ac ftrenui milites, conflantes, liberales, fociales, qd
grandia quoque fafti. Melancholici ftmt mentis coufufe, laboriofi, diffidentes
atque acerrimi judicii. Phlegmatici denique funt natura pavidi, pufillanimes,
fuperftitiofi, fervi nati, confufi, fuperficiales, ignavi. Qua: cum ita fint,
neceflario fequi debet, quod circa idem objeftum his omnibus obferyatum, non
æque judicare poflint. Itemque idem periculum fanguineis videbitur nullius
momenti, melancholicis magnum, phlegmaticis maximum. Similiter eadem res uni efle debet magna:. voluptati;
alteri vero maximo dolori. Præterea idem ac£ufatus, ab uno excufatur, ab altero
damnatur ad mortem, a tertio ad crucem, ab ultimo ad remos. Unde igitur tanta
judiciorum diverfitas, tiifi ab ideis variis; unde idearum varia-tas, nift ex
fenfationum diverfitate; unde tandem hæc varietas, nili a temperamentis, ad
quod nifi mens advertat, non æquo judicabit Iove, fed potius fecundum propriam
conftitutionem. Tertius noftrorum errorum fons in pafiionibus confiftit: Primo
quotquot funt in homine pafliones, omnes ad lilium fui ipfius amorem reducuntur;
hinc eft quod noftra judicia femper ad hoc unicum atque indeclinabile
obje&um referantur. Hinc quoque eft, quod in noflris judiciis non aliud
legitur, et obfervatur, quam quo nos temperamento dominamur, et quo amore nos
ipfos diligimus. Legatur hiftoria Civilis ad hoc evidentiflime comprobandum, e
qua videbitur, ob proprium amorem filios Patribus, Patres filiis necem
intulilfe identidem de fingulis animi paflionibus fecUndariis dici poflet. At
quis dinumerare poterit univcrfa Intelledus errata, quæ ex odio, timore i
ambitione fpe, immodica lætitia defiderio ira, audacia, timiditate, ceterifque
animi modificationibus orta funt, ac quotidie oriuntur Loquacem Fabium, ut ille
ait, delalfarem, fi vellem ea omnia fingillatim per- Mentis ortu, ac progrejjib.
fgqui; at pauciflima dicam ad Tyronum captum, qui rerum multitudine ilon funt.
obruendi ac tot hominum ftupiditas derivanda eft. Ex ipfa voluntatis alienatio,
mentis diftra£lio, judiciorum præcipitantia non modo apud populum, fed penes
ipfos viro§ literatos. Nonne hæc funt errorum fons, atque origo. Reflat, ut
extremo loco de fenfu morali dicamus, ejufque fallacias ostendamus. Verum cum
hic fenfus fit omni reflexione, quolibet examine, et quibufvis præjudiciis
anterior * hinc nequaquam ab eo decipimur» At profequamur reliqua mentis
errata. De erroribus ad mentis affus relatis. T ris cogitans, judicatrix ac V
ratiocinatrix eft tam involuta, atque difficilis, ut quafi impoflibile fit
omnium errorum analyfim juxta univerfos mentis a£lus hic exhibere. Quapropter
confueta ratione præcipuos tantummodo attingam Mens errat dum fenfationes
concipit tanquam res realiter in objeftis io 6 De errorum exiftentes. Hinc
judicamus dolorem eflfe in cultro, faporem in ficubus, dulcedinem in vino
frigorem in aqua, calorem in igne. Dum fenfationes, quas ut centies diftum eft
i funt relate, habentur abfolutse, hinc dicimus fua natura bonum vel malum
aliquod obje&um, quod tald eft duntaxat refpe£tu rioftri. Id ipfurri
diceridum quoque eft de voluptatibus, ac doloribus, qus non funt nili totidem
rea&iones tiobis confonse, vel diflonas, ddeoque nobis folis tiiric
temporis relate 4 Nihil enim in ipfis quidquam abfolutuni concipiendum eft i 44
Decipimur dum ideas abftra&as, ut Dei, hominum, Sc corporum aSiones
habentur ejufdem generis i licet toto coelo inter fe diftinguantuT Item durii
ideas fpirituales putamus materiales, uti funt Angeli, Dsmones, 8 c c. 6.
erramus dum qua: vinita funt, feparata judicamus; et cotitra quæ fola mente
fepararitur, natura conjun£Ia putamus Primi generis errata funt tot Poetarum
fabellæ ^ atque commenta. Secundi autem gerieris * funt tot Romanorum Dea:, et
Dii, ut juftitia i Visoria, Fortitudo, Februa, Jupiter Terminalis, Mentis ortu,
ac progrejjtb. icj liatis, Feretrius, et c. 7. false judicatur, si relationum
ideaj ignorentur, ut in malorum origine; in Dei natura, pradcientia. Etiarri
falfo judicatur fi hypothefes habentur vera», priufquam ad praxim revocata;
fuerint. Hujufmodi funt ACCADEMIA ideaj innata;, noftra intuido in Deo, qua;
Malebranckio placuit Woowardi, Wiftoni j et Burnct systemata, aliaque hujufce
commenta pene infinita, potius delirantium fomnia,quam Philosophorum opinions.
His. 9. additur, quod ex meditationis defe&u facile erramus. Si ut abfolute
accipiantur, quæ ex quodam circumflandarum concurfu intelligenda funt. Hinc
male quis ntentis gradus ex fortuna determinabit. Facile decipitur fi a
particulari idea ad univerfalem flatim afcendatur, quin omnes fpecies et genera
percurrerit. Quis enim dicet literulis grajcis imbutunl etiam cordatum efle
virum, et solida, magriaque cogitantem? quis Philosophum putabit etiam bonum
agricalam quis denique Cafuiftam etiam Theologum, philofophum, hiftoricum,
atque æconomicum Præterea decipimur, dum ea t quas De errorum qux non
intelligimus, infipienter, atque obftinato animo negamus. Decipimur, cum ea
quaj nobis funt contraria, fpernimus, minuimus, damnamus novitatis amore:
Scepticifmi fpiritu inconfiderat. Erratur ex argumenti analogia, five ex rerum
fimilitudine: Ex libertatis abufu: iB. Ex nimia curiofitate: ip. Ex nimio
defiderio nos diftinguendi a reliquis hominibus faltem ejufem ordinis. Ex
partium ftudio,quod 3 uibufdam temporibus, ac locis nos luificat: Pro privato
emolumento, quod nos oblivifci facit ipfa naturæ ligamina, ut liberemur ab
interioribus fenfationibus moralibus. Denique quodam ambitionis fpiritu, quo in
noftro cerebro veluti mundum univerfum concipimus, cujus nos centrum evadimus,
lætamur dum aliorum opiniones circa nos gyrant, atque ceu deliquia pati
obfervamus. Di Mentis ortu, ac progrejftb', iop' De erroribus ad animi ftgna
relatis i OUnt voces, aut vocabula totidem ANIMI INSTRVMENTA, VEL RERVM SIGNA.
Cum autem voces considerari possint tam solitariæ, quam simul junctæ, tum
simplici tum compotita ratione, hinc fit, quod totidem modis in iifdem
intelle&us errare poterit, ut ex fequentibus. Primo erramus cum vocibus
utimur, quæ pmnis omnino SIGNIFICATIONIS sunt expertes, ut entelechia, quam
adhibuit LIZIO. Cum utimur vocibus ex fe clarissimis, quæ tamen unione fiunt
OBSCVRÆ, ut circulo quadratus, corpus spirituale. Si voces adhibeamus ambiguas,
ut anima, cujus idea varia philosophorum placita sequitur: Si putemus absolutas
voces, quæ sunt vere relatæ, ut pulcritudo, deformitas, vitiositas, justitia.
Erratur, fi eidem vocabulo eadem vis tribuatur, etiam in maxima locorum, ac
temporum diftantia, yt pileus, calceus, navis, theatrum: fio LcRio Itl, De
errorum Si verba nova, yel METAPHORICA, vel emphatica adhibeantur, quin fit
neceffarium. Si vocibus utamur vis INDETERMINATAS, ut odium, amor, voluptas,
dolor, sensatio, qux temperamentorum, atque habituum ratipnem conftantiffime
fequuntur. Si termini adhibeantur, qui res minime intelligibiles DESIGNANT, ut
infinitas, xternitas, preatio, annichilatio Earumque progrefftbus. Tertio quoque intelligitur, quod, ex duabus
propositionibus una esse potest altera probabilior; unaque altera verifimiiior.
Primi generis eft hæc: Cupcrniei hypotbefis eji fyjiemate Tyconis probabilior.
Alterius generis eft fequens: Redi opinio eji vero fwiilior, quam illa Le•wenoekH.
Quibus ita i:itelle£lis, priufquam invenienda: veritatis regulas in madium
proponam, opera pretium duco quædam de ipfa veritatis nota, five criterio
adumbrare. De veritatis cujufque generis nota. Veritatis nota ab aliis in V.
Tolis fenfibus, ab aliis in fola mente, ab aliifque denique in utrifque
ponitur. Cartesius. vero in rerum evidentia. Ex quo fit, quod Cartesio est
certum quicquid eft evidens. Contraque omne evidens eft quoque certum.
Quapropter evidentia certitudinem, et hæc illam efficit. At fi Cartefius
interrogetur, eique dicatur. Quicunque judicat, ac De veritatum ortu, ac
ratiocinatur, putat fe clare, atque evidentiflime percipere, ac judicare, quis
itaque evidentiam ipfam tutam reddit: quis meam, quis aliorum evidentiam in
tuto ponit, cum ipfa fenfibus, ac cujufque lumini fit proportionalis.
Itemque,ii evidentia omnia certitudinum genera tuta redderet, primo ipfa non
deberet habere gradus; at evidenti phyfic® pr*ftat mathematica, physica autem
morali prævalet. Præterea fi evidentia exifteret, nufquam efle deberent in
collifione du* evidentiæ. At fuperfleies taftui convexa eft oculo plana: quod
eft fal vifui eft: faccharum palato. Ipfeque Jacob erat Efau taftui, Jacob
autem Jfaaci auditui. Quid denique multa? Quilibet fenfus cum fe ipfo confligatur.
Qui pi&uram adfpicit, videt in ea antra, fluvios, urbium rudera, pontes,
præliaque magis minufve diftantia, attamen eadem et plana tela omnia limitat,
ac definit. His omnibus addi
poteft. Quod corporum exiftentia ex fenfibus habetur. At hi omnes jam
demonftrati funt fallaciflimi. Ipfa itaque corporum exiftentia videtur- e fle
incerta. Earumqne progrejjibus Secundo ft daretur certitudo, ea eflet omnium
temporum, ac locorum.Verum ipfa eft relata, haud abfolura. Si ipfa exifteret
faltem uni eidemque homini videri poflct eadem. At noftra fenfuum conftitutio,
mutabilitas, atque ipfum mentis lumen mutantur perpetuo. Nequit itaque efle
eadem. Denique fi evidentia certitudinis eflet nota, ea efle deberet veritas
primitiva, quaz .mihi deberet oftendere secundariam; verum Cartefius dubitando
ad evidentiam pervenit. Dubium itaque
potius, quam evidentia eft certitudinis cujufque generis nota. Hinc Ariftoteles
primo metaphyficorum libro fcripfit nos dubitatione veritates pofle confequi.
Dubitationes enim funt veluti quidam nodi, quos ft quis non videat, (cientia:
five veritatis non eft capax. At hoc pofito nonne eflet perabfurdum ex dubio
fcientiam prodire. Ex quibus facillime eruitur, quam inconfiderate nomen
doftiflimi, et fapientiflimi, non dicam GALILEI (si veda), Leibnitzio, Newtono,
fed cuilibet alteri tribuatur. Quis enim omnia (civit, aut fcire ppteft? De veritatum
ortu. Sed ex huc ufque expofitis, nemo velim deducat, non dari cujufcunque
generis veritates. Nam etfi veritas abfoluta nobis defit, non autem relata, qua
prope infinita fcimus. Revera qui poterit dubitare, de tot corporum, quibus
undique premor, exiftentia ? Nihil refert, quod materiæ natura, vires, energia,
et combinationes me lateant, cum ad horum omnium exiftentiam comprobandam mihi
fufficiant folas mei animi interiores commotiones. Exiftit ergo certitudo
phyfica ITEMQVE CVM HOMINES INTER SE CONVENERINT SIGNIS 4, 10, ioo. illas
indicere quantitates, in quibus numerus tinus, quatuor, decies, et centies
repetitur, quis me poterit reddere dubium, centum eflfe decuplo majorem numero
decem Poftremo antequam ego Romam ivifiTem, hilari animo de ejus rebus
peregrinis loqui audiebam. Quum viferera, eandem inveni, ut millies et
audiveram, et legeram Quæro 11 id dpfum mihi dicatur de .Mediolano, de Florentia,
de Bononia, deque Veneriis, eccur narranti non credam ? Itemque hiftoricis
antiquis de Babiloniis, Hetrufcis, Samnitibus, E arum que prorejjtbus
Tarentinis, Gallis poft tot fecula jam elapfa tam multa narrantibus fidem
habebo? Præterea tot recentiflimis hiftoricis afferentibus effe antipodas,
Indos, tam orientales, quam occidentales, aliofue non credam? At hæc denegare,
infani eft. Exiftit itaque evidentia, quacum veritatum cujufcunque generis
certitudo facillime nobis innotefcit. c a p. m. De veritatis natura, ejufque
divistone. Omnis propofitio ex fe confiderata, V^/ vel efl vera, vel falfa. Ad
nos autem relata vel eft nerta, vel incerta. Etenim nos concipere poffumus
majofem, vel minorem relationum numerum inter duas ideas, quæ eafdem ligant. At
fub primo afpeflu nullius effet utilitatis: juvat itaque veritates speculari
fecundum noftras cognitiones. Hinc veritas fuperius definita fuit: quædam
noftrorum judiciorum congruentia cum rebus, vel cum earundem relationibus. Quod
fi veritas est nostrorum judiciorum cum objectis exterioribus conformitas, V De
veritatum ortu, tas, ipsa igitur eft dependens. Nam ubi defunt fenfationes,
deefle quoque debent cogitationes; atque ubi deficiunt cogitationes deficere
etiam debent veritates Logic*. Contra veritates ætern* in rerum relatione
conftabilit Dei voluntate, qux natura fua immutabilis, etiam noftris
cogitationibus omnino deftruftis, exiftunt. Ulterius idearum obje&um
dupliciter menti noftræ eft conforme, vel interius, vel exterius.
Namobje&um, ad quod cogitamus; vel ex noftra ipfa cogitatio; vel
exiftentiam realem habet. Prima veritas dicitur 'interior, altera exterior. Ex quo
fequitur, quod omnis veritas exterior fit quoque interior. At non contra. In veritatum porro inveftigatione, vel
a principiis eas deducimns; vel ab eorundem conclufionibus. Primo modo ad
veritates pervenimus intuitionc; alio modo vero ratiocinatione. Ex quo fit,
quod duo veritatum genera habeamus. Primum eft veritatum objettivarum, five
intuitivarum. Altera vero abJhaSta, et difcurfiva y qu* in idearum connexione
confiftit. Ex quo facile deduco, omnes fcientis eundem certitudinis gradum
habere polfe, nam quot quot fcientiaj, artefque dantur, uniEcrUmquc
progrejjtbuiUnlvefa; logicas veritates continent adeoque evidentias capaces.
Hinc ethica, metaphysica, Politica, aliasque demonftrari quoque poflimt. Reapfe
^Ethicas auSor quinque libris comprehenfas. impietatem fuam ex falfis
priilcipiis oftendit. Identidem fecit Hobbesius; denique Wolfius univerfa. ejus
perquam prolixa opera etiam methodo mathematica confcripfit. Itemque in hac
tanta rerum varietate, fervatur quidam ordo, qui Dei voluntati eft omnino
conformis; hujufmodi veritas dicitur metaphyfica, Qua; fane veritas est prorfus
extrinfeca, nullimode dependens a noflris cogitationibus, ideoque eft abfoluta,
atque asterna. Poftremo veritas moralis aliorum fidei innititur, nempe ipsa
est, fpiritus noftri perfuasio narrantium auftoritate conifabilita. Ex his, quæ
ha&enus summa cum brevitate expofui, apertiflime eruitur, quod veritas fit
tanquam totum quod ex omnium relationum complexione deducitur, quas funt inter
ideas. Ex his quoque intelligitur, quod fi omnes idearum connexiones, vel
contradi&iones nobis innotefeaut, tunc habebimus veritatis certitudinem. At
fi {"dummodo totius aliquam partem agnofcamus, non e rit veritas, fed
probabilitas. Qua: ita delibatis, reliqua profequamur. De certitudine tam
intuitiva, quam demonslrativa, probabili, 0 nc ’P'° met h°dus eft via,five
ordo, quo vel incognita invenimus; vel inventa aliis communicamus. Quibus in re
vel a partibus ad totum; vel ab hoc ad illas proceditur. Si primum, methodus
dicitur analytica, fi alterum fyn4 et hic a. Primus modus ex rebus manifeftis,
et fimplicibus procedit ab obfcuras, compofitas, et IMPLICITAS. Contra alter:
ut ia corporis humani anatome, fi omnium primo difquiram univerfa fluida,
deinde folida, ex quibus poftremo deducam, corporis humani ftructuram ex
fluidis, ac solidis conflari, perquam ordinate dispositis. Quod fi hæc vellem
aliis enucleare, principio dicam corpus humanum ex fluidis. Earumque
progrejjibus. dis, Sc folidis conflare, tum fingula exponam. Ex quibus fane
intelligitur, quod primus modus pro re invenienda, alter pro eadem explicanda
infervit. His ita expolitis ad propofitum accedamus. Primo certitudo phyfica
eft quædam noftri judicii qualitas, quæ forti invi£laque relatione nollrum
fpiritum neceflario unit cum propofitione, quam nos affirmare, vel negare
volumus. Hujufmodi certitudo fentitur tam in omnium corporum exiftentia, quam
in eorum fenfationibus, late, fufeque in prima leflione pertra£latis. Ex quo
primo fequitur, hanc certitudinem fequi debere nollrorum fenfuum rationem,
obje&orumque prelftones. Secundo fequitur, quod fi fenfuum organa ftnt
vitiofa,vel non fint in debita diliantia, obje&a non poffunt videri clare-dilfin£fa,
ut in myopis, Sc presbytis. Tertio fequitur, quod fi unus fenfus non fufficiat,
necelfe elf, ut adhibeatur alter. Sic fi vifus non diftinguat, utrum mafla
aliqua fit necne metallica, adhibetur, etiam taffus. Quarto requiritur, ut
medium, per quod lux tranfit, fit omnino fimplex, i en LefDe veritatum ortu, en
ratio, cur remus in aqua videatur fra&us. Quinto requiritur quidam lucis
gradus pro vifione fufficiens, alias objeftum non videtur, uti revera est.
Sexto convenit obje£la afpicere fecundum omnes eorundem fitus. Poftremo
requiruntur perferiora inftrumenta, quæ oculis funt maximo adjumento. Hæc de
certitudine phyfica, f«tpiitur demonftrativa. q’ a p. v. De certitudine
dcryonjtrativa. Ri nc ipi° demonftratio nihil aliud JL eft,quam videre, num
prædicatum conveniat, necne, fubje£lo.Qu2 relatio dum a definitionibus,
poftulatis, atque ex axiomatibus deducitur, vocatur direBa. Si autem aliqua
contradi6lio, sive absurdum ostendatur ex proposito principio oriri, vocatur
demonftratio indire&a, Primi generis funt pene omnes Euclidis
propofitiones. Secundi vero funt fexta, feptima, alixque qpamplurim ejufdem
roris. Earumque progrejjibut. Ttemque veritas vel ex efie£libus, vel cx caufis
eruitur. Primo cafu dicitur a pofleriori, in fecundo a priori. Ad primum genus
referuntur omnes illas veritates, quas ex obfervationibus, atque experimentis
detegimus. Sic Redus deduxit, omnia infefta oriri ex ovis. Ad aliud porro genus
referuntur omnes philosophorum hypothefes. De omnibus fingillatim dicemus. Qui
fibi proponit perpendere, num aliquod prædicatum fubjetlo conveniat. Ex integra
definitione, vel ex ejus partibus propofitiones accipiat pro fyllogifmorum
catena conficienda. Si circa idem obje£fum habentur axiomata, vel poftuiata,
vel alis propofitiones jam demonstratæ, iifdem uti poteftin minoribus
fyllogifmorum propositionibus. Data propositione, quæ sibi cum aliis est medius
terminus communis, revocatur ut fiat major in alio syllogismo. Cum his
præmissis uniatur alia ex antecedentibus jam nota. Tandem quotquot funt
propofitiones ita inter se conne&antur, donec ad syllogifmum perveniatur,
ut ejus conclusio sit ipsa propositio, quam demonfirandam fufcepimus. Hinc fi
quis, I 2 ostendcre v-llet illud ipfum, quod habet Horatius in fatyris: nemo
fua forte contentus; hunc ia modum procedat. Def.i. Felicitas eft ille hominis
cujufque ftatus, quo omni ex parte eft contentus, cuique ftatui nihil addi, vel
detrahi. poteft. fuffiEatutnque progrcjpbusl fufficientem alicujus effe quz in
eo locum habent. Prsterea notandum, 'quod fi duo effectus quandoque fuerint
conjungi, fequi non debet eofdem femper effe fimul. Ex g. apparet Cometa id
nostro horinzonte, ergo ærumnæ in familiis, in imperiis ? aliquis literatus eft
facinofofus, literæ igi* tut funt Civitati detrimento? Si vero attributum rei
adhæreat, tunc concludendum, quod res ita fit. Sic EVROPÆVS non est fua iotte
contentus: de fua forte querantur etiam Africanus, Asiaticus, atque Americanus.
Nullus itaque homo vitam ducit omni ex parte beatam i Id ipfum dicendum eft, fi
propofitio sit hypothetica, dummodo ex repetitis experimentis proveniat 4 Ita
homo, qui a temperamento cholerico dominatur, ad crudelitatem natura rapitur.
Sed an vere fit crudelis, observanda est ejus vita, aliter erratur; etenim
inftitutio naturam pote ft j fcttruthcjue progrefftonibus i 1 jj tert immutare:
ex quo intelligitur, quod propofitionum univerfalitas a repetitis experimentis,
atque obfervationibus derivatur At quo pa£ta> a caufarum cognitione ad
effe&us ratiocinandum sit, videamus. Primo necefle eft, ttt omnis efFe£lus
fit caufaj proportionalis, fcilicet fi duplex, vel triplex fit effeftus, dupla,
vel tripla efle quoque debet caufa. Denique erir phyfica, vel moralis, fi
effe&us fuetit hajufmodi. His propofitis, fit igitur. Defii.Deus eft em perfetfijfimum
Earumque progrejjtbm. tatorum eft capax. Sane quidam Aftronomi afleruerunt,
eandem efle habitatam. Prima eifc intrinseca, secunda extrinseca. Denique
verifimilitudo eft illa, quæ reperitur infra certitudinis dimidium: Itemque
illa probabilitas, qux certitudi, dinis dimidio ajquivalet, dicitur dubitatio.
Primi generis eft hæc: Petrus mihi dixit, me vicifle centum fcuta, fi hoc eft
verum illi fpondeo. En
verisimilitudo, fin autem spondeo Dubia mihi videtur notitia, nam ex utroque
latere æquantur. Sed quidnam requiritur, ut refle probabilitates fupputentur.
Primo neceffe eft videre, num quod quæritur fit poflibile. Secundo adcurate
fupputandi funt omnes refiftentiaj, vel difficultatis gradus. Ex.g. morietur ne
Sinenfium Imperator in novilunio Aprilis hujus anni currentis? ut hoc problema
rite refolvatur, fupputandus eft numerus civium: Imperatoris ætas, ejufque
vita, deinde fi dari poffit aliquis æris influxus perniciofus: medicorum
peritia: aliaque. Tertio notandum, quod fi in quæfito ex duabus fyllogifmi
præmiffis, una fit certa, altera vero probabilis, conclusio quoque esse debet
probabilis. Sia autem ambæ præmiflæ fint probabiles, conclusio continebit
probabilitatem probabilitatis. Sic unus tertis oculatus habet dimidium
probabilitatis; qui illum audivit, et ex eo narrat, habet dimidium primi;
fcillcet dimidium dimidii, hoc eft quartam probabilitatis partem. Denique fi
illud ipfum narrat tertius, hic habebit dimidium dimidii, nempe ortavum
probabilitatis gradum. Et fic deinceps, At ex omnibus probabilitatis generibus,
quæ mihi maxime cordi funt, iunt historia, 8c æconomica, in quibus vellem ut
confenefcereot juvenes, nam prima eft objertum innumerabilium domi, militiceque
fartorum. Quæque nos reddit yeluti præsentes omnibus temporibus, a q J ocis. Hoc
uno facilique medio quin pniverfam telluris fuperficiem cum tot vita?
difcriminibus, ac fumptibus peragremus, difcimus quicquid in ea agitur ab
abfentibus. Hinc ex ea cognofcimus Imperiorum origines, formulas, leges, vires,
artes, scientias, vicisiitudines, In æconomia autem eft major fupputandi
utilitas, etenim ex hac fupputalione habei.ur navium numerus, terrarum m flatui
nocet ? determinanda eft relationis quantitas. Revocato ad hæc pauca universo ratiocinii mystefio,
sequentes regulas – REGULA – cf. H. P. Grice, “The rules of the conversational
games: how to make the moves” -- Dialectici proponunt, ut ejufmodi quæsita
enodentur. Reg. In cujufque quaditi fdlutiorte omnium primo determinanda eft
vocabulorum vis, maximeque fi ea fmt IMPLICITA. Statim legis hujus neceflltas
intelligitur, cujus negligentia etiam apud scriptores magni nominis
contentiones perpetuas produxit. Definiantur luxus, libertas, inanitas,
prafcientia divina, et eradicatæ erunt decertationes. Vocibus definitis, animadvertatur. Regula Semel
determinata vocabolorum vi, non amplius convenit ab ea recedere. Quamplurimi
hac in re aberrarunt. Vox Deus apud ipsos dell’ORTO, Sc Manichteos non fonat
idem. Apud Hobbesium natura jura non semper significant eandem rem. Quid multa.
Cartesius ipse materiam fubltilem varie accepit# Videatur praterea. Reg. Si quzfitum fit
refolationis capax. Quo expenfo, exquirendum K 3 dein 't Tt > v m De
veritatum ortu, deinceps est, num totum, vel ex parte, limites capacitatis
humanas, vel tua; trafcendat. Si
primum deferatur inta&um, ut in intelligenda unione mentis cum corpore. Sin alterum te ipfum concute,
vel alios te praftantiores, ac seniores interroga. Quam regulam fi fciviflent
tot Jiterati viri, non confenuiflent in tot tantifque quadliunculis
inexplicabilibus, atque inutilibus, neque poli tot foculorum focula etiamnum eas
ad manus haberent. Uti eft malorum origo, humani foetus conceptio, vis elaftica, attraflio, et
cetera! Quid fi quicftio fuerit folubilis. Reg. Videndum, num qurefitum fit
fimplex, vel compofitum. Si compofitum dividendum eft in omnia e/us membra
poflibilia. Ex quibus, inutilibus membris refecatis, alia fic extrincentur, ut
unum membrum alteri præluceat, ac contineat. Sic in hoc quæfito: luxus eftne
flatui utilis? videndum eft. 1. Si flatus, fit Monarchicus, vel Republicanus;
deinde num ex propriis, vel exteris artificibus, ac materiis. Tertio si ex
propriis, videndum ultimo est num artes primis. Enrumque progr cjjibus. qu?e
raro habetur, probabilitas querenda eft. At non evulgari debet nifi tanquam
veritas probabilis. In quo cavendum quoque eft, ne hypothefes ut thefes
habeantur. Eft ha&enus incertum, num terra, vel fol moveatur. Ergo ad
probabilitates recurrendum. Itemq. ex variis veritatibus probabilibus quæratur
probabilior, ut Redi hypothefis eft probabilior animalculis fpermaticis
Leewenhoeckii. Reg. Obfervandum porro eft quxfiti genus, nam (i fit de rebus
phyficis, fenfus, exprimenta, atque observationes funt interroganda. Si de
rebus» abrtra&is, rationem interroga; fi denique de rebus fa&is, confule
Codices faftorum. Reg. In confulendis autem codicibus,
funditus fciri debet lingua, in qua Codices fuere confcripti. Ac cavendum a
tradu&ionibus vulgaribus, aut Lexicis communibus. Ad hoc rite, re£leque
intelligendum fufficiet legere Ciceronis orationes a DOLCE (si veda) IN LINGUAM
ITALICAM CONVERSAS: Quininno LUCREZIO (si veda), et VIRGILIO (si veda)
verGones. Reg. Ad intimiora fcriptoris fenfe 1^4 Lett. IK De verttatuni ortu,
fenla penetranda, præter linguam, fac etiam fcias fcriptoris patriam ætatem,
fæculum adfe&us > ftudia > exercitationes t Quorfum ha;c omnia. Nam
ea mirum quantum influere poflunt ad au6loris intelligentiam .Quicunque enim
fcribit his viribus occultis non modo movetur, fed etiam concutitur. Ergo horum
omnium cognitio maximopere prodeft. Id libentiflime ostendetem ex multis
kriptorum omnium sententiis, atque opinionibus, si in te tam clara teftibus
indigetem Reg. Non unum aliquod Scriptoris opus diligentiffime versandum. est,
sed summa indufiria legenda iunt omnia ejusdem scriptoris opera. Quod si de
ejus fertterttia nihil confiet: Tunc vel totum 'tei ice s vel dubita. En
potiflima ratio, cut innumeri ltt judicando errent Id ex eo maxime provenit
quod Vel integrum librum non degunt, vel non intelligent. At quid si scriptor
de aliorum opinionibus j vel fa 4 ftis agat? Eimmque progrcjjibus. Reg. Tunc
quære primo an scire potuerit. An fuerit perspicax. An in judicando adcufatus. An in referendo
sincerus. In quibus omnibus vel eorum uni si defecerit, fidem ei denega; fin
minus, eundem habe aptum, ac VERACEM. r* Duo Vtllani, mundi hiftoriam
scripserunt. Sed sciveruntne quæ in eorum funt libris ? maximis fcatent
profeflo erroribus. At non fic GUICCIARDINI. Quid vero si quamplurimi ex uno historico acceperunt?
Quantum ipfi valenf? Reg. Si quamplures ex uno historico sua traxerunt, Omnes simul va- • 1.
lSnt, quantum ille unus, ex quo transcripta fuerunt omnia. Quod fi clare
confiet, fcriptorem fuifle faflt fcienthTi. mum, in cognofcendo p^jfpicacem,
injudicando adcuratum, ad denique irt referendo fincerum, adtribenda eft illis
fides. Reg. Turtc obferva an liber fit fpurius vel genuinus; an interpolatus,
vel mutilatus. Si fpurius, eum reiice: fi genuinus eum tene. Si interpolatus,
additiones nota; fi denique mutilatus, lacunas agnofce, et diftingue, poftea fi
poter is etiam reftitue. LcR.
Di verir arum nrfu, Primo liber eft fpurius,five a Reg. Oportet perpendere, num
Deus loquutus fuerit: Cui: Quo loco: Quando: Quid: Si ccnftet reapfe locutum
efle, videndum infuper est, num quæ dixerit ad nos incorrupte ac genuina, vel
interpolata, aut mutilata pervenerint. Itemque fi verba pofiint varie
interpretari, tunc nemo fut> arbitratu temere ea intelligat, fed unius
ecclefiæ Catholicæ judicio standum erit. Hujufmodi est methodus analytica, quæ
non infervit modo pro veritate LcH. De veritatum ortu, tate invenienda, fed
etiam juvat pro cujufque feriptoris fcientia definienda. Internofeimns enim ex regulis
propofitis, qui scriptores sint ferviles, fuperficiales, duri, difficiles; qui
profundi, nobiles, clari, folidi, philosophi. Itemque inter nofeimus qui
habendi fint optimi fpi ritus, peregrini. Sed ex quo tanta feribendi varietas?
Refpondetur, Hæc varietas partim repetenda eft ex corpore, partim ex fpiritu
humano. Secundo attentio non est eadem in omnibus, neque fenfuum difpofitio eft
omnino conformis, Denicjue hominum inftitutio, habitus, exercitia, cultus in
infinitum variant. En feribendi varietas. His omnibus accedunt sensuum usus,
meditandi adfiduitas, librorum Icilio, literatorum virorum frequentia, itinera,
experimenta, obfervatipnes, Itemque ad hog conferunt Geometriæ, atque
arithmeticæ ftudia, quorum primum reddit faciliores idearum combinationes,
aliud nos adfuefeit ad eafdein inter se colligandas. §.ido. Ex his omnibus
oriuntur artium, fcientiarumque progreffus. Ex his ratiocinandi robur,
CLARITAS, atque ORDO. Ex E arumque progrejftbusl his denique politica arcana
referantur, fuperditionis myderia evanefcunt, ignorantiæ velum vel retrahitur,
vel in minimas partes fcinditur. Reliquum ed, ut de modo, quo veritas inventa aliis com-i»
municatur, fedulo pertrahemus, De regulis, quibus explicanda ejl veritas. LcH.
IV. De veritatum ortu, Reg. Magister {^caveat. ne sophismata vel paradoxa vel
IMPLICATURA sive DISMIMPLICATURA, wl do£lrinas novas auditoribus proponat, nam
juvenes hifce femel imbuti, facile in turpiflimum fcepticifmum incidunt. Quin
imo. ltudiofe doceat, qui libri fint fcepticQrum, ut eofdem vitent. Reg. Modum
doceat, quo legeqdi funt libri, ut mentem au£loris, et fpifitum confequi
poflint. Qua in re, juvat le£lio alicujus libri, atque a magiliro notentur
omnia ? ut difcipuli proficiant, Reg, Doceat, quod pro aliqua hitfaria legenda,
addifcantur prius chronolqgia, ac Geographia; itemqu® asthica, ac politica,
alias nihil proficient Reg. In fiiftoria literaria, cure? -ut juventus prima
veluti rationis (lamina in omqihus artibus, ac scientiis agnofcar: faciat
deinde notare earum progrefliones, atque quibus ex caufis a maximo ad minimum
devenere gradum, Reg. Præterea homo eft natura i nertiflimus, ergo quantum ipfe
ell, totum edftcationi debet' adeoque magilter eum fedulo inftituat, maximeque
io praceptis yit* civilis, nam fi cum non Earumque p rogrejfibus non poterit
efficere philosophum, faciat faltem bonum, et pium civem Nam fine fpiritu
patriotico homines fe mutuo deftruant, et fine religionis idea, erunt Deo
ingrati, aliis vero hominibus pemiciofi. Reg. Sed fupra omnia ju-ventutem ad
laborem horetur, et adfuefcat, atque erga alios reddat benevolam; nam hxc duo
funt focietatis veluti fulcra, qua: corpus civile fullentant. Reg. Itemque
exciretur in juvenibus amor erga genitores, qui habendi funt totidem Dii
terreftres;ex quo amor, et obedientia in illos oriri debent. Reg. Infuper qui
alios docet, excipiat animo grato juvenes, eof que curet reddere meliores, tam
in eorum parte phyfica, quam morali. Quo
aoftrema cujufque generis fit, fo!a multiplicatione, .ac divifione, scilicet
sola additione, æ fiibtraftione conficiatur. Sequitur omnes arithmetica; regulas ad falam
additionem, ac subtractionem reduci. Dialectica
tantopere a Græcis exculta, deinde a noftris poli literarum inftaurarionem, ad
inftruendum Intelle£hira, ut omni loco, ac tempore veritatem inveniat, tendit.
Hinc finis ejus eft mentem perficere, errores vitare, veritatefque fr"
Legantur tabula numerica Proflafnrafts, .ub Erwert odita, quibu% Rcduftione ad
Arithmeticam. que detegere. Sed qu est cogitandi materia, quxque ipfius mentis vis ?
atque energia. Respondetur cogitandi materiam a fenfuum ufu provenire, qui
corporum imprefliones excipiendo mentem tion modo quafi excitant, ac acuunt,
fed quoque eandem imbuunt tot tantifque rerum ideis, ut quadam nobis incognita
vi eas inter Te modo conjungens, modoque feparans ex veritatibus notis ad
incognitas deveniat. En itaque totum fcientiarum abditiflimum mytterium
manifeftatum: En fcieqdi arcana referata : en denique ars illa pene divini, qua
intelle&us fupra res humanas fe erigens ad peleftia perfcrutanda adfpirat,
Quibus 1 ex omnibus profero intelligitur fenfationes efle cogitandi objeflum,
ac veluti materiam : mentis vero artificium in judicando, ac ratiocinando effe
pofitum. Sed quid judicium, quidve ratiocinium. Judicium eft quidam mentis
arftus bus multiplicatio, ac divifto additione, 0 fubtra&atione
abfolvuntur. • iy6ftus, quo ideas inter se ieparamus, vel eaidem conjungimus:
fic dicimus: Petrus e/i dottus: Petrus non efl ovis. In primo judicio ne6litur
do6lrina cum Petro; in alio vero disjungitur ovis proprietas a Petro. Verum
dari poliunt certitudines tam intuitivæ, quani demonllrativæ. Ia intuitiv^s
liquet judicia non efl'e, nili itidem, vel additiones, vel fubtrafliones, hoc
eft judicia affirmativa ad additionem, negativa autem ad fubtra&ionem
relerri. Quo autem referuntur ratiocinia, ac tot vulgarissimi argumentandi
modi. Ex di£lis in toto Logicæ curfu, omnes mentis ratiocinationes fatis
confiat elfe duarum idearum relationes cum tertia: nam fi eontigprit, ut quod
inter duas ideas relatio non mihi innotefeat, tunc «afdem cum alia confero. Cui tertiæ vel ambæ conveniant, vel minime. In primo
cafu ratiocinium dicitur affirmativum, in fecundo negativum. Sic fi quæratur;
folis moles eline ignea. Itemque plantæ funt animatæ ? neque in primo, neque in
fecundo quæfito video quid mihi affirmandus vel negandum sit inter ideas ea- M
rundem relationes, hinc ad refolvenduni primum quæfitum.tertiam ideam veluti in
auxilium fumam, ac dic^n: quidquid u, rit, ejt igneum fol autem urit, efl
igitur igneus. In quo syllogifmo, tertia idea, oim qua duas alias comparavi,
eft quicquid curit. ut qua; eidem conveniunt, inter fe quoque conveniunt.
Itaque eidem urere conveniat tam natura ignis, quam folis. Ex quo poftremo
conclufum eft, folem efle igneum. In fecundo quasfito hanc aliam ideam in
auxilium fumam: qua ex fe moventur, funt animata. Plantæ autem ex fe non moventur,
ergo non funt animata. In hoc Tyllogifmo tertia idea eft cx fe movere, cui
convenit efle animatum, at quia eidem non convenit plantarum natura, proindeque
conclufum eft plantas non efle animatas. Ex hifce duobus exemplis,«fit
manifeftum ratiocinium efle illud ipfum, quod in Arithmetica regula aurea, five
trium, hoc eft ex datis tribus terminis vel veritatibus notis, quaritur quarta
incognita. Sic in primo
fyllogifmo veritates notas, funt. l.Quicquid urit. Iqnis. Sol urit. Terminus
incognitus fol efi igneus. In alio exemplo. Quod ex se movetur est animatum.
Planta non se moventur. Ergo planta; non funt ani- M nu- ruat efl quarta
veritas incognita, Con itat itaque ratiocinium efle quoque regulam nurnericam,
Quantum ad cætgas argumeptandi rationes apud vulgares cognitas, ipfe pon iunt,
pifi diyerfe unius fyllpgifmi modificationes, p. Ex quo fit, ut illud ipfum
Dialectico contingat in quxfitorum folutionibus, quod arithmeticis in fuis
problematibus refol vendis f Hi enim quartum terminum proportionalem incognitum
poft tres datos nofos, femper inveniunt vel multiplicando fecundum cum teifio,
vel primum cum fecundo, eorurpque productum yel dividunt per primum, vel per
tertium, Sic quoque Dialeftjci medium terminum varie combipando cum fuis
extremis modo directo, modoque reciproco omnes fyllogifmorum formas conficiunt,
Jtemque f; quis ratiocinii naturam per-, pendat, inyenif eandem ad ipfum
judicium referri, etenim in fyllogiljno aliud pop fit, quam duas yoces prius ad
tertiam, deinde inter fe referre, Sicuti igitur quotquot dantur numericæ
regula: omnes ad additionem atque fubrraftionem revocantur, ita etiam omnes
regula: Logica ad unum judicium vel pegativum, vel affir s R.cduftione ad
Arithmeticam mativum, hoc eft ad ipfam etiam additionem, vel fubtra&ionem
referuntur. Hæc cum ita fint, quifque intelligit primo, quod ficuti
Diale&icus operetur in ideis, ac fenfationibus, fic arithmeticus in cyphris
numericis: Intelligitur, quod utriufque finis fit idem hoc eft veritatis
inventio Etiam intelligitur, tot regulas dari in una, quot in altera. Denique
patet mentis operationem in utraque efle eamdem 4 His demonftratis, nonne
fequitur inter has difciplinas dari maximam analogiam. Nonne Logicaj studiofo
esse perquam neceflariam numericam fupputationem? nonne denique fequitur mentem
hac exfufcitari, acui nobilitari. Quibus ita potius inchoabis', qnam
explanatis, patet numericam fupputandi rationem omnibus efle necessariam,
maximeque Diale&icis. At fi jethicas, fi oeconomicus, fi politicus fint
ejusdem expertes, habendi funt bardi, et tanquam ftipites ac trunci. Quis enim
fe ipfum regere ac vincere potuerit nifi prius proprias vires tam phyficas,
quam morales fupputaverit ? quo patfto aliquis fe cohibere prafumat, nifi antea
et temperamenti, Sc propenfionum, &affeftuum impetum definierit ? Quomodo
denique socialis, nifi propria et aliena jura, ni fiqqe propria aliena officia
ante pra>calluerit. Quid tandem dices in æconomia civili, ac politica ars
numerica cum noftro tempore paucis rrtagiftris docenda, pauciflijnis vefo difcipulis
addifcenda eadem deferatur Q infantuli natura: humanæ afelli! Poffuntne refle profpereque procedere a:que pes
domeflicæ, ac civiles fine ulla numerica fupputatione. Quomodo enim fciremus
hominum multitudinem, qui hunp regnum incolunt: quomodo confummatioriis
quantitatem frugum copiam, animalium fruflum, commercii extenfionem, indituri»
produ^qm ? fine hac fciremps navium numerum, regni fijperficiem, terrarum
omnium produttjones, veftigalium yim, hominum cujufque coetus lahores, vita:
commoda, fortunas, bona, atates, morbos periodicos, curationes. Penique fine
ulla fppputandi arte quisnam scire posset, hujus regni prafeqtem, ac pme? yitum
ft^tum, et quodammodo etiam futqrum pracogpofpere. Quid multa. Non RcduEltorte
dii Arithndeiicdrti. i8f fltf prafens totius Europæ floritas 1 uni computanJi
fpiritui tribuenda est. Ex di£lis igkur hanc in apertiflimam coriclufionem
venio i quod fi qui impetent, re£le facillimeque computant, ejus regimen est
philosophicum j artes, scientiæque florere debent, atque flatus omni e parte
effe debet fecufus ac potens Contraque fi ubiqud mendici, otiosi, ignavi,
fiagitiofi: fi ex flatii extrahantur materiæ primæ atque immittantur aliorum
induflria: i si ars pecuaria negligatus ac commefcium Vilefcat: fi aftifices,
agriculæ, ac laboriofi lngentiffima ve£ligaliuni pondefe dpprimantur: fi
ftupidi } Vafri, atque iftfciedtiffimi fublimantuf, deprifnentufque holi efll
et induflriofi: si denique rtlufici f hislriones 1 mimi, balatrones ifiagnifice
excipiantur, literatique autem viri faceflt, dicendunl in illo flatu artem
computandi prorfus ignoraii Inoumbac itaque huic fcrentiæ quilibet logicæ
studiofus 1 iri fuifque operationibus confenefcac Marti visum est, quantum æque
paupefibi» prodefl i locupletibus arqufe i sfque negle£U viris 1 pueris,
fenibufque nocebit. Dialectica, qu# efl afS perficienda rationis humans, a
Grsecis orta Zenoni Eleati VELIA (si veda) Parmenidis auditofi i et adoptione
filio tribuitur, cujus progfefiio f ac fata tum apud antiquos tum apud
recemiftiirtos ufque ad Abbatem Angelorium Patrem Coeleftirtum brevirtime
d£fignatitur. Itemque itir præcipuis fcripfofibus, cjuid itl iis ^culpatur,
quidve laudatur fine partiurti lludio exponitur, De origine aperntiattunt
R.ationii humana, ejuj que maximis progrejpbus, Ex omnibus animantium generibus
tiobis huc ufque. cognitis 1 unus M 4 Jio- homo vi j. 12 rationis cæteris
prsfcftat quia hujus facultatis beneficio se ipsum, et peiie, infinita alia
objefta exteriora cognofcit. Sed quo pa£to; nifi corporum exteriorum diutinis
experimentis in fuos fenfus ? Quid fenfus, iiift qu&dam organa,- quæ nos
videmus, tangimus, ac dividimus. Verum quæ ita funt, corporea funt . Homo
igitur corpore confiat, Itemqæ quilibet homo sua natura ducitur ad veritatis
investigandæ studium, 3 d bonam comparandum, ad malum declinandum. Infuper
rerum ordinem, pulcritudinem, jufiitiam, honeftatem, liberatemque diligit. His
addite tot divina rerum inventa, tot artes, tot dtsciplinas, quæ omnia nonnifi
ab homine plumbeo materiæ solidæ, atque inertiflitnæ tribui poflunt, Denique
nonne maximum eft animo ipfo animum videre. Quare homo etiam spirito confiat.
Sed qua via is ad veritatem inveniendam contendit, ea tam theoretice, quam
practice Logicæ tironibus enucleabitur. Sensus, qui funt totidem animi
fenfationum fulcra y quibus mens veluti excitatur, concutitur, atque augetur,
re£U difiiogutmtur in exteriores, et in interivres. Primi funt V ©mrri- eo
fortius ac facilius ratiocinatur. Denique quo plures teftes oculati,
veraciores, ac Tagaciores, eo veritatum multitudo augetur. At sapisntiffime
quifque philofophatur, ii fciat, num subjectum, num pradicatum, vel eorundem
relatio eidem iit quarenda. Ad qua; tria revocatis universis philosophandi
mysteriis, curandum primum est, ut vocabula accurate definiantur, neque ab eorum
vi iemel determinata minime recedendam. Curandum secundo est, utrum quafitum iit resolutionis
capax, alias defere. Itemque utrum simplex, vel compositum. Quibus rite
conftitutis: propofitiones omnes ita ordire, ut una alteri colligatur ceu in
catena annuli. Infuper videndum,
utrum quafiti genus fit de rebus phyficis; tunc fenfus atque experimenta
adhibe: ii de rebus abftrattis, rationem interroga. Si denique de rebus factis,
Codices consule. Verum his in confulendis, ausiorum lingua funt callenda, atque
fcienda eft illorum patria, astas, religio, seculum, imperium, fefta, mores,
adfe£lus, exercitiaque. Postremo loco inquirendum est, jnum liber sit spurius
vel genuinus, vel interpolatus, vel mutilates. Quibus undique conquifitis,fi
aliis volueris ea tam viva voce, quam scriptis communicare, dic primo quid sit
facultas tfadenda, ex quo et quando orta, qui fuerunt ejufdem progreflus, qua:
fata quique fcriptores, eamque denique in partes diftin£te propone . Qusb omnia ceu in parva quadam tabula funt tibi
perspicue delineanda. Tum cura, ut omnes rei nodi proponantur, iidemq.
fingillatim in operis progreffu refolvantur. Sed rite procefferis fi voces
definias, fi a rebus fimplicibus ad compofitas procedas, fi pa* radoxa devites
fi auditores ad laborem utilem, atque ad vita: honeftatem inflamtnes, fi
pedantifmura quo undique laboramur, declines. En universa informandæ rationis
ars; en principia, quibus politica arcana formidando velo obdu&a
referantur; en fontes quibus ignorantis tenebrae, ac fuperftitionis tctrificse
lemures cvanefcunt. En denique via, qua in faerum veritatis templum ingredi
quilibet poterit. Verum quid funt tot arte», tot fcientiae? Quid hiftoria
omnigena. Quid ipfk fidei regula a Christo prædicata, a noftrifi que majoribus
nobis propofita $ ni fi totidem merttis humans Computationes. Nam nifi
San&iflimam invenissent, neque ipsi, neque posteris eam colendam
commendassent, Nonne ars computandi in arithmetica contineatur. Quotquot igitur
dantur artes quotquot scientiæ omnes arithmetica sunt regulæ. At jure merito
hoc nomen ufurpat Dialectica; in qua tot regulæ docentur, quot in altera.
Principio univeffae Arithmeticae regulae sunt additio, ac subtractio, nam ad
primam revocatur multiplicatio, ad alteram divisio. Hæc tam de integris, quam
de numeris fractis. Quo ad potentiarum elevationes ipfae non sunt, mfi
multiplicationes; extractiones vero radicum sunt multiplicationes, ac
divisiones simul, hoc est additiones, ac subtrctiones. Quid multa. Nonne ad has
quoque duas revocantur omnes trium numerorum regulæ. Quibus ita perspectis, si
quis Diale&icae prscepta perpenderit, identidem inveniet. Nam veritatis
objectum eft utrique facultati commune. Altera enim operatur in numeris, altera
in ideis. Itemque mens combinat in utraque nempe in illa ideas, in hac vero
cyphras.Rurfus omnis veritas vel est intuitiva, vel ex idearum combinatione
innoiefcit, scilicet vel addas ideas, vel eas inter se separes. Nonne ha; sunt
additio, subtractio, ac regula trium. Uti igitur quartus numerus proportionalis
cum regula aurea invenitur in arithmetica, ita etiam quarta idea in Logica cum
ratiocinatione invenitur. Quisquis igitur Logicam voluerit optime callere, in
Arithmetica; fupputationibus se terat ac consenescat; nam. ea, ut bene
Horatius: Æqua pauperibus prodejl, locupletibus. j . æque: Æque neglefta viris,
Pueris, Sertibufq nocebit. Nome compiuto: Francesco Longano. Longano. Keywords:
dell’uomo naturale, metafisica, logica. Luigi Speranza, “Grice e Longano: esame
fisico dell’uomo” ‘exame fisico’ ‘esame naturale’ “Grice e Longano: la
semiotica” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Losano:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia del
diritto romano – la scuola di Casale Monferrato -- filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Casale Monferrato). Abstract. Grice: “While
I refer to Ryle and Austin as avid students of Greek philosophy – Ancient Greek
philosophy, that is – especially Austin, since, like me, and unlike Ryle, he
had to suffer it to get his double first in greats! – they never wondered why
lawyers in England all are about the English customary law and Roman law – No English
lawyer would have ONE thing to say about Greek law – the reason being that at
Oxford, the Faculty of Law, had a chair for Roman law, but none for Greek law!”
Grice: “The Regius chiar of civil law at Oxford University, also known as the
Oxford chair of Roman law, has a rich and lengthy history, starting with its
establishment by King Henry VIII in 1540. In 1540 Henry VIII establishes the
Regius Professor of Civil Law at the University of Oxford. John Story is
appointed as the fist professor in 1541. The chair continues to be held by a
series of professors who primarily lectured ON ROMAN LAW and related subjects
like the Pandects, the Code, or the ecclesiastical laws of England, as
sipulated in statutes like those of 1549, 1654, and 1576. The eighteenth and
early nineteenth centuries were a period of dcline in the study of ROMAN law at
Oxford,. According to PHILLIMORE, who held the chair from 1809 to 1855, the
subject wasn’t taught for almost a century preceding his tenutre. In 1854, the
Oxford University Act replaces the CIVIL LAW used in the chancellor’s court
with the common law of England and the statue law of the realm. This court,
which had previously held jurisdiction in private law matters involving
scholars and others connected wto the university, had operated accoding to
civil law since as early as 1275. In 1872 ROMAN LAW is RE-INTRODUCED as part of
Oxford’s UNDER-GRADUATE English law degree, the B. A. in JURISPRUDENCE, upon
its establishment. The chair is held by notably figures such as BRYCE
(1870-1893), and GROUDY (1893-1919). ZULUETA holds the chair from 1919 to 1948
contributing to the feld of ROMAN LAW. In 1948 to 1854, JOLOWICZ holds the
chair. His work inclues tracing the historical development of ROMAN LAW from
its beginnings to the age of GIUSTINIANO. Between 1955 and 1970, David DAUBE
becomes the Regius Professor, bringing a new perspective to the field as the
first foreign-born holder since the 17th century. This chronology
highlights the evolution of the Oxford chair of ROMAN LAW from its foundation
to 1968, ecncompassing periods of activity, decline, and resuergence in the
study oand teaching of ROMAN LAW at the university. Filosofo italiano. Casale
Monferrato. Alessandria, Piemonte. Grice: “I
like Lossano; his research overlap with that of H. L. A. Hart, but Losano is
more interested in the philosophy and he is obviously more continental, as he
should, given the prominence of Kelsen in the field!” Si occupa di filosofia del diritto e
informatica giuridica. Si laurea a Torino. Insegna a Milano e Alessandria, e
Torino. Si occupa di storia della filosofia del diritto; teoria generale del
diritto; circolazione mondiale delle idee giuridiche e sociali; filosofia
politica; diritti umani; geopolitica; informatica giuridica; privacy;
e-publishing; edizioni di archivi storici. Pubblica un completo panorama
sull'evoluzione della nozione di sistema nel diritto dalla ROMA antica ad oggi.
Cura carteggi di Jhering ed opere di Jhering e di Kelsen. Curato l'edizione
critica delle corrispondenza di Roesler. Come informatico giuridico, ha
pubblicato un manualedi informatica giuridica e diritto informatico e un
progetto di legge sulla tutela della privacy; Presidente del "Centro di
calcolo automatico” a Milano. Altri saggi: La dottrina pura del diritto,
Einaudi, Torino; La teoria di Marx ed Engels sul diritto e sullo stato.
Materiali per il seminario di filosofia del diritto” (Milano. Anno Accademicom
Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino); “Gius-cibernetica” Macchine
e modelli cibernetici nel diritto, Einaudi, Torino); Libia Materiali sui
rapporti fra ideologia ed economia” (Milano. Anno Accademico Cooperativa
Libraria Università Torinese, Torino); “Lo scopo nel diritto. Einaudi, Torino,
Jhering, Lo scopo nel diritto” (Aragno, Torino, Corso di informatica giuridica,
Cooperativa Milano), Corso di informatica giuridica; L'elaborazione dei dati
non numerici, Unicopli, Milano; Il diritto dell'informatica, Unicopli, Milano
Corso di informatica giuridica; Stato e automazione. Etas Kompass, Babbage: la
macchina analitica. Un secolo di calcolo automatico, Etas Kompass, Milano
Scheutz: La macchina alle differenze. Un secolo di calcolo automatico, Etas
Libri, Milano); Invenzioni francesi del Settecento. Testi originali con 15
tavole dell'epoca, Bottega d'Erasmo, Torino); I grandi sistemi giuridici.
Introduzione ai diritti europei ed extra-europei, Einaudi, Torino, I grandi
sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Einaudi,
Torino, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed
extraeuropei, Laterza, Roma Bari, L'informatica legislativa regionale.
L'esperimento del Consiglio Regionale della Lombardia, Rosenberg e Sellier,
Torino Forma e realtà in Kelsen, Comunità, Milano, Automi arabi. Dal
"Libro sulla conoscenza degli ingegnosi meccanismi" (Maestri,
Milano); Automi d'Oriente. "Ingegnosi meccanismi" arabi del XIII
secolo, Milano Il diritto economico, Unicopli, Milano); L'ammodernamento
giuridico, Unicopli, Milano); Corso di informatica giuridica: Informatica per
le scienze sociali, Einaudi, Torino Il diritto privato dell'informatica,
Einaudi, Torino, Scritto con la luce. Il disco compatto e la nuova editoria
elettronica, Unicopli, Milano, L'informatica e l'analisi delle procedure
giuridiche, Unicopli, Milano, Diritto e CD-ROM. Esperienze italiane, Giuffrè,
Milano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla Belle Époque, Einaudi,
Torino Saggio sui fondamenti tecnologici della democrazia, Quaderni della
Fondazione Adriano Olivetti, Istituto per la Documentazione Giuridica, Firenze,
Kelsen Umberto Campagnolo, Diritto internazionale e Stato sovrano. L. Con un
inedito di Kelsen e un saggio di Norberto Bobbio, Giuffrè, Milano, Un giurista
tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale, Laterza, Roma);
“Sistema e struttura nel diritto: Dalle origini alla scuola storica” (Giuffrè,
Milano, Il Novecento” (Giuffrè, Milano); Dal Novecento alla postmodernità,
Giuffrè, Milano U. Campagnolo, Verso una costituzione federale per l'Europa.
Una proposta inedita. Giuffrè, Milano, "Cedant arma Un giudice e due
leggi. Pluralismo normative, Giuffrè, Milano, Funzione sociale della proprietà
e latifondi occupati, Diabasis, Reggio Emilia, Kelsen, Scritti autobiografici.
Traduzione e cura di L., Diabasis, Reggio Emilia Peronismo e giustizialismo:
dal Sudamerica all'Italia, e ritorno. M. Rosti, Diabasis, Reggio Emilia,
Memoria dell'Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali,
Storiche e Filologiche, Accademia delle Scienze, Torino Academia delle scienze
editorial memorie morali Campagnolo, Conversazioni con Kelsen. Documenti
dell'esilio ginevrino Giuffrè, Milano La geopolitica del Novecento. Dai Grandi
Spazi delle dittature alla de-colonizzazione” (Mondadori, Milano); Kelsen
Arnaldo Volpicelli, Parlamentarismo, democrazia e corporativismo” (Aragno,
Torino); Alle origini della filosofia del diritto a Torino: Albini. Con due
documenti sulla collaborazione di Albini con Mittermaier, Memorie della
Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e
Filologiche, Accademia delle Scienze, Torino accademia delle scienze/attivita
editorial periodici-e-collane/ memorie/morali I carteggi di Albini con Sclopis
e Mittermaier. Alle origini della filosofia del diritto a Torino, Memoria
dell'Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e
Filologiche, Accademia delle Scienze, Torino accademia delle Scienze attivita
editorial, periodici-e-collane/memorie morali Alle origini della filosofia del
diritto, Il corso di Alessandro Paternostro a Tokyo. In appendice: Paternostro,
Lexis, Torino I La Rete e lo stato” (Mimesis, Milano); Bobbio. Una biografia
culturale, Carocci, Roma, Kelsen, Due saggi sulla democrazia in difficoltà”
(Aragno, Torino); “La libertà d’insegnamento in Brasile e l’elezione del
Presidente Bolsonaro” (Mimesis, Milano). MAX PLANCK INSTITUTE FOR LEGAL
HISTORY AND LEGAL THEORY RESEARCH PAPER SERIES. Tra lex e ius: le leggi razziste del
fascismo e le amnistie postbelliche. Una nota anche bibliografica com/abstract=
Tra /ex e ius: le leggi razziste del fascismo e le amnistie postbelliche Una
nota anche bibliografica. 1. Ottant’anni dalle leggi razziali del fascismo: un
anniversario nella pandemia 2. L’antisemitismo dell’epoca fascista e il contesto
delle leggi razziali a) Il problema ebraico e lo Statuto Albertino del 1848 b)
Il fascismo e la purezza della stirpe c) Leggi e documenti razzisti del
fascismo: una sintesi . Commemorare in tempi immemori: tra condanna e nostalgia
. Un esempio: la rievocazione all'Accademia delle Scienze di Torino . Una
guida: i ricordi di Liliana Segre . Un dibattito: “l’amnistia Togliatti” tra
giusta punizione e pace sociale L’“Amnistia Azara” del 1953 e la fine della
giustizia di transizione NAUAOU Bibliografie Libri di sopravvissuti
Bibliografia sulle leggi razziali Bibliografia sintetica sull’“Amnistia
Togliatti” 1946 Bibliografia sintetica sull’“Amnistia Azara*, Ottant’anni dalle
leggi razziali del fascismo: un anniversario nella pandemia Nel 1938 venne
pubblicato il Manifesto della razza e in quello stesso anno il regime fascista
emanò varie norme razziste che colpivano gli italiani ebrei. Caduto il
fascismo, quell’anniversario venne ricordato in convegni e scritti, ma non
subito: nel 2018, “l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali antiebraiche
del 1938 ha risollevato interesse e attenzione su quella pagina oscura della
nostra storia e sulla successiva rimozione, protrattasi, salvo alcune lodevoli
eccezioni, sino all’anniversario del primo cinquantennio”!, cioè sino al 1988,
quando la Camera dei [Modona, La magistratura e le leggi razziali 1938-1943,
in: Piazza (a cura di), Le leggi razziali del 1938, Il Mulino, Bologna]
Deputati promosse un convegno sulle leggi razziali e Michele Sarfatti pubblicò
un’esauriente raccolta di quelle leggi e delle circolari amministrative che le
accompagnarono?. In Italia il “Giorno della Memoria” venne istituito soltanto
nel 2000: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data
dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, ‘Giorno della Memoria”, al fine di
ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la
persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la
deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e
schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio
della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”3. Da
parte delle Nazioni Unite, il riconoscimento del “Giorno della Memoria” venne
soltanto cinque anni dopo, nell’Assemblea Generale del 1° novembre 2005. Nei
quarant'anni dopo il fascismo “un diffuso processo di rimozione ha nascosto
sotto un impenetrabile velo di oblio il periodo della persecuzione dei diritti”
proiettando lo stigma “sul periodo della Repubblica Sociale Italiana, sulla
deportazione e lo sterminio nei campi nazisti. Quello che è stato chiamato ‘il
peso di Auschwitz? ha finito per svalutare e minimizzare, sino a cancellarla
dalla memoria collettiva, l’essenziale funzione preparatoria svolta dalle
italianissime leggi antiebraiche. Anche si rievocò quell’anniversario:
l’ottantesimo dall’emanazione delle leggi razziali (che sarebbe più corretto
chiamare ‘razziste’). Però, mentre si preparavano non poche delle pubblicazioni
legate a quella ricorrenza, e cominciò a diffondersi la pandemia del
coronavirus Covid-19. Il blocco della vita sociale ed economica che ne seguì
non solo impedì incontri e convegni, ma coinvolse anche le imprese editoriali e
tipografiche, con inevitabili rinvii e ritardi delle pubblicazioni. Molti
scritti collegati all’anniversario delle leggi razziali persero così il
collegamento temporale con l’evento che intendevano ricordare, mentre d’altra
parte subivano interruzioni e ritardi anche le pubblicazioni che volevano commentare
quegli scritti. L’esigenza di ricordare quelle leggi vergognose era rafforzata
dalla costante ripresa degli atteggiamenti politici di estrema destra in Italia
e in Europa, nonché dal manifestarsi di forme antisemitismo che si ritenevano
ormai appartenenti a un passato lontano. Alcune fra le più recenti di queste
posizioni verranno sommariamente richiamate nel prossimo paragrafo. L’Accademia
delle Scienze di Torino ricordò l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali
con un convegno, i cui atti pubblicati nel 2021 si aprono con una “richiesta di
scuse per il ritardo della pubblicazione di questo volume rispetto alla data di
svolgimento del convegno al quale hanno contribuito le difficoltà connesse con
la pandemia Covid-19”5. Questa situazione comune a molti altri scritti di quel
periodo — mi indusse a [La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti
del convegno nel cinquantenario delle leggi razziali, Roma, Camera dei
deputati, Roma Sarfatti, Documenti della legislazione antiebraica. I testi
delle leggi, cfr. infra, nota 36. 3 Art. 1 della Legge, n. 211, Istituzione del
“Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del
popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
4 Neppi Modona, La magistratura e le leggi razziali Piazza (a cura di), Le
leggi razziali del 1938, Il Mulino, Bologna] riunire alla fine del presente
scritto le indicazioni bibliografiche che andavano disperdendosi nei mesi della
pandemia: indicazioni che si rivelarono particolarmente numerose perché
intendevano non soltanto rievocare il passato, ma anche — attraverso la
rievocazione — contrastare il crescente manifestarsi di atteggiamenti di
estrema destra. Queste pagine si presentano dunque come un dimesso apporto
documentario, cioè come un contributo umile ma, spero, utile per una futura
storia del diritto contemporaneo6. Dopo aver ricordato nel prossimo $ 2
l’evoluzione dell’antisemitismo in Italia, il $ 3 si sofferma su alcuni recenti
episodi soprattutto italiani di chiara simpatia per i regimi dittatoriali
prebellici, mentre i tre paragrafi successivi commentano tre recenti volumi
sulle leggi razziali, sul loro contesto e sull’atmosfera dell’immediato
dopoguerra: gli atti del convegno dell’Accademia delle scienze, le memorie di
Segre e l’analisi dell’“amnistia Togliatti. Infine l’“Amnistia Azara” segna la
conclusione tombale della giustizia italiana di transizione. Seguono quattro
bibliografie: la prima sulle memorie scritte da sopravvissuti alla
deportazione; la seconda, più estesa, sulle rievocazioni delle leggi razziali;
la terza sull’“amnistia Togliatti” che nel 1946 evitò molte tensioni in una
società che usciva da una guerra civile, ma che d’altra parte lasciò impuniti
molti eventi inaccettabili; infine la quarta sull’‘amnistia Azara, che completò
il passaggio dalle amnistie all’amnesia. Le dittature prebelliche non
perseguitarono soltanto gli ebrei, ma anche gli avversari politici (dai
democratici ai socialisti e ai comunisti) e i diversi (gli omosessuali, “le vite
non degne d’essere vissute” i Testimoni di Geova e gli zingari): di essi non è
possibile occuparci in queste pagine”. Per ragioni di spazio non è possibile
esaminare l’atteggiamento dell’Italia postbellica di fronte all’eredità tanto
del fascismo quanto, in particolare, della persecuzione degli ebrei. A partire
dal dopoguerra inizia “la costruzione del mito [...] del popolo italiano come
salvatore degli ebrei. Si precisa da subito che non si tratta dell’invenzione
di episodi falsi, bensì di un’operazione di storytelling, che modifica la
prospettiva sul fenomeno e la percezione [Un quadro generale è in L., Storia
contemporanea del diritto e sociologia storica, Franco Angeli, Milano.; un
esempio concreto di documentazione giuridica a futura memoria è in Id., La
libertà d’insegnamento in Brasile e l’elezione del Presidente Bolsonaro,
Mimesis, Milano Si vedano per esempio: Giannini, Vittime dimenticate. Lo
sterminio dei disabili, dei rom, degli omosessuali e dei testimoni di Geova,
Stampa alternativa/Nuovi equilibri, Viterbo; Bravi - Bassoli, Il porrajmos in
Italia: la persecuzione di rom e sinti durante il fascismo, Emil di Odoya,
Bologna 2013, 103 pp. (in lingua romo sinti porrajimos indica lo sterminio: il
loro Olocausto); Carla Osella, Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato, Tau
Editrice, Todi Sulla situazione attuale: Paolo Bonetti, Alessandro Simoni e
Tommaso Vitale (a cura di), La condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia.
Atti del Convegno internazionale, Università degli studi di Milano Bicocca,
16-18 giugno 2010, Giuffrè, Milano); Benadusi, I/ nemico dell’uomo nuovo:
l'omosessualità nell’esperimento totalitario fascista. Prefazione di Emilio
Gentile, Feltrinelli, Milano] collettiva, portando in primo piano singole
azioni individuali contra legem [cioè contro le leggi fasciste] e mettendo in
ombra il contesto complessivo, normativo e culturale, dell’Italia fascista e
della RSI, che portò all’arresto d’ebrei. In altre parole, sino ad oggi si
intrecciano interventi politici e legislativi che pongono con prevalenza
l’accento su uno soltanto dei due aspetti. La vasta opera del penalista Paolo
Caroli dedica a questo accavallarsi di iniziative postbelliche una cinquantina
di pagine, per metà costituite da fitte note bibliografiche: a questo scritto
può rifarsi chi vuole approfondire gli eventi legislativi e giudiziari che, dal
dopoguerra sino ai giorni nostri, caratterizzano la giustizia transizionale
italiana e la supplenza della magistratura rispetto alla politica. Il fascismo
prese il potere in un’Italia che già nella fase pre-unitaria aveva concesso i
pieni diritti alle minoranza religiose presenti sul territorio: gli ebrei e i
valdesi!0. Sotto il fascismo la persecuzione dei valdesi derivava
dall’atteggiamento politico dei valdesi stessi: non aveva quindi fondamenti
religiosi o razziali, come avvenne invece nei confronti degli ebrei. Caroli, 1/
potere di non punire. Uno studio sull’amnistia Togliatti, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 2020, 382 pp. (Fonti e Studi per il Diritto Penale, collana
diretta da Sergio Vinciguerra e Fornasari; le indicazioni tra parentesi dopo le
citazioni si riferiscono a questo saggio. ? A questi temi Caroli dedica gli
ultimi due capitoli del suo libro (IV. La transizione amnesica italiana:
l’eredità dell’amnistia [Togliatti]; V. L’oblio della clemenza). I paragrafi
finali completano il presente paragrafo sulle leggi razziali del fascismo: 4.
Diritto penale e questione ebraica. Un percorso di autoassoluzione? 4.1. La
Shoah nei processi e nella legislazione dell’immediato dopoguerra; 4.2.
L’innesto del paradigma eurounitario: la Giornata della Memoria e l'aggravante
del negazionismo; Il d.d.l. Fiano: quando il simbolo [fascista] è una minaccia
per la democrazia; 5. Lo specchio della transizione degli anni ’90. Il diritto
penale per uscire dalla guerra e il diritto penale per uscire da Tangentopoli;
5.1. Un elemento di differenza fra le due transizioni: sulla maggiore
responsabilità dl legislatore; Un elemento di analogia e continuità:
l’abdicazione del legislatore e la responsabilità lasciata alla magistratura.
Sulle persecuzioni dei valdesi — che meriterebbero un’apposita ricostruzione —
ci si limita qui ad alcune indicazioni bibliografiche. In generale: Dino
Carpanetto - Patrizia Delpiano (a cura di), L'Italia fra cristiani, ebrei,
musulmani. Immagini, miti, vite concrete, Claudiana, Torino 2020, 235 pp.
Sull’evoluzione storico-politica dei valdesi: Spini et a/., Il glorioso
rimpatrio dei Valdesi: dall'Europa all'Italia. Storia, contesto, significato,
Torino, Claudiana 1988, 165 pp. (con pdf); Bruno Bellion et al., Dalle valli
all’Italia: i Valdesi nel Risorgimento. Introduzione di Giorgio Tourn,
Claudiana, Torino Sulla repressione fascista: Giorgio Rochat, Regime fascista e
chiese evangeliche. Direttive e articolazioni del controllo e della
repressione, Claudiana, Torino; Davide Dalmas - Anna Strumia (a cura di), Una
resistenza spirituale. “Conscientia” 1922-1927, Claudiana, Torino (settimanale
protestante di Roma, chiuso dal fascismo nel 1927; il volume contiene l’indice
di tutti gli articoli e la riproduzione di alcuni di essi); Susanna Peyronel
Rambaldi - Filippo Maria Giordano (a cura di), Federalismo e Resistenza. Il
crocevia della “Dichiarazione di Chivasso, Claudiana, Torino: documento
approvato a Chivasso da resistenti provenienti dalle valli valdesi e dalla
Valle d’Aosta (di indirizzo repubblicano e federalista: v. anche il manifesto
di Ventotene, Per un’Europa libera e unita] Tuttavia - senza voler con questo
avallare il generico mito degli “italiani brava gente” — l’antisemitismo non
era un sentimento diffuso tra gli italiani, come attestano due storie
personali. Il
generale Maurizio Lazzaro de’ Castiglioni operava sul fronte della Francia
occupata: “Les juifs et les étrangers pourchassés par les Allemands trouvent à
ses còtés une réelle protection, par humanisme certes, mais aussi pour
manifester son opposition, parfois ‘musclée’ aux Allemands. Son comportement en
tant que commandant de l’occupation illustre les valeurs qui l’animaient. Il a sans doute contribué à la
réputation — au mythe ? — du ‘brave Italien’”1!, Il commerciante Giorgo
Perlasca militò nel fascismo in gioventù; poi, trasferitosi in Ungheria e di
fronte alle deportazioni nazionalsocialiste, si finse console generale spagnolo
e concesse i lasciapassare che salvarono la vita a più di cinquemila di ebrei
ungheresi!?. Bisogna tenere presenti questi esempi individuali per comprendere
il contesto sociale in cui si inserirono le leggi razziali. Esse trovarono meno
antisemiti che in Germania, però non pochi opportunistici spalleggiatori: “Se è
vero, infatti, che in Italia gli ebrei erano degradati a cittadini di serie b,
va anche evidenziato come il ruolo degli italiani nell’operazione di caccia
all’ebreo e di collaborazione nella deportazione fu pressoché motivato da opportunismo
di tipo economico e personale, più che da ideologia antisemita finalizzata allo
sterminio, propria invece del contesto nazista. Nei processi davanti alle CAS
[Corti Straordinarie d'Assise del dopoguerra] relativi alla Shoah, infatti, lo
scopo di lucro risulta quasi sempre presente. Mentre la prossima sezione di
questo paragrafo ricorda l'emancipazione delle minoranze religiose nel Piemonte
risorgimentale (estesa a tutt'Italia con l’unificazione nazionale), la sezione
successiva documenta come - sino a pochi anni prima delle leggi razziali —
l’atteggiamento fascista rispetto ai problemi razziali fosse diverso da quello
della Germania di allora. Infine, nella terza sezione, vengono sintetizzate le
norme razziali emanate dal fascismo. Panicacci, L’occupation italienne, Sud-Est
de la France, Presses Universitaires de Rennes, Rennes, Cecini, Il salvataggio
italiano degli ebrei nella Francia meridionale e l’opera del generale Maurizio
Lazzaro de’ Castiglioni, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, Roma
L’emissione abusiva di questi lasciapassare spiega il titolo della sua
autobiografia: Giorgio Perlasca, L’împostore, Il Mulino, Bologna.; cfr. anche
Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Feltrinelli, Milano.
Negli anni del Risorgimento si erano occupate della questione ebraica
personalità importanti come Carlo Cattaneo!3 e Massimo d’Azeglio!4. Nel
Piemonte sabaudo - sul cui territorio viveva, oltre alla minoranza ebraica,
anche la minoranza valdese — il problema delle minoranze religiose era stato
risolto nel contesto liberale che aveva accompagnato l’emanazione dello Statuto
Albertino nel 1848. Questa costituzione venne poi estesa all’intero Regno
d’Italia, rimanendo in vigore anche durante l’epoca fascista e sino all’entrata
in vigore nel 1948 dell’attuale costituzione. Lo Statuto Albertino riconosce il
principio di eguaglianza all’art. 24: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro
titolo o grado, sono eguali dinanzi alla Legge. Tutti godono egualmente i
diritti civili e politici, e sono ammessi alle cariche civili e militari, salve
le eccezioni determinate dalle leggi” Esso tutela formalmente anche la libertà
individuale, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di stampa e la libertà
di riunione. Inoltre “la Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola
Religione dello Stato” (art. 1). Lo Statuto Albertino entrò in vigore il 4
marzo 1848: l'emancipazione dei valdesi venne poco prima di quella data (con le
Lettere Patenti), mentre l'emancipazione degli ebrei venne subito dopo di essa:
a entrambe le minoranze erano così riconosciuti i diritti civili e politici. Un
decreto regio abolì i privilegi ecclesiastici ed espulse i Gesuiti dallo Stato
sabaudo. Una legge di poco posteriore (la “Legge Sineo”) precisava che la
differenza di culto non impediva il godimento dei diritti civili e politici e
l'ammissibilità alle cariche civili e militari!S, Questa era la situazione
giuridica ereditata dal fascismo al momento della sua presa del potere e,
soprattutto, della sua affermazione elettorale, quando nel Parlamento giunse a
detenere 400 seggi su 540. Iniziava l’epoca delle “leggi fascistissime. È
difficile spiegare come, partendo da questo rapporto pacificato con la comunità
ebraica, si sia giunti alle leggi razziali del 1938. Per rispettare le esigenze
di sintesi di questa nota soprattutto bibliografica, mi limiterò all’esame di
un solo testo, ma importante: l’Erciclopedia [Cattaneo, Ricerche economiche
sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli israeliti, Zini, Milano.
Questo estratto dagli “Annali di giurisprudenza pratica” v. 23, porta sulla
copertina il titolo: Sulle interdizioni israelitiche, adottato nelle numerose
edizioni successive, come nella recente Interdizioni israelitiche. Introduzione
e cura di Gianmarco Pondrano Altavilla. Prefazioni di Noemi Di Segni, Ofer
Sachs, Maurizio Bernardo, Castelvecchi, Roma Azeglio, Dell’emancipazione civile
degl’israeliti, Le Monnier, Firenze Una sintesi di queste emancipazioni è in
Alberto Cavaglion (a cura di), Minoranze religiose e diritti. Percorsi in cento
anni di storia degli ebrei e dei valdesi, 1848-1948, Angeli, Milano Atti delle
Giornate di studio tenute a Torre Pellice e Torino] Italiana, comunemente nota
come Enciclopedia Treccani. Essa ha quindi preso forma per intero nell’epoca
fascista, che ha trasfuso in essa anni di lavoro pre-fascista dando così
origine a un’opera tuttora culturalmente valida. GENTILE (si veda) (che a
questa enciclopedia ha consacrato molti anni della propria vita, e riposto in
essa uno dei maggiori titoli della sua personale reputazione) si muove tra due
poli: da un lato, “in un’enciclopedia non si vuol distribuire diplomi di gloria
ma semplici informazioni sulle persone come sulle cose che ognuno per qualsiasi
motivo può aver vaghezza di conoscere; dall’altro, essa nasce quando “l’Italia,
per l’azione potente d’un grande Uomo e d’una grande Idea, risorgeva per la
terza volta a imperiale potenza e riaffermava nel mondo la sua missione.
Esaminando in questa enciclopedia le voci sul fascismo e sui problemi razziali,
si nota che sino a pochi anni prima delle leggi razziali l'atteggiamento
ufficiale, riflesso nelle voci dell’enciclopedia, è nettamente distaccato
dall’ideologia dominante in Germania. Anche qui il fascismo si presenta,
secondo Alessandro Galante Garrone, come una “dittatura annacquata” dalla
“italica disposizione alla inefficienza del potere” cioè come “qualcosa di
abissalmente diverso dal rigore consequenziario del regime nazista. Il gatto e
la tigre, come mi pare dicesse in quegli anni dall'America Giuseppe Antonio
Borgese”!8, È inevitabile partire dal voce Fascismo, scritto dal
vice-segretario del Partito Nazionale Fascista, Arturo Marpicati, e, al suo
interno, dalla sezione Dottrina politica e sociale: testo non imparziale, ma
certamente autorevole, perché firmato da Benito Mussolini!9, Nelle sei dense
colonne in cui egli passa in rassegna le dottrine confutate dal fascismo e gli
indirizzi teorici e pratici di quest’ultimo, non compare la parola ‘razza’ o
‘razzismo’; vi si legge soltanto: “La politica ‘demografica’ del regime è la
conseguenza di queste premesse, e subito si passa a criticare l’universalismo e
l’internazionalismo. La voce Razza rivela qualche sorpresa nella sezione Le
razze umane, firmata da Gioacchino Sera, antropologo dell’università di Napoli.
Egli critica gli studi antropologici tedeschi perché scritti “con un così
evidente entusiasmo ‘nordico’, che lascia trasparire troppo chiaramente la
tendenziosità e l’inaccettabilità dei risultati. Ne deriva un’“unilateralità
dei risultati della maggior parte di questi studi: cioè l’affermata prevalenza
dell’elemento nordico nella genesi della civiltà europea. Tale prevalenza
sarebbe determinata da una maggiore ‘creatività’ della razza nordica, in
confronto con tutte le altre, 16 Ad essi si aggiunge il volume Appendice I del
1938, quindi ancora durante il fascismo: in esso infatti confluiscono i vari
fascicoli (come spiega Gentile nella sua Prefazione), seguito da due volumi di
Appendici, già postbellici. In queste pagine faccio riferimento solo
all’Appendice I del 1938. 17 Giovanni Gentile, Prefazione all’Appendice
Garrone, Amalek, il dovere della memoria, Rizzoli, Milano, sw. Fascismo. La
sottovoce Dottrina politica e sociale è firmata da Benito Mussolini per esteso
(mentre tutte le voci sono firmate soltanto con la sigla degli autori) ed è
scritta in prima persona: “Quando, nell’ormai lontano marzo del 1919, dalle
colonne del Popolo d’Italia, io convocai a Milano i superstiti
interventisti-intervenuti] stando agli autori suddetti. Ciò senza dubbio non
corrisponde alla realtà E conclude: “Come la storia della civiltà non autorizza
esclusivismi di popoli nell’opera creativa della civiltà umana, così
l'antropologia non autorizza esclusivismi di razza. Soltanto l’Appendice
dell’anno delle leggi razziali) presenta il lemma Politica fascista della razza
come prosecuzione e completamento della voce Razza del 1935, richiamata poco
sopra?0. L'autore Virginio Gayda - direttore del “Giornale d’Italia” gloriosa
testata della destra storica divenuta in quegli anni quasi portavoce del
governo fascista — seguendo l’interpretazione allora diffusa presenta la
politica razziale antiebraica dell’Italia come l’importazione del modello
adottato dal fascismo in Africa Orientale: “Questo tipo nuovo d’impero, che ammette
nel suo territorio vaste masse bianche di nazionali, crea anche un problema
nuovo, che è quello dei rapporti fra nazionali e indigeni” Per arginare il
meticciato “lo Stato intervenne con precisi principi di netta separazione: un
decreto-legge, approvato nel Consiglio dei Ministri del 9 gennaio 1937, vietò
con sanzioni penali [reclusione da 1 a 5 anni?!] le relazioni con carattere
coniugale tra i cittadini italiani e i sudditi dell’Africa Orientale Italiana
In quel territorio il concubinato era facilitato da un un istituto del diritto
locale — il matrimonio per mercede o pro tempore — che regolava anche gli
obblighi verso i nati dalle unioni temporanee, diffuse tra le truppe
italiane23. Questo concubinato, noto come reato di “madamato” era avversato dal
regime?4: “l'Impero si conquista con le armi, ma si tiene con il prestigio”
aveva detto Mussolini; e una circolare del governatore dell’Harar ribadiva
questo precetto con un’ineludibile alternativa: “Aut Imperium Aut Voluptas!” La
sanzione legislativa contro il “Ìmadamato” precede di pochi mesi le leggi
antiebraiche. Secondo Virginio Gayda, questa politica si trasferisce “dal piano
imperiale a quello nazionale” a causa “di due fatti esterni: le abbondanti
immigrazioni in Italia di elementi stranieri, Appendice, Razza (sezione: La
politica fascista della razza). Ne è autore Virginio Gayda, direttore del
“Giornale d’Italia” sul quale il 15 luglio 1938 venne pubblicato l’articolo
anonimo Il fascismo e i problemi della razza, che — riprodotto il 5 agosto 1938
sul primo numero della rivista “La difesa della razza” con la firma di dieci
scienziati — ebbe poi larga diffusione come Manifesto degli scienziati
razzisti, anticipando la legislazione razziale. 21 “Conversione in legge del
r.d.l., sulle sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e
sudditi” archivio.camera.it/ inventari/scheda/ disegni-e-
proposte-legge-e-incarti- commissioni- 1848-1943/ CD0000007 126/
conversione-legge-del-r-d-1-19-aprile-1937-xv-n-880-sulle- sanzioni-i-
rapporti-d-indole-coniugale-cittadini-e-sudditi Norme relative ai meticci”
LeggeCfr. anche Giorgio Rochat, I/ colonialismo italiano, Loescher, Torino Su
questo tema avevo affidato una tesi, divenuta poi libro: Marina Rossi,
Matrimonio e divorzio nel diritto abissino. Stratificazione di diritti ed
evoluzione dell’istituto, Unicopli, Milano 1982, 152 pp. (2° ed. rivista e
ampliata). 24 Mario Manfredini (magistrato), Problemi di diritto penale
coloniale nell'Africa orientale italiana: il delitto di madamato, “Scuola
positiva. Rivista di diritto e procedura penale, 1938, n. 1-2, 15 pp.
(estratto); Federico Bacco,// delitto di “madamato” e la “lesione al prestigio
di razza”. Diritto penale e razzismo coloniale nel periodo fascista, in
Loredana Garlati — Tiziana Vettor (a cura di),// diritto di fronte all’infamia
nel diritto: a 70 anni dalle leggi razziali, Giuffrè, Milano 2009, pp. 85-121;
Gabriella Campassi, // madamato in Africa Orientale: relazioni tra italiani e
indigene come forma di aggressione coloniale, in Miscellanea di storia delle
esplorazioni, vol. 12, Bozzi, Genova] soprattutto ebraici, fuggiti dopo il 1919
e sempre più numerosi dall’Europa Orientale e poi dopo dalla Germania e infine
dall’Austria. Ne nasce “un duplice problema: di concorrenza molesta al lavoro
italiano e soprattutto d’influenza corrosiva creata dalla mentalità di una
razza che non può armonizzarsi con quella della razza italiana. La formulazione
di questi problemi doveva portare alla creazione di una vera politica italiana
di razza, nel senso di un’azione statale rivolta alla difesa della purità della
razza italiana e dell’esaltazione dei suoi più essenziali valori” (ivi). Il
tutto accompagnato da una vana rassicurazione: “La politica razziale fascista
riguardante gli Ebrei tende a separare la razza italiana da quella ebraica
senza assumere alcun carattere particolarmente persecutorio. Quale sia poi
stata la realtà lo illustrano, ad esempio, le vicende esistenziali descritte
nel $ 5 e nella bibliografia Libri di sopravvissuti. Se si ricorda che ebbe
luogo il rogo dei libri nella Piazza dell’Opera di Berlino (poi Bebelplatz di
Berlino Est), sorprende che alcune importanti voci dell’Enciclopedia Treccani
sulla cultura ebraica siano state affidate ad autori ebrei sino al 1938;
proprio in quello stesso anno entrava in vigore una “delle norme per la difesa
della razza nella scuola italiana” che ordinava: “Nelle scuole d’istruzione
media frequentate da alunni italiani è vietata l’adozione di libri di testo di
autori di razza ebraica. Il divieto si estende anche ai libri che siano frutto
della collaborazione di più autori, uno dei quali sia di razza ebraica; nonché
alle opere che siano commentate o rivedute da persone di razza ebraica.
Pincherle era docente universitario e redattore dell’Enciclopedia Treccani, ma
— a causa delle leggi razziali — dovette esiliarsi in Perù, dove insegna a Lima
nell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos (la più antica dell'America) e
nell’Università Pontificia, fino al suo ritorno in patria a guerra finita. Alla
voce Antisemitismo, Pincherle traccia una storia generale dell’antisemitismo, e
conclude. Anche in Italia il dopoguerra da luogo a qualche pubblicazione
antisemita. Si tratta per lo più di traduzioni o di rimaneggiamenti di opere
straniere. Ché alla diffusione dell’antisemitismo da noi osta la tradizione del
nostro Risorgimento nazionale, al contrario di quanto accadde in Germania,
tutta favorevole, per ragioni nazionali, all’emancipazione degli ebrei ed al
loro incorporamento nello Stato. Mancano del resto in Italia i motivi economici
e sociali che, se non giustificano, spiegano in parte la fortuna
dell’antisemitismo in altri paesi: scarsi di numero gli ebrei italiani e quasi
tutti stabiliti da secoli nel paese, sì da essersi completamente italianizzati;
lunga tradizione di pacifica convivenza tra ebrei e cristiani specialmente in
quelle provincie, come la Lombardia, la Venezia, la Toscana, nelle quali la
tolleranza è stata largamente praticata anche dagli antichi governi; mancanza
di un’alta banca e di un’oligarchia finanziaria specificamente ebraiche Art. 4
del Regio decreto-legge, Integrazione delle norme per la difesa della razza
nella scuola italiana. Antisemitismo, Pincherle è docente di storia del
Cristianesimo all’Università di Roma; da non confondere con l’omonimo romanziere,
noto con lo pseudonimo di Moravia] L’ampia voce Ebrei apre la sezione
‘Antropologia’ con queste parole. Occorre anzitutto affermare l’inesistenza di
una pretesa razza o tipo ebraico. Ne è autore il già ricordato Sera,
antropologo di Napoli. La sezione ‘Storia e religione’ del popolo ebraico è
affidata al rabbino maggiore di Trieste, Israele Zoller; ‘Diritto ebraico” a
Dante Lattes, rabbino a Roma; ‘Diritto post-talmudico’ a Mario Falco,
professore di diritto pubblico all’Università di Milano ed esponente di rilievo
della comunità ebraica: a lui si deve la “Legge Falco” che — in parallelo con i
Patti Lateranensi - regolò i rapporti tra lo Stato fascista e le comunità
ebraiche in Italia28. Nonostante questi rapporti di alto livello con lo Stato
fascista e la sua iscrizione dal 1933 al partito fascista, anche Falco dovette
lasciare l’insegnamento nel 1938. Morì nel 1943, mentre era in fuga per
sottrarsi alla deportazione. È importante la sua amicizia con Arturo Carlo
Jemolo?29, presso il quale trovò rifugio la sua famiglia superstite sino alla
fine della guerra. Non mancavano però ebrei fascisti, anche in posizioni di
rilievo. Venne perciò istituita la figura dell’“ebreo arianizzato” sulla base
di una specifica legge. Un’apposita “Commissione per le discriminazioni” (nota
come “Tribunale della razza” i cui atti non erano pubblici) formulava un
parere, sulla cui base il Ministero dell'interno emanava un decreto di
arianizzazione, che dichiarava “la non appartenenza alla razza ebraica anche in
difformità delle risultanze degli atti dello stato civile” evitando così
l’applicazione delle leggi antiebraiche. Questa disposizione “favorì un vero e
proprio mercato delle ‘arianizzazioni’, alimentato da una schiera di
faccendieri e truffatori, di funzionari corrotti e di avvocati di bassa lega,
basato su testimoni falsi chiamati a dichiarare di aver avuto occasionali
rapporti sessuali con una donna ebrea sposata. Gli ebrei ebbero comunque una
vita difficile. Sulle difficoltà cui andarono incontro gli ebrei fascisti sono
esemplari le vicende di un importante filosofo del diritto del Novecento,
Vecchio. Rettore dell’università di Roma sotto il fascismo, epurò vari docenti
ma fu a sua volta espulso sulla base delle leggi razziali. Alla fine della
guerra venne reintegrato nella sua posizione di docente come perseguitato in
base alla legislazione razziale, ma poco dopo venne nuovamente rimosso a causa
della sua attività di rettore sotto il fascismo. Per questo le sue memorie
narrano la persecuzione di un perseguitato. Ebrei, Questa voce affronta tutti
gli aspetti della cultura ebraica: lingua, letteratura, musica, numismatica.
Secondo Gentile, questa legge “riduceva l’autonomia statutaria e il carattere
di democrazia interna, al contempo assicurando allo Stato un forte controllo
sulle Comunità Jemolo, Lettere a Mario Falco, Giuffrè, Milano Legge, Norme
integrative del Regio decreto-legge, sulla difesa della razza italiana
(Gazzetta Ufficiale Questa normativa è analizzata nel $ 3. Un richiamo
indispensabile: il basilare r.d.I. La valutazione della razza ebraica: la legge
de 13 luglio1939 e il “tribunale della razza”, in Gian Savino Pene Vidari, La
legislazione antiebraica del 1938-39, con la sua applicazione in Piemonte nel
campo dell’istruzione e dell’avvocatura, in Piazza, Le leggi razziali Modona,
La magistratura e le leggi raziali 1938-1943, in Piazza, Le leggi razziali
Vecchio, Una nuova persecuzione contro un perseguitato. Documenti, Tipografia
artigiana, Roma Leggi e documenti razzisti del fascismo: una sintesi Il clima
fin qui evocato e il legame sempre più stretto con il nazionalsocialismo
portarono l’Italia fascista a emanare le leggi razziali. I destinatari erano
soprattutto gli ebrei: persone, a quell’epoca, secondo Gayda33; oppure “non più
di quarantaquattromila” come desume Salvatorelli da altre fonti34. Il primo
quesito che si pone è questo: come potevano le leggi razziali essere
compatibili con lo Statuto Albertino che, come si è visto, aveva concesso la
piena capacità giuridica a ebrei e valdesi? La risposta è nella natura
giuridica di quello stesso Statuto: esso è una costituzione flessibile,
modificabile cioè con una legge ordinaria. Quindi l'emanazione delle leggi
razziali abrogava le norme emancipatorie dello Statuto Albertino. Esso venne
così progressivamente svuotato, ma poté restare in vigore sino alla fine del
fascismo, così come la costituzione di Weimar rimase in vigore sino alla fine
del nazionalsocialismo. La preparazione delle leggi razziali iniziò, quando
MUSSOLINI, come Ministro dell’Interno, istituì la Commissione per la
preparazione di provvedimenti legislativi concernenti la difesa della razza
italiana e la disciplina degli ebrei stranieri residenti in Italia. Seguirono
numerosi testi legislativi sulla politica razziale del fascismo. Due giorni
dopo il decreto sull’esclusione degli ebrei dalla scuola venne emanato il
decreto-legge “per la difesa della razza italiana”: articoli basilari per la
politica antiebraica fascista e per la definitiva perdita dell’eguaglianza
civile degli ebrei nello Stato italiano” che costituiscono “la ‘magna charta’
dell’antiebraismo giuridico fascista. Per brevità, ci si limiterà qui a citare
soltanto alcuni articoli tratti dal Regio decreto-legge, Integrazione delle
norme per la difesa della razza nella scuola italiana (il cui art. 4 è già
stato ricordato poco sopra); sono più che sufficienti per comprendere qual è lo
spirito di queste leggi. A qualsiasi ufficio od impiego nelle scuole di ogni
ordine e grado, pubbliche e private, frequentate da alunni italiani, non
possono essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese
in graduatorie di concorsi anteriormente al presente decreto; né possono essere
ammesse al conseguimento dell’abilitazione alla libera docenza. Agli uffici ed
impieghi anzidetti sono equiparati [Questa cifra è fornita dal già citato
Gayda: Appendice, alla voce Razza. Il censimento nazionale degli ebrei indica
però l’ebrei italiani e stranieri (rapporto del sottosegretariato “Demorazza”
Ministero degli Interni, in Cavaglion — Romagnani, Le interdizioni del Duce,
Salvatorelli — Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino
Sull’intera parabola della legislazione razziale si veda l’esauriente Giorgio
Fabre, I/ razzismo del duce. Mussolini dal Ministero dell’interno alla
Repubblica sociale italiana. Con la collaborazione di Annalisa Capristo,
Carocci, Roma Sarfatti, Documenti della legislazione antiebraica. I testi delle
leggi, in Michele Sarfatti (cur.), Le leggi contro gli ebrei, “La rassegna di
Israel” (numero monografico. Un elenco delle norme razziali è reperibile anche
su Internet wiki/ Leggi_ razziali fasciste# Legislazione_ italiana_in_chiave_
razziale). Vidari, La legislazione antiebraica, con la sua applicazione in
Piemonte nel campo dell’istruzione e dell’avvocatura, in Piazza, Le leggi
razziali] quelli relativi agli istituti di educazione, pubblici e privati, per
alunni italiani, e quelli per la vigilanza nelle scuole elementari. Delle
Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti non
possono far parte persone di razza ebraica. Alle scuole di ogni ordine e grado,
pubbliche o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere
iscritti alunni di razza ebraica. È tuttavia consentita l’iscrizione degli
alunni di razza ebraica che professino la religione cattolica nelle scuole
elementari e medie dipendenti dalle Autorità ecclesiastiche. Nelle scuole
d’istruzione media frequentate da alunni italiani è vietata l’adozione di libri
di testo di autori di razza ebraica. Il divieto si estende anche ai libri che
siano frutto della collaborazione di più autori, uno dei quali sia di razza
ebraica; nonché alle opere che siano commentate o rivedute da persone di razza
ebraica. Per i fanciulli di razza ebraica sono istituite, a spese dello Stato,
speciali sezioni di scuola elementare nelle località in cui il numero di essi
non sia inferiore a dieci. Le comunità israelitiche possono aprire, con
l’autorizzazione del Ministro per l'educazione nazionale, scuole elementari con
effetti legali per fanciulli di razza ebraica, e mantenere quelle all’uopo
esistenti. Per gli scrutini e per gli esami nelle dette scuole il Regio
provveditore agli studi nomina un commissario. Nelle scuole elementari di cui
al presente articolo il personale potrà essere di razza ebraica; i programmi di
studio saranno quelli stessi stabiliti per le scuole frequentate da alunni
italiani, eccettuato l’insegnamento della religione cattolica; i libri di testo
saranno quelli di Stato, con opportuni adattamenti, approvati dal Ministro per
l'educazione nazionale, dovendo la spesa per tali adattamenti gravare sulle
comunità israelitiche. Nella parte meridionale dell’Italia liberata dagli
Alleati e, successivamente, sull’intero territorio nazionale le norme razziali
vennero abrogate in considerazione dell’“urgente ed assoluta necessità di
reintegrare nei propri diritti anteriori i cittadini italiani appartenenti alla
razza ebraica per riparare prontamente alle gravi sperequazioni di ordine
morale e politico create da un indirizzo politico infondatamente volto alla
difesa della razza. Tuttavia la reintegrazione degli epurati nelle loro
posizioni originarie fu spesso complessa, perché i loro posti erano stati nel
frattempo affidati a colleghi vincitori di un regolare concorso. Ancora una
volta è utile esaminare un caso paradigmatico: quello del filosofo del diritto
TREVES (si veda), reduce da un lungo esilio in Argentina, e della sua complessa
reintegrazione, ricostruita da Nitsch in un volume ricco di documenti
originali. Tra di essi viene citata una lettera di Ravà a Treves; quest’ultimo
aveva chiesto ragguagli sul suo possibile rientro in Italia. Con l'abolizione
delle leggi razziali, — scrive Ravà, — rientrano in servizio, oltre me, anche
Donati e Levi di filosofia del diritto. Ciò disturba quelli che sono ai nostri
posti e io mi rammarico di dover disturbare BOBBIO (si veda). Questi è chiamato
a Torino, ma non c’è posto, essendo rientrati due professori ebrei. Ora può
essere lo chiamino a Milano. Qui a Roma VECCHIO (si veda) è stato collocato a
riposo per ragioni politiche e ne è molto amareggiato. Per altri sono in corso
provvedimenti (Maggiore, Cesarini). Tutto ciò Regio Decreto-Legge, Disposizioni
per la reintegrazione dei diritti civili e politici dei cittadini italiani e
stranieri già dichiarati di razza ebraica e/o considerati di razza ebraica.
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale — serie speciale — e convertito dal decreto
legislativo luogotenenziale pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie
speciale] determina un ambiente poco simpatico; perché come non fu gradevole
che siano stati occupati i nostri posti, così non è bello andare al posto dei
professori ora epurati. E io non sono sicuro che il nostro ritorno sia gradito
a tutti, perché sposta notevoli interessi. Nel dopoguerra la costituzione
repubblicana stabilì all’art. 3 l'uguaglianza di tutti gli italiani senza
distinzioni, tra l’altro, di razza. Però anche questo articolo della
costituzione non è del tutto applicato, come si è visto nel primo dopoguerra
con la discriminazione dei “mulattini” (i nati durante l’occupazione degli
alleati) e come avviene ancora oggi con il mancato riconoscimento della
cittadinanza italiana ai nati in Italia (e perfettamente integrati) da genitori
non italiani. Silvana Patriarca, professoressa di storia alla Fordham University
di New York, ha analizzato questo aspetto della recente storia italiana,
giungendo alla conclusione che, “se nella nuova repubblica democratica l’idea
di razza non era più accettabile se applicata agli ebrei, la stessa continuava
a essere accettabile se applicata a persone dalla pelle più scura. Ne è prova
ancora oggi il sempre ricorrente rifiuto del “ius soli” e nel persistere del
“ius sanguinis” che attribuisce la cittadinanza (e, quindi, anche il diritto di
voto) a lontani discendenti di emigranti che spesso non sono mai stati in
Italia e non parlano più l’italiano. Un dibattito senza fine: “Il presidente
del consiglio Paolo Gentiloni, alla festa per i dieci anni del Partito
democratico ha detto che si sta impegnando per far approvare la legge di riforma
della cittadinanza impropriamente chiamata ius soli, che era nel programma
elettorale del Pd ed è bloccata al Senato da due anni”4!, Commemorare in tempi
immemori: tra condanna e nostalgia Il ricordo e la condanna delle leggi
razziali del fascismo è divenuto ancora più necessario nei tempi presenti, nei
quali la condanna delle colpe fasciste si scontra con una crescente nostalgia
per quegli anni e con un rafforzamento dei movimenti di estrema destra‘.
(Questo [Nitsch, Renato Treves esule in Argentina. Sociologia, filosofia
sociale, storia. Con documenti inediti e la traduzione di due scritti di
Treves, Accademia delle Scienze, Torino Tutto è mutato; Le difficili vie della
normalizzazione: l'abrogazione delle leggi razziali e la disciplina della revisione
dei concorsi). La lettera di Ravà è citata. (Documento). Il riferimento è al
penalista di Palermo Giuseppe Maggiore e al filosofo del diritto Widar Cesarini
Sforza. 40 Silvana Patriarca, I/ colore della Repubblica: “figli della guerra”
e razzismo nell'Italia postfascista. Traduzione di Duccio Sacchi, Einaudi,
Torino. La frase citata è ripresa nella recensione di Nadia Urbinati, L'Italia
è una Repubblica fondata sul razzismo, “Domani” Camilli, Ius soli, ius
sanguinis, ius culturae: tutto sulla riforma della cittadinanza,
“L’internazionale”internazionale.it/ notizie/annalisa-camilli/ 2017/10/20/
riforma-cittadinanza-da-sapere). Sulla destra italiana: Coglitore, Cernigoi, La
memoria tradita. L'estrema destra da Salò a Forza Nuova, Ed. Zero in Condotta,
Milano; Ferrari, Da Salò ad Arcore. La mappa della destra eversiva, L’Unità,
Roma; Passarelli - Dario Tuorto, La Lega di Salvini: estrema destra di governo,
Il Mulino, Bologna; Ugo Maria Tassinari, Naufraghi. Da Mussolini] clima ostile
alla democrazia parlamentare si manifesta anche in Europa e fuori d'Europa: ma
non è qui possibile occuparcene4.) Senza perdersi in distinzioni e condanne che
sarebbero inappropriate in queste note soprattutto bibliografiche, basti qui
accennare sommariamente allo stillicidio di prese di posizione “nostalgiche”
che tendono a ripresentarsi ciclicamente, per poi essere dimenticate. Per
esempio, nel 1989 Alessandro Galante Garrone pubblicava “un grido d’allarme”
contro “i pericoli sempre latenti o risorgenti dell’antisemitismo in Italia e
nel mondo” e ricordava che “verso la fine degli Anni Cinquanta e della prima
metà degli anni Sessanta si ebbe in varie parti del mondo una preoccupante
ondata di razzismo e in particolare di antisemitismo. Anche l’Italia ne fu
insudiciata” Proprio come ai nostri giorni, anche allora si discusse sulla
chiusura di organizzazioni di estrema destra e la Germania sciolse il Bund
Heimatfreier Jugend e la Demokratische Nationale Arbeiter Partei” dalla sigla
sinistramente simile alla Nationalsozialistische Deutsche Arbeiter Partei di
Hitler. Altre ricorrenti manifestazioni di antisemitismo si sono ripetute nei
decenni successivi, cioè sino ai giorni nostri e su di essi Galante Garrone
andò pubblicando una serie di articoli “sul quotidiano “La Stampa?” di Torino.
In altre parole, nulla di nuovo sotto il sole44. Per limitarci ai casi più
recenti, la consigliera comunale torinese del Movimento Cinque Stelle, Monica
Amore, è accusata di razzismo per una vignetta satirica a sfondo razzista sugli
ebrei pubblicata sui social (e poi rimossa a furor di polemiche). Il
procuratore aggiunto Emilio Gatti l’ha iscritta nel registro degli indagati con
l’accusa di diffama zione aggravata dall’odio razziale. L’inchiesta è stata
aperta ufficialmente ieri dalla procura di Torino a seguito dell’esposto
depositato a Palagiustizia da un legale incaricato dal presidente della
comunità ebraica Dario Disegni. Il post raffigurava un collage di testate
giornalistiche del gruppo Gedi accompa-gnato da immagini evidentemente
antisemite e cioè la caricatura di due uomini con naso pronunciato, Kippah e la
Stella di David giunte alla consigliera attraverso un canale Telegram. Lei, in
cima al post, aveva scritto: “Interessante. Qualche mese dopo, il
Sottosegretario all’Economia nell’attuale governo Draghi — Claudio Durigon,
della Lega - proponeva di ritornare alla toponomastica fascista in un comizio a
Latina, città sorta nelle terre dell'Agro Pontino bonificate dal fascismo e
inaugurata il 18 dialla Mussolini: anni di storia della destra radicale, Immaginapoli,
Pozzuoli Sui rappporti dei movimenti italiani con quelli stranieri: Piero
Ignazi, L'estrema destra in Europa, Il Mulino, Bologna Milza, Europa estrema:
il radicalismo di destra, Carocci, Roma Qualche accenno è nel mio Democrazia
senza democratici: Weimar alle porte?, in Hans Kelsen, Due saggi sulla
democrazia in difficoltà, Aragno, Torino; inoltre: Id., Germania:
manifestazioni neonaziste, privacy e libertà d'informazione, “Diritto
dell’informazione e dell’informatica” La libertà d’insegnamento in Brasile e
l’elezione del Presidente Bolsonaro, Mimesis, Milano Dieci di questi articoli
sono riprodotti in Galante Garrone, Amalek, il dovere della memoria, cLe
citazioni provengono dalla breve Premessa. lastampa.it/ torino/
news/post-antisemita-la-consigliera-amore-indagata-peristigazione-all-odio-razziale]
con il nome di Littoria (divenuto poi Latinia e l’attuale Latina. In un comizio
a Latina dove parla accanto a Salvini, Durigon propone di cambiare il nome al
giardino comunale per reintitolarlo al fratello del duce, Arnaldo, come era
durante il fascismo, accusando l’attuale sindaco di aver fatto un’operazione
politicamente orientata quando nel 2017 ha intitolato il parco ai magistrati
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: “Questa è la storia di Latina che qualcuno
ha voluto anche cancellare con quel cambio di nome a quel nostro parco, che
deve tornare a essere quel Parco Mussolini che è sempre stato” Ma il sindaco
Damiano Colella spiega che nessuno “ha cancellato la storia di Latina. Il
podestà stabilì di cambiare tutta la toponomastica. E da quel giorno Parco
Arnaldo Mussolini è diventato Parco Comunale. Quando nel 2017 abbiamo
intitolato il parco a Falcone e Borsellino non l’abbiamo fatto per rivalsa nei
confronti della storia della città. Abbiamo scelto i valori e il sacrificio di
due uomini dello Stato che hanno perso la vita per l’affermazione della
legalità e della giustizia contro la mafia” Infatti “la delibera numero 248 del
31 luglio 1943 cambiò tutta la topomomastica: Piazza Ciano divenne piazza
Giulio Cesare, piazza Predappio piazza del Mercato, piazza Littorio cambiò nome
in piazza d’Italia, insieme a tutte le vie, viale delle Camicie nere per
esempio divenne via Giosuè Carducci Si noti che “in realtà Arnaldo Mussolini
non ha rapporti con la storia cittadina, perché è morto prima della fondazione
di Littoria, nome originario di Latina, battezzata dal fratello Benito Mussolin
La sortita del Sottosegretario leghista va collocata nella situazione locale,
alla vigilia delle elezioni comunali di Latina, con la Lega che tenta di
captare i voti della destra con candidati dai sospetti coinvolgimenti in
vicende di mafia o di corruzione, ora oggetto di processi da parte della Lega
contro “Domani” il giornale che ha pubblicato queste notizie. La vicenda
Durigon si salda così alla richiesta di sanzioni per le liti temerarie
intentate contro i giornali per le notizie pubblicate: ma questa polemica sulle
liti come strumento per soffocare la stampa libera è una vicenda diversa, La
politica italiana dibatté sull’opportunità di far dimettere questo membro del
Governo, cosa che avvenne 22 giorni dopo quell’affermazione sul “Parco
Mussolini” anche “per le relazioni emerse con personaggi legati ai clan di
Latina” - “rapporti pericolosi”4. Mentre in Italia questa disputa era in parte
soffocata dal ritorno degli atleti italiani dalle Olimpiadi (dove per la prima
volta avevano raggiunto il record di 40 medaglie), la notizia non passava
inosservata all’estero: Il The Times di Londra dedica un pezzo al
sottosegretario leghista: “Let's dedicate local park to Mussolini, says italian
minister” (“Dedichiamo un parco a Mussolini, dice un ministro italiano”). Così
anche Abc Neuws, il portale della celebre emittente americana (“Crescono le
tensioni dopo la proposta di dedi- [Preziosi, / partiti si accorgono che
Durigon è impresentabile: adesso cacciatelo, “Domani” Trocchia, Con i richiami
a Mussolini Durigon coltiva i voti fascisti per la Lega, “Domani” Zini, Durigon
sta cercando di fermare ‘Domanî’ a colpi di querele, “Domani” Tizian — Nello
Trocchia, Durigon si dimette e accusa i giornali di averlo infangato, “Domani”
Il sindacalista di Durigon dava ordini al clan di Latina,“Domani] care un parco
a Mussolini”) che come Euronews — colosso che trasmette in 155 Paesi — riprende
il titolo della American Press. Ma c'è pure il francese L’opirion, che parla di
“nostalgia fascista”50, In pieno Ferragosto era giunta anche un’altra
dichiarazione, come minimo qualunquista, di un candidato sindaco di Milano per
il centrodestra: “Io non distinguo le persone tra fascisti e antifascisti,
contro questo o contro quell’altro. Le persone non le distinguo se non per
uomo, donna e persone perbene” Luca Bernardo, candidato della destra alle
Amministrative di Milano, preferisce non prendere posizione. E così ammette che
per lui fascisti e antifascisti uguali sono” [...] Parole che suonano come una
difesa del sottosegretario leghista Claudio Durigon, che nei giorni scorsi si
era augurato che un parco di Latina fosse dedicato ad Arnaldo Mussolini!, In tempo
già preelettorale hanno avuto luogo le elezioni locali in importanti comuni —
l’esempio del Sottosegretario Durigon fece scuola, e anzi qualcuno rincarò la
dose, proponendo che Piazzale dei Partigiani, a Roma, tornasse ad essere
intitolato ad Adolf Hitler come ai tempi dell’occupazione nazionalsocialista:
Dopo le polemiche sul caso del Sottosegretario all’Economia della Lega Claudio
Durigon che, du rante un comizio a Latina aveva proposto di intitolare di nuovo
il parco ad Arnaldo Mussolini, ora arriva un’altra idea di intitolazione che fa
discutere. A lanciarla, come riporta “La Repubblica” è Andrea Santucci, vigile
del fuoco ed ex consigliere comunale leghista di Colleferro, che si dichiara
favorevole a intitolare di nuovo piazzale dei Partigiani a Roma, ad Adolf
Hitler. Le sue parole: “Nel bene e nel male questa è la nostra storia, credo
anche che per la cecità di alcuni perdiamo moltissimo in termini di turismo nel
voler nascondere. Alcune eredità del passato fascista riemersero in una storia
che non è solo individuale. Dopo le mancata reviviscenza, a Latina, del parco
che fu intitolato ad Arnaldo Mussolini, nella poco lontana Anzio (dove
sbarcarono gli Alleati nel 1944) Edith Bruck — scrittrice ebrea ungherese
sopravvissuta alla Shoa e naturalizzata italiana — rifiutò il Premio per la
Pace con una lettera al sindaco: “Avrei volentieri accettato, se nel frattempo
non avessi saputo che è stata negata la benemerenza a una mia correligionaria,
Adele di Consiglio, sopravvissuta alla barbarie nazifascista, e invece è stata
riconfermata a Mussolini”53, Infatti nel 2019 il Partito Democratico aveva
proposto di revocare la cittadinanza ono- [L. Giar.,I/ caso [Durigon] arriva
sul “Times”e in tutta Europa, ma non al Tg2,“Il Fatto Quotidiano” S1 L. Giar.,
Milano, Luca Bernardo fa il nostalgico: “Non distinguo tra fascisti e
antifascisti”, “Il Fatto Quotidiano”. Inoltre: “Certo che c’è differenza tra i
due, se vogliamo andare sul semantico. So che cosa mi volete chiedere, so che
cosa vi rispondo’, ha replicato ai cronisti a margine di un evento. E a domanda
diretta se possa definirsi antifascista, Bernardo tergiversa ancora: ‘No, io
non mi definisco né A, né B, né Z. Mi definisco un cittadino della città di
Milano, che vuol dire che è aperto e liberale. La libertà conquistata grazie ai
nostri nonni dobbiamo portarla sempre avanti. Io mi definisco Luca Bernardo che
arriva dalla società civile” S2 “Intitolare a Hitler piazzale dei Partigiani”:
bufera su ex consigliere leghista di Colleferro huffingtonpost.it/entry/intitolare-a-hitler-piazzale-dei-partigiani-bufera-su-ex-consigliere-leghista-acolleferro
Redazionale,] Anzzo, onorificenza a Mussolini: Bruck rifiuta il premio, “Il
Fatto Quotidiano] raria a Mussolini e di conferirla ad Adele di Consiglio.
L’allora sindaco respinse entrambe le richieste, e oggi Edith Bruck rifiuta di
essere associata al cittadino onorario Benito Mussolini, responsabile della
deportazione degli ebrei italiani, e quindi anche della sua. La risposta del
sindaco attuale suona però non come una discolpa, ma come un’aggravante:
“Mussolini ha la cittadinanza onoraria dal 1924. Prima di me ci sono stati tre
sindaci comunisti, due socialisti, uno repubblicano, uno Ds e nessuno l’ha mai
revocata. Anzi questo argomento non è stato mai discusso in Consiglio comunale.
Questi e altri eventi e interventi pubblici palesemente nostalgici culminarono,
il 9 ottobre 2021, nelle manifestazioni di piazza a Roma che portarono alla
devastazione della sede centrale del sindacato CGIL: un assalto nel quale
ebbero una posizione di rilievo gli esponenti del movimento di estrema destra
Forza Nuova. L’irruzione nelle sedi sindacali non è una novitàs5, ma la
devastazione romana richiamò alla memoria di molti l'assalto e l’incendio della
Camera del Lavoro di Torino d - giusto un secolo fa — e l’affermarsi dello
squadrismo fascista. Non si tratta di casi isolati, benché frequenti: in
realtà, questa tradizione di “fascismo eterno” non si è mai spenta e trova il
suo caso più emblematico in Verona, in una sequenza che inizia nel 1920 e dura
ancora oggi: Nero era il colore dello sparuto drappello di “diciannovisti”
capeggiati da Italo Bresciani, fondatore e segretario del piccolo Fascio di
Verona, il “terzogenito” nato appena due giorni dopo la fondazione a Milano dei
FASCI DI COMBATTIMENTO. Nera è l’evoluzione in città del Partito nazionale
fascista. La prima visita di Mussolini in città: il futuro duce atterra con un
Aviatik nella scalcinata piazza d’armi di stradone Santa Lucia. Diciotto anni
dopo, un’altra visita. Trionfale. Verona diventa il teatro di fondazione della
Repubblica sociale italiana, sede di cinque ministeri e di importanti comandi
tedeschi. Il nome della città si incide dunque anche nella storia del fascismo
repubblicano: accostato prima al Manifesto di Verona (il piano programmatico
per il governo della RSI, in cui si definivano gli obiettivi politici del
Partito fascista repubblicano, nato dalle ceneri del Partito nazionale
fascista) e poi al celebre processo di Verona, che condannò Galeazzo Ciano e
altri gerarchi accusati di avere tramato con Badoglio per fare arrestare
Mussolini. È sempre a Verona che il comando generale della Gestapo allestisce
la sua base in Italia. [... Nel dopoguerra] Il territorio scaligero diventa un
crocevia per diverse organiz zazioni neofasciste: la Rosa dei Venti del
generale Amos Spiazzi; Ordine Nuovo; la sanguinaria sigla Ludwig — responsabile
di dieci “omicidi per caso” — e il Fronte Nazionale di Franco Freda sono gli
zii. Poi sono arrivati i nipotini. Che portano avanti la tradizione della ‘ditta’.
Neri sono i movimenti che, da metà anni Ottanta, mettono radici a Verona.
Ferrario, Anzio. Il “rifiuto” di Edith Bruck: “Mat accanto a Mussolini”,
“L'Avvenire, avvenire. it/attualita/
pagine/il-rifiuto-di-edith-bruck-mai-accanto-a-mussolini). SS Per esempio:
“Lavoratrici, lavoratori! Un criminale attentato fascista è stato compiuto
contro la sede della CGIL [dalle] forze della estrema destra che temono l’unità
dei lavoratori e la loro combattività sindacale: lavoratrici, lavoratori!
rispondete con la lotta unitaria: uniti si vince. Federazione milanese del Pci”
(Manifesto del PCI del 1964). 56 Paolo Berizzi, Verona, la città in fondo a
destra: dal fascismo al fascismo, *MicroMega”
micromega.net/verona-estrema-destra-berizzi/). La “singolarità del caso Verona,
il laboratorio italiano della destra radicale” è descritta per esteso nel
volume (da cui è tratto l’articolo di “Micromega”) di Paolo Berizzi, È gradita
la camicia nera, Rizzoli, Milano] Nell’autunno del 2021 si moltiplicarono in
Italia i moti di piazza, nei quali estremisti di destra e, in misura minore, di
sinistra si infiltrarono nelle manifestazioni organizzate dai movimenti
contrari alle misure anti-pandemiche, come No-Vax e No-Green Pass. Un esempio
inquietante di questa simbiosi è la manifestazione dei No-Vax, quando i
partecipanti sfilarono per le vie di Novara con pettorine a strisce bianche e
grigie contrassegnate da numeri, in un demenziale richiamo ai campi di stermino
nazisti: volevano così protestare contro l’obbligo del certificato vaccinale
nei luoghi pubblici, odiato simbolo della “dittatura sanitaria” La Procura
della Repubblica indaga sul “negazionismo” dei partecipanti, anche se per poter
“negare” bisognerebbe “sapere” o almeno “avere una vaga idea” mentre in questo
caso l’ignoranza abissale si rivela più preoccupante della violazione di certe
norme giuridiche. Purtroppo tra gli italiani è presente un elevato tasso di
analfabetismo funzionale”, e in queste aree di regressione culturale si
inseriscono i gruppi di estrema destra: “La vergogna dell’ignoranza” così
lAssociazione Nazionale Partigiani Italiani ha commentato la sfilata di Novara.
Soprattutto il partito di estrema destra “Forza Nuova” ha organizzato
sistematicamente l’infiltrazione in vari settori della destra presentabile e
dei movimenti incolti, attraverso l’attività del suo leader Roberto Fiore,
arrestato dopo l’assalto alla sede sindacale di Roma. Mussolini,
successivamente eletta alla Camera, lascerà il seggio all’europarlamento al
neofascista Fiore, che a Bruxelles compirà passi decisivi nel progetto di
infiltrazione di sigle sicuramente più presentabili e ascoltate di quanto lo è
Forza Nuova” Fiore ha finanziato con fondi esteri “un’associazione molto
ascoltata tra i critici della gestione governativa della pandemia. A questo si
aggiunge l’infiltrazione metodica nei salotti della chiesa conservatrice e
oltranzista” per esempio nell’associazione Pro Vita et Famiglia (la quale nega
però questo legame)58. Questo doppio livello consente a Forza nuova, da un
lato, di “contare nei palazzi della politica pur senza rapresentanza
parlamentare” e, dall’altro, di infiltrarsi a Roma e a Milano, a Torino e a
Trieste nelle manifestazioni contro “la dittatura sanitaria” inneggiando alla
dittatura del ventennio. A Milano “il gruppo ha cantato slogan di chiara
matrice fascista durante la partecipazione al corteo contro il certificato
verde” e sono stati fermati “8 militanti del gruppo di estrema destra per
apologia del fascismo” In conclusione, “il bilancio finale del corteo parla di
83 denunce e di un 22enne arrestato nei concitati momenti del tentato (e
fallito) assalto alla Camera del lavoro, sede della Cgil [di Milano, questa
volta]. Sono ormai [Il 70% della popolazione italiana si colloca al di sotto
del livello 3, il livello di competenze considerate necessarie per interagire
in modo efficace nella società del XXI secolo”: così si esprime
sull’analfabetismo funzionale il rapporto ISFOL, “Istituto per lo sviluppo
della formazione professionale dei lavoratori”: ente pubblico di ricerca
vigilato dal Ministero del Lavoro -- it happens – analfabetismo funzionale
existe anche quello di ritorno. I dati ufficiali sono nel Rapporto nazionale
sulle competenze degli adulti isfol.it/piaac/i-risultati-di-piaac). Una
dettagliata analisi di questa strategia del ‘doppio binario” è in Giovanni
Tizian, Anatomia dell’infiltrazione fascista nell’èra dei complotti, “Domani”
da cui sono tratte le citazioni nel testo. “Le affermazioni presenti
nell’articolo volte ad accostare la onlus [Pro Vita et Famiglia] al partito
Forza Nuova sono false, inesatte, oppure nemmeno pertinenti” scrive in una
Richiesta di rettifica il presidente della onlus, Antonio Brandi, riservandosi
azioni legali (“Domani] oltre 300 i denunciati nei 14 cortei che vanno avanti:
e questo nella sola Milano. Poiché queste gravi tensioni presenti in
tutt'Italia assumevano spesso un aspetto quasi eversivo, i partiti di
centro-sinistra chiesero di applicare contro Forza Nuova la XII disposizione
transitoria della costituzione (“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi
forma, del disciolto partito fascista”) e presentarono varie mozioni
parlamentari a questo fine. Il Parlamento rinviò però ogni decisione. Nel
dibattito parlamentare e politico di quei giorni è stata richiamata più volte
la “Legge Scelba; poiché essa riporta alla memoria le tensioni ormai lontane
dell’immediato dopoguerra, vari giornali l’hanno illustrata ai lettori odierni:
La norma di riferimento è la legge. Meglio conosciuta come “legge Scelba” (dal
nome del politico Dc che, alla guida di un comitato interministeriale del
governo De Gasperi, la elaborò) rientra nelle norme di attuazione della XII
disposizione transitoria e finale della Costituzione: “E vietata la
riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” si
legge. La norma attua questo principio mettendo nero su bianco il concetto di
“riorganizzazione” del “partito fascista” e prevedendo due strade per lo
scioglimento dei gruppi: tramite il ministro dell’interno, sulla base di una
sentenza di un tribunale, oppure in maniera più diretta attraverso un decreto
del governo, ma solo in casi “straordinari di necessità e di urgenza”90, Delle
due vie prospettate nel 1952, il parlamento scelse quella della sentenza
giudiziaria, che permetteva di guadagnare tempo rinviando ogni decisione e
affidandosi così alla tanto criticata funzione suppletiva della magistratura:
suppletiva cioè della decisione politica cui non riescono a giungere i governi
deboli e le coalizioni troppo frammentate: Nessun vincolo arriva dal Parlamento
allo scioglimento di Forza Nuova. Le quattro mozioni del cen trosinistra che
chiedevano all’esecutivo di utilizzare la legge Scelba e di sciogliere con
decreto la for mazione di estrema destra, e i suoi simili, sono approdate oggi
pomeriggio in Senato. Ma, il tempo di presentarle, e sono state ritirate,
diventando un ordine del giorno unitario. Un atto cioè, d’indirizzo, ma non
vincolante. Che può essere letto come la legittimazione ulteriore di quello che
sembra essere l’orientamento del governo: prima di scrivere anche una sola riga
del decreto legge di scioglimento, aspettiamo che la magistratura si esprima
sui fatti del 9 ottobre, sulla devastazione della Cgil a Roma. Dopo un lungo
dibattito il Senato ha approvato per alzata di mano l’ordine del giorno del
centrosinistra: l’atto avrà poco più che una valenza simbolica®!, Il
condizionare lo scioglimento di un movimento neofascista all’esistenza di una
futura sentenza giudiziaria aveva tre precedenti. Da un lato, lo scioglimento
di movimenti neofascisti era già avvenuto con “lo scioglimento di Ordine Nuovo,
movimento sciolto dal Ministro dell’interno Taviani in seguito alla sentenza di
accertamento della ricostituzione del partito fascista, nel processo in cui era
pubblico ministero Vittorio Occorsio, poi [Giuzzi, Corteo no pass, un fermo e
83 denunciati, “Corriere della Sera” Bartoloni, Sanzioni e scioglimento dei
partiti fascisti, cosa prevede la legge Scelba repubblica.it/ politica
news/iter_scioglimento_partito_fascista Olivo, Su Forza Nuova la maggioranza si
sgonfia: il governo non sarà costretto a scioglierla huffingtonpost. it/entry/
su-forza-
nuova-la-maggioranza-si-sgonfia-il-governo-non-sara-costretto-ascioglierla _
it] ucciso in un attentato rivendicato proprio da Ordine Nuovo”; con lo
scioglimento di Avanguardia Nazionale; nel 2000 con lo scioglimento del Fronte
nazionale. D’altro lato, le esitazioni attuali del governo non sono infondate,
e i dubbi sull’opportunità dello scioglimento sono stati sintetizzati dai
giuristi Michele Ainis e Vladimiro Zagrebelsky: lo scioglimento rischierebbe di
provocare “un’inversione di prospettiva tra persecutore e perseguitato”
(Ainis), né esso è lo strumento più adatto a cancellare i rigurgiti neofascisti
(Zagrebelsky). Per fronteggiare il problema delle organizzazioni neofasciste la
“Legge Scelba” era stata attualizzata con la “Legge Mancino” che qui può essere
soltanto menzionata. Il governo Amato emanò il Decreto Legge n.122 contenente
“misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa” poi
convertito nella legge 205/93 e oggi conosciuta come Legge Mancino. La Legge
Mancino costituisce ancora oggi il principale strumento legislativo contro i
crimini d’odio, mirando a sanzionare e a prevenire le condotte di
discriminazione razziale, etnica e religiosa, attraverso il divieto di ogni
organizzazione movimento o gruppo che abbia tra i propri scopi l’incitamento
alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o
religiosi. L’art. 7 comma 3 della legge Mancino consente lo scioglimento di
organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che abbiano favorito la
commissione dei reati elencati dall’art. 5 della medesima Legge (oggi descritti
all’art. 604 fer del codice penale [64]). Si tratta di tutti quei reati commessi
per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o
religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni,
associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime
finalità” Ma qui conviene arrestarsi: il Parlamento ha approvato un atto che,
come si è detto, “avrà poco più che una valenza simbolica” mentre le
manifestazioni contro la “dittatura sanitaria” vengono strumentalizzate dai
nostalgici delle dittature tout court. Questa reviviscenza dell’estrema destra
non avviene solo in Italia. Sempre in quegli stessi giorni, il governo polacco
era coinvolto nella polemica (anche giudiziaria) sulla legge con cui vietava a
società straniere di possedere più del 49% di reti televisive o radiofoniche in
Polonia: in questo modo eliminava le catene critiche rispetto al governo, come
TVN24, controllata dall’americana Discovery International. Inoltre quello
stesso governo prendeva una misura che negava il risarcimento agli ebrei che
erano stati espropriati durante l’occupazione nazionalsocialista della Polonia,
entrando così in collisione con gli Stati Uniti: Prosegue il suo corso tra le
polemiche anche la legge che blocca i risarcimenti agli ebrei (e non ebrei)
espropriati durante la Seconda guerra mondiale e nella furia nazionalizzatrice
del regime comunista. Ponendo il limite massimo di 30 anni per la presentazione
del ricorso da parte degli ex proprietari, o degli eredi, il governo vanifica
in blocco tutte le istanze. Per chiudere definitivamente il capi- [Caputo,
Neofascismo e ordine democratico: sciogliere Forza Nuova necesse
est,“Micromega” micromega.net/sciogliere-forza-nuova/). Caputo analizza anche
la “Legge Mancino” appena accennata nel testo. Ivi; e Vladimiro Zagrebelsky,
“La Stampa” lastampa.it/ topnews/lettere-eidee/10/16/
news/i-pro-e-i-contro-di-un-decreto-su-forza-nuova. 64 Per un’analisi del
contenuto di queste norme: Modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del codice
penale, in materia di violenza o discriminazione per motivi di sesso, di
genere, di orientamento sessuale o di identità di genere A.C. 107, A.C. 569,
A.C., A.C. 2171, A.C. 2255 Dossier Il testo unificato adottato come testo base
documenti camera it leg (Dossier] tolo risarcimenti, e per giustificare la
decisione, il legislatore si è fatto forte di un complicato fardello pregresso
di atti giuridico-amministrativi, risalente ai decenni passati. Ma ciò che ha
scatenato l’ira degli Stati Uniti e di Israele sono state le allusioni al
rischio di possibili “tentativi di truffa” da parte di millantatori, indice per
Washington e Gerusalemme di una politica “cripto-antisemita” Non esplicita, ma
già nei fatti6S, Anche la Francia registra da tempo un crescente antisemitismo.
Nelle manifestazioni che ogni sabato scendono in campo contro la c.d. ‘dittatura
sanitaria’ in varie città della Francia “fioriscono dei numeri sull’avambraccio
(riferimento ai deportati nei campi di concentramento) o delle stelle gialle
sulla giacca (richiamo alla politica antisemita nazista)”66, Si moltiplicano le
scritte “Qui?” (Chi?), il cui valore antisemita va però spiegato. “Qui?” fa
riferimento a un’allusione antisemita del generale a riposo Dominique
Delawarde, che il 18 giugno 2021, in una trasmissione su CNews, continuava ad
accusare un complotto mondiale “qui contròle le Washington Post, /e New York
Times, chez nous [cioè in Francia] BFM-TV et tous les journaux qui viennent se
grouper autour”, senza però citare alcun nome. La ripetuta domanda “Chi?” resta
senza risposta, e il conduttore a questo punto interrompe la trasmissione. Ma
da quel momento la domanda “Chi?” diviene uno slogan degli antisemiti: il 7
agosto un’insegnante di destra, in una manifestazione contro la politica
sanitaria, inalbera un cartello con i nomi dei traditori — tutti ebrei —
accompagnati dallo slogan “Mais Qui?” (“Ma chi?”): e la “Q” è adorna di
diaboliche corna”. Riassumendo i fatti recenti — “Sui cartelli compaiono i
‘Chi? diretti contro la comunità ebraica, derivati da un’allusione antisemita
del generale a riposo Dominique Delawarde; su un centro di vaccinazione vengono
dipinte delle stelle di Davide; una stele in omaggio a Simone Veil, in
Bretagna, è stata vandalizzata tre volte in una settimana” “Le Monde” non può
fare a meno di chiedersi: “Que se passe-t-il en France?, E non solo in Francia:
Bergoglio condanna il crescente antisemitismo durante il suo viaggio in
Ungheria e Slovacchia, le cui comunità ebraiche avevano softerto molto durante
l’epoca nazionalsocialista, ma nelle quali l'antisemitismo stava riaffiorando
sotto i governi sovranisti di destra. Nel 1941 l’effimero Stato slovacco —
sot[Rosaspina, “I/ blocco dei risarcimenti contro gli ebrei è inaccettabile” Ma
il governo: avanti con la legge, “Corriere della Sera, Antisémitisme: le poison
de la banalisation lemonde.fr/ idees/article/2021/08/18
/antisemitisme-le-poison-de-la-banalisation Sur la pancarte figure une série de
noms de ‘traîtres’: plusieurs responsables politiques actuels, mais aussi une
dizaine de personnalités frangaises ou américaines, qui n’ont que peu de
rapport direct avec la gestion de la crise sanitaire. Le milliardaire américain
d’origine hongroise George Soros, le fondateur du forum de Davos, Klaus Schwab,
Bernard-Henry Lévy ou encore la famille Rothschild sont ainsi cités. Leur point
commun? Ils sont de confession juive. Au centre de la pancarte figure le slogan
en lettres rouges Mais Qui?”, dont le ‘O’ est agrémenté de cornes” (Samuel
Laurent - William Audureau, “Mass qui”, de la blague virale au slogan
antisémite. Au travers de cette question rhétorique, certains opposants à la
politique sanitaire ciblent la communauté juive, accusée d’étre responsable de
la crise liée au coronavirus, Publié à 16h28 — Mis à jour le 14 aoùt 2021 à
06h35 le monde. fr/ societe/article mais-qui- de-la- blague-virale-
au-slogan-antisemite. Cfr.
Le Monde, idees article antisemitisme-le-poison-de-labanalisation] to la guida
di Jozef Tiso, sacerdote cattolico dalla vita tormentata in un territorio
tormentato5? — aveva emanato un “codice ebraico” contenente misure antisemite
analoghe alle “Leggi di Norimberga” nazionalsocialiste del 1935 e a quelle
fasciste. La politica filo-nazionalsocialista di Monsignor Tiso aveva
imbarazzato non poco la Santa Sede. Con l'ascesa al potere del comunismo, era
giunta per Monsignor Tiso la condanna a morte per collaborazionismo: ma oggi
alcuni ambienti slovacchi ne propongono la riabilitazione. Il Pontefice
esortava “a promuovere insieme un’educazione alla fraternità, così che i
rigurgiti di odio che vogliono distruggerla non prevalgano. Penso alla minaccia
dell’antisemitismo, che ancora serpeggia in Europa e altrove. È una miccia che
va spenta. Ma il miglior modo per disinnescarla è lavorare in positivo insieme,
è promuovere la fraternità” Un analogo appello era risuonato in Ungheria:
“Parole, - commentava il quotidiano dei vescovi italiani, — che appaiono anche
come una risposta indiretta al premier Viktor Orbn, incontrato prima della
Messa, Negli stessi giorni, il congresso “Interfaith” — il G20 delle fedi —
rilanciava a livello interconfessionale la stessa condanna e annunciava la
preparazione di uno studio sugli attentati a sfondo religioso compiuti nel
mondo negli ultimi quarant’anni. Nel suo intervento, il presidente Mario Draghi
condannava espressamente le “manifestazioni di antisemitismo, un fenomeno in preoccupante
crescita”7!, Questo era dunque il clima in cui ci si preparava a ricordare
l’anniversario delle leggi razziali. Un esempio: la rievocazione dell’Accademia
delle Scienze di Torino L’Accademia delle scienze di Torino ricorda
l’ottantesimo anniversario della legislazione razziale del fascismo con un
convegno che si proponeva, “a 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali
da parte del regime fascista, di ricostruire le [Lorman, The christian social
roots os Jozef Tiso’ radicalism, 1887-1939, in Rebecca Haynes — Martyn Rady
(eds.), Jr the shadow of Hitler. Personalities of the right in central and
Eastern Europe, Tauris, London - New York; Graziano — Istvîn Eòrdògh Josef,
Tiso e la questione ebraica in Slovacchia. Prefazione di Antonello Biagini, Periferia,
Cosenza 2002, 143 pp.; Nardini, Tiso: una terza proposta, Ceseo Liviana,
Padova; Giannini, Monsignor Tiso, “Rivista di Studi Politici Internazionali,
Muolo, La visita. Il Papa a Budapest e Bratislava: “Mai più odio e chiusure, ma
fraternità” “L'Avvenire” 12 settembre 2021
(https://www.avvenire.it/papa/pagine/papa-budapest). Una descrizione degli
incotnri del Pontefice è in Domenico Agasso, Slovacchia, il Papa al Memoriale
dell’Olocausto incontra gli ebrei: con la Shoah “qui disonorato il nome di Dio”,“La
Stampa” lastampa. it/vaticaninsider/it/2021/ 09/13/ news/
slovacchia-il-papa-al-memoriale-dell-olocausto-incontra-gli-ebrei-con-lashoah-qui-disonorato-il-nome-di-dio-
Intervento del premier Draghi nell’ambito dell’Interfaith Forum, osservatorioantisemitismo.
it/articoli/intervento-del-premier-
mario-draghi-nellambito-dellinterfaithforum] linee essenziali delle radici
ideologiche e politiche della persecuzione, il suo svolgimento e i suoi
risultati per dare un contributo al rinnovarsi della memoria e per stimolare le
dovute riflessioni in un mondo in cui si continuano ad alimentare odii etnici e
risentimenti” Il programma così annunciato costituisce la cornice delle nove
relazioni, pubblicate in volume a metà del 2021 (a causa della pandemia, come già
ricordato nel $ 1). Il curatore del volume, Piazza, professore di genetica a
Torino), è anche autore del saggio di apertura, in cui ripercorre le teorie
razziali poste a fondamento della legislazione fascista e le confuta sulla base
delle teorie genetiche attuali, chiedendosi infine. Perché lo stereotipo
razziale è così difficile da estirpare. Gli altri saggi si occupano del
contesto in cui prese forma la legislazione razziale fascista, delle reazioni
che essa suscitò in generale, nella società italiana e nella Chiesa cattolica;
nonché delle reazioni in specifici ambienti: l'università, la magistratura, la
comunità dei matematici, l’istruzione e l’avvocatura. Fabio Levi, già
professore di storia contemporanea all’Università di Torino, sintetizza la
transizione degli italiani da una posizione di indifferenza rispetto alla sorte
degli ebrei a una maggiore attenzione per la loro sorte: ma non sempre e
ovunque. Questa transizione correva parallela allo scoppio della guerra,
all’aggravarsi del suo svolgimento in Grecia e in Russia, ai bombardamenti
alleati del 1942, all’arresto di Mussolini il 25 luglio 1943, all’armistizio
dell’8 settembre, alla fuga del re, alla nascita di una repubblica fascista
asservita ai nazionalsocialisti. “Il trauma dell’armistizio aveva ridotto di
molto la distanza residua fra ebrei e non ebrei. Sia gli uni sia gli altri
erano vittime della stessa guerra”: presi nella morsa della persecuzione
antiebraica e delle distruzioni belliche, “gli ebrei tentarono la sorte
affidandosi al mondo che avevano intorno” e “in queste condizioni si rese
possibile un incontro inaspettato: quello con gli italiani non ebrei. Due saggi
riprecorrono la storia del razzismo prima della legislazione razziale. Massimo
Salvadori - dopo aver sottolineato che il razzismo moderno, a differenza di
quello delle società antiche e di quello fondato sulle religioni, non offre
“una via d’uscita dalla condizione degli appartenenti alle razze inferiori o
intrisecamente nemiche traccia una sintetica storia del razzismo a partire dal
Seicento, “il secolo definito della,rivoluzione scientifica”: Infatti
scienziati, teologi e filosofi sostennero non soltanto la differenza, ma anche
la gerarchia delle razze e, con quest’ultima, anche il diritto della razza
superiore a dominare quella inferiore. Insomma, da Linneo a Gobineau è “agevole
scorgere elementi che si possono definire di proto-nazismo. Ma è con il
Novecento (e con l’opera di Steward Notizie sul convegno sono contenuti in vari
siti (per esempio: https://\www.unito.it/eventi/le-leggirazziali-convegno-allaccademia-delle-scienze;
i filmati dell’intero convegno sono in:
accademiadellescienze.it/attivita/iniziative-culturali/le-leggi-razziali).
Piazza (cur.), Le leggi razziali,Il Mulino, Bologna, Piazza, La scienza
contemporanea e le ceneri del razzismo, in Piazza, Le leggi razziali del 1938,
cit., p.- 24: le indicazioni tra parentesi dopo le citazioni si riferiscono a
questo saggio. Levi, Le risposte della società italiana, in Piazza, Le leggi
razziali: le indicazioni tra parentesi dopo le citazioni si riferiscono a
questo saggio. 76 Massimo Salvadori, I/ razzismo prima di nazismo e fascismo,
in Piazza, Le leggi razziali del 1938, cit., pp.119132: le indicazioni tra
parentesi dopo le citazioni si riferiscono a questo saggio.] Chamberlain, “una
sorta di bibbia del razzismo novecentesco” p. 35) che le teorie razziali
sanciscono l’assoluta superiorità degli ariani e l’insanabile contrasto con gli
ebrei. In Chamberlain questi ultimi “subiscono una sorta di jelevazione’, in
quanto sono visti quale l’altra razza che [...] è la sola che possa contrastare
il dominio dei teutoni nel mondo”; quindi “la via allo sterminio degli ebrei e
alla riduzione degli slavi e delle altre etnie considerate inferiori era
spianata dal programma formulato da Chamberlain” (p. 35). Hitler mise in
pratica questo piano “e nel 1938 il servile dittatore nostrano si mise al carro
di quello tedesco col varare le leggi razziali. Il saggio di Gentile,
professore di diritto a Milano, considera nel suo insieme la legislazione antiebraica
del fascismo un fenomeno di rara complessità e descrive al suo interno quattro
fasi, che analizza poi in dettaglio: “Un primo frangente è quello degli
antefatti e della preparazione del dispositivo discriminatorio, un secondo
momento è costituito dalle norme vere e proprie, un terzo dalle circolari
amministrative — superamento delle norme —, un quarto e ultimo stadio è quello
in cui si travalicano le circolari stesse: la fase, buia oltre ogni dire, della
Repubblica sociale italiana” Viene descritta quindi “una paurosa gradazione
ascendente” in cui si passa dalla “persecuzione dei diritti” alla “persecuzione
delle vite. Ancora una volta l’esperienza coloniale è additata come fonte della
discriminazione razziale: “È proprio in colonia che si adoperano, veicolano e
immettono nel circuito, nel panorama e nel linguaggio giuridico concetti e
categorie nuove a cui si fa riferimento in fase di elaborazione della normativa
antiebraica. Anzi, il maggior portato dell’esperienza coloniale fu
probabilmente la giuridicizzazione del concetto di razza. Di fronte al
Manifesto della razza, la Chiesa cattolica espresse un cauto rifiuto attraverso
posizioni non omogenee. Da un lato, Pio XI condannò il razzismo antisemita, ma,
d’altro lato, l’articolata gerarchia della Chiesa assunse atteggiamenti
variamente sfumati: Francesco Traniello, già professore di storia a Torino, li
riconduce alla “viva preoccupazione che la politica dell'Asse, inaugurata da
MUSSOLINI, stesse portando a un’omologazione ideologica e fattuale del regime
fascista a quello nazionalsocialista” col suo razzismo paganeggiante del sangue
e della terra, condannato sotto il profilo dottrinale dall’enciclica papale Mit
brennender Sorge Il punto cruciale era però “l’interconnessione tra la
questione ebraica e quel sistema di relazioni con il regime fascista che, per
quanto possibile, la Chiesa non intendeva mettere a repentaglio, sistema
sancito dal Concordato che aveva ulteriormente innalzato il livello del
supporto consensuale della Chiesa all'opera di Mussolini. Di conseguenza,
“l’incidenza della linea negoziale adottata dalla Santa Sede sul complesso
della legislazione antisemita fu [Gentile, Le premesse della campagna razziale
dell’Italia fascista: profili politici e storico-giuridici, in Piazza, Le leggi
razziali: le indicazioni tra parentesi dopo le citazioni si riferiscono a
questo saggio. Traniello, Le risposte della Chiesa cattolica alla legislazione
e alla politica antisemita del regime fascista, in Piazza, Le leggi razziali:
le indicazioni tra parentesi dopo le citazioni si riferiscono a questo saggio.]
nell’insieme molto limitata, riducendosi a qualche aggiustamento normativo
ottenuto dai contatti ufficiali e più spesso informali”: ad esempio, lo Stato
non avrebbe considerato “concubinato, penalmente perseguibile, la fattispecie
di matrimoni razzialmente misti celebrati con rito cattolico” ovvero avrebbe
considerato l’appartenenza “alla razza ‘non ebraica’ dei figli di matrimoni
misti nati dopo che fossero stati battezzati entro cinque giorni dalla nascit.
Il mondo universitario italiano era stato colpito nel 1931 dall’obbligo dei
docenti di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, cui pochi si erano
sottratti7?. Ben più gravi erano invece i vuoti che si aprivano con le leggi
razziali80. Annalisa Capristo, bibliotecaria presso il Centro di Studi
Americani, raccoglie una nutrita schiera di testimonianze e sottolinea che “per
decenni l’Italia non ha fatto veramente i conti con il suo passato razzista e
antisemita” Una valutazione “è stata compiuta solo a partire dal 1988 ed è
tuttora in corso e “uno degli ambiti più studiati è quello accademico” per tre
ragioni: la presenza ebraica vi era rilevante; il regime fascista diede
particolare enfasi a questo intervento; vi fu una forte compromissione dei FILOSOFI
e degli intellettuali non ebrei nella politica antisemita del fascismo. Queste
considerazioni vengono approfondite con documenti sugli atteggiamenti di
GENTILE (si veda), CROCE (si veda), EINAUDI (si veda), del quale vengono
riportate annotazioni diaristiche con inveterati stereotipi antisemiti, seguite
dall’“allineamento zelante dei matematici italiani e dalla documentazione sugli
archeologi (“una testimonianza raggelante). Opposta fu la posizione
dell’economista Attilio Cabiati (destituito per aver scritto al Ministro delle
Finanze di ritenere “antigiuridica” la normativa razziale, p. 118) e del
costituzionalista Ernesto Orrei, di cui — per sbaglio! venne pubblicato il
libro in cui esprimeva il proprio sdegno per l’epurazione dei docenti ebrei. La
scuola e la biblioteca sono come le chiese dello stato moderno. Non si respinge
nessuno. Il tema dei matematici italiani espulsi è ripreso da Valabrega,
professore di geometria a Torino, che si fonda soprattutto sulle informazioni
avute da colleghi più anziani, che hanno conosciuto direttamente — o attraverso
testimonianze dirette i fatti, e ne hanno parlato con me in tante
conversazioni. Ne risulta un contributo ricco di dati individuali, anche di
matematici non ebrei. Fra i tanti nomi, vanno ricordati tre matematici non
ebrei, ma “molto contrari alle leggi razziali: Tullio Viola a Roma e, a Torino,
Buzano e Tricomi. Quest’ultimo, “contrario al Goetz, Il giuramento rifiutato. I
docenti universitari e il regime fascista, La Nuova Italia, Firenze; e la
recensione di L. in “Sociologia del diritto. L’elenco dei professori ebrei
espulsi è in Ugo Caffaz, Discriminazione e persecuzione degli ebrei nell'Italia
fascista, Consiglio Regionale della Toscana, Firenze. Capristo, Le reazioni
degli ambienti FILOSOFICI accademici italiani, in Piazza, Le leggi razziali: le
indicazioni tra parentesi dopo le citazioni si riferiscono a questo saggio.
Orrei, Intorno alla questione ebraica. Lineamenti di storia e di dottrina,
s.n., Roma. Il volume venne subito ritirato dalle autorità, ma è oggi presente
in alcune biblioteche. Valabrega, La legislazione antiebraica: la comunità
matematica italiana, in Piazza, Le leggi razziali: le indicazioni tra parentesi
dopo le citazioni si riferiscono a questo saggio.] fascismo da sempre, addirittura
si convertì, pur non essendo religioso, alla religione valdese, perseguitata
dal fascismo. In Val Pellice [una delle “valli valdesi” del Piemonte] si
rifugiò, partecipando per un breve periodo alla lotta partigiana. L’impatto
delle leggi razziali sull’università che si è già visto nell’analisi di
Annalisa Capristo viene ripreso daVidari, professore di storia del diritto
medievale a Torino, che ricorda come Torino abbia “espulso con zelo
amministrativo 58 persone: a ricordo ed espiazione l'Ateneo da poco ne ha
tracciato con un’apposita, efficace e dettagliata mostra nel palazzo del
Rettorato tutte le vicende personali e scientifiche, connesse con la propaganda
razzista Le autorità accademiche del tempo si limitarono a dare scarne notizie
su quegli allontanamenti: solo all'Accademia di medicina di Torino il
presidente Luigi Bobbio (padre di Norberto) “ha dato la notizia della
decadenza, ma con un’espressione di stima e di ringraziamento per i soci
allontanati: si tratta di un accenno gentile, non frequente, ripetuto in Italia
in qualche altra rara occasione. L’esame di altri gruppi professionali conferma
un’immagine di sostanziale acquiescenza al regime. L’analisi del comportamento
della magistratura italiana di fronte alle leggi razziali può essere approfondito
partendo dalla bibliografia pubblicata da Giuseppe Speciale nel suo volume del
2007 e aggiornata in un suo successivo articolo8S. Inoltre è particolarmente
viva la testimonianza di chi, all’epoca delle leggi razziali, fu un giovane
magistrato di prima nomina: Alessandro Galante Garrone, eminente figura
dell’antifascismo, che esamina con equilibrio la situazione della magistratura
negli anni della dittatura — e i suoi cedimenti: “Episodi più che altro penosi,
patologici. Diciamo ancora che questa magistratura scorata e avvilita ebbe,
proprio sotto la repubblica di Salò e il tallone tedesco, qualche sussulto di
fierezza, come il non prestare giuramento e qualche energica protesta
collettiva, in varie regioni italiane. Ma nel complesso, di fronte alle leggi razziali
del 1938, essa ebbe, più che tutto, imbarazzo e disagio di coscienza: scantonò
e tacque. Tutto sommato, penombre, e qualche ombra più o meno densa, e qualche
debole luce, Sulla magistratura durante l’epoca fascista è opportuno limitarci
a questi accenni, e ritornare al volume dell’Accademia delle Scienze torinese.
In esso Guido Neppi Modona, già pro-[Vidari, La legislazione antiebraica, con
la sua applicazione in Piemonte nel campo dell'istruzione e dell’avvocatura, in
Piazza, Le leggi razziali: le indicazioni tra parentesi dopo le citazioni si
riferiscono a questo saggio. 85 Giuseppe Speciale, Giudici e razza nell'Italia
fascista, Giappichelli, Torino, La giustizia della razza. I tribunali e l'art.
26 del r.d., in Lacchè, Il diritto del Duce. Giustizia e repressione
nell’Italia fascista, Donzelli, Roma; l'aggiornamento bibliografico. Inoltre:
Speciale, Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano. Razza, diritto,
esperienze, Pàtron, Bologna, Vedi anche: Ernesto De Cristofaro, Una figura
paradossale della legge: il diritto razzista, Speciale, Giudici e razza negli
anni della discriminazione: voci dalle sentenze; in Ruggieri, Io sono l’altro
degli altri: l’ebraismo e il destino dell’Occidente, Firenze, Giunti, Garrone,
Amalek, il dovere della memoria, cit.; in particolare, il capitolo La memoria
dell’offesa, che contiene A quarant'anni dalle leggi antiebraiche, e
Cinquant’anni dopo: ricordi e rilessioni di un giudice] fessore di diritto e
procedura penale nell'Università di Torino, ricorda che, all’entrata in vigore
delle leggi razziali, il ministero della giustizia chiese che i singoli
magistrati dichiarassero di non appartenere alla “razza ebraica”. Magistrati
vennero dispensati d’ufficio, mentre quattro chiesero di essere messi a riposo:
“non risulta che alcuno dei magistrati in servizio abbia preso in qualche modo
le distanze dall’espulsione. È “l’immensa palude abitata da figure silenti”
evocata da Saverio Gentile88. Molti però non rimasero silenti, ma anzi
parteciparono attivamente alle riviste razziste del regime: “La difesa della
razza” “La nobiltà della stirpe” e, in particolare, “Il diritto razzista” Neppi
Modona elenca pagine di nomi e funzioni, e constata — con un elenco di casi
esemplari — che a guerra finita nessuno è stato condannato. Non poteva mancare
la carriera Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della razza, poi nel
dopoguerra “Ministro della Giustizia nel primo Governo Badoglio, consulente
giuridico del guardasigilli Togliatti, infine presidente del Tribunale
superiore delle acque pubbliche. In pensione è nominato dal presidente Gronchi
giudice della Corte costituzionale, di cui diviene presidente eletto dai suoi
colleghi della Corte sino all’anno della morte. Al Tribunale della razza
appartenevano anche Antonio Manca e Giuseppe Lampis, anch’essi divenuti giudici
costituzionali nel dopoguerra. Ecco la loro (vittoriosa) difesa: il Tribunale
della razza era “una commissione tecnico-giuridica, composta in prevalenza di
magistrati, che consentiva di far dichiarare ariane persone che agli atti dello
stato civile risultavano ebree. Parecchie famiglie israelite furono così
sottratte ai rigori della legge” Infine, Oggioni passa dal tribunale di
cassazione della RSI alla Corte costituzionale dell’Italia postbellica:
nominato da parte del Presidente della repubblica Giuseppe Saragat, fu
vice-presidente di quella Corte. Non mancarono però magistrati con la “spina
dorsale” come Peretti Griva?0 (una cui sentenza su questioni razziali provocò
circolari di rimbrotto perché in contrasto con la posizione del Ministero degli
interni) e altri ancora di cui Neppi Modona rende conto. In questa indagine
egli ha esaminato “una fonte inedita, i verbali delle adunanze del Consiglio
giudiziario del distretto di corte d’appello di Torino nel decennio dal 1937 al
1946” sulla valutazione dei magistrati. Su quelle “centinaia di pareri i
riferimenti alla razza sono episodici e casuali, in tutto solo quattro; da essi
“non risulta che alcuno abbia manifestato un sia pur Modona, La magistratura e
le leggi raziali 1938-1943, in Piazza, Le leggi razziali: le indicazioni tra
parentesi dopo le citazioni si riferiscono a questo saggio. 88 Saverio Gentile,
La legalità del male. L'offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella
prospettiva storico-giuridica, Giappichelli, Torino, Ulteriori notizie in Boni,
Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale, “Contemporanea
academia. edu Azzariti_ dal_ tribunale_della razza alla corte costituzionale).
Una precisa descrizione della sua carriera è in Antonella Meniconi, La
magistratura e la politica della giustizia durante il fascismo attraverso le
strutture del ministero della giustizia, in Luigi Lacchè (ed.), I/ diritto del
Duce, Campobello (a cura di), Una spina dorsale. Domenico Riccardo Peretti
Griva: magistrato, antifascista, fotografo, Edizioni SEB, Torino, Garrone,
Peretti Griva: una spina dorsale, “Nuova Antologia] timido dissenso o riserva
nei confronti della politica razziale del regime o, al contrario, abbia
manifestato adesione a tale politica” (p. 154). Se ne può concludere che
“l’alta e la bassa magistratura si sono trovate accomunate nel medesimo
processo di rimozione della legislazione e della politica razzista del
fascismo”; di conseguenza, “quali che siano stati i motivi della rimozione, la
realtà è che i conti con il passato filo-razzista della magistratura italiana
sono ancora tutti da fare. Nei tribunali operavano anche numerosi avvocati e
procuratori, fra i quali l’epurazione venne realizzata con la legge. La
situazione del Piemonte è stata descritta sulla base di documenti inediti:
“Obiettivo della legge fascista era la cancellazione dei professionisti ebrei
dai rispettivi albi”; però veniva istituito un “albo aggiunto” per includervi
“gli ebrei ‘discriminati’ per particolari meriti nazionali (cioè ARIANIZZATI,
come si è visto): “nell’albo torinese dopo i avvocati ARIANI sono aggiunti in
calce l’ebrei discriminati, e quindi riparificati agl’ARIANI. Salvadori
concludeva il convegno torinese con una constatazione non basta accrescere la
conoscenza: occorre coltivare la memoria” e con un quesito che si dovrebbe
sempre tener presente: sarebbe necessario che “chi ha la fortuna di vivere in
tempi migliori di quelli che abbiamo evocato e di cui abbiamo qui scritto non
ceda ai facili eccessi di moralismo nei confronti di coloro che piegarono la
schiena per salvaguardare se stessi e che domandi con sincerità a se stesso:
‘To che cosa avrei fatto, avrei superato la prova? Una guida: i ricordi di
Segre Gli astratti furori delle norme antiebraiche si sono tradotti nelle
concrete softerenze di milioni di individui, quando non nella loro morte spesso
atroce. A partire dal dopoguerra molte persone hanno descritto la loro propria
tragedia, affinché non si dimenticasse l’orrore che avevano vissuto, nella
convinzione che il tramandarne la memoria avrebbe (forse) impedito il ripetersi
di tragedie analoghe. Nel settembre del 1938 Liliana Segre era una bambina
milanese otto anni, espulsa dalla scuola perché ebrea. A 13 anni venne
deportata ad Auschwitz, dove morirono suo padre ed entrambi i nonni paterni.
Sopravvissuta al campo di concentramento e tornata in Italia, rimase in
silenzio per anni, poi condivise i suoi ricordi con migliaia di giovani, che
incontrò durante trent'anni di costante impegno nelle scuole di tutt'Italia.
Proprio nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziste, già ricordato più
volte — Segre venne nominata senatrice a vita. A novant’anni incontra i giovani
di una comunità di Arezzo per quella che lei stessa definì la sua “ultima
testimonianza pubblica Per un quadro generale: Neppi Modona, La magistratura
dalla liberazione agli anni Cinquanta, in Storia dell’Italia repubblicana, vol.
III/2, Einaudi, Torino, Salvadori, Conclusioni, in Piazza, Le leggi razziali]
inclusa in un volume insieme con altri documenti?3. Questa testimonianza è ora
affidata alla lettura di ciascuno di noi e va meditata nel silenzio delle
nostre coscienze. Le testimonianze individuali si sono moltiplicate nel corso
degli anni, anche sotto la pressione delle rinascenti simpatie per gli
autoritarismi tanto attuali quanto passati (qui evocate nel $ 3). La
testimonianza di Segre è accompagnata da un elenco selettivo di Libri di altri
sopravvissuti. Però la memorialistica su quegli anni è più estesa: è già stato
citato il libro di Giorgio Del Vecchio; altri ancora affiorano ripensando anche
alle persone che abbiamo conosciuto?4; e indelebile è il ricordo della mia
insegnante al Liceo Galvani di Bologna, Sandra Basilea, che ci leggeva in
veneziano Giacinto Gallina e che ci commosse con il suo libro Sez viva Anne?:
“Io li amo i miei ragazzi. E ne ho sempre tanti. Ragazzi e ragazze” Parlava a
noi (“non c'è nulla di più bello che due occhi di adolescente che ascoltano un
argomento più grande di noi”) rivolgendosi ad Anna Frank, e si presentava così:
“Chi sono? Sono una superstite di quell’orribile marasma. Sono viva. Scampata
per miracolo. Vivo ancora. Sono passati ormai più di dieci anni da quel lontano
1945. Ma vi sono anni della vita che non si dimenticano più. Incidono nel
sangue”95, Per Sandra Basilea, l’uscire in un giorno di primavera dalla stanza
dove era rimasta nascosta per 550 giorni è un ricordo imperituro, ma —
guardandosi intorno nel fervore del dopoguerra — si chiede. Non sono troppi gli
immemori?”; e conclude sulla salutare inevitabilità dell’oblìo: “Tutti forse
dimentichiamo. Forse è destino che sia così. Dobbiamo anche dimenticare.
Dimenticare i dolori per riprendersi, i rancori per perdonare, la vita passata
per quella futura che si evolve e procede instancabilmente. Se Basilea si
sofferma sull’oblio individuale, vedremo come Ernest Renan lo estenda alla vita
di un’intera nazione, quando essa esce da una catastrofe fortemente divisiva.
La curatrice del volume di Segre, Rastelli, ha arricchito il volume di
interessanti Approfondimenti: una Nota biografica su Liliana Segre, una
Cronologia che ripercorre con chiarezza gli eventi storico-politici e, infine,
delle Proposte di lettura e documenti sulla Shoah italiana, che comprendono la
bibliografia dei Libri di Liliana Segre, i Libri di altri sopravvissuti
(ricordati poco sopra) e una selezione di volumi suddivisi per argomento.
Segre, Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoa.
Prefazione di Ferruccio de Bortoli. A cura di Alessia Rastelli, Solferino,
Milano Per esempio, Ottolenghi, Per un pezzo di patria. La mia vita negli anni
del fascismo e delle leggi razziali, Blu Edizioni, Torino.; Ottolenghi, Ricordi
di un “gagno” di “Giustizia e libertà”, “Micromega” (avvocato, figlio
dell’internazionalista Giuseppe Ottolenghi dell’Università di Torino). “Gagno”
significa bambino o ragazzo in piemontese. Basilea, Sei viva Anne?, Cappelli,
Bologna. Su Basilea: Corsi, La persecuzione narrata, in Grasselli, Stranzeri in
patria: gli ebrei bolognesi dalle leggi antiebraiche, Pendragon, Bologna; in
questo volume sono analizzati anche altri testi memorialistici di ebrei
scampato] Forse i più giovani non hanno presente il convulso sovrapporsi di
eventi; però è necessario ripercorrerli a grandi linee — seguendo la Cronologia
di Alessia Rastelli sopra ricordata — per rendersi conto dell’intersecarsi e
del sovrapporsi di eventi spesso in reciproco contrasto, perché riflessi d’una
realtà frammentata e contraddittoria. Gli anglo-americani sbarcano in Sicilia;
il Gran Consiglio del Fascismo depone Mussolini e il Re e Imperatore Vittorio
Emanuele III lo fa arrestare; il governo firma l’armistizio con gli alleati e
fugge da Roma; i tedeschi occupano l’Italia centro-settentrionale e
inell’Italia del Nord nasce la REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA. Essa è guidata dal
Partito Fascista Repubblicano, il cui programma è contenuto nel Manifesto di
Verona, in cui si legge. Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri.
Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica. In stretta
collaborazione con i nazisti inizia così la deportazione degl’ebrei italiani. A
simbolo di questo nuovo corso assurge la deportazione in Germania, di oltre
mille ebrei romani, dei quali soltanto sedici sopravvissero. Da Milano partono
i treni per Auschwitz che deportano anche Levi e Segre. Si intensifica la lotta
partigiana e viene costituito il governo di unità nazionale presieduto da
Badoglio; gli alleati liberano Roma e sbarcano in Normandia. L’Italia è divisa
in due, con l’esercito della RSI che, a fianco dei tedeschi, combatte contro
gli angloamericani che risalgono la penisola, affiancati dall’esercito regio di
Badoglio; una parte dei militari fascisti si sbanda (“Tutti a casa” è appunto
il titolo del celebre film di Comencini su quei giorni); altri passano alla lotta
partigiana; altri entrano nell’esercito di Salò. Ma molti rifiutano di servire
sia nella RSI sia sotto i tedeschi e vengono internati in Germania. È la tacita
resistenza degl’Internati Militari Italiani, non meno eroica della resistenza
armata. L’esercito sovietico libera Auschwitz; il Comitato di Liberazione
Nazionale ordina l’insurrezione generale contro i nazi-fascisti: è la data
della Liberazione oggi festa nazionale; si suicida Hitler e la Germania si
arrende; gli americani sganciano le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e il
Giappone si arrende. La Seconda Guerra Mondiale è finita. Iniziano i processi
di Norimberga contro i criminali nazionalsocialisti e inizia il processo di
Tokyo contro i militaristi giapponesi, mentre per l’Italia si registra una
mancata Norimberga. Accanto a questa “grande storia” dell’Italia scorre la
“piccola storia” quotidiana degli italiani: bombardamenti, sfollamenti, tessere
annonarie, rappresaglie dei nazisti e dei “repubblichini” azioni anche
arbitrarie dei partigiani, mentre la lotta per i grandi ideali (dell’una e
dell’altra parte) si interseca con meschine e violente rivalse politiche e
vendette personali. 27 Michele Battini, La mancata Norimberga italiana,
Laterza, Bari-Roma 2003, XII-189 pp.; Filippo Focardi, Criminali a piede
libero: la mancata “Norimberga italiana”, in Giovanni Contini - Filippo Focardi
—- Marta Petricioli (a cura di), Memoria e rimozione: i crimini di guerra del
Giappone e dell’Italia, Viella, Roma Atti del Convegno tenuto a Firenze nel
2007); Guido Caldiron, La mancata Norimberga italiana, in Ora e sempre
Resistenza, “Micromega. L’ITALIA DIVIENE UNA REPUBBLICA PARLAMENTARE,
ricostruisce un suo apparato statale che — oltre a garantire il funzionamento
della nazione - deve anche punire i reati commessi nel convulso triennio appena
trascorso. In particolare, deve punire i reati commessi dai fascisti, e deve
farlo nell’ambito della nuova legalità repubblicana, i cui tribunali sono però
ancora in maggioranza retti da magistrati con un passato di acquiescenza al
fascismo. L’Italia esce da una guerra mondiale, ma anche da una guerra civile,
lasciandosi alle spalle un’epoca nella quale le istituzioni monarchiche e
fasciste hanno goduto di un largo appoggio popolare. Un quesito ineludibile si
pone alle nuove istituzioni repubblicane: devono assumersi l’onere di reprimere
i reati fascisti, come ad esempio i reati connessi alle leggi antiebraiche?
Fiat justitia et pereat mundus? La nuova repubblica preferì la via della pace
sociale e della conciliazione, che però è anche la via dell’impunità:
l’“amnistia Togliatti” si colloca in quest’Italia dilaniata dal passato, divisa
sul presente ma fiduciosa nel futuro. Tra giusta punizione e pace sociale:
“l’amnistia Togliatti. Dopo i tormentati giorni successivi all’armistizio e la
conclusione delle attività militari sul territorio italiano, nel tentativo di
salvare la monarchia Vittorio Emanuele II abdicò il 9 maggio 1946 a favore del
figlio Umberto II, che era stato Luogotenente Generale del REGNO D’ITALIA: è
sua la firma sui decreti luogotenenziali esaminati tra poco. Il referendum
istituzionale trasformò l’Italia in repubblica e quindi UMBERTO II - il “re di
maggio” — DOVE PARTIRE PER L’ESILIO. Nel contempo, sotto la guida di Alcide De
Gasperi, veniva formato il primo governo repubblicano, il cui ministro della
giustizia era Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano: un
inevitabile riconoscimento della rilevanza avuta dai comunisti nella lotta di
Liberazione, destinato però a non avere seguito. Togliatti fu vice-primo
ministro nel 1944-45 e Ministro di Grazia e Giustizia: in quest’ultima veste
varò l’amnistia che prese il suo nome e che verrà qui brevemente esaminata,
avendo come testo di riferimento una recente analisi soprattutto
tecnico-giuridica, cioè penalistica, di quest’amnistia?8. Il suo autore, Paolo
Caroli, sintetizza così la sua opera: “Nel primo capitolo si offre una
ricostruzione del contesto storico-giuridico della transizione italiana, sia
con riferimento ai delitti fascisti che a quelli commessi dai militari italiani
all’estero, ai delitti della Resistenza e a quelli dei militari tedeschi. Il
secondo capitolo si concentra sull’amnistia Togliatti, analizzan- [Caroli, I/
potere di non puntre. Uno studio sull’amnistia Togliatti, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, Fonti e Studi per il Diritto Penale, collana diretta da
Sergio Vinciguerra e Gabriele Fornasari, n. 2); le indicazioni tra parentesi
dopo le citazioni si riferiscono a questo saggio. Cfr. in particolare: il
grande ripiegamento”: dalla pena alla clemenza; 2.7. L’esercizio del potere di
clemenza: l’amnistia Togliatti; 2.8. Gli interventi di clemenza successivi, e
due capitoli di analisi dell’amnistia Togliatti, pp. 101-211; importante la
Brbliografia] do i delitti a cui si applica ed evidenziando lo iato tra /aw in
the books e law in action. Il terzo capitolo sottopone il provvedimento di
amnistia a un sindacato critico, ricorrendo a un duplice parametro: da un lato
i criteri offerti dalla dottrina penalistica, dall’altro quelli della giustizia
di transizione e del diritto penale internazionale. Il quarto capitolo allarga
lo sguardo alla transizione nel suo insieme, comparando l’esperienza italiana
con quella spagnola e sudafricana” ma affrontando anche un problema italiano
recente, cioè confrontando l’esperienza postbellica “con ciò che avvenne nel
passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, in quella stagione nominata
Tangentopoli”9 Nel quinto capitolo, infine “si sviluppano considerazioni più
generali sulla clemenza collettiva e sulla non punibilità” nell’Italia di oggi.
Nella fase postbellica di transizione anche istituzionale vennero emanati
anzitutto due decreti luogotenenziali per il perseguimento penale dei reati
commessi sotto il fascismo: uno sulla Purzizione dei delitti e degli illeciti
del fascismo, l’altro sulle Sanzioni contro il fascismo! Quest'ultimo — che può
essere considerato “la Magna Charta della giustizia transizionale italiana —
istituisce l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo e individua
le fattispecie penali che saranno giudicate dalle Corti Straordinarie d'Assise
(CAS), poi Sezioni speciali delle Corti d’Assise: Sono abrogate tutte le
disposizioni penali emanate a tutela delle istituzioni e degli organi politici
creati dal fascismo. Le sentenze già pronunciate in base a tali disposizioni
sono annullate. I membri del governo fascista, e i gerarchi del fascismo,
colpevoli di aver annullate le garanzie costituzionali, estinte le libertà
popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del Paese
condotto alla attuale catastrofe, sono puniti con l’ergastolo e, nei casi di
più grave responsabilità, con la morte. Essi saranno giudicati da un’Alta Corte
di giustizia composta di un presidente e di otto membri, nominati dal Consiglio
dei Ministri fra alti magistrati, in servizio o a riposo, e fra altre
personalità di rettitudine intemerata. Art. 3. Coloro che hanno organizzato
squadre fasciste, le quali hanno compiuto atti di violenza o di devastazione, e
coloro che hanno promosso o diretto l’insurrezione sono puniti secondo l’art.
120 del Codice penale. Rilevanti i due paragrafi sulla “transizione degli anni
’90”: “Il diritto penale per uscire dalla guerra e il diritto penale per uscire
da Targentopoli: a. Un elemento di differenza fra le due transizioni: sulla
maggiore responsabilità del legislatore; 6. Un elemento di analogia e
continuità: l’abdicazione del legislatore e la responsabilità lasciata alla
magistratura. Rispettivamente: Decreto Legislativo Luogotenenziale, Punizione
dei delitti e degli illeciti del fascismo; Decreto Legislativo Luogotenenziale,
Sanzioni contro il fascismo (“Gazzetta Ufficiale” serie speciale). Sull’insieme
delle norme di quei giorni: Massimo Donini, La gestione penale del passaggio
dal fascismo alla Repubblica in Italia,“Materiali per una storia della cultura
giuridica”; Nello Martellucci, Le sanzioni contro il fascismo ed il Priulla,
Palermo. L’articolo del codice penale italiano citato nel titolo ha il seguente
contenuto: “False dichiarazioni sulla identità 0 su qualità personali proprie o
di altri.Chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli precedenti,
interrogato sulla identità, sullo stato o su altre qualità della propria o
dell’altrui persona, fa mendaci dichiarazioni a un pubblico ufficiale o a persona
incaricata di un pubblico servizio, nell’esercizio delle funzioni o del
servizio, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Coloro che hanno
promosso o diretto il colpo di Stato e coloro che hanno in seguito contribuito
con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista sono puniti secondo
il Codice stesso. Chiunque ha commesso altri delitti per motivi fascisti o
valendosi della situazione politica creata dal fascismo è punito secondo le
leggi del tempo. I delitti preveduti dall’articolo precedente sono giudicati, a
seconda della rispettiva competenza, dalle Corti d’assise, dai Tribunali e dai
Pretori. Le Corti d’assise sono costituite dai due magistrati, previsti dal
Testo unico delle disposizioni legislative sull’ordinamento delle Corti di
assise, e da cinque giudici popolari estratti a sorte da appositi elenchi di
cittadini di condotta morale e politica illibata. Seguono poi le pene, delle
quali vengono qui di seguito presentati soltanto alcuni esempi, che richiedono
però una spiegazione preliminare. Il lettore di questo testo (e di altri ad
esso successivi, qui non riportati) può constatare come, nell’indicare i fatti
soggetti a punizione, vengano usati termini così vaghi, da lasciare largo
spazio all’interpretazione del giudice nello stabilire il livello di gravità
del comportamento, o addirittura l’esistenza del reato, e quindi nel decidere
se la pena vada comminata, e in che misura, oppure no. Questa vaghezza
terminologica può avere due cause. Una deriva dalla natura politica o fattuale
del comportamento punito, il quale non è quantificabile o comunque delimitabile
con precisione. Chi vive in un Stato totalitario, e per di più occupato da un
esercito nemico, nella propria attività professionale inevitabilmente
“collabora” con il nemico: a partire da quale momento questa inevitabile
“collaborazione” diviene colpevole “collaborazionismo In base all’art. 3 appena
citato, come distinguere gli “atti rilevanti a mantenere in vigore il regime
fascista” dagli atti irrilevanti a questo fine? L'altra causa della genericità
terminologica deriva dall’arrière pensée attribuibile al legislatore, che
pratica una politica giuridica simbolica, anche se in apparenza dura: il
legislatore compie il bel gesto di punire con severità certi comportamenti, sapendo
che quella severità verrà attenuata (e anche molto) perché l’applicazione di
quelle norme è affidata a una magistratura che ha ancora le sue radici
nell’epoca fascista, come si vedrà tra poco. Ecco ora il testo di alcune norme,
da considerare tenendo conto delle osservazioni sin qui svolte sulla loro
terminologia: Art. Chi, per motivi fascisti o avvalendosi della situazione
politica creata dal fascismo, abbia com piuto fatti di particolare gravità che,
pur non integrando gli estremi di reato, siano contrari a norme di rettitudine
o di probità politica, è soggetto alla interdizione temporanea dai pubblici
uffici ovvero alla privazione dei diritti politici per una durata non superiore
a dieci anni. Senza pregiudizio dell’azione penale, i beni dei cittadini i
quali hanno tradito la patria ponendosi politicamente ed attivamente al
servizio degli invasori tedeschi sono confiscati a vantaggio dello Stato. Sono
dispensati dal servizio [cioè epurati]: 1) coloro che, specialmente in alti
gradi, col partecipare attivamente alla vita politica del fascismo o con
manifestazioni ripetute di apologia fascista, Vassalli — Sabatini, Il
collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di
Cassazione. Diritto materiale, diritto processuale, testi legislativi, La
giustizia penale, Roma (analizza le sentenze] si sono mostrati indegni di
servire lo Stato; 2) coloro che, anche nei gradi minori, hanno conseguito
nomine od avanzamenti per il favore del partito o dei gerarchi fascisti. Mentre
sono dispensate (cioè epurate) altre figure legate al partito fascista e alla
sua attività, in altri casi sono previste forme (altrettanto vaghe) di diritto
premiale, come ad esempio nell’art. “Chi, dopo, si è distinto nella lotta
contro i tedeschi, può essere esente dalla dispensa e da ogni misura
disciplinare” Segue poi l’“Avocazione dei profitti di regime, cioè la confisca
dell’arricchimento individuale realizzato sfruttando le opportunità offerte dal
regime fascista: Gli incrementi patrimoniali conseguiti dopo, da chi ha
rivestito cariche pubbliche o comunque svolta attività politica, come fascista,
si presumono profitti di regime, a meno che gli interessati dimostrino che gli
arricchimenti hanno avuto lecita provenienza. Ciò vale anche se i beni abbiano
cessato di appartenere alla stessa persona. Infine, una norma nella cui
formulazione “la responsabilità del legislatore è più evidente” —, P 5 P
osserva il penalista Caroli — punisce “le sevizie particolarmente efferate”
all’art. 3 del decreto dell’“Amnistia Togliatti che è opportuno vedere per
intero: Amnistia per altri delitti politici. È concessa amnistia per i delitti
di cui agli articoli 3 e 5 del decreto legislativo luogotenenziale ed all’art.
1 del decreto legislativo luogotenenziale, e per i reati ad essi connessi a’
sensi dell’art. 45, n. 2, Codice procedura penale, salvo che siano stati
compiuti da persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile o
politica o di comando militare, ovvero siano stati commessi fatti di strage,
sevizze particolarmente efferate, omicidio o saccheggio, ovvero i delitti siano
stati compiuti a scopo di lucro!02, Il termine ‘sevizie’ (si noti il plurale)
“presuppone un livello estremo di disumanità. Esso non dovrebbe perciò
tollerare l’apposizione di aggettivi che ne qualifichino l’intensità. Le
sevizie, in quanto tali, dovrebbero essere già di per sé al livello massimo di
gravità. Tuttavia il legislatore rende il termine ancora più selettivo,
affiancandovi un avverbio ed un aggettivo e richiede, affinché tali sevizie
abbiano efficacia ostativa [cioè impediscano l’applicazione dell’amnistia], che
esse siano ‘particolarmente efferate Il risultato pratico di questa scelta
terminologica fu che le ‘sevizie’ senz’altra qualificazione e le ‘sevizie
efferate’ vennero amnistiate dai tribunali, con sentenze che sono “addirittura
ripugnanti all’umana coscienza Per la Corte di Cassazione, la sevizia
particolarmente efferata è “soltanto quella che, per la sua atrocità, fa orrore
a coloro stessi che dalle torture non siano alieni” (Cassazione, Camerino). Con
un’aberrante interpretazione di questo tipo, nota un commentatore, “giudice
dell’efferatezza diventava la sensibilità dello stesso seviziatore Il
progressivo svuotamento delle sanzioni avvenne con varie norme e circolari
interpretative, nonché “con l’entrata in vigore della Costituzione” perché
“l’art. consente anche ai Testo integrale dell’“Amnistia Togliatti”. Decreto
Presidenziale, Amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari,
“Gazzetta Ufficiale” Serie Generale gazzettaufficiale.it/eli/id/ Garrone,
Guerra di liberazione (dalle galere), “Il Ponte” La citazione è tratta da
Massimo Donini, La gestione penale del passaggio dal fascismo alla Repubblica
in Italia,“Materiali per una storia della cultura giuridica] condannati in via
definitiva di presentare ricorso al fine di ottenere l’amnistia. Ciò di fatto
annulla gli effetti di gran parte del lavoro dell’Alta Corte di giustizia.
Infine, il perseguimento penale “dei crimini fascisti in Italia conosce un
punto d’arresto con l’amnistia, qualificata dagli storici come ‘colpo di
spugna’, una combinazione di ‘amnesia e amnistia. Una precisa esegesi del testo
dell’“Amnistia Togliatti” e il dibattito sulle sue numerose manchevolezze va
lasciato ai penalisti. Proprio le indeterminatezze testuali favorirono “un vero
e proprio attivismo della magistratura” segnata — come si è visto — dalla forte
impronta ricevuta nell’epoca fascista: “Dall’inizio del secolo al fascismo, il
sistema si basava su una sorta di ‘dialogo’ fra aperture sociali da parte del
legislatore ed applicazione in senso restrittivo da parte di una magistratura
conservatrice, che faceva massimo uso degli spazi di discrezionali tà
consentita” In altre parole: “La logica del bastone e della carota nei
confronti delle classi subalterne e dei movimenti politici di opposizione vede
dunque, in un evidente gioco delle parti, il legislatore offrire la carota e la
magistratura brandire il bastone a difesa della conservazione. L'applicazione
dell’amnistia in Italia si reggeva proprio su questo gioco delle parti fra
legislatore e magistratura. Tenendo presente questa situazione conviene ora
ritornare per soffermarsi brevemente sul contenuto dell’“amnistia
Togliatti”105. Un suo chiaro commentario è la relazione con cui Togliatti
stesso accompagnò il provvedimento, presentandolo come “un provvedimento
generale di clemenza. L’amnistia riguarda i delitti comuni puniti con una pena
detentiva inferiore ai 5 anni e commessi entro, nonché “i delitti politici
commessi dopo la liberazione” (art. 2): però non veniva definito che cosa si
intendesse per delitto politico. Altri articoli introducevano importanti forme
di indulto fuori dai casi di amnistia: la pena di morte era commutata in
ergastolo; l’ergastolo in reclusione per 30 anni; le pene detentive superiori a
5 anni erano ridotte di un terzo; quelle inferiori a 5 anni venivano condonate.
L’“amnistia Togliatti” provocò la scarcerazione immediata di molti fascisti e
venne criticata non solo dai movimenti partigiani, ma anche all’interno del
Partito Comunista Italiano: infatti vennero scarcerati i fascisti, ma non i
partigiani arrestati prima e durante la Liberazione. Tipica è la posizione
dell’esponente del Partito d’Azione Berlinguer, senatore socialista (e padre di
Enrico, futuro segretario generale del PCI). Quindi poco prima dell““Amnistia
Togliatti“ aveva presentato alla Camera un provvedimento di “larga amnistia e
di condono” infatti egli si dichiarava favorevole a un provvedimento di
amnistia che riguardasse tanto i reati politici quanto anche quelli comuni,
adducendo due ragioni a favore di questa sua proposta: il mutamento della
coscienza giuridica dopo il ’44 rispetto ai reati comuni e l‘esigenza di
ridurre i processi arretrati che erano andati accumulandosi!0, Di fronte
all’“amnistia Togliatti” ne valuta il pro e il contro: da un [ Bracci, Come
nacque l’amnistia, “Il Ponte, ; in generale: Romano Canosa, Storza
dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo, Baldini e Castoldi,
Milano, Mario Berlinguer, Lineamenti della prossima amnistia, “La Giustizia
Penale] lato, la ritiene pericolosa perché “dimentica le vittime per perdonare
i persecutori”!07; ma, dall’altro lato, dà “atto al governo di questo gesto
saggio e patriottico, segno di generosità, di forza e di fiducia nell’Italia
che si rinnova, Nell’immediato dopoguerra, inoltre, bisognava tenere presente
la collocazione politica tanto del governo quanto della magistratura:
quest’ultima “è ora chiamata a giudicare membri del passato regime, i quali
rappresentano comunque la conservazione, a fronte di un nuovo governo che di
fatto è un governo rivoluzionario. Esso era inoltre composto da partiti come il
PCI, sino a poco prima bandito come illegale e bollato come sovversivo del
concetto stesso di ordine costituito. L'atteggiamento della magistratura non
rappresenta quindi un intervento improvviso e imprevedibile, ma un’evoluzione
coerente e perfettamente prevedibile. All’interno società italiana del
dopoguerra si intrecciavano ancora “moti di violenza, minacce neofasciste,
ritorno di partigiani alla macchia, omicidi eccellenti e omicidi di classe,
mentre nel contesto internazionale l’Unione Sovietica, da alleata delle
democrazie occidentali nella ‘guerra calda’, si era trasformata nella loro
nemica nella ‘guerra fredda”. All’interno dell’Italia veniva quindi meno quella
solidarietà tra i partiti antifascisti di destra e di sinistra che aveva
caratterizzato la Resistenza, mentre all’esterno appariva chiaro che gli Stati
Uniti non potevano accettare che nel governo italiano fosse presente il maggior
partito comunista dell'Occidente. Di conseguenza, il PCI venne escluso dal
governo De Gasperi: resterà fuori dall’area governativa sino alla sua
dissoluzione, Il grave attentato a Palmiro Togliatti del 14 luglio 1948 può
essere preso a simbolo delle tensioni sociali e politiche dell’immediato
dopoguerra!!0; un simbolo con una doppia valenza. Da un lato, l’attentato porta
alla luce in forma estrema gli atteggiamenti fortemente ostili ancora presenti
in tutto il Paese: “Operai e contadini in piazza, sciopero generale prima
spontaneo poi ufficiale, l’urlo della folla in marcia, le fabbriche occupate,
le sedi cattoliche devastate, le camionette della Celere in azione, i comizi
del Pci, i primi colpi, le prime violenze. Compaiono i mitra: i dimostranti
sparano, i celerini rispondono, si contano i primi morti. Togliatti ha invitato
alla calma, ma l’Italia è un vulcano. Genova, Firenze, Torino e Venezia sono in
rivolta. Il Governo mette in campo l’esercito. Sono le ore più drammatiche
della breve storia repubblicana. Siamo nell’anticamera della guerra civile”;
Berlinguer, L’ammnistia è pericolosa. Dimentica le vittime per perdonare i
persecutori, “Non Mollare”. Contrario all’amnistia anche A. Battaglia, A
proposito dell’amnistia. Una cattiva legge ed una indebita circolare, “Rivista
Penale” Berlinguer, Incongruenza e iniquità dell’amnistia, “La Giustizia
Penale” Il Congresso del PCI decise di mutare nome in Partito Democratico della
Sinistra, destinato a successivi cambi di nome e a un costante calo elettorale.
La notizia dell’attentato nella stampa di quei giorni è raccolta nel sito della
Fondazione Feltrinelli fondazione feltrinelli.it/ app/uploads
_Attentato-a-Togliatti). infine, “l’estate rovente del ’48 va in archivio,
portandosi dietro una guerra civile che non c'è stata e un bilancio pesante:
morti e feriti, Dall’altro lato, nel giorno stesso in cui fu vittima
dell’attentato all’uscita dal parlamento, l'atteggiamento moderato di Togliatti
tenne a freno un partito in cui molti militanti ex partigiani avevano ancora le
armi in cantina: “Le uniche parole che il segretario [del PCI] pronuncia prima
di entrare di entrare in sala operatoria sono “State calmi; non perdete la
testa! Il carisma del segretario generale e la disciplina del partito, nonché
la ferma reazione del governo, evitarono giorni drammatici alla giovanissima
repubblica. L’“Amnistia Azara” e la fine della giustizia di transizione Il
clima fin qui illustrato spiega perché, a partire da quello stesso anno, si
sussegua uno stillicidio di norme e di atti di clemenza individuale. Assume un
particolare rilievo l’“amnistia Azara” dal nome dell’allora ministro della
giustizia!!3. Essa vuole (queste le parole del relatore alla Camera dei
deputati, Francesco Colitto) “chiudere il ciclo fin troppo lungo di una lotta
politica assai aspra e drammatica, cancellando i residui della dura guerra
civile e dare così inizio ad una nuova èra di solidarietà nazionale”1!4. Il
medesimo spirito irenico traspare dalla presentazione al Senato di questo
“progetto di clemenza”: PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione del
disegno di legge: “Delegazione al Presidente della Repubblica per la
concessione di amnistia e indulto” già approvato dalla Camera dei deputati.
Dichiaro aperta la discussione generale. È iscritto a parlare il senatore
Piola. Prima che egli inizi il suo discorso, mi sia consentito di ricordare al
Senato che un provvedimento di clemenza deve essere discusso 11! Innocenti:
l’attentato a Togliatti -- SoleOnLine4/ Tempo%20 liberoX20e%20 Cultura
Storia-storie- togliatti-14-luglio.shtml). Su questa celebre frase (narrata in
più varianti, ma tutte con la stessa carica pacificatrice): Fabrizio Rondolino,
I/ nostro PCI. Un racconto per immagini, Rizzoli, Milano, il manifesto per il
ritorno di Togliatti alla Festa dell’Unità); Marcella e Maurizio Ferrara,
Conversando con Togliatti, Edizioni di Cultura Sociale, Roma. La carriera
d’Azara riflette la mutevolezza dei suoi tempi: negli anni del fascismo fu
giudice di cassazione dal 1936, collaborò alla preparazione del codice civile
del 1942 (ottimo codice tuttora vigente), fu membro del comitato scientifico
delle riviste “La nobiltà della stirpe” e “Diritto Razzista” rifiutò di aderire
alla Repubblica Sociale Italiana (venendo per questo espulso dalla
magistratura) e dal 1948 alla morte fu senatore della Democrazia Cristiana.
Come ministro della giustizia nel 1953-54 emanò un provvedimento di indulto e
amnistia per i reati politici commessi entro (D.P.R), noto come “Amnistia
Azara”. Azara, Amnistia e indulto. Discorsi pronunciati alla Camera dei
deputati nelle sedute, Tipografia della Camera dei deputati, Roma; Id.,
Direttive fasciste nel nuovo Codice civile, Giuffrè, Milano normattiva it
uri-res stato decreto presidente. repubblica: 1953-12-19;922!vig=). Piromallo,
Esposizione critica della giurisprudenza sui decreti di amnistia e d’indulto
dell’ultimo decennio, Società Editrice Libraria, Milano; la citazione (2° ed.
aggiornata con il decreto di amnistia e indulto, illustrato articolo per
articolo). in un’atmosfera che non contrasti con le elevate finalità che esso
si propone. Il senatore Piola ha facoltà di parlare. proLa. Illustre
Presidente, onorevoli colleghi: il richiamo e l’augurio che il nostro
Presidente ha fatto, di mantenere la discussione nell’ambito della più assoluta
serenità, trova certamente concordi tutti i colleghi. Dirò brevi parole sul
progetto in esame, risultato dei lavori della Commissione, nella quale è
regnata quella stessa serenità di discussione che si verificherà in quest’Aula.
Il progetto è giunto al Senato monco, in relazione a quello che era stato il
progetto governativo, avendo l’altro ramo del Parlamento respinta l’amnistia;
la Commissione all’unanimità ha ritenuto che dovesse essere integrato in quella
parte che le vicende della discussione, alla Camera, avevano annullato. Non
spetta a questo Consesso di indagare sulle ragioni complesse per le quali dal
progetto era stato eliminato l’articolo primo; ma era doveroso per l’armonia
stessa del provvedimento di clemenza che la Commissione si facesse parte
diligente col creare l’altro pilastro sul quale il provvedimento stesso doveva
poggiare. Ed è così che accanto all’indulto si propone all’approvazione del
Senato l’amnistia, Anche questo decreto contiene dunque norme sia
sull’amnistia, sia sull’indulto. In esso l’amnistia è “generale” mentre la
particolare ampiezza dell’indulto aveva animato il dibattito sull’approvazione
del provvedimento: secondo alcuni, infatti, quell’ampio indulto sembrava una
misura per far uscire dalle carceri tutti i politici. L'amnistia sancita dal
decreto presidenziale è nota come “amnistia Azara” perché promossa dall’allora
Ministro della Giustizia, Antonio Azara, “magistrato fascista e notoriamente
razzista (sostenitore delle “leggi razziali” e membro della rivista “Diritto razzista”).
Tale decreto, congiunto alla legge n. 921 sulla liberazione condizionale,
emanata giusto il giorno precedente, determinò la scarcerazione dei
collaborazionisti che erano ancora reclusi, Basti qui richiamare in forma
abbreviata i due articoli iniziali di questo testo, la cui analisi complessiva
sarebbe lunga e tecnicamente complessa: È concessa amnistia: a) per ogni reato,
non militare o finanziario, per il quale è stabilita una pena detentiva non
superiore nel massimo a quattro anni, sola o congiunta a pena pecuniaria,
oppure soltanto una pena pecuniaria. [Segue un elenco di reati esclusi
dall’amnistia.] b) per tutti i reati preveduti dal regio decreto-legge, e sue
successive modificazioni, nonchè per tutti i reati preveduti da leggi
antecedenti e successive al decreto-legge anzidetto in ordine alla disciplina
dei consumi, degli ammassi e dei contingentamenti; per il reato di diffamazione
a mezzo della stampa; d) peri reati militari di assenza dal servizio preveduti
dagli articoli del Codice penale militare di guerra commessi, in quanto non
siano stati compresi in precedenti decreti di amnistia; per ogni reato, non
militare o finanziario, per il quale è stabilita una pena detentiva non
superiore nel massimo a sei anni, sola o congiunta a pena pecuniaria, commesso
da minori di anni diciotto, ferme restando le esclusioni di cui alla lettera
a); per i reati finanziari preveduti [segue elenco]. Senato della Repubblica,
Seduta, Discussione del disegno di legge: Delegazione al Presidente della
Repubblica per la concessione di amnistia e indulto, p. 2671 senato.
it/service). Relatore è il senatore Giacomo Piola della Democrazia Cristiana.
Dalla tesi di Malo, La giustizia di transizione tra fascismo e democrazia,
dspace.unive.it/bitstream/ handle/1 sequence=2). Art. 2. È concesso indulto: a)
per i seguenti reati commessi: reati politici, ai sensi dell’art. 8 del Codice
penale, e i reati connessi; nonchè i reati inerenti a fatti bellici, commessi
da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate: 1) commutando la pena
dell’ergastolo nella reclusione per anni dieci e, qualora l’ergastolo sia stato
già commutato in reclusione per effetto dell’indulto, riducendo ad anni dieci
la pena della reclusione sostituita a quella dell’ergastolo; riducendo ad anni
due la pena della reclusione superiore ad anni venti e condonando interamente
la pena non superiore ad anni venti; per ogni reato commesso non oltre il 18
giugno 1946 da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate, e non
fruiscano del beneficio indicato nella precedente lettera. In sintesi,
quell’amnistia e alcune norme successive “estesero definitivamente a tutti i
condannati (compresi i latitanti), i benefici delle scarcerazioni e delle
amnistie. In questo modo in carcere non rimase più nessuno, e la giustizia del
dopoguerra così si concluse” 117, Se la condanna esige il ricordo, l’amnistia
impone l’oblìo: e forse, come il dimenticare è essenziale per la mente
dell’individuo, così il dimenticare è necessario affinché una nazione possa
vivere senza eccessive tensioni. L'Italia ha molto dimenticato, e la natura e
le dimensioni di questo oblio imporrebbero un’ulteriore, vasta ricerca. Essa
potrebbe svolgersi all’insegna di quando aveva affermato Renan: L’oblio, e dirò
persino l’errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione
di una nazione, ed è per questo motivo che il progresso degli studi storici
rappresenta spesso un pericolo per le nazionalità. La ricerca storica, infatti,
riporta alla luce i fatti di violenza che hanno accompagnato l’origine di tutte
le formazioni politiche, anche di quelle le cui conseguenze sono state
benefiche: l’unità si realizza sempre in modo brutale. Una nazione è un’anima,
un principio spirituale. Due cose, che in realtà sono una cosa sola,
costituiscono quest’anima e questo principio spirituale; una è nel passato,
l’altra è nel presente. Una è il comune possesso di una ricca eredità di
ricordi; l’altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la
volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta insieme. L’essenza di una
nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio
comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticate molte altre cose!!8,
Nella giustizia transizionale dell’Italia del dopoguerra le amnistie “Togliatti”
e “Azara” sono i primi passi sulla via dell’oblìo; altri se ne aggiusero,
soprattutto dopo le turbolenze. Omettendo ulteriori approfondimenti, se ne può
tracciare un primo quadro complessivo. I provvedimenti di amnistia e di indulto
per fatti politici sono cinque su un totale di nove atti del genere (i decreti
emessi in relazione a fatti politici contengono di solito disposizioni anche in
ordine a reati comuni). Il primo è (D.P.R.) (D.P.R.). Gli altri sono (D.P.R.),
(D.P.R.) e (D.P.R.). Dopo, non vi sono più amnistie per fatti politici. Di
conseguenza i provvedimenti di questo tipo Ivi dspace.unive.it stream handle.
Ivi Renan, Che cos'è una nazione? E altri saggi, Donzelli, Roma. Sull’oblìo
individuale in Sandra Basilea, risultano essere cinque nei trentacinque anni:
queste sono le dimensioni della ‘clemenza’ politica in Italia in tempi
recenti”!!9, La riabilitazione del passato culminò nel 1960 con la formazione
del Governo Tambroni, che ottenne la fiducia 1’8 aprile: un monocolore
democristiano con l’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano, diretto
erede della Repubblica Sociale Italiana e, quindi, del partito fascista (che
una norma della costituzione vieta di ricostituire “sotto qualsiasi forma; di
qui la scelta di denominarlo “Movimento” e non “Partito”). Questa inaccettabile
alleanza politica aveva il suo simbolo in Giorgio Almirante, già
sottosegretario nel governo della Repubblica Sociale Italiana, co-fondatore e
poi segretario generale del Movimento Sociale Italiano, nonché deputato nel parlamento
repubblicano. La fiducia a quel governo di centro-destra provocò violente
manifestazioni in tutto il paese e Fernando Tambroni presentò le sue
dimissioni. Ma oggi la fiamma tricolore — che fu il simbolo dell’estinto
Movimento Sociale Italiano — continua ad essere presente nel simbolo del
partito di estrema destra “Fratelli d’Italia” che nelle elezioni passate ha
acquistato una posizione rilevante e che negli attuali sondaggi elettorali
presenta una crescita costantel21, anche se sembra aver subìto un rallentamento
nelle elezioni locali. In questo richiamo al ‘passato che non passa’ ritorna
l'atmosfera ‘nostalgica’ (già evocata nel $ 3.Commemorare in tempi immemori:
tra condanna e nostalgia) e la constatazione che, nella repubblica nata dalla
Resistenza, si sta ormai affermando sempre più la desistenza, cioè il cedere il
passo alle pulsioni di destra sopite ma non cancellate, al fascismo eterno
evocato da Eco. Ed era proprio la desistenza quello che Piero Calamandrei
temeva: Finita e dimenticata la Resistenza, tornano di moda gli “scrittori
della desistenza”: e tra poco recla meranno a buon diritto cattedre ed
accademie. Sono questi i segni dell’antica malattia. E nei migliori, di fronte
a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il
desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il
pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare Santosuosso, Gli
anni .inventati. org/ apm/ abolizionismo/ santpoli/ santpoli6. Costituzione
della Repubblica italiana, Disposizioni transitorie e finali, XII: È vietata la
riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In
deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio
dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di
voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista. Secondo
un sondaggio dell’importante Istituto Nazionale di Ricerche Dembòpolis “se si
votasse oggi il primo partito sarebbe Fratelli d’Italia con il 21% delle
preferenze. La Lega, però, insegue ad appena lo 0,2 di distanza, accreditandosi
al 20,8 per cento. - Non distante dai partiti del centrodestra il Pd, che
otterrebbe il 19,5%. Il Movimento 5 Stelle, invece, si assesterebbe al 16,6 per
cento, mentre tutti gli altri partiti sarebbero sotto la soglia del 10%. Forza
Italia [il partito di Silvio Berlusconi], infatti, è accreditata al 7 per
cento, seguita da Azzore al 2,6%, Sinistra Italiana al 2,2 per cento, Leu
all’1,9 per cento e infine Italia Viva all’1,7%” lagone.it sondaggi-
politicielettorali-oggi-fratelli- ditalia-lega-e-pd- racchiusi-in-
appena-un-punto-e-mezzo/). Eco, I/ fascismo eterno, La nave di Teseo. Eco
indica “una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare
l’“Ur-Fascismo” o il “fascismo eterno” Tali caratteristiche non possono venire
irreggimentate in un sistema: molte si contraddicono reciprocamente, e sono
tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una
di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista” e combattere,
prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti
siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni,
io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo. Dopo
la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole
che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi
della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale,
portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata
desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non
esser mortale, Bibliografie, Libri di sopravvissuti. Rispetto all’elenco
contenuto nel volume di Liliana Segre (cfr. supra, S$ 5. Una guida: i ricordi
di Liliana Segre, i titoli sono qui riportati in ordine alfabetico secondo il
cognome dell’autore e, ove possibile, è stata indicata la prima edizione e
qualcuna delle successive. Quasi tutti i titoli hanno però ulteriori edizioni,
con vari curatori o prefatori. Bruck, Edith, Chi ti ama così, Lerici, Milano;
Feltrinelli, Milano, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Marsilio,
Venezia, Il pane perduto, La nave di Teseo, Milano, Bucci, Andra Tatiana Bucci,
Noî, bambine ad Auschwitz. La nostra storia di sopravvissute alla Shoah. A cura
di Umberto Gentiloni Silveri e Marcello Pezzetti. In collaborazione con Stefano
Palermo, Mondadori Milano, Fiano, Nedo, A Il coraggio di vivere. Prefazione
Fiamma Nirestein; presentazione Ernesto Galli della Loggia; contributo storico
Marcello Pezzetti, Monti, Saronno; Premesse di Andrea, Emanuele e Enzo Fiano,
San Paolo, Cinisello Balsamo Levi, Primo, Se questo è un uomo, De Silva,
Torino; Einaudi, Torino, La tregua, Einaudi, Torino, I sommersi e i salvati,
Einaudi, Torino, Millu, Liliana I/ fumo di Birkenau, La Prora, Milano,
Giuntina, Firenze, Tagebuch. Il diario del ritorno dal Lager. Prefazione di
Paolo De Benedetti. Introduzione di Piero Stefani, Giuntina, Firenze, Modiano,
Sami, Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili. A
cura di Marcello Pezzetti e Umberto Gentiloni Silveri, Rizzoli, Milano,
Veltroni, Tana libera tutti. Sami, Calamandrei, Desistenza, “Il Ponte, jacopo
giliberto.blog. ilsole24ore. desistenza-un- vecchio-articolo- di calamandrei
-da-rileggere-conattenzione/). Queste bibliografie sono pubblicate anche nella
rivista on line dell’Institut fur Zeitgeschichte di Monaco di Baviera e
Berlino: Le leggi razziali in Italia: dall’amnistia all’amnesia. Una
bibliografia, “Schepunkte, Max Planck Institute for Legal History and Legal
Theory Research Paper Series, Modiano, il bambino che tornò da Auschwitz,
Feltrinelli, Milano, Veltroni raccoglie la testimonianza diretta di Sami Modiano
e la trascrive per i più giovani). Nissim, Luciana, Ricordi della casa dei
morti, in Luciana Nissim Pelagia Lewinska, Donne contro il mostro, Ramella,
Torino; anche in Luciana Nissim Momigliano, Ricordi della casa dei morti, e
altri scritti, Giuntina, Firenze. Springer, Il silenzio dei vivi. All'ombra di
Auschwitz, un racconto di morte e resurrezione, Marsilio, Venezia Szòrenyi, Una
bambina ad Auschwitz. Bernardi, Mursia, Milano, Terracina, Piero, Pensate
sempre che siete uomini. Una testimonianza della Shoah. Con una postfazione di
Lisa Ginzburg, Ponte alle Grazie, Milano, Venezia, Shlomo, Sonderkommando
Auschwitz. A cura di Marcello Pezzetti e Umberto Gentiloni Silveri; da
un’intervista di Béatrice Prasquier, Rizzoli, Milano, All’elenco di Liliana Segre
si possono aggiungere: Basilea, Sandra, Se: viva Anne?, Cappelli, Bologna, Del
Vecchio, Giorgio, Una nuova persecuzione contro un perseguitato. Documenti,
Tipografia artigiana, Roma, Grasselli, Antonia (ed.), Strarzeri in patria: gli
ebrei bolognesi dalle leggi anti-ebraiche, Pendragon, Bologna, Ottolenghi,
Massimo, Per un pezzo di patria. La mia vita negli anni del fascismo e delle
leggi razziali, Blu Edizioni, Torino, Ricordi di un “gagno” di “Giustizia e
libertà”,“Micromega, Una bibliografia sulle leggi razziali. La bibliografia che
segue elenca soltanto i titoli dei libri (non quindi degli articoli) in cui
compaiono le parole “leggi razziali” e si limita agli anni prossimi
l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali. Questa selezione è necessaria
perché il Sistema Bibliotecario Nazionale indica complessivamente titoli
dedicati a questo tema. Benussi Annalisa Di Fant (cur.), Razzismo in cattedra.
Il liceo Petrarca di Trieste e le leggi razziali, EUT, Trieste, Convivere con
Auschwitz. Il rafforzamento del dovere della memoria per la pace e la
democrazia nell’ottantesimo dal preannuncio a Trieste delle famigerate leggi
razziali. convegno: EUT, Trieste, Atti del convegno tenuto a Trieste
nell’ambito della Settimana della Memoria). Di Veroli, Andrea, Giulio Amati da
uomo a numero. La vita di un ebreo italiano spezzata dalle leggi razziali,
Chillemi, Roma, Fanesi, Pietro Rinaldo, GU ebrei italiani nelle Americhe dopo
le leggi razziali, Introduzione di Mulas. Postfazione di Silvana Amati Roma,
Nova Delphi, Roma, Max Planck Institute for Legal History and Legal Theory
Research Paper Series, Fidanza, Vittorio, La lunga notte. Gli italiani fra
leggi razziali e deliri totalitari, Associazione Culturale Mitico Channel,
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infanzia durante le leggi razziali in Italia, Manni, San Cesario di Lecce,
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dell’ Italia e della Piaggio, dalla promulgazione delle leggi razziali fino al
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Opposte direzioni: le famiglie Friedmann e Sonnino in fuga dalle leggi
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razziali. Prefazione di Liliana Picciotto. Con CD musicale a cura di Giovanni
Cardillo e Francesco Buffa, Sillabe, Livorno, Graffone, Valeria, Espulsioni
immediate: l’Università di Torino e le leggi razziali, Zamorani, Torino,
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Costituzione, Pisa University Press, Pisa Id. Una giornata particolare: la
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razziali italiane, Pisa University Press, Pisa, Irico, Pier Franco (a cura di),
Vo: 0n siete italiano: a ottant'anni dalle leggi razziali, gli ebrei trinesi e
i regi- decreti, ANPI, Associazione nazionale partigiani d’Italia di Trino,
Trino, Liceo classico e linguistico statale Vincenzo Gioberti di Torino,] Non
dimenticare: le conseguenze delle leggi razziali al liceo Gioberti, Torino,
Pardo, Lucio, Barbarie sotto le due torri: leggi razziali e Shoah a Bologna,
Centro stampa regionale, [Bologna, Carolina Delburgo (a cura di), Dopo la
barbarie: il difficile rientro, [s.1.], Centro stampa della regione
Emilia-Romagna, II rumore del vuoto: assenze e presenze nell’istituto
magistrale Laura Bassi durante le leggi razziali [progetto didattico: Luchita
Quario e Maria Giovanna Bertani], Regione Emilia Romagna Assemblea Legislativa,
Bologna, Sega, Maria Teresa, Il banco vuoto. Scuola e leggi razziali: Venezia,
Prefazione di Gadi Luzzatto Voghera, Cierre, Sommacampagna, Vercelli:
francamente razzisti: le leggi razziali in Italia, Edizioni del Capricorno,
Torino Volpe, Pompeo — Simone, “Posti liberi”: leggi razziali e sostituzione
dei docenti ebrei all’Università di Padova, Padova University Press, Padova,
Foà, Dario e Aida, Quando due parallele si incontrano: due ragazzi ebrei dalle
leggi razziali ad oggi, S. Belforte, Livorno 2Meneghetti, Francesca, Nor sapevo
di essere ebrea. Carla Rocca di fronte alle leggi razziali, Istresco, Treviso,
Rossi, Scipione, Lo squalo e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo
Castiglioni, Rubbettino, Soveria Mannelli, Triggiani, Ilaria (cur.), La memoria
contro ogni discriminazione. Giorno della memoria, Assemblea legislativa delle
Marche, Ancona, L’“Amnistia Togliatti. Questa bibliografia si limita ai titoli
di un numero limitato di libri perché, per ulteriori ricerche, si può ricorrere
alla vasta Bibliografia contenuta nel volume del penalista Paolo Caroli, //
potere di non punire. Uno studio sull’amnistia Togliatti, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, Max Planck Institute for Legal History and Legal Theory
Research Paper Series, Agosti, Togliatti, l’amnistia e i ragazzi di Salò, in:
Italia: guerra di liberazione e nascita della Repubblica. Scritti sulla
Resistenza, sulla guerra civile e sulla Costituente, L'Unità — Nuova iniziativa
editoriale, Roma, Battini, Michele, Peccati di memoria. La mancata Norimberga
italiana, Laterza, Roma-Bari, Bugni (Arno), Ermenegildo, Riffessioni su due
periodi storici: la Repubblica di Montefiorino, il dopoguerra, l’amnistia di
Togliatti e il dopo... cur. Pedrini, ANPI, Comitato provinciale di Bologna,
Bologna, Angelo, I socialisti e la defascistizzazione mancata, Franco Angeli,
Milano, Franzinelli, Mimmo, L’Amnistia Togliatti: colpo di spugna sui crimini
fascisti, Mondadori, Milano, Ristampato con una postfazione di Guido Neppi
Modona: Feltrinelli, Milano, Caroli: “La principale monografia storica al
riguardo” // potere di non punire, Le stragi nascoste. L’armadio della
vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti, Mondadori,
Milano, Giannantoni, Franco, / giorni della speranza e del castigo. Varese: la
resa nazifascista, il Tribunale del popolo, il campo di concentramento di
Masnago, i processi della Corte d’Assise, gli eccidi delle bande irregolari, il
progetto Alleato di “occupare” la provincia, il fallimento delle Commissioni
Epurazione e Illeciti Arricchimenti del regime, l’amnistia Togliatti,
Emmeceffe, Varese, Marchionne, Antonio, Amristia Togliatti. I provvedimenti
clemenziali al mutar di regime: l’amnistia, [tesi di laurea, Università di
Napoli Federico II]. Peregalli— Mirella Mingardo, Togliatti guardasigilli. In
appendice: circolari e documenti, Colibrì, Paderno Dugnano, Santosuosso, Amedeo
— Colao, Politici e aministia: tecniche di rinuncia alla pena per i reati
politici dall’unità ad oggi, Bertani, Verona, Scalabrino, I guardiasigilli
comunisti Togliatti e Gullo. Sanzioni contro il fascismo e processo alla
Resistenza, Miccoli, La grande cesura. La memoria della guerra e della
Resistenza nella vita europea del dopoguerra, Il Mulino, Bologna, Nelle
bibliografie risultano entrambi i nomi Scalabrino, Francesco e Scalambrino,
Francesco.] Scalambrino, Francesco, Gullo e “amnistia Togliatti”, in Giuseppe
Masi (a cura di), Mezzogiorno e Stato nell’opera di Fausto Gullo, Orizzonti
meridionali, Cosenza, Collana di studi e ricerche dell’Istituto calabrese per
la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea). Bibliografia
sintetica sull’“Amnistia Azara. I testi su questa amnistia e sul suo autore
sono pochi e di difficile reperimento. Essi sono qui suddivisi in tre
sottosezioni: a) Per una biografia di Antonio Azara; b) Testi legislativi; c)
Scritti sull’“Amnistia Azara”. Per una biografia di Azara, Berri, Azara:
necrologio, “Il diritto fallimentare e delle società commerciali, Insediamento
del primo Presidente della Corte di Cassazione sen. dott. Azara. Udienza delle
Sezioni unite civili), Stamperia Nazionale, Roma, Max Planck Institute for
Legal History and Legal Theory Research Paper Series, L., Insediamento del
Procuratore generale presso la Corte suprema di Cassazione sen. dott. Antonio
Azara. Udienza delle Sezioni unite civili, Stamperia nazionale, Roma, Il)
trentennio della Rivista di diritto agrario, Scritti di Azara; in appendice: I
giudizi dopo il primo decennio, Tipografia B. Coppini, Firenze, Tritto,
Francesco, Azara, Antonio, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto
della Enciclopedia Italiana, Roma treccani.it/ enciclopedia/
antonio-azara_(Dizionario-Biografico). Testi legislativi Amnistia-indulto e
liberazione condizionale: legge, legge, D.P.R., Schiano, S. Maria Capua Vetere,
Calvanesi, Giovanni, Amnistia, indulto, liberazione condizionale. Testo
completo dei provvedimenti: commento generale ed analitico articolo per
articolo, richiami legislativi e giurisprudenziali, formulario, indice completo
di tutti i reati compresi negli atti di clemenza (Decreto del Presidente della
Repubblica, G. U. Legge, G. U.), Ed. Istituto Dante, Roma, Tip. Pug, Pontificia
Università Gregoriana, Decreto del Presidente della Repubblica, Concessione di
amnistia e di indulto gazzettaufficiale.it/ eli/id sg; GU Serie Generale).
Curatolo, D.P.: Amnistia e indulto per reati comuni finanziari, militari,
politici; D.P.: liberazione condizionale, Marrese, Bari, In cop.: Con commento
e giu- risprudenza, elenco articoli C.P. amnistiati; in appendice: reati
elettorali ed elenco amnistie ed indulti, Gorgoglione, I decreti di clemenza:
in materia penale, politica, militare, finanziaria, valutaria, annonaria,
disciplinare, elettorale, amministrativa, tributaria e di polizia. Manuale
pratico sugli istituti giuridici dell’amnistia e dell’indulto con prontuario
dei decreti, note illustrative, criteri di applicazione, richiami
giurisprudenziali e prospetto riassuntivo dei decreti, Giuffrè, Milano,
Piromallo, Esposizione critica della giurisprudenza sui decreti di amnistia e
d’indulto dell’ul- timo decennio, Società editrice libraria, Milano, con il
decreto dell’“Amnistia Azara” cfr. infra, c). Id., Esposizione critica della
giurisprudenza sui decreti di amnistia e d’indulto dell’ultimo decennio,
Società Editrice Libraria, Milano, con il decreto di amnistia e indulto,
illustrato articolo per articolo). Testo completo (dalla Gazzetta Ufficiale
delle leggi, per la concessione amnistia ed indulto, Ceretti, Genova,
Supplemento a: Ruote del lotto,). Scritti sull’“Amnistia Azara” Amnistia e
indulto : leggi, decreto P.R., L. Di G. Pirola, Milano, Azara, Amnistia e
indulto. Discorsi pronunciati alla Camera dei deputati nelle sedute, Tipografia
della Camera dei deputati, Roma, Max Planck Institute for Legal History and
Legal Theory Research Paper Series, Bartholini, Salvatore, La delegazione
legislativa in materia di amnistia e indulto, Giuffrè, Milano, Rivista
trimestrale di diritto pubblico”). Basso, Lelio, Per un’amnistia riparatrice,
Camera dei deputati, Roma, Berlinguer, Mario, Su/l’amnistia, Discorso
pronunciato alla Camera dei deputati nella seduta, Tipografia della Camera dei
deputati, Roma, Bracci, Arnaldo, Brevi cenni di giurisprudenza
sull’applicazione dell’amnistia di cui al D.P., al reato di contrabbando di
tabacchi esteri,“La Giustizia Penale”, Capalozza, Enzo, I/ reato politico
nell’ultimo provvedimento di amnistia ed indulto, “Il Nuovo Diritto” Colitto,
Ammnistia ed indulto: discorso pronunciato alla Camera dei Deputati nella
seduta, Tipografia della camera dei deputati, Roma, De Francesco, Giuseppe
Menotti, La tesi monarchica sull’amnistia: discorso, Roma, L’amnistia e
l’indulto in relazione all’articolo della costituzione : discorso, Jannitti
Piromallo, Alfredo Esposizione critica della giurisprudenza sui decreti di
amnistia e d’indulto dell’ulti- mo decennio, Società Editrice Libraria, Milano,
con il decreto di amnistia e indulto, illustrato articolo per articolo,
anteriore all’“Amnistia Azara. Malizia, Saverio, Giurisprudenza completa
sull’amnistia e indulto : Decr. Gazzettino Forense, Padova, Perazzoli,
Giuseppe, / limiti di applicabilità dell’amnistia per i reati di assenza dal
servizio, “Archivio penale” Riccio, Stefano, Sull’amnistia e l’indulto.
Discorso pronunciato alla Camera dei deputati nella seduta, Tipografia della
Camera dei deputati, Roma Santamaria, Dario, Considerazioni sull’applicabilità
dell’amnistia al reato continuato, “Rivista Italiana di Diritto Penale”
Scardia, Marcello, // concetto di formazioni armate nel recente decreto di
amnistia e indulto, “La giustizia penale” Tipografia della camera dei deputati,
Roma). Siracusano, Ancora sull’amnistia e sull’immutabilità dell’accusa,
Compagnia industriale tipografica editrice meridionale, Catania Rassegna
giuridica di Catania” Udienza) Spallicci, Aldo, Su/l’amnistia. Discorso
pronunciato al Senato della Repubblica, Tip. del Senato, Roma, Max Planck
Institute for Legal History and Legal Theory Research Paper Series. Nome
compiuto: Mario Giuseppe Losano. Losano. Keywords: filosofia del diritto
romano, Livio -- Luigi Speranza, “Grice e Losano: storia del diritto romano –
what Kelsen never had!” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Losurdo: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del ribelle aristocratico – la
scuola di Sannicandro di Bari -- filosofia pugliese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sannicandro
di Bari). Abstract.
Grice: “It must be remembered that philosophers of my generation at Oxford
encountered philosophy through the classics, and while contemporary
philosophers were totally absent in our curriculum, so were some OLDER
philoosphers, such as Nietzsche, which is paradoxical, seeing that he loved the
classics so much. The reason I adjudicate to Bradley, who possibly thought that
Hegel spoke a better German!” -- Filosofo italiano. Sannicandro di Bari,
Puglia. Grice: “Losurdo has contributed to a collection on ‘fatti normativi’
which is fascinating!” -- Grice: “I like
Losurdo: describing Nietzsche as the aristocratic rebel is genial; he also
engages in some linguistic botanising with his ‘linguaggio dell’impero’:
something Romans and Brits know well – cf. ‘Great Britaiin’ and my little
England!” Italian
philosopher, expert not on Grice, but Nietzsche, “Nietzsche, ribelle
aristocratico” -- essential Italian philosopher.
Si laurea a Urbino sotto la guida di SALVUCCI con la
tesi, “La semantica di Rodbertus”. Direttore dell'Istituto di Scienze
filosofiche e pedagogiche Pasquale Salvucci ad Urbino, insegna storia della
filosofia nella stessa università presso la facoltà di Scienze della
Formazione. Inoltre fu presidente dell'hegeliana Società internazionale
Hegel-Marx per il pensiero dialettico, membro della Società di scienze di
Leibniz a Berlino (un'associazione di scienziati che si rifà alla settecentesca
Accademia Reale Prussiana delle Scienze nella tradizione di Leibniz) e
direttore dell'associazione politico-culturale Marx XXI. Dalla militanza
comunista alla condanna dell'imperialismo statunitense, fino allo studio della
questione afroamericana e di quella dei nativi, L. e studioso anche partecipe
della politica nazionale e internazionale. Di formazione marxista,
descritto sia come un «marxista controcorrente» sia come un «marxista
eterodosso» e un «comunista militante», la sua produzione spazia dai contributi
allo studio della filosofia kantiana (la cosiddetta autocensura di Kant e il
suo nicodemismo politico), alla rivalutazione dell'idealismo classico tedesco,
specie di Hegel, nel tentativo di riproporne l'eredità (sulla scia di Lukács in
particolare), alla riaffermazione dell'interpretazione del marxismo tedesco e
non (GRAMSCI (si veda) e i SPAVENTA (si veda)), con incursioni nell'ambito del
pensiero nietzscheano (la lettura di un Nietzsche radicale aristocratico) e di
quello heideggeriano (in particolare la questione dell'adesione al nazismo di Heidegger).
La sua riflessione filosofico-politica, attenta alla contestualizzazione del
pensiero filosofico nel proprio tempo storico, muove in particolare dai temi
della critica radicale del liberalismo, del capitalismo, del colonialismo e
dell'imperialismo, nonché della concezione tradizionale del totalitarismo (Arendt),
nella prospettiva di una difesa della dialettica marxista e del materialismo
storico, dedicandosi anche allo studio dell'antirevisionismo in ambito
marxista-leninista. Losurdo ha una visione molto critica della tradizione
intellettuale europea del liberalismo, in particolare della tradizione classica
e delle sue origini, sostenendo che pur pretendendo di enfatizzare l'importanza
della libertà individuale in pratica il liberalismo reale è a lungo
contrassegnato dalla sua esclusione di persone da questi diritti, con
conseguente sfruttamento come razzismo, schiavitù e genocidio. Afferma che le
origini del nazismo si trovano in quelle che considera politiche colonialiste e
imperialiste del mondo occidentale. Esaminando le posizioni intellettuali e
politiche degli intellettuali sulla modernità, Kant e Hegel furono i più grandi
pensatori della modernità mentre Nietzsche fu il suo più grande critico.
I suoi lavori, che lui stesso fa rientrare nell'ambito della storia delle idee,
riguardano inoltre l'indagine delle questioni di storia e politica
contemporanee, con una attenzione critica costante al revisionismo storico e la
polemica contro le interpretazioni di Furet e Nolte. In particolare critica una
tendenza reazionaria tra gli storici contemporanei revisionisti riconoscibile
nel lavoro di autori come Nolte, che traccia l'impeto dietro l'Olocausto agli
eccessi della rivoluzione russa; o Furet, che collega le purghe staliniane a
una «malattia» originata dalla rivoluzione francese. Secondo L. l'intenzione di
questi revisionisti è di sradicare la tradizione rivoluzionaria in quanto le
loro vere motivazioni hanno poco a che fare con la ricerca di una maggiore
comprensione del passato, ma si trovano nel clima e nei bisogni ideologici
delle classi politiche, come è più evidente nel lavoro dei revivalisti
imperiali Johnson e Ferguson. Fornisce inoltre una nuova prospettiva su
rivoluzioni come quella inglese, americana, francese, russa e quelle contro il
colonialismo e l'imperialismo. Si discosta anche dalle posizioni elogiative che
la maggior parte delle biografie prende nell'analisi di Gandhi e la
nonviolenza. L. volge la sua attenzione alla storia politica della
filosofia moderna tedesca da Kant a Marx e del dibattito che su di essa si
sviluppa in Germania, per poi procedere a una rilettura della tradizione del
liberalismo, in particolare partendo dalla critica e dalle accuse di ipocrisia
rivolte a Locke per la sua partecipazione finanziaria alla tratta degli
schiavi. Riprendendo ciò che afferma Arendt in Le origini del totalitarismo,
per Losurdo il vero peccato originale del Novecento è nell'impero coloniale di
fine Ottocento, dove per la prima volta si manifesta il totalitarismo e
l'universo concentrazionario. Controversia degli storici L. critica il
concetto di totalitarismo, sostenendo che fosse un concetto polisemico con
origini nella teologia cristiana e che applicarlo alla sfera politica
richiedeva un'operazione di schematismo astratto che utilizza elementi
isolati della realtà storica per collocare la Germania nazista e altri regimi
fascisti e l'Unione Sovietica e l'esperienza del socialismo reale e di altri
Stati socialisti nello stesso insieme, servendo così l'anticomunismo degli
intellettuali della guerra fredda piuttosto che riflettere la ricerca
intellettuale. Forte critico dell'equiparazione tra nazismo e comunismo
(in particolare quello sovietico) fatta da studiosi come Furet e Nolte, ma
anche da Arendt e Popper, nonché del concetto di «olocausto rosso», il suo
Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, sollevò un dibattito sulla
figura di Iosif Stalin, sul quale a suo avviso peserebbe una sorta di leggenda
nera costruita per screditare tutto il comunismo. Porta l'esempio che nel lager
vi era volontà omicida esplicita in quanto l'ebreo che vi entrava era destinato
a non uscire più (vi è una despecificazione naturalistica) mentre nel gulag no
(si tratta di despecificazione politico-morale) e nel primo venivano rinchiusi
quelli che il nazismo chiamava Untermensch – sottouomini -- mentre nel secondo
(in cui afferma finissero solo una parte dei dissidenti), pur essendo una
pratica da condannare, erano rinchiusi dissidenti da rieducare e non da
eliminare. L. afferma che «il detenuto nel Gulag è un potenziale compagno [la
guardia stessa era tenuta a chiamarlo in questo modo] e dopo l'inizio del
biennio delle grandi purghe che seguono l'assassinio di Kirov] è comunque un
cittadino». Riprendendo anche l'opinione di Levi (internato ad Auschwitz,
secondo cui il lager era moralmente più grave del gulag) e contro Solženicyn
(internato in Siberia e che affermava l'equiparazione della volontà
sterminazionistica),sostiene che pur essendo grave che un Paese socialista nato
per abolire lo sfruttamento usi sistemi imperialisti e capitalisti, il gulag
sia analogo a molti campi di concentramento occidentali (i cui governi hanno
sostenuto e sostengono di essere paladini della libertà), che per certi versi
furono anche più affini al lager in quanto campo di sterminio e non di
rieducazione, riprendendo la storia del genocidio indiano. Egli sostiene anche
che i campi di concentramento e le colonie penali britanniche erano peggio di
qualsiasi gulag, accusando anche politici come Churchill e Truman di essere
autori di crimini di guerra e contro l'umanità pari (se non peggiori) di
quelli che sono stati poi attribuiti a Stalin. L. ritiene inoltre che i
comunisti soffrano di autofobia, cioè paura di se stessi e della propria
storia, problema patologico che va affrontato, a differenza dell'autocritica
sana. Despecificazione politico-morale e despecificazione naturalistica La
despecificazione è l'esclusione di un individuo o di un gruppo dalla comunità
dei civili. Esistono due tipi di despecificazione: La despecificazione politico-morale
(in questo caso l'esclusione è dovuta a fattori politici o morali). La
despecificazione naturalistica (in questo caso l'esclusione è dovuta a fattori
biologici). Per L. la despecificazione naturalistica è qualitativamente
peggiore rispetto a quella politico-morale. Infatti mentre quest'ultima offre
almeno una via di scampo mediante il cambio di ideologia, questo non è
possibile nel caso in cui sia in atto una despecificazione naturalistica, che è
irreversibile in quanto rimanda a fattori biologici che sono di per sé
immodificabili. A differenza di altri pensatori ritiene quindi che l'olocausto
degli ebrei non è incomparabile ed è quindi disposto ad ammettere in questo
caso una tragica peculiarità. La comparatistica che L. offre a proposito non
vuole essere una relativizzazione o uno sminuire, ma semplicemente considerare
l'olocausto degli ebrei come incomparabile significa perdere la prospettiva
storica e dimenticarsi dell'olocausto nero (l'olocausto dei neri) o dell'olocausto
americano (l'olocausto dei nativi indiani d'America ottenuto negli Stati Uniti
mediante la continua deportazione sempre più a ovest e la diffusione ad arte
del vaiolo), oltre ad altri stermini di massa come il genocidio armeno.
Polemiche riguardanti Stalin Una recensione effettuata da Guido Liguori su
Liberazione (organo ufficiale del Partito della Rifondazione Comunista) di
Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, libro in cui L. critica la
demonizzazione di Stalin effettuata dalla storiografia maggioritaria e cerca di
sottrarlo a quella che definisce «la leggenda nera su di lui», è al centro di
una polemica all'interno della redazione del suddetto quotidiano. Venti
redattori inviano una lettera di protesta al direttore del giornale in cui si
critica sia il tentativo di riabilitazione di Stalin presente nel libro di
Losurdo sia la recensione di Liguori (giudicata troppo positiva nei confronti
del libro), oltre che la scelta del direttore del giornale di pubblicare tale
recensione. Il libro riceve delle recensioni critiche per le sue affermazioni e
per la metodologia di lavoro utilizzata.I critici di L. lo accusano di essere
un «neostalinista». Grover Furr, autore di Krusciov mentì e descritto come un
«revisionista storico», un «revisionista in una ricerca lunga una carriera per
scagionare Stalin» e un «prezioso contributo alla scuola revisionista storica
degli studi sovietici e comunisti», elogia il lavoro di L., in particolare
quello su Stalin, iniziando un'amicizia reciproca. Nel introduce Furr a un editore italiano che
pubblica la traduzione italiana di Khruschev mentì, per cui scrive
l'introduzione. Aveva già scritto l'introduzione e il retrocopertina del libro
di Furr sull'assassinio di Kirov che rimane inedito. Negli estratti di un
convegno organizzato per rivalutare la figura di Stalin a cinquant'anni
dalla morte critica le rivelazioni contenute nel rapporto segreto di Chruščёv,
l'allora segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica.
Secondo Losurdo la cattiva fama di Stalin deriverebbe non dai crimini commessi
da quest'ultimo (paragod altri del suo tempo), ma dalle falsità presenti in
quel rapporto che Chruščёv lesse nel corso del Congresso. Nella relazione al
convegno dà credito a una delle accuse principali che stavano alla base della
sanguinosa repressione staliniana contro gli oppositori, ovvero l'esistenza
nell'Unione Sovietica della «realtà corposa della quinta colonna» pronta ad
allearsi col nemico. Losurdo ribadisce di non voler riabilitare Stalin, seppur
calato nella sua epoca, volendo presentare solo un'analisi dei fatti più
neutrale e attuare un revisionismo sull'esperienza generale del socialismo
reale ritenuta passata, ma utile da studiare per capire le dinamiche future del
socialismo. Losurdo apparteneva alla corrente del marxismo-leninismo, ma
ammirava anche l'interpretazione che Mao Zedong diede della pluralità della
lotta di classe, da collocare nel contesto dell'attenzione che rivolge al
processo di emancipazione femminile e dei popoli colonizzati. Vicino prima al
Partito Comunista Italiano, poi al Partito della Rifondazione Comunista e
infine al Partito dei Comunisti Italiani, confluito nel Partito Comunista
d'Italia e nel Partito Comunista Italiano, di cui è stato membro, fu anche
direttore dell'associazione politico-culturale Marx XXI. Critico del liberalismo,
della NATO e dell'imperialismo, in particolare quello statunitense, Losurdo
contestò l'assegnazione del Premio Nobel per la pace a Xiaobo, considerato un
sostenitore aperto del colonialismo occidentale, in particolare per la sua
idealizzazione del mondo occidentale e per aver affermato che ci sarebbe
bisogno di «300 anni di colonialismo. In 100 anni di colonialismo Hong Kong è
cambiata fino a diventare ciò che è oggi. Data la grandezza della Cina,
ovviamente ci vorrebbero 300 anni per trasformarla in quello che Hong Kong è
oggi. E ho dei dubbi che 300 anni siano abbastanza». Saggi: “Auto-censura e
compromesso” (Napoli, Bibliopolis); “La questione nazionale, restaurazione.
Presupposti e sviluppi di una battaglia politica” (Urbino, Università degli
Studi);“La rivoluzione e la crisi della cultura” (Roma, Riuniti); “Lukacs” Urbino,
Quattro venti, Il comunismo e sui critici (Urbino, Quattro venti, La catastrofe
e l'immagine” (Milano, Guerini, Metamorfosi del moderno.Urbino, Quattro venti);
“La tradizione liberale. Libertà, uguaglianza, Stato, Roma, Riuniti); “Tramonto
dell'Occidente? Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli
studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino,
Quattro venti, Antropologia, prassi, emancipazione. Problemi del comunismo, e Urbino,
Quattro venti, Égalité-inégalité. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto
italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica,
Urbino, Quattro venti, Prassi. Come orientarsi nel mondo. Atti del convegno
organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi filosofici e dalla Biblioteca
Comunale di Cattolica (Urbino, Quattro venti); La comunità, la morte,
l'Occidente. L’ideologia della guerra, Torino, Boringhieri, Massa folla
individuo. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli studi
filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino, Quattro
venti, La libertà dei moderni, Roma, Riuniti, Napoli, La scuola di Pitagora,.
Rivoluzione francese e filosofia, Urbino, Quattro venti); “Democrazia o
bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale” (Torino, Bollati
Boringhieri, Il comunismo e il bilancio storico del Novecento, Gaeta,
Bibliotheca, Napoli, La scuola di Pitagora, Gramsci e l'Italia. Atti del
Convegno internazionale di Urbino, Napoli, La città del sole, La seconda
Repubblica. Liberismo, federalismo, post-fascismo, Torino, Boringhieri); “Autore,
attore, autorità” (Urbino, Quattro venti); Il revisionismo storico. Problemi e
miti, Roma, Laterza, Utopia e stato d'eccezione. Sull'esperienza storica del
socialismo reale, Napoli, Laboratorio politico, Ascesa e declino delle
repubbliche, Urbino, Quattro venti, Lenin, Atti del Convegno internazionale di
Urbino, Napoli, La città del sole, Metafisica. Il mondo Nascosto, Roma, Laterza,
Gramsci dal liberalismo al comunismo critic, Roma, Gamberetti, Dai fratelli
Spaventa a Gramsci. Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in
Italia” (Napoli, La città del sole); “Hegel e la Germania. Filosofia e
questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Milano, Guerini, Nietzsche. Per
una biografia politica, Roma, Manifesto); “Il peccato originale del Novecento,
Roma, Laterza, Dal Medio Oriente ai Balcani. L'alba di sangue del secolo
americano, Napoli, La città del sole, Fondamentalismi. Atti del Convegno
organizzato dall'Istituto italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca
comunale di Cattolica. Cattolica Urbino, Quattro venti, URSS: bilancio di
un'esperienza. Atti del Convegno italo-russo. Urbino, Urbino, Quattro venti, L'ebreo,
il nero e l'indio nella storia dell'Occidente, Urbino, Quattro venti, Fuga
dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e auto-fobia, Napoli, La
città del sole, poi Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione
cinese oggi, La sinistra, la Cina e l'imperialismo, Napoli, La città del sole, Universalismo
e etno-centrismo nella storia dell'Occidente, Urbino, Quattro venti, La
comunità, la morte, l'Occidente. Heidegger e l'ideologia della guerra (Torino,
Boringhieri); “Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e
bilancio critico, Torino, Boringhieri, Cinquant'anni
di storia della repubblica popolare cinese. Un incontro di culture tra Oriente
e Occidente. Atti del Convegno di Urbino, Napoli, La città del sole, Dalla
teoria della dittatura del proletariato al gulag?, Marx e Engels, Manifesto del
partito comunista, Laterza, Bari, Contro-storia del liberalismo, Roma, Laterza,
La tradizione filosofica napoletana e l'Istituto italiano per gli studi
filosofici, Napoli, nella sede dell'Istituto, Auto-censura e compromesso nel
pensiero politico di Kant, Napoli, Bibliopolis, Legittimità e critica del
moderno. Sul marxismo di Gramsci” (Napoli, La città del sole); “Il linguaggio
dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana” (Roma-Bari, Laterza); “Stalin. Storia
e critica di una leggenda nera, Roma, Carocci); “Paradigmi e fatti normativi.
Tra etica, diritto e politica, Perugia, Morlacchi, La non-violenza. Una storia
fuori dal mito, Roma, Laterza, La lotta di classe. Una storia politica e
filosofica, Roma, Laterza, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo,
guerra, Carocci,. Un mondo senza guerre. L'idea di pace dalle promesse del
passato alle tragedie del presente, Carocci. Il comunismo occidentale. Come
nacque, come morì, come può rinascere, Laterza.
PCI Ancona: cordoglio per la scomparsa, su il partito comuista italiano,
A. Orsi, Scienza e militanza. Un ricordo, MicroMega, Cordoglio, Il Metauro, Verso,
Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana, Roma, Laterza. Il comunista
contro-corrente. Un comunista eterodosso. Auto-censura e compromesso in Kant,
Napoli, Bibliopolis, Hegel e la libertà dei moderni, Roma, Riuniti, Napoli, La
scuola di Pitagora, Lukacs, Urbino, Quattro venti, Dai
fratelli Spaventa a Gramsci. Per una storia politico-sociale della fortuna di
Hegel in Italia, Napoli, La città del sole, Nietzsche. Il ribelle
aristocratico. La comunità, la morte, l'Occidente. Heidegger e l'deologia della
guerra; Controstoria del liberalismo, Laterza, Revisionismo storico. Peccato originale del Novecento. La non-violenza. Una storia fuori dal
mito. La non-violenza. Una storia fuori
dal mito, su L'Ernesto, Associazione Marx, Dalla teoria della dittatura del proletariato
al gulag?, in Marx, Engels, Manifesto
del partito comunista, Editori Laterza, Bari David Broder. Jacobin. Stalin.
Storia e critica di una leggenda nera. URSS: bilancio di un'esperienza. Atti
del Convegno italo-russo. Urbino, Urbino, Quattro venti, Popper falso profeta, Contro
Popper, Armando Editore, B. Lai e L. Albanese.
Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra auto-critica e auto-fobia.
Il linguaggio dell'impero. Lessico dell'ideologia, Lettere su Stalin; Stalin.
Storia e critica di una leggenda nera, su sissco. Stalin. Storia e critica di una
leggenda nera. A. Romano, Canfora e lo stalinismo che non fa male, ilcannocchiale.
In Memoriam, La Città del Sole, Stalin nella storia del Novecento, R. Giacomini,
Teti, Una teoria generale del conflitto sociale", Intervento al Congresso
Nazionale del PdCI. Il Consiglio Direttivo dell'associazione Marx Il Nobel per la pace» a un campione del
colonialismo e della guerra, il cavallo oscuro della letteratura, Open
Magazine, Open Magazine, H. Arendt Controstoria del liberalismo A. Gramsci
Genocidio indiano Grandi purgh, Heidegger, Marx, Nietzsche Olocausto, Stalin
Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo" - blogspot.com.
Intervista RAI Filosofia, su filosofia.rai. Intervist RTV Svizzera, su you tube.com.
Domenico Losurdo. Losurdo. Keywords: il ribelle aristocratico. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Losurdo, e
Nietzsche, ribelle aristocratico," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossa, Grice e Lottieri:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del bene commune –
diritto individuale – l’età degl’eroi – la ragione del stato – la scuola di
Brescia -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Abstract. Grice: “Communis’ is not used freely but
Roman philosophers, but notably as applied to ‘bonum’. It is the ‘bonum commune’
that we care about – and in fact, my principle of conversational helpfulness
incorporates what a decent chap should do – which in my seminar on ‘Decency’ –
I relate to rational co-operation. There is a strong connection and discussion
in Roman philosophy regarding the concept of bonum commune – the common good –
and its Greek counterpart, koinon aghaton. Here’s how they are linked. Shared
roots: Roman philosophy, especially THE PORTICO, drew heavily from Greek
tradition. Emphasis on practical ethics. Roman philosophrs, while familiar with
the theoretical aspects of Greek philosophy, were particularly interested in
applying ethical concepts to real life and social order. Stoic influence.
Stoicism, a prominent school in Rome, recognized the importance of working for
the COMMON GOOD, reflected in statements like ‘What injures the hive injures
the bee,’ by Marcus Aurelius. CICERO and the summon bonum. Cicero, a key Roman
philosopher, explored the concept of summum bonum – the highest good – as an
ultimate value that organizes ethical behaqvioaur – with the implication that
actions promoting THE COMMON GOOD contribute to the HIGHEST GOOD. Plato’s
influence. While the phrase ‘koinon agathon’, common good, appears only ONCE in
Plato’s dialogues – in Charmide – the concept of the COMMON GOOD is evident in
the broader context of his work, particularly in relation to KOINONIA
(community). Roman thinks were certainly aware of Plato’s work, including his
political thought as exemplified in his “Republic.” ARISTOTLE’S perspective. Aristotle
also addressed the COMMON GOOD in his political and ethical treatises, emphasizing
that just constitutions should govern in the interest of the community. In
essence, Roman philosophy, building upon Greek philosophical foundations,
actively engaged with and developed the idea of th common grood, expressing it
as conum commune. This concept becamse a fundamental principle in Roman ethical
and political thought, highlightning the welfare of the community about
individual interests. Here is a philosopher of ‘co-operation’ or the common
good, as the Ialtalians call it. Keywords:
bene comune – principio della benevolenza conversazionale -- Filosofo italiano.
Brescia, Lombardia. Grice: “I like Lottieri; he
has quoted Hobbes and Hume and Gauthier from a game-theoretical approach to
co-operation, conversational and other – all very Griceian, if I may mayself so
say it!” Allievo di Caracciolo, studia a Genova,
Ginevra e Parigi, su la filosofia di Mosca. Insegna a Siena e Verona. Da vita
all'Istituto Leoni, un istituto che si ispira alla tradizione intellettuale di
Einaudi e Ricossa, e di cui egli è direttore del dipartimento Teoria Politica.
Cura Leoni. La filosofia di L. si
sviluppa all'interno del liberalismo classico e, grazie allo studio degli
autori elitisti, si delinea quale critica del sistema di dominio iscritto nei
regimi democratici rappresentativi. Mostra l'adesione a tale prospettiva, che
rapidamente evolve grazie al contatto con il libertarianismo. Il suo libertarianismo
ottieri metta in discussione "la psicologia regolamentativa e
anti-innovativa del burocrate", avverso a ogni forma di rischio e
cambiamento. Il saggio sul libertarismo evidenzia l'adesione ai temi
classici del pensiero liberale lockiano e giusnaturalista (difesa della
proprietà, del mercato, dell'auto-nomia negoziale), ma anche il maturare di
questioni che sono invece tutte interne al realismo politico: specie nel
confronto con Schmitt, Brunner e MIGLIO (si veda). Mentre il testo sul
rapporto tra economia di mercato e ordine sociale/comunitario (Denaro e
comunità) è una critica della sociologia, a cui è rimproverato di avere
frainteso la natura inter-personale della moneta e delle relazioni di mercato,
il saggio su Leoni muove dal pensatore torinese per delineare una filosofia
libertaria anche oltre la lettera stessa dell'autore di Freedom and the Law. In
particolare, in questa fase della riflessione Leoni viene individuato come uno
studioso in grado di dare una maggiore consapevolezza filosofico-giuridica alla
teoria libertaria, fino ad ora elaborata per lo più da economisti e teorici politici. “Denaro
e comunità: relazioni di mercato e ordinamenti giuridici nella società liberale”
(Napoli, Guida) “Il pensiero libertario contemporaneo. Tesi e controversie
sulla filosofia, sul diritto e sul mercato, Macerata, Liberi “Le ragioni del
diritto: libertà individuale e ordine giuridico” (Treviglio Mannelli, Rubbettino);
“Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno” (Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Credere nello Stato? Teologia politica e dissimulazione da
Filippo il Bello a Wiki Leaks” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e non:
(cf. Griceiani e non.) percorsi di storia del pensiero politico” (Brescia, La
Scuola); Ferrero in Svizzera. Legittimità, libertà e potere, Roma, Studium, Un'idea elvetica di libertà. Nella crisi
della modernità europea” (Brescia, Scuola); ““Beni comuni, diritti individuali
e ordine evolutivo,”Torino, IBL. Nella sua filosofia sull'unificazione europea,
in particolare, è cruciale l'opposizione tra l'armonizzazione spontanea
emergente dal basso e l'unificazione coercitiva. Lottieri identifica quattro
superstizioni o quattro credenze erronee che sotto alla base dei tentativi di
creare un nuovo stato chiamato ‘Europa'. Primo, l'idea che la libertà
individuale e il poli-centrismo giuridico causino tensioni e, in definitiva,
conflitti; Secondo, che il mercato derivi dall'ordine giuridico creato dallo
Stato; Terzo, che l'esistenza di una distinta identità europea esiga la
costruzione di un singolo stato continentale; e quarto, che un'Europa unificata
e più armoniosa e meglio in grado di sostenere lo sviluppo delle sue componenti
più povere. Individuato come uno degl’esponenti di un liberalismo
particolarmente radicale e volto a proporre una sorta di fuga dallo stato:
Dario Fertlio, "Libertari: la grande fuga dallo Stato, Corriere della
Sera. Una disamina molto critica al limite dell'insulto personale di tale
liberalismo libertarian si ha nella recensione che Vitale dedica al volume su
Rothbard scritto a quattro mani da lui assieme a Diciotti (basato su un
confronto assai franco tra prospettive molto diverse): una recensione che,
rivolgendosi al solo Diciotti, si chiudeva con l'invito per il futuro “ad
occuparsi di un autore più interessante con un autore più interessante” (E. Vitale,
“Rothbard, un Trasimaco piccolo piccolo. E una modestissima proposta”, Teoria politica).
Vernaglione, Il libertarismo. La teoria, gli autori, le politiche, Mannelli, Rubbettino). Un riferimento
garbatamente polemico alle sue posizioni gius-naturaliste di si trova in D
Antiseri (Laicità.. Le sue radici, le sue ragioni, Rubbettino). La stessa
contrapposizione è al fondo di una discussione tra i due riguardante proprio i
contenuti di quel volume://blog. centrodietica/. Questo saggio e una presentazione completa e
approfondita della filosofia libertaria nelle sue diverse varianti, mentre si
evidenzia anche un approccio libertario ai problemi eco-logici. Ce sono riserve
nei riguardi delle tesi libertarie e dell'ispirazione anarchica della sua teoria
del diritto. Nella sua monografia su Leoni (L'ordine giuridico dei private” (Soveria
Mannelli, Rubbettino) pure Grondona sviluppa alcune critiche nei riguardi
dell'interpretazione dello studioso torinese offerta da lui mentre in maggiore
sintonia con le sue posizioni si trova Favaro (“ Dell'irrazionalità della legge
per la spontaneità dell'ordinamento” (Napoli, Scientifiche). Mostra che,
contrariamente a un'opinione diffusa, le distanze fra la concezione del diritto
di Leoni e quella di Hayek sono notevoli. In ogni caso non e Hayek a
influenzare Leoni ma il secondo a influenzare, almeno in parte, il primo. Per
un'equilibrata analisi del saggio si veda: M. Grondona, "Recensione Le ragioni del diritto", Nuova
Giurisprudenza Ligure. Nome compiuto: Carlo Lottieri. Lottieri. Keywords: bene
commune, diritto individuale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lottieri” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Luca: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nell’arte d’amare – la
scuola di Marostica -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Marostica). Abstract: Grice: “In all my career as a philosopher at
Oxford, I was never asked to philosophise about love – that makes me a very un-Italian
type of philosopher – cf. ‘It’s amore!” – However, when I lectured to my pupils
on ‘conversation,’ I borrow from Butler this idea of ‘self-love’ and come up
with a principle of conversational self-love. These were the days when I
prefaced every philosophical term with the adjective ‘conversational.’ A pupil
suggested that to counterbalance the principle of conversational self-love I should
institute, invoke, or appeal to, the principle of conversational OTHER-love;
but I found it a bit too technical. Bishop Butler himself never speaks of
other-love, but of benevolentia – so there came my principle of conversational
benevolence. At a later stage, this conversational benevolence becomes the
principle of conversational helpfulness, and I reserve the term ill-will to my
seminars on Kant!” Filosofo italiano. Marostica, Vicenza, Veneto. Grice: “Luca
expands on Alcibiades – I have touched the topic of Alcibiade when discussing
eudaemonia, as literally having to do with the eudaemon – and the expression
occurs in connection with Socrate/Alcibiade -- Grice: “One good thing about
Luca is that if my philosophy revolves around ‘reason,’ his does it around
‘eros’!” -- Frequenta il Liceo Ginnasio Brocchi di Bassano del Grappa. Si laurea a Firenze, con la tesi, “Platone e il
problema del linguaggio” con relatore Adorno.
È stato incentrato inizialmente sulla tematica dell’’amore’ nella
tradizione greco-romana del Convitto e Fedro. Mmantenuto però una costante
apertura al ‘mythos’ di Omero, nella convinzione che per quanto differenti
possano essere i costumi o gli statuti sociali, rimane un elemento per così
dire “originario”, intrinsecamente umano, nell’approccio con il desiderio,
l’amore, l’amicizia, la sessualità. In Labirinti dell’Eros, pur sviluppandosi
la tematica all'interno di un arco di tempo definito, l’intento non è quello di
affrontare l’argomento nella sua unita longitudinale ma di esprimere, senza
costrizioni di un “per-corso pre-figurato” una distinzione logico concettuale,
attraverso la quale conseguire, almeno, un punto fermo nell'amatoria. Riguarda
anche lo sviluppo della tradizione pitagorico-platonica, sia nelle sue
caratteristiche peculiari ed in rapporto alla metafisica, sia nell'accezione
più ampia rispetto all'esigenza di dare conto "dei fenomeni" o
sensibilia. Si orientata alla tarda produzione platonica e al pitagorismo di
seconda generazione, che vengono analizzati anche attraverso la cosmologia. Saggi:
“Il Simposio, Nuova Italia, Firenze, Platone, Fedro, Nuova Italia, Firenze, Eros
e Epos: il lessico d'amore nei poemi omerici, L’amatoria, L.S. Gruppo editoriale,
Quarto Inferiore (BO); “Platone e la sapienza antica. Matematica, filosofia e
armonia, Marsilio, Venezia, Labirinti dell’Eros. Da Omero a Platone, con un
saggio, Marsilio Venezia. Nome compiuto: Roberto Luca. Luca. Keywords: l’arte
d’amare, Ovidio, il convito, I dialogui dell’amore: il convito e Fedro, l’amore
degl’eroi – achille e patroclo – niso ed eurialo – la filosofia dell’amore nel
convito, la morte di Patroclo, la morte di Niso, la morte di Eurialo, l’eroe
tragico, Achille eroe tragico, Eurialo e Niso, eroi tragici, Enea, eroe
tragico, Aiace, eroe tragico, Catone di Utica, eroe tragico, la morte di
Eurialo – la morte d’Eurialo – la pederastia – Eurialo piu giovane da Niso. Luigi
Speranza, “Grice e Luca: amatoria conversazionale: la massima o principio
dell’amore proprio conversazionale e la massima dell’amore all’altro. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Luca” – The Swimming-Pool Library. Luca. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Luca.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lucano: la ragione convrsazionale al portico romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Abstract. Grice: “It
has to be rememberd that philosophers of my generation learned philosophy via
the classics – at the sub-faculty of philosophy which was officially a branch
of the larger Faculty of Literae Humaniores; therefore, Lucano was second
nature to me! However, ‘classicists’ are no philosophers, and they rely on
-isms like ‘stoicism’ – the Italians prefer the more concrete Portico – to refer
to god knows what. I would myself be challenged if a pupil of mine were to ask
me what the defining characteristics are that make, say, Aeneas, a stoic hero,
as he was not, of course!” -- Filosofo italiano. The nephew of Seneca, he achieves fame with a poem
about the civil war between GIULIO (si veda) Caesar and Pompeo. He follows the
Porch, as tutored by Lucio Anneo Cornuto. Farsaglia. Nome compiuto: Marco Anneo Lucano. Lucano.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lucano.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lucceio: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Abstract: “When I
refer to the Athenian dialect, to contrast it with the Oxonian dialectic which
I knew, I focus mainly on barefoot Socrates at the agora, Plato at the academy,
and Aristotle at the Lycaeum – but of course, at least three other think tanks
must be added: l’Orto – made popular at Oxford by Walter Pater and his Marius
--, the Portico, and the Cynargo – in fact, these three sects were the most dialectical!”
-- Filosofo italiano. A historian and a friend of CICERONE. Some of Cicerone’s
letters to L. suggests that he may have followed the sect of L’ORTO. Citato da Svetonio. Amico di Giulio Cesare. Citato da
Livio. Lucio Lucceio. Keywords: Livio. Lucceio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Lucceio”.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Luciano: la ragione conversazionale e la gnossi -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza, per il Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library (Roma).
Grice: “I often
wondered why ‘gnoseology’ was never a popular subject matter within the
sub-faculty of philosophy. Now I know: it’s because it’s silly associations
with the ‘gnostics’ – a term of abuse to many! Strictly, it may be argued that
a gnostic is a knower – such as a pupil who answered 1811 upon being questioned
when the battle of Waterloo took place. There are however implicatural
distinctions between a sophos – a wise man – and a ‘gnostic’ – The Latin term ‘gnosticus’
and the English term ‘gnoseology’ both derive from the Ancient Greek term
gnosis. Here’s a beakdown of the etymological connections. Gnosis, in Ancient
Greek, the root of these terms, gnosis, is a Greek word for ‘knowledge.’ In the
Hellenistic era, gnosis becamse particulary associated with MYSTICAL or
spiritual knowledge and insight into a higher reality. It is also linked to the
Indo-European root gno- which means to know. The Latin term gnosticus is
derived from the Late Greek term gnostikos, which was used to refer to someone
who possessed this special, often mystical, knowledge. It specifically means ‘a
gnostic,’ – a person bleongin to a particular set of religious groups. The
English term ‘gnoseoloy’ (or gnoseology) literally translates to ‘the study of
knowledge’. It’s a philosophical term that explores the nature, origin,
validity, and limits of knowledge itself. This term directly incorporates the
root gnosis (knowledge) and combines it with -logy, meaning study of. In
essence, gnosis provides the core meaning of ‘knowledge’in both terms. Gnosticus
narrows this down to spomeone possessing a specific type of mystical knowledge,
while gnoseology focuses on the broader philosophical inquiry into the concept
of knowledge itself. Filosofo italiano. A
gnostic, a follower of Cerdo. Nome compiuto: Luciano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Luciano.”
Luigi Speranza -- GRICE ITALO!; ossia, Grice e Luciano: la ragione conversazionale e
il cinargo romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza, per il Gruppo
di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Abstract. Grice: “When I
refer to the Athenian dialectic to compare it to the Oxonian dialectic, I focus
mainly on Socrates, barefoot at the agora, or Plato at the academy, and
Aristotle at the Lycaeum. But of course, the Orto, the Portico, and the Cinargo
have to be added – since THEY were the best dialecticians!” -- Filosofo
italiano. He studies at Rome with Nigrino
-- whom some suspect to be his invention – and Albino, of the Accademia.
Also influenced by Demonax, whose philosophical outlook is more eclectic,
although he is generally regarded as a member of the Cinargo. He is famous for
his essays and dialogues, mostly satirical, many of which have survived. A
number of philosophers appear in them, although not all of them may have
existed. As a satirist, he is more interested in mocking pomposity and exposing
hypocrisy than in advocating any positive doctrine. Loeb. Nome compiuto: Luciano. Refs.: Luigi Speranza: “Gric
e Luciano.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lucilio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza, per il Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Sessa Aurunca). Abstract. Grice: “When I studied philosophy at Oxford,
it was done at the sub-faculty of philosophy, part of the larger Faculty of
Literae Humaiores. I remember the horror our tutors would experiment when they
would see any of us pupils carrying a volume of the Loeb classical library –
say: Remains of Old Latin – in our gentleman’s pocket!” -- Filosofo italiano. Alcuni romani insigni nutrirono interesse vivo per i
problemi della filosofia. L. Ciò si può dire di un membro del circolo degli
Scipioni, nato da famiglia ricca e distinta. L. ha un fratello che e
senatore e, per mezzo della figlia, nonno di Pompeo. L. conosce la cultura
greca (di cui si penetra) nell’Italia meridionale e a Roma, ove passa la
maggior parte della vita. Forse soggiorna anche in Atene. Come cavaliere L.
partecipa alla guerra contro Numanzia, agli ordini di Scipione Emiliano
L'Affricano, con cui aveva già stretti rapporti.In seguito appoggia
del'Affricano energicamente l'azione politica. L. fa parte, oltrechè del
circolo degli Scipioni, di uno più ampio. L. e amico dell'accademico
Clitomaco, che gli dedica un libro. Morì a Napoli. L. scrive XXX libri di
satire -- un genere filosofico --, di cui restano frammenti.In esse satire, L.
rappresenta e critica la vita romana dell’età sua, interessandosi soprattutto
di questioni politiche.Dei vizi del tempo L. e giudice severo. L. si
occupa molto di problemi logico-grammaticali, retorici e letterari.Si interessa
anche di filosofia speculativa, alla quale deve avere dedicato una
satira. Nei framm. del l. 28 la teoria dell’ORTO è confutata
verisimilmente da uno dall’ACCADEMIA, anche perchè vi si trovano varie notizie
sulla storia di tale scuola. La forma e il contenuto delle satire di L.
rivelano l’influsso della filosofia popolare del cinismo di Bione e di
Menippo. Un ampio frammento in cui L. dipinta la virtù romana, secondo
alcuni proviene da Panezio, secondo altri da Cleante: però qualche storico pone
L. in relazione con l'Accademia. A poetical philosopher, he writes many satirical
works. Although philosophy is one of his subjects, many of his writings are
concerned with social morals and standards of public life. Only fragments
survive. Climotaco dedicates a ‘saggio’ on the suspension of judgment to him.
Ed. Warmington Loeb, Remains of Old Latin. Nome compiuto: Gaio Lucilio. Keywords:
Livio. Lucilio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Lucilio.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lucilio: la ragione conversazionale e il portico romano
-- l’implicatura conversazionale -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Abstract. Grice: “At
Oxford, we speak of the Porch – the Romans spoke of Porticus, and the Athenians
SAW it. I would be puzzled if a pupil of mine would challenge to define ‘stoicism’
by a word other than one making reference to such a stupid architectural
feature as a porticus! But I should try harder!” Filosofo italiano. A poetic philosopher.
Best known as the friend of Seneca, to whom CXXIV letters are written
discussing a wide range of issues from a primarily point of view of the Porch. Nome compiuto: Gaio Lucilio Minore. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Lucilio”.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Lucio: la ragione conversazionale e il cinargo romano --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract: “When I refer to the Athenian dialectic, to
oppose it to the Oxonian dialectic, I mainly focus on Socrates, at the agora,
Plato, at the academy, and Aristotle, and the lycaeum – but it must be
remembered that, small as it was – compared to London, or Paris, or even Rome –
Athens included other think tanks, such as the Porch, the Garden, and the ‘cynargo’!”
Grice: “The toponymy of the Athenian dialectic was particularly popular at
Rome!” Filosofo italiano. Of the Cynargo and an opponent of Favorino. Lucio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lucio.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Lucrezio: la ragione conversazionale e l’orto romano –
l’limplicatura conversazionale dell’alma figlia di Giove – Roma == filosofia
italiana – Luigi Speranza, per il Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Pompei). Abstract. Grice: “It has to be remembered that
philosophers of my generation first ecountered philosophy via the classics. I
would never have thought of philosophy had I not won a more popular ‘classical
scholarship’ to Corpus at Clifton – and the rest is history. Therefore,
Lucrezio was second nature tome!” -- Filosofo italiano. Grice: “By far the most important concept in Lucrezio’s
philosoophy is that of clinamen that Strawson translates as the ‘swerve.’ It
was saved from extinction by an Italian – as the novel tells you!” Grice:
“While Strawson reads it in Latin, I prefer the version in the vulgar!” – Grice:
“And by the vulgar I mean Marchetti!” Grice: “It’s amazing how well Marchetti
interprets Lucezio – there is a little treatise on Epicureanism in the Lucrezio
by Marchetti which is interesting. A real continuity in Italian philosophy!” --
possibly the most important Italian philosopher. Seguace dell'epicureismo. Della sua vita ci è ignoto
quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana, né sembra
esistere negli scritti dei contemporanei, in cui non viene mai citato, eccezion
fatta per la lettera di Cicerone ad Quintum fratrem II 9, contenuta nella
sezione Ad familiares, in cui il celebre oratore accenna all'edizione, forse
postuma, del poema di L., che egli starebbe curando. Ma in scrittori romani
successivi egli viene spesso citato: ne parlano Seneca, Frontone, Marco
Aurelio, Quintiliano, Ovidio, Vitruvio, Plinio il Vecchio, senza tuttavia
fornire nuove informazioni sulla vita. Questo però dimostra che non si tratta
di un personaggio inventato. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel
suo Chronicon o Temporum liber, di cinque secoli dopo, in cui, ispirandosi ad
alcuni dubbi passi di Svetonio, ci dice che sarebbe nato morto suicida. Tale dato non concorda
tuttavia con quanto affermato da Elio Donato, maestro di Girolamo stesso,
secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando indossò la toga virile,
nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo
dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio mori nel 55 a.C., all'età di quarantatré anni.
Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate
direttamente dall'antichità. Ignoto risulta anche il luogo di nascita,
che tuttavia taluni hanno creduto essere Ercolano, per la presenza di un
Giardino Epicureo in quest'ultima città, in particolare, dall'analisi di
numerose epigrafi risalenti all'epoca dell'autore latino, risulta evidente
un'ingente presenza del cognome Carus nell'antico territorio campano, secondo
la critica recente la suddetta indagine prova fermamente (nei limiti del
probabile) le origini campane di L.. Neppure la sua militanza politica sembra
essere ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto
ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico, per altro solitamente
stoico, che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio
dell'"amico" epicureo, che vede nella pace e nel benessere di tutti
la possibilità di fare accoliti e viver serenamente. È tuttavia rilevante il
fatto che la sua opera De rerum natura sia dedicata a Memmio, fine letterato e
appassionato di cultura greca, ma anche e soprattutto membro di spicco degli
optimates. Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare
alla fine del proemio della sua opera una "placida pace" per i
Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo
in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e
perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata
da un secolo di guerre civili e lotte intestine. La scarsità delle fonti
sulla sua vita ha portato molti a interrogarsi persino sulla stessa esistenza
del filosofo, a volte considerato solo uno pseudonimo sotto il quale si celava
un anonimo filosofo per alcuni un amico epicureo di Cicerone, Tito Pomponio
Attico, che si suicidò, o persino lo stesso Cicerone. Secondo lo storico
Luciano Canfora, è possibile ricostruire una scarna biografia di Lucrezio:
nacque ad Ercolano, dove aveva una villa la famiglia nobiliare di un possibile
parente, Marco Lucrezio Frontone) appartenente quasi sicuramente all'antica
famiglia nobile dei Lucretii (qualcuno ne fa invece un liberto della stessa
famiglia). Studiò l'epicureismo proprio ad Ercolano, dove si trovava un centro
della "filosofia del giardino", diretta da Filodemo di Gadara, allora ospite nella villa
di Lucio Calpurnio Pisone, il ricco suocero di Cesare (la cosiddetta "villa
dei papiri"). Avrebbe sofferto di sbalzi d'umore, chiamati oggi
disturbo bipolare, ma non sarebbe stato pazzo, ma di questo umore alterno
risentì il suo lavoro. In disaccordo con le guerre civili, avrebbe lasciato
Roma e non sarebbe morto suicida ma avrebbe viaggiato ad Atene, nei luoghi del
maestro Epicuro, e oltre, essendo forse il suo nome conosciuto da Diogene di
Enoanda, quindi quasi in Asia minore, nelle cui famose incisioni sotto il
portico della sua casa si ricorda un certo "Caro" (nome poco
diffuso), romano, e sapiente epicureo. Non si sa se il poema fosse
diffuso nell'oriente, quindi è possibile che Lucrezio si fosse davvero recato
in Grecia. Lucrezio, spinto da una delusione d'amore, si sarebbe allontanato
lasciando incompiuto il suo poema, affidato forse a Cicerone stesso (che
difatti non parla effettivamente di suicidio ma afferma: «Lucretii poemata, ut
scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis» ("le
poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e
tuttavia di molta arte"), ma, forse, senza impazzire e morire (che fosse
suicidandosi o perché assassinato), esagerazione della fonte di Girolamo o di
qualche altro avversario di Lucrezio, e sarebbe stato forse volutamente confuso
dallo stesso Girolamo con Lucullo, onde screditare l'epicureismo. Il
destinatario dell'opera, Gaio Memmio, caduto in disgrazia ed espulso dal Senato
per condotta immorale, andò ad Atene, causando una nuova delusione a Lucrezio,
che, tornato a Roma, sarebbe morto. La
notizia di un "filtro d'amore" velenoso somministratogli da una donna
di facili costumi, amante gelosa di Lucrezio, viene riportata anche da Svetonio
nei confronti di Caligola e della moglie Milonia Cesonia; in questo caso è
apparsa una semplice diceria, e, data l'ispirazione svetoniana (dal perduto De
poetis) del passo di Girolamo su Lucrezio, anche lì sembra essere una
spiegazione semplicistica, dovuta alla poca conoscenza dei disturbi psichici
che si aveva all'epoca (anche per Caligola si parlò, difatti, come per
Lucrezio, di epilessia e malattie fisiche misteriose che l'avrebbero fatto
impazzire improvvisamente, come, nel caso di studiosi moderni, l'avvelenamento
da piombo, oltre che dei detti "filtri"). Se Lucrezio soffrì di
un disagio psichico, che lo avrebbe spinto a cercare sollievo nella filosofia,
non fu a causa di un veleno, e se il suicidio ci fu (il che potrebbe spiegare
l'abbandono improvviso del poema), la causa potrebbe essere stata di natura
politica — come sarà più tardi il caso di Catone Uticense —, ovverosia la
rovina del suo protettore Memmio e della sua cerchia culturale. Virgilio, che
lo rispettava anche se era passato dall'epicureismo, abbracciato in gioventù,
alle teorie pitagoriche, parla di lui nelle Georgiche e nelle Bucoliche,
definendolo "felix" (ossia "prediletto dalla dea fortuna") e
non "folle". Secondo Guido Della Valle, la V ecloga, che parla della
morte di un personaggio chiamato Dafni (a volte identificato con Cesare, a
volte con Flacco, il fratello di Virgilio), potrebbe riferirsi invece alla
morte dello stesso Lucrezio, definita "immatura e innaturale", cioè
avvenuta per cause traumatiche. Il movente politico e morale del gesto potrebbe
essere la causa del silenzio attorno ad esso e del fiorire di aneddoti per
giustificarlo, dato che non si poteva cancellare la grandezza filosofica di
Lucrezio, con una sorta di damnatio memoriae di solito riservata ai nemici
politici. Essi erano spesso vittime delle liste di proscrizione dei
vincitori, come quella di Marc’antonio che colpirà Cicerone, e molti si
toglievano la vita, in quanto morte onorevole per i costumi romani; Virgilio e
Orazio, estimatori di L., facevano parte della corte di Augusto, e dovevano
quindi allinearsi alla linea culturale dettata dall'imperatore, assertore
dell'antica moralità e diffusore della leggenda di Cesare (per cui venivano
cancellate le espressioni scomode di dissenso), e dal suo amico Mecenate, in
cui l'epicureismo, se non sfumato come in Orazio appuntocosì come ogni opera
che non fosse celebrativa del princeps e della grandezza di Roma non trovava
spazio, per cui Lucrezio verrà ricordato solo come grande poeta, tralasciandone
l'aspetto filosofico. Secondo Della Valle, quindi, Lucrezio si sarebbe
tolto la vita come gesto di protesta contro la classe politica in ascesa, o
perché condannato a morte da essa. L., per il periodo in cui è vissuto,
personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso
corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di
Catilina. In un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà
politica nell'hortus epicureo significa sottrarsi ai negotia politici e uscire
di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere. Le più forti correnti
stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in
quanto più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicureismo era
invece presente anche attraverso il citato Filodemo e altri in Campania, dove
Virgilio avrebbe approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo. Orazio non lo
nomina, ma è evidente che lo conosce, e ideologicamente gli è più vicino di
altri. La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo
pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi
allucinate, critiche e ambigue espressioni (Grice), che accompagnano il poema.
Alcuni teologi come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un
ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi
qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di
pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine
psichico. In realtà l'ipotizzata pazzia di L. appare oggi più plausibilmente un
tentativo di mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta
morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che
travia chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base
dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento
quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad
Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni. Comunque altri scrittori cristiani
come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si
fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di Girolamo
si fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe
anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione “Luc.,” impiegata
indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus
e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio LUCULLO (si veda),
politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a
causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione “Luc.”
potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi. A causa
dell'impossibilità di ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il
progetto filosofico che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo
dalla sua opera, considerata tra le più vigorose d'ogni età. Bisogna ora
individuare le motivazioni che spinsero L. a scrivere il De rerum natura, che
fondamentalmente sono due. La prima è una ragione etico-filosofica, in quanto L.,
affascinato dalla filosofia epicurea, desiderava invitare il lettore alla
pratica di tale filosofia, incitandolo a liberarsi dall'angoscia della morte e
degli dèi. La seconda motivazione invece è di carattere storico. L. era conscio
che la situazione politica a Roma peggiorasse di giorno in giorno: Roma era
quadro ormai di continui scontri bellici e conseguenti dissidi; giustappunto
egli, con un evidente positivismo, voleva incoraggiare il cittadino-lettore
romano a non perdere la fiducia verso un successivo miglioramento della
situazione. L. si proponeva di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo
all'epicureismo che era stato declinato in favore dello stoicismo. La prima
cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più
propriamente romana. Non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe
terrifero e de le acque", come farà dire Virgilio alla Sibilla Cumana in
un colloquio con Enea. Non c'è una ragione seminale universale responsabile
della vita nel cosmo, destinata a deflagrare per poi ricominciare un nuovo,
identico, ciclo esistenziale, come voleva la fisica stoica, ma un mondo che non
è unico nell'universo, peraltro infinito, essendo uno dei tanti possibili. Non
c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi,
ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum
regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile
come utile ma falsa. Egli afferma fin dal libro I del De rerum natura. Tanto
male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai
terribili detti dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero,
infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme
della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori! Giustamente, poiché se
gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli, in qualche modo
potrebbero contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste
tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo occorre che non i raggi del sole
né i dardi lucenti del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la
scienza... E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla,
allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle nostre
ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia
senza opera alcuna di dèi. Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli dèi
latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta,
giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli dèi, seppur esistenti e anche
loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si
curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella
scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la
vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è
la divina voluptas, Venere: il piacere, la vita stessa intesa come animazione
regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta
portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli
elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la
natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della
conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta
rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente
affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo
infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è
portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto
umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di
Roma. Epicuro è comunque, per Lucrezio, il più grande uomo mai esistito, come
risulta dai tre inni a lui dedicati (chiamati anche "trionfi" o
"elogi"): «E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si
spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore
e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può
nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere
definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta
sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al
cielo. Il De rerum natura e un poema didascalico in esametri, di genere
scientifico-filosofico, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi), comprendente
un totale di 7415 versi, che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente
più ampie: dagli atomi si passa al mondo umano per arrivare ai fenomeni
cosmici. Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura
del poema Περὶ φύσεως di GIRGENTI (vedasi) (anche un'opera dell’ORTO aveva il
medesimo titolo). Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne
che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in
tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade
contiene un inno ad Epicuro, mentre il secondo e il terzo libro (in
quest'ultimo è presente anche un'esposizione della sua estetica) si aprono
entrambi con un inno alla scienza. Essendo un poema didascalico, ha come
modello Esiodo e quindi anche GIRGENTI (vedasi), che aveva preso il modello
esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri
modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che
usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria. Il
destinatario e i destinatari Il dedicatario dell'opera è la Memmi clara
propago, ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si identifica
con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore
si prefigge di conquistare è il giovane aperto ad ogni esperienza, che un
giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata
con tanto fervore da L.. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: da adulto divenne
un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e
fu allontanato dal Senato probri causa, cioè per immoralità. Riparò quindi in
Grecia, dove scrisse poesie licenziose e dove ce lo menziona anche Cicerone
(nelle Ad Familiares), intenzionato a distruggere la casa e il giardino in cui
proprio Epicuro risiedette, per costruirsi un palazzo, suscitando lo sdegno
degli epicurei che fecero istanza a CICERONE stesso di intervenire per
impedirglielo, senza che però Cicerone ci riuscisse. In un simile progetto L.
scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio
Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra
loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua), lo vede
costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con
l'arcaismo, ancora che proprio L., insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori
del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio
comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo
più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi
cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza
filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté,
egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "atomus" per Ατομος)
e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari
dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi.
Ed è proprio grazie all'arcaismo che L. riesce a rendere possibile tutto
questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo
"munificenza" ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e
moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e
omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che L.non si limitò a trasmettere
il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece attraverso
un poema che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia,
parla per squarci imaginifici. Sul piano teorico l'opera di Lucrezio si
caratterizza come una puntualizzazione di quella epicurea con alcune
esplicazioni che nel suo referente greco non erano abbastanza chiare. Il
concetto di parenklisis che Lucrezio tradurrà con clinamen mancava di definizione
chiara. Nella Lettera ad Erodoto Epicuro poneva infatti la parenklisis ma poi
parla piuttosto di una deviazione per urto. Il celebre passaggio del libro II
del De rerum natura dice: Perciò è sempre più necessario che i corpi
deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter
immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce. Infatti è
evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se stessi non
possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è facile
constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna deviazione
dalla linea retta del loro percorso? Lucrezio precisa poi ulteriormente le
modalità del clinamen aggiungendo: «Infine, se ogni moto è legato sempre
ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi
primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che
infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa non sussegua a
causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde
proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in virtù della quale
procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro percorso non in un
momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la
mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere suggerisce
l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra] Per quanto
riguarda la sfera del vivente Lucrezio la collega direttamente agli atomi nel
loro processo creativo, scrivendo: Così è difficile rescindere da
tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto si dissolva.
Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si
producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna
di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima
separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira
dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi. Lucrezio riprende
in maniera radicale la tesi già di Epicuro. La religione è la causa dei mali
dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la
ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente e, soprattutto, di poter
accedere alla felicità, da raggiungere attraverso la liberazione dalla paura
della morte. Il poema ha come argomenti principali la lacerante antinomia fra
ratio e religio, l'epicureismo e il progresso. La ratio è vista da Lucrezio
come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità»,
è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo, quindi la dottrina
epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza, che
lo stesso L. denomina spesso con il termine "superstitio". Indica
l'insieme di credenze e dunque di comportamenti umani "superstiziosi"
nei confronti degli dèi e della loro potenza. Poiché la religio non si basa
sulla ratio essa è falsa e pericolosa. Afferma che sono evidenti le nefaste
conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo
poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà, come
nell'Evemerismo. La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e
dell'infelicità degli uomini. L. riprende i temi principali della dottrina
epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la "parenklisis" (che
egli ribattezza clinamen), la liberazione dalla paura della morte, la
spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici. Egli
opera un completamento di essa in senso naturalistico ed esistenzialistico,
introducendo un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da
attribuirsi a una personalità malinconica. Da un punto di vista ontologico,
secondo Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state
"partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma
egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte
sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono
estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della
vita sono riuscite a riprodursi. Tale concezione atea, materialista,
antiprovvidenzialista e storica della natura sarà ereditata e rielaborata da
molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare gli illuministi
Diderot, d'Holbach e La Mettrie, anch'essi atei dichiarati e a loro volta
divulgatori dell'ateismo; Lucrezio sarà inoltre seguito da Foscolo e Leopardi. L.
nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e
afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la
produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura. Però, il progresso
non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è
invece fonte di degradazione morale, lo condanna duramente. Lucrezio introduce
nel III libro del De rerum natura una chiarificazione che nel mondo latino era
stata trascurata generando non poche confusioni, circa il concetto di “animus” in
rapporto a quello di anima Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza
stessa del corpo, che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale
sia la natura dell'animo e dell'anima quasi una parte dell'uomo -, rigetta il
nome di armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno
forse tratto d'altrove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome.
Tu ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti
tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il
pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e
che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti
l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque
la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo,
obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola
prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il
corpo. L. riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica
ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade
tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con l'ultimo
respiro". L'"animus" invece è identificabile col
"noùs" ellenico, traducibile in latino con mens. Dunque animus e mens
paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell'unità mentale.
L'indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto
di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la
sensibilità umana, centro dell'emozione e del sentimento. Parrebbe allora che
l'animus sia insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima è soffio vitale. L'angoscia
esistenziale Il De rerum natura è ricchissimo di elementi tipici
dell'esistenzialismo moderno, riscontrabile specialmente in Leopardi, che
dell'opera di L.era un profondo conoscitore, anche se in realtà non è noto il
lasso di tempo in cui Leopardi lesse L.. Questi elementi di angoscia hanno
indotto alcuni studiosi a sottolineare il pessimismo di fondo che si opporrebbe
alla volontà di rinnovare il mondo a partire dalla filosofia epicurea; in altre
parole, in Lucrezio ci sarebbero due spinte contrapposte; l'una dominata dalla
razionalità e fiduciosa nel riscatto dell'uomo, l'altra ossessionata dalla
fragilità intrinseca degli esseri viventi e dal loro destino di dolore e morte.
Altri studiosi, però ritengono che l'insistenza di Lucrezio sugli aspetti
dolorosi della condizione umana non sia altro che una strategia di propaganda,
per fare emergere più fortemente la funzione salvifica della ratio epicurea. S'intende,
ciechi alla dottrina di Epicuro. Sul
luogo di nascita: anche se c'è chi afferma fosse nato a Roma, si ritiene quasi
all'unanimità che fosse originario della Campania: di Napoli, di Ercolano, o,
secondo recenti studi epigrafici, di Pompei, dove il nomen e il cognomen Tito e
L. sono attestati, e la gens Lucretia ha delle ville cfr: Biografia di L.; o
perlomeno vi avesse abitato a lungo cfr. Enrico Borla, Ennio Foppiani,
Bricolage per un naufragio. Alla deriva nella notte del mondo, cfr. anche la
Lucrezio Caro, Tito su Enciclopedia Treccani
Sulla data di nascita: molti optano per il 98 a.C. o secondo altri 96
a.C. Secondo alcune fonti: Lucretius
testimonia vitae Canfora, Vita di L., Sellerio, o secondo altri 53 a.C., cfr. Paolo Di Sacco,
M. Serio, "Odi et amoStoria e testi della letteratura latina" L'età
arcaica e la repubblica", Scolastiche Mondadori, Modulo. Testimonianze su
L. Canfora. Lucrezio, De rerum natura, L., De rerum natura, Enrico Fichera, I
"templa serena" e il pessimismo di Lucrezio: echi lucreziani nella
letteratura, Roma, Bonanno edizioni, Lippold, Testo per Arndt-Bruckmann, Griech.
u. röm. Porträts, Monaco. Enciclopedia dell'arte antica Cfr. Gerlo, Coccia, Il mondo classico
nell'immaginario contemporaneo Nel
romanzo epistolare di Tiziano Colombi, Il segreto di Cicerone, Palermo,
Sellerio, Nomi romani: glossario
Canfora, Cicerone, Ep. ad Quintum fratrem, II 9. S L. Canfora, Classici: L. e il De rerum
natura Aldo Oliviero, Il suicidio di L., su lafrontieraalta.com. Stampini,
Il suicidio di L., Messina, Tipografia D'Amico, La risposta di Virgilio a L. Guido Della Valle (Napoli), pedagogista e
docente universitario, autore di Tito L Caro e l.'epicureismo campano, Napoli,
Accademia Pontaniana, L. in Enciclopedia Italiana L.: informazioni biografiche
ibidem La natura delle cose, Milano, Rizzoli, Eneide, lLa natura delle
cose, cit. supra81. L., La natura delle cose, La natura delle cose. Il De rerum natura di L.
Introduzione a Lucrezio accesso= Memmio su Enciclopedia Italiana Lo stile
di Lucrezio C. Craca, Le possibilità
della poesia. Lucrezio e la madre frigia in «De rerum natura» IBari, Edipuglia,
Epicuro, Opere, E. Bignone, Laterza L,, La natura delle cose, Biagio Conte,
Milano, Rizzoli, La natura delle cose. De rerum natura, Fusaro, L., su filosofico.net.
e rerum natura, VTasso segue L. stilisticamente, non ideologicamente: vedasi la
famosa similitudine del proemio del libro IV, ripresa nel proemio della Gerusalemme
liberate, La natura delle cose, cit. supra, De rerum natura, Pazzaglia,
Antologia della letteratura italiana. L., introduzione Edizioni De rerum
natura, (Brixiae), Thoma Ferrando auctore, De rerum natura libri sex nuper
emendati, Venetiis, apud Aldum, In Carum Lucretium poetam commentarij a Pio
editi, Bononiae, in ergasterio Hieronymi Baptistae de Benedictis, De rerum
natura libri sex a Lambino emendati atque restituti et commentariis illustrati,
Parisiis, in Gulielmi Rovillij aedibus, De rerum natura libri VI, Patavii,
excudebat Josephus Cominus, De rerum natura libri sex, Revisione del testo,
commento e studi introduttivi di Giussani, Torino, E. Loescher (importante edizione critica, tuttora
fondamentale). De rerum natura, Edizione critica con introduzione e versione
Flores, Napoli, Bibliopolis, Traduzioni italiane Della natura delle cose libri
sei tradotti da Marchetti, Londra, per G. Pickard. La natura, libri VI tradotti
da Rapisardi, Milano, G. Brigola, Della natura, Armando Fellin, Torino, POMBA. Della
natura, Versione, introduzione e note di Cetrangolo, Firenze, Sansoni, La
natura delle cose, Introduzione di Gian Biagio Conte, Traduzione di Canali,
Testo latino e commento Dionigi, Milano, Rizzoli, La natura, Introduzione,
testo criticamente riveduto, traduzione e commento di Giancotti, Milano,
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su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tito L. Caro, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tito L. Caro Opere di Tito L. Caro, su
Liber Liber. openMLOL, Horizons Audiolibri
di Tito L. Caro, su LibriVox. Goodreads. De Rerum Natura: testo con concordanze
e liste di frequenza, su intratext.com. Intervista a Luca Canali su passioni e
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filosofiche, su conoscenza.rai. Analisi critica del pensiero di Lucrezio, su
lucrezio.exactpages.com. V D M Epicureismo Filosofia Letteratura Letteratura Categorie: Poeti romani Filosofi
romani Roma L. Atomisti Epicurei Filosofi atei L. Storia dell'evoluzionismo Pre-esistenzialisti
Personalità dell'ateismo. Refs.: Lucretius, in The Stanford Encyclopaedia. Alma
figlia di Giove, inclita madre Del gran germe d'Enea, Venere bella,
Degli uomini piacere e degli Dei: Tu che sotto i girevoli e lucenti
Segni del cielo il mar profondo, e tutta D’ animai d'ogni specie orni la
terra, Che per se fora un vasto orror soUngo: Te Dea, fnggono i
venti: al primo arrivo Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia Erbe e
fiori odorosi il suolo indnstre: Tu rassereni i giorni foschi, e
rendi Col dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo, E splender fai
di maggior lume il ciclo. Qualor deposto il freddo ispido manto L'anno
ringiovanisce, « la soave Aura feconda di Favonio spira, Tosto tra fronde
e fronde i vaghi augelli. Feriti il cor da' tuoi pungenti dardi,
Cantan festosi il tuo ritorno, o Diva; Liete scorron saltando i
grassi paschi Le fiere, e gonfi di nuor' acqae i fìami Varcano a
nuoto e i rapidi torrenti: Tal da' teneri tuoi rezzi lascivi
Dolcemente allettato ogni animale Desioso ti segue ovunque il
gnidi. In somma tu per mari e monti e fiumi, Pe'boschi
ombrosi e per gli aperti campi, Di piacevole amore i petti
accendi, E cosi fai che si conservi '1 mondo. Or se tu sol
della Natura il freno Reggi a tua voglia, e senza te non vede Del
di la luce desiata e bella, Nè lieta e amabil fassi alcuna
cosa: Te, Dea, te bramo per compagna all'opra, In cui di scriver
tento in nuovi carmi Di Natura i segreti e le cagioni Al gran Memmo
Gemello a te si caro, In ogni tempo, e d’ogni laude ornato. Tu
dunque, o Diva, ogni mio detto aspergi D’eterna grazia, e fa’ cessare
intanto E per mare e per terra il fiero Marte, Tu, che sola
puoi farlo: egli sovente D’amorosa ferita il cor trafitto Umil si
posa nel divin tuo grembo. Or mentr’ ei pasce il desioso
sguardo Di tua beltà, ch'ogni beltade avanza, E che l’anima
sua da te sol pende, Deh ! porgi a lui, vezzosa Dea, deh ! porgi A
lui soavi preghi, e fa'ch’ ei renda Al popol suo la desiata
pace. Che se la patria nostra è da nemiche Armi abitata, io più
seguir non posso con animo quieto il preso stile, nè può di Memmo il
generoso figlio aS l^egar sé stesso alla comaa
salate. Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi Grate ed attente
orecchie, e ti prepara, Lungi da te cacciando ogni altra cura,
Alle vere ragioni, e non volere I miei doni sprezzar pria che gl’
intenda. Io narrerotti in che maniera il cielo con moto alterno ognnr
si volga c giri j Degli Dei la natura, e delle cose Gli alti
principi, e come nasca il tutto ; Come poi -si nutrichi, e come
cresca, Ed in che finalmente ei si risolva: £ ciò da noi
nell’avvenir dirassi primo corpo, materia, o primo seme, o corpo
genitale, essendo quello Onde prima si forma ogni altro corpo: Che
d'uopo é pur che’n somma eterna pace Yivan gli Dei per lor natura, e
lungi Stian dal governo delle cose umane, Scevri d' ogni dolor, d’ogni
periglio, biechi sol di lor stessi, e di lor fuori di nulla
bisognosi, e che nè metto Nostro gli alletti, o colpa accenda ad
ira. Giacca l’ umana vita oppressa e stanca Sotto religìon grave e
severa. Che mostrando dal ciel l’altero capo Spaventevole in vista e
minacciante ne soprasta. Un iiom d’Atene il primo e, che d’ergerle
incontra ebbe ardimento Gli occhi ancor che mortali, e le s’oppose.
Questi non paventò nè eie! tonante Nè tremoto che ’l mondo empia d’
orrore, Nè fama degli Dei, nè fulmin torto j Ma qual acciar su dura
alpina cote quanto s’agita più tanto più splende. Tal dell’animo suo
mai sempre invitto Nelle difficoltà crebbe il desio a Di
spezzar pria d'ogni altro i saldi chiostri, E r ampie porte di Natura
aprirne. Cosi vins' egli, e con l' eccelsa mente Varcando
oltre a' confin del nostro mondo, e bastante a capir spazio
infinito. Quindi sicuramente egli n’ insegna Gid che nasca o non
nasca, ed in qual modo Ciò che racchiude l' Universo in seno Ha
poter limitato, e tcrmin certo : E la religion co’pié
calcata, L' alta vittoria sua c’ erge alle stelle. Nè creder già che
scelerate ed empie sian le cose eh’ io parlo. Anzi sovente L' altrui
religion ne’ tempi^antichi Cose produsse scelerate ed empie. Questa
il fior degli eroi scelti per duci Deir oste argiva in Aalide
indusse Di Diana a macchiar l' ara innocente Col sangue d' Ifigenia,
allor che cinto di bianca fascia il bel virgineo crine vid’ella a se
davanti in mesto volto Il padre, e alni vicini i sacerdoti Celar 1’
aspra bipenne, e '1 popol tutto Stillar per gli occhi in larga vena il
pianto Sol per pietà di lei, che muta e mesta Teneva a terra le
ginocchia inchine. Nè giovi punto all’innocente e casta povera
verginella in tempo tale, ch’ a nome della patria il prence avesse
All’ esercito greco un re donato; Che tolta dalle man del suo
consorte Fu condotta all’ aitar tutta tremante: Non perchè
terminato il sacrifizio, legata fosse col soave nodo d’un illustre
imeneo. Ma per cadere Nel tempo stesso delle proprie nozze A* piè
del genitore ostia dolente per dar felice e fortunato evento All'
armata navale. Error si grave Persuader la religion poteo. Tu stesso dall’orribili
minacce de’ poeti atterrito, a i detti nostri di negar tenterai la fe
dovuta. Ed oh, quanti potrei fìngerti anch'io Sogni e chimere, a
sovvertir bastanti Del viver tuo la pace, e col timóre Il sereno
turbar della tua mente. Ed a ragion, che se prescritto il
fine vedesse l'uomo alle miserie sue. Ben resister potrebbe alle
minacce Delle religioni, e de' poeti. Ma come mai resister può, s'
ei teme Dopo la morte aspri tormenti eterni. Perchè dell' alma è a
lui l’essenza ignota: S' ella sia nata, od a chi nasce infusa, E se
morendo il corpo anch' ella muoia? Se le tenebre dense, e se le
vaste Paludi vegga del tremendo Inferno, O s' entri ad informare
altri animali Per ^divino voler, siccome il nostro Ennio cantò, che
pria d' ogn' altro colse In riva d'Elicona eterni allori. Onde
intrecciossi una ghirlanda al crine FRA L’ITALICA GENTI illustre c
chiara? Bench' ci ne' dotti versi affermi ancora Che sulle sponde
d' Acheronte s' erge Un tempio sacro a gl' infernali Dei, Ove
non 1' alme o i corpi nostri stanno. Ma certi simulacri in ammirande
Guise pallidi in volto, e quivi narra d’aver visto l'imagine d’Omero
Piangere amaramente, e di Natura Raccontargli i segreti e le
cagioni. Dunque non pnr de’più sublimi effetti Cercar le cause, e
dichiarar conviensi Della luna e del sole i morimenti. Ma come
possan generarsi in terra tutte le cose, e con ragion sagace principalmente
investigar dell' alma, £ dell'animo uman l’occulta essenza, E
ciò che sia quel, che vegliando infermi, £ sepolti nel sonno, in guisa
n'empie d’alto terror, che di veder presente Parne, e d’udir chi già
per morte in nude ossa ò converso, e poca terra asconde e so ben io qual
malagevol’ opra Sia r illustrar de’ Greci in toschi carmi L’
oscure invenzioni, e quanto spesso Nuove parole converrammi usare, non
per la povertà della mia lingua ch’alia greca non cede, e più d’ ogn’
altra piena è di proprie e di leggiadre vocij ma per la novità di quei
concetti Ch’esprimer tento, e che nuli’ altro espresse. Pur
nondimcn la tua virtude ò tale, e lo sperato mio dolce conforto
Della nostr’amistà, eh’ ognor mi sprona A soffrir volentieri ogni
fatica, E m’induce a vegliar le notti intere, sol per veder con
quai parole io possa Portare innanzi alla tua mente un lume, Ond’
ella vegga ogni cagione occulta. Or si vano terror, si cieche
tenebre Schiarir bisogna, e via cacciar dall’ animo nn co’ be’
rai del sol, non già co’ lucidi dardi del giorno a saettar poc’
abili fuorché l’ombre notturne e i sogni pallidi, Ma col mirar della
Natura, e intendere D’occulte cause e la velata imagine. Tu, se di
conseguir ciò brami, ascoltami. Sappi, che nulla per diyin volere
Pad dal nalla crearsi, onde il timore, che qaind'il cor d'ogni mortale
ingombra, Vano è del tutto, e se tu vedi ognora Formarsi molte cose
in terra e ’n cielo, nè d'esse intendi le cagioni, e pensi Perciò
che Dio le faccia, erri e deliri. Sia dunque mio principio il dimostrarti,
Che nulla mai si può crear dal nulla. Quindi assai meglio intenderemo il
resto £ come possa generarsi il lutto Senz'opra degli Dei. Or se
dal nnlla- Si creasser le cose, esse di seme Non avrian d'uopo, e
si vedrian produrre Uomini ed animai nel seti dell' acque, nel
grembo della terra uccelli e pesci, e nel vano dell’aria armenti e
greggi; Pe' luoghi culli, e per gl' inculti il parto D'ogni
fera selvaggia incerto fora; Nè sempre ne darian gl'istessi
frutti Gli alberi, ma diversi ; anzi ciascuno D' ogni specie a
produrgli allo sarebbe. Poiché come potrian da certa madre nascer le
cose, ove assegnati i propri semi non fosser da ^Natura a tutte 1 Ma
or perché ciascuna è da principi certi creala, indi ha il natale ed
esce Lieta a godere i dolci rai del giorno, ov'è la sua materia e
-i-vorpi primi: E quindi nascer d'ogni cosa il tutto Non può,
perchè fra loro alcune certe cose hall l'interna facoltà distinta.
Inoltre ond' è che primavera adorna sempre è d’ erlie e di fior? che
di mature Biade all' estiv' arsura ondeggia il campo? e che sol
quando Febo occupa i segni O di Libra o di Scorpio, allor la
vite Suda il dolce liquor che inebria i sensi? Se non perché a'ior
tempi alcuni certi Semi in un concorrendo, atti a produrre Son ciò
che nasce, alJor che le stagioni Opportune il richieggono, e la
terra «I Di rigor genital piena c di succo, Puote all’ aure inalzar
sicuramente Le molli erbette e l’altre cose tenere i che se pur generate
esser dal nulla Potessero, apparir dovrian repente In contrarie
stagioni e spazio incerto, Non vi essendo alcun seme, che
impedito Dall' Union feconda esser potesse O per ghiaccio o per sol
ne' tempi avversi. Né per crescer le cose avrian mestiere di spazio
alcuno in cui si unisca il seme, i' elle fosser del nulla atte a nutrirsi.
Ma nati appena i pargoletti infanti Diverrebbero adulti, e in un
momento Si vedrebber le piante inverso il cielo Erger da terra le
robuste braccia. Il che mai non succede. Anzi ogni cosa cresce, come
conviensi, a poco a poco, E crescendo, conserva e rende
eterna La propria specie. Or tu confessa adunque Che della sua
materia, e del suo seme Nasce, si nutre e divien grande il tutto.
S’arroge a ciò, che non daria la terra il dovuto alimento ai lieti
parti. Se non cadesse a fecondarle il seno Dal del 1' umida pioggia,
e senza cibo propagar non potrebber gli animali La propria specie, e
conservar la vita, Ond' è ben verisimile, che molte Cose molti fra
lor corpi comuni Àbbian, come le voci han gli elementij Anzi, che
sia senza principio alcuna. In somma ond' è che non forma Natura uomini
tanto grandi e si robusti, che potesser co’ piè del mar profondo varcar
l’ acque sonanti e con la mano sveller dall’imolor l’alte montagne, e
viver molt’ etadi, e molti secoli? L. is known only for his long poem De rerum natura in
which he sets out the doctrines of the Garden. As the only substantial
systematic work of the Garden to survive from antiquity it is a work of
considerable significance. Unfortunately, it is difficult to judge how accurate
an account of the school’s teaching as there is little with which to compare
it. However, the Garden tended towards conservatism in doctrinal matters and so
it isunlikely L. strays far from orthodoxy. The first two books of the poem are
mainly concerned with espounding atomism, the middle two are concerned with
human nature and knowledge, and the last to analyse a number of natural
phenomena. Nome compiuto: Tito
Lucrezio Caro. Lucrezio. Luigi Speranza,
"Grice, Lucrezio, e la natura delle cose," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Luigi
Speranza, “Grice e Lucrezio: implicatura atomica” – “implicatura e
composizionalita” – “implicatura elementare” – “implicatura simplex”
“implicatura simplice” “implicatura complessa”, “alma figlia di Giove” --. Lucrezio.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Lucullo: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Abstract. Grice: “L. is a good example of what I mean
by philosophy – philosophy ain’t a profession, and it’s not an ‘extra’ to your
life. L. was a philosopher, not a tutor thereof!” -- Grice: “It has to be
remembered that philosophers of my generation met philosophy through the
classics. I would never have even considered philosophy had I not won a ‘classics
scholarship’ at Clifton for Corpus. Therefore, Lucullo is second nature to me!” Filosofo
italiano. L. Si distingue nella guerra sociale come
tribunus militum. Avendo avuto quale pro-questore sotto SILLA (si veda) nella
guerra mitridatica l’incarico di recarsi dalla Grecia in Cirenaica e in Egitto
e di raccogliere una flotta, L. volle avere presso di sè Antioco d’Ascalona in
quel pericoloso viaggio sul mare. Pretore, propretore in Africa, e
console, ottenne il governo proconsolare della Cilicia e il comando della
guerra contro Mitridate e sconfisse prima questo, poi il suo alleato Tigrane re
di Armenia. Negl'anni del suo comando, batiè con poche forze grossi
eserciti nemici. Ma per il malcontento dei soldati le cose peggiorarono, sicchè
i suoi avversari lo fanno richiamare a Roma ove soltanto gli e concesso il
trionfo. L. contribuì potentemente alla diffuzione della filosofia in
Roma. L. e oratore, storico -- scrive una storia della guerra sociale -- e si
interessa vivamente per la filosofia, tanto che volle compagno Antioco sia da
pro-questore che da pro-console e cogli studi filosofici si consola degli
insuccessi politici. A rich Roman who
makes a career in public and military life. A friend and pupil of Antioco, his
philosophical tastes appear to have been quite eclectic. He spends his last
years quietly going insane. Nome compiuto. Lucio Licinio Lucullo. Keywords: Livio. Lucullo.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Luporini: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- i corpi di Vinci – il leopardi fascista – leopardi fascisti
– ultra-filosofico – la scuola di Ferrara -- filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, per il Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming
Pool Library (Ferrara). Abstract. Grice:
“I like Luporini’s ultraphilosophical. Austin used paraphilosophical, at most!”
Grice: “In my ‘Personal identity’ I consider ‘someone’ statements which are only
corporal (o somatic): “I fell down the stairs” – others which are psycho-somatic,
and others which are purely psychic!” Grice: “’Psycho-somatical’ is a good Hellenistic
formation. I don’t think Cicero could come up with aa just as good Roman formation!”
Filosofo italiano. Ferrara, Emilia Romagna. Grice: “I like Luporini; I lerarned
from him how silly Austin is when talking of ‘material object’ – a
contradiction in terminis for Kant who uses ‘materie’ very strictly; Luporini’s
study of Leopardi is brilliant – and he has explored the genius of Vinci, which
is good!” Si recò a Friburgo, dove
frequenta le lezioni di Heidegger, e poi a Berlino, dove poté seguire le
lezioni di Hartmann. Si laurea a Firenze. Insegna a Cagliari, Pisa e Firenze.
Dopo un in interesse per l'esistenzialismo, aderì al marxismo, iscrivendosi al
Partito Comunista, per il quale fu eletto senatore nella terza legislature. Tra
le altre iniziative parlamentari, fu firmatario di un progetto di legge,
"Istituzione della scuola obbligatoria statale dai 6 ai 14 anni.” Fonda la
rivista Società. Collabora ai periodici
politico-culturali del PCI, Il Contemporaneo, Rinascita, Critica marxista.
Durante il dibattito che, a seguito degli eventi, porta alla trasformazione del
PCI in PDS, si schierò decisamente contro la "svolta" di Occhetto,
aderendo alla mozione "due" di opposizione interna, in un'orgogliosa
difesa e per un rilancio della prospettiva e degli ideali comunisti. Il
marxismo di Luporini si fonda su una critica radicale allo storicismo, sul rifiuto
di ogni concezione finalistica dello sviluppo storico: il comunismo, quello
marxista in particolare, non è assimilabile con la tematica tipicamente
storicista del progresso come traccia dell'evoluzione umana. Egli rifiuta
letture dogmatiche del marxismo e le sue deteriori forme di economicismo e
meccanicismo, ma, pur apprezzando lo strutturalismo di Althusser con cui cercò
di far dialogare tutto il marxismo italiano, non ne condivideva
l'anti-umanismo, in quanto il pensiero di Marx conserva per lui un profondo
umanesimo, anche negli scritti successivi alla "rottura
epistemologica" in cui le strutture, cioè i modelli interpretativi della
società, non sono astratti ma in funzione degli individui concreti, umani. Nello stesso ambito marxista, tra i suoi
obiettivi polemici vi furono quelle posizioni che proponevano una
interpretazione di radicale discontinuità tra Marx e Hegel, cioè quelle di
Volpe e della sua scuola. Centrale è infatti per Luporini la nozione di
“contra-dizione,” la marxiana "oggettività reale", che lo pone
comunque in relazione con Hegel. Marx deve essere considerato una concezione
aperta e complessa, dove materialismo e dialettica compongono una sintesi mai
totalizzante (da qui il suo interesse per l'elaborazione di Gramsci) e parte
fondamentale di una più generale teoria dei condizionamenti umani. Fondamentale è il concetto di formazione
economico-sociale, espressione già utilizzata da Sereni, ma in senso
storicistico e cioè la possibilità per il marxismo di costituire un modello per
l'analisi degli specifici modi di produzione della società capitalista, nonché
per la previsione scientifica delle sue varie forme. La legge generale delle
formazioni economico-sociali è tratta dall’Introduzione ai Lineamenti fondamentali
di critica dell'economia politica di Marx. La struttura economica va indagata
secondo logica scientifica e bisogna stabilire un "criterio
oggettivo", il momento dominante che condiziona tutti gli altri assetti
produttivi. L'approccio storico-genetico
non è un continuum evoluzionistico come nella tradizione storicistica, è la
fase dell'osservazione e descrizione empirica del fenomeno dalla sua origine ed
è secondario rispetto all'approccio genetico-formale, cioè all'indagine che
permette di stabilire la categoria dominante di una determinata fase storica
della produzione. Il modello de Il Capitale può dunque aspirare
all'universalità, ma anche alla flessibilità di applicazione. La
formalizzazione di un “modello” attraverso il metodo genetico, individua anche
il processo per cui i rapporti di produzione si riflettono in qualcos’altro, la
coscienza dei singoli, le relazioni inters-oggettive (l’inter-azione’) e le
radici stesse della vita morale. È palese così il contrasto di L. ad ogni
disegno provvidenzialista e di filosofia della storia e anche in questo si
rende chiaro il rapporto dialettico-oppositivo tra Hegel e Marx. Per quanto
riguarda Leopardi, secondo Luporini, la sua poesia non è permeata solo di
pessimismo, ma ci invita anch'essa alla resistenza attiva. La formazione
filosofica di Leopardi, infatti, illuminista e materialista, permette di
leggere ad esempio, nelle "magnifiche sorti e progressive" de
"La Ginestra", una possibilità di rinnovamento politico-sociale non
in antitesi con la concezione della 'natura matrigna', un compito storico degli
esseri umani altrimenti o comunque destill'infelicità esistenziale. “Filosofia
e politica: scritti dedicati a L., Firenze, La Nuova Italia, Una completa e aggiornata, L. Fonnesu, è stata
pubblicata nel numero speciale dedicato a Luporini di "Il Ponte"
(Firenze). Oltre agli studi sulla storia della filosofia e a un'elaborazione
teorica del marxismo incentrata sui temi etici, si ricordano, fra le sue opere
principali: “Situazione e libertà”
(Firenze, Monnier); “Filosofi vecchi e nuovi” (Firenze, Sansoni); “Spazio e
materia in Kant” (Firenze, Sansoni); “L'ideologia comunista” (Riuniti, Roma);
“Dialettica e materialismo, Roma, Riuniti,
Il soggetto e il comune, Il marxismo e la cultura italiana, in Storia
d'Italia, I documenti, Einaudi. Un'incidenza notevolissima ha sugli studi
leopardiani il suo saggio Leopardi progressivo.
Sulle lezioni di Heidegger e Hartmann vedi l'aneddoto in Intervista in
"Repubblica", Sereni, Da Marx a Lenin: la categoria di formazione
economico-sociale, Quaderni di Critica marxista, Realtà e storicità: economia e
dialettica nel marxismo, in Critica marxista, Per l'interpretazione della
categoria formazione economico-sociale, in Critica marxista, Le radici della
vita morale, in Morale e società,
Riuniti, Roma); S. Lanfranchi, Dal Leopardi ottimista della critica fascista al
Leopardi progressivo della critica marxista, Saggi critici in Garin, Esistenza
e libertà, in Critica marxista, G. Mele, Esistenzialismo e significato della
libertà, Critica Marxista, A. Zanardo, Un orizzonte filosofico materialistico,
in Critica marxista, Rocca, Esistenzialismo e nichilismo «Belfagor», R.
Mapelli, Milano, ed. Punto Rosso, Ponte, Ponte, Convegni Quarant'anni di filosofia in Italia.
"Critica marxista", Il fascicolo contiene gli atti delle due giornate
di studio sulla sua filosofia oorganizzate dalla Facoltà di Lettere e filosofia
dell'Firenze e dalla fondazione Gramsci di Roma, Feltrinelli. Nella loro
maggior parte i contributi riprendono gli interventi al Convegno promosso
dall'Firenze e organizzato dal Dipartimento di Filosofia. Treccani Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Senato della Repubblica; Biblioteche dei Filosofi
(SNS), su picus unica. L'ultima lezione (una grande avventura intellettuale
attraverso il Novecento), su hyperpoli. Sebbene
questo titolo rimandi a questioni di critica letteraria, e di fatto i risultati
della critica leopardiana costituiscano l’oggetto principale da cui muove
questo studio, essi saranno presentati e analizzati nelle prossime pagine
innanzitutto come un ‘documento’ storico : un documento che forse non ci darà
risposte soddisfacenti per comprendere meglio il pensiero leopardiano, ma
contribuirà invece alla nostra riflessione sull’iter culturale e ideologico di
alcuni intellettuali italiani. Per affrontare il problema della transizione e
tentare di isolare alcuni elementi di continuità e di rottura, il discorso
svolgerà un percorso circolare : partendo dal saggio pubblicato da L. Leopardi
progressivo, al quale, in un primo momento, si accennerà solo molto brevemente
; seguendo poi un cammino a ritroso per rintracciare l’itinerario e le origini
anche abbastanza lontane del dibattito – iniziato sin da prima del Ventennio –
da cui trae origine questo testo ; e tornando infine al libro di L., molto
noto, anche fuori dalla cerchia degli specialisti di Leopardi, tanto da esser
divenuto un ‘classico’ studiato spesso sin dal liceo1. 2 Scrive
Sebastiano Timpanaro a proposito del titolo scelto da Luporini : « un titolo
che per un vers 3 Si tratta del v. 51 della Ginestra, in G. Leopardi, Poesie e
prose, vol. I, Poesie, a cura di M. A. L., Leopardi progressivo. La scelta
dell’aggettivo progressivo, benché avesse un’eco politica particolare nella
cultura comunista del primissimo dopoguerra2, era dettata dal richiamo
letterario alle « magnifiche sorti e progressive » de La Ginestra di Leopardi3.
Ma nella citazione di Luporini l’aggettivo perdeva il sapore amaramente ironico
di quel verso leopardiano ed assumeva invece un significato totalmente positivo,
per indicare una forma di fiducia nel « generale progresso dell’incivilimento
»4 che, secondo il critico, emana dalla lettura complessiva di una poesia come
La Ginestra e, forse soprattutto, da un’attenta analisi dello Zibaldone di
Leopardi. Questa fiducia non risiede però, per Luporini, nell’individuo, bensì
nella moltitudine, ovvero nel popolo e nella sua virtù, e sfocia in una
dichiarazione di solidarietà tra gli uomini tutti, contro la natura, per un
progresso generale della condizione umana. La vivacità delle reazioni che
suscitò il saggio quando fu pubblicato dà una preziosa indicazione di quanto
originale e quanto importante fosse l’interpretazione proposta da L. Per
illustrare l’accoglienza che ricevette è particolarmente utile la recente testimonianza
di Brunetti, che sarebbe poi diventato professore di filosofia e specialista di
Galilei, ma che allora era ancora al terzo anno di studi della Scuola normale
superiore di Pisa, dove Luporini appunto insegnava. Brunetti ricorda
perfettamente Leopardi progressivo, la cui lettura creò interesse e
agitazione fra i normalisti : ne discutevano animatamente nei corridoi, nelle
stanze e durante i pasti nella sala da pranzo soprattutto gli italianisti
Bollati, Blasucci, Dante della Terza, che trascinavano tutti gli altri. Era
lecita una definizione politica del poeta ? Era corretta siffatta operazione
ideologica? Non era forse più opportuna una ricomposizione unitaria del
pensiero leopardiano. Brunetti, Il « nostro » L., in L., a cura di M. M La
discussione, animata e per certi versi lacerante, si protrasse per giorni,
riecheggiando sotto le volte dei corridoi nel Palazzo dei Cavalieri. Fu però
efficace, perché fece rientrare la sensazione provocatoria del saggio e
ricondurre l’elemento ideologico e il « tecnicismo filosofico » nelle giuste
dimensioni, sortendo d’altro canto l’effetto di mettere in discussione
l’apollineità in cui la critica crociana mirava a rinchiudere la poesia e
insieme il poeta. Non è un caso che da quello stesso anno anche il lavoro critico
di Russo si attestò in una valorizzazione della « politicità » dei poeti,
rompendo, proprio lui, il dominante schema crociano. Una pietra gettata nello
stagno, una fertile provocazione intellettuale.5 4 Quanto racconta
Brunetti è, per molti aspetti, significativo e rappresentativo del clima
ideologico e culturale di quegli anni, e della transizione che si sta operando,
anche nel piccolo mondo della critica letteraria. L., Leopardi
progressivo Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni. Sebbene
molto diversi, il testo di Brunetti definisce il testo di L.
un’operazione ideologica, in quanto offre una lettura non solo eminentemente
politica dell’opera leopardiana, ma una lettura esplicitamente comunista. L.
vede in Leopardi un « anticipatore di ulteriori dottrine, fedele ai principi
della democrazia rivoluzionaria, anche più avanzata. In questo senso, si segna,
col saggio di L. – e col saggio altrettanto noto di Binni, La nuova poetica
leopardiana – una svolta decisiva nella storia della fortuna leopardiana,
inaugurando la proficua stagione della critica leopardiana del secondo
Novecento, segnatamente della critica detta marxista. D’altra parte,
Brunetti considera che l’opera di L, era, nel contesto culturale della seconda
metà degli anni Quaranta, una vera e propria « pietra gettata nello stagno » e
una « fertile provocazione intellettuale », in quanto rimetteva in questione il
« dominante schema crociano ». Con quest’ultima osservazione, Brunetti non
rende, tuttavia, conto di quanto fosse recente tale « dominio ». Se è vero,
infatti, che il metodo crociano si era imposto nel mondo culturale di quel
primissimo dopoguerra, durante tutto il Ventennio e anche durante la guerra
esso era stato sì prevalente, ma solo nella cerchia, in realtà abbastanza ristretta,
degli intellettuali ostili o estranei al fascismo. Di sicuro non era stato lo «
schema dominante » imposto negli studi letterari, nelle riviste, nelle
accademie e nelle università dell’Italia fascista. Croce conia la voce “allotrio”per
indicare ciò che è estraneo all’estetica, rifacendosi al vocab Per l’influenza
di Gentile sul mondo culturale in epoca fascista, si veda in particolare G Il
ruolo di Cian negli studi letterari del Ventennio e nel periodo di transizi. Marpicati
compie studi di letteratura italiana a Firenze, pubblica alcune raccol . Ecco
quanto scriveva, ad esempio, Cian, rivolgendosi a Croce e ai suoi discepoli. Mi
sia consentito di rimandare in questa sede a due testi miei, entrambi
accessibili in linea : S. In realtà, durante il Ventennio solo una
minoranza di critici – pur trattandosi di una minoranza quantitativamente e
soprattutto qualitativamente importante – aveva seguito l’idea crociana
dell’autonomia dell’arte, e quindi perlopiù evitato di dare una lettura
apertamente politica dei testi letterari. Erano relativamente pochi i critici
che aderivano al principio secondo cui gli elementi che in un’opera d’arte
contengono un messaggio dichiaratamente politico o morale sono « allotri »8,
ovvero estranei alla vera poesia del testo, perché non corrispondono allo
slancio primo e poetico dell’intuizione estetica. A questi si opponeva la
critica di stampo fascista, nelle cui file, ben più folte, troviamo uomini di
grande influenza e di grande potere nell’ambiente culturale ed accademico, come
un Gentile, un Cian, ma anche un Marpicati. Essi contestavano, anche
violentemente, la lezione crociana12, mentre rivendicavano, per tutti i testi
letterari, la legittimità di una lettura morale, politica, improntata
all’attualità. La tendenza ad ‘attualizzare’ il significato delle opere fu portata
a tal segno da far loro presentare, talvolta e anzi spesso, i classici della
letteratura italiana come precursori del fascismo. Non era dunque la prima
volta che si buttavano pietre nello stagno della critica crociana ; si potrebbe
quasi dire, anzi, che non si era fatto altro che buttarvi pietre durante tutto
il Ventennio. In realtà, i primi sintomi di « insofferenza » Russo li
diede, mentre scriveva un arti. Perciò, quando Brunetti denuncia «
l’apollineità » in cui Croce rinchiude i poeti, e quando ricorda l’itinerario
di Luigi Russo – che in quegli anni, dopo esser stato a lungo un fedele
discepolo crociano, da Croce prende appunto le distanze14 – egli ci fa intuire
non tanto una rottura, quanto una ‘transizione’ interessante. Tra i critici che
erano stati antifascisti negli anni Venti e Trenta, molti cominciano, sin dai
primissimi anni Quaranta, a maturare un progressivo allontanamento dalla
posizione crociana, proprio perché si sentono vincolati da quell’implicito
divieto di ‘allotrismo’ che caratterizza la produzione critica crociana,
rivendicando la possibilità di considerare « la politicità nascosta » anche
nella « grande poesia. Sembrano ormai giunti al punto di rottura. Ma quel che
preme qui sottolineare è che vi è dunque una continuità, non certo nei
contenuti politici – affatto diversi – ma potremmo dire nel metodo e nei
presupposti teorici ed estetici che vengono opposti a Croce durante e dopo il
Ventennio, ovvero nella comune rivendicazione allotrica. Il testo di L.
segna senz’altro una svolta nella fortuna critica di Leopardi nel Novecento,
quando lo si studia come punto di partenza di una tradizione critica, e in
questo modo esso viene generalmente e giustamente valutato. L’intento di questo
lavoro sarà invece di considerarlo come punto di approdo problematico di
un’altra tradizione critica, non posteriore ma anteriore, vigente nel Ventennio
e di stampo generalmente fascista, con cui il testo di L., nonostante le
fondamentali differenze, ha in comune almeno due aspetti essenziali. Il primo è
appunto l’opposizione all’estetica crociana che è già stata evocata e che
potrebbe, senz’altro, esser estesa a gran parte della critica letteraria, non
trattandosi di una specificità leopardiana ; il secondo è l’idea – sulla quale
verterà più precisamente questo studio – di un fondamentale ottimismo
leopardiano. Ora, una certa paternità del tema dell’ottimismo leopardiano, così
come lo sviluppa Luporini, può essere attribuita a Gentile e ad un suo saggio
sulle Operette morali di Leopardi. Questo, invece, è un discorso specifico,
valido per la sola critica leopardiana. L’ipotesi di una continuità tra
l’interpretazione che L. dà di Leopardi e la produzione critica con una comune
opposizione a Croce, ma anche una comune matrice – almeno parziale –
gentiliana, è convalidata sia dall’analisi dei testi, come vedremo, che dalla
stessa biografia di L. e da quanto lui stesso racconta della propria
esperienza. La vicenda umana, ideologica e culturale di L. in quel decennio che
va dalla seconda metà degli anni Trenta alla fine degli anni Quaranta è, per
molti aspetti, emblematica proprio di quel profilo di intellettuale nella
transizione tra fascismo e Repubblica. L., Critica e metafisica nella
filosofia kantiana, Rendiconti della Reale Accademia Nazi. Il testo fa parte di
un volume scritto dai docenti del liceo dove L. insegnava, in occasi. Nella sua
autobiografia, Bobbio cita un disegno di Guttuso che illustra una delle p C. L., Qualcosa di me stesso, in L. L. si laurea a Firenze, dopo aver studiato
anche in Germania, dove fu in contatto con Heidegger e Hartmann. La sua tesi di
filosofia su Kant, d’impostazione esistenzialistica, è letta e molto apprezzata
da Gentile, il quale decide di presentarla all’Accademia dei Lincei di cui era
socio. Dopo aver conseguito la laurea, L. insegna al liceo, prima a Livorno,
dove pubblica un primo testo su Leopardi, di cui dà un’interpretazione
esistenzialistica e la cui impostazione reca già segni evidenti di
anticrocianesimo. Torna a Firenze ed entra a far parte del movimento
liberalsocialista di Capitini e Guido Calogero, nel quale frequenta anche Bobbio, Guttuso e Morra. Gentile lo chiama
alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove era disponibile un posto di lettore
di tedesco. C’era, tra Gentile e L., un rapporto che L. stesso ebbe a definire
di grande franchezza politica, sin da quando i due uomini si conobbero meglio,
e fino alla morte di Gentile. L. non aveva approvato la decisione del movimento
liberal-socialista di confluire nel Partito d’Azione e si era perciò ritirato
per aderire invece al Partito Comunista. L. si trova quindi agli esatti
antipodi politici di Gentile. Eppure egli stesso racconta di come avesse
tentato di convincerlo ad abbandonare la Repubblica di Salò e avesse anche
creduto di riuscire nel suo intento, definendo tragica ma anche consapevole la
sua fine. Non mi soffermerò sull’ultima fase di Gentile, tragica. Ricordo solo
che, certo illusoriamente, cercai di persuaderlo a che si tirasse fuori dal
fascismo, nel frattempo divenuto la Repubblica di Salò. Al Salviatino, dove
abita, ha con lui un incontro che non finiva mai, perché non riuscivo a
rimanere solo con lui. Quando ce la feci, lo misi al corrente di quello che
stava succedendo, dandogli delle notizie che evidentemente non gli davano le
autorità fasciste – era stato anche ucciso uno del suo entourage – mentre io le
avevo dalla rete clandestina in cui mi trovavo. Me ne uscii con la sensazione
che forse qualcosa avevo ottenuto. Invece, non era così : due giorni dopo,
venne fuori che il ministro Biggini s’era recato lì, al Salviatino, per
offrirgli la presidenza dell’Accademia d’Italia, e che Gentile aveva accettato
(ma, quand’ero stato da lui, non me l’aveva detto). E così s’avviò verso un
destino di cui in qualche modo aveva consapevolezza. Poche settimane dopo
quest’episodio, Gentile propone a Luporini di diventare bibliotecario
dell’Accademia d’Italia. Ma Luporini rifiuta, sancendo così la fine del suo
rapporto con Gentile : un rapporto che, nella nostra prospettiva, è senz’altro
importante e che invece è stato quasi integralmente passato sotto silenzio. In
realtà, di L. si ricorda soprattutto l’attività posteriore, in particolare
quella che svolse come co-fondatore – con Bandinelli – della rivista “Società”,
e in seguito come direttore della stessa. La storia di questa rivista illustra
l’evoluzione di molti intellettuali di sinistra dopo la Liberazione, proprio
per il vincolo che venne rapidamente a crearsi col partito comunista. Parlando
di « Società » e dei suoi intenti programmatici, L. dichiara che per lui,
l’idea principale era d’una saldatura fra quella cultura degli anni trenta
di cui ho parlato – quella rottura con il passato che eravamo venuti preparando
lentamente, modestamente, molecolarmente – e la cultura di quelli che venivano
da fuori, soprattutto i dirigenti comunisti, e segnatamente Togliatti. Perciò,
non ero d’accordo con Vittorini, con la sua idea, nel « Politecnico » d’una «
nuova cultura ». I contenuti li avevamo in comune, più o meno ; però io ero per
un continuismo, non assoluto, naturalmente, ma rispetto a quel che ho detto. Per
illustrare meglio le forme di questo « continuismo », bisogna rifarsi alle
pagine che precedono questa citazione, in cui Luporini descrive l’ambiente
culturale della Firenze degli anni Trenta e il gruppo di intellettuali
antifascisti che vi frequentava. L. dichiara in quest’occasione che « da un
certo punto di vista la vera dittatura era proprio quella idealistica » e che,
nel campo specifico della letteratura e della storiografia, l’idealismo «
dittatoriale » era forse più crociano che non gentiliano Continua poi la
narrazione del proprio iterintellettuale, negli anni Trenta e Quaranta, che L.
descrive come un percorso che consta di due tappe fondamentali, due svolte,
anzi due transizioni. La prima avviene negli anni Trenta, quando Luporini
prende le distanze dall’idealismo crociano e scopre l’esistenzialismo ; la
seconda, negli anni Quaranta, quando dall’esistenzialismo L. si sposta verso posizioni
marxiste. Questi pochi elementi biografici offrono due spunti notevoli per
l’analisi della produzione di L. In
primo luogo, il rapporto personale più approfondito che L. aveva con Gentile e
non con Croce induce a riconsiderare l’influenza dell’uno e dell’altro sulla
sua prima formazione, da giovane studente e studioso di filosofia e di
letteratura. In secondo luogo, nell’esprimere a posteriori il programma della
sua rivista Società, L. formula una
precisa volontà culturale ed ideologica propria di quel periodo di transizione,
che consiste nel superare l’idealismo crociano e nel consentire una forma di «
continuismo » tra una certa cultura anticrociana degli anni Trenta e quella
degli anni Quaranta. Applicati alla critica leopardiana del dopoguerra, questi
due elementi dimostrano quanto fosse complessa e problematica l’eredità della
critica fascista e della critica idealista. L., Con Heidegger. Alcune
riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, in Heidegger. G. Gentile, Manzoni
e Leopardi, in Opere, Firenze, Sansoni. Leopardi, d’altronde, offre una
prospettiva privilegiata per analizzare il rapporto tra Croce, Gentile e L..
Era il poeta prediletto di L. Leopardi è stato sempre il mio autore, dichiara
L., e come tale, egli continuò a leggerlo e a rileggerlo da un capo all’altro
della sua vita. Ma era anche un poeta molto amato da Gentile – benché numerose
e importanti fossero le differenze tra il materialismo dell’uno e l’attualismo
dell’altro – e la costanza del suo interesse per Leopardi ci è testimoniata
dalla regolarità con la quale il filosofo siciliano pubblicò testi sul pensiero
e sulla poesia di Leopardi, poi raccolti in un unico volume24. D’altro canto,
invece, Leopardi non è stato un autore particolarmente apprezzato né compreso
da Croce. Citiamo qui l’allegro commento di uno studioso che era stato suo
discepolo, Gerace, e che dichiara: Gerace, Leopardiana, in La tradizione e
la moderna barbarie. Prose critiche e filosofiche, Folig. Croce non ama
Leopardi. Non può amarlo. Gli dà forte sui filosofici nervi. Gli è d’impaccio
al teorico passo, uso a scalciare stizzoso, ovunque lo trovi, quel terribile
nemico della sua teoria estetica: l’intellettualismo e il moralismo nel mondo
dell’arte. Or se c’è un intellettualista e un moralista convinto e di altissimo
stile nella storia della nostra poesia, e tenace in teorie e in fatti, questi è
Leopardi. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia, Bari, Laterza. Gerace allude
qui senz’altro al celebre testo che Croce pubblica dapprima su La Critica e poi
nel volume Poesia e non poesia. La principale critica che Croce rivolge alla
poesia di Leopardi è di esser intrisa di elementi allotri, di momenti
meditativi, filosofici, polemici, che sono, per il critico idealista,
profondamente estranei alla pura ispirazione e intuizione poetica. Come tali,
Croce non li considera veramente poetici, tanto che, nel suo esame complessivo
dei versi leopardiani, egli considera che solo un numero relativamente ridotto
corrisponda alla sua definizione di poesia. Croce non emette riserve unicamente
sulla poesia di Leopardi, ma ne esprime di ancora più forti sul valore della
sua filosofia. Per Croce, il pensiero leopardiano è dettato innanzitutto dal
sentimento, anzi dal risentimento per una « vita strozzata », ed è dunque
troppo soggettivo per essere considerato un pensiero filosofico universale. In
questa prospettiva, Croce interpreta il pessimismo o ottimismo di Leopardi come
un indizio dell’origine prettamente sentimentale del suo pensiero, e quindi
come una prova della sua pochezza concettuale. La filosofia, afferma Croce, in
quanto pessimistica o ottimistica è sempre intrinsecamente pseudo-filosofia,
filosofia a uso privato I due testi si trovano oggi nel volume di Gentile,
Manzoni e Leopardi, cit. Il primo, Le Operett. In queste pagine, Croce sta in
realtà dialogando con colui che era, da molti anni ma per pochi mesi ormai, un
amico ed un collaboratore, Gentile, il quale aveva pubblicato, due saggi – il
primo sulle Operette morali, il secondo intitolato Prosa e poesia nel Leopardi
– decisivi per la questione della filosofia pessimistica o ottimistica di
Leopardi 28. Anche Gentile, come Croce, giudica severamente la qualità
filosofica del pensiero leopardiano, dichiarando che « se cerchiamo in lui il
filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto mediocre
nell’invenzione Gentile formula, tuttavia, un’interpretazione ben diversa,
molto più feconda ed originale, della questione del pessimismo o ottimismo di
Leopardi. Senza negare del tutto il suo pessimismo, Gentile lo ridimensiona
attribuendolo storicamente e concettualmente alla sola influenza della
filosofia materialista, direttamente ereditata dai Lumi. Si tratta quindi di un
« pessimismo della ragione » settecentesca, che Gentile giudica, tutto sommato,
superficiale e poco originale, e al quale oppone invece un « ottimismo del
cuore », profondamente radicato nell’animo leopardiano. Così scrive : Leopardi,
pessimista di filosofia, e quasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore,
e nel profondo dell’animo : tanto più acutamente pessimista col progresso della
riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista Vi è, nello
Zibaldone, un’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia », come vi è, del
resto, un (..Ricordiamo, a tale proposito, il giudizio formulato da Augusto Del
Noce, secondo cui Gentile sent Pasini, Tutto il pessimismo leopardiano,
Parenzo, Coanna. Gentile dà particolare rilievo alla tesi di un’ultra-filosofia
leopardiana, supponendo l’esistenza di una sorta di pensiero leopardiano oltre
la filosofia pessimistica e materialistica: un pensiero più autentico, perché
più intimamente poetico, più spirituale e quindi, per Gentile, più leopardiano.
La rivalutazione gentiliana delle Operette morali e l’interpretazione in chiave
ottimistica del pensiero leopardiano segnano un momento importante nella storia
della critica, avviando un nuovo filone esegetico che gode di particolare
successo durante il Ventennio. Si assiste allora, come nota un critico, ad un «
capovolgimento, del punto di vista dal quale si usava considerare Leopardi » :
da « poeta del pessimismo » che era « per tutti », Leopardi « è diventato il
poeta dell’ottimismo. Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, in Scritti critici e
Ricordi, Torino, Utet. Per una presentazione dei testi, dei contenuti e degli
autori di questa particolare produzione crit Sanctis esalta l’effetto positivo
prodotto dalla lettura della poesia leopardiana, dichiarando che Leopardi
produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e
te lo fa desiderare ; non crede alla libertà, e te la fa amare »34. Negli anni
Venti e Trenta, tuttavia, l’intento della critica leopardiana è rivelare
elementi intrinsecamente positivi ed ottimistici, non nell’effetto prodotto sui
lettori, ma alla matrice stessa del pensiero leopardiano. L’opposizione
proposta da Gentile nel 1919, tra un pessimismo della ragione ed un ottimismo
del cuore viene ampliamente ripresa e riesplorata, dando adito a tutta una
serie di interpretazioni che potremmo definire irrazionali e fideistiche. Oltre
il pessimismo materialista, oltre il razionalismo disperato, la cui importanza
viene sistematicamente sminuita, molti critici cercano ed esaltano lo slancio
ottimistico della fede leopardiana : fede nella poesia, ma anche e spesso
soprattutto fede nella patria e nella stirpe italiana. In questo senso potremmo
interpretare alcune letture mistiche che vengono date di Leopardi e del suo
pensiero negli anni Trenta soprattutto. Lanfranchi, De centenaire en
centenaire. L’Italie fasciste célèbre ses poètes (Foscolo, Leo Non è certo
questo il luogo per analizzare questa produzione, vasta seppur povera di
elementi filologici e critici realmente nuovi. Ai fini del nostro discorso,
preme tuttavia osservare che un argomento ricorre sovente tra questi testi, che
consiste nel dare una spiegazione prettamente contestuale e storica al
pessimismo di Leopardi, negandogli di fatto un valore universale. Il motivo
fondamentale del pessimismo leopardiano è, per la critica di stampo fascista
degli anni Venti e Trenta, di natura politica, anzi patriottica. Leopardi non
ha assistito né agli albori del Risorgimento, né alla prima guerra mondiale, né
tanto meno alla marcia su Roma : se invece fosse stato spettatore e attore di
tali avvenimenti, egli – assicurano tali critici – non sarebbe stato
pessimista. Questo argomento costituisce un vero e proprio topos oratorio,
ripetuto centinaia di volte in occasione dei discorsi ufficiali e delle
commemorazioni del Ventennio, poiché, nonostante sia fondato su un anacronismo
e quindi scientificamente non abbia alcun valore, la sua efficacia retorica è
notevole. E segnatamente lo si trova quando, in occasione del centenario della
morte, il regime organizzò, spesso controllandoli e canalizzandoli, tutta una
serie di festeggiamenti ufficiali, in cui Leopardi veniva molto spesso
presentato come un precursore del fascismo. Vi furono però alcune celebrazioni
che riuscirono a rimanere in margine delle commemorazioni ufficiali e quindi a
garantire una certa libertà di espressione rispetto alla produzione su
Leopardi. Tra queste, troviamo l’annuario di un liceo livornese, che pubblicò
un numero speciale con vari studi consacrati a Leopardi. Il secondo, intitolato
Il pensiero di Leopardi, era proprio il testo di L., che in quel liceo appunto
insegnava filosofia. In questo saggio, l’intento primo di Luporini non è solo
di presentare un Leopardi esistenzialista, ma anche e forse soprattutto di
contestare la posizione dell’idealismo, sia crociano che gentiliano,
rivendicando innanzitutto il valore filosofico del pensiero leopardiano e
quindi anche del suo pessimismo. L. non
esita a metterlo a confronto con i maggiori filosofi dell’Occidente : C.
L, Il pensiero di Leopardi, Tra il pessimismo del Pascal, ultima grandiosa
affermazione del medioevo religioso e il pessimismo di Leopardi, c’è l’età
dell’illuminismo nei suoi ideali più alti, c’è Cartesio e Kant (che pur
Leopardi non conosceva), c’è insomma il pensiero moderno che fonda tutto il
valore dell’uomo nella sua dignità morale e questa sua dignità morale nella
verità che egli ha raggiunto colle proprie forze, rivelata alla sua ragione. Secondo
Timpanaro: L’esperienza esistenzialistica L. se l’era ormai lasciata C.
L., Leopardi progressivo Sarebbe opportuno comprendere se vi siano elementi
comuni tra i due testi di L. su Leopardi, scritti a distanza di dieci e
decisivi anni. Sussistono poche tracce del Leopardi esistenzialista nel
Leopardi progressivo. Un lascito più evidente consiste invece nella condanna
duratura e permanente di Croce – di cui L. cita esplicitamente « l’infelice
giudizio » su Leopardi. Per L., non solo la poesia di Leopardi è sempre vera
poesia, ma anche il suo pensiero, potremmo dire, è vero pensiero, vera
filosofia. Leopardi, dice L.,fu un pensatore progressivo ; in certo modo,
dentro i limiti della sua funzione di moralista, di non-tecnico della filosofia
né di alcuna disciplina particolare, il più progressivo che abbia avuto
l’Italia L’interpretazione data da Gentile – che invece L. nel suo testo non
cita mai – e la stagione di studi sul Leopardi ottimistico che essa inaugurò
per il Ventennio fascista lasciano invece dietro di sé, e sul saggio di L. in
particolare, un’eredità molto più complessa da cogliere e da valutare.
Nell’insistere sul materialismo del pensiero leopardiano, Luporini intendeva
senz’altro opporsi alla lettura idealistica e spirituale di Gentile. È inoltre
significativa la scelta di L., che non parla di un Leopardi ottimista, ma
progressivo, rifacendosi perciò ad un lessico di tutt’altra connotazione
ideologica. Vi sono, tuttavia, anche alcuni elementi di continuità, e ci
soffermeremo brevemente su tre di questi. Timpanaro, Classicismo e
illuminismo Il primo sta nell’origine contestuale e storica che L. attribuisce
al pessimismo leopardiano, il quale deriva, secondo lui, da una delusione
storica : la delusione della Rivoluzione francese. « Questa delusione – scrive
Luporini – non spiega solo il pessimismo storico di Leopardi, ma il suo
successivo e rapido pessimismo cosmico; ossia spiega tutto il pensiero
leopardiano. I due pessimismi nascono da un unico germe, appartengono a un
unico processo di pensiero »41. Esprimendo un giudizio complessivamente molto
positivo sul testo di L., Timpanaro emette la principale sua riserva proprio su
questa interpretazione, che giudica insufficiente in quanto non rende conto del
« valore permanente del pessimismo leopardiano »42. Nella nostra prospettiva, è
importante notare che la spiegazione storica, benché usasse altri mezzi e
perseguisse altri fini, era già usata in modo sistematico dalla critica
fascista, escludendo a priori l’idea di un pessimismo non fondato sulla storia,
ma sulla condizione umana in senso universale e astorico. L., Leopardi
progressivo. Il secondo elemento di continuità sta nel giudizio, proprio di
Luporini ma anche della critica fascista, secondo cui nonostante il pessimismo
scaturito dalla delusione storica, vi fosse in Leopardi una “inconcussa e
nascosta fede”43, qualcosa che lo induceva comunque a sperare. Come Gentile,
anche Luporini dà un notevole rilievo a quell’unica occorrenza del termine «
ultrafilosofia » nello Zibaldone, ma le attribruisce contenuti affatto diversi
perché in essa « sembra condensarsi la “disperata speranza” dell’individuo
Leopardi] Timpanaro considera che non era « accettabile » il rimprovero mosso a
L. Il terzo ed ultimo elemento di continuità, tra il testo di L. e la
produzione critica del Ventennio, sta infine nel presentare Leopardi quale un «
anticipatore di ulteriori dottrine. In entrambi i casi, Leopardi diventa
precursore politico di un’ideologia del Novecento e, in entrambi i casi,
diventa precursore di un’ideologia strutturalmente ottimistica. L’ottimismo era,
infatti, un aspetto culturale e ideologico programmatico per il fascismo ma,
d’altra parte, il progresso – e quindi la visione ottimistica del divenire
umano che lo sottende – è a sua volta un perno essenziale dell’ideologia
comunista. L., Leopardi moderno, intervista a cura di Adornato,
L’Espresso. Su questo punto vorremmo abbozzare le nostre prime rapide
conclusioni. Parallelamente al discorso critico più tradizionale e canonico,
che sin dall’Ottocento va definendo le varie fasi del pessimismo leopardiano,
si possono rintracciare nel Novecento le tappe di elaborazione del mito di un
Leopardi ottimista : un mito che forse proprio durante il Ventennio conosce la
maggiore diffusione, ma che non muore con la caduta del regime fascista. Il suo
permanere, sotto forme diverse, è forse proprio dovuto al vincolo che lo unisce
ad ideologie strutturalmente ottimistiche, le quali, quando designano nel
Leopardi un precursore, lo « piegano » naturalmente in questo senso. Alla luce
di queste considerazioni, assumono un significato particolare le parole che
pronuncia lo stesso Luporini, in un altro periodo di transizione, alla fine
degli anni Ottanta, davanti al crollo del regime comunista e davanti alla crisi
di quest’altra ideologia novecentesca. Non a caso, L. ritorna allora a studiare
Leopardi, per trovarvi l’espressione del suo sgomento : « Il sapersi soli di
fronte alla storia, senza speranze – senza nessuna garanzia, senza nessuna
ideologia, senza nessuna consolazione. Siamo molto lontani dal messaggio ottimistico
del Leopardi progressivo, e rimane poco delle antiche speranze di L.. Rimane
però quello stesso amore per Leopardi, e quel sentimento della sua ‘attualità’
più pregnante : Nella nostra epoca così confusa e in fase di
assestamento, nella crisi di tutte le categorie con le quali ci siamo mossi
finora, questa mi sembra un’idea liberatoria. Si può, anzi si deve, essere
disillusi : ma non per questo inerti e rassegnati. Essere nichilisti e insieme
attivi : ecco l’attualissimo messaggio di Leopardi. 47 Débat Inizio
pagina. Il testo Leopardi progressivo fu pubblicato per la prima volta nel
volume Filosofi vecchi e nuovi : Scheler-Hegel-Kant-Fichte-Leopardi, Sansoni,
Firenze. Come L. scrive in un’avvertenza ad una nuova edizione, « questo
Leopardi progressivoebbe subito una sua risonanza particolare, così che poi,
nel corso di tutti questi anni, molte volte sono stato sollecitato a
ripubblicarlo in edizione separata. Questa domanda proveniva da varie parti, ma
soprattutto dal mondo della scuola (insegnanti e studenti), il che mi ha sempre
fatto particolare piacere. L., Avvertenze, in Id., Leopardi progressivo, Roma,
Editori Riuniti). Scrive Timpanaro a proposito del titolo scelto da L. : un titolo che per un verso alludeva
polemicamente alle magnifiche sorti e progressive derise nella ninestra
(volendo indicare che Leopardi, nemico del falso progresso borghese-moderato,
mirava ad un progresso molto più radicale, al di là dell’orizzonte politico
della propria epoca e del proprio ambiente), per un altro accoglieva quell’accezione
un po’sottile e non immune da ambiguità che questo aggettivo ebbe per alcuni
anni nel linguaggio politico italiano : non equivalente a “progressista” (che
sapeva troppo di radicalismo borghese), ma piuttosto a “democratico avanzato”,
di una democrazia destinata, senza rivoluzione, a sfociare nel socialismo. Gli
equivoci politici di quest’uso di “progressivo” ne causarono la rarefazione e
poi la scomparsa quando era ancora in vita Togliatti, che ne era stato, se non
l’inventore, certo il massimo diffusore attraverso la formula della “democrazia
progressive -- TIMPANARO, Anti-leopardiani e neo-moderati nella sinistra
italiana, Pisa, ETS. Si tratta del v. 51 della Ginestra, in G. Leopardi, Poesie
e prose, Poesie, a cura di Rigoni, con un saggio di Galimberti, Milano,
Mondadori (I Meridiani. L., “Leopardi progressivo”. Brunetti, Il « nostro »
professore L., in L., a cura di M. Moneti, numero speciale della rivista « Il
Ponte ». L., Leopardi progressivo. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze,
Sansoni. Sebbene molto diversi, il testo di L. e quello di Binni hanno in
comune l’originalità dell’impostazione critica, che contribuì a rinnovare gli
studi leopardiani nel dopoguerra. La migliore illustrazione e analisi di tale
svolta critica si trova forse ancora nelle pagine, ormai non più recenti, di
TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri
Lischi. Croce conia la voce « allotrio » per indicare ciò che è estraneo
all’estetica, rifacendosi al vocabolario filosofico tedesco dell’Ottocento, e
al greco “ἀλλóτριος,” che signifca « estraneo, altrui ». Per l’influenza
di Gentile sul mondo culturale in epoca fascista, si veda in particolare G.
Turi, Gentile : una biografia, Firenze, Giunti. Il ruolo di CIAN negli studi
letterari nel periodo di transizione è stato recentemente studiato d’Allasia in
una serie di lavori, tra cui il virus malefico dell’ideologia nazionale e le
illusioni d’un maestro di metodo: VCian, in Fascisme et critique littéraire. Les hommes, les idées, les institutions,
a cura di Vento e Tabet, Caen, PUC (Transalpina). MARPICATI compie studi di letteratura italiana a
Firenze, pubblica alcune raccolte di poesie e vari testi di critica letteraria.
Ma sin dalla prima guerra mondiale mette da parte l’attività letteraria – alla
quale si consacra solo sporadicamente – per dedicarsi invece alla politica,
dapprima a Fiume, poi nella militanza e nel regime fascisti. Assume vari
incarichi prestigiosi, tra cui quello di Cancelliere dell’Accademia d’Italia,
poi di direttore, dell’ISTITUTO NAZIONALE DI CULTURA FASCISTA, e anche di vice
segretario del Partito Nazionale Fascista. Ecco quanto scriveva, ad esempio,
Cian, rivolgendosi a Croce e ai suoi discepoli : « Questi cerebrali, più o meno
giovini, chierici sterili e sterilizzatori, officianti nella cappella
all’insegna dello Spegnitoio, dovrebbero ormai decidersi. O smetterla,
rassegnandosi a tacere e a sparire dalla scena letteraria – e sarebbe tanto di
guadagnato – oppure mettersi al passo coi tempi nuovi » (V. CIAN, Rassegna
bibliografica, Giornale Storico della letteratura italiana. Mi sia consentito
di rimandare in questa sede a due testi miei, entrambi accessibili in linea:
Lanfranchi, La recherche des précurseurs, Lectures critiques et scolaires de
Alfieri, Foscolo et Leopardi dans l’Italie fasciste --
archives-ouvertes.fr/docs] ; Id., « Verrà un dì l’Italia vera », Poesia e
profezia dell’Italia futura nel giudizio fascista, California Italian Studies
», escholarship.org/uc/ismrg_cisj], In realtà, i primi sintomi di’insofferenza
RUSSO li da mentre scrive un articolo sulla critica foscoliana recente, nel
quale rivendicava la « politicità » di un testo come Le Grazie e la legittimità
di una lettura che non si attenesse ad un’analisi strettamente letteraria,
estetica e formale. Questo esempio viene a dimostrare quanto detto subito dopo
nel nostro studio, ovvero l’ipotesi di un allontanamento progressivo dalle
posizioni crociane durante gli anni Quaranta (L. Russo, Le Grazie di Foscolo e
la critica contemporanea, “Italia che scrive”. L., “Critica e metafisica
nella filosofia kantiana, « Rendiconti della Reale Accademia Nazionale dei
Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche », Il testo faceva
parte di un volume scritto dai docenti del liceo dove L. insegna, in occasione
del centenario della morte di Leopardi: L., Il pensiero di Leopardi, in Studi
su Leopardi, Livorno, Belfronte e C. (Pubblicazioni del R. Liceo Ciano, 1),
Nella sua autobiografia, BOBBIO cita un disegno di GUTTUSO che illustra una
delle prime riunioni clandestine del movimento, riunito nella villa di Morra,
vicino a Cortona. Vi si vedono Bobbio, L., Capitini (con davanti a sé un testo
che porta la scritta Non violenza), MORRA, lo stesso GUTTUSO e CALOGERO (con un
altro testo intitolato invece Liberalismo sociale, Bobbio, Autobiografia,
Roma-Bari, Laterza. L., Qualcosa di me stesso, in Questo testo è la
trascrizione dell’ultima lezione tenuta, dall’autore, nella Facoltà di Lettere
di Firenze, al momento dell’andata fuori ruolo. Luporini, Con Heidegger. Alcune
riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, in Heidegger in discussione, Atti
del Convegno internazionale « L’eredità di Heidegger », Roma, a cura di Bianco,
Milano, Angeli. Gentile, Manzoni e Leopardi, in Opere, Firenze, Sansoni,
Gerace, Leopardiana, in La tradizione e la moderna barbarie. Prose critiche e
filosofiche, Foligno, Campitelli. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia, Bari,
Laterza. I due testi si trovano oggi nel volume di GENTILE, Manzoni e Leopardi,
cit. Il primo, Le Operette morali, fu pubblicato per la prima volta in Annali
delle Università toscane, poi come proemio di un’edizione delle Operette morali
curata da Gentile (Leopardi, Operette morali, con proemio e note di Gentile,
Bologna, Zanichelli; il secondo, Prosa e poesia nel Leopardi, fu invece
pubblicato nel « Messaggero della domenica ». Vi è, nello Zibaldone,
un’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia », come vi è, del resto, una
sola occorrenza del termine pessimismo, ma nella critica leopardiana questi due
hapax hanno goduto di grandissimo successo. Leopardi scrive. E un popolo di
filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra
rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo
l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo
dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo -- manoscritto
dello Zibaldone. Ricordiamo, a tale proposito, il giudizio formulato da
Noce, secondo cui GENTILE « sentì se stesso come il filosofo di Leopardi, come
il suo vero continuatore perché l’attualismo avrebbe realizzato
quell’ultrafilosofia a cui Leopardi aspira: Noce, Gentile, Per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino.
PASINI, Tutto il pessimismo leopardiano, Parenzo, Coanna, Sanctis, Schopenhauer
e Leopardi, in Scritti critici e Ricordi, Torino, Utet. Per una presentazione
dei testi, dei contenuti e degli autori di questa particolare produzione
critica leopardiana, oggi poco nota, rimando alla mia già citata tesi di dottorato
(S. Lanfranchi, La recherche des précurseurs, LANFRANCHI, De centenaire en
centenaire. L’Italie fasciste
célèbre ses poètes (Foscolo, Leopardi, in Fascisme et critique littéraire,
Caen, PUC (Transalpina). L.,
Il pensiero di Leopardi. Secondo TIMPANARO: L’esperienza esistenzialistica [L.]
se l’era ormai lasciata decisamente alle spalle ; eppure essa aveva lasciato
una traccia nell’interesse per i temi leopardiani della “vitalità” e del
rapporto natura-ragione, nel rifiuto di un’interpretazione troppo storicisticamente
angusta del problema Leopardi. Timpanaro, Anti-leopardiani e neomoderati. L.,
Leopardi progressivo, Timpanaro, Classicismo e illuminismo, c L., Leopardi
progressivo.TIMPANARO considera che non era accettabile il « rimprovero » mosso
a Luporini, di aver fatto di Leopardi un « precursore del marxismo. Timpanaro,
Classicismo e illuminismo. Ma certe pagine del libro di Luporini e alcune
formule in esse contenute (segnatamente quell’anticipatore di ulteriori
dottrine) se non rendono « accettabile » un tale giudizio, perlomeno ne
spiegano l’origine. L., Leopardi
moderno, intervista a cura d’Adornato, « L’Espresso ». Nome compituo: Cesare Luporini. Luporini. Keywords: corpo e mente,
corpo animato – l’anima di Vinci – la mente di Leonardo – i corpi di Vinci – il
Leopardi fascista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luporini” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Luzzago:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di
Bresica -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, per il
Grupo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Brescia). Abstract. Grice: “I like Luzzago!” -- A retrsopective
of an important philosopher. Keywords. implicatura. Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Nato da Girolamo e da Paola
Peschiera, in una delle più importanti famiglie del patriziato cittadino, e
educato alla pratica devota e all'apostolato. Nel convento di S. Antonio dei
gesuiti si impegna in un corso di filosofia. Dibatte in pubblico 737 argomenti
filosofici! Con l'aiuto di Borromeo partecipa a Milano ai corsi di teologia dei
gesuiti di Brera. Si laurea a Padova. Desideroso di entrare a far parte della
Compagnia di Gesù, le difficoltà economiche della famiglia, causate da alcune
transazioni inopportune del padre, glielo impedirono. Conservatore dei Monti di
Pietà, e protettore della Compagnia
delle Dimesse di S. Orsola e di altri due istituti caritativi bresciani: il Soccorso
e le Zitelle. Ri-organizza e da nuovo impulse a un'altra istituzione sorta dopo
il Concilio di Trento: la Scuola della dottrina cristiana. Fonda la Congregazione
di S. Caterina da Siena. Per far sì che il suo operato continuasse, fonda la
Congregazione dello Spirito Santo, che raccolse i membri della classe dirigente
cittadina con l'obiettivo di co-operare più efficacemente e concordemente al
sostegno di tutte le buone istituzioni e mantenere un clima di Concordia.
Infatti, intercede per la conciliazione delle famiglie nobili bresciane spesso
in conflitto. La sua indole caritativa emerse soprattutto quando venne a far
parte del Consiglio di Brescia, dove sa armonizzare le strutture governative ed
organismi canonici. Nelle opere scritte vi sono indicazioni per i cavalieri di
Malta, sulla carità, ispirati al modello della Compagnia di Gesù. Durante il
suo viaggio a Roma esamina le strutture di beneficenza per poi proporle a Brescia.
Ha la possibilità di conoscere F. Neri. In un'epistola a Morosini, e informato
che Clemente VIII, prende in considerazione il suo nome per la carica di arcivescovo
di Milano. Fu avviata presso la Congregazione dei riti la causa di beatificazione.
Leone XIII, riconosciute le sue virtù eroiche, gli conferì il titolo di
venerabile. Dizionario Biografico degli
Italiani, A. Cottinelli, Vita del venerabile patrizio bresciano: dedicata ai
comitati parrocchiali, Tipografia e libreria Salesiana, A. Cistellini, Il
movimento cattolico a Brescia, Morcelliana. A. Fappani, Enciclopedia bresciana,
Opera San Francesco di Sales, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, S. Negruzzo, L'allievo santo: Roccio
precettore, in «Annali di Storia dell'Educazione e delle Istituzioni
Scolastiche», S. Negruzzo, Dalla scuola dell'ajo al collegio dei gesuiti: il
caso di L., in Dalla virtù al precetto. L'educazione del gentiluomo, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. ORATIONE DEL MOLTO REV. MONSIGNOR OTTAVIO
ERMANNO Macftro di Thcofogia PREPO SITO DI LORENZO Vele officio
TrenteJtmOydel Sig. Alcffianiro L. fatto nella fu a Chtefa adi /. Giugno,
M. C I r. Delle ragioni delli divina providenza nella niorte di elfo Signoc
AlefTandro. IN BRESCIA, Apprcffo Pietro Maria Marchetti. Con licenza
de Supenori. a H O IT A Jl O VH; OT JO M .J3a
OVTMAM513.0I7ATTO
5I0;Afcolcaton,chctiuouatrouatafiaque- Al I llancllaflncflrdiT)I
lendo in picciol quadro riftringcre numerofo ftuolo di gente, contenti di
compitamente delineare alcuni perfonaggi più illuftri, e principali; altri
fpargon in vna picciol parte di loro, chi nel capocchi in vn braccio, chi
in vna gamba, chi in va fianco; cosi io racchiudendo quàto ho da direnel
picciol qua-> cito della querela propofta andrò còforme à quello, che si
pretende cercando i miseri della Diuina prouidenza nella morte del Signor
Aleflandro in quefto tempo, in queftacti, inquefle circonflanze, confidato
nella bontà de gl'ingegni voliti aiuttati dallo Spirito del Signore, che
da queiU fi faran fcala i. trouarne altri più fublimi, e più alti .
Incominciando aduaque da più baflò grado luflusperit none/i ijuìrecogitet
corde» Vuole il Signore, cftenoi penfiamo di cuore alle cagioni
dellJL morte di quefio fuo amico, tanto giufio ; doue ricorrerò à
ricercarne il conto? hò pcnfatodi fpcdirmi daconfiglicri più bafsi. Non
v'ha dubio alcuno, che fe il Medico, o*l Filosofa foflè chicfta d*vn Hmil
quefito,rirponderebbe, non cfTere marauigliaalcuna ; et che vn'huomodi tante
fatiche,c cosi poco riposo, di tanti digiuni, e così poco cibo, di
tantcpafsioni c così poco rifioro,
dicosi graue infermiti, e cosi deboli for2e non poteuaviuer molto fenza
miracolo ;& il farmiracoliè fuori del comune cotfo della natura,
quale il Signor Iddio noa peruertifce fe non per qualche cafo
appartenente all'ordine fopranaturaledellagratia. Quefta rifpolla diede
egli fteffo à. me poco prima, che partiffe per Milano. Signor A
led'andro^ difsi iOy come (late voi l'ano in quefio iufluilò de mali
tanto pe ftilenti ftando la vita y che voi fate? Guardate, rirpofe, e
miracolo di Dio. era miracolo, fe viueuai Dio non hi voluta far'il
miracolo, perche non era ifpediente : adunque è morto^ Queftarifpofta
pare al primofcontrofodisfarejmaa chi confiderà le parole della querela, non
vuota atfatco la difficoltai poiché cosi fiando, non occorrerebbe
lamentarfi di cora,che comunemente corre nella vita, e nelJa motte di
ognVno, oltre cheàgiudicio mio s'appoggia a fondamento talfo; cioè chela divina
providenza nelle cofe naturali non habbia elie iure altroiAchelalciar
Correre le caufe naturali i i loroe^eai concoWndoreco Comé eaóft prima »
t lifciàndofì ^^t^rmìnw da loro, dico che lei è quella, che ha pofle in
ordinanza tali caufc per produrrai i effetti, e cofi mi refla Tempre da
dimandare, perche a etfccro tanto] nobile com*è l'huomo giu(lo,e
qucft'huorr.o in particolare hi ordinato caufe tanto pernicio
fe,checosìtoftodouefl'erodiftriiggereìa vita di lui. Alziamo dunque la
mira à più alto berfaglio, e vediamo, fe potiam cattare la rispofta dairifteHà
querela, nella feconda parte di lei. acìe enìm malici f colle &US eft
ikflus y € (i dìch\3iTzqy3c(io pa(lb con quell'altro della Sapientia al
quarto. Vlacens 'Deo fiBus dilcdus, et vìuens inter peccatores transUrus
e fi ; raptus efl ne mi' litiamutaret intdlt^um eius, aut ne fi^io
deciperet animam ìlUut . placitaenimerac Deo anima illius: propterhoc
properauit educere illum de medio iniquitatum. E veramente che da facri
Theologi c annouerato fra gli effetti della Diuina predeflinatione il
dare prefla morte al predeftinato,cui vede, che foprauiucndo, (ì
dannarebbe . ma quello fenfo non è neceflàrio, che conuenga a tutti; poiché
puòefsere, che per altri rifpetti ancora chiami a fe preftamente il Signore
quelli, che altrefi foprauiuendo fi farebbero faluati. Diciamo dunque,
inherendo a quefto paflb, che non ha il Signore lafciato arriuare il
Signor Aleffandro alla vecchiaia, perche non poteua farli il maggior fauore,
che liberarlo prefto da quei piccioli peccati, che in fe fteffo haueua; e da
quei grandi, che con grauifsimo fuo tormento vedeua in altri. Non replico
le cofe già dette da altri «quanto gli fpiaceflero i peccati veniali
medelìmi : foggiungo cflere im poffibile a huomo mortale,per fanto che fi
fia,viuere fenza pec cati veniali : econchiudo efièr flato gran fauore i
quedo gran de amico di Dio liberarlo quanto prima da fuoi peccati
per leggieri che foffero. Ma de’ peccati altrui propriamente parla la
Scrittura ne i luoghi allegati; et io dico, che chi conofceua l'infocato zelo
di quell'amorofo petto contro al peccato in aiuto de peccatori, dira che
patiua grauifs imo tormento, effendo per la fua conditione artretto a conutrfar
con peccatori, e che gratia gli ha fatto il Signore grande liberandolo;
potrei apportar quiui mille teftimoni, mille lentenze vdite có le mie
orecchie dalla bocca fua ; ma troppo lungo farebbe il ragionamento. Di vna mi
contento per adtlfo, et è che I accontandogli io vn facto occorfo dioéefa graue
d'iddio acciò gli A 4 prouedci?^ ; perche la narrat?ua (Tf^cndcua vn poco
in fango J in quel mentre ch’io ragionauo.fotto gli occhi mici
fcoppiaua di do'ore,& era coftretto tenerfi la mano al petto, perche
gli d fchiantaiiailcuore,emi prfgaua, ch’io finifsi quanto prima. Quindi
da quefto principio raccogliete voi le altre cofe di que fio punto, e ne
trouaretc infinite: come farebbero quelle inuentioni, quei flratagemi che
(ludiaua perdiuertir gli abufi ò publici ò priuati; come farcbbejChc ne i
giorni de i Santi tutelari della fua villa dodeci anni fono per ouuiare i
confueti ba« gordi intrcduceflel'oration delle 40. hore; vi conduccfTei primi
Predicatori di Brcfcia, quefto cflempio fofle poi feguito da l'altre
ancora : che nelle barche doue foggiornaua percagion di viaggio, diuertilTe i
ragionamenti vituperofi, introdudoccndonealtri,ediletteuoli, et vtili,
diftribuendo à tutti e libretti, e imagini : come farebbe, che ogni pochi
giorni haueffeìncafa mcfchinazzi,e vagabondi, acciò li faceficconfcfiarc;
cheraccoglieflei Valtelini per aiutarli nella fede; che fodètan to
follecito per la confcruation della fede in qucfta Citti; come poffo atteftar
io di opre importanti fatte a qucfto finejchc fcorrefTe ogn'anno qualche
parte di quefta grandiocefe fotto'l ftendardo 5L in Aituto della
chrifliana dottrina,non perdonando nei fpefe,nea fatiche; non lafciando luogo
peralpeftrc che foHe: come farebbe, che commandafle a vn gentilhuoma
fuo famigliare, che capitandogli donzelle d'aiutare,ò dopò la caduta,
òauanti, che cadano ; ne fapendo doue ricouerarle, le mandaffe tutte
infallibilmente à cafa fua, ecento d'altri. Io rhoviftotal volta
riprendere con feruor grande alcuna perfona, che malamente fi lafciaua tener in
freno, e fpezzaua la briglia, 8i ho ammirato in quel vifo,in quegli occhi, in
quella lingua mi (lion tale d'amor'edi fdegno, che ben dimoflraua
adirarficontra'l peccato,non controal peccatore; ne fcandaHzat^
(ìgiamaidi niuno. Hn'àtale,chcfi mifein difputa meco vna volta à volermi
perfuadere, ch'egli foffe il maggior peccatore del mondo, etiandio fuori
di quella fuppofitione che faccua Si Frajìcefco: cioè, perche fe Dio
hauefle facto a gli altri peccatori le gratie fatte alni, Thaucrebbero feruiro
meglio di lui: ctiamfenzaquefto voleua Alefiandrocllèrc maggior peccatore
di tutti : n^a trouandofialle ftrette con le ragioni/aila fine mi
.tiiiTe^che luilafcmiua così>fe bene non ne fapeua render la
ragionc gtonif! O animà benedetta, ò lume veramente diuina, che
fpunrando i più lucidi raggi fuoi dentro alle fineftrcdi quelle porczc,
gli faceua difcemere ogni pagIiuzza,ogni atomo^ognt pelo d'imperfcttionc.
Horsù propcrMUÌt educere iUnm de medio in'tifuìtatum, Si egli l'ha
riputato fauor grandifsimo. Più alto, più alto. Juftus petit, et non efi
qui recogitet corde. Che miftcrio, Signore, volete voi che ritrouiamo nella
morte di quefto giiifto ? forfè quello, che voi accennate colaappunto
nella Sapientia al quarto? Confumatustn breui expleuit tempora multai c
difopra. Sene^us enim yenerabìlis efi ncn diuturni, neq; annoti numeto
computata; caniautem funt fenfus hominis ; et feneSu» tis yìta
immaculata. Et c quefto, che egli con feruor grande co-operando à diuini
impulfi, ne arrcftando con le proprie colpe lediuineinfpirationi,è
arriuato prettamente a quel fegno di gratia, Si i quel grado di gloria,
al quale Iddio l'haueua predeftinato: fiche era di meftieri troncargli il filo
di queftavita prefente; acciò non diuentaHe più fanto di quello, che Dio
lo voleua,per fegreto della giufta prouidcnza fua;qual fegretO
ancora andaremoìnueftigando più abaflb. Quefto e l'haucr in breue corfo
riempiti di meriti molti anni: Quefto è l'hauer nella vita immaculata
l'honor della vecchiaia . cfie dirò io qui di quella follecitudine
inferuorata tanto propria di lui? Pareua che indouinaftc il fine, che
parlando meco pochi giorni fono; inftaua grandemente, che bifognaua far
prefto, e non lafciar paftìire occafione ninna, che conccrneffe il
fcruitio di Dio, e richicfto da me, per vna certa occasione, vna volta,fe
in tanti negotij, tanto varij, et impoittuni fentiua mai tedio, o languìdezza
;mi replicò tre volte: mai mai mai nhòfentito; hò fcmprefentito la mcdefima
prontezza. Il Solcfpunta i raggi del marcino con foauità grande ; ma
falendo al mezzo giorno auen ta i ftrali infocati, che accendono, che
abruggiano, e di più chiara luce rifplendono. Le virtù di Aleifandro nella
fanciulkzza, e nella giouentùfua,quasi raggi matutini, erano piene
difoauita,edidolcezza; mancl meriggio deiretàfua, nella fommiti di quei
meriti, i quali era adell'o falito, non vedete come ardeua di
diuin'amore? come sfauillaua parolcdouunq; fi trouaflc tutte ferafiche, tutte
diuìne? chi lo fentì gi.imai à par lare non ditòociofamente, che quefto
auuertimento è troppo baffo ; ma humaQamcnte? qual ragionamento conchiufc
egli fe non n8 in Dìo?qual lettera fcrìrtc tontano, che no la
fregìaflc dì parole di Oio?quaI polìza madò per la città, che nòia
rpruzzaftè di Dio? doue mai moffe i piedi/e non per Dio? che cofa
operò etiam humanamente, e naturalmente, che non la iudrizzaffe in
Dio? Dio haueua egli fempre nel cuore, Dio nella bocca Dio nei piedi, Dio nelle
mani, era tutto abforto in Dio. Si maraujgliano, che habbi lafciato
moglie, doti grandi, robba di vnigenito quefto è nulla à quel gran cuore
; ha lafciato tue to fé fteffojOgnifuo commodo e temporale, e fpirituale
per feruigiodi Dio,eperaiuto del profsimo. Ditelo voi, che gli
recauate à biafìmo, cheincafafua non ci fo(Iè ordine; che noa vi fi
trouan'e mai hora ne di mangiar, ne di dormire. Dirò io quello, in che
più patiua, che più gli premeua . I diletti, i gufìi dello fpirito lafciauaper
Dio, et per il profsimo. lafciaua invnaparola Chrilto peramor di Chrifto.
Intendete hora, Afcoltatori, quel diffìcil parto di San Paolo. Optabam
ego amt" tema effe à LhriHo prò fratribus meis ^ Vedetene la prattica
in Ale(ìandro,huomo tanto dedico alla contemplatione^dcllecofe celeft i;
che pigliaua tanto diletto nello fludio delle facre let tere; tutto
lafciaua, di tutto fi priuaua per feruir al Signore ne fratelli fuoi.
Signor Alelìandro, gli diceuo io, a che propofitohauctefpcfitanti anni
nellefchole della Theologia,fe non la vedete mai ? a guifa di colui, che
prefa moglie, tofto l'abbandona, lafciandola in mano de parenti fuoi ? perche
non vi ritirate qualche volta a pigliar quel altifsimo diletto, per
cui tanti Santi, 8c amici di Dio han dato bando a tutte le cofe
crea te, fi fono ritirati ne'chioftri, e ne deferti? quei Nazianzeni, quei
Bafilij, quegli Agoftini. Haoece ragione, rifponde egli, ne patifco
grandemente: ma non hò tempo; et ertbrtaua me ancora à iafciarquefto gufto
pcrfcruitio di Dio, che afpettate più? Ah,mi fugge il tempo conchiudo in
vna parola quanto fi può dire; egli era in arto fcmpre dell'vna, e l'altra
vita la contemplatiua, et Tattiua,nc leoperationi de Tvna impediuano gli
eflcrcitij dell'altra, e come che quel felice fpirito forte chiufo nella
carcere di corpo terreno, ftaua però talmente Tempre abforto in Dio, e con il
corpo impiegato in feruiggio del profsimo, come fe rvno,e l'altro in vna
medefima ca fa facelVcro diuerfa famiglia in diuifi appartamenti ; e come
il fuoco talmente s'adopra attorno alla materia di cui fi
pafce» che fce poi rotto in fc^ftellb, c fmoO più giubilando auampa
con maggior fiamma, € folletti feco »ò ra pifce i n alto quella terre
ilrità della materia; così lo fpirito di AlenandroabbaiTandofi a bifojrni
de profsimi fuoi non s'immergcua in efsi di maniera, che non
foUeuaflerecoognicofa a Dio. Deh fermati fole, cU*io non poflb tacer
quello, ch'io fon per dire Cade di bocca quefio Nouembre palfatoquafi per
fchcrzo ad vnfuo amico, c famigliare, ragionando con vn padre
rcligiofo>chehauercb be fotti gli cflercitij fpirituali della
Compagnia di Gesù, fe il Signor Alefandro gli haueffe fatto compagnia,
tenendo per fermo e(lèrcimpofsibile, per i molti negotij fuoi; tanto
più che la Signora fua madre era grauamente inferma » come ne mori.
Lo riferì il padre al Signor Aleflandro, non ftete egli a bada, non fii
lento a pigliar l'occafìone; fparfe parole per cafa, che andaua a
ritirarfì fuori della Citta per cagion de fludi . Si ritirarono tutti tre
il Padre, et efsi ;goder ono per quei giorni il Paradifo. O Aquila
celcfte,ò (guardo diuino, come ti dipinge diuinamence lo Spirito fanto in Giob
a trenta none. T{unquid éidpraceptum tuum eleuabitur à^qmla ; et in arduìs
ponct nidum fuum ? In
petr'is manet, et in pr£ruptìs filicibus commoratur, atque inacceffis
rupìbus . Inde coniemplatur efcam, et de Longe oculieiusprofpiciunt.
Soggiorna quell'Aquila per lo più vicino al fole eterno, habita nella
pietra, nelle rupi, nelle cauernc della maceria, nelle piaghe del Saluatore
colloca il fuo nido, tro ijailfuoripofo;qnindi s’abbairaali'efca terrena;
ma incontanente al fuo nido ritorna. Chi è di voi chi fappia i trauagli
grandijchehà patiti continuamente Alcffandro? credete voi^ che gli
leuailero la tranquillità, et il ripofo,che godeua ia quel fuo nido? So
che nell'occafionedi vnograuifsimo venu^ togli per vn’opera fatta per
feruigio di Dio, e falute di v n'anima; di fle a me, che con tutto ciò non
vorrebbe nonhauerlafac ta.,dC rhauerebbc fatta di nuouo . So che di altre
perfone^cbfit Igli dauano trauaglio hcbbe a dir molte volte, che era loro
molto obligato.di onde pigliaua quedi fentimenti? da quelle riiiik pi in
CUI baucua collocato il fuo nido. O marauighofo cotv 4cerco di ben
accordata cetra procedente da corde ài contrjr*' ario (uotvo; Tvna,e
l'altra vita. Nella attiua meriraua, nelljt «làaxaiipiaciua godeua: nella
atciua faticaua, nella coatetnpk. fitatiùa riporani ineHa inhtdìtcfnitxìi al
baflbi nella Contemplaciua vulaua in alto : ticHa acci ua proucdeuaad
aIcri>neU la conccmp iariua prouedcuaa fé fleiTo: nella
acciuaconuerfauacon gli huoiTìini, nella concemplaciua conuerfaua co gli
Ani;cli. Confiétnatus in breui expleuìt tempora multa . ha vnito in
fcftcflo cucci i ftaci, cucce le pcrfcctioni. Ma più al co ancora . luflus
per'it, et non eft,qm recogttec corde che habbiam dt penfar che habbia
molTo il Signore a dar la morce adeffo a que fio giudo amico Tuo? Thonor
grande, che gli voleua fare in cielo y Scili cerca per lo cócorfo
(lupendo di caufe cali,che morendo in cempo cale, di fuo lecco, fuor del
marcirio non potea morir più gloriofamcncc. Non mi ftcndo ad eHaggerar
quc fto pa(ro;lofapcce voi. Ad vn puncomi riftringo. egli e alle
mani Diohoggidi adilluflrare la fancica, e la gloria di quella gran colonna di
Tanca Chiefa il Cardinale Borromeo. Non era in corra il piiì (ìmile a lui
nella parcicolar vircù fua, che era il zelo della faluce delie anime, che
L. Non erachi peralcri piùconfumafferedefrotCheilBeaco Carlo, Se il
Signor Alefl'androjà guifaproporcionalmencedi duegran doppieri podi nella
Chiefa di Dio, quali ferueudo ad alcri di (Iruggono fé medeHmi: c perciò non
era ne anco in cerra a cui, porcaffe maggior amore il Cardinale mcncre
viueua,che a L. L'ha voluco per compagno nella gloria in Paradifo.gli ha
voluco comunicare la gloria fua anco in cerra, e farlo Hmilc afe anco nella
morce con quella proporcione, che in cofe non affacco medefìme fi può
ricrouare. Vaffene a Turino il Cardmale a vificar quell Alcezza canco a
lui cari per nuoua occafione: vafTeiie a Milano Aleffandro a
vificar queU'Arciuefcouo Cardinale canco Tuo, quanco fi è vido,
nuouamence venuco da Roma. Quindi viene il Cardinale a Varallo a vificar
quel sepolcro di Christo: fcieglie quel cempo d'andar'a Milano Aleifandro, che
fi lena il facro Chiodo per adorarlo; e con i'afpecco del facro Chiodo gode
il Beaco Sepolcro del Cardinale, e gli offerifce i doni d'argento.
S'amala al Sepolcro di Varallo il Cardinale : s'amala foprajil Sepolcro del
Cardinale Aleflandro. Condotco à Milanoil Cardinale, fubico e pronunciaco
fpedico da Medici: Dal fepolcro del Cardinale Alclfandro è commandaro
ricirarfi i l«cco, c riftelTa maccÌDa Icgucace fi fi la fcncenza della
moue quat- iquìittro giorni paflsino d'nifeJ^ft^ al Cardifiale: quattro
giovi Ili intieri foli giace in letto Aleffandro. More il Cardinale
in Milano: morc Aleffandro in Milano. More il Cardinale ncllx
camera,encl letto Archiepifcopalc: more AlclTandro nelle mini deirArciuefcouo
Cardinale cugino carnale di quello, fomigliantifsimo nella fantita, et nclli
angelici coftumi all' vno, 8C airalcro. More il Cardinale vicino al
cinquantefìmo anno dclTctà Tua: more Aleflindro vicino vn*anno al
cinquantefìmo dell'età fua . Morto il Cardinale vien apertole fuentrato :
aprir c fuentrar c ncceflario Aleflandro, che più? Carcano Anatomica di
Pauia è quello, chcefTcntera il Cardinale: Carcano medcfimo è quello, che
eflcntcra Aleffàndro. Si fanno TeHcquie del Cardinale dal Clerotutto: tutto'l
Clero peroccafion diSinodofitrouaal funerale di AlefTadro . 11 Cardinale di
Cremona in Pontificale fa l'officio al Cardinale: Il Cardinale di Milano in
Pontificale fa l'officio ad Aleflandro. Il Cardinale di Cremona fatto
l'officio, in publico confperto del mondo incomincia a dar fegno della
fantità del Cardinale facendogli toccar la corona: Il Cardinale di
Mi" lano morto Alessandro fubito gli bacia la mano come à Santo e fa
ordini, e da commifsionidclla riuerenza in che vuole, che fi tenga.
Sopra'l corpo del Cardinale fi fa l'oratione funebre daircloqucntifsimo
P. Panicarola : fopra il corpo d*Aleflàndro fi fa l'oratione da
qucllo,che nella CompagniadiGiesù fa publica profefsione di eloquenza, e
dell'arte del dire. Andate inanzi . Se Aleflandro cinque giorni e flato
morto fopra terra per il bifogno di condurlo a Brefcia: anco cinque
giorni flette lopra terra il Cardinale perdute fodisfattion al popolo, et
ap» parccchiarlecfl'equic. lamutatioiì,che fi vide nella faccia di
Aleflandro quando l' vltimo giorno fi fecero le eflequie. la vidi 90 in
quel giorno anco nella faccia del Cardinale. Corfcroal Cardinale le genti
a garra per ottener'alcuna delle reliquie fuc: Corfcro.e corronoad
Aleflandro et in Milano,& in Brefcia i popoli i garra per lo medcfimo
effetto . S'incominciòaH'hcH ra fubito à fcntir per la Citta mormorio di
varie gratie impeirate per lainuocation del Cardinale : Molte ancora, e di
graa yileiio fi fono vdite quini octenute per la intcrccfsion di Alessandro.
Refta, che come pochi anni dopò,la fua morte fi ù ricordaio il SignoK
d'iUuilrar cou miracoli il Cardinale; cosi Incfncftoincoft fiborifca
Alfffandrò". O beata co piiiòfcli ce confortio . che flarò io a dire
in queda occadone ? MwtaUit stima mea morte iufìorym fiint nouifiìma tnea
horum fimilia. Mi bt aktem nimU bmmati funt amiti tu't, Deus . Tr£tìofa
in tonfpeffu Domini mo- s fauSorum eius . Tanto è grande l'honore, che fa
il Signore a gli amici Tuoi, tanto illufVre la gloria, che dona
lorOi che non contento di quella del Cielo, la dilata anco per la tetta,
per quella valle di milerie: non contento dello fpirirOfll coniinunica
anco al corpo ; anco alle ofl*a fecche; anco alle ceneri ; anco à lorbaftoni; à
lorveftimenti ; à lor capelli; à lor (lringhe;i lor fcarpe; alle ombre
loro, comunicandogli virtà onnipotente . E dunque vero Signore, che Stmi%
honorati funi amiciiuiy Deus. Ma fagliamo vn fcalin più alro ancora.
Lequac tro cagioni annouerate non efcOno dalla perlona di Alcflandro;
fono particolari Tue. Due iChereftano Tono più diuine più alte ; pretendono il
ben commune, che è molto \»mi petto ad Alc!randro, & i Dio. Non vi
ricorda? Cftpi. ego anAtcma effe à Chrifio prO fratribus mets ^ E di
quell'ai tro,chc in ecceflb di fpi rituale pazzia dimandaua gratia al
Signore, che man dafTe alrinferno lui, e libera(lè tutte quelle anime, che vi
ftauano rac che con grauc bcftcmmia contro la diuina clluìna
proaidenzatepntanòimporsibile fcruire pcrfettimdti(eaSua Diuina MaefUfotco
paterni recti, nella cara domenica, neirhabico laicale, nella conuerfacion del
fecolo, fra le occafìoni de peccati, nelle procelle di quello tempeflofo
mare del mondo. O gran filofofìa»© fapientia rara, ma necelTaria,
8C importante più dì tutte . Ecco in AlelTandro laico, la vira re
]igiora;in AleH'andro occupato la vita monadica; in AIeiTan- chi il zelo
dell'anime, chi la cura delle pxci, chi le prigioni, chi gli hofpitali, chi le
congregationi, chi gli oratorij,e tutti infìemevn'accefo amor di Dio 5^
del proffimo. Qncde rapine v'afsicuro io, da parte fua, che gli aggradiranno
molto più, che fcalzarlo, ò fucdirlo, ò pelarlo per di-. uocioné; 5c fe
queilo hauete fatto; vi fìano quelle reliquie vrr perpetuo mantice, che
v'accenda all'imitatione de fuoi Santi Codumi. Nome compiuto. Alessandro
Luzzago. Luzzago. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Luzzago” – The Swimming-Pool Library.


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