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Tuesday, July 22, 2025

GRICE ITALO A-Z G GE

 

Luigi Speranza -- Grice e Gedalio: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “We often forget of motivations. What led Porphyry to comment on such a transparent little tract as Aristotle’s ‘Categories’. Now we now: it was a gift from Porphyry to Gedalio!” Keywords: category. Filosofo italiano. Grice: “I would give two sorts of seminars on the categories at Oxford. The first-class ones were the ones I gave with Austin – him being my senior, he did most of the teaching. The syllabus included actually a commentary on De Interpretatione. Ackrill attended them. The other were a more informal set of seminars with Strawson, entitled ‘Categories’. Our purpose was not just to discuss Aristotle – since Strawson’s Greek left a lot to be desired – but include a bit of Kant into the bargain!” I recall a pupil attended and being asked by another: “What is going on here?” “I have no idea. I don’t know the rules of the game, but it seems Grice and Strawson are winning!” – This was in response to an ad lib interruption by O. P. Wood, who shouldn’t have been there in the first place! Quinton witnessed it all and later told me. Our seminars on ‘Categories’ with Strawson extended over a number of terms.” A pupil of Porfirio, who dedicates his commentary on Aristotle’s Categories to him. Keywords: category. Speranza, “Grice e Gedalio.”

 

Luigi Speranza -- Grice e Gelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della difficultà di mettere in regole la nostra lingua – sentientia gricei -- filosofia fiorentina – scuola di Firenze – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice: “I have rather sloppily used ‘sentence’ for what Cicero calls ‘sentientia’. I argue that ‘sentientia’ is a value-oriented paradeigmatic concept: a ill-formed sentientia is just not a sentientia. I also use ‘sentientia’ as the third level of articulation – my focus having been on ‘word’ – or utterance-part, and sentientia, utterance-whole. Keywords: sentientia, sentence. Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo Italiano.  Firenze, Toscana. Grice: “I like Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical Italian fashion, mixing semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati un poco di Palmieri, che era tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò tante lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli; la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un uomo di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di dare opera agli studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere inteso che quel re ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini originario di Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San Paolo.  Esercita per tutta la vita il mestiere di calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di cricket amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino e poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona, participa, anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti Oricellari. Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo, dapprima in qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei dodici Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di Adamo, tratto dal Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente lezioni su Dante e Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del bottaio, ragionamenti fra un bottaio e la propria anima (inserito nel primo indice dei libri proibiti) e La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri compagni trasformati in animali. Tra le tesi sostenute nelle sue opere vi sono quelle della discendenza diretta da Noè dei fondatori di Firenze, dovuta probabilmente all'influenza sul G. degli “Antiquitatum variarum volumina XVII”; un falso confezionato d’Annio da Viterbo, e quella della superiorità della lingua fiorentina sulle altre.  --- nominato da Cosimo I lettore ordinario della Commedia presso l'Accademia e recita nove letture dantesche, pubblicate con cadenza annuale, che hanno grande influenza sugli interpreti d’ALIGHIERI durante tutto il Cinquecento fiorentino. Altre saggi: “L'apparato et feste nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca di Firenze et della Duchessa sua Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze”; “La sporta” “Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La Circe”; “Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua”; “Lo errore”; “Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Sopra un luogo di Dante, nel Purgatorio della creazione dell'anima rationale”; “La prima lettione di G. fatta da lui l'anno, sopra un luogo di ALIGHIERI nel Paradiso”; “Spra un sonetto di M Petrarca”; “Spra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto Della Sua M. Laura”; “Sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di Petrarca”; “Tutte le lettioni fatte nell'Accademia Fiorentina,” Letture sopra la Commedia d'ALIGHIERI, Delmo Maestri, Opere di G.i, POMBA, Mutini, I dialoghi morali di G. in "Storia della letteratura italiana V", Motta, Maestri; Mutini. G., Dialoghi, Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G., Società tipografica de' classici italiani; Gamb; G., La Circe, Venezia, Alvisopoli; G., “La Circe e i Capricci del Bottaio (Milano, Silvestri); G. Opere di G., Firenze, Monnier, Negroni, “Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); Negroni, Letture edite e inedite di sopra la Commedia di ALIGHIERI, Firenze, Bocca, Fabre, La Circe di G., Torino, Salesiana; Barbi, “Trattatello dell'origine di Firenze” di G.  (nozze Gigliotti-Michelagnoli), Firenze, Carnesecchi, Ugolini, Le opere di G., Pisa, Mariotti, Bonardi, G. e le sue opere, Città di Castello,  Lapi; Ugolini, G., Scritti scelti, Milano, Vallardi, Fresco, G., I Capricci del Bottaio, Udine, Tip. Del Bianco; Bontempelli, G., La Circe e i Capricci del Bottaio, Istituto editoriale italiano, Sanesi,Opere G. (Torino, POMBA, Tissoni, G., Dialoghi, Bari, Laterza, Alesina, G., Opere, Napoli, Rossi, Bonora, “RETORICA E INVENZIONE” (Milano, Rizzoli);  Montù, “Gelliana”. Dizionario biografico degl’italiani. che essere scaciato e fuggito da ogni Àno, come s ifarebbe una fiera. A. tuparli come un filosofo Giusto; che l'inuidia è quela, la quale piu che altra cosa guasta il confortio humano; e tanto peggior i efeti produce quanto e la è in huomini piu ingeniosi piu valenti, ma egli e di gia alto ilsole, io nochetu tilieui, pieno.  0 wadi à le tue faccende, con un'altra volta ragioneremo di questo pius   ellamipare? sie. Orgliè troppo innanzi giorno à levarsi, questi fratiminori hanno questo costume, di sonar sempre il mattutino in su la mez sara meglioleuarji, machefaroiopoi, egli è tanto di quià leuatadisole, che mi rincrefcera, ma io potreiuedere, fe l'anima mia uolesse parlar meco. Anchora che io comincio a dubitare, che fe joseguito, ela non mi facciimpazzare, e non èdafarsebeffe, perche secondo me, tutiquei che impazzano, impazzan' nel'anima, nel corpo, et cosi farà forse questa mia àmeseiole credo cosi ognicosa. Eccoelam' ha cominciato à dire, che si puo esseresauioe dotto senza sapere lingua grea carolarinas che è nnacosaches' io la dicessi fra questi doti moderni, io sareiu celato proprio comeun. gufo, io permenonho mai sentito dire, che esi pos faeferefanio in volgare, ma pazzofibeneset non OVELLA lasquiladisanta Croce co E una dimostratione grandissima d'un disagio non picolo, esarà dunque bener addormentarsi un poco bene che il tempo che si dorme, è come perduto, anzi è pocomeno, che sel'huomo fufe morto, Operò S 0 an za notte chel'hucmo é apunto in Julbuondeldors mire; benche àloro che neuanno à leto come i pol tidae'poca noia, niente di manco nell'uniuersale far. I fi n'homaine duto huomo alcuno che nefiaftato fatto stimagrande, se non sa qual cosa in grammatica; ficheiononleuò cosi credere, maio potreiforseno l'hauereinte sabene, e' fara dunque meglio uedere seelauolese ragionare al quanto meco, e potrò dimandarnela, Anima mia, ò anima mia cara, uo gli ãnoi fauelar ancshotamane un poco insieme A. Di gratia Giusto, che io non ho piacere alcuno maggior di questo perche mentre che io miftòraç coltainme medesimaà parlare teco, io nounengo astare occupatainque I concetti nili, et bası, che tu hai la maggior parte del tempo; ne manco t’ho a ministrare spiriti et forze, finare quei tuoi zoccoli, et que i tuoi bariglioncin. iG. Io non mi marauiglio punto di cotesto, che io lauoro anchora io malsolen tieri; anzinonfo cosa che misiapiugraue, ale i non che melo fafarela maledettfaorzy, io non darei mai colpo. A. Er chevoreftitu? startisempre, Guruerotiosamente? G. No, mai o consumerei al tempo in qualcosa, che mi diletafsejd oue i lavorare mied'affanno et di fatica. A. O pensa quelo che egli è àmè, essendo molto piu contro ala natura mia, che a la tua. G. Io non sò cotesto, coveggo che Idio da pocihe l'huomo hebbe pecato, uoledodar glipartede la penitentia, cosi come egli haue uada. toala donnail partorir con dolore; gli diffestuman geraiil pane del sudore delupleotuoj dando gliilla   let poco a poco nel opinione mia. O tuti marauigliaui, quando iotidicena ľaltro giorno, che egli eraprufa tica, à un huom foare un paio di zoccoli, che Ai Ahahuediuedi, che tuuienià vorare per la piu graue, et piu faticosa cosachpeo To tessedargli studiare mezo ARISTOTELE, eccolaragione; tu l'hardetta da uuere. A. Egl ièiluero, ma il fato la sta contentarsidi quelo che è necessario solamente non cercare il superfluo, che è quello, che reca cada mille pensieri di futilià l'huomo, et lo tiene sempre occupato in terra, negli lascia maialzare la facia ra, acontentarsi del poco; perche chifacosigurue con pochi pensieri,et è lieto il piu del tempo uatoinme, quãtomisiastatoutile il contentarmi di o quelocheioho, accomodandola uoglia a la fortuna, be et se io hauesi uoluto uiuer, òueftir meglio, e' miera a forza, òfar qual cosa dishonesta, ò andarastarecon me altri. A. Mal per i gran maestri, Giufto, feglihuo 2.1 il gode al  1 da teàtes per che lo studiare e naturale, Qvé pro Pas prio del'huomo, gloinuiaala perfetione sua, et bra 'il lauorare gliè'una penitentia. G. E bisognapur ancohauer alcielo; dondeusc iprimieramente l'animasua, eo - doueeladesideradiritornar'; et fappi Giusto che il maggior bene, et la piu util cosa che si possa faro agl'huomini in questa uita, è'auezarglia buon'ho pernondir o sempre, G. Io lo credo certamente perche io ho pro minifussindicotestauo gli atuti, che bisognarebbe pochi che gli restano, ul mendo inferuitis per ogni picolo prezzo, la qualeco Sa non solsegia farequel sapientissimo filosofo di Diogene, che   che esiseruissinda loro, perche e' non sono se non le moglie immoderate, ò della degnità, ò del poter ben mangiare, et bere suntuosamente uestire; che fanno, cheunb uomo, che ragionevolmentepuoui uereunsessanti anni (dequalinedieci, ò dodecipri mi, non conosce quelche èfifacia; et delrestone dorme la metà) uendeque essendogli detto da Alessandro Magno, che eichiede sequello cheuolena, Orche tue togli sarebbedator ispose cheancorche fussi cosi ponero e'non gli mincaua cosa alcuna, machesegle leuaffed'innanzi, percheglitoleusilsole,l aqual cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mente che il dependere da se stesso e'una cosa bellissima, etuorrebbesieseramicode signori, minor giaseruo, honorando gli oubbidendogli però sempre, comequeglicherēgonointerrailuo godi Dio, et quando un puruuole innalzarsi, debbecercardi farlocon le virtù,& non conferuire, pensando non di mcno, chien ogni stato, glihabbiaà mancar jem pre qualcosa.A. Non tidoleradun quedeltuo; et sappi certamente che non è stato alcunoin questo mondo, douenon sia qualche incômodo, &aqual che cosache dispiaccia altrui. ne sipuoritrouareal cuno, checometuhaidetto, nonglimanchiqual, chetutiglistati daglı huominiera noàunmodo; Et diceuaàciaschedunoman caso la mente una cosa, e quelle primiera mente desidera. Verbigratia, un pou crostro piato desidera sola mente di eser sano, dapotere guadagnarsi la uita, pernonhauereàireaccatando; chréfano& non hanulla, hauer di che poter uiuere; per non hauerà lauore; ch ihadicheuiųere commodamente, has uer tanto che ei possatenere una caualcatura c u u nragazzo, et chi haquestohauer qualchedigni tà, à maggioranzasopraglialtri; e dipoessere Principe, et chi e Principe finalmente, potereper petuarsiinquello Stato, et nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu, dihauereà lavorare un pocosedognunomancaqualcosa. G. L ha sereà lauorare un poco sarebbe un piacere, mafem prezcome ho à fare io, che ho poco è nulla; e cosa. G. Con questa ragioneuoleuagiaprouare unoamicomio 'undi Spetto. A. Ecco che tu fai pur ancortu, comegli altri, m a dimmi un poco che uorrestitu ? che ti manch'egle? A. Cinquanta ducati d’ıntrata. et staremmipoiaffaiacconciamente. A. E quando tu haueßi cotestoanchor poiti manchereb bequalchealtracosa,e desiderereftıla, cometu faihorquestaperche cometuhaidetodatsetesso, inqualsiuogli astato, si ha sempre qualcosainanzi agliocchi, chseidesiderapensandocomel'huomo  tha, dhauersi a contentare; niente di manco poi quando tu l'hai tu non ti contenti, ma comincia. Desiderarne un'altra; fiche prudentemente dise un trattou nuostro Cittadino, a uno che entraua in un disordine grandissimo per comperareun podere', che glie raaconfino. Tu doneresti pensare, che tu hai hauer canfini, e che comperato questo, tu n'ha rai a confino un'altro, del quale tí uerra la medefima uoglia. G. Io credo certamente, cheinogni statosiadepensieri; mapiue maggioriinuno che in un'altro. A. E' non è gia il tuo undiquegli chen'habbiao demaggiori fidianzi fu dato al'huomo per penitētia de suoi peç Cat. t . si di quegli ce hanno le uoglie disordinate, et chenon sicontentanodiquclchesi conuiene a lo stato loro, come hauena Adam, quando gli duuenne questo, ma achi si accomodail camminar patientemente in quella vita che egli è stato chiamato; non auuiengia coli, G. Come non, hauen doioaniveresolamente dellauorare, checom’iodir 2, qualpuoeserepuidolce cosa, cheuiueredella faticadellesuemaniwediche Dauit Profeta ch'era pur Re, come tu sai, chiamò questifimili beati, et fappi finalmente questo, che quante piu cose fihajatante piufiha hauer cura; Brè molto piu graue et faticoso il pensiero digo Hernare le cose superflue, che la dolcezza del polle derle; e quanti pius er piò piulaworatorisi ha tan tipin, che ognibuo mon'haunramo; benfai, che èl'ha maggiore uno che un'altro; Ma ecciquesta differentia dai faui,a i matti; che ifaui lo portan coperto, et i pazziin mano di forte che lo uede ogn’uno. G. Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo, iotelouoprouareinte stesso, quante uolte fetu andato aspaso per casa, ponendo i piedi nel mezo demattoni,& cercando, conognidiligentiadinon toccareiconuenti? G. Omilleuolte, et fommiposto à contarei corenti del palco,& àfareseialtrecose da bambini.A. o dimmiunpoco, setuhauesi fatto cotestecosefuo rii fanciulli non tisareb boncorsi dietro, comefan noàipazzi? G. Permiafe, chetudiiluero; car non uòpiu negare di non hauere ilmio capriccio anch'io; anzi tengo hora per uerißimo quel prouenbio, che io ho piu volte sentito dire, che ti prunimicisi ha, come bendiceuaquel FILOSOFO, Mi lasciamo andare questir agionamenti, e' mi pare che noi n'habbiamo parlato àbastanza, Tornia moun poco àquegli dihier mattina, chenoilasciam 2 mom perfetti; perälchetudubitauidianzi, chese tumicredesi, ionontifaceßi tenere pazzo; come seancortu non'hanesilatua parte, comeglialtri. G. Oto quest'altrafeela ti piace; cheuorraitu dire, cheognounosia pazzo? A. Pazzono;  Ma che ogn'uno ne sentasi. G . O questo è quafi quelmedesimo. A. Sappi Giusto .0 sela pazzia F  A. lotiuo direancorapiula, che tu trouueraipo chihuomınıal modochehabbino lasciato fama, che setu consideri bene lauitaloro, non habbinoqual che uolta portatoilramoloro scoperto, maperche ceglieriuscito loro ben fato, ne sono statilodat, ima io non uò che noi fauelliamo piu di questo, torniamo al ragionamento nostro, dimmi un poco donde har tusaputo, che non sai grammatica a non hai studiato, che ilauorare fusse dato da Iddio. G. Si quanto à le parole; maapenetrar poi bene i sensi bilogna altro. A. Eibafta, che tu non harestidificulà nel intendere le parolė; ma solamente nella inteligentia de’sensi; la qual cosa se l'hanno ancor quegli, che le leggono ingre coo in latino che tu non ti credesi che dereunalinguayé' s’intendino ancu tuti gli Autori, tutte le scientie che sono in quela, perche àfare questo, bisogna l'aiuto de preccettori de  fuffe un dolore in ogni casa si sentirebbe stridere.'!,a nostro primi padri per penitentia et paritione dela disúbidientia loro? G. O non losaitu, che laitante uol teletomco quelit Bibia che io ho. A. O come la intendi tu? G. Perche non uuoitu che io la inten da? non sartuche el la e in volgare? A s i sò. G. O per che me ne domandi? A. Per farti confeffa re quelche tu hai detto, eccodunquecheselescien tic, et la feritura facra fußıno in uolgare, tu le intenderesti per inten. 2 you  4  2 GL’INTERPRETI, anche pors'intendono con fatica grande, simile auuerebbe medesimamente, s'ele fußıno in uolgare; ma a me basta per hora, che tu conosca, che non sono le lingue, che fanno gli hyomini doti, ma le scientie; et che le lingue s'imparano, per acquistar le sciencie, che sono in quelle. G. E t PERO NON SI PUO EGLI ESSERE DOTTO SENZA INTENDERE LA LINGUA LATINA, dove e le fon tutte, che uuoituim parare nella noftra A. Mera 1 cede ROMANI che ne le traduffono, se LA LINGUA LATINA ne è ricca; e colpa de TOSCANI, che non han no maifatto conto de la loro, feelane è pouera: G. il fato stà, felacolpaviendz la lingua, che non sia tanto copiosa di uocaboli, ch'elenon nifi poßino scriuere. A. Oe fe ne fa di nuouo; e mettonfi in uso, di mano in mano secondo i bisogni. G. o èeg li lecito fare de le parole nuoueina una lingua? A siin quelle che non fono morte; G dacoloro solamente dichielefono propri.e G. Et qual ichiami tu morte? A. Quelle che non si parlano naturalmente in luogo alcuno; comesonohoggi, la greca, e LA LATINA, e in questa à co loro cheniseriuonpoer non esere elalaloronatit à propria, non è lecito fare parole di nuovo. G. O percheno nè egli ancor lecito à quei forestieri, che la fanno? A. Perche non essendoe la lor naturale; non le fanno in modo chel'hab in gratia,  se la natura producesse tutte le sue cose perfette, non bisognerebbe l'arte, et fel’arte potese farle perfette da sestessa non bisognarebbe la natura, ma che bisogna piu, non, e gl’ebrei dagli Egitti, non hai tumar sentito che e'no si puo dire cosi alcuna che non sia stata detta prima ma I ROMANI, chi erano altr’uomini, e d'altro giudicio, che non sono oggi i Toscan, amando piu leca   Ponmente alcune che n'hanno fattecerti moderni nella nostra, come medesimi tàgioucuolezza, mar, cigione et fimili.G. Tu giudichi adunque che non sarebbe errore farne nella nostrae? A. Non de chi l aparla naturalmente, anzisarebbecosalo-, deuole. Dimmi un poco, credituche la lingua greca, ò LA LATINA, fusin cosi perfete e copiose di uoceboli da principio, come ele furno poi nel colmo loro, e quando fiorirnoinlorotant ipregiati scrittori? G. Non credere. io. A. Sianecerto, perche e non siritrouacosa alcuna 2 fra queste che sonoeserci tateda noi; chesiastate nel principio, ò prodotta perfetta di la natura, ò ritrouata dall'arte; perche sequestosi potesefare, l'unadilorofarebbeinus no; che fecionoancor dele parole nuoue CICERONE BOEZIO see uolsero METTERE NELLA LINGUA ROMANA LE COSE DI FILOSOFIA e  di logica? G. Che le cauorono da altre nationi? A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. Dai Greci, Eri Greci lhebbeno dagl’ebrei OPINTO feloro proprie (come è giusto ragioneuole) che Paltrui, studiavan solamente le lingue esterne, per Canarne, seuiera nulla di buono, arrichir nelai loro. G. In verità che in questo mi pare che efuf fino molto da lodare. A. Ricercaunpocobene tutte le cose antiche conuedraichesitrouapochis fimi ROMANICHE. G. In questo merito noeglino al quanto d'effere scusati non essendo come tu di quella la lingua loro. A. Anzi meritono d'essereri presi doppiamente, non ti ricorda egli haver mai sentito dire che CATONE (si veda) MAGGIORE leggendo certe cose scrite da Albino Romano in lingua greca, trovando nel principio che s’iscusa del non haverle scrite con quella eleganza che dove, dicendo che e cittadin ROMANO ornato in Italia, e molto alieno dalla lingua greca; non, o lo fare. G. Veramente che queste sono ragions tanto vere che i o per me non saprei contradirti. i A. Vedi quanto I ROMANI cercano di nobilita rela lingualoro, che e' non istımauanomancolar recare in quela qualche bela opera, che sotopore, scriuesjein greco,comfeannoque fli Toscani in latino, chenonè la lingua loro. perche faccino quanto eifannoei non fiue de mai nei loro scritti quel candore, ne quelostileche e'nei latini proprii 2. solamente non lo scusò; ma sene vise, dicendo her Albino, tu hai uoluto piu rostoha were à chiedere perdono d'uno errore fato, che no > 3 coloroiqua li haueua sottopošo con la forzaqual che Cità, è qualche prouincia àl'imperio ROMANO. G. Oani miea pensieri ueramente santi, e PAROLE DEGNE D’UN CITTADINO ROMANO, perchel'ufitio uerode Cnta dinièsemprein qualunche modo si puogiouareà la patria ala quale noi non siamo manco obligati, che, a padrıQ àle madri nostre. A. Et perquesto è hoogiin pregio tanto la lingua loro, che ritrouan dosiin quella buona parte dele scientie, chiuuole, acquistarle, bisogna prima che imparı; quella doue, se i nostri Toscani traduceßino medesimamente quel le nella nostra, chi desiderad'imparare, non harebbe a consumare quattro ò sei de primi suoi migliori annii n imparare una lingua per poter poi col mezzo di quella passare a le scientie, oltra di quest olefi imparcrebbono piu facilmente con maggior fis curta, perche tu hai à sapere questo che e nons'impara mai una lingua esterna, in modo cheelasi  plega bene, come la sua propria, et fimlmente  al'imperio lovo qual che Cità, ò qualche Regns, che questo si ailnero, leggasi il proemio che fa BOEZIO nella sua tradurrione de PREDICAMENTI d’Aristotele douee dice che essendo huomo consulare, et non atto à la guerra, cercherebbe di instruire i fuor Cittadini con la dottria; che non speraudmeri fare manco, neejere meno utile à quegli, insegnando lorol'ari de la greca sapientia, che 2 e 2 non si parlamaitanto sicuramente, ne contantai facilità, a setunon mi credi, pontrente a questi. che tu conosci, che danno opera à LA LINGUA LATINA, chequandoe’uogliono parlare in quella è par proprio che egli habbino àaccattare le parole, con tanta dificultà, e tanto adagio fauel'ano. G. Tudi; il nero, ma questo de ROMANI e certamente unmo) do belissimo, à tradure nella lingua loro, di molte cose bele; accio che che desidera intenderle fusse forzato à impararla, cosi ela uenise àfpargersi per tuto il mondo.A. E non fecion solamente questo; ma in mentre che é tennono l'imperio del mondo, ei la faceuano ancora imparare à la maggior parte de loro sudditi quasi per forza. G. Et come faceuano? A. Haueuano fatto per legge, che qual se uolesse imbasciadere non potesse essere udito IN ROMA se ei NON PARLA ROMANO, oltre à questo che tute le cause che per la qual cosatuti Nobili di quals iuogliare grone, et tutti gli Auuocati, et tutti Procura forierano forzati ad impararla. G. Oio non mi marauiglio piu che ROMA diuentasse si grande, fe. Teneuan di questi modi ne l'altre cose. A. Diquelo non uolo ragionarti, perche le cose belle che causano di tuto il mondo, ne fanno chiara testimoniázs:  11 EMA 3 sia gitauanoin qual a fiuo glia paese, soto il oro Gouernatori, et turtii i procesisi douessino scriuere in LINGUA ROMANA; F irü   .nessuno chescrinese in Egittio, ne. Greco chescriuefle in Hebreo, ne LATINO chs ecriue ffe in greco,f& e purecen’e's nostatisonopochissimi, G.Odondehannocauato adunch ei Toscani questa usanza di scriuere in grammatica, perdire a modotun A. Dal oinor di nato amor proprio, non de la patria, ò della lin gualoro, imperòche cofi facendo, fisonocredutief Jerestatitenutipiu ualenti   à chi un quele confidera. G. O costume' uerämente lodeuole, ò Cittadini ueramente amatori della patria loro. A. O questo costume Giusto non fu so la mente de Romani; ma di tutte le altre genti: cer capure quanto tu uoi, che tu non trouerai quasi mai Hebreo me quel Medico che io baueuagia? Il quale per pa rore dotto, mi ordina certe ricctte con certi nomi tanto difusati, che mi faceuon marauigliare, infra le altreiomi ricordo una mattina che mi ordina no so che riceta perque la postemation feai chero hebbi, doue infral'altrecosene n’entrauauna, chee' chiamaua Rob, un'altra Tartaro, e un'altra Al tea, per le quali mi credettii oche bisognasse mandare perese inqueste Isolenuoue ga porlunaera. Sapa; l'altra Grommadebotte, conl'altra Mal ud.A. Otulhaipropriodetto Giusto, concofil mondo, fetuconsideri bene, non è altro, tutto, che unaciurma, mafer Toscani attende fino a tradur. N. G. Che fannoe',co relefcientie nella loro lingua, 10 non fo dubbio alcuno, cheinbreuissimotempo, elauerrebbein maggior reputatione che ela non è, perche efiuedeche zao bontà gli auuiene solamente per la bellez. 2 me elapiacemolto, G ehoggi molto atesa desiderata, e questo fua naturale, laqua lcosa non conoscendo i forestieri, ben sepesso col uolerla troppo ri pulire la guastano, onde auuien proprioàlei, comeà una donna bela, che credendosi far piu bella conil lisciarsi, piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A. Dirottelo, mentre che e cerca no per farla piu ornata di fare le clausule simili a quella de LA LATINA e vengono àguastarequelasua facilità et ordine naturale, nel quale consiste la bellezza di quella, oltre a questo piglieranno al cuneparolenfatequalcheuolta da Boccaccio, o da Petrarca, benche divado, le quali quanto mancole trouano usate daeßi, tanto paionolor piubele; co efarebbon gouari, altrefi, fouente, adagiare,fouer chio, et fimili, perchee' non hanno per natura ne IL VERO SIGNIFICATO, ne il uero fuono nell'orecchio, le pongon quasi in ogni luogo a bene spesofuor dipropofito, et cofile uengonoàtore la sua bellezza naturale. G. 1odubitochefee non gli sanno immitare in altro, e’non sipossadirelorocome dise Pippodifer Bruncllescoà Francesco dela Luna, che uolendo siscufared'unoarchitrame, ch'e   olihaueuafattosoprala loggia degl'innocenti, che laruvigneinsino in terra, col dire chel 'haueua Cauato del tempio de san Grouanni, gli rispose, tu, l'haiimitato appunto nel brutto. Maselalinguae diquella perfettionechetudiz donde uiene, chemot tidiquestiliteratibiasiman tanto coloro, chetra ducono qual cosa inquela? A : Etconcheragio mi? G. Dicon che la lingua non è atta, ne degna che si traduca in lei cose simil, et chesitoglielo void riputatione, et auxilisconsi molto. A. Tut tele lingupeer le ragioni che io ti dißi dianzi, sano atte ad ESPRIMERE I CONCETTI, G i bisogni dico lo socheleparlano;& quandopureelefußınoal trimenti, quei chel'usanolefanno,sichenonmial. legare piuquestascusa, cheelanonuale. G. O qual cagione adunchepuoesere, cheglimuonaa direche le cose che   liscono, fi traducono inuolgarefiauui et per don diriputatione? A. Quellache iotidissi l'altrogiorno, cheeracagioneditantial trimali, malainuidia maladetta, e il desiderio ch'egli hannodeesertenutidapiu degli altri. : G. Certamente iocredochetudicailnero, perche iomiricordo cheri trouando miaquestigiornidoue eranocertilitterati, et dicendouno che SEGNI (si veda) fa uolgare la RHETORICA ad Aristotele, uno dilorodise che egli haueuafato un gran male; et domanda codela ragione rispose, perche:   eno ista bene, ch'ogni uolo are habbiaasa per equel lo, che un'altro fihara guadagnatoin molti anni con gran fatica; supelibri grec. LATINI A. O parole disconuenienti. Io non no dir folamente a un Christiano, ma a chi un che é huomo, sapendo che quanto noi siamo obligati ad amar ciascuno cagio uarcl'unà l'altro, et moltopiua l'animacheal con poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelo intendere. G. Maftafalda e mi ricorda che dicono un'altracosa.A. Etches G. Dicono che le cose che si traducono d'una lingua in un'altra, non hanno mai quella forza ne quella bellezza, che ele hanno nella loro. A. Eleron hanno anche quella nella loro, che l'hanno nel’altre, perche ogni lingua ha le sueargurie, et le fue. capresterie, la Toscana forse piu che l'altre, et chinenuol sedere, leggadoue ALIGHERI (si veda), orl PETRARCA han detto qual cosa che l'abia anchora deto qual che Poeta LATINO, et uedràche passaron lor di molte volteinnāzi, et cherarissimif onquelliche Jonrimasti. adietro. G. Si, ma nele tradutionifa debbe attēdere piu AL SENSO che alle parole. A.1056 che si traduce per cagione delle scienze, et non per ue. Derla forza è la bellezza delle lingue, et se’non  gr | fur fecofii ROMANI, che teneuonlalor linguaperlapru bella del modo, non harebbono tradottole cosedi Ma gone Cartaginese, et dimolti altri nela loro, nei   non lo fa per altro, se non pen che le cose fu eessendo conservare dalle lettere, che non uengon meno le voci, fienointese da tutto il mondo G. Tu giudiche adunche che il condurre le scientie nella nostra lingua fia benee? Ai Anzi affermo che non si posa far cosa piautilenep in lo deuole, perche la maggior parte degli errori nascono dall’ignorantia, e douerebbo noi Principiat tenderci, conciòsiachesieno come padri de popolis E tal padre non s'appartiene solamente Grec fimilmente chfeurontantsouperbi, et tan 92 tofi vanagloria na della loro, che chiama non tutti altre barbare, quelle degl’Egittij; o de Caldei. Niente dimancoesi debbe cercare nel tradurre oltreal'eferfideledi dir lecose piu ornatamente che sepuo, eo però è necesario a uno che traduce saper bene l'una lingua l'altra, G di poi poffe derbene quelecose, ò quele scientie chsei traduco 30, per poterle dire bene Gornata mente secondo imodi di quella lingua, perche à uoler dire le cose in una lingua con i modi del'altre, non hagratis alcuna, da se questofioferuaffe, il tradure non faa rebbeforse tantobiasimato- G. E dicono oltre di questo che si fa contro al'intentione dell’authore. A. O come puoessere questochesifacontro àl'in tentione dell’authore. A. O come puo essereque Stose chi unque scriue governare i figliuoli, ma insegnar loro coregerli, seno   2 STŮ VINbyCo. 93 noglion farquesto ditutelecosee'douerebbonals manco farlo diquele chesono necessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi, cosilediuineco mele humane. G. Et che utilitàare cherebbeque sto agli humani?A. Comecheutilita! Quanto fa rebbono eglinpiuamatori et piu defenfori dele cose appartenentia la Religione Christiana? se le comincia sino à leggere da puti, et dimaninma nofi esercita sino in quele, comefannogli Hebrci; la qual cosa non si puo fare,  non leh auendob entrở dotteinuolgare,& beneacconcie: G Non marauiglia fegl’ebrei fanno tuti si ben'parlare del le cosedelaleggeloro, òuadinsiàuergognarei Christiani, che insegnon leggere dilorofigliuoli ò insule letere di mercantia, òınsu certe leggende dano poter impararuisu cosa nessuna; doueedoue rebbono la prima cosa insegnar loro quello, cheap partienea l'esere Christiano, sapendo che quele cose che simpara non e primi anni, sono quele, che si ritengono sēprepiuche l'altre nella memoria. A. Et oltr ea questo, con quanta piu reverentia, attentione si sarebbe àgli ufici diuini  see' s’intendefe quel che dicono. G. Certamente che questo è uero. A. Dimmi conche diuotione, ò concheani molo lodano gli huomini Iddio, non intendendo quel che sidicono, tu fai pur il favellare delle putte, ca de papagali non si chiama fauellare; mammita   grati adisam Girolamoche traduse loro ogni cosa in quella line gua; come ueroam. Store della patria funt. G. Cene tamente Animi mia, che questa ina opinionemi piace molto. A. Ellati può piacere che ela é'anchora di Paulo Apostolo, che scrive     à Corintiche doue uonoancoresidire alcuni loroofitijinhes breo,com.diroloidiora Amen, sopralabenedition uostra, se egli non intende quel che si dice che frutto necauera e’mu? G. o dachevenne adunque, che quando questecosefuronocanate laprima uolta di hebreo, elenon furono moffeinvolgare? A. Perche all'hora per la mescolanza dele molte genti Barbare, che erano in quei tempi perlaItas tia, non ciera altra lingua che la latina, la quale fuf seintesa, quafi per tutto, Guedi che e non sitrous scritura alcuna diquei tempi fe non in questa me  tione di suono solamente perche e’non intendono quel cheesi dicono (conciosiache fane la reproa pria mente sia esprimere parole, che significhi noi conceti, quello, che intende colui che fanela) adunque il nostro leggere, ò cantare salmi, non intendendo quelche noi ci diciamo, è simile aungrac chiare d iputte, è cinguettare di papagalli nesoia ritrovare alcuna altra religione che la nostra, che tenga questi modi, imperò chegli Hebrei laudan de noi ddiain hebreo, i Greci, in greco; I LATINI; IN LATINO, con gli sciauo niinistiauone,  volgare, cosi le sacre come le ciuili.A. Dala maritia de Preti, defrati, che non bastandolos roquella portione delle decime che haueua ordina, toloroIddioper legge, àuoleruiuer tanto furtuo: Jamente come e'fanno, cele tengono afcolecce deendo no àpoco poco, comesidiceàminuto, in quel modo, peròche e'uogliono, spauentandogli huomini conmillefalfiminacci, i quali nonsuonan cosinela legge come egli interpretano, di masniera che egli hanno canato dimarioà pouerises colari piu chela meta di quel  desima, chseonolecosesacre,maquestobastu, circa àleleggi diuine.Veniamohoraale humane fe ele, fono quelle che hanno à regolare gli huomini, et secondo l'arbitrio delle quali si debbeuiuere, perche hanno elenoaesere in una lingua, che si intenda per pochi? I Romani che le feciono, et n'ebbonotā te da Greci, non lefecionperò in altra lingua che la loro; et cofisimilmente Ligurgo, Solone, et gli altri, che dette noleleggia tutta la Grecia, non le fecion però in altra lingua, che in quela che usana noi popoli loro . G. O s’ele fono cosi necessarie cometudi, donde uienė cheelenonsitraducono in che egli haueuano. G. Eh questo è un male che mi parechesidia non solamente ài sacerdoti, ma a ognuno, anzi non ceh nom che pensi ad altro fe non in che modo et potefjecauaree dánari dele scarfele d'altri, e    sto  mettergli nela sua, egliebëuero, chei Preti e Fra ti, egoi Notaichelo fannocon le parole sonpiuuse lenti deglialtri. A. Ehimeeno sarebbe uenuto lorfatrocosiagevolmente, seglihuomini hanesi no hauuto piu cognitione delescrituresacre, chee’nonhanno. Etlac agionechenonfi traduco no l'humane, è fimilmente lampietà di molti dotto rij@ auocati, checiuoglionuenderelecosecommu ni, e perpoterlo farmeglio, hannotrouato questo belghiribizzo, che i contratti non si poßinfare in uoloare, mi solamente in quela loro bela grammatica, che laintendon poco eglino, comancogl ialtri; somemurauigliocertamente, che gli huomini hat binmai sopportato tanto una cosasimile, sotola quale si puofaremille inganni. G. Et che e'non senefaforse, esarebbemoltopiuutile, cheefifaces fino nella nostra lingua, perchel'huomo intende rebbequelche e facese, et cosii testimoni quello che egli hanno àtestificare e vorrebbono uederlo scriuere al'hora, nò che pigliaßi noi nomi solamente, et poilodestēdesinoin sul protocoloàloro piacimë to, mettendo à ogni parola una cetera, che secondo me non è altro ch'ununcino, dove non intendendo quelche fi faccino, basta loro solamente diresi, ego non pensano ale conditioni che spessouisi comprendono; donde nascono poi millepiatt. A, Et per questo mi credo io che lo facino; onde ti uo dirque G47 totu uuoi. Ma de Preti, ede Fratinon udio gia che tu dica male; perche secondo che io ho inteso purdaloro, e non s'appartiene ài secolari, il riprender gli fto che noi non ci poßiamom ancodolerede Sacere dotic, or degl’avvocati, che si farebbono i sudditi di quei Principi, che uole sinucdere loro l'acquç Gil Sole. G. Di questi ti lascerò io dire. A. Ecco una di quelle opinioni che ficre deil mondo essere uera, per non hauer l'intendimento delle letere sacre. Dimmi un poco, non siamo noi tuti figliuoli di Dio, e conseguentemente frategli di Christo? G. Sifiamo. A. Etifrategls non sono equaliin quanto frategi? G. Sisono. A Adunque ancora noi come Christiani fi gliuoli di Dio, fiamoequali, e àl' un fratelos'ap partiene riprendere l'altro. G. Corestoèuero; ma egli hanno quella degnità del sacerdoria, che glif a piu degni di noi. A. O qual puo essere maggior dignità chel'esere figliuoli di Dio; uuoitu che il mi norlumecu opra il maggiore? egli è maggior degni tàl'effer Christiano, chel'efer Sacerdote,ò Prin. cipe, i quali sono ofituidatida Dio, et fannogli huomini ministri di Dio,tusaipurecheeglièpiues ferfeigliuolo d'unprincipe, che essere suo minifiro. G. Adunque io sono da piu che il Papa. A. Que stonò; cheegliè primieraměte Christiano cometes in questo noisiateequali; mapoiperesesreta   toeleto particularměte da Iddio, per suo miniftróz egli viene a esere in un certo modo dapiudite, per la qual cosa tu debbihonorarlo, come tuo maggiorez ma non per questo però tiè prohibito d ipotereriprē dere gli errori che e'fa, c &ommettecomehuomo, e come Christiano purch'efifacia, conquellari uerentiachein segnalacarita Glo amore del prof fimo, etchequestosiailuero, tunehailo esempio in Paulo Apostolo, il quale dice che riprese Pietro, che era fuo maggiore, perche egli era riprensibile subito ò egli miraculosamebte cadeua morto, ò egli n' eraportato da Drauoli farebbe da far loro come quel soldato, che hauendo tolto àun Fratel a metà di certo panno, che egli haueua accattato per ueftirsi, et minaccian dolo il Frate diri chi ed erglilo il di del Giuditio, gli tolequelresto; dicendo;poicheiohotanto tempoà pagarlo, io uoglio ancor quest'altro. G. In uerita che questa tua opinione non midispiace, ma io non uo giadırlaz perche oltre àl'autorità egli hanno ancora la forza, et fanno di poi conl'arme, ueggiēdo che non uaglionpiuloroles communiche; come nella primitiua chiesa; che quädoei male dina nouno, di se non haueßino altrearmi te che che le loro mala ditioni, e. G. Ehime, che non possono ancor fare degli altri miracoli ch'ei faceuano. A. Benlodises. AQUINO quando essendogli detto da Papa Innocentio, che ha . A. Certamen e OK gustato parte quando e' fu rapito elterze Cıelo) dicelle che no desidera altro, che 2 Heuaunmonte di danari innanzi, et contauagli; Tuuedi Thomaso, la Chiesa no puo piu dire come el la diceua anticamente; Argentum et aurum non eft mihi, Egli rispose; Ne anche furge etambula. GO tu fai tante cose anima mia, che tu mi faiueramë temarauigliare, et seimoltopiudotta, etpiuualen te; che io non credena; ma dimmiun poco; come hai tufato à saperle sẽzame; che mi hai pur detto, che noi siamo una cosa medesima, et che mentre che tu sei unitame co non puo operarefe non inme? A. O Giusto, quesatarebbe cosatroppolungt; io uoglio che noi indugiamoaunal trauolta, cheegl è gia di, tempo che tunadiale facende tue G. ohime. Tu di il vero, egli edichiaro affatto, oh come paffa uia il tempo che l'huomo non seneauuedde quando se fa, ò si ragiona di qual cosa che piacia altrui. V andoio consider tal uota meco med RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E G. SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL NOSTRA UNCSVA. AL MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO canssuno G,. Da poiche voi volete pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo, che io vi racconti il ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli e m quello stesso giorno che voi novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che debbono riordinare e ridurre a regola la nostra lingua fiorentina; ed, a gli amici non si può né debbo negare cosa alcuna che giusta sia, mi sono risoluto in tutto porlo in iscritto, ma  semplice e puramente come e' nacque allora in fra noi, e a guisa pure di dialogo, a cagione che e la cosa sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella tanto noiosa replica: disse egli, e  risposi io. E perchè voi sapete come noi altri la occasione in su che egli è nato, senza replìcarvela ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia accompagnando messer Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la  sera, e desiderando fuggire quella crudezza de Farla che comunemente apporta la notte, passammo in casa, e appressò ne lo scrittojo. Dove ragionando di varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su quello che si erd il di fatto ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me, riguardatomi alquanto, cominciò sorridendo a dirmi cosi: BariolL Io ho bene assai chiaramente conosciuto oggi, G. mio caro, esser sommamente vero quanto  dice Bartoli, contemporaneo di G., e uomo di molta dottrina e di molta fama  a' suoi tempi. È ambasciatore per Cosimo I alla Repubblica di Venena. 1a  c^ere die lascia son degne di escer tenute,  pia che non si fa, in pregio. diyinìssimo nostro ALIGHIERI  in  persona  d’Adamo  nel Paradiso: Che nullo effetto  mai razionabile,  Per lo piacere  uman,  cbe  rinovella  Seguendo  il  cielo, è sempre  durabile.   Gonciossiach'io  ho  veduto  dispiacerti  oggi  si  fattamente  ciò  che fanno  passato  tanto  ti  piacque, che con ogni tao studio e  ingegno hai pur fatto quasi che forza di non esser di nuovo eletto in quel piccol numero e scelto, che debbo ordinare e formare LE REGOLE DI QUESTA LINGUA NOSTRA; non per vietare o tórre ad alcuno la libertà e la facoltà di parlare e di scrivere a senno suo,  ma solo perchè,  essendoci alcuni  Accademici  assai  differenti  ne  la  pronunzia  e  ne  la  seri  tiara,  chi  vorrà  pure  apprendere  la  vera  e  natia lingua fiorentina, abbia almanco dove ricorrere a vedere il modo e la forma de V una e del’altra cosa comunemente iisata in Firenze. Il che nascendo pur da sincerità di mente e da desio di giovare altrui, non può essere giustamente se non lodato. E perchè le cose degne di loda si debbon sempre far volentieri,  non so io veder la cagione che ti abbia fatto cosi  fuggire una impresa tanto onorata. Ricordandomi averti sentito più volte dire, che tu porti si grande amore a questo nostro parlare, il quale, quando egli è favellato puro e senza mescuglio di forestiero ne la nostra pronunzia  propria, ti pare si bello,  che tu non puoi in maniera alcuna credere o imaginarti che e' fusse più beilo udire o GIULIO (si veda) CESARE o CICERONE  o qoal altro romano si sia, che alcuni di veri e nobili cittadini di Firenze, i quali per la loro grandezza abbino avuto il più del tempo a trattare di cose gravi,  e a mescolarsi poco  col VOLGO, CHE HA LINGUA MOLTO PIU BASSA e parole tìIì e plebee: dove, per l’opposito, costoro hanno parole scelte e facili, che oltre a la naturale dolcezza, di questa lingua, apportano un certo che di grandezza e di nobiltà; e massimamente quando essi parlatori hanno atteso a le lettere, esercitandosi ne gli studj, come  ne'  tempi  de  la  tua fanciallezza. Qnesto  periodo  soTercfaiamente  lungo  è  guasto  andie  per  questo  gerundio;  invece  del  quale  dicendosi  ricordami,  tornerebbe  meglio. sono Bucellai,  Biacceto,  Canacci,  Corsi, Martelli,  Vettori  e  altri litterati che  allora  si  raganavanoaTorto  de'Rncellai,  doye  to, quando ponevi  tal  volta  penetrare io maniera alcana, stavi con quella reverenza e attenzione a udirli parlare tra loro, che si ricerca proprio a gl’oracoli, E di più mi ricorda ancora averti sentito dire che andavi si volentieri, quando ci venivano ambasciadori, a udirli fare l’orazioni, essendo in qoe' tempi usanza che parlassino la prima volta pubblicamente. Di che sopra modo ti dilettavi, si per la differenzia che tu senlivi tra le lingue loro e la nostra, e si per udire la maniera de le risposte che si facevano o per iGonfaloniere che fu un tempo Sederini, o pel segretario della  Signoria, che è messer Marcello VIRGILIO (si veda), uomo non meno elegante e facondo nella nostra lingua che nella latina, e non manco bel parlatore che si fosse Soderini. Sovviemmi oltre a questo, che vivendo Acciajoli e  Guicciardini, andavi spesso a starti con loro, dii;endo che, oltra i dotti ragionamenti, essendo e l’uno e l’altro litteratissimi, ti pigliavi si gran piacere de lo udirgli favellare, parendoti che e'si fusse cosi ben conservata in loro la grandezza e LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA. De la qual cosa lodi ancor oggi Nardi per le lettere che e'ti scrive; e messer Vinta, agente ora de lo  illustrissimo ed eccellentissimo Duca nostro appresso la eccellenzia del signor don Gonzaga, parendoti (secondo che tu affermi) che egli, ancora che Volterrano, scriva in quella pura e sincera lingua fiorentina che tu hai sempre tanto pregiata. Queste cose, G. mìo caro, per parermi tutte, contrariea quanto oggi ti ho visto fare, mi inducono a maravigliarmi si grandemente di questa tua  mutazione, che, se non eh'io considero che tu sei uomo, cioè variabile e mutabile come è la natura di tutti, io non saprei quello che avessi a dirmi di te, se non parlandoti piacevolmente e liberamente, come noi sogliam fare insieme che tu medesimo non sai ancora quello che tu ti voglia. G. Messer Cosimo mio carissimo, voi mi siete venuto a dosso improvisamente col principio d'una orazione tanto consideraia e cosi bene affortificata da tante praoTe, ehe io non 80 qoasi donde avenni a pigliare il Inogo o la via da poter rispondere. Tattavotta, concedendoTÌ quello che è da concedere, cioè che io sono umuo, la natora de'quali non è fidamente yariabile e matahile, come yoi diceste, ma e tanto sottoposta e atta ad errare, come voi forse voleste dire e per modestia non  lo diceste, che, si come canta la santa Chiesa, ogni nomo è mendace e pieno di errori; e negandovi, per l’opposito, ciò che è da negare, cioè che tale malamente sia nato in me dal non sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi  rispondo,  per  isgannarvi, che se mai approvai per vero quel detto che Umvìo dMe mnUar proposito lo approvo ora e tengo verissimo; poiché, eletto io  ancora lo anno passato come voi dite a dare regola a questa lingua, cominciai a considerare la cosa miAio più diligentemente che io non aveva fotte sino a qnell'era. Bartoli. Egli è il vero che questo detto è molto spesso in bocca a quegl’uomini che pare che abbino qualche qualità più degl’altri. Niente di manco, se e' si considera bene il significato di questo nome sapiente, non pare a  me che e'si debbia cosi approvare questo motte come tu di. Perchè, non volendo dire altro lo esser savio, che le avere una vera scienzia e certissima cognizione de le cose, a chi è savio, perchè egli ha di già conosciate il vero essere di quelle, non accade mutar proposito. Perchè il mutarsi conviene solamente a colui che senza aver conosciuto o vero, rùsolutosi troppo tosto, vede poi  finalmente, o per sé e per l’altrui ammaestramento, di avere errato; e non volendo mantenersi nel preso errore, è costretto a mutar proposito. G. Voi dite il vero. Ma il conoscere perfettamente la verità de le cose non è s’agevole, come voi forse vi imaginate: anzi, pel contrario, è tanto difficfle, che alcuni filosofi usaron dire che di ciò che dicevan gl’uomini non è vera cosa alcuna; ma  che quello che e'chiamano vero, era quel che pareva loro. Della quale opinione non è però da curarsi molto; si perchè e’si leverebbon via tutte le scienzie; e s’ancora per averla e dottamente e argutamente riprovata e annullata il LIZIO col dire che non essendo vera cosa alcuna, venne ancora similmente a non esser vero qael che dicevano eglino. Sì che, se bene si paò chiamare solamente savio chi conosce le cose secondo il vero esser loro, e'non è però inconveniente che a questi tali ancora bisogni a le volte mutare proposito, se non per il non aver conosciuto la verità, pella occasione almanco de' tempi: i quali continovamente vanno si variando tutte le cose, che assai manifestamente si vede esser tal volta bene il fare uno effetto in un tempo, che in un altro non è ben  farlo. Benché questa non è propriamente la causa per la quale io ho mutato proposito; ma solamente lo aver considerata la cosa molto più che io non. ave va prima, e lo averla discorsa fra me medesimo molto più diligentemente che in sino allora. Bariolù  E con quali ragioni? Perché io so molto bene che il discorrere non è altro che una esamina che fa sopra  le cose quella nostra parte  superiore, da ia quale noi acquistiamo il nome d’animali ragionevoli, considerando non meno ciò che fa per una parte, che tutto quel eh'appartiene a l’altra. G. Le ragioni e le diflicultà che non solo mi hanno fatto levar via l’animo da questa impresa, ma ancora giudicarla quasi impossìbile, sono e molte e molto potenti; e quanto più vi pensa intorno, più mi se ne offerivano sempre a la  mente del’altre nuove. Di maniera che io posso dire, che e'sia avvenuto propriamente a me in questa cosa, come avviene a chi vede da lontano una torre o altra cosa simile; che quanto egli la riguarda più di discosto, tanto gli pare minore e più bassa; e di poi, appressandosele, quanto più la guarda da presso, tanto gli apparisce continovamente maggiore e più alta. Cosi ancora io, mentre  che io stava lontano al mettere in atto questa formazione delle regole, me l’imaginava piccola cosa; ma quando poi tentammo porla ad effetto, quanto più la considerai, tanto più mi parve difficile. Imperocché, dovendo principalmente esser questa opera d'una accademia fiorentina, mi si appresenta subito all'animo, che e’bisogna che ella è con tanta arte e con tal dottrina, che gl'uomini  non avessino a dispreizarla. e ridendosi di noi e di quella, dire con ORAZIO (si veda) in nostra vergogna: Parturient tnontes; nascetur ridieuhu mtu. Sovveniyami dipoi, che questo nome d’accademia era per generare negl’animi delle persone un’espettazione tanto grande, che e'è al tutto impossibile il corrisponderle: laonde, ove egli è consueto non solamente scusare gli errori che qualche  volta si  riconoscono ne le composizioni de’privati, ma difendergli arditamente, affermando che chiunque opera merita di esser lodato, in questa nostra impresa comune avverrebbe tutto l’opposito. Perchè i forestieri, che ci vogliono esser maestri, per far vero il detto del vulgo che t più dotti manco sanno, si porrebbono con ogni industria a cercar d’attaccar lo uncino; e gl’errori, ancora  che minimi, chiamerebbono sempre gravissimi. E il farla in ogni sua parte con tanta considerazione, che alcune cose non potessino esser chiamate da molti errori, credo che sia al tutto impossibile. Bartoli, O  questo  perchè? G. Pela diversità de'nomi e de le pronunzie che si traevano per le città di Toscana; ciascuna de le quali pregiando più le sue cose che quelle d'altri, stimerebbe e  terrebbe errore quello che in Firenze sarebbe regola. Ma per meglio esplicarvi ancora questo capo, mi bisogna cominciarmi da un altro principio. Ditemi chi fa l'una l'altra; o le regole le lingue, o le lingue 1q regole? Bartoli. £ chi non sa che le lingue fanno le regole, essendo quelle innanzi che queste; e non essendo fondate queste m altro, né avendo altra pruova che le confermi, se non  r  autorità di esse lingue? G. E da questo, essendo egli come egli è vero, nasce che e’non si può far regola alcuna che sia veramente regola non solo a LA LINGUA TOSCANA, ma ancora  alla FIORENTINA:  e uditene la  ragione. Tutte le lingue del mondo sono, come voi vi sapete, o variabili o  invariabili. Le invariabili sono quelle che non si mutano mai, per tempo o cagione alcuna, ma da quel di che  elle  hanno principio, insino a che elle sono al mondo, sì favellano sempre in qoel medesimo modo: come è quella che gl’ebrei stessi chiamano sacra, cioè quella della Bibbia, la quale dal suo  nascimento sino al di d’oggi si è conservata sempre la medesima appunto. E se bene Esdra, loro sacerdote, dopo la servitù babilonica vi aggiunse punti ed accenti per farla più agevole a leggere, non muta egli per questo né lo idioma né la pronunzia; laonde la medessima lingua favellano ogfl^i tutti gl’brei, in qualunche parte del mondo e'si truovino, che favellano i loro scrittori, e particularmente Mosè, il quale è il più antico che elli hanno THOU SHALT NOT LIE. La qual cosa è veramente maravigliosa: perché, non i mutando quasi le lingue per altro che per mescolarsi que'cbe le parlano con genti d'altro idioma, quale è quella che dove essere più alterata e più variata che l’ebrea? Gonciossiachè i Giudei, dopo la cacciata loro di Jerusalem, sono già MGGGG anni, senza regno, senza patria e senza luogo dove fermarsi, sieno andati continovamente errando sino agl’estremi fini della terra, e mescolandosi, a guisa di peregrini, con tutte le  generazioni che il sol vede sotto il suo cielo. E nientedimanco quella lor lingua é per tutto quella medesima. Bartolù Ger lamento che ella è cosa fuori di natura, e che non può attribuirsi se non a Dio. Il quale, avendo dato la legge in quella, e fattovi scrivere tutte le cose sacre e divine, ha voluto, per indubitata testimonianza della santissima fede nostra, che ella duri incorrotta sempre.   G., Di queste dunque si fatte lingue non occorre che noi parliamo, essendo manifestissimo a ciascheduno, che elle possono agevolmente ridursi a regole, o pigliandole dagli scrittori o prendendole pure dall’uso, perchè è tutt'uno. Ma le lingue che io chiamai variabili non si favellano sempre in un modo; anzi vanno variando e mutandosi di tempo in tempo, quando in peggii e quando in  meglio, secondo gl’accidenti che accaggiono in quelle provincie a chi  elle sono e private e proprie, é secondo che e'vi vengono ad abitare genti d'un'altra lingua: come avvenne, verbigrazia, in ITALIA, nella venuta dei gotti e vandali, a LA LINGUA LATINA. E queste tali, od elle sono morte, cioè mancate, e non si ha gionambnto intorno alla lingua; parlano più in laogo alcuno, ma si  truovono solamente su pe'libri degli scrittori; od elle sono vive, e si parlano ancora e usano in qualche paese, come è, verbigrazia, a Firenze LA LINGUA NOSTRA. Di queste ultime due maniere tengo io per cosa certa che LE MORTE SI POSSONO AGEVOLMENTE METTERE IN REGOLA, MA DELLE VIVE, CHE E’NON È SOLAMENTE DIFFICILE IL FARVI REGOLA ALCUNA PERFETTA  E VERA, MA CHE E’È QUASI AL TUTTO IMPOSSIBILE. Bartoli. E per che cagione? Gellù Dirowelo. Né voi né altro mai di sano intelletto mi negherà che, avendo a farsi regole d'una lingua, e'non si deU)a pigliarle da lei, quando ella fu favellata meglio che in alcuno altro tempo; essendo cosa pur ragionevole, quando si hanno a pigliare per regola le  operazioni d'una cosa, pigliarlequando ella opera meglio; il che le avviene quando ella è nel suo perfetto essere. E chi sarebbe mai quello, se non forse qualche stolto, che avendo a pigliare per esemplo l’operazioni d'un uomo, pigliasse quelle che e'fa  nella puerizia, quando i sensi suoi interiori, per essere di troppa umidità ripieni quelli organi ne'quali e'fanno lo ufizio loro, non potendo  porgere a lo intelletto la facultà che a perfettamente operare gli è necessaria, non ha esso uomo libero l’uso della ragione, e vive più tosto secondo la natura, che secondo la mente sua? o veramente le azioni che egli fa in quella parte della vecchiezza, ne la quale i sangui, pel mancamento del caldo e  dell’umido naturali, raffreddati e diseccati più del dovere, non somministrano a' medesimi sensi gli spiriti atti ed accomodati a le loro operazioni? Ninno certamente, mi penso; ma sì bene quelle che egli fa ne la sua età migliore: la quale indubitatamente sarà nel mezzo e nel colmo della sua vita; come poeticamente lo mostra il divinissimo nostro ALIGHIERI (vedasi), dicendo essersi accorto, che la vita nostra era una oscurissima selva di ignoranza: Nel mezzo del cammin di  nostra vita ec. Bartoli. Bella certo e dottissima considerazione. Ma sta saldo, G.; e prima che tu proceda più oltre, dimmi: come si puo egli  trovar già mai, parlando, come e' pare che la faccia, propriamente ed esattamente, questo colmo della vita e questo essere più perfetto, nelle cose generabili e corruttìbili? Le quali si come misurate dal tempo, essendo sempre in moto continolo, non  vengono a stare già mai in uno stato medesimo, se non in uno instante si indivisibile, che e’non è possibil segnarlo in maniera alcuna: per il che viene a essere più che impossibile, che e'vi si troovi dentro fermezza. G. Confesso io ancora che questo è vero, se voi intendete pella fermezza il mancare^d' ogni moto. Ma questo non è quello che io voglio inferire. Anzi dico, che in tutte le  cose le quali dopo il principio loro salgono al sommo e supremo grado della loro perfezione, conviene di necessità concedere, avanti che elle comincino a scenderne, un certo spazio di tempo; nel quale elle non salghino e non ìscendino, ma stiano, in quanto ad essa perfezione, quasi che ferme, e in uno stato medesimo: essendo di necessità che in fra due moti contrari si truovi sempre  un po'di quiete; perchè altrimenti, o non finirebbe mai l'uno, o non comincerebbe mai l'altro moto. E questo lo potete voi chiaramente conoscere in un sasso tratto a lo in su; il quale, poi che colla sua gravitade ha superato la forza di quella aria che, fessa violentemente dal braccio di chi lo trasse, correndo con grandissima celerità a richiudersi perchè quel luogo non restì vóto,  continovamente lo pigne in su, se egli non si fermasse alquanto, non tornerebbe mai a lo in giù. Gonciossiachè, non si fermando, egli anderebbe sempre a lo in su; e andare in su e tornare in giù in un tempo medesimo rispetto alla natura de'contrari, che non patisce che eglino stiano insieme in un medesimo tempo, in un subietto medesimo non è possibile. Adunque egli è necessario in  tutte le cose che dopo il principio loro hanno accrescimento e dicrescimento di perfezione, che e'si ritraevi tra Vuno e l'altro nn certo spazio di tempo, nel quale elle restino d’acquistarne più, e non comincino ancora a pèrderne: il qual tempo è chiamato da' filosofi lo stato, ed è cosa osservata molto da'medici ne le infermità umane. Ma se voi volete vedere ancor meglio questo che io  dico, leggete quella parte del Convivio del nostro ALIGHIERI, dove e'tratta de la etÀ del’acino, e resteretene capacissimo. Bartolù Orsù, sta bene: ma che vnoi ta dire per questo? G., Yo'dire, tornando al nostro proposito, che non si potendo sapere nelle lingue vive quando sia questo loro stato e questo colmo della loro perfezione, egli non si può ancora conseguentemente farne regole  perfette e intere. Perchè, se bene e'si può sapere mediante gli scrittori di quelle quando meglio che mai elle si siano favellate per il passato, nessuno è però che si possa promettere pel futuro, che insino a che elle non mancano, elle non si possino favellar meglio, e cosi che e' non possino surgere ancora alcuni scrittori che le scrivine molto meglio. Come potete voi mai sapere quale sia il  mezzo o lo stato d'una cosa, de la quale, se bene voi avete il principio noto, voi non potete però non solamente sapere quando ha ad essere il fine suo determinatamente, ma né anco imaginarvelo per conìetture; come forse la vita e dell’uomo e di molte altre cose, le quali quando sono arrivate alla lor vecchiezza, agevolmente si può farne la coniettura quando ha a essere la morte loro;  non essendo però di quelle, a chi è concesso da la natura il rinovellarsi, come, verbigrazìa, rerbe e le pianle la primavera. MA LA LINGUA NON È DI QUESTE. Resta dunque, non si potendo saper lo stato de la lingua che vive, che e' non se ne possa ancora formar regola alcuna ferma e vera: il che non avviene della lingua già morta, come ne avete l’esemplo chiaro nella lingua latina.  Nella quale considerando i gramatici cbe ne hanno scritto quale fusse stato il processo suo, e giudicando, come è il vero, il colmo di quella essere stato  NELL’ETA DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO (si veda); perchè ne’tempi d’ENNIO (si veda) e di PLAUTO (si veda) si vede che ella è nello augumento, e in quegli poi di SVETONIO (si veda) e di  TACITO (si veda), nel discrescimento, FONDARONO TUTTE LE REGOLE LORO SOPRA IL PARLARE DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO (si veda), affermando che ciò che si dice pell’avvenire nella maniera de’sopra detti, sempre sarebbe  DETTO BENE E LATINAMENTE, e massime secondo GIULIO (si veda) CESARE e CICERONE (si veda); per esser lecito e conceduto a’poeti l’usare spesso molte cose ne’versi loro, che non si comportano nella prosa. Ma questo non si può fare ne la lingua fiorentina, e molto manco ne la toscana, che vivono  ancora, e non hanno scrittori da fondarvi l’intento sno, non si sapendo s’elle sono ancor pervenute al colmo de Varco. Bartoli, E se questo non si può fare per via degli scritti,  chi vieta che e'non si faccia almanco per via de lo uso? G.. E di quale uso? Oh questa è l'altra difficultà, e non punto minore della precedente. Bartoli. E perchè? G. Perchè ne’tempi nostri non avviene di questa lìngua QUELLO CHE NE’TEMPI DE’ROMANI AVENNE DELLA LATINA; che essendo propria d'una nazione che domina allora ad una grandissima parte di questo mondo, è tanto stimata ed onorata da ciascuno de’soggetti loro, e in Italia massimamente, che e’non si trova nohile alcuno  e da farne stima, per qual si voglia città, il quale non si ingegna di parlar LA LINGUA ROMANA. SI perchè chi non sa è d’essi chiamato BARBARO, cioè persona inculta e di rozzi e aspri costumi; e si ancora per i bisogni ch’occorreno giornalmente nelle faccende é private e publiche. Avendo comandato I ROMANI in tutte le loro provincie, che e’non si puo agitare causa alcuna  criminale o civile, né far procèsso od ìnstrumento alcuno, se non IN LINGUA LATINA [cf. Gramsci – italiano: ambito privato; latino: ambito pubblico – contro Francia]. Ad imitazione de’quali, per quanto io n'ho inteso dire da Benci, che da venticinque anni in qua ha usato molto la Gallia, e come voi vi sapete, oltra le pratiche mercantili ha qualche cognizione ancora delle speculative, ordina il padre di questo re, che e'si fa cosi in gallese per tutto il dominio suo: il che osservatosi fino ad ora, ha tanto migliorata e fatta più bella e ricca quella lingua, che è una maraviglia a chi lo considera. e il re che vive, Arrigo II, imitando le vestìgio del padre, oltra  il fare osservare quello ordine, fa ancora e carezze e cortesie grandissime  a chi traduce in essa, o fa opera d’arricchirla e farla perfetta. Bartoli. Bella impresa e degna veramente d'un principe, amare e onorare la sua lingua [Grice – cf. The Prince of Wales]: atteso massimamente che nessuna può sormontare e venire in  riputazione senza il favor del principe suo. Non sarebbe dunque  stato diflScile  a ehi ha voluto METTERE IN REGOLA LA LINGUA LATINA in que'tempi ehe ella è VIVA, poi che gli basta osservare solamente l’uso e il modo che teneno i cittadini romani: p^chè non era in que’tempi ehi ardisse pre^rre la sua lingua a qoeUa, e non confessare che la vera pronunzia e IL VERO O NATURALE MODO DI FAVELLARE è quello de' ROMANI,  altrimenti detto FAVELLARE LATINO. Ma  non può questo avvenire a noi della nostra, essendo in Toscana TANTI PRINCIPATI E TANTI SIGNORI; li stati de’quali, se non in tutto, hanno pure in parte ciascuno, come io dico in quella mia traduzione all’illustrissimo e reverendissimo cardinale di Ferrara, qualche favella e pronunzia propria, varia e diversa da tutte l’altre, e PARENDO A CIASCUNO CHE LA SUA È MEGLIO. Perchè noi non ci abbiamo imperio alcuno cosi grande, che e’muova come I ROMANI le città sottoposteli a cercare  spontaneamente di favellare ed onorare quella lingua che favella chi le comanda. Gonciossiachè, quando ben la Toscana tutta è comandata d’un signor solo, l’imperio suo, per avere ì confini si presso, non è mai di tanta  grandezza, che e' è oiiorato e temuto quanto è allora quel de’romani. Imperocché i suggetti a loro, essendo privi d'ogni speranza di scir mai di tale servitù, non aveado principe aieuno all’intorno dove ricorrere quando e’pensassero di ribellarsi, sono necessitati, SE NON PER AMORE, ALMENO PER TIMORE, a far ciò che piace a’ROMANI. Bar Ioli. Io cedo, e confesso, quanto alla  grandezza e FORZA ROMANA, che egli è vero tutto quel che tu di. Niente dìmanco, e’si vede pur manifestamente ne’tempi nostri, che molte persone di quakhe spirito, i»8i fuor d'Italia come in Italia, s’ingegnano con molto situdio d’apprendere e di FAVELLARE QUESTA NOSTRA LINGUA non per altro che per amore. G. Egli è vero che QUELLO CHE NELL’ÈTA DE’ROMANI FA LA FORZA LO FA OGGI LA BONTÀ E LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA.Ma perchè coloro che la desiderano e cercano per loro stessi come cosa buona, l’appetiscono edamano in quella [Intende la tradniione dell'opera di Porzio del modo d’orare cristianamente. Qui parla di cose dette  nella  lettera dedicatoria maniera che si desidera ed ama il bene, ella è ancora di poi seguitata e adoperala come esso bene, cioè dai meno, e non dai più. Ma dato che e’è il vero che ognuno cerca di FAVELLARE IN LINGUA TOSCANA, e desidera che e' se ne fasi regole, donde si ha poi a cavarle, non ci essendo ciltade alcuna che signoreggi  tutta Toscana?  Perchè i lucchesi, i pisani, i sanesi, gl’aretini, e qualunque altra città di questa provìncia, dice sempre che LA VERA LINGUA [cf. Geach, True Scotman] e pronunzia losca  è VERAMENTE LA SUA;  e il cavare una parte di esse regole d’una  città e l’altra d’un' altra, scegliendo, come dicono alcuni, il meglio, per fare un composito di tutte quante, è cosa molto difiScile, e poi forse anche non approvata e non osservata, non ci essendo chi la comandi. Bartoli. Oh, io non penso però che il luogo donde cavare le regime ha molta difBcultà; non essendo se non rarissimi que’che volendo imparar la lìngua piglino altr’autori che ALIGHERI (si veda), PETRARCA (si veda) e BOCCACCIO (si veda); i quali essendo pure tutti e tre di Firenze, mostrano assai manifestamente donde sì debba imparar la lingua. Non ostante che alcuni, poco amici per avventura del n che poi the g^i  uomini hanno ricomincialo a considerarla, come fecero qnegli de r Orto, e ad osare i modi de tre nostri Inmi ella é tanto migliorata a poco a poco, che io la tengo oggi nsolto piA bella universalmente, che eOa non era ne' tempi loro; e che se eglino scrissero cosi bene allora (^il che fn molto più da impotare a lo ingegno loro che a 4a bontà de la Ikigoa), scriverebbero molto meglio oggi:  non essendo necessitati dalla povertà Òe la lingua, che oggi^ è ricchissima^ ad osare quelle parole che più non piacciono, eqoe' modi ohe son fuggiti da' nostri orecchi; di modo c^e nel volto ancora di Petrarca non si scorgerebbero q«e' pochi avvegnaché pic^ eolissimi nei, che i ben purgati giudizj vi riconoscono.  G.. Io credo che voi giudichiate bene, e che la cosa stia come voi dite. Maio voglio andare un passo più là, e dire, che essendo ancor VIVA LA LINGUA NOSTRA, e in maggiore  speranza d’avere a vivere, che ella è fom ancor mai, egli non si può affermare che la nstnra la quale iton si stracca e non invecchia mal, anzi, se bene ella varia talora alquanto, è por sempre quella medesima) non possa e non ha ancora a produrre de gì'ingegni simili a loro; i quali, trovando LA NOSTRA LINGUA in molto maggior perfezione che non la trovano i sopradetti, serivino non solamente bene cernie qoelli,  ma forse ancora  assai meglio di loro. Bartolù  £ questo similmeiite mi par di credere, essendosi veduto ne’tempi nostri che in quaiuncàe faciità, e particolarmente nella architettura, pittura e scoltura, ha la nostra città generati aiconi che non solo haano paseggiaU i famosi antichi, ma forse ancora avanzatili in ^oalohe cosa. G. Non si poò donqoe dire dM ella sia ne lo stato Mio> veggendosi come di giorno in  gèomo olla va «i  soo augomento; e potendosi agevdmente far conieltara da te cose che soprareiigoDO, ehe ella abbia ancora a farsi più ricca e saolto più beUa. MartoU.  E q«ali Mm questo cose G.? GeUù Molte e  molte sono, messer Cosimo; e dae sopra tatto l'altre. L'nna de le quali è la moltitadine grande di ei^oro che oggi si danno, in Firenze a LA LINGUA LATINA; i quali imparando quelle con regola, avellano di poi ancora reg<^tamente la nostra, e con leggiadria; e da questi imparando gl’altri, mossi da quello ingenito desiderio ohe ha ciascuno di non volere, in quello che egli può, essere in maniera alcuna soprayanzato da i suoi pari, faranno di mane in mano la lingua più bella più onorata, si col parlare e si col tradurre, arrecandoci le scienzie e l’arti che elli imparano nell’altre lingue. L'a&tra è il cominciare i principi e gl’uomini grandi e qualificati a scrivere in questa lingue importantissime cose de’governi degli stati, i maneggi delle guerre e gl’altri negozj gravi delle faccende, che da non molto in dietro si scrive tutti in LINGUA LATINA. Perché, non vi date a intendere ehe una  lingua diventi mai ricca e beila per i ragionamenti de’plebei e delle donniciuole, che FAVELLAN sempre rispetto all’avere concetti vilis6imi di cose basse: chò e'sono solamente gl’uomini grandi e virtuosi, quelli ehe inalzano e fanno grandi le lingue; imperocché, avendo  sempre concetti nobili e alti, e trattando e maneggiando coae di gran momento, e ragionando bene spesso e discorrendo sopra quelle in prò e in contro, persuadendo o dissuadendo, accusando o lodando, e talvolta ancora ammonendo e insegnando, fanno le lingue loro copiose, onorate, ricche e leggiadre. Per queste due cose adunque, ancora ch’altre cagioni non ci sono, si può giustamente  sperare  ^M  LA NOSTRA LINGUA ha a essere ancora un giorno tanto pregiata appresso molti che nasceranno, quanto è oggi appresso di noi la latina. E  conseguentemente concludo, che non essendo ella ancor pervenuta allo stato suo, non se ne puo far regola, che in tempo non molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne la pittura; dove i ritratti de giovanetti, se bene  gli soniigliono interamente quando e' son fatti y  non vi corre però gran tempo che, cambiandosi lo aspetto del ritratto nel farsi egli nomo, tanto varia la effigie, che non lo somiglia più, né apparisce più qnel medesimo. BartolL Orsù, pongbiamo per le tante cose allegate da te,  cbe a r Accademia non si convenga il fare queste regole: vuoi tu però affermare al tutto, che una persona privata e particolare, lasciando favellare ad arbitrio loro qualonche città e luogo della Toscana, senia difettargli o ripotargli da meno per questo, non possa al manco dai tre primi nostri scrittori e dall’uso di Firenze formare le regole, che a'tempi d'oggi insegnino favellare rettamente a’Fiorentini stessi, e a chi pur volesse  imitar?  G. Oh questo no, messer Cosimo; perchè io mi credo pure, che un solo, in suo nome proprio e non d’accademia, con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette, sicuramente le possa fare. Bartoli, E con qoal ordine? o in che maniera? G., Dirovvelo: ma perchè voi mi intendiate più facilmente, avvertite che questa lingua, come quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha due parti principali; la materia, cioè, e la forma: la materia sono le parole de le quali ella è fatta; e la forma è qod modo e quell' ordine col quale son conteste e tessute insieme l’una parola coll’altra, che si chiama ordinariamente LA COSTRUZIONE. Di queste due parti la materiale, o delle parole, non tengo io per molto difficile a metterla in regola; ancora che ella ha forse bisogno di lungo  tempo, rispetto a l’aversi a fare un vocabolista di tutte le voci che s’usano, come ha già cominciato il nostro Norchiaio, prima che morte gli troncasse il volo. Ma della costruzione, o volete dire della FORMA, nella quale consiste tutta la bellezza e la leggiadria della lingua, e appresso di noi è per avventura molto più dolce che ne' nostri vicini, non  so io come ella possa mostrarsi meglio che dagl’esempi de'tre scrittori. Bartolù Oh G., e' mi ricorda, a questo proposto de la dolcezza della testura del parlar nostro, che messer Piccolaomini, persona dottissima e tanto rara qaanto lo sai, ritrovandosi in casa mia, e leggendo aicani scritti dì questi nostri, rivoltatosi a  me, dice: come può e'mai essere, messer Cosimo mio, che non essendo le patrie nostre più lontane l’ttna da l’altra che trenta miglia, noi altri non abbiamo le clausole cosi dolci e gli andari tanto piani e si ordinati, quanto gli veggiamo e sentiamo in voi Fiorentini? G. £ voi vedete bene che tutti costoro che fino ad oggi hanno fatto le regole del parlar toscano, distendendosi nelle declinazioni solamente, si hanno passato la costruzione senza parlarne se non pochissimo, come cosa troppo difficile e ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il formare queste regole, non maffaticherei molto ne là prima parte; ma dichiarate LE PARTI DELL’ORAZIONE, e dimostrate le declinabili e l’indeclinabili, e gl’esempli de’verbi, massimamente con quella diversità che è tra l'uso moderno e quello che e'dicono de'nostri antichi, me n’andrei tutto alla costruzione. Nella quale, consistendovi tutta la importanzia di questa lingua, vorrei io certamente usare una diligenzia più là che estrema, togliendo da’tre sopra detti tutto quel che è ben detto. Il che, al giudizio mio, solamente sarebbe quello che l’uso di oggi si mantene; essendo l’orecchio nostro inclinato naturalmente a lasciar sempre le cose aspre, dure e difficili, e seguitare le dolci e le facili. Per la qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in nessun de’tempi passati, attribuisco molto a l’uso, non di mercato e del vulgo vile, ma de’nobili e qualificati de la nostra città. Bartoli. Questo è appunto l' ordine stesso e il modo che il nostro GiambuUari tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, dona allo illustrissimo signor Don Francesco de’MEDICI primogenito di Sua Eccellenza. G. Voi dite il vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che voi sapete, me le conferi molte volte, e massimamente r anno passato, quando siamo in questo maneggio: e perchè e'mi parve sempre che egli trova la vera via, e con una diligenzia maravigiiosa  fatto  ciò  che è possibile farsi in questa materìa, però metto io a campo di nuovo lo stesso modo die egli tenne. Ma perchè non le comunica egli ora mai con  la stampa a taUe le genti che le desiderano? BartoìL Sta di buona TogUa, G., che io ne Tho tanto contaminato che  egli  finalmente  mi da  non  solo  esse  reg(^9  ma e libera e pimia  licenzia  che  io ne  &ccia la  vof^ia  mia. E cosi fra non molti giorni comincerò a fturle stampare,  che di tanto son convenuto col Torreatmo. GM.  Sollecitate  dunque,  messer  Cosimo mi,  perché farete gran benefizio a chi desidera imparar dal buono. Maperchè  noi  siamo  oramai vicini a  l'ora  de la  nostra cena,  rimanetevi con  Dio,  che  a  casa  sono  aspettato. Bartolù Dì grazia, cena con esso meco. G. Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo trovarmi in un altro luogo, non posso mancar de la mia promessa. Restate con la buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom di Dio. Tanto fu, messer Pierfranoesoo  mio  onorando,  il  ragionamento che avete chiesto; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice ricordandovi che G. è vostro. Di  Firenze. Come ora si direbbe  importunato, o seccato. Velia  Crusca  non  è  con  questo significato.  Io non credo, magnifico signor Consolo, prudentissimi Consi glieri, e voi altri virtuosissimi Accademici e maggiori miei ono randi, ? che con voi, i quali sapete i nostri ordini, e come più per imparare esercitandomi,che per insegnare ad altri,io sia salito oggi in questo luogo,sia di bisogno che io ne faccia seusaalcuna. Ma perchè forse qualcun di quest'altri uditori potrebbe ingiustamente incolparmidi presunzione, essendoioil primo che dopo due si dottissimi e famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito sopra que sta onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione e scarico mio io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa nostra Acca demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e, il quale sa re i molto più atto a tacere che a parlare, v i a r recherà maraviglia,non dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che avendo ordinato questi miei maggiori Accademici, che per esercizio nostro, per esaltazione di questa nostra lin gua nativa, e per imparare a esprimere in quella i nostri concetti, ciascuno di noi legga una volta quello che più gli piace, ha voluto la sorte che io sia il primo a dar principio a così lode devole, ese io non me ne inganno, utilissimo esercizio. Nè debbe. Le parole e maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T.  La 1a T., ingiustamente potrebbe. La fa T., auditori. certamente esser preso questo se non per buono e felicissimo augurio di questa nostra Accademia.Perciò che se le cose che fa la natura sono più ferme e più stabili che quelle della fortuna, per procedere quella con ordine e questa senza, ed essendo l'ordine della natura andare sempre dallo imperfetto al perfetto (si come noi manifestamente veggiamo verbigrazia? nella creazionedell'uomo, dove ella fa primieramente un pezzo di carne, il quale è solamente animato d'anima vegetativa come le piante, dai medici chiamato embrione, e secondariamente infondendovi l'anima sensitiva lo fa animale, e finalmente gli dà l'anima razionale, la quale è l'ultima perfezione sua), dove senza dubbio questa nostra impresa aver anch'ella felice successo, da che io, che sono il più insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle principio. Se dunque voi non, udirete oggi da me cosa degna de’passi spesi da voi a venire in questo luogo, non mancherete però di venire a udire quest’altriche dopo me leggeranno; da i quali, per esser queglio e per natura e per professione di gran lunga più sufficienti che non sono io, caverete tal frutto, che di que. stie di quelli vi ristorerà largamente.  La lezione nostra è un luogo d’ALIGHIERI ne Paradiso; il quale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso molto al proposito nostro, essendo questa nostra Accademia stata principalmente ordinata per utilità di questa lingua, o per dir meglio, usando le parole stesse del nostro BOCCACCIO (si veda) nella quarta giornata, di questo nostro fiorentino, volgare. Presterretemi adunque grata udienza come avete cominciato, se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i quali senza comparazione caverete maggiore diletto Se maggior frutto. Ma vegnamo alla nostra lezione.  La 1a T.,di quella. ? verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a T., che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc.   conosciuti, dico, i vizii e purgatosi da essi, ascese per contemplazione sopra i cieli alla gloria de’beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre Adamo, come desideroso di sapere, lo dimanda di alcune cose; fra le quali è questa, che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual è l’idioma o vero la LINGUA nel quale, quando ei è fatto da Dio, egli primieramente parla. Alla quale dimanda risponde Adamo in questa maniera. La lingua ch'io parlo è tutta spenta Innanzi che all'opra inconsumabile  Libero, sano e dritto è tuo arbitrio, Fosse la gente di Nembrot intenta. Che nullo effetto ? mai razionabile Per lo piacer uman, che rinnovella, Seguendo il cielo, è sempre e durabile. Avendo il divino nostro poeta ALIGHIERI (si veda), poeticamente parlando, nel suo discendere all’nferno conosciuto tutti i vizii e i peccati, che cosi per malizia e per matta bestialità come per umana incontinenza e fragilità si possono commettere, ed essendosene nel passare del Purgatorio in cotal modo purgato, ch'egli è tornato in quello stato dell’innocenza nel quale è creata da Iddio l'umana natura; là dove la parte nostra inferiore, irrazionale e mortale, alla superiore, razionale e immortale, sta obbediente, nè punto arde la sensitiva e carnale, dalla originale giustizia regolata, levarsi e combattere contro allo spirito; tal che dal suo precettore gli è detto: fallo fora non fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero, dritto, sano. La 1aT.,purgato. La 1a T., Adam . Cr. oora. 8Cr. la gente di Nembrotte attenta. Cr, affetto. 8Cr. semprefu. Opera di natura è ch'uom favella; Poi fare a voi, secondo che viabbella. Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, donde s vien la letizia che mi fascia. Elle si chiamò poi, e ciò conviene; Però che l'uso umano è come fronda In ramo,che sen va, ed altra viene. Da queste parole d’Adamo caviamo noi oggi tre principali conclusioni. La prima è, come la sua lingua si spende e mancòa tutta, innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la torre; cosa molto contraria alla volgare oppenione. La seconda, la ragione perchè si mutino i parlari. La terza, la risposta a una obie zione che se gli potrebbe fare, dove egli adduce alcuni esempli in confermazione di quanto egli ha detto, come largamente si vedrà nel nostro ragionamento. Cominciamo ora adunque a esaminare la prima, con l'aiuto di Colui dal quale depende ogni nostra sufficienzia. Avendo l'onnipotente Iddio, nellaproduzione delmondo, creato tutte le cose insieme con l'uomo, non perchè elle fossero in lor medesime solamente, ma perchèelle fossero ancor principio del l'altre, ciascheduna di quelle della sua specie, non tanto nel generarle, quanto nell'instruirle e governarle, bisognò ch'egli le creasse nel loro perfetto essere. Dalla quale ragione mossi diceno alcuni dottori ebrei che il mondo è creato di SETTEMBRE; perciò che allora pare che tutti gli alberi, insieme con l'erbe, abbiano condotto a perfezione i frutti loro. È adunque (lasciando stare l'altre cose) creato l'uomo da Dio nel suo stato più perfetto, e in quanto al corpo e in quanto all'anima. In quanto al corpo, sano, bene complessionato, e di età di trenta o tren +Cr. Operan aturale è ch'uom favella. 2Cr. El. öCr.Onde.  M a, cosi o cosi, natura lascia Un : s'appellavin terra il sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è della 2a T. 1 6  tacinque anni, secondo la maggior parte dei dottori, acciò che ei è atto alla generazione.E in quanto all'anima, ripieno di tutte quelle scienze, alla cognizione delle quali si può na turalmente pervenire, acciò chè ei potesse insegnare a quegli che nascessero di lui tutte quelle cose che sono necessarie alla vita e al bene esser nostro. Con questa cognizione pone Adamo i nomi convenienti a tutte le cose, secondo la loro natura; e FORMA UN’DIOMA, o vogliam dire uno parlare, con il quale ei puo MANIFESTARE ai descendenti i suoi CONCETTI. Ma qual è questa lingua, non si sa già manifestamente per alcuno filosofo. Gl’ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo dice che alla edificazione della torre di Nembrot si parla in terra d'UNA SOLA LINGUA, dicono questa ESSERE STATA LA LORO, ed essersi così dal principio del mondo miracolosamente conservata intera e incorrotta, la qual cosa a nessun'altra è avvenuta giammai, per avere parlato Iddio sempre mai a Moisè e agl’altri suo i profeti in quella; e questo è ancora confermato da loro con l'autorità dei loro Cabalisti, la quale può molto appresso di loro. Il che nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge – GRICE: 10 COMM. -- a Moisè sopra il monte Sinai, egli gli da ancora l’interpretazione di quella, e gli manifesta molti altri profondi misterii, contenuti e nascosi sotto la lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primo libro. Ma dicano ch'egli gli comanda sch'ei non scrive altro che la legge, e l'altre cose dice a bocca a quelli che reggeno il popolo. Per laqual cosa, disceso dal monte, solamente le rivela a losuè; e Iosuè di poi a i settantadue più vecchi del popolo; e quelli d ipoi per ordine successivo le revelano ai loro discendenti. E questa dicano essere la scienza Cabala, che non vuol dire altro che ricevuta a bocca per successione. QUESTA OPPENIONE EBREA HA MOLTE DIFFICULTÀ. Primiera  1 giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso. * Cioè, dicono; cosi, appresso, scrivano per scrivono, e simili. 5La14T.,egli comando.   mente, si come scrivano i loro Talmudisti, e non pare ch'ei sia vero che questa lingua ch'egli usano, e nella quale è scritta? la Legge, sia la lor prima e antica lingua. Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote, nella restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica, temendo che se gli avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse, ragunò tutti i savi loro; e fa scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e dell'antica favella loro, e trovarono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali sono quelli ch'egli usano oggi; e questo ancora pare, chesenta GIROLAMO nel prologo sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio PARLA IN QUELLA, non è d'alcuno valore; imperò che quasi tutti i loro scrittori, o la maggior parte, sopra i Profeti dicano Iddio NON AVER PARLATO MAI a quelli VOCALMENTE, ma quando egli ha VOLUTO MANIFESTARE QUALCOSA o a Moisé a agl’altri, avere loro formato nella mente uno concetto, per il quale egli hanno inteso pienamente la volontà sua.L'autorità Cabalistica, dalla servitù Babilonica in qua, non ha avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la servitù, e per la loro natura ch'è molto superstiziosa, come scrive Apuleio nel primo libro de’Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da i loro Cabalisti), che sono manifestamente contro alla lor legge e CONTRO ALLA RAGIONE NATURALE; come si legge nelloro Talmut Babilonico, il quale non è altro che uno raccolto di sentenzie dei loro sapienti di quel tempo. Aggiugnesi ultimamente a questo, che secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ha così nome da Eber figliuolo di SEM, figliuolo di Noè, al quale nella divisione della terra tocca la Giudea ; il c h e ·La 1aT., per error tipografico, ha Tamuldisti; diquilo sconcio della2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno scritto. i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua volontà. delle. 6 La 1a T., I Caldei, o vero Assirii, dall'altra parte dicono similmente che la lor lingua è la prima che si parla mai ; e certamente ella è tanto simile alla ebrea, come dice Girolamo nel prologo di sopra allegato, ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle sono già state o una medesima. E in confermazione di questo adducano queste ragioni, con l'autorità di Beroso Caldeo, e di Mnaseae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano che NON SI TRUOVANO SCRITTURE INNANZI AL DILUVIO, se non nella lingua loro; e queste esser certe cose di astronomia, insieme con la predizione del diluvio scritta da Enoc, figliuolo di Iared, bene cinquecento anni innanzi a quello, in certi pezzi di terra cotta, acciò che le acque non l'offendessero. E similmente dicano essere nel Monte Gordeo’in Armenia, in certi sassi, dove dopo quello si ferma l'arca, scritte in quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose; e il luogo ancor nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di Noè. Aggiungano a questo, che Abramo, il quale è primo a dare principio al popolo ebreo, è da Dio primamente cavato di Caldea. PLINIO (si veda) pare che è ancor egli di questa oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le stampe Masea ; e la 12 T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno solo,Masea Damasceno .Anche nel Giambullari, Origine della lingua fiorentina (Fir.), trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno. Mnasea, geografo, e Niccola di Damasco o Damasceno, storico dei tempi d’OTTAVIANO (si veda), sono citati, insieme con Beroso Caldeo e con Girolamo Egiziano, da Flavio nel primo libro delle sue Antichità Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio. ècirca trecento anni dopo il diluvio. Si che ei pare più ragionevole, ch'ella ha principio allora quando ella ha il nome, ch'ella si è parlata prima tanto tempo. E così, come voi vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle 1a T. La 1a T., Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo manca nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Flavio, loc. cit., lo chiama Monte de' Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T. sono eterne: la quale non di manco non è senza molte difficultà. Imperò che molti istoriografi degni di fede, e particularmente GIUSTINO nel secondo della sua Istoria, tengono che la prima terra che è abitata sia la Scizia, e conseguentemente la lor lingua parimente sia stata o la prima. Il nostro ALIGHIERI (si veda), parendogli che ciascuna di queste oppenioni è dubbiosa e incerta, sicome per il testo si vede, è d'un altro parere diverso; e a ciò lo induce la esperienzia, maestra delle cose. Imperò che vedendo egli per le scritture le lingue di tempo in tempo variarsi, in modo tale che come egli scrive nel suo Convito) se quei che morirono cinquecento anni sono, risuscitatit or nassero alle loro cittadi, ei crederebbo noche quell fossero da strane genti occupate, per la lingua da loro discordante. E non potendo però per questo persuadersi che dal principio del mondo alla edificazione della torre di Nembrot, dove corsero circa due mila anni, sempre si conserva un medesimo modo di parlare, induce Adamo a rispondere che quella lingua, la quale ei primieramente parla, sispense e manca tutta, innanzi che le genti di Nembrot cominciassero a edificare la torre. Per la quale risposta si può chiaramente vedere che il libro Della volgare eloquenza, tanto da alcuni lombardi lodato, e tradotto (per dire come loro) in lingua italiana, non è d’ALIGHIERI (si veda), ma da qualcuno altro stato cosi composto, e col nome di esso ALIGHIERI mandato fuora. Con ciò sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua, che parla Adamo, è quella che usano oggi gl’ebrei, e che ella dura insino alla edificazione della torre di Nembrot; dove qui dice ALIGHIERI il contrario. Oltr'a di  5 La 1a T., 022 que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il quale ALIGHIERI nel suo Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo io mai che ALIGHIERI non ha vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto stata . ? Le stampe hanno dalloro ; ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro. i della torre, manca nella 2a T. *La 1aT., dumilia. dice . sentite e scritte.E questo basti per intelligenza della nostra prima conclusione. Or vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per lo piacere uman, che rinnovella Seguendo il cielo, è sempre ? durabile. Rende la ragione Adamo perchè si mutino e variino i parlari; e comincia da questa dizione che, dicendo che nullo effetto razionabile, cio è nessuna cosa fatta dall'uomo, il quale si chiama animal razionale, per lo piacere umano, cioè per il desiderio e per lo appetito umano. Questo vocabolo “piacere” ha nella nostra lingua DUOI SIGNIFICATI [IMPLICATURA – Gice]. Primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso, perchè a tutte quelle cose che noi desideriamo, ottenute che noi le abbiamo, ne seguita la dilettazione e il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio e per lo appetito che noi abbiamo di una cosa ;sicome noi veggiamo usarlo da BOCCACCIO (si veda) in molti luoghi, e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec, dove ei dice: che per disporla a' suoi piaceri, cio è alle sue voglie: ed IN QUESTO SIGNIFICATO L’USA QUI ALIGHIERI, dicendo: per lo piacere umano, cioè per il desiderio umano, che si rinnova e si muta, seguendo il moto del cielo, è sempre durabile. E qui con grandissima arte egli aggiunse sempre; imperò che ei si truovano molti effetti dell'uomo, si come sono le scritture, le statue e la fama, che trae l'uom del sepolcro e'n vita il serba, come dice il nostro PETRARCA (si veda), le quali durano tanto tempo, che gl’uomini, per non vedere il fine loro, l'hanno chiamate eterne; ma non però sono durabili sempre. La qual cosa mirabilmente espresse ALIGHIERI (si veda) medesimo in un altro luogo, dicendo: Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi in alcuna Che vive 5 molto, e le vite son corte.  1 Cr. affetto. 2Cr.semprefu. ö Cr. Le vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5 Cr. Che dura.   E cosi ha renduto la ragione perchè i parlari si mutino. Ma per maggiore intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per quello che l'uomo si chiami razionabile, e in che modo le sue voglie, seguendo i moti del cielo, si mutino. Devete dunque sapere che il Creatore (GRICE – GENITOR) di questo universo, per farlo più bello ch'ei poteva, fa in quello di ogni sorte creature; e quelle dispose tra loro con tanto ordine, cominciandosi dalla prima materia che riceve lo essere di tutte le cose, e salendo di grado in grado in sino all'ultima forma, ch'è Iddio, il quale 1 dà l'essere a tutte, che i filosofi l'assimigliarono a i numeri ;i quali sono tra loro disposti con tanto ordine, ch'ei non si può tra loro inframettere unità alcuna senza variargli. Intra queste cose, alcune o furono da lui fatte perfette, e alcune imperfette. Perfette si chiamono: quelle che sono da lui create incorruttibili,e in certo modo eterne, ed ebbero tutte le perfezioni che si convengono alla loro natura insieme con lo essere, sì come sono, infra i corpi, i cieli, e infra gl'intelletti, quello dell'angelo. Imperfette poi si chiamono quell'altre, che furono da lui create corruttibili e mortali, e che non ebbero da principio tutta la loro perfezione, ma sel'hanno acquistata con il moto e con il tempo,e oltr'a questo sono sottoposte a tutte le alterazioni che arrecano seco i moti celesti; si come sono, tra i corpi, le piante e gl’animali, e tra gl'intelletti, quello dell'uomo, per essere col suo corpo mirabilmente unito. E questo fa il sommo Fattore, perchè a questo universo non manca alcuna sorte di creature, acciò che le perfette con la loro bellezza e perfezione di natura ci tirassino alla contemplazione di esso Iddio sommo, e le imperfette, poste a lato a quelle, ci ren dessino la loro bellezza più maravigliosa e più desiderabile. La qual cosa veggiamo noi che usano ancora 6 nei loro canti i musici, mescolandovi delle consonanze imperfette, perchè quelle rendino poi le perfette più dolci e più grate a gl’orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T., alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc. 5 La 1a T., che ancor fanno.   ascoltanti. Ma perchè questo sommo benefattore e padre volle che ogni cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia scuna un valore e una virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e un desiderio ardentissimo che a quella le tirassi; si come agl’elementi uno valore che gli spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla terra lo andare al centro, e al fuoco al concavo della luna, là dove egli è veramente fuoco; (imperò che, come noi abbiamo dal LIZIO nel primo delle Meteore, questo che noi veggiamo non è fuoco, ma è una soprabbondanza di calore, sicome è il ghiaccio nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno principio intrinseco, per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e potessero generare dell'altre simili a loro? e agli animali uno principio di moto intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero nocive e disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro salutifere e convenienti, insieme con un desiderio innato che gli spingesse a cercarle. Questo principio nelle piante e negli animali è stato chiamato dai filosofi NATVRA, che altro non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e principio quel moto, per il quale egli acquistano le loro perfezioni. E desiderando similmente ancor che l'intelletto dell'uomo acquistasse la sua perfezione, gli da una potenza o vero facultà, con la quale ei potesse similmente acquistarla, chiamata dai filosofi DISCORSO o vero RAGIONE. Imperò che l'intelletto dell'uomo non ha da natura altra cognizione che quella dei primi principii, insieme con il desiderio dello intendere, ch'è la sua perfezione: i quali, sìcome noi abbiamo dal LIZIO nel quarto della sua Prima filosofia, sono le conclusioni che sono parimente chiare e note a tutti gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro, come sarebbe questa: egli è impossibile che in un medesimo tempo una cosa medesima sia e non sia; perchè ciascuno intelletto, subito ch'eisa che cosa è essere,e che 1La 1aT., uno intrinseco principio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3 La 1a T., valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia.  cosa è non essere,sa che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara per esperienza o per esercizio alcuno. Onde bendisse il nostro ALIGHIERI (si veda) nel suo Purgatorio. Da questa cognizione intellettuale dei primi principii, come da cosa nota, partendosi l'intelletto dell'uomo, con una potenzia ch'egli ha va discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia delle cose ch'ei non intende, ed empiesi di’ntelligibili, dove prima è come una tavola rasa; eco sì viene ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia nella nostra lingua si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato razionale, così come quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la loro perfezione con la natura, son chiamate naturali. Questo nome razionale ? non si può dare all'angelo, ancora ch'egli abbia lo intelletto, per essere quello d'una natura pura intellettuale; la quale è creata da Dio con tutte le sue perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non se l'ha acquistare con alcuna sua operazione, come l'uomo); e che oltra di questo è 8 di tanta virtù, che quando Iddio gli appresenta qualche nuovo intelligibile, ei lo intende subito per semplice lume dell'intelletto, nel modo che intendiamo noii primi principii, e SENZA ALCUN DISCORSO, e tutto perfetta mente in uno instante e in uno tempo indivisibile; e no nprima una parte e poi l'altra, si come fa l'intelletto nostro ne l’intender suo, o per non essere di tanta perfezione; ma farebbe in quel modo che fa uno lume, quando egli è portato in una stanza buia, che la illumina tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra. E per questo dicano alcuni teologi che gl’angeli che peccarono non si sono mai potuti pentire; imperòche ne l'intender suo, non è nella 1a T.  Però là onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie, uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La 1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha: perchè egli è. ·La18T., e non sel'haavute acquistare. 5La1aT. hasolo: Oltra a di questo egli è ecc.    intendendo quegli ciò ch'egl'intendano per semplice apprensione d'intelletto, lo intendano immutabilmente, e senza mai potere variare e mutare il loro intendimento; sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi INTENDIAMO PER SEMPLICE LUME D’INTELLETTO, come sono i primi principii; il che non avviene di poi di quelle che noi INTENDIAMO PER DISCORSO DI RAGIONE. E però si chiama l'angelo creatura intellettuale, el'uomo creatura RAZIONALE E DISCORSIVA. E perchè, in quanto al corpo, l'uomo è composto di questa materia elementare della quale sono composte tutte le altre cose sotto la luna, la quale materia è obligata e sottoposta alle alterazioni che inducano i moti celesti in lei, egli è da quegli insieme con l'altre cose diversamente disposto. Onde cosi come la terra altra disposizione riceve dai cieli il verno, quando ella ha a corrompere i semi e generare le cose, e altra la primavera, quando ella si ha a vestire di erbe e di fiori, così la complessione nostra altrimenti è disposta in uno tempo, e altrimenti in un altro; onde l'anima nostra razionale, in quanto ella è fondata in su questa nostra complessione corporale, altre voglie ha in un tempo, e altre in un altro. Imperò ch'ella è tanto mirabilmente unita con quello, che l'operazioni che ancor totalmente dependono da lei mentre ch'ella è in esso corpo, si attribuiscano al tutto; onde dice il Filosofo del LIZIO nel primo Dell'anima, che chi dice: l'anima mia odia, o l'anima mia ama, sarebbe come dire: l'anima mia fila, o l'anima mia tesse. E seciò non fusse, cio è che l'anima segue la disposizione del corpo, egli ne a ha, sicome apertamente pruova Galeno in una opera ch'ei fa di questa materia, che l'operazioni degl’uomini sarebbero tutte a un modo medesimo; 3di che manifestamente si vede il contrario. Imperò che le anime nostre nella loro sustanzia, e, come dicono questi teologi, in puris naturalibus, sono tutte in un medesimo modo e d'una medesima virtù; ma pigliano poi diversi costumi, secondo la complessione de'corpi ne'quali elle sono incluse,  1La1aT., per una semplice. 4 La 1a T., con manifesto errore, mutabilmente. 3 La1aT., a un modo.   e hanno diverse voglie, secondo che quegli si variano per i moti celesti. E questo basti per la seconda parte del nostro ragionamento. Or vegniamo alla terza e ultima. Risponde dottissimamente in questa ultima parte Adamo a una tacita obiezione, che se gli è potuto fare; la quale Ma, cosi o cosi, natura lascia Poi fare a voi secondo che v'abbella. Per le quali parole voi avete a considerare che l'uomo è composto di due nature, o vogliam dire di due parti; con l'una delle quali, la quale è l'anima incorporea, immortale, razionale e libera, egli è simile alle Intelligenzie celesti; e con l'altra, la quale è il corpo mortale e irrazionale, è simile agl’ANIMALI BRUTI (cf. Grice: animale +> bruto). E ciò è dalla natura fatto con mirabile artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle creature irrazionali, corporee e mortali, e delle razionali, incorporee ed immortali, e non volendo che si andasse da l'uno estremo all'altro senza mezzo, l’è necessario fare l'uomo, che con una parte communica con  1 Opera di natura 3 è ch'uom favella; può, non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno: A me non pare che questa tua ragione, Adamo, conchiuda e sia bastante; imperò che tudi'che il tuo parlare manca per essere effetto dell'uomo, e gl’effetti dell'uomo col tempo mancano tutti, per esser esso uomo, ch'è la loro causa, caduco e mortale; e nessuno effetto può essere di maggior perfezione che la sua causa. Questo è ben vero, che gl’effetti che procedano semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; ma il parlare non è di questi. Imperò che non è suo effetto totalmente, ma è sua propietà naturale; le quali così fatte propietà non si separano mai dalla specie loro, sìcome la calidità dal fuoco, e la frigidità dall'acqua. Dunque come di tu ch'ei mancasse per esser suo effetto? Alle quali parole così risponde Adamo:  queste, e con un'altra con quelle. E però il parlar suo, insieme con l'altre sue operazioni, si può similmente considerare in due modi. Primieramente si può considerare come sua proprietà naturale; e questo è il parlare istesso in genere, non si ristrignendo più a uno modo che a uno altro; e in questo modo egli non manca mai all'uomo, ma sempre che sono uomini (zoon logikon), sempre parlanno (logikon), e di questo non parla qui Adamo. Secondariamente si può considerare come cosa dependente dalla parte libera e razionale dell'uomo; e questo è il modo del parlare (e non il parlare), come sarebbegreco, latino, o TOSCANO – Alighieri parla; Alighieri parla toscano --; e in questo modo è egli effetto dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gl’uomini. E però disse il filosofo del LIZIO che i nomi sono stati posti alle cose, secondo ch'è piaciuto (SIGNIFICATIVM AD PLACITVM) a gl’uomini. E questo è quello che dice qui Adamo, che manca e mutossi. Onde dice nel testo: Opera di natura è ch'uom FAVELLA (FABVLA), cioè: egli è cosa naturale all'uomo il parlare; ma così o così, ma più in questo modo che in quello, natura lascia poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che vi piace; chè cosi significa questo verbo. Il quale è verbo provenzale, che a quei tempi è in uso; e dal medesimo Poeta ancora è usato,? nella medesima significazione, nel Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che è nei tempi suoi compositore molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole di PETRARCA (si veda)  ne'suoi Trionfi. E così è soluta questa obiezione. Ma per maggiore dichiarazione di questo testo, voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla natura solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura, ese egli è necessario o no; imperò che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose necessarie, non abbonda ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si ristrignendo più a questo modo che a quello. 1La 1aT. hasolo: ancora usato.  Avendo la naturà fatto l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole di alcun altro animale (il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a T.   forza, per volerlo fare più prudente che alcun altro, donde gli bisogna farlo di più temperata complessione), ne avviene che ogni minima cosa l'offende; il che non fa così agl’altr’animali. Oltr'a di questo, avendogli dato lo intelletto in certo modo imperfetto e il minimo tra le intelligenze, come noi abbiamo dal Filosofo del LIZIO nel libro Dell'anima, e desiderando ch'ei potesse conseguire la perfezione e dell'uno e dell'altro, le è necessario CONCEDERGLI IL PARLARE, con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le cose necessarie alla perfezione dell'anima. Voi vedete, in quanto al corpo, ch'ei nasce ignudo, e hassia vestire della pelle degli altri animali, a procacciarsi il cibo, e a fabricare le case, dov'ei possa difendersi da quegli incommodi che arrecano seco le varie stagioni de'tempi. Vedete ancora di poi, in quanto all'anima, che gli bisogna apparare molte cose, se non necessarie allo essere, almanco al bene essere della sua vita, senza le quali ella sarebbe misera e infelice. Il chenon avviene a gl’altr’animali; perciò che ei sono vestiti dalla natura, e per tutto truovano i cibi convenienti alla lor vita; e senza alcuno maestro, ma solamente da naturale instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa loro di mestieri a conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di fare i suoi figliuoli, sa per natura fare il nido; e di poi, veggendogli nati ciechi, va a cercare la celidonia per guarirgli. E le formiche similmente sono da lei spinte, quando i frumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e riporgli nelle lor buche. CHE BISOGNO ADUNQUE HANNO GL’ANIMALE DI “PARLARE”? Chè, seei sono d'una specie medesima, hanno bisogno di sì poche cose, e tutti a un modo, e son spinti dalla natura a cercarle: e se ei sono di varie specie, non convengono insieme. MA ALL’UOMO È EGLI CERTAMENTE NECESSARIO; imperò che egli ha bisogno di tante cose, e quanto al corpo e quanto all'anima, che nessuno se le può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il che a gl’altr'animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a cercare. 3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno.  si saria potuto FARE SENZA QUESTO MEZZO DEL “PARLARE”, con il quale l'uno possa manifestare all'altro i suoi bisogni [GRICE – “to influence and being influenced,” to “cooperate”]; e per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo, come quella che non manca mai nelle cose necessarie. E però è qui chiamato dal Poeta IL PARLARE OPERAZIONE NATURALE dell'uomo, cioè necessaria alla NATURA sua. E se alcuno mi opponesse, dicendo che ci sono an cora de gl’animali che parlano [GRICE – Prince Maurice’s Parrot], si come gli storn e gli, le gazze, i papagalli, e non solamente l'uomo, si risponde che il loro NON È PARLARE, ma è una imitazione di voce; imperòche ei NON INTENDONO ciò che ei dicano, e dicano sempre quelle parole che egli hanno nell'udire imparate, o a proposito o no ch'elle si sieno. E se alcun altro dicesse: Come di tu che il parlare è solamente dell'uomo? Non abbiamo noi nelle sacre lettere, in molti luoghi, ch'e'parlano ancora gli angeli? Dico che il parlare non s'appartiene all'angelo, come angelo. Imperò che gl’angeli sono spiriti, e sono loro manifesti i concetti l'uno dell'altro. Ma se eglino alcuna volta parlano, ei lo fanno per manifestarsi A NOI e per bisogno nostro, e hanno preso corpi, dal ripercotimento dei quali hanno formate le voci o vero suoni, e con la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come ei fecero nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti naturali fa la voce, e l'angelo la termina e fa significativa. Avete dunque veduto come il parlare è solamente dell'uomo, e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale. Della qual conclusione io probabilmente cavo una particular lode della nostra lingua; e questa si è, ch'ella è più propria all'uomo, che alcun'altra che si parli.E che questo è ilvero, lo pruovo così. Tanto quanto una operazione è all'uomo più propria e secondo la sua natura, tanto gli è anco più facile e men faticosa. Il parlare nostro gli è men faticoso e più facile che alcun altro; a dunque gli è più proprio, e più secondo la natura sua. E che La 1a T. ha: imperò che ei non intendono ciòche ei dicano, che è il proprio del parlare. E che ei sia il vero, avvertite che e' dicono sempre quelle parole ecc.  i La fa T.,che mai non manca. ? La 1a T., gli storni.   Questo siailvero, ponetemente che nessuna lingua è più facile a imparare, che la nostra. Pigliate uno che non sappia altra lingua che la sua, e menatelo in Turchia, nella Magna, fra spagnuoli, francesi o schiavoni, o tra quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi vedrete (e questo ne dimostra l’esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si voglia lingua tanto in uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il che non avviene per altro, che per la facilità d'essa, e per la proprietà ch'ella ha con la natura umana. Un'altra cagione si puo forse ancor dire che è quella, per la quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa si è, per avere TUTTE LE SUE PAROLE CHE FINISCONO IN LETTERE VOCALI; le quali per essere, come scrive Macrobio, quasi che NATURALI ALL’UOMO, si mandon più facilmente alla memoria che l'altre, e ancora più lungamente si ritengono.Donde nasce forse ancora quella maravigliosa bellezza ch'ella ha, scrivendo Quintiliano, che quante più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il suo suono. Seguita Adamo il parlar suo; e per confermazione delle cose ch'egli ha dette adduce per esemplo, che innanzi ch'ei morisse, gli uomini mutarono il nome a Dio; e dove prima lo chiamano Uno, gli posero nome El. Nelle quali parole ei fa quella bella argomentazione che i logici chiamano a maiori; la quale io credo che noi potremo ? chiamare dalla parte più importante. Fa dunque Adamo questa argomentazione, per volere provare che la sua lingua manca, dicendo: Se Iddio, il quale è sola mente stabile e immutabile in tutto questo universo, a mio tempo muta nome, che credete voi che facessero l'altre cose, le quali sono in sempiterno moto e continuamente si variano? Di poi dice che noi non ci debbiamo maravigliare diquesto; con ciò sia cosa che l'uso umano continuamente si muti e si varii in ciascuna operazione nostra. E assomigliandolo alle frondi, fa una comparazione tanto dotta e tanto bella, che io  1La1aT.,ei fa una argomentazione. 2 Così le stampe; ma forse la lezione vera ha da essere potremmo. 3La 1aT.ha solo: conciòsiache l'uso umano continovamente si muta. Pria ? ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e discendessi nel Purgatorio, o vero nel Limbo, dove andano tutte l'anime di coloro che crede vano l'avvenimento di Cristo. Ambascia è quell’infermità che i Greci e i Latini chiamano asma, e ancora da noi toscanamente si chiama asima; la quale è una difficultà di alitare, che, secondo Aezio nell'ottavo, nasce dall'avere ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo spirito a rinfrescamento del cuore), e ripieni di materie grosse eviscose; o veramente nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro De'luoghi infetti dice ch'ella può ancor procedere da infiammazione di cuore; e dà lo esemplo di coloro che hanno la febbre, e di coloro che si sono affaticati nel correre, i quali, per avere acceso il calore nel cuore ed eccitatolo, 'patiscono questa difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in luoghi che non abbino esito, o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa difficultà, si dice per similitudine che gl’hanno l'ambascia. Ora perchè il Limbo, come voi avete d’ALIGHIERI (si veda) medesimo, è un luogo appiccato coll’Inferno nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra, per esser ripieni di vapori, che il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà, dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè, al Limbo tra gl’altri santi padri. Questo luogo ancora nelle sacre lettere è chiamato il seno di Abramo; e la cagione è, perchè Abramo è il primo, che lasciati gl'idoli venissi al cultos  perme non sapre iche altra lode dar mele, se non dire ch'ella' è d’ALIGHIERI (si veda). Perciò che io non ho mai visto ancora autore alcuno che in questo l'avanzi. Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc. ? Malela2aT., Prima.3 La 1a T., di materia grossa e viscosa. La 1a T., escitatolo. 5 La 1a T., venne al vero culto.   di Dio; onde gl’è promesso che del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo. E però coloro che muorono, andando in questo luogo, si dice che gl’andano a riposarsi nel seno d’Abramo, cioè nella promissione che è data da Dio ad Abramo. Dice adunque Adamo: pria ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio, donde vien la letizia che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine (imperò che, come noi abbiamo in San Giovanni al XVII capitolo, altro non è vita eterna che vedere Iddio), è chiamato dagl’uomini uno. Il quale nome gl’è posto da quegli per similitudine, e per alcune proprieta di che ha l'unità con Dio, sìcome è, essere semplice, indivisibile, non essere numero, ma principio di tutti, e mantenere tutte le cose in essere; perchè, come voi avete da BOEZIO, tanto è una cosa, quanto ella è una; le quali tutte cose sono in Dio. Imperò che egli è semplice e indivisibile; non è alcuna di queste cose che noi veggiamo, ma principio di tutte, e mantienle in essere continuamente; e molte altre proprietà simili al l'unità, come si legge nella dottrina pitagorica di CROTONE. E però gli posero gl’uomini questo nome uno; perchè non potendo porgli nomi che significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il padre, se non il Figliuolo, come noi abbiamo in San Matteo allo XI), gli poneno di quegli che significano? qualche sua proprietà. Di poi, lasciando questo nome Uno, lo chiamarono El, cio è Dio; il quale nome gli è ancora posto per una proprietà sua. Imperò che considerando gl’uomini la maravigliosa potenza dell’opere sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritrovando infra l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superi quella delfuoco. Onde dice il testo: Elle si chiamd poi. Avvertite che tutti i testi che io ho vistidicano: Eli sichiamo poi; il che non può stare; imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1 La 28 T., ha ; ma la lezione è mal sicura, poiché il passo nella stampa è guasto, e potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a detta edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano. La fa T., significavano.  donde la sentenza non quadrerebbe a dire: ei si chiama poi Iddio mio. Anzi si chiama El, che vuol dire Iddio. E per fare il verso intero disse Elle, e non El, come ei deve; e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usa nel purgatorio lo m, dicendo: Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El è ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è a dire El, quanto potente e conservatore. E per questa cagione una gran parte degli angeli, per essere stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni verso, hanno incluso nel nome loro questo nome di Iddio EL; nè senza quello si possono nella ebraica lingua proferire, si come è GABRI-EL, che vuol dire grazia o vero virtù di Dio, RAFFA-EL, medicina di Dio,e così va discorrendo de gli altri. La qual cosa non è senza gran misterio, come potrà ben vedere chi vorrà diligentemente esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'universalissimo Agrippa. Di poi seguita il testo: eciò conviene, e questa è cosa conveniente. Però che l'uso umano dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i costumi dei mortali alle fronde. Imperò che, come voi sapete, le fronde si generano e cascano da gl’alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre stelle, appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì come noi abbiamo a sufficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano secondo la disposizione che il cielo induce nei nostri corpi. E questobasti per dichiarazione di questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi c'ingegneremo di sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete prestata; della quale sommamente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The issues Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman ethnicity – yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua latina’ – or ‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ – never to ‘I latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the fioreusciti fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua fiorentina – but he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua napoletana is quite a different thing, since he himself cared to translate from ‘lingua napoletana’ to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into Toschani (thus spelled) --. And here comes the myth which some have called evangelist. Etruria as the cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as the ‘lingua primigenia’. Gelli is clear about the nature of language – made for ‘uno possa manifestare all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the dialogic form, of a cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone, he asks. They are different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua he thought was the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani are not Romani – and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords: sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua, lingua, lingua, Grice on English, idiolect, dialect, Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la lingua fiorentina -- accademia agl’orti oricellar, la lingua dei romani, le regole nella PROSA di Cesare e Cicerone, le regole nel tempio di Ennio, Glauco, Svetonio, e Tacito, Virgilio, Alighierii. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gellio:  la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “At Oxford, ‘stoic’ is in the lips of every historian of philosophy – but few use that lovely Roman metaphor: porch, which is what ‘stoa’ literally means!” Keywords: potico. Filosofo italiano. Arriano dedicated the discourses of Epitteto to G., who presumably takes at least an interest in the Porch. Lucio Gellio. Gellio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gemmis: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del console – filosofia terlizzese – filosofia barese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Terlizzi). Abstract. Grice: “We don’t do philosophy of history at Oxford, since being a ‘philosopher of X’ is considered a term of abuse here!” -- Keywords: storia, filosofia della storia. Filosofo italiano. Terlizzi, Bari, Puglia. Grice: “I love Gemmis.” Grice: “Gemmis is a good example of how an Italian philosopher differs from a philosophy don at Oxford – ‘don’ is derogatory; whereas de’ Gemmis is a barone! – And he writes about ‘reason,’ ‘ragione’ – with Abate Genovesi --; unlike a ‘don’ at Oxford who would over-do reason to keep a post at his college!” – Grice: “In them days, Italian illuminists took reason very seriously, and possibly ‘light,’ too!” Ferrante de Gemmis (Terlizzi), filosofo. Figlio del Barone di Castel Foce Tommaso de G. Si trasfere in Napoli affidato al pro-zio, dove studia dai più prestigiosi precettori. Allievo di GENOVESI (si veda), di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Si laurea a Napoli, si introduce negl’ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo erede universale. Morto il pro-zio, e nominato a Cava de' Tirreni. A Terlizzi si dedica ai suoi studi di filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi l'esponente primario dell'illuminismo. Istituì una gruppo di gioco, vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca filosofica e di attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione reale perché sospetto centro di idee liberali, il gruppo di gioco dovette chiudere, ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento di GENOVESI. Governatore de promosse il riscatto della città dal diritto di molitura che ha la duchessa di Giovinazzo. Fonda il Conservatorio delle Orfanelle a la scuola con reale approvazione. E inoltre incaricato da Ferdinando I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, che fu divisa in tre ceti in base ai ranghi. Srive saggi filosofici e una “Tavola di Storia della Filosofia” (Napoli, Soc. Letteraria). Gaetano Valente Feudalesimo e feudatari Terlizzi nel Settecento, Molfetta, Mezzina, Cabreo de G., Biblioteca Provinciale G., Bari Ruggiero Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli  meridionali, Gangemi, Roma.  FERRANTE DE G. Figlio di Tommaso de G. Si trasfere nella capitale affidato al pro-zio, dove studia grammatica, eloquenza latina, logica, e matematica dai più prestigiosi precettori. È anche allievo di GENOVESI (si veda), di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Laureatosi a Napoli si introduce negl’ambienti più esclusivi della corte partenopea, essendo istituto erede universale. Nominato dal Re a Cava de' Tirreni. ATerlizzi si dedica ai suoi studi di filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi esponente primario dell'illuminismo della regione. Istituì una gruppo di giocco a Terlizzi, vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca filosofico e di attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione reale perché sospetto centro di idee liberali, il gruppo dove chiudere ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento di GENOVESI. Ha un grave incidente per la caduta da un calesse, per cui subì una difficile operazione e a stento salva la vita. Governatore di Terlizzi e promosse il riscatto della città dal diritto dell'ius moliendi, diritto di molitura, che aveva la duchessa di Giovinazzo. Fonda il Conservatorio delle Orfanelle e apre una scuola con reale approvazione. È inoltre incaricato da Francesco I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, divenuta regia. Scrive numerose saggi filosofici, e una "Tavola della storia della filosofia” pubblicato a Napoli nella stamperia della Soc. Letteraria. Ne scrive la biografia Bisceglia pubblicata nel "Dizionario degli uomini illustri del Regno". Muore a Terlizzi, largamente stimato, ed e sepolto nella cappella nobiliare de G. di Terlizzi. Ferrante de Gemmis. Gemmis. Keywords: il console, tavola cronologica della storia universal, vita e opinione, prejudici e predilezioni- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gemmis” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gennadio: la ragione cnversazionale e il divino -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Marsiglia). Abstract. Grice: “Unlike the English, most of whom know very little about the etymology of ‘soul,’ the Italians take diachrony very seriously. As they point out, the masculine form, ‘animus’, is strictly more correct than the femine form ‘anima’ and then there’s ‘pneuma.’ In my Method in philosophical psychology, while I focus on a PSYCHO-logical theory, and PSYCHO-logical concepts – notably psychological verbs – I do not consider the very question of the ‘soul’ itself!”  Keywords: soul, animus, anima, pneuma. G. argues that what he calls ‘the divine’ is the only incorporeal being, but that every soul -- and indeed every angel -- is material. Gennadio. Keywords: animus, anima, pneuma. Luigi Speranza, “Grice e Genadio,” pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Spearnza -- Grice e Genovese: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della tribù – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese --filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Abstract. Grice: “I soon found out that ‘pure,’ ‘reine’, as used by Kant, was a ‘trouser’ word, in Austin’s artless sexist idiom: it meant nothing!” Keywords: ragione pura. Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of ‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice: “Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!” Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with ‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della rivista.  Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in “Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno” (Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse per la teoria dei sistemi.  La forma compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Boringhieri), e:Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino, Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca hegeliana.  Questa linea è approfondita, in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo, nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere” (Napoli, Cronopio),  a tutt’oggi la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi” (Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva” – keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma, Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto, insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis). Altre saggi:  “Modi di attribuzione” (Napoli, Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto). “L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a G., le Giulio Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. G. è quasi costretto non semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili, indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un  filosofo, senza che mai si possano individuare luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il sopravvento. Le due leggende troiana e romulea. Il primo popolo, ossia i Ramni, i Tizii e i Luceri. La plebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia tradizionale romana da Perizonio, con le sue Animadversiones historicæ, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers siècles de l'histoire romaine, saggi che si succedettero alla distanza di mezzo secolo, la critica, che rimane negletta nell'evo antico e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi, comparve un elemento necessario nello studio di quella storia tradizionale. E di quei due critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima. La prima edizione delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam, e quella della Dissertation beaufortiana ad Utrecht. Storia di Roma narrate da BONGHI (si veda), Manifesto di BRIOSCHI (si veda), GIORGINI (si veda), e MINGHETTI (si veda). Questi tre signori recano il seguente giudizio sulla Storia Romana di NIEBUHR: Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera di Niebhur (sic) è fatta col sentimento che vi domina, non tanto per dare una nuova direzione allo studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore. Questo giudizio dimostra che gl’autori del manifesto non sono storici. Ma appunto perchè non sono tali, avrebbero potuto astenersi dal profferire sul fondatore della critica storica moderna un giudizio che di là dell’alpi fa un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudizio degli scrittori del manifesto, contrapponiamo quello di Savigny e di Schwegler, la cui competenza insiffatto argomento non èscono sciata da alcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”, così parla della storia romana di Niebuhr. L'opera di Niebuhr ha impresso alla trattazione della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Charakter verliehen. Essa ha inalzato l’ideale della storiografia e fissato l'indirizzo di ogni ricerca nel campo. Rivista di Storia Italiana. Origini Romane. I critici: loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen, BONGHI (si veda).  I.  ragione, a parer nostro, di Niebuhr; che, cioè, questi si propone più d'inspirare l'amore allo studio delle antichità romane, che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera di Niebuhr mira soprattutto a questo secondo scopo. Quanto all'altro, del destare l'interesse per lo studio delle antichità, esso rampolla naturalmente dal primo. Mentre la critica di PERIZONIO e di Beaufort, pel suo carattere negativo, non puo prefiggersi che quest'ultimo scopo. Sebbene però il concorso della critica è, dopo la comparsa del saggio di Perizonio, generalmente ammesso, esso non è usato da tutti secondo l'ufficio suo. E se i più se ne giovarono per rettificare od anche per abbattere del tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in senso opposto, che è a dire, in difesa di essa tradizione. Fra questi ultimi vanno segnalati Kobbe (“Römische Geschichte”), Gerlach e Bachhofen (“Geschichte der Römer), Newmann (“Royal Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire des Romains”). Gl’altri scrittori, e sono il maggior numero, si divideno in due scuole. All'una vanno ascritti i seguaci di NIEBUHR, all'altra i suoi correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi, in mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di Schwegler e di Mommsen. Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo di Schwegler è severamente ANALITICO. Egli espone prima la tradizione in tutti i suoi minuti particolari e con le sue varianti. Poi, nel paragrafo successivo, assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la genesi, e il carattere degl’elementi che concorsero a crearla. In questa diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione. Dopo di avere ben fermato il concetto della “leggenda” e del “mito”, e fissate del secondo le categorie diverse (mito etiologico, mito etimologico, ecc.), egli procede a classificare geneticamente i singoli elementi della tradizione romana, e ci dice quali debbano ascriversi delle antichità romane -- Schwegler (Röm. Gesch.) aggiunge, La storia romana di Niebuhr, opera sotto ogni rispetto classica, non solo da una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche future, alle quali egli segna l'indirizzo e da il più fecondo impulso (Seinerömische   Geschichte, ein grossartiges, in jeder Beziehung classisches Werk, ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss der bisherigen, sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern Forschungen, zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben hat). alla “leggenda”, quali all'una o all'altra forma del “mito”, e quali deveno aversi in conto di storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta classificazione Schwegler coglie sempre nel segno. Ma dobbiamo pur dichiarare che in essa nulla apparisce mai di coscientemente arbitrario; di maniera che si potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gl’argomenti con cui comprovarla, non già perchè gl’argomenti siano stati usati a sproposito. Il saggio di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, rimane, a parer nostro, fino ad oggi insuperata. Il metodo di Mommsen è tutto l'opposto di quello di Schwegler. Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo. Là di esso non è fatto nemmen parola. In luogo della tradizione, abbiamo un racconto ricostruito dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca traccia di siffatto lavoro. Non vi è dubbio che questo metodo presenti maggiori attrattive dell'altro, perocchè escluda ogni processo dimostrativo. Ma appunto perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo segue; e offre più largo campo alle censure. LA STORIA ROMANA di Mommsen ne incontro difatti di vive ed acerbe, sebbene il valore generale della sua opera è da tutti riconosciuto. La polemica suscitata da essa torna poi a grande profitto della critica storica, perchè essa da occasione a Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della storia romana, mercè una serie di monografie storico-critiche, che egli raccolge col titolo di ““Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler trova un am plificatore fra noi, in BONGHI (si veda), e la sua STORIA DI ROMA comparire in luce. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al manifesto dei triumviri che aveano promosso la pubblicazione della sua opera. In questa lettera egli dice, che gli pare strano e VERGOGNOSO che una storia tutta nostra non ha mai ritrovato in Italia chi dopo gl’antichi hanno intrapreso di narrarla. Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non mancano, come non mancarono i critici, e da VALLA (si veda) a VANUCCI (si veda) trovasi una schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno e la dottrina. In questa schiera spiccano i nomi d’ORIOLI, d’UCCELLI, di ROSSI, di CANAL, di CANINA, le cui saggi dimostrano, che noi non ci siamo contentati, come afferma  Bonghi, di tradurre prima Rollin, poi Niebuhr e Mommsen. E se la letteratura nostra mancas pure di codeste saggi, non bastano le pagine inspirate che sulla storia romana dettarono MACHIAVELLI e iVICO, per ismentire il basso concetto che Bonghi reca della storiografia italiana? LA STORIA DI ROMA di Bognhi non contiene sufficiente materia, perchè si puo dire fin d'ora in quale misura l'aspettazione dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando il metodo di Schwegler, premette alla critica storica la critica letteraria della tradizione. All'esame di ciò che vi può essere di storico nella tradizione e della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca della sua forma primigenia. Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto in una selva selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni fatta qualche sentiero non ancora battuto; lo che acuisce il desiderio di avere sott'occhi il saggio che avrebbe dovuto comparire insieme col primo, con la quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, rende meno facile ai lettori di comprendere il suo disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio mi abbia reso in certo modo famigliare questo studio. Dopo il lavoro diligentissimo di Schwegler, a me è parsa meno necessaria quest'opera di gran pazienza e fatica, come l’autore stesso chiama e con ragione, l'esame minutissimo cui sottopose la tradizione. E perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel saggio pubblicato, ma qua elà egli è indotto dallo sviluppo della sua analisi, ad entrare nel merito storico della tradizione, la separazione della seconda parte dalla prima è ancor più deplorata. Senza di essa noi avremmo, per esempio, chiarito subito la teorica, con la quale l'autore chiude il suo discorso sulla leggenda di ROMOLO, e che messa fuoriamo di assioma storico, a noi è parsa mancante della necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole stesse dell'autore. Del rimanente, è necessario, dic'egli, tenere ben distinte queste tre dimande. Prima, se una leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene pero l'Italia fa il dover suo in questo importante studio, ciò non iscema l'interesse che desta nei dotti la comparsa di un'opera, dettata d’una mente che della sua grande potenza da saggi copiosissimi nelle discipline più svariate. la storia è stata. Terza, come la leggenda è nata. Noi abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda, se ci si prova che debba essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi molto più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne abbiamo il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla terza. Come si vede, questo giudizio riesce al quanto oscuro, particolarmente perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può misurare il valore. Che cosa intende BONGHI per “leggenda”? Ciò che noi chiamiamo “leggenda”, i tedeschi chiamano “sage.” Ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un solo ne è il concetto. Ora il concetto della “leggenda” è questo. Cioè, il ricordo d’un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per modo da imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della “leggenda” è adunque storico. Il “MITO,” invece, è tutt'altra cosa. In luogo del FATTO STORICO che costituisce l'essenza della leggenda, nel “mito” abbiamo come elemento essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. ORA, NELLA TRADIZIONE ROMANA, LEGGENDA E MITO TROVANSI MESCOLATI INSIEME, e il lavoro della critica consiste in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagl’involucri che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto da BONGHI nel primo saggio, e già tentato da molti. Ed è in esso che apparirà nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Ed ecco la ragione che BONGHI dà di questa fermata. Succede, dice BONGHI, non addirittura il primo fatto certo della storia interna di ROMA, ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore, è, se mi si permette la parola, preformata. L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per ciò che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che sicuro. Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono: la fondazione del tempio federale di Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno di Servio Tullio: il trattato  federale stipulato da Tarquinio il Juniore coi Sabini: il primo trattato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con Cartagine subito dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi sono i fatti, che si ponno chiamar certi, perchè qualcuno degli storici maggiori dichiara di AVERE VISTO il documento originale in cui sono consacrati. Tale qualifica non può essere data alla lex publilia, il cui contenuto forma ancor oggi obbietto di disputazioni fra i critici. BONGHI (si veda) ci dice fin d'ora com'egli spiega il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire con quali nuovi argomenti egli suffraga una opinione, che oggi è abbandonata dai più; e cioè, che prima della lex publilia i tribuni della plebe sono eletti in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex publilia, e rimandiamo il lettore a quel nostro saggio, non essendo il caso di ripeter qui ciò che scrivemmo altrove. Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il fatto è quello dei fatti certi più antichi di Roma, che spiega tutta la sua storia anteriore. Aspetto di avere la dimostrazione di questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della creazione del tribunato della plebe, da cui tanto la lex publilia, quanto le successive leges tribuniciæ e manarono come prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane origini, è come avvenne l'innesto della leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da fonti diverse. E mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena del suo racconto, LA TROIANA È INDUBBIAMENTE IMPORTAZIONE STRANIERA. Però non tutti gl’elementi di questa seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento che l'eroe troiano pone piede nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione con le popolazioni indigene, facendogli imprendere una serie di guerre coi latini, sabini ed etruschi. Ora, se tolgasi il protagonista che è un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente elementi storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e da Dionisio, sono segnalati e lumeggiati dall'autore dell’Eneide. Infatti, mentre presso i due primi, le lotte combattute d’Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe. Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la proporzione di una guerra di stirpi italiche, in cui sono adombrati gli sconvolgimenti politico-sociali onde il Lazio è teatro nella età pre-romana. Quel TURNO (si veda) he negli altri racconti figura come capo dei rutuli, nell’Eneide” comparisce come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli di diversa stirpe. Alla sua chiamata accorrono i guerrieri di Laurento, Ardea, Antenne, Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gl’aurunci, i volsci, i sabini, i falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il consiglio d’Evandro, rivolgesi ai tirreni, i quali sonosi di recente liberati dal tiranno Mezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E colloro ausilio, conquista Laurento. Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessa d’Enea, chiaro apparisce il contenuto storico di esso. Ivi troviamo adombrati, da un lato, i progressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla servitù straniera. Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii non pure nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte avuta nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Settimonzio. Così per mezzo di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei sabini sul quirinale e sul capitolino, completando la tradizione romana, il cui contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii, consiste nel presentarci i due popoli, latino e sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul settimonzio, e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi imperanti nella Campania; prima di arrivare nella valle del Volturno, essi hanno dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire, il LAZIO. Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua libertà. L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli strappa dal capo il lauro dei prodi. MA L’ENEA ITALICO È UN MITO; TURNO INVECE È PERSONA RIMASTA VIVA NELLA TRADIZIONE di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la critica storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE ITALICO, e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'è parsa fuori di luogo, veniamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due leggende, tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non -- Ennius dicit Iliam fuisse filiam ÆNEÆA quod si est Aeneas arus est Romuli Servio, ad Æn.] sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la boria destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini, a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di instituti e di consuetudini di antiche che si trovano esistenti da tempo immemorabile, senza che è stato riferito ab antiquo come sono nate, la fondazione di Roma èsi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire, per mezzo di un fondatore eponimo. Una città che nomasi ROMA, dove adunque, secondo il concetto dell'antichità, avere per fondatore un ROMO, progenie divina al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi è serbata questa tradizione semplice della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è indub la conoscenza al grammatico FESTO, che la tolsg dallo storico Antigono. Antigonus, italicæ historiæ scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove conceptum urbem condidisse in Palatio, Romæ eique dedisse nomen. Così Festo all'articolo Romam. La tradizione romulea, nella quale l'eponimo “ROMO” diventa “ROMO-LO” e gli è dato Remo per fratello, e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei Silvii che regna ad Alba Lunga e ripete la sua origine d’Enea. Questa tradizione è dunque ignota all'antichità. Lo stesso ENNIO non la conosce che in uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla MADRE di Romolo, ILIA, Enea per padre. Pero, il concetto inspiratore della leggenda è già nato col poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne questa sovrapposizione della leggenda troiana alla romulea? La ragione psicologica del fatto è data già da VICO in quella boria delle nazioni, le quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la capitale cagione che induce i romani, quando andano in cerca di origini fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea. Ei la attribuisce alla fama strepitosa che ha per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema d’Omero e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fa per correre al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale è la causa inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altr’impulsi. Quando il senato romano, verso la fine della prima guerra punica, intervenne nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua intromessa in favore dei secondi, osservando che gl’acarnani sono il solo popolo greco, il quale non partecipa alla guerra contro I TROIANI PROGENITORE DEI ROMANIi, è l'orgoglio nazionale che ispira quella dichiarazione. Similmente, quando il senato accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi per condizione che liberasse i troiani da ogni tributo; e quando Flaminino, nel presentare i donativi dei Romani ai Dioscuri e ad Apollo, chiama i suoi concittadini col nome di ENEADI, è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma allorquando la politica militare di Roma produce in seno altri fattori vanno considerati. E, soprattutto, la parte che nella propagazione della leggenda d’Enea in Italia hanno le numerose colonie greche dell'Italia meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più antica e la più vicina al LAZIO, è di provenienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche divenneno al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea dei naviganti, con cui la leggenda d’Enea è intimamente collegata, cosi l'oracolo della Sibilla cumana divenne il centro propagatore dei fausti vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite conforta nel suo esilio la famiglia degl’Eneadi. Già nell’Iliade è fatta allusione a quei vaticinii, dicendosi che la famiglia d’Enea è serbata ad un nuovo e splendido avvenire, mentre quella di Priamo è stata destinata alla perdizione. Ora, in questa promessa di un glorioso avvenire serbato alla progenie d’Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama delle due leggende troiana e romulea. Roma costitui se stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e dichiara avvenute in se stessa le promesse fatte ai discendenti d’Enea. Già ENNIO presenta in questo modo il fatto, dicendo che Troia è risorta in Roma, e non anda guari che la repubblica innalza a domma nazionale l'origine troiana della potente metropoli. alla Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la maestà quiritaria che è in bocca a tutte le nazioni straniere, ed è oggetto di terrore e di riverenza universale, scomparve dal popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passa in seconda linea per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato d’un usurpatore. Il grande anello di congiunzione fra la leggenda d’Enea e la dinastia dei Cesari è quel famoso IVLO, che comparisce nella genealogia degl’eneadi, or quale figlio, or quale nipote d’Enea. E cosi nell'uno, come nell'altro grado, semba èvi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che è sorto il giorno di loro grande fortuna. Infatti, gli scrittori più antichi della leggenda non conoscono quel nome, sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio d’Enea, chiamandolo ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda quello della patria ILIO, suggere l'idea della finzione genetica, ed ILO diventa facilmente IVLO progenitore degl’IVLII. Ciò spiega il fatto del comparir di quel nome per la prima volta nei filosofi cesarei. Co mun quesia dell'origine sua, venne un giorno che il popolo romano apprende per bocca di Caio GIULIO CESARE, ch'esso ha nel suo seno una progenie di celesti, e che dalla morte di Romolo in poi essa cammina fuori del diritto divino, nel cui sentiero è ora chiamato a ritornare. Il giorno in cui GIULIO (si veda) Cesare, essendo questore, recita dalla tribuna del foro il panegirico di Giulia, è decisivo per le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo stupito, che la sua famiglia è d’un tempo progenie di dèi edire. AMITÆ MEÆ IVLIÆ MATERNVM GENVS AB REGIBVS ORTVM PATERNVM CVM DIIS IMMORTALIBVS CONINCTVM EST NAM AB ANCO MARCIO SUNT MARCII REGES QVO NOMINE FVIT MATER A VENERE IULII CVIVS GENTIS FAMILIA EST NOSTRA EST ERGO IN GENERE ET SANCTITAS REGVM QVI PLVRIMVM INTER HOMINES POLLENT ET CÆRIMONIAS DEORVM QVORVM IPSI IN POTESTATE SVNT REGES. Quando GIULIO CESARE recita questa orazione non fa ancora il suo ingresso nella politica militante, comecchè ha già coperto parecchie magistrature. Ma l'uomo che osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e proclamare la origine divina della sua famiglia, ha già intuito il futuro e divisato di rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno, infatti, lo vediamo stretto in lega con Pompeo, e SVETONIO, Cæs ., avviato a compiere il cammino trionfale che da Farsaglia lo conduce a Munda, e mette nelle sue mani l'impero del mondo. Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta per antichità la leggenda semplice, riferita da Antigono, che Roma ha per fondatore un eroe eponimo progenie di celesti, e cioè, che è nata nello stesso modo in cui l'antichità si figura l'origine di tutte le città greco-italiche: che la leggenda romulea, sebbene nata sul suolo romano, mostrasi nelle sue parti essenziali come il prodotto di una invenzione riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti e di consuetudini antiche che si trovano esistenti da tempo immemorabile, senza che è stato riferito come avessero avuto nascimento: che la leggenda troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli oracoli sibillini, è introdotta nella leggenda romulea, quando la boria destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini fastose da sostituire alla origine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come la discendenza d’Enea è stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo conquistatore, cosi essa e scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non meno interessante della fusione delle due leggende troiana e romulea, per mezzo della quale si spiega l'origine della città di Roma, è quello che concerne la formazione del suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione in un modo semplicissimo. Romolo, dopo che ha per la morte di Tito Tazio raccolta nelle sue mani la sovranità sui socii sabini del Settimonzio, parti il popolo in TRE TRIBÙ, e pose a ciascuna il nome del duce che ha la capitanata. Ai suoi pose pertanto il nome di ramnenses; ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a quelli di Lucumone, che halo aiutato nella guerra contro i Sabini, il nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne attribuisce una propria a ciascuna tribù. I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini; i Titienses di Tazio sono Sabini, e i Lucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però, se la tradizione è concorde rispetto alla origine dei due primi nomi, non lo è rispetto a quella del terzo. Il Lucumone di CICERONE (si veda) diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di Ardea. Queste varianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa codesta tradizione. LIVIO (si veda) se la sbriga, dicendo il nome dei luceri “DI INCERTA ORIGINE.” Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine dei luceri, LA FILOLOGIA DICHIARA IMPOSSIBILE LA DERIVAZIONE DEI RAMNI DA ROMOLO, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei nomi è cosa di poco interesse, quando ad essi non si annette la origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il nome della terza tribù romana, si è prodotto come testimonio dell’origine etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione romana usce fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, ed è quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi abbandonata, e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza etrusca dei Luceri, non arrestando sia questo resultamento negativo, ha pur risoluto positivamente la questione, dimostrando che i Luceri devono essere tenuti in conto di una schiatta latina; onde la nazione romana è stata composta di due elementi etnici omogenei, il latino e il sabino, ramificazioni entrambi del gran ceppo italico, che [Prima della pubblicazione della Storia Romana di SCHWEGLER, l'origine etrusca dei luceri era ammessa dalla maggior parte degli storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte der römischen Staatsverfassung, USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm, Römische Geschichte, BECKER, Handbuch der römischen alterthümer, WALTER, Geschichte des römischen Rechts, SCHÖMANN, De Tullo Hostilio, PUCCELLI, Altreviste sugl’antichi popoli italiani, Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir., L'origine latina, anzi albana, dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte, da SCHWEOLER, Römische Geschichte, da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung des Servius Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer, Mommsen si limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere la origine latina dei luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären), sagen, als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine latinischeque Glelmaeidnidaendare in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e dice che è fatica sprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione nuova a quella degl’antichi, Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere chiarito il significato del nome di questa terza tribù. LVCERE vuol dire risplendere. Luceri equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben si addice alla nobiltà d’Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria, è trasferita nel Settimonzio ed ha per sua stanza il celio. Cid dimostra, a  immigro in Italia dopo iljapigicoe prima dei raseni. Noi diremo gl’argomenti coi quali si impugna la origine etrusca dei Luceri. Indi ci faremo a dire quelli coi quali si dimostra la loro origine latina, e la loro provenienza d’Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la origine etrusca dei luceri non è che una mera presunzione, mancante di una tradizione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali, che passati sotto il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati è somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza tribù e quello di LUCUMONE, che è titolo gentilizio e dignitario presso gl’etruschi. E come il nome del colle celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce etrusco per nome CELE Vibenna, il quale, secondo alcuni (VARRONE (si veda)), altempo di Romolo, secondo altri (TACITO (Ssi veda)), al tempo di Tarquinio Prisco, èsi stabilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio. Cosi il nome luceri che portano gl’abitanti del celio si spiego per mezzo del titolo di Lucumone che porta il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in quanto che è desunto dall’ubicazione geografica di Roma, quasi che il fatto deltrovarsi Roma in mezzo a tre schiatte diverse, generar dovesse necessariamente l'effetto, che essa compone la sua cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi sono rappresentate tutte proporzionalmente. A questo concetto subbiettivo si contrappone vittoriosamente per ciò che riguarda il contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo che gli’etruschi sono caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Tevere cessa di essere un confine politico. In verità, che se gl’etruschi hanno dato a Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto divenne uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica dei due stati, romano ed etrusco, quanto alla DIFFERENZA DI NAZIONALITÀ, avvertita e VIVAMENTE SENTITA NELLA LINGUA, nell’istituzioni politiche e civili, e nei costumi dei romani. Ma se i dati estrinseci su cui è eretta l'ipotesi della origine etrusca dei luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità. Queste prove si de sumono DALLA LINGUA e dalla religione dei Romani. È ovvio, che se gl’etruschi danno un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso LA LINGUA LATINA dove somministrare la chiave per decifrare l’inscrizioni etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da assumere il carattere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due diversi organismi. Ma NÈ IL LATINO AIUTA A SPIEGARE L’ETRUSCO, nè nella costituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di miscele eterogenee; chè, anzi, LA CARATTERISTICA PECULIARE DELLA LINGUA LATINA È LA STRAORDINARIA UNIFORMITÀ DELLA SUA FORMAZIONE. Lo che attesta la uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle istituzioni religiose di Roma. Se i luceri sono stati una tribù etrusca, la religione romana contene traccie di divinità e di culti etruschi, come ne presenta di divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle due prime dove avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi culti, come ciò è avvenuto prima fra i ramni e i Tizii, ossia fra latini e Sabini. ORA, LA RELIGIONE ROMANA NON PRESENTA UNA SOLA DIVINITÀ E UN SOLO CULTO CHE VESTA UN CARATTERE ETRUSCO. Anche lo stato d'inferiorità, in che, rispetto alla tribù dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei luceri, portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco esclusi dal senato, contraddice alla ipotesi che i luceri entrassero fin dal l'origine di Roma a formar parte del primo popolo, e compissero di questo la compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e naturale, quando ammettasi che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore aggregazione dei luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio. Hinc taties ramnesque viri, luceresque coloni. Non mancano poi le prove dirette, dimostranti che i luceri, oltre ad esseretrati posteriormente nel consorzio dei romani e dei tizii, sono pure di origine albana. LIVIO (si veda), parlando degli stanziamenti condotti dal re Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegn ai vinti latini per sede quel colle, perché gli altri quattro -- il PALATINO, il CAPITOLINO, il QUIRINALE e il CELIO (il Viminale e l'Esquilino sono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) sono già popolati. E cioè, il colle palatino dai romani primitivi, ossia dai ramni. E il capitolino e il quirinale dai sabini, e il celio dagl’albani. Ora, se questi ultimi hanno per loro stanza il celio, non saprebbesi davvero dove collocare i luceri, quando non siammettesse che i luceri e gli’albani sono la stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei luceri, ha messo in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi etnici, anzichè di tre, il latino, cioè, e il sabino.Questa composizione spiega il carattere che distingue la nazione romana dalle altre nazioni italiche. Questo carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che pareno fatte apposta per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceve la frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il duro cemento che i sabini apportano all'edifizio romano. Se nel sabino prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il secondo non è radicale. E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina deriva quel lento, ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che forma di essa la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le tribù dei ramni, dei tizii e dei luceri non formano tutto il popolo romano. Accanto a loro comparisce, come parte costitutiva di esso popolo, la plebe, la quale, dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo popolo, ossia dal PATRIZIATO, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a seguire la sua via. Ora, come sorge questo ceto sociale? Ecco il  problema che ci proponiamo di risolvere in questo nostro lavoro. I romani non sono ignari di questo prezioso patrimonio che hanno ricevuto dai sabini. Ce lo attesta CATONE (si veda) per bocca di SERVIO. Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur les principaux événements del'histoire romaine, Paris. La quistione dell'origine della plebe e studiata particolarmente da STRESSER,Versuch über die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO (si veda), Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier und Plebejer, Leipzig, lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte, Frankfurta. KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom Ursprunge bis zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER, Römische Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu plebejorum Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae. Lange, Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische Alterthümer, Berlin. Gli storici antichi sono affatto all'oscuro intorno il fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero è che la plebe èsi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il patriziato. Da ciò la definizione negativa che essi dano della plebe, chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciæ non insunt. Per qual via poi l'antagonismo è nato, o in altri termini, come la plebe ha origine, ciò essi riguardano come una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda l'idea che è mai esistito uno stato romano senza plebe; onde per loro è un assioma, che patriziato e plebe sono nati e cresciuti insieme collo stato romano. Contro questa presunzione sta però il fatto, non considerato, della condizione giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del patriziato, la quale attesta che essi non sono nati insieme nè allo stesso modo. Accanto alla plebe, trovasi, cioè, nei primi tempi dello stato romano, LA CLIENTELA, caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe ha un carattere impersonale e comprende il ceto nella sua generalità, quella della clientela impegna giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che è ascritto alla gente di un patrono, e da questo dipende. Che se nel giure politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro è assai diversa. Il cliente nè possede del proprio, nè puo stare in giudizio; mentre il plebeo possede su questo campo piena personalità giuridica (civitas sine suffragio). Di guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo divenne il fattore del diritto di suffragio, questo diritto i plebei conseguirono, mentre i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora, questa differenza esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché ritenendo, che l'origine loro è, rispetto al tempo e al modo, diversa. La clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima rispetto alla seconda dimostra che la forza, che crea la sottomissione dei due ceti, esercita sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il cliente conseguire potesse il IVS SUFFRAGII fa mestieri che il dominium, che egli tene come peculium, gl’è assegnato come libera proprietà EX IVRE QVIRITIVM. Il quale atto    equivale in certo modo ad una manumissio censu. Ora, se l'istituzione della clientela è più antica che quella della plebe, è forza cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni ed ai Tizii il dominio del Settimonzio. Gl’abitanti primitivi di quella regione devono avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse, rispetto agli effetti sociali, forte differenza. Se la prima non produce che dei clienti e degli schiavi, le successive produceno particolarmente dei plebei. Già l'interesse politico consiglia i conquistatori a temperare verso i nuovi vinti il rigore dell'antico IVS GENTIVM; e noi non abbiamo memoria della piena applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia. E se alle famiglie imperanti è pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra le genti romane, traducendole sotto la loro clientela, la monarchia dovea opporsi a questo uso della conquista che ha con pregiudizio della regia potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi sono poi questi vinti? SONO LATINI. Apparteneno, cioè, a quella STIRPE che ha coi ramni formato il nucleo della cittadinanza romana. Sono dunque connazionali dei romani. Che se costoro hanno pei vinti Albani tale riguardo, d’ammetterli nel loro consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicano in tutto il suo rigore il diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore è usato, come ci renderemmo ragione del sorgere di questa plebe e della importanza sociale che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi come un potente appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non dimentichiamo che questi plebei son LATINI. La tradizione stessa ci dice quando e per opera di chi i popoli del LAZIO caddero sotto ladizione diRoma. La distruzione d’Alba Longa, e il tramutamento dei nobili albani nel Settimonzio, portano per effetto lo scoppio d’ostilità fra le città latine, erettesi a vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice d’Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli attinge verisimilmente dai Commentarii Pontificum. Rex interrogavit. DEDISTIS NE VOS POPVLVMQVE CON LATINVM VRBEM AGROS AQVAM TERMINOS DELVBRA VTENSILIA DIVINA HVMANAQVE OMNIA IN MEAM POPVLIQVE ROMANI DICIONEM?  Dedimus. LIVIO (si veda) La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia Italiana] egemonia sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto ANCO MARCIO (si veda). Non è dubbio che questi, prima di scendere in campo, approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per rompere il fascio con promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere ragione della sua facile e completa vittoria. Ora che cosa faA ANCO MARCIO (si veda) di questi nuovi vinti? Gli storici antichi ce lo apprendono in modo chiaro. ANCO MARCIO (si veda), dice CICERONE, quum Latinos bello devicisset, adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto di CICERONE, osserva che Anco segue rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum, onde anche allora parecchie migliaia di Latini sono introdotti nella cittadinanza romana. Tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem acceptis. Non cicuriamo del racconto tradizionale, che fa materialmente introdurre da Anco in Roma questi vinti, e assegnare ad essi per sede IL COLLE AVENTINO e LA VALLE MURCIA. In questo racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in contestabile, che l'Aventino è disabitato. Ma lasciando da parte questo particolare, ciò che va considerato nel racconto tradizionale è il fatto della cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti latini. E perchè, nè questa è la prima guerra combattuta vittoriosamente da Roma contro i latini, e nemmeno è la prima volta che della vittoria è fatto quest'uso; ne emerge, e LIVIO (si veda) avvalora l'induzione nostra, che se la conquista d’Anco da il maggior contingente al ceto plebeo, essa non ne inizio la formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio da Schwegler, da Lange e d’altri. BONGHI (si veda), per ora si limita a dire, che non crede che la plebe dove la sua origine ad Anco,e promette, che procura altrove di esporre donde sia nata l'opinione di una condotta rispetto a'vinti nei re di Roma, cosi diversa da quella che per molto tempo appare propria della città nel seguito della sua storia. E perchè insin d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti sul gravissimo tema della ori  [Lo fa abitare la “les Icilia de Aventino publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox., DeRep., Liv.] gine della plebe romana rimane più fortemente sentito. Comunque sia perd dell'opinione di BONGHI (si veda) su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, la quale, oltre ad avere il suffragio delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la romana plebe fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè commerciante nè industriale.Queste arti, che nell'antichità sono assai meno considerate dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente dai clientie dai liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione in più modi. Ora, essa ci dice che SERVIO (si veda) Tullio, per poter avere l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono, chiama in città i rurali, e per bocca di CATONE ci dice che gl’agricoltori formano il nerbo della fanteria romana. Ma un testimonio che serve per tutti, è l'antica istituzione che l’adunanze plebee, ossia i comizii tributi, non si possono tenere che ne igiorni di mercato (nundines), e che ogni proposta di legge dove pubblicarsi III giorni di mercato (tri-nundines) prima di essere messa a partito. Anche la condotta tenuta dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione sua. Gli storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia, verecundia e patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro che attendono alla coltura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e il commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerano in [EX AGRICOLIS VIRI FORTISSIMI ET MILITES STRENUISSIMI GIGNVNTVR -- CATONE, De re rustica, Praef., MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas, ut VIII quidem diebus in agris rustici opus facerent, nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent, et ut scita atque consulta frequentiore populo referrentur, quæ tri-nundino die proposito a singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo all'esposizione di Milano, col titolo L'industria nei suoi rapporti colla civilta. Gli economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro. Quello che agisce sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione non è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellettuale, ogni altro agisce ad un tempo su gl’uomini e sulle cose. Questa duplice azione viene esercitata sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti ritrarremo la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e la libertà. L'agricoltore riguarda la TERRA come fonte unica della ricchezza. Essa è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in pacifico consorzio co'suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra che lo nutre nacque il primo concetto di PATRIA, come dai consorzii generatid all'agricoltura hanno origino i primi stati. Ma la terra non è per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E questo lato misterioso è una sorgente feconda di superstizioni, che egli puo facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia e Demostene, che una notte ricusarono di levare il campo da Siracusa e rifugiarsia  [Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo pertanto le cose dette intorno la formazione della plebe romana, diremo, che sebbene la genesi di quel ceto non puo essere chiarita in tutti i suoi particolari, tuttavia hannosi dati positivi, i quali rilevano di che elementi è formato, e la ragione politica che induce i vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che l’istituzione della clientela precedet quella della plebe, e ci spiegano il diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare, sono agricoltori dell'Attica. E l'essere essi rimasti in quel luogo porta per effetto lo sterminio della flotta e dell'esercito ateniese, e la rovina d’Atene. Del resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia avvenuto il fatto della moltiplicazione sua mentre questo evento che ogni anno si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico, di natura deleteria, gli riempiono l'animo disgomento e di terrore. L'uragano che gli devasta il campo; la grandine che gli distrugge le messi, gl’appariscono mandatarii di forze arcane che gli fanno la dallo stesso principio che aveva dato nascimento alle gerarchie ipercosini che hanno origine le gerarchie sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che la sua pace. Quanto diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria! Anche l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma questa materia in luogo di essere per lui un mistero, è invece una rivelazione. Essa gli rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni, ma può anche sorprendere i segreti di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli può perfino combattere contro la natura, ora congiungendo mari da lei divisi, ora atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile?  guerre civili, come avvenne in tutti gli altri stati dell'antichità conjattura della loro libertà, cio e particolarmente dovuto al carattere longanime e paziente della plebe romana, la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne fa maturare la coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi per essere più sicura della vittoria domani. guerra, e contro le quali egli non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla sommessione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e malefiche della na tura. Create le specie, e facile creare una SIMBOLICA, per mezzo della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura fisica. In questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel fenomeno in una festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre, quando la natura si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più popolare delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for mazione del primo stato. E clienti diventano i prischi abitatori di quella contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar si volle all'antica metropoli; si al'interesse político, che consiglia la larghezza verso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione portano per effetto, che gl’Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non poteva essere usata verso le altre città la tine, e ciò per più ragioni. Prima di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che, rispetto alla loro importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se eccettuisi Alba Longa, che ha una posizione privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste son tutte sul piede di una piena eguaglianza vicendevole. E però, nessuna di esse puo invocare dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando privilegi anteriori che non erano stati posseduti. Però, se l’eguaglianza delle città vinte fra loro non dava luogo a sperare che il iVS GENTIVM non sarebbe stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore, vi sono altre ragioni che creano questa speranza, la quale ha poi nel fatto sua piena conferma. L'una di queste ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma, dove la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione di un'assemblea, non puo dimenticare che dal Lazio sono partiti i suoi primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio, essa avea tolto i suoi costumi e le sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani, la latinità di Roma rafforza il suo contingente, onde avvenne che i rapporti morali fra lei ed il Lazio si fanno più forti e più sentiti. I quali rapporti non possono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse a mitigare la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto questa novella forza che ora introducevasi nello stato, per potere col mezzo di essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non sono ascritti nel consorzio gentilizio come i nobili albani, ma non venneno nemmeno degradati allo stato di clientela. Diventano invece PLEBE, che vuol dire massa disorganizzata (da PLEO, PLENVS). Ma non e lontano il giorno, che essa conseguirà pure un organismo suo; e allora il nome non rappresentando più la cosa, non le rimane che come ricordo storico. Ed è il giorno, in cui, per opera di Servio Tullio, al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio timocratico, che apre quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. È questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato. Dopo di essa, la espugnazione della fortezza diventa quistione di arte strategica, che è a dire, quistione di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non possede la personalità giuridica che implica il jus commercii, essa non avrebbe potuto pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata la ragione politica di crearla. Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution, self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Genovesi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della logica pei giovanetti – filosofia campanese – cuola di Salerno -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione del Genovese). Abstract. Grice: “It’s difficult to read Genovessi, because he tends to be so consdescending towards his audience – as if he were LECTURING to them!” Keywords: scambio conversazionale. Filosofo campanese. Filosofo Italiano. Castiglione del Genovese, Salerno, Campania. Grice: “I like Genovesi.” Grice: “Genovesi is a good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per gli giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.” – and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice: “Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi. E affidato agli insegnamenti di Niccolò G., un congiunto, medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica – del LIZIO -- e quella cartesiana. Nel corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone. Questo amore non trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri Agostiniani dove segue gli insegnamenti filosofici d’Abbamonte, appassionandosi al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno dove incontra Doti, dal quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si trasfere a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera forense, che lascia presto. Fonda una scuola privata di metafisica e teologia. A Napoli e in contatto con VICO e ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione contenute in “Elementa Metaphysicae” furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento dell'arcivescovo di Taranto Galiani, e di Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lascia l'insegnamento della metafisica a Napoli, per passare all'etica, cattedra tenuta in passato da VICO.  L'evoluzione dalla metafisica- all'etica prosegue con il passaggio all' “economia” quando si compì la trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con fondi privati da Intieri, la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti Professorei n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come economista è stato quello più fecondo, tanto che G. divenne un autore fondamentale. Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume della Contro-Riforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia di un sato laico contro ogni interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose.  In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, la filosofia politica di G.e decisamente di tipo riformatore, un anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo stato d’oscurità (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Lumières). Prese coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a queste materie. Per tale motivo, abbandona la metafisica e si dedica all’economia affermando tra le altre cose, che l’economia deve servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene che per favorire il benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue lezioni in italiano. Docente di economia politica, occupa una cattedra istituita appositamente per lui di commercio e meccanica a Napoli da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo proprio di Intieri a Massaquano per lunghi periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e lì infatti scrisse alcune sue opere. Sostiene che anche le donne e i contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come problemi di debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria. Il suo pensiero economico è espresso in Lezioni di commercio o sia di economia civile  e considerate una delle prime opere di filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del protezionismo governativo su commerci e industrie. Tenne sempre le sue lezioni in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento G. è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo un mezzo di incivilimento. Altri saggi: Lezioni di commercio (Milano, Fondazione Mansutti), Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi dell'arto logico-critica, Venezia, Meditazioni filosofiche; Lettere filosofiche;  Lettere Accademiche; Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della diceosina o sia della Filosofia del giusto e dell'onesto; Delle Scienze Metafisiche; Altre opere da ricordare sono La logica per i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari, che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo pugliese. Corpaci, G.; note sul pensiero politico, Giuffrè, Jones, Reception of Hume in Europe, Continuum, Palatano, Rosario; G. G.: teoria del commercio, LUISS, G. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Villari, Il pensiero economico di G., Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di G., Pensiero politico, Alessandra, G.: uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris, Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di Battista, note critiche di Mansutti. Milano: Electa, Bruni, Voce, G., Il Pensiero Economico Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Bruni e Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna,. Fusco, G. e il suo mercantilismo rinnovato, in Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Galasso, Il pensiero religioso di G., Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le "Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di G., L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di G. L'acropoli, D. Ippolito, G. lettore di BECCARIA, Materiali per una storia della cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, Perna, Eluggero Pii e l'edizione delle opere di G. Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di G.  nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali,  Rother, G., in Rohbeck, Rother: Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, Italien. Schwabe, Basel, Villari, G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, Studi Storici, Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo analitico di G., Studi economici, Gleijeses, Napoli nostra e le sue storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, Signorelli, Treccani, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Genovesi, sConferenza Episcopale Italiana.  Opere di G. G. (altra versione), su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di G., Bruni, G., Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Ricci, G. in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Barbagallo, G., Estratto da: Rassegna Storica Salernitana.  G. non è uno di quei filosofi, che  fanno compiere un passo innanzi al pensiero filosofico. A paragone del grande Vico, che si gloria di  aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue  opere con profondo rispetto, G. apparisce come  uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che VICO ha tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più  illuminati delle generazioni successive; i quali ebbero un  certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o no  con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare  tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i  problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire,  non ebbero senso. Se pertanto nella storia del pensiero  il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’ nostri  occhi di storici che han penetrato il significato di quei  problemi, G. dopo di lui è un arresto o una deviazione. Quella vena speculativa altissima nello scolaro discorso tenuto al Teatro Verdi di Salern, ìn occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione  di G.. L’illustre VICO, uno de’ fu miei maestri, uomo  d’immortai fama per la sua Scienza Nuova (Lez. di Comm.,  Napoli, Il nostro VICO nella  Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste materie [su Omero] facciano onore all’ Italia (Logica e Metafisica, Milano, Classici italiani, ALBORI DELLA NUOVA ITALIA è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando  gli ardui argomenti con cui s’era cimentato.   Ma il paragone col Vico storicamente non è giusto. I due pensatori in verità appartengono a due piani  storici, da uno dei quali non si passa all’altro direttamente.  Se G. non ebbe occhi per vedere i problemi del  Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per  vedere quelli di G.. Uomini di tempra diversa,  con diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro  abbia pensato sempre al cielo, e lo scolaro alla terra.  L’uno non si guarda mai attorno se non come uomo  privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla  sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si  assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle  gioie e dai dolori della vita quotidiana. Dove non sono  in verità gli attori del dramma che egli ama studiare e  nel cui studio concentra infatti le energie più potenti  della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coetanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non  è di questo mondo. Quantunque il suo animo, propriamente, sia a questo mondo legato così strettamente come  nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con sguardo  penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente  a intendere il significato, e in questo mondo appunto  agogni con titanico sforzo a conquistarsi razionalmente,  col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli vuol  vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre lo  stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti  sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con  immutabile legge. L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita  intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città  e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli,  per tutta Italia, e di là dall’Alpi. L’istruzione del  popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il commercio; l’economia del Regno, e i problemi della feudalità e della manomorta; il problema della moltitudine degli  ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi  la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticurialista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le  questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del  tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui  la pubblica opinione s’interessava. E poiché i paesi  allora alla testa della cultura europea erano insieme  Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in  quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle  lingue, insieme con le classiche, a cui Vico si era limitato,  studiate e possedute con animo pronto a seguire il movimento della letteratura straniera in ogni campo di ricerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente  l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accademico della scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove  ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’ suoi  problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione)  E la modernità segna la fine di quel chiuso provincialismo, onde lo scrittore napoletano si è sentito sempre  cittadino di Napoli. G. guarda più in là di Garigliano e di Tronto. Egli si sente italiano; e come  italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura.  Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo  tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante e  dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre  della scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel  tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini, tutti, al  sapere e al lavoro dell’ intelligenza.   Siamo, come dicevo, in un piano diverso da quello  della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia rinunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per  risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più  profonde. Ciò che è tante volte avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella vita. Il pensiero sale, sale,  si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e corpulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana,  per ridiscendere tosto al concreto della realtà che con  quell’astrazione ha cercato di definire e più perfettamente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma,  e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di  ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre  in certo modo regresso; e se si volesse andare avanti,  avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare  la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come  l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per  rialzarsi: che ha, in altri termini, un certo grado di coscienza filosofica.  Vogliamo sentire dallo stesso G. qual fosse il  suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo Discorso sopra  il vero fine delle lettere e delle scienze, che pubblicò  innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari  per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi  per giustificare la nuova via per cui egli si metteva, dopo  aver anche lui pubblicato i suoi libri di Logica, di Metafisica e di Teologia in lingua latina. In questi stessi  libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innovatrici di G. e il carattere dominante del suo pensiero filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a  dare un sommario cenno ; ma ancora non è avvenuta la  radicale conversione per cui la mente dello scrittore, dopo  che ebbe trovato negli studi economici e sociali una materia più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma  storica, e ritrovò propriamente se stesso. In questo discorso G. propugna una sorta di  filosofia reale, com’egli dice, e cioè pratica ed applicativa: come dire una filosofia non propriamente speculativa e filosofica; e prende a partito tutti i più celebrati  filosofi della tradizione e le loro dottrine. Esalta bensì  la ragione come quella che più di tutte le nostre doti  ci rassomiglia a Dio, la sola cosa, per cui l’uomo si  solleva sopra tutto ciò ch’è in terra: la ragione, arte  universale governatrice di tutte le arti e strumenti onde  l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì perfezionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il  benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni e  schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto  dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose,  sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione  fallace. Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto sogliono più stimare quel che meno intendono, i dialettici  ed i metafisici. I don Chisciotti della repubblica delle  lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti delle  chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno, loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usurparono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale, che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti  la Grecia, e ne’ secoli assai più vicini buona parte dell’Europa. Eppure, la prima e più antica filosofia era stata una filosofia tutta cose. I più antichi filosofi erano stati i  legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di  etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di  tutti i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi  della società, così dovevano aver parte alle cure e alle  fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i  tempi di corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio  fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infinita di coloro che sono «peste del vero sapere e della virtù; i quali si credettero nati o per garrire inutilmente, o per disputare di cose inintelligibili, o per mettere empiamente in ridicolo le sante ed utili cognizioni, le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà. Vennero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti  de’ sogni dei poeti, o mercanti de’ propri; vennero i  metafisici, Penelopi della filosofia, implicati in disciorre  quelle tele, che eransi tessute colle loro mani; verniero  i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla  ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie  gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse  un sol volto. Socrate, il gran Socrate, di cui è  detto  che richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti  gl’uomini devono di sapere che tutto quello che si vuole  intendere essi non lo possono cercare se non nel pensiero,  cioè in se medesimi, — da G. non è ricordato qui  se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella  possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non  gli giova menzionare altri che Aristippo e Diogene del CINARGO, corruttori del costume. Di Pitagora a scherno  ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e  l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme dell’ACCADEMIA  e le entelechie del LIZIO; ed altre cosiffatte «bambole  di ragione » degli altri più celebrati filosofi. Che dire poi della filosofia medievale ? Non si può  leggerne la storia senza aver pietà della debolezza dell’ingegno umano. Poveri scolastici! Vestono corazze  di carta, che stimano del più fino metallo; e combattono  con i mulini a vento, come con i giganti distruttori dell’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del nostro  mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa,  fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa.   In questa caricatura della storia della filosofia superfluo avvertire lo strazio che G.  fa delle più importanti dottrine dei maggiori pensatori. Voglio solo riferire in proposito un altro periodo, tipico documento  degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e insieme  dello spirito che la moveva: La materia prima,  che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagl’arabi,  fu di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di Abelardo,  e di alcuni altri, che divenne un divino, la quale poi  il più empio e il più freddo de’filosofi del passato secolo,  si studiò di adornare con un sistema geometrico. Allusione a Spinoza, che pure G. aveva studiato con  grande interesse. Alle quali cose quante volte io penso, conchiude il  nostro filosofo, forte mi meraviglio, come gli agricoltori,  i pastori e tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman  genere si sostiene, abbian potuto tollerare in pace una  razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo rischiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’frutti  della loro industria godevano, pare che si ridessero delle  loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di  altra specie, fatti dal divino in forma umana per servire  a’loro piaceri. Lode a Bacone, che proclamò la necessità di ristaurazione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò che  si puo essere filosofo con assai gloria, senza essere  peso inutile agli altri uomini. Lo studio della natura,  l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni, la  geometria nutrice di tutte le arti vennero in grande  onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ha il  suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestano. L'Italia  ha GALILEI. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a  questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore  questa potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin- [Cfr. la sua lettera a Sterlich; dove racconta  come potè studiare 1’Etica di Spinoza: Leti,  fam., ed. Napoli, novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei Borboni, doveva promuovere. G. ha qui un concetto che rammenta l’hegeliano spirito del mondo.Egli è  veramente un certo genio, che discorre per le nazioni,  e che in dati intervalli le anima, e le raccende, quello  che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere e  le belle arti. Ma questo genio, secondo G., vuol essere sempre accarezzato, sollecitato e alimentato. Può dirsi che la curiosità, la più utile molla del-  l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la gloria  l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi  e’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’alimenta ». Insomma, il rinnovamento del pensiero richiedeva a Napoli le più propizie condizioni create dalla  nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno.   Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,  delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta.  Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia  ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori. La  ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è  ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e  nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile.  Bisogna che diventi pratica e realtà; come può solamente  quando tutta si è così diffusa nel costume e nelle arti,  che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza  accorgercene: come accade alle bestie, in cui la cognizione è tutta uso, perché è l’arte del divino lavorante su la  materia, ed in Dio non ci sono Enti di ragione»:  cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei filosofi.  I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle  leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici:  questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita. Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo G., c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore;  e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e gl'ingegni si credono più grandi quando sono  ammirati come incomprensibili, che quando stimati come  utili. La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da  sedici anni) aveva dimostrato a G. che Napoli era  un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori  ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di digerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla ciarleria, troppo ancora se ne compiacevano per fare  il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano  già trasformato la cultura inglese, francese, olandese.  Sacrifichiamo dunque una volta la seduttrice e vana  gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio della  parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men  contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin  dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere  non è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso  deve giungere al popolo. Il quale ha bisogno di essere illuminato, e non seguito nella sua naturale ritrosia alle  novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace  alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle  osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere ingentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi  operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli  uomini, sì con la savia educazione e coltura di questa  sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a  sbucciare dal suo guscio. Curare l'educazione. È uno degli articoli principali  dell’apostolato di G. 1 ; poiché i contemporanei,  a suo giudizio, curavano più i testi di fiori e le piante Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di Comm., e Logica, Senza educazione oltreché non è possibile, che la popolazione si aumenti ma, pure dove  avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi-uomini, ma non di forze (Lez. di Comm., peregrine che avevano per avventura ne’loro giardini,  che non i figli. E raccomandava la massima diligenza nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio,  mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato: I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’urbanità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto  il lor volto, che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira  tutt’altra cosa che gentilezza: la loro lingua è più frequentemente un gergo corrotto de’vari dialetti del nostro  Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: finalmente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro  e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar  assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e il  cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è da  loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini  sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di  ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano  e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono  senza misericordia, e gli trattano più da servi, che da  figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o zotici  e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle virtù,  nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche  spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito  dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli  esseri ragionevoli: che i fanciulli si curan  colle mazze. Un filosofo che parla questo linguaggio umano,  familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei  loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione.  Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio  dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente an¬  dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle  Si che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e  venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fastidio verso le questioni che formano il nutrimento e il vanto dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in  mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori,  spontaneamente o per necessità, appena se ne presenti  l’occasione. G., nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognissanti, fu avviato quattordicenne agli studi di  filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per  due anni filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa  cartesiana (filosofìa di moda allora nel Napoletano);  quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato ad  apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini  minori, promosso suddiacono. Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel seminario  di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto  con gran fervore ; finché è ordinato prete J'e  un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno  appresso a Napoli, per appagare in quella Università e  nella consuetudine degli illustri letterati della metropoli  la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli frequentò  molti corsi; tra gli altri, quello di VICO (si veda); di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva  già da un anno letta la Scienza Nuova Il perché corse  ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua servitù, ebbe  l’onore della sua amicizia  Insoddisfatto della filosofìa  che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua  scuola privata; finché il Cappellano Maggiore  monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo,  gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università Metafìsica. Legge Malebranche, Locke, studiato Spinoza Note di Cutolo alle Memorie autobiogr. di G., in Ardi. stor.  nap. Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e detta agl’alunni, come volevano i regolamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gl’Elementi di Metafisica in lingua latina,  pel metodo geometrico  con cui la dottrina e esposta (metodo, si sussurra, caro  ai protestanti), per le novità che contene, per le concessioni che fa al razionalismo, per quello scetticismo moderato che vi domina, procura all’autore ire e persecuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di  contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il suo animo dagli studi che rimanevano in Italia, e sopratutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei  frati. Ma ecco che Galiani gli viene in aiuto passandolo dall’incarico di metafisica alla cattedra ordinaria d’Etica:insegnamento più conforme all’ingegno di G., e da lui infatti tenuto per un decennio con  grande efficacia per l’eloquenza delle sue lezioni, la modernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle questioni trattate. Pure alla Metafìsica s’aggiungeva  in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino.  E queste opere si ristampavano e si diffondevano in  Italia e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore poteva  scrivere a un amico. La metafìsica mia fatta pei teologi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come  neppure piace a me. E con tutto ciò, la logica e la metafìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e in quasi  tutte le scuole di Germania. Avevano fortuna; poiché  questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel  loro andamento eclettico e largamente informativo ben  s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non risolutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi nella  tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera 1 Leti, jam.. e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come  si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche  i due saggi De iure et officiis eran nati dalla scuola  e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due  brevi compendii latini di Logica e di Metafisica. Ma quando a G. è possibile avere una scuola  a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pubblica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non  scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui,  nell’Università, la cattedra di Commercio e Economia,  fondata dal suo vamico, facoltoso e autorevole,  il fiorentino Intieri, studioso di macchine  agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla  toscana, avverso a ogni oziosità speculativa! Allora G. si sente davvero maestro, e veramente filosofo. Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento;  ma potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’impeto e il calore della sua eloquenza. Quando tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento  nella vita di G. e nella storia non soltanto della  cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché questa di G. èla prima cattedra istituita in Europa  di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice  intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la  situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto.  In una lettera dello stesso mese Genovesi scrive a  un amico 1: Nel dì 5 corrente feci il mio discorso preliminare, o sia l'apertura alla nuova cattedra del commercio con uno straordinario concorso, tuttoché io non  avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente  aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso è ricevuto  con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È stata Leu. falli. bella! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto anche l’originale.Il giorno seguente cominciai a dettare. Grande è la meraviglia in sentir dettare italiano; sicché, essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar  di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia. La scuola  è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno  trovato luogo; ma la maggior parte sono uditori di barba,  e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento. Gran moto  è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domandavano libri di economia, di commercio, di arti, di agricoltura ; e questo è buon principio.   Da questo corso, che G. prosegue finché le  forze gli bastarono (morì, ma un  anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la cattedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia  di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra le opere classiche della nuova scienza: opera  riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di amore  del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istruzione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del commercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragionamento del Commercio in universale e lunghe e importanti annotazioni del Genovesi sul commercio del Regno,  e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso  scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue  opere latine. Sono le sue Meditazioni filosofiche,  che arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammirazione del Baretti 1; e le Lettere filosofiche; come [Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 20 numero della Frusta  Letteraria: dove Baretti giudica il saggio con questi  termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua,  io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli di Galilei, le Lettere accademiche. Imprende a scrivere in italiano un Corso di filosofia. E volle scriverlo per gl’italiani (com’egli stesso fa sapere a un amico) che  son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare  italiano come una volta parlarono greco e latino. Il motivo che mi muove, è una massima, che può stare che  sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per vera, cioè che ogni  nazione che non ha molti libri di scienze e di arti nella sua lingua è barbara. Perciò in Francia nell’età di  Luigi XIV s’è cominciato a scrivere di filosofia in  francese. Perciò ha seguito l'esempio l’Inghilterra. E altrettanto si cominciava a fare in Germania. Dove  non si scrive nella propria lingua, dice G., si  accende magari mi lume grande e brillantissimo, ma  questo resterà  nondimeno sepolto in que’ lanternoni da  antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi  raggi. E nelle stesse Lezioni di Commercio inculcava come che sia tanto pregno di pensamento e di vera scienza quanto è questo  primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo filosofo G.. A Baretti non andava lo stile di G., seguace della scuola toscaneggiante di CAPUA (si veda). Una cosa però disapprovo in lui assolutamente, e questo è lo stile suo perché troppo a studio intralciato  e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. Com'è possibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto  stimabili meditazioni,  com’è possibile che un uomo il quale è una  aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando si  tratta di esprimere i suoi pensieri? Come mai un G. ha potuto  avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e  tisici uccellacci di Toscana ? Eh, G. mio, adopera gli abbindolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghiribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata, qualche  insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi  le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la penna;  e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’Galatei, e in altri tali spregevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte  quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram-  maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scrivere. Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico che una nazione non sarà  mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti, nelle  maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i  libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà  dipendere da una lingua forestiera; la quale, non essendo  intesa che da una picciolissima parte del popolo, tutto  il resto sarà fuori della sfera del lume delle lettere. Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre idee  e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere  in un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze saranno in un gergo straniero alla maggior parte del popolo, avremo sempre, dice G., molte scuole inutili, molto tempo perduto,  molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie,  né ha possibile di avere delle buone teste. Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo  per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali  ed economiche, il G. voleva scuole e quando  furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica  istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un Piano  di riforme, non dimentica nelle sue proposte le scuole  del popolo; voleva metodi razionali e semplici perché  fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai  giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vecchia letteratura e le discussioni vane della filosofia infeconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle  arti più necessarie alla vita; e voleva, come sè visto,  libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma aveva  pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo  dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle  coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne  Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. galanti, Elogio stor. di A. G., Firenze, è sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel  rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere negli  uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli  era l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era insomma ispirato a una filosofia. Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di  Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contemporanei e più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edizione che della Logica volle curare Romagnosi), sono entrati a far parte della letteratura filosofica  nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi non ricerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e  prepararono. G. è un empirista, ma non e un sensista, e  tanto meno un materialista. Combatte le idee innate,  ma cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto,  e la ragione, che l’uomo che medita trova in se stesso  come attività sovrana, libera, signoreggiatrice, col suo  giudizio, dell’universo, vede conforme a una ragione  creatrice universale, divina L’uomo per essa è immortale. Per essa destinato a vincere il dolore, a superare  ogni difficoltà, a viver felice. Questa ragione infatti non  è fredda astratta intelligenza. Essa è energia ( energetico, dice G.) perché è anche passione, cuore i. Non 1 Come empirista, G., pur non ripudiando ogni metafisica,  insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle  questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬  stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile,  Stona della filos. ital. da G. a Galluppi, Milano, Treves, ’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza  di G.. Oltre i luoghi ivi citati, e le frequenti dichiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità  delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, Notevole in special modo la lett. a Saffiotti. Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, Logica, Vedi Logica, distrugge la passione; una passione infatti si combatte  con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e  soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale,  ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore  gli uomini. Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione  leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche  per G. i corpi, scomposti negli elementi semplici  di cui sono formati, si riducono a sostanze spirituali,  attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non sono  altro che fenomeni, nostre sensazioni.   Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in tutte  le cose che sono in natura, e che tende ad espandersi.  In noi questa forza si svela nella ragione, che è prima di  tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza è attiva  e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,  a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svolgimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere  è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è  benessere in cui lo spirito viene ritrovando e procurandosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore  degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo  in comune il destino della sua natura, la libera vita della  ragione. Questa la fede di G.. Questa la sorgente dell’entusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo dalla  cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,  infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il segreto della potente azione da lui esercitata sul suo  tempo, promovendo nuovi studi, animando gl’italiani alla  lotta contro il vecchio mondo: contro la feudalità in favore dei lavoratori della terra e della nascente borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il  pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la religione; contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0 ostacolasse il libero sviluppo del lavoro, della civiltà, della ragione. G. non è un rivoluzionario; ma è un educatore di rivoluzionari, che quando scoppierà  in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbedire alla voce del vecchio maestro accogliendone una  scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso  incendio della repubblica partenopea, celebrazione di  una grande fede idealistica ancorché astrattamente giacobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande  accorgimento ed equilibrio, come GALANTI (si veda) e CUOCO (si veda), con  più profonda intelligenza dell’ insegnamento di G., ne trarranno argomento a una più realistica concezione  politica della libertà necessaria al popolo napoletano:  poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che  questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte  della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno  Stato infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva  unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e il mare. Questa idea di un’ Italia unificata da GALANTI (si veda), il più  fido dei discepoli di G., passa a CUOCO (si veda), e da CUOCO (si veda), come oggi sappiamo, passa a MAZZINI (si veda). Ma era  stata preconizzata a Napoli da G.. La cui commemorazione io non potrei meglio concludere che rileggendo una sua pagina, a proposito della sicurezza  necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta  militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno  di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente  Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva nel detto anno G., in questo luogo dire un pensiero, che ho  sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo tuttavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male 1 Sulla scuola di G. e la sua importanza storica, A. Simioni,  Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, vMessina, Principato, presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutriscono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure  in qualunque parte sia per prendersi da chi non guarda  più in là del proprio utile. A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del  suo sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella  altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come  dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le nazioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo  clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito  rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più  perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di arti  e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della  vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è  dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro all’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma divenuta in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono?  Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le conquiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa morbidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta,  non durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvilimento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in tante  e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo  primo nome e l’antico suo vigore. Gran cagione è questa della ruma delle nazioni. Pur  nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti  principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la  quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero,  sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi funesta, volessero meglio considerare i propri e i comuni  interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ridursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire  il vigore degl’Italiani. Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle  formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri.  che la facessero stimare e rispettare non che dalle potenze d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle  più riguardevoli che sono in Europa. Ella non vorrebbe  ambire altro imperio, che quello che la natura le ha circoscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo.  Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e  le industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti  nuovo abito e la pristina bellezza prendere. Se questi  sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti, forse  che non sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che  i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri gelosi,  che per massime vecchie che son passate ai posteri più  per costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi  ch'erano: e quelle cagioni di reciproci timori, che potevano una volta essere ragionevoli, sono ora non solo vane,  ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si considerano.  Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le cose  sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla  concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e  vero interesse suol riunire anche i nemici: non avrà egli  forza da riunire i gelosi ?   Rettor del Cielo, io chieggo  Che la pietà che ti condusse in terra.   Ti volga al tuo diletto almo paese. A G. dunque, il più filosofo dei grandi riformatori italiani, spetta il merito di essere stato  il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e  vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà.  Egli indicò agl’Italiani l’Italia, che non c’era, ma co-1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli. Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue Letture del  Risorgimento Italiano.minciava a presentirsi, ed egli l’annunziò, insegnando  come le si potesse preparare la via. E la sua voce si ripercosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne.  E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando  la letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammazzando l’accademia e l’ozio ancorché dotto ed elegante,  educando il popolo a credere nella cultura, a servire  l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.  Fulgido esempio i martiri. Stato laico e veramente  sovrano, religione tutta rivolta alla vita dello spirito,  libera da ogni cupidigia e pretesa mondana; libera la  ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la scuola  che la promuove. E di là dal breve confine della provincia,  per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬  pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del  G.. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome;  perciò devono annoverare G., lui così  modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra  i padri della patria. E nella scuola italiana particolar¬  mente deve esser ricordato come esempio ed ammonimento  contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre rina¬  scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita G. e sono perseguitati dalla sua dialettica e dal  suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro  di essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi.  Perciò G. è vivo.  G. Nasce a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi), piccolo paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito dei quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo benestante, era decaduta da civile in basso"stato, e viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione di G. alla carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato a parenti membri del clero locale, G. compì i primi studi nel paese natio, praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica, per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di un medico suo parente, Niccolò G., a sua volta allievo del medico cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste incompiute e inedite in vita (la prima, Autobiografia, in Zambelli, La formazione; la seconda: Vita di G., in Illuministi italiani) ci trasmettono il ritratto di un adolescente vivace, intelligente e ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità intellettuale e desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica. Nello stesso tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un altro amico del luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta la vita, per i poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il nascere di un altrettanto intenso interesse per la storia.  Ma il padre sorveglia attentamente che il ragazzo non si concede distrazioni. La rigidezza paterna ha modo di manifestarsi più duramente quando G. si innamora, ricambiato, di una compaesana. Per impedire che questo amore cambiasse i programmi di vita di G., il padre gl’impone il trasferimento a Buccino, sempre non lontano da Salerno, in casa di parenti, mentre la compaesana è costretta al matrimonio con un pastore. G., pur profondamente addolorato e deluso, trova conforto nella maggiore apertura e possibilità di contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto e animato, gl’offre, e nell'amicizia con l'arciprete Abbamonte, che migliora la sua preparazione classica e stimola l'interesse per la teologia e il diritto civile e canonico. Prende gli ordini minori. Nel frattempo, spinto dalla necessità di rendersi indipendente economicamente, con l'appoggio dell'arcivescovo di Salerno Capua, che ne aveva apprezzato le doti esaminandolo per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il seminario della città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote, fornito del modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere poca conformità con le massime del puro cristianesimo (Vita), insofferente del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli studi filosofici. Frequentò le lezioni Martino e Vico - di cui già conosce la Scienza nuova -, conosce DORIA (si veda), si legò di amicizia con BUONAFEDE, che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo (Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia). Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici di Cambridge, a Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Apre una scuola, in cui insegnare i suoi nuovi piani di filosofia e di teologia, in particolare il piano di un'etica (Vita), frutto delle riflessioni di quegli anni. Comincia a maturare in quest'esperienza - che dura tutta la vita - la vocazione pedagogica che caratterizza tutta l'attività di G. e che si realizza in un metodo d'insegnamento dinamico, in cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva l'apprendimento in interazione costante con i giovani. Il carattere innovativo e il successo della scuola gli procurarono l'amicizia e la protezione di Cusano, di Orlandi e, soprattutto, del cappellano maggiore Galiani, autentico iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli, fondatore dell'accademia delle scienze e promotore della riforma universitaria, da poco avviata. Attraverso Galiani, G. ottenne il primo incarico universitario, come professore straordinario di materie metafisiche, e comincia a insegnare. Era nel frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un "eclettismo programmatico", che tendeva alla serena composizione di un costante atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso i portati della cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora curiosità. Ne dette la prima dimostrazione nel manuale degli Elementa metaphysicae (Napoli), prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo di filosofia. Proprio per queste caratteristiche, nonostante la sostanziale ortodossia e l'approvazione del revisore regio Orlandi, l'opera e duramente attaccata dagli ambienti ecclesiastici. La protezione di Galiani e la disponibilità ad accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix pubblicata salvarono  G. dalla denuncia al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario di Sarno, bibliotecario del marchese di Montealegre (duca di Salas), primo segretario di stato. Le tesi esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione di Conti, con il quale G. avvia uno scambio di lettere filosofiche sulla natura delle idee, stampate (poi in Letterefamiliari, Venezia. Passa alla cattedra di etica, con buon successo per la rinnovata affluenza di studenti. Nello stesso anno pubblicò, in collaborazione con Orlandi, cui si devono le note scientifiche, gli Elementa physicæ di Musschenbroek, ai quali premise una Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et constitutione, agile e precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità al presente. La manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora all'interno di una visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo manuale di logica Elementorum artis logico-criticæ (Napoli), che gli procura gl’elogi di Muratori, con il quale avvia un carteggio, quasi totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale Spinelli. Pubblica la seconda parte della Metafisica, dedicandola a Benedetto con l'evidente scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel contempo portava a compimento la stesura del manuale di teologia cui attendeva dai primi anni Quaranta: gli Universae theologiae elementa. Quando si rende vacante la cattedra di tale disciplina, G. ritenne di avere giusto titolo per concorrervi con buone probabilità di successo. Ma la sua candidatura provoca violente opposizioni. In base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate Molinari, la curia romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di Napoli ne affida la revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa volta G. riusce a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano dottrinale, si define mezzo molinista in materia di grazia. Ma in questa occasione è assai tiepido l'appoggio di Galiani, che gl’impone la rinuncia non solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato della teologia e alla pubblicazione degli Universæ theologiæ elementa, provocando la decisione di G. di abbandonare studi sì turbolenti e spesso sanguinosi (Vita). G. continua a insegnare etica, mentre proseguiva il completamento della metafisica con un volume dedicato al giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, G. vede nel giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente fondabile, in grado di definire il quadro di valori di una società mercantile, i cui problemi si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La persecuzione di cui è stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di Sansevero e Felice, gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno a INTIERI. Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità napoletana, come RINUCCINI, ORLANDI, GALIANI, con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di discussione, tesa a stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto con la cultura internazionale, ma anche l'attività di collaboratori e la loro concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il cenacolo dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit des lois di Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza l'auto-rappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di modernizzazione.  Vero e proprio manifesto del programma riformatore del gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la novità immediatamente percepita dai contemporanei, è il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura nella villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno seguente a Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba orobanche di P.A. Micheli. G. operava così la sua scelta di campo, presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma e il più attivamente impegnato nella sua realizzazione.  Requisito indispensabile per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica, economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la "studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva.  A questa istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la prima di economia politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500 ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La nuova cattedra e inaugurata con grande affluenza di pubblico. G. presentò il nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel ragionamento sul commercio in universale, pubblicato in estratto e poi in apertura della Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da Cary (Napoli).  Questo grosso centone in tre volumi conteneva pure la traduzione dell'Essai sur le commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M. Butel-Dumont (Paris), i quali avevano a loro volta tradotto e aggiornato l'Essay on the state of England di J. Cary (Bristol), e la traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's treasure of commerce di T. Mun (London), corredate dalle ampie e ricche annotazioni dello stesso G. e da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico sulle forze e gl’effetti delle gran ricchezze e Ragionamento sulla fede pubblica) destinati a ricomparire negli Elementi del commercio e nelle posteriori Lezioni di commercio o sia di economia civile.  Contemporaneamente G. procedeva alla stesura del suo corso biennale di Elementi del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano gli Eléments du commerce di Véron de Fortbonnais.  Ambedue le opere avevano un palese carattere propedeutico, non solo per i destinatari, ma in certo modo per lo stesso autore, che nel suo sforzo di informazione e acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in parallelo con i suoi allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una duplice funzione: definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica; tracciare le linee di un programma di politica economica per il governo, nel quadro dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi. Sul primo versante i termini di confronto scelti da G. sono la Spagna e l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa, per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa G. si documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale, approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da Melon a Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, G. articola una serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso libero dai vincoli interni.  L'adesione piena del G. alla liberalizzazione del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave carestia che colpì il Regno, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore sperimentato di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni sull'economia generale de' grani (Napoli; traduzione della Police des grains di Herbert, Berlin), da lui prefati e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme si scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura strutturale degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre nelle mani di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e di un clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva a G. la condizione necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile quelli cui G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della sua vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività. Il suo impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più accentuata polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione di maître à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero infatti le consulenze per Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più scottanti del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai trattati di commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio per le scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della sua attività di studioso e di insegnante. Ne fa parte un corso completo d’ISTITUZIONI FILOSOFICHE, in italiano, articolato nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia della filosofia del giusto e dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche. Contemporaneamente, G. stende i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois.  In questo contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di economia civile, cui G. lavora direttamente: le due napoletane, e quella intermedia, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso la quale G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio work in progress di letteratura militante. G. colloca le problematiche dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria stadiale, per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce l'evoluzione del suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e anticuriale. Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento caratterizzante della società e del vivere civile e di conseguenza della lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e costituire l'asse portante della formazione dell'opinione pubblica. La morte lo colge a Napoli.  Negli anni seguenti la sua opera fu oggetto di aspri attacchi e di appassionate difese, culminate nell'elogio storico dedicatogli dall'allievo Galanti (Napoli). Larga ma diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre aree d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le successive ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché considerata troppo farraginosa e legata ai problemi di una società sottosviluppata. In Francia l'annunciato progetto di PINGERON di tradurre le Lezioni non ebbe seguito. In Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia del commercio (Leipzig), sia le Lezioni, a cura rispettivamente di Witzmann e di Wichmann. Molto più ampia fu invece la diffusione dell'opera genovesiana, sia filosofica sia economica, nella penisola iberica. In Spagna, infatti, apparve una traduzione in castigliano delle Lezioni, a cura di V. de Villava, mentre nei paesi di lingua portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la base dell'insegnamento universitario per tutto l'ottocento.  Edizioni: Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli; Autobiografia, lettere e altri scritti, cur. Savarese, Milano; Della DICEOSINA o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, a cura di F. Arata, Milano; Scritti, cur. Venturi, Torino; Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese rist. anast. dell'ed. Milano; Scritti economici, cur. Perna, Napoli; Se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere accademiche, a cura di G. Gaspari, Carnago; Lezioni di commercio o sia di economia civile con gli "Elementi del commercio", a cura di M.L. Perna, Napoli; Dialoghi e altri scritti. Intorno alle "Lezioni di commercio", a cura di E. Pii, Napoli. Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane conservate si trovano a: Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII.B. 39; ms. XIII. B. 92; ms. XIV. B. 53; Arch. di Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868; LII, Affari gesuitici, ff. Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte G.; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia pubblica, Autografi; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, Arch. di Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e monete. Inoltre, copie manoscritte della Theologia sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale, ms. III. 16; Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano, Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.; Napoli, Biblioteca oratoriana dei gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch. stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio; Biblioteca nazionale, Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi Piancastelli; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B. 231; Modena, Biblioteca Estense, MC.103. 1; Archivio Muratoriano, filza Autografoteca Campori; Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla; Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mss. Lettere; Racioppi, G., Napoli; Monti, Due grandi riformatori, G. e Galanti, Firenze; Studi in onore di G., Napoli; Villari, Il pensiero economico di G., Firenze,Potolicchio, Postille autografe inedite alla "Logica" di G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, Corpaci, A. G. note sul pensiero politico, Milano, Nuccio, Un grande riformatore napoletano. A. G.: scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a Napoli, Roma; M. Agrimi, G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, Badaloni, Conti, Milano, ad indicem; Luca, Gl’economisti napoletani e la politica di sviluppo, Napoli, passim; Marcialis, Note sulla Disputatio physico-historica di G., Annali delle facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di Cagliari, Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1; Luca, Scienza economica e politica sociale nel pensiero di G., Napoli,  Garin, G. storico della scienza, in Id., Dal Rinascimento all'Illuminismo, Pisa  Villari, G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici; Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle leggi", Firenze Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella filosofia del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari 1972; P. Zambelli, La formazione filosofica di G., Napoli; Economisti italiani Roma Arata, G.:una proposta di morale illuminista, Padova rec. di G. Imbriglia, in Boll. del Centro di studi vichiani; Zambelli, G. and empiricism in Italy, in Journal of the history of philosophy, Piscitelli, Il pensiero degli economisti italiani sull'agricoltura, la proprietà terriera e la condizione dei contadini, in Clio, Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in La popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La ripresa demografica Bologna Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia civile nel pensiero di G., in Le forme e la storia Ferrone, Scienza, natura, religione, Napoli, Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E. Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione; Marcialis, G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nell’Ontosophia genovesiana, Cagliari, Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica "civile", Firenze, Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni di storia dell'economia politica, Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, Firenze Garin, A. G. metafisico e storico, in Giorn. critico della filosofia italiana, Bellamy, Da "metafisico" a "mercatante". A. G. and the development of a new language of commerce in eighteenth-century Naples, in The languages of political theory in early-modern Europe, a cura di Pagden, Cambridge, Battista, Sul popolazionismo degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie della popolazione prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano; Fatica, Il lavoro come mediazione tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni problemi di "police" in G. e nei suoi referenti culturali, in Prospettive Settanta; Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera manualistica di G., Cagliari Pennisi, Grammatici, metafisici, mercatanti. Riflessioni linguistiche sul Settecento meridionale, in Teorie e pratiche linguistiche, a cura di L. Formigari, Bologna La linguistica dei mercatanti, NapoliFerrone, I profeti dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli, Pagden, La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli, Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della co-operazione, cur. Gambetta, Torino; Marcialis, Legge di natura e calcolo della ragione nell'ultimo G., in Materiali per una storia della cultura giuridica, Robertson, The Enlightenment above national context: political economy in eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal, Perna, L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno Editoria e cultura a Napoli, Napoli. Antonio Genovesi. Genovesi. Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica, scambio conversazionale --. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Genovesi: critica della ragione economica” --  per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Enea all’inferno – filosofia taggese – scuola di Taggia – filosofia imperese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taggia). Abstract. Grice: “Surely a squirrel does not need to learn the ‘arns amandi’ – many things that the Italians call ‘artificial’ I merely call post-natural!” Keywords: ars/natura, ars amandi. Filosofo taggese. Filosofo imperiese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Taggia, Imperia, Liguria. Grice: “It seems every philosopher has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a ‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like Falamonica – the way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is Socrates teaching Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching Aristotle, and Aristotle teaching Alexander!” Venne in contatto coll’astrologia. Compose i Canti, poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla Commedia di Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario Biografico degli Italiani. Di antica famiglia genovese, che negli anni 1460-1480 entrò nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è l'origine del doppio cognome con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a Genova, nella contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da Violantina Piccamiglio.  Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai suoi studi. Il primo documento nel quale è nominato è il testamento del padre. In una data incerta della fine del sec. XV si trasferì in Spagna, dove svolse attività mercantile. Durante il soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita del lullismo, partecipando alle attività della scuola di Jaume Janer a Valencia. È promotore di iniziative editoriali, fra le quali la pubblicazione del Liber artis metaphisicalis dello stesso Janer, una sorta di summa enciclopedica del lullismo, stampata a Valencia; dalla dedicatoria apprendiamo che F. studia le dottrine di Lullo con Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Proaza, un altro importante membro della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et Homerii sarraceni, apprendiamo che F. si era dedicato anche a studi di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di Lullo. F. è inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì l'influenza anche nei testi letterari di cui fu autore.  Diciotto sonetti di argomento religioso, appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana e nei quali è anche rilevabile l'influenza delle opere poetiche di Lullo, sono pubblicati per la prima volta nell'edizione di Valencia del Cancionero general. Nell'edizione del Cancionero (quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un sonetto "de trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les guerres dela sglesia", cinque sonetti en llor del glorios nom de Iesus e cinque sonetti en llahor del nom dela gloriosa verge Maria.  Non si sa di preciso quando F. rientrò a Genova, dove muore. Si dedica alla stesura di un poema, che ci è stato tramandato ed è stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, F. costruisce un poema dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei regni oltremondani. Ma la particolarità del testo di F., cui non manca una certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto come guida del viaggio proprio Lullo, il filosofo cui aveva dedicato molti dei suoi studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti troviamo trattati i temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi canti sono dedicati alla divisione e descrizione dell'universo ("de' cieli, de' elementi, de' minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de' morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano ("pronostico della cristiana religione, della divina essenza, della generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo, della natura angelica, della incarnazione, della concezione, della passione, de' sacramenti, della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della fama"), e, in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni dell'oltretomba ("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del paradiso"). La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata: ricordati negli Annali della Repubblica di Genova di Giustiniani, già Foglietta nei Clarorum Ligurum Elogia lamenta l'inaccessibilità del testo, che si credette perduto. Venne data la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella Storia letteraria della Liguria da Spotorno. Dopo alcuni saggi di pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non particolarmente curata, cur. Gazzino (Genova). In questa edizione i Canti sono accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre sonetti In nome di Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel Cancionero. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova (reprint, Bologna), (segnalazione in Spotomo, Storia letteraria della Liguria, II, Genova; Giorn. stor. della letteratura ital.); Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e ricerche, Milano Levi, Un poeta italo-catalano del Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, McPheeters, The Italian poet and lullist B. G. in Valencia, in Symposium; Zambelli, Il De audito cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze Grillo, Appendice alla raccolta degl’elogi di liguri illustri, Genova Pereira, Lavinheta e la diffusione del lullismo a Parigi, in Interpres, Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole Française de Rome, M.-A., - Temps modernes,CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di Bartolommeo Falamonica. Non sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di Bartolomeo G. Falamonica, uomo ligure, da lui scritto. Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo con assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua, che andava smarrita. Spatorno nella sua Storia letteraria della Liguria dà un'analisi di quel Poema, che merita per, ogn irispetto d'essere conosciuto. Il manoscritto oggi trovasi presso il marchese Negro, patrizio genovese, amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema di G. non ha titolo. La materia dice Giustiniani ė tutta filosofica, con interpretazione di leggi pontificie e cesaree. Lo stesso attesta Spatorno. L'A. incomincia dal favellare de' Cieli; e iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba, TARIETA': WY > Perdar lecarespogliea l'aspra terra, Partendo dalla età dolce e superba, Lasciando addietro il sessagesim anno Vedea che l'error m 'avea condotto 39 Aristotil. Intanto gli apparve dalle parti occidentali una gran Stella in formadiromito, di nome Raimondo Lullo spiega il suo desiderio di conoscere la verità, e di lasciare alcun vestigio di sè dopo morte; e Raimondo disse: sta securo. e lo condusse al Sole, acciò lo guidasse ne'Cieli. Per man mi prese  Torna senza onor dalla mia guerra Con tutte mie speranze sparse al vento, De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni piacere in me resta spento. 2 motor che mi costrinse il senso E mi conduce in una oscura valle. Ivi il poeta udì prima un suono di guerra; poi una ltro come di favelle che parlano del Cielo e della Terra. e  Nel Il Canto vede Saturno, poi Marte, poi Giove; e il Sole gli dice: Già presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor mi ritrovai tutto scontento A volgere al mio vero ben le spalle. Ed eccouscir del Ciel, non sosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual dicea in prosa, e qual canta in versi. E conosce tutti esser poeti, e in tanto numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio, Levarsi contra tutti e batter l'ali, Questa è la introduzione, e costituisce il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo, dal quale si vede sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sente il movimento delle sfere.Vide il cerchio delle Stelle fisse e da ciò prende occasione di parlare degl’astronomi, il più moderno dei quali è Regiomontano, ed afferma non essere possibile l'eternitàdel mondo. Ma qui conviene omai fermar le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti. Ne dice però una lunga lista di greci e latini: nd rammenta alcun italiano. Ei li lasciò tutti per gire a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad Aristotele, di cui dice Per quelle strade luminose e terse Ch'io non potea lasciar la via serena. Il Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli oggetti terreni. E inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,! della dell? E la lussuria il buon smeraldo affrena; Vedi l'assenzio, ch'apre e scalda e sciolve: Che già della bell'arte han fatto vizio. Vacuando i denari, e non gli umori. Nel Canto IX ragiona della vitasensitiva degli animali e delle proprietà delle varie specie. E le cicogne d'empietà nemiche ecc. d'onde prende occasione di parlare della empietà degli uomini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual strazia, qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose accennate formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda parlando dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume, acqua e del fuoco. Nel VII parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle pietre preziose, dicendo terr, Stringe l'acanto e falevenesalde; Tempo è omai d'entrar nel mio volume: Dove trovai del mondo tanta parte. Finchè io ti mostri la mia casa propria. Nel Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna; e fa molte dimande di fisica, ele risolve colla dottrina peripatetica che allora corre. Nel canto V parla degli elementi; e vi s'introduce così: Era mia vista di luce si piena, Son gli ametisti incontro all'ebriopoto, Contra ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in polve. cec. E contro i Medici. Falcon leale, e ladra la perdiceAdulterate son le cose sante La gente ritornata si maligna, Come si mostra in le passate carte, Ch'io vidi in lui siccome linea al punto Quanto Dio crca, e quanto poi comparte, Ogni mondana ed immortal bellezza. Nel Canto Il parla della immortalità e libertà dell'anima, e delle idee e degli affetti. Ogni pensier, e quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anima) Il lume della vita è la scienza. Questa parte filosofica è chiusa con un pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia spaventato il suo duce, esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s'incende, si volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena di tirannide, disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio tutto mondano; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando s'aggiorna  O somma vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo, e là disciolte ; Eterno libro, in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al poeta di palesare queste cose a tutto il mondo escriverlealettered'oro; minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto. Questa seconda Cantica termina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel III Canto espone il difetto delle virtù, e spezialmente della carità, onde l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. Canti IV, V e VI trattano di cose morali. Nobil naturà, in cui si trova giunto Le vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive; Fammi sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra. Che per ricchezza l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria. Seguilipochi,e non lavolgargente. Da poimi vidituttii sensi presi: Con un gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo, torna, tornia, torna.   Ed ecco allor m'apparve quel divino Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e II trattano della essenza divina secondo la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel Canto III il poeta si sforza di mettere in versi la generazione del Verbo, e la spirazione eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole. Nel IV ragiona della creazione del Mondo; nelV della natura angelica con tutte ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi dellaconcezione, seguendo la nota sentenza di Scoto Più degno, più eccellente, più gentile, Di non veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna dulgenze. Nel Codice autografo, dice Spatorno, è Jasciato in bianco ciò che apparteneva agli altritre Sacra menti. Favella poscia il poeta della predestinazione e del l'amore divino e mondano. Quest'ultimo lo ispira contro Usura in pravi volentier s'annida. E cresce questa piaga al mondo ognora. Quanto son pianegià le vie di morte ! Ne’susseguenti canti inveisce contro il giuoco; indi ragiona dello scandalo e della fama. La terza parte del Poema ha per soggetto il Mondo ir. visibile, e comincia dall'Inferno. E più decente ancora all'Infinito. Della più mite dottrina poi si mostra seguace rispetto ai fanciulli morti senza battesimo. Che poco curan già di veder Dio Di quanto in sè contien filosofia. In due Canti espone la passione del Redentore; nè pia. ceranno a tutti le disperazioni della Vergine a piè della croce. In due altri Canti ragiona del Battesimo, della Con I La Cantica terza abbraccia la parte teologica ; e comin cia così. È già fatto si com'uom selvaggio. Non hanno danno alcun, se non quel bando Giocando insieme tutti e giubilando, Non hanno più sospiro alcun, nè stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo i più viziosi. E li suppone occupati M Busura. Secondo differenzia di peccati. A guardia de'superbi stanno i leoni, de'lascivi i porci; de'golosi gl’orsi: Viensi poial Giudizio universale Così montaro in Ciel disquadre in squadre. Il poema si chiude col Paradiso partito in sei capitoli. Nel I si parla della felicità de' Giusti. Nel II sono ricordati tutti i più celebri personaggi dell'antica alleanza; fra quali è taciuto di Saloinone, che secondo l'opinione del b. Alessandro Sauli si tene per dannato. Nel III si tratta degli Apostoli, dei Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S . Lorenzo. Felice tu, mia Genoa, che l'onori, Eccelso cavalier di Cristo atleta. Giorgio chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran Liguria. Flegias, Cocito, furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone. Lascio la Stige, e Lete, e Flegetonte, Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio del Falamonica ha forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime, sono disposte sotto gli scaglioni, e sopra questi stanno demonii in sembianza di animali. La valle tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva, e d'ogni male carca E le corone d'uno e d'altro impero Correr fra l'onde, e naufragar con elle. E come il balenar seconda il tuono. Ma l'invito del Giudice eterno agli Eletti, dice Spatorno, sa troppo di quelle licenze dantesche pena si perdonano all'Autore della incomparabil Commedia. E Roma, ove fursparsi i suoi dolori. E di S. Giorgio.  Che ap Cerbero lascio, Minos e Plutone, Da riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi recipio. Felice ancor la Spagna, dov'ei nacque,   Nel V Canto si parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori, monaci, ronitie confessori, e di questi l'ul timo è Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo, che a l'uscita Di questa schiera il più moderno parve, Fra tanta moltitudine infinita. E chiama s.Anna Ava del Figlio, e Socera del Padre Miserere di un cuor che in tes'adombra! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa Chiesa. G. B.  Nostro celeste in Ciel. Chiude poi ilcapitolo e tutto il poema, volgendosi a Dio, e pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi. Tale è l'analisi che ci ha data del poema del Falamonica Spatorno. Non poteva questa essere più ampia dovendo costituire parte di un articolo della sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desiderio del medesimo, poi chè pare anoi, che altri passi, e forse più felici, dovrebb'esso contenere, se, come dicegli, questo poema dopo la Commedia di Dante, e prima dell'Orlando furioso dee tenersi per la migliore composizione poetica che in quel l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo comunicherà al Pubblico colle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali più degno par di tutto quell collegio levarsi contra tutti e batter l’ali. Dico Aristotil posto in sì gran pregio di lor filosofanti un lume acceso E pur dal ciel si trova dato in spregio si ch’io restai fra me tutto sospeso con l’alma or. Nome compiuto: Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile. Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amativa. Commedia filosofica.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --  implicatura dell’atto conversazionale – filosofia castelvetranese – scuola di Castelvetrano – filosofia trapanese – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano). Abstract. Grice: “When I devised my programme in pirotology, I did warn the sceptical that he may not want it! It’s based on ‘inter-soggetivo’ as the Italians call it!  Keywords: inter-soggetivo. Filosofo castelevetranese. Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Castelvetrano, Trapani, Sicilia. Grice: “Do not multiply the senses of ‘state’ (normative, prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult to assess the philosophy of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into ‘conventional sign’ and ‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a way to suprass the type of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice: “The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s, Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of an objectified thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only the pure act of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical process. All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the dialectics of the transcendental subject, which is distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees conversation is a concerted act that overcomes the apparent difficulties of inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental subjects. Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it influenced two Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London, Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori esponenti del idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda L’Istituto dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica istruzione (Riforma Gentile). La sua filosofia è detta attualismo.  Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa Curti. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per posti di interno di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri, tra gli altri, Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali, Crivellucci, professore di storia, e Jaja, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto su Gentile. Dopo la laurea, con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene una cattedra in filosofia presso il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si sposta a Napoli.  Sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Federico Gentile, i gemelli Gaetano G. e Giovanni G. junior, Giuseppe G., e Tonino Gentile. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Ottiene poi la cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di POJERO (si veda) e fonda “Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano. Durante gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio continuo. Uniti dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Insieme fondano “La Critica”  al rinnovamento della cultura italiana. L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del filosofo che parla “ex cathedra”,  ma quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili».  Fonda il “Giornale critico della filosofia italiana”.  Diviene consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B.A ., ovvero alle “Antichità” e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia dei Lincei.  G. non mostra particolare interesse nel confronto del fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma G., fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento giuridico dello stato). Resta FASCISTA e pubblica il “Manifesto degli intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto sancisce l'allontanamento di G. da Croce, che gli risponde con un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A G. si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa 3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti, che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni dall'Università.  Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa.  Non mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato. Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le sue opere a causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del cattolicesimo come una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore alla filosofia: ‘theologia ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri, Gioberti e Manzoni. Degna di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia, impegnandosi anche presso Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de' Fiori e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa, come richiesto da alcuni cattolici. Comincia una lunga polemica contro Vecchi, che Gentile accusa di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe.” “La Roma antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ --  Nel Discorso del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune questioni rimaste in sospeso con il governo precedente.  Severi rispose a G. lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la proposta. G. replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. G. respinse in un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro con MUSSOLINI sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di riformare L’Accademia dei Lincei che e assorbita dall'Accademia. Venne qui tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicura che io potevo benissimo restare in disparate. Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona. Negare questa visita non e possibile. Feci comodamente il viaggio con Fortunato. Ebbi un colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo. Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico aspetto. Credo di aver fatto molto bene all’Italia. Non mi chiese nulla, non mi fece offerta. Il colloquio fu a quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale. Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita. Sostenne la chiamata all’armi e la coscrizione militare nell'esercito della RSI, auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta di Mussolini.  Intanto il figlio, Federico G., capitano d'artiglieria del Regio Esercito, e internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in condizioni particolarmente severe. F. G. e l'unico ufficiale italiano del campo a non ricevere la posta di ritorno. F. G. aveva aderito alla RSI, ma non aveva accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare in Italia da civile. G. elogia pubblicamente al condottiero della grande Germania, e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse. Pochi giorni dopo, Federico G., venne trasferito in un campo meno duro. Infine, gli e permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa della RSI, riceve  diverse missive contenenti minacce di morte. In una in particolare era riportato. Tu sei responsabile dell'assassinio dei cinque. L'accusa e riferita alla fucilazione di cinque renitenti alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità, che detesta G., ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive violenze del suo reparto allo stesso MUSSOLINI. G. non e assolutamente collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta armata che però G. declina. Non sono così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono sempre disponibile. Considerato in ambito resistenziale come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio di un esercito occupante, è ucciso sulla soglia di Villa di Montalto al Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa nei pressi della villa. Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si avvicina, tenendo sotto braccio un saggio di filosofia – “Apperance and Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un filosofo. Abbassa il vetro per prestare ascolto. E subito raggiunto dai colpi della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo. G., colpito direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira. E un episodio che divide lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite, venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola esclusione del Partito Comunista, che ri-vendica l'esecuzione. E sepolto nella basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo l'attentato, le autorità della R. S. I.,  dopo aver sospettato all'inizio lo stesso Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti morali. Grazie al diretto intervento della famiglia, gl’arrestati sono rimessi in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi gentiliani. La filosofia di G. e da lui denominata “attualismo” o idealismo attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e l’antitesi dell’oggetto. Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto, pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi” –Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista (naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una. Qui è evidente l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che dell'hegelismo. Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia” e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”. Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che "tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti" (A opposto B). Infatti G.  ritiene la ‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel rapporto dell’impiegare e l’impiegato. Recuperando La Dottrina della scienza di Fichte, G. afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto) rappresentata dall'espressione --  intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf. inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr. implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale – l’impiegato --. G. dedica la sua attenzione al tema della soggettività dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene G. tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto” né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un "cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza, proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un ideologo del regime.La filosofia politica di G. è  fortemente attivista e attualista (cioè trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’ condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in G. troviamo il primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per G., ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua dottrina è di tipo spiritualistico. La dottrina non è la sola qualificazione politica che dà dello speculative. G. infatti e un ‘liberale’ -- nonostante sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso nel suo processo storico. Un individuo e  ‘libero’ se esplica la sua moralità nella forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico -- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra storica, la quale governa l'Unità d'Italia. Impone un governo autoritario (concezione ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare l'individualità dei singoli, quella che G. definisce come la spinta alla disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto, per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come "stato educatore". Se G. voglia uno stato totalitario vero e proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del regime, G. fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che accoglie tutto in sé. Con il regime si può avere vero "liberalismo" in quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. G. dimostra un forte approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un "atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini: anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione, ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica, mediocre e furbastra. In quanto ideologo, G. sostiene che la dottrina revoluzionaria si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e non il contrario). Il fine è che nella società italiana non vi siano più contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura della dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in ambito lavorativo.  Attraverso l'istituzione della  cooperative e la corporazione, la quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia, progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe (classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il popolo sano ad ascoltare la voce della patria, esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta fratricida", di cui comunque non vedrà la fine.  Il gentilismo fu una delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario" di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per l'idealista G., a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo "passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica della storia è costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo sviluppo. Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che G. cura, il "Moro" infatti critica il materialismo volgare. Questo concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo G., Marx, attribuisce alla “prassi”, considerata come attività sensibile umana, la funzione di far derivare a torto il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo. G. riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima, negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo compito sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso l'educando (tutee – G. qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr. ‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro, proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica), facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati. Questi concetti ispirano la riforma scolastica attuata da G. in veste di ministro della Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato (viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’ per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli, o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica e messa in secondo piano, poiché e una materia priva  di valore universale, che ha la sua importanza solo a livello professionale. Difatti G., a differenza di Croce che sostene l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di Fermi nel gruppo dei ragazzi di via Panisperna, che divenne anche amico del figlio Giovanni G. jr., coetaneo di Majorana) e cercò di instaurare un confronto costruttivo con il scientism. L'obbligo scolastico fu innalzato a 14 anni ed è istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni. L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra il ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi – l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce. Anche G. nel complesso mostra posizioni poco ricettive verso il femminismo (il femminismo è morto, dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i licei dovessero formare i futuri capi guerrieri. Nel triennio dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, LA FILOSOFIA, adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al popolo minuto. G. è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fa Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche G. forma la cultura filosofica italiana. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di G. e la fascistizzazione dell'attualismo e pertanto una deformazione dell'idealismo. Al di là della sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a G. un notevole spessore filosofico. G. è fascista e paga con la vita la sua fedeltà alla dottrina. Ma è anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di G. e create l'istituto di studi gentiliani e la fondazione G. a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche da Severino, che ravvisandovi una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. G. e certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo europeo. Gli venne dedicato un francobollo delle poste italiane, unico tra le personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte della Repubblica Italiana.  L'assassinio di G. è una carognata ingiusta e vigliacca. G. non è fascista. Che gl’anti-fascisti sono dei acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non hanno il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi minano. Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista) nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo Cicero e con introduzione di Severino, Bompiani, Milano  Di carattere storiografico Delle commedie di Grazzini detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”; “Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Bruno e il pensiero del Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; BSpaventa; Manzoni e Leopardi; Economia ed etica; G. un filosofo scomodo; L'insegnamento della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo; si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; G. Scritti per il Corriere. Note  Vi è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere della Sera).  Cit. di Pampaloni tratta da Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, Nuova Storia contemporanea, Dello stesso autore,cfr. G.. Al di là di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro", Chieti, Solfanelli, Scheda senatore G. Simoncelli Benedetti, L'Enciclopedia Italiana Treccani e la sua biblioteca, Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui  Ripubblicato come Bruno e il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S. saggi cult. cont.  Bruno. LE VICENDE DELLA STATUA  Vecchi, Treccani  Paolo Simoncelli.  La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le bufale, l'Opinione, Mieli, G. critica in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo vano  Simoncelli Simoncelli Perfetti, ASSASSINIO D’UN FILOSOFO; G., di Turi; G.  Il Contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia”Treccani  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo Perfetti, Assassinio di un filosofo Perfetti, Assassinio di un filosofo, Canfora, La sentenza.  Marchesi e G., Palermo, Sellerio, Perfetti, Assassinio di un filosofo.  Vettori, G., Editrice Italiana, Roma, Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania, in La Repubblica, Carioti, Quando G. s'inchina a Hitler per salvare il figlio, Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi, Historia", Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo Mondadori Editore, Milano. G., sdegnato, minaccia di denunciarlo a Mussolini"  Chianesi, Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di vista. Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in Carratù. Paoletti, "IL DELITTO G.: esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da Martini "Paolo" uno dei due esecutori materiali. Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiede se è il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non attraverso i due finestrini posteriori. Resistenza: Angela, la ragazza col fiore rosso Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. dove morire, in Corriere della Sera, Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo. Mattei)  Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione Micheletti, Brescia, Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. doveva morire, sul Corriere della Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per dissociarsi."  Maria Cristina Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile, La Repubblica, 24 aprile   Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono l'archeologo  Romano. Turi, G. Così Gaetano G. ricorda il suo intervento presso la prefettura. Quella sera stessa, per desiderio di mia madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli parlai della voce di rappresaglie diffusasi in città, esprimendogli la ferma e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva, venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio in quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era levata a deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e rappresaglie. È ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante atteggiamento.  Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su libero quotidiano. Attualismo», Enciclopedia Treccani  Fusaro, G.  Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice hegeliana in G., si veda quest'intervista a Sasso. L'intervista è compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche. Minozzi, Saggio di una teoria dell'essere come presenza pura, Il Mulino, G. quindi contestava a Fichte la trascendenza dell'io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un agire pratico dilatato all'infinito (cattivo infinito), fermo alla contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di religione, Firenze, Sansoni).  G., Mussolini, LA DOTTRINA DEL FASCISMO. Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, Luca, G. e il liberalismo, Mussolini, Volpe, G., Fascismo, Enciclopedia Italiana. Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in G., Giornale critico della filosofia italiana, Belardelli, Il fascismo e Mazzini  G., Manifesto degl’intellettuali fascisti  G., "Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo (Conferenza tenuta a Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di G.  La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli,  [Boffi:] Qual è il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? G.: Questa limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche, quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo nella loro attività.  Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali e professionali per seguire la scuola umanistica.»  (R.Sandron, Il fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Boffi, Spadafora, G.: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di pedagogia e altri studi, Armando, Galavotti, La filosofia italiana e il neo-idealismo di Croce e G., Homolaicus.  Il mistero di Majorana  Guglielman, Dalla scuola per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma G. e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per una "storia dell'insegnamento della storia (Guspini), Roma, Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune varianti, sulla rivista Scuola e Città con il titolo Il liceo femminile Manacorda D'Amico, Romagnoli, Donne, la Resistenza taciuta. L'esclusione delle donne nella società fascista  G., La donna nella coscienza moderna, in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le donne nel regime fascista,  Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale Pubblica Lettura, Grazia, Le donne nel regime G., La riforma della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni, qui tra parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino,  Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta in Il Sole 24 ore Domenica, Sasso, Le due Italie di G., Bologna, il Mulino, Beckstein, G. und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation einer idealistischen Philosophie, Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica, Filosofia: A Firenze Convegno STUDI GENTILIANI Fondazione Gentile Dipartimento di Filosofia Roma Liberiamo la filosofia di G. dalla faziosità Severino: Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto Quotidiano  È G. il profeta del la civiltà tecnica.  «I nemici di G.», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai  Severino, dalla quarta di copertina de L'attualismo, Milano, Giunti,  Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, "La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il Giornale.  Monografie principali Carlini, Studi gentiliani,  G., la vita e il pensiero a cura della Fondazione G. per gli Studi filosofici, Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Canfora, La sentenza. Marchesi e G., Palermo, Sellerio, Noce, G.. Per una interpretazione transpolitica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, Cavallera, Immagine e costruzione del reale nel pensiero di G., Roma, Fondazione Spirito, Sasso, Filosofia e idealismo. G., Napoli, Bibliopolis, Hervé A. Cavallera, Riflessione e azione formativa: l'attualismo di G., Roma, Fondazione Spirito, Brianese, Invito al pensiero di G., Milano, Mursia, Sasso, Le due Italie di G., Bologna, il Mulino, Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su G., Firenze, La Nuova Italia, Hervé a. Cavallera, G.. L’essere e il divenire, SEAM, Roma, Paolo Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni Gentile, da "Le storie, la storia", Milano, Rizzoli,  Daniela Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio Romano, Giovanni Gentile, un filosofo al potere negli anni del regime, Milano, Rizzoli, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Firenze, Le Lettere, Turi, G.. Una biografia, Torino, POMBA, Cavallera, Ethos, Eros e Tanathos in G., Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’IMMAGINE DEL FASCISMO in G., Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, il Mulino, Spanio, G., Roma, Carocci,. Paolo Bettineschi, Critica della prassi assoluta. Analisi dell'idealismo gentiliano, Napoli, Orthotes,. Paolo Simoncelli, Non credo neanch'io alla razza. G. e i colleghi ebrei, Firenze, Le Lettere,. Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di G., Milano, Adelphi,  A. James Gregor, G.: IL FILOSOFO DEL FASCISMO, Pensa, Lecce, Pescosolido, Ancora sulla morte di G.. A proposito di un volume, in Nuova Rivista Storica, Vigna, Studi gentiliani,  Orthotes, Napoli-Salerno. Valentina Gaspardo, G. e la sfida liberale, AM Edizioni, Vigonza (PD). Altri studi  Alunni, G. ou l'interminable traduction d'une politique de la pensée, Paris, Lignes, Michel Surya, Les Extrême-droites en France et en Europe Alunni, Ansichten auf Italien oder der umstrittene Historismus, in Streuung und Bindung über Orte und Sprachen der Philosophie, Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, Alunni, Heidegger, la piste italienne, Paris, in Libération, (en collaboration avec Catherine Paoletti pour l'interview de Ernesto Grassi), Alunni, G. Heidegger. Note sur un point de (non) ‘traduction’, Paris, Cahier du Collège de Philosophie, Éd. Osiris Charles Alunni, Archéobibliographie. Eugenio Garin, Paris, Préfaces, Alunni, G., Grassi e Spaventa, Paris, Dictionnaire des Auteurs Laffont-Bompiani, Laffont Alunni, Attualità, attuosità (le vocabulaire italien de l'actualité-réalité) Paris, Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, [dir. Cassin], Le Seuil-Robert,  Antonio Cammarana, Proposizioni sulla filosofia di G., prefazione di Plebe, Roma, Gruppo parlamentare MSI-DN, Senato della Repubblica, Pagine, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Antonio Cammarana, Teorica della reazione dialettica: filosofia del postcomunismo, Roma, Gruppo parlamentare MSI-DN, Senato della Repubblica, Pagine, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Amico, Un libro per Eva. Il difficile cammino dell'istruzione della donna in Italia: la storia, le protagoniste, Milano, Angeli, VLuca, Un consigliere comunale di nome G.. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, Nuova Storia Contemporanea, Luca, G.. Al di là di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro", Chieti, Solfanelli, Fede, tra attualità e attualismo, Pagine Ialenti, La Logica come Teoria del conoscere in G.. Un'opera anticipatrice di istanze postmoderne?, Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, Manacorda, Storia dell'educazione, Roma, Newton et Compton, Marchi, La filosofia morale e giuridica di G., Stabilimento Tipografico F.lli Marchi, Camerino, Myra E. Moss, IL FILOSOFO FASCISTA DI MUSSOLINI. G. rivisitato, Armando Editore, Pesce, La fenomenologia della coscienza in G., in Quaderni Leif, Antonio Giovanni Pesce, L'interiorità intersoggettiva dell'attualismo. Il personalismo di G., Roma, Aracne, Pesce, La filosofia della nuova Italia. Il progetto etico-politico di G., Viagrande, Algra,. Vincenzo Pirro, Regnum hominisl'umanesimo di G., Roma, Nuova Cultura,  Vincenzo Pirro, Dopo G. dove va la scuola italiana, Firenze, Le Lettere Pirro, Filosofia e Politica in G., Roma, Aracne, Rossi, La presenza e l'ombra. La pedagogia di G., Roma, Anicia, Rota, Intellettuali, dittatura, razzismo di Stato, Milano, Angeli, Primo Siena, G.. la critica alla democrazia, Volpe editore, Siena,  G.. Un italiano nelle intemperie, Solfanelli, Tringali, L'attualismo è sempre attuale. Saggio su G., Vettori, G., Roma, Editrice Italiana, Veneziani, G. Pensare l'Italia, Le Lettere, Firenze,   Attualismo (filosofia) FASCISMO Idealismo italiano Manifesto degl’intellettuali FASCISTI Riforma G. Uccisione di G. Spirito, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Giovanni Gentile, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G. su accademici della crusca. org, Accademia della Crusca. H  Questa soluzione della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che per la loro indole amano starsene alla fine­ stra a godere dello spettacolo che essi contemplano, ma di cui non hanno la responsabilità (né merito, né demerito). Nella strada la gente ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il filosofo (che come tale deve essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si rende conto e si frega le mani. L’ideale di LUCREZIO, che è alla base della eterna leggenda del filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione per chiudersi nel pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli certamiua magna tueri per campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapienlum tempia serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere vita.e, certarc ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum mentes, o pectora caeca. L'etica come legge. Disciplina. Positivismo ed empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e teoria. Oggetto del volere. Volontà- autoctisi. Praticità del conoscere. Unità cli teorico e pratico. L·atto. L'individuo. Senso realistico e senso idealistico della individualità. Individuo e società. Comunità immanente ali' individuo come sua legge. La comunità ideale e la gloria.  Vox populi. La concretezza dell'individuo. La conquista dei valori. li processo d<>IJa individualità. La parti­colarità dell'individuo nello spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità, volere, carattere. Il carattere attraverso la condotta empirica. Critica del concetto della molteplicità degli atti o l'unità del volere. Presente ed estemporaneo nel carattere. Trascendentalità del carattere.Il coraggio civile. - i> La socialità origmaria.Società trascendentale o società in interiore homine. Alte" e socius. Dalla cosa al socio. Il dialogo intemo, o trascendentale. Il momento dell'alterità. La dialettica pratica. La crisi dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri  Il bene e il male. La categoria etica e l'esperienza. Dialettica dell'Io.  li nulla. -Unicità della categoria logica. La legge dell'uomo: Pett. sa/ Intendere e amare. Intendere pratico. La categoria etica. Il senso morale e la sua inattualità. Dovere e doveri. Errore di metodo nell'etica. Necessità cli pen­ --Lo Stato. Concetto dello Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e governati. Autorità e libertà. Il liberalismo. Etica e politica. Stato etico. Moralismo, Stato ed econoraia . Economicità dell'uomo e quincù dello Stato. Umanità dell'operare economico. Operare utilitario o utile? Umano e subumano. Il corpo e l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica dell'astratto. Lo schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma mate­ matica dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. Moralità ed eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. Immanenza della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e rapporto di questa con lo Stato. Necessità cli questo rapporlo. Cultura. Scienze naturali. L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia nella politica dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello Stato.  P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. Critica del punto di vista intellettualistico. Concreto punto di vista pratico.  Il riconoscimento degli altri Stati e il Diritto internazionale, La guerra. La pace e la collaborazione umana. -fil Impero e ordine nuovo. LaStoria. La Storia come storia dello Stato. Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione. L'Unico. Umansimo del lavoro. Famiglia. Categorie di lavoratori e rappresentanza politica. La Politica. Definizione della politica. Etica e politica. Im­ possioilità cli un'etica apolitica. Il privato e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario e demo­crazia. L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes. Guerra e pace.Ordine. Senti­ mento politico. Genio politico. La politica del fanciullo. La politica in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte. Politica della scienza. Politica della lede. Chiesa e proselitismo. La dottrina della tolleranza. -La politica diritto e dovere. La Società trascendentale, la morte e l' im­ mortalità. 11 motivo della fede nell’immortalità. Immortalità e religione. L'equivoco. Illusioni. Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la soluzione. La morte. L'immanenza dell'azione. NUOVI INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT ITALIANA Bollami dell' Università di Leida in un suo interessante opuscolo, qualche anno fa mettev a in, mostra una  lunga fdza di evidenti spropositi commessi da filosofi contemporanei di ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo  avere rilevato con 1’Herbart, con l’Alexander, con Barth. con Taggart, che Hegel non concepì mai la follìa 4 Lde-  durre dal pensiero auro ciò che non è puro pensier o (realtà  naturale e realtà storica), ma volle solo sistemare logicamente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e e  la sua possibilità. — la cognizione necessariamente empirica della natura e della storia, soggiunge. Intanto  anche Paulsen in vólliger Hcgellosigkeit afferma (nel  suo Kant) che Hegel deduce a priori la stessa  natura ».Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero come  tradurre in italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza,  cosi caro tuttavia agli studiosi di filosofia italiani, fu dato  recentemente dal Croce 2 qualche cenno' significativo dove  si mostrò con quanta competenza sia stato spesso giudicato in Italia 1 Hegel da quelli che volevano passare per 1 Alte I ernunft unii netto I’erstami, Leiden. Critica. Saggi critici. suoi avversari. Una prova recentissima ne ha avuta però  lo scrivente per aver curata una nuova ristampa degli Lh-  menti di filosofia 1 di Fiorentino secondo la primitiva edizione, dall’autore più tardi parzialmente  rifatta e radicalmente mutata nell’ indirizzo dottrinale. Alcuni (tra i quali uomini dotti nella storia della filosofia)  han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un  Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi  degli ultimi anni della sua vita era stato costretto ad abbandonare le dottrine di Hegel per accostarsi al neo-kantismo. E un insegnante di liceo, a chi proponeva il saggio  per testo scolastico, oppone senz'altro ch’egli non poteva adottare un libro prettamente hegeliano!. Molto probabilmente l’unico fondamento di quest’asserzione, che io denuncio soltanto per richiamare ancora  una volta l’attenzione sulla comune Hegellosigkeit, è in  ciò, che questo libro è stato ristampato per cura mia, e  da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, tralasciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il manuale di Fiorentino, nella sua forma originaria, come l’unico, fra quanti ne abbiamo in Italia, degna, ancoraci  es ser m esso nelle mani dei giov ani e tolto a base d’un  p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di avere  sufficientemente accennati nella mia prefazione alla detta  ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito  permesso dei colleglli accusatori, che il libro di Fiorentino nella prima edizione non è punto hegeliano;  e che la differenza tra la prima e la seconda edizione non è  divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kantismo ed empirismo spenceriano. Poiché ne avevo l’occasione, a me parve opportuno togliere di mano ai giovani, che cominciano a riflettere su  cose filosofiche, un libro,  raccomandato al nome di  Fiorentino, per tanti titoli benemerito della cultura filosofica italiana, nel quale s’insegnava a riflettere su verità di questo genere. Kant intende per a  priori soltanto ciò che non‘è derivato dalla sperienza, ma  che invece è condizione indispensabile, perchè la sperienza    1 Torino, Paravia, Psicologia e Logica  sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia  potuto originarsi da una associazione di esperienze anteriori accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai  suoi tempi, e prima del Darwin, porre il problema in questi  nuovi termini. L ’q trio ri kantiano è una funzione dell o  spinto, non già un dato : e questo ritenghiamo anche noi :  ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si possa  cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichiara che l’d priori kantiano è una semplice fermata al concetto dell’ attività preformata a  compiere certe funzioni, senza di cui la  sperienza non si farebbe; e che « la filosofia  moderna.... domanda: come si è preformata ? E cerca di  trovar la risposta in due fattori: l’associazionè e l’eredità; la prima che accumula, la  seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori  dell’individuo sarebbe ciò ch’è posteriori per la specie.   E altrove : Se il fine etico, che è la vita comune, è  stato il risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur  sempre vero che cotesto primo acquisto viene  oggi trasmesso come eredità, che gl’individui trovano, e non debbono più riacquistare). Proposizioni che si equivalgono nei due campi  della conoscenza e della pratica, e di cui lo stesso Fiorentino. ci dice la fonte, dove avverte che nella  filosofia di Spencer ogni a priori è sbandito, e tutto è  spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione ereditaria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo principio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si  costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della  conoscenza che non occorre qui valutare. Quello che non  ha bisogno certamente d’ulteriore schiarimento, è che tale  negazione dell'a priori e tale confusione del problema psicologico con lo gnoseologico, non può a niun patto accettarsi come integrazione del kantismo. C’era un Fiorentino, che pur poteva presentarsi agl’italiani, e che io ho rimesso in luce; un Fiorentino che non  s’era lasciato sfuggire il vero punto di questa questione  fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di vita o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e della  moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva  detto Vuoisi avvertire, che l’o priori non si deve intendere come qualche cosa di preesistente, di preformato.... ma  come una funzione essenziale dello spirito. Aveva discusso, opponendole l’una all altra, le dottrine di Kant e di Spencer intorno all’apriorità o aposteriorità della coscienza, e aveva dimostrato che non se ne può  dare nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è un  rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il corrispondente; ed è un rapporto semplice, che non si può dedurre dalla risultante delle nostre rappresentazioni. L’Io, la  coscienza è originaria. 11 fondamento dell'esperienza  non può essere attinto mediante l’esperienza. E questo fondamento è nella coscienza e nelle sue categorie. Se tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè l’idea  di sostanza, nè quella di causa, quali noi le concepiamo,  sarebbero ammissibili. Questo mi pare puro e schietto kantismo; e se. il concetto d’una possibile integrazione di Kant per via delle  ricerche psicogenetiche è uno sproposito, che oggi non ha  più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare anche evidente che ricondurre il manuale di Fiorentino a’ suoi  principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo editore, hegeliano o non hegeliano. Perchè, dato e. non concesso che empiristi si possa essere per proprio conto,  certo per nessuno è più sostenibile una svista di questo  genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione  di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una questione psicogenetica. Hegel, dunque, non c’è entrato proprio per nulla, be  ci fosse stata di Fiorentino un’edizione hegeliana anteriore alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino  hegeliano al kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello  che ho dovuto e potuto scegliere, francamente, mi pare  indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo, anche nella prima  redazione del suo manuale Fiorentino rende omaggio  al fantasma della materia opposta all’attività formale dello  spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido formalismo kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo  con l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre meglio, infinitamente meglio Kant, anche se non perfezionato, che Spencer! Si sente, per esser sinceri, negl’Elementi di Fiorentino un’eco lontana dei Principii di filosofia di Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo sull’auto-coscienza. Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare  in quell'autoctisi della coscienza accordata con tutto il formalismo astratto accettato e difeso dal Fiorentino,  io ritengo che potrebbero andare a braccetto con lui tutti  i kantiani più scrupolosi del mondo. Genovesi comincia a pubblicare in  Napoli i suoi Elemento, metaphysicae. Vico ha due profonde intuizioni fondamentali: una intorno alla potenza costruttiva dello  spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo  kantiano; P altra intorno al concetto dell’assoluto come  sviluppo nella natura e nel pensiero, per cui anticipò  il principio della nuova metafisica dimostrata dalla Logica di Hegel. Ne’ 6tioi Elementi di metafisica Genovesi invece si mostra seguace di un incoerente sincretismo, in cui la monadologia leibniziana s’accoppia con l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande  pensiero di Vico è spenta sul nascere, e finita con  1’uomo che nella solitaria meditazione del diritto, anzi  di tutto lo spirito come vive nella storia, aveva attinto  una forza speculativa che lo pose al di sopra e fuori  del tempo suo, episodio solenne nella storia del pensiero italiano. Gl’ interpetri del pensiero di Vico non  furono nè i suoi coetanei, nè i suoi immediati successori  nella filosofia italiana in genere e napoletana in ispecie. La vera interpetrazione cominciò in Germania con Jacobi, 1 dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di  pensiero nuovo, che venne suscitato dall’ hegelismo, da  Spaventa. Tra Vico e Spaventa  c’è un’ interruzione nello sviluppo dell’idealismo iniziato dalle opere  di Vico; nella quale il pensiero napoletano si appropria ed  elabora per conto suo la moderna filosofia europea. Questo  movimento può essere  designato dai nomi dei due pensatori che aprono e chiudono tale periodo, Da Genovesi a Galluppi. E così  appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq  d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di  cotesto periodo. Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata dentro i brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi  di Genovesi e di Galluppi, e corrispondenti ai confini  del reame di Napoli, ila chi ponga mente alle condizioni  d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico, alle  piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una  paiola, storiche, tra la parte meridionale e il resto della  penisola, troverà ovvia e storicamente esatta la linea  da me tracciata intorno ai pensatori che ho studiati e  Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer Offenbarung, in Werke, Leipzig. Sul kantismo vicinano cfr.  specialmente Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de métaphysigue et de morale, e gli scritti da me  citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B. Si’avknta Na-  poli, Vedi tfli Scritti Studi di letteratura, storia, filosofia, pubbi. da B. Crock, voi. I  (Napoli, Edizione della Critica). considerati come formanti una speciale serie storica  a sé.  Pel carattere generale della loro filosofia questi  pensatori costituiscono una continuata corrente di empirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui ben  presto il principio critico dominante nell’ empirismo  lockiano corrode ogni concetto metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese pochissimo noto  benché i suoi scritti consacrati all’interpretazione di  Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,  possano ancora esser letti con profitto  il quale, pur  combattendo la filosofia dell’esperienza di Galluppi  dal punto ili vista del kantismo, insiste tuttavia su  talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare alla Critica  Mia ragion pura in un senso decisamente empirico-oggettivo. Ma tutti quosti empiristi si potrebbero dividere in  due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di criiicisti;  e tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della filosofia  scozzese e di eclettici. Tra gl’ideologi scrittori come DELFICO, BORRELLI e BOZZELLI meritano  certamente di esser posti accanto agl’ ideologi contemporanei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi  quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchiandone spesso il pensiero pur senza ripeterlo. Anzi Borrelh e Bozzelli stanno, 1’uno per la sua genealogia del pensiero (com’ei chiama la sua filosofia dello spirito) e  per la sua critica di Kant, e 1’altro pel suo tentativo di  morale intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi;  di 8 ‘ ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle opere   di quest! filosofi e al tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché  per a nascita due degli ideologi furono più giovani dei criiicisti. il cui valore nondimeno fu giustamente rivendicato nella  storia della filosofia dall’ ottima monografia del professore F. Picavet su Les idéologues.  Una pari rivendicazione in prò dei confratelli italiani  vuol essere in parte il mio lavoro, mediante una larga  notizia e uno schiarimento delle loro dottrine. Onde ci  son rimasti documenti notevolissimi in libri ed opuscoli  estremamente rari, nelle riviste del tempo e in manoscritti ancora inediti.  In mezzo alle due generazioni alcuni pensatori levano la voce contro le tendenze materialistiche, palesi   o nascoste, proprie del pensiero speculativo di questi  ideologi, traendo autorità e argomenti dalla filosofia del  senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo di  Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna originalità di dottrine : ma con le loro esposizioni e coi loro  commenti di molti libri francesi, eco, per quanto fioea,  di celebri filosofie europee, valgono a suscitare o promuovere un moto di studi e di partecipazione al lavoro  filosofico straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce  la fibra del pensiero napoletano, e si prepara una scuola  di veramente alto e libero filosofare: da cui uscirà l’estetica di Sanctis e la metafisica e la  storia della filosofia di BSpaventa. In questa  parte la mia monografia studia scrittori filosofi mediocri, testimoni di cotesta preparazione al risveglio filosofico posteriore. Nella seconda generazione campeggiano due figure  principali: Galluppi e  Colecchi: due kantiani, di  cui si può dire che la vita speculativa si consumi tutta  nella meditazione del criticismo. Ed entrambi riescono  per due vie opposte al medesimo risultato, che è di  accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare profondamente lo spirito nella filosofia del loro paese. Galluppi   À combatte sempre, o quasi sempre, un Kant immaginario  con le armi del Kant reale ; e Colecchi combatte con  le armi stesse un immaginario Galluppi, o almeno un  Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui che  la dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge mai  il valore intrinseco delle dottrine da lui professate. Dalla  curiosa situazione di questi due pensatori, che genera  altre false posizioni nella filosofia italiana successiva,  nascono, com’è agevole pensare, due conseguenze: che la scuola dei galluppiani continuerà a combattere  Kant e tutta la filosofia tedesca posteriore, sempre meglio  conosciuta in grazia dell’influsso francese già accennato;  che la scuola di Colecchi e dei tedescheggianti continua per un pezzo a disconoscere il vero valore del  pensiero del Galluppi e di quella filosofia italiana, che  da lui prende le mosse : ossia della rosminiana e giobertiana.  Se da queste ricerche si sottrae la parte che concerne Genovesi e Galluppi, si può dire che esse  scoprano una regione presso che sconosciuta nel campo  della filosofia moderna. E poiché anche del Genovesi e  del Galluppi questo studio analitico della serie in cui  essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e in  parte più chiara il significato e il valore, può pure affermarsi, che l’insieme di queste ricerche colmi una  lacuna nella storia della filosofia italiana, anzi della  europea. Vico, infatti, e l’interpetrazione di Vico, i due  termini al cui intervallo coleste ricerche si riferiscono,  non sono due capitoli della storia della filosofia italiana,  ma due capitoli della storia della filosofia europea: ed  è difetto gravissimo quello che può notarsi in proposito  in tutte le recenti storie straniere della filosofia moderna. Genovesi,  Delfico, Borrelli, Bozzelli,  Galluppi e Colecchi sono nomi ai quali, una volta conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi pur  rovare un posto, e non degl’ infimi, nel quadro degli  u imi tentativi dell’empirismo naturalistico e materialistico e delle feconde discussioni  suscitate dalle Critiche di Kant in ogni paese civile. Il trionfo dell’Idea in Italia: Tari e Zio. Spaventa è stato nominato professore di filosofìa a Napoli;  e la sua nomina — scrive a lui stesso Meis, da  Napoli è stata accolta in questa città con una  commovente impazienza dal pubblico. Ma  Spaventa chiede ed ottenne di tornare e restare qualche  tempo a BOLOGNA, dove è passato, da Modena, a insegnare Storia della filosofìa, per farvi almeno il primo corso semestrale e non mancare al suo dovere  verso BOLOGNA. A Napoli, dopo una rapida  corsa, non anda se non negli ultimi  mesi dell’anno appresso. È a Torino, perchè  eletto deputato d’Atessa (ma la sua elezione è annullata per eccedenza del numero legale di  deputati professori,  quando gli pervenne la seguente [Già pubblicato nella Critica; ma qui ristampato con  molte aggiunte. Vedi per questi particolari il mio Spaventa, Firenze, Vailecchi] lettera di Zio, che è un curioso documento  delle disposizioni degli animi verso 1’hegelismo nella  gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era atteso: Napoli, Amico carissimo,   Mi prendo licenza di togliervi con questa mia una piccola  parte del tempo che cosi lodevolmente sacrate alla scienza.   E per due ragioni. Per procurarmi il bene di aver vostre  novello, e per dirvi poi alcunché sul trionfo dell’Idea, alla  qualo abbiamo data la nostra fede.   Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo  libro di Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro  scritto con molta spiritosità, e che non solo porrà a dovere  1’intelletto superficialissimo degli ecclettici francesi, ma farà  pure il suo buon effetto in mezzo al dilettantismo filosofico  de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire come il Pensiero  sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni positivismo  storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e Spirito,  Natura ed Umanità. Son persuaso p. es. che Pesame, che tanto ride dell’Jissere-per-si  e della Fila ridotta  a Pensiero da Meis, cesserà di sparlarne così frequeutemeute, dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha  dato di sé Jauet. Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione francese  una nuova vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in  mezzo agl’uomini, noi possiamo dire che oggi il suo proprio  principio filosofico, l’Assoluto Spirito, è la forza che dove consapevolmente invadere ogni cosa, e chiarificare le creature  tutte quante di un raggio della idealità infinita. Affrettatevi,  amico, a partecipare alla gran vittoria. Felice voi, che siete  sì bene apparecchiato a questa lotta, che chiude nel proprio  grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo, e  quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose corrono  come al bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller:  Diesen Kur der ganzen IVelt !  Il punto però che nel libro del Vera avrei desiderato più  estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei mondi. I,a  dottrina di Hegel su questa materia non può essere difesa  che movendo dal principio dell’ Unità della Coscienza di si dello Spirito, unità che, nel presupposto della pluralità de’  mondi, avrebbe fuori di sè i circoli della vita siderea oltretellurici ; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la pieua ed  una Coscienza di sè. A questa è necessario che tutto 1’essere  sia suo sapere. La dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in quel  presupposto, interamente falsata. Noi non conosceremmo pili  l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non  potendo darsi ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre,  post’ i mondi come innumerabili, intellezioni intinite, infinitamente diverse, dell’istesso Assoluto. E dove sarebbe l’idealità, 1’unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea medesima  dell’Assoluto, altri potrebbe osservare che quest’ idea appunto è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’Unità della Rivelazione universale dello Spirito sarebbe sempre  un postulato. Krause immagina una sintesi superiore do’  pianeti e delle stelle; ma la comunione dell’Umanità terrestre  colla solare è sempre data da lui come un’ intuizione, come  un desiderio!   Anche Tari, riconosce nella sua Lettera la necessità  della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi vedo sempre  che 1’ indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che il  fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa oramai necessario di approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico nel-  1’ influito filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al concetto della finalità assoluta, lo spirito. La lettera però del Tari appunto perchè, com’ ei dice,  tiene il germe del suo proprio sistema, avrebbe dovuto essere  più lunga e scritta più chiaramente. Vi prego intanto mandarmi una copia della vostra prolusione alla storia della filosofia italiana, perché n’ ebbi ili dono  nell’anno scorso una copia dal vostro fratello Silvio; ma  quando scesi in Basilicata per 1’insurrezione, la sperdei a  Potenza, e non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi con  questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto, allora usatemi la cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino, perchè  sarà mia cura farla richiedere da librai napoletani.   Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f Esso  dovrà levar grido straordinario, secondo che mi accennano i  comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal vostro  ingegno. Date presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi di tanto in tanto consapevole de’ vostri stndii, e segnatemi quelle opere che possono concorrere all’ aumento vero della  scienza. I miei ossequi a Tari ed all’ egregio De Sanctis. Se posso  attestarvi in alcunché la uiia devozione, comandatemi liberamente.   Vostro amico  Flokiano Dei. Zio.   AH’ Egregio Spaventa   Deputato al Parlamento Italiano in  Torino.   II saggio, da cui Zio prende le mosse, è 1 ’ Hé-  gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken), che Vera, allora professore di Storia della filosofia nell’Accademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi per  ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet  e da altri scolari del Cousin. Pessima, discepolo di Galluppi, dal Galluppi era passato al Gioberti e dal Gioberti al Krause; e mormorava contro  Hegel e gli hegeliani 1 .   La lettera di Tari, a cui Zio accenna,  è un articolo, uscito appunto nel fascicolo della torinese Rivista contemporanea, col titolo:   De’ rapporti del Kantismo collo stato della filosofia in  Alemagna, Lettera filosofica. Il difetto di chiarezza lamentato in questo scritto da Zio, e divenuto  poi sempre maggiore e sempre più caratteristico del-  P ingegno del Tari,  che ingegno ebbe e una certa  bizzarra genialità fa dire a Spaventa, in  una lettera a suo fratello Silvio. Ho letto molti mesi fa un articolo di Totonno... Un  1 Vedi il mio Spaventa; Spaventa, La fllos. ital. in relazione con la fllos. europea,  e una lettera dello stesso Pessina nella Critica  articolo filosofico, come puoi immaginarti, sopra un  punto di estetica. Mi pare che abbia studiato finora per  imparare a non farsi capire. I tedeschi non sono facili  a comprendersi, e la colpa è un po’ anche loro. Ma i  più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a Totonno;  il quale mi pare che abbia preso da costoro più i difetti che i pregi. Ti dico, in confidenza, che sono rimasto trasecolato; e che, dopo tanti anni e con tanto  ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui. Dopo tanti anni! S’erano conosciuti a Cassino, quando  Bertrando insegnava a Montecassino; e il secondo giorno, seduti fraternamente sulla  sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la conversazione. Dunque, che ne pensate delle categorie kantiane? Da lui Spaventa apprende i rudimenti  del tedesco; e, col suo aiuto, acquistato familiarità con  la letteratura filosofica tedesca. Nella quale Tari, chiuso nella solitudine di un villaggio  (Terelle, in provincia di Caserta), s’è sprofondato,  accumulando una meravigliosa erudizione. Questa però  non valse in verità a rischiarare il suo pensiero. Il  quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì nell’agnosticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui credette  si 'lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo  e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica presuppone un principio, che, essendo fuori del divenire,  è fuori della logica; e non si può chiamare Volontà, nè  Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro; poiché  ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movimento di pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza p 'ri SPAVBNTA < leU < scruti e (toc., ed. Croce, Cotuono, Le lettere di A. Tari in diresa dell’ « Innominabile», Iranl, Vecchi, non battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. Anch’io, Bpecie di Lohengrin, difendo il santo Graal. Sapete qual’ è? La dotta ignoranza, che Hegel chiama l’ignoranza dotta. Non è questo il luogo di chiarire questo innominabi-  liBmo o limitiamo,  com’ egli anche lo chiama,  di Tari. Giova piuttosto ricordare un aneddoto di Spaventa. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro  del Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto  di punire, gli scriveva: Ti volevo suggerire di chiedere consiglio al nostro caro Tari. Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da lui il diritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando  fu nominato professore ordinario, che la sua  nomina era in contradizione coll’ esistenza dell’Innominabile, principio, essenza, natura, causa di ogni cosa  e avvenimento. Figurati il diritto di punire! Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo  scolaro, rispondeva a questo: Parliamo ora un pò del quesito, con cui mi tenta 1’ amicissimo Spaventa. Eccolo: Come concilieremo il diritto di punire con la dottrina dell’ Innominabile? Se fossi profeta, o figlio di profeta, di  rimbecco direi : Vade retro, Satana. Noli tentare Tariiim  admiratorem tuum! Ma, non essendo Gesù, nè gesuita,  mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia: Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo questa  pietra di giuridico scandalo? Anche a te metterebbe  conto salvar capra e cavolo ; cioè la capra della Fenomenalità di ogni fatto umano, ed il cavolo della pretesa V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in Italia COTI’GNO, Leu. cit M   Giustizia Assoluta? Eppure ricordo che, disputando  con me di questo brocardico, uscisti in questa categorica  sentenza: — La pena non è che una valvola di sicu-  rezza che la società impiega a garentirsi di chi la insidia 1 . E di fatto, il voler costruire a priori un manifesto modus rivendi essenziale, epperò cangevole etno-crono-topograficamente è marcia follia. La Idea Giustizia  Assoluta anzidetto, s’ha a lasciare nel natio concavo  della luna, insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’innatismo. Chi ben pensa, riconosce la deplorevole povertà  di siffatte deduzioni... Diritti e doveri, Pene e ricompense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle uova  dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio  umano le facesse rotolare nel basso mondo; ma si formarono, con un quasi stillicidio psicologico, a poco a  poco scavandosi un bucherello nel naturale egoismo.  E tutta la giustificazione delle pene, da quella del taglione e quella penitenziaria, che è ancora in Werden  si riduce a formare la necessità di salvarsi al bosco  dalle belve accoppandole, ed alla città dai birboni rendendoli incapaci di nuocere. Ora quali sono i birboni?  U1 e 11 busil tis; e qui interviene P Innominabile a  comporre la gran lite, illuminando i legislatori sul da  fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si trovano  sempre. Il codice penale, non che un bene in sè, è un  necessario male, presso a poco simigliante alla chirurgica  estirpazione di un arto, il quale, se curabile, anche a  dilungo, l’operatore rispetta religiosamente... Un innomi 'n^ 10 Spaventa avrà l )ure " sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per  del delino, ! V ? Cbe neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia   dello s r n e a,,a | S0Cie,A: d ’"',a necf8sUà Andata su"» natura  o spirito, ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino pensiero  dello spaventa intorno all'assoluta giustificazione della pena é ne  suoi Principi di dica, ed. Gentile, p. 102 sgg. minabilista può solo affermare, in barba a tutti i dottrinari criminalisti del mondo, come qualmente il barbaro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par suo,  fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di  non aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in-  neggerà al magnanimo Umberto, il quale, facendo grazia all’abietto Passannante, confondeva molti tirannelli stranieri e mostravasi anche dappiù del Re Galantuomo  suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il  palo, in Occidente legislazioni che aboliscono il carnefice (v. ult. lett. di Hugo): chi ha ragione?  Secondo l’illustre prof. Vera ha ragione il palo!... 1  Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a modo  mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmodeo Spaventa. Avviatosi per la sua striida, Tari,  dunque, negava coraggiosamente jT diritto come diritto. Poeto-1’assoluto di là dal divenire, nel divenire, ch’egli  vedeva indirizzato a un Nirvana iperindividualistico, non  poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il magnifico  proemio dello Spaventa ai Prineipii di etica intorno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi al  concetto dell’ assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giustizia non solo comporta, ma richiede per la propria  realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli etno-cronotopouraficamente), non era stato scritto. E come in quel  concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che  egli non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità  del suo Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza,  cioè di qua dallo spirito.   Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a 1 A. Vbra pubblica un opuscolo La pena iti morte (risi, nel Sappi filosofici, Napoli, Morano, dove svolgeva le  ragioni del sistema hegeliano in sostegno della pena di morte. COTUONO, Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni feconde, senza scoprire il principio vero del suo pensiero.  Molti si ritrassero presto sconfortati dall’impresa; etra  questi Zio, che con tanto entusiasmo studia le opere e la letteratura hegeliana; e ansiosamente aspetta i saggi di Spaventa (la prolusione  letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia  italiana e la Filosofia di Gioberti, per  fede vaga che indi potesse venirgli la luce. Zio allora si prepara a un corso di lezioni,  sulla Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse  alcuni mesi dopo con una enfatica lettura, la quale,  come documento aneli’ essa de’tempi, merita d’essere  ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia  delle scienze filosofiche di Hegel; letta in privato convegno: scritto pieno di  giovanile entusiasmo e di ardore filosofico. Oltre le opere  del Vera, fin allora pubblicate, l’Autore vi cita ed esalta  1 aurea operetta di Werder (Logile, als Commentar  u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili, Berlino Idèi) restuta incompiuta con grave danno di coloro che s’ iniziano alla filosofia hegeliana;  i Esquisse de logique di Michelet (Paris); e 1 Risi, in Scritti filosofici, ed. Gentile. Pallavicino, a una figliola del quale lo Spaventa aveva privatamente Impartito qualche lezione, gii scriveva per questo opuscolo: Amico pregiatissimo,  l.a ringrazio della sua Prolusione  un magnifico lavoro  il quale  rnfiìf. -u- l Sn me . (le ?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande  Opera eli Ella sta meditando. Ammiratore di Gioberti. posso  io non ammirare il suo degno interprete: Spaventa? lo l’ammiro  e i amo!  Pallavicino. Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In 16». Reca quest'epigrafe:  « Essere, sapersi e volersi come la Personalità eterna dello Spirito,  ecco il line della lilosofla ». di questo le lezioni Ueber die Persònliehkeit Oottes u.  Unsterblichkeit der Seele, oder die ewige Persònliehkeit des  Geistes (Berlin); le quali quando sono pubblicate, tenevano aspetto di polemica negativa in rapporto a certi donimi dell’ intelletto; ma 1’avanzato  sviluppo della scienza ha tolto loro il senso irreligioso,  che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo volevano  a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come  la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità: ciò che appare, nota Zio, dell’opera  maggiore di Michelet, Die Epvphanie der ewigen Persònlichkeit des Geistes. A  proposito del problema hegeliano del punto di partenza  fenomenologico e logico della filosofia, l’autore dichiara  di sperare che le difficoltà sarebbero state da lui sciolte  più chiaramente nelle note a una sua traduzione del  System der Wissenschaft, ein philosophisches Eincheiridion  (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz : che avrei di già  pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra che  tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al libero pensiero. Un altro suo lavoro concerneva la filosofia di  Krause, la quale, specialmente per mezzo di Ahrens  (il cui Corso di diritto naturale, è molto letto  dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche tradotto  già due volte in italiano, da Francesco Trincherà e da  Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi « in qualche modo  popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul  sistema della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos.,  1828)», dice il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo- 1 Corso Ul Diruto naturale o della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trincherà, Napoli.  e Capolago. Nuova trad. eseguita sulla  quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'Ancora. Più tardi la sesta ed. (uscita in ted., Vienna, è trad.  in italiano da Margllieri, Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano in  classico modo il fermento incommensurabile dal quale  era travagliata 1’intera Allemagna alla vigilia dell’ apparizione d’ Hegel sul teatro della scienza. Ma in Krause  c’è il presentimento della scoperta, che fu fatta invece  da Hegel; e questo giudizio era il risultamento di una  conveniente disamina. A tanto speriamo di adempiere  più tardi, pubblicando un nostro lavoro, che ha per titolo: Studii sul rapporto del Sistema della scienza di  Krause a quello di Hegel . Appunto per quella certa  popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel  Napoletano, Zio stima opportuno che fosse discussa la sua teorica generale da’ cultori della filosofia. Se non cominciamo a disputare pubblicamente sulle  nostre convinzioni speculative, il trionfo della scienza  e il progresso della nazione non saranno nè liberi nè  universali  L’opuscolo è dedicato ai napoletani con  parole di questo tono:  A voi dedico, o fratelli, questo  piccolo lavoro, il quale non è altro che il programma  dell andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, secondo le mie convinzioni, il nostro paese, per essere  in armoniu coll’ indirizzo generale della scienza in Europa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete condurlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè giovane,  è già percosso dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze  lei corpo che 1’opera dissolutrice della tirannide seppe  in molti generare negli anni scorsi». Continuava annunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme  divine sarebbero venute ad accendere 1’ anima dei napoletani : tre sedendovi d’un unico sole, il libero  Pensiero; le tre fiamme della Filosofia, della Rivoluzione,  dell’Amore. Colla prima darete fine alla superstizione del Papato, la più maligna fra quelle che ancora corrodono lo spirito moderno. Colla seconda scrollerete il dritto divino ed ogni altra specie d’irragionevole imperio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in creazione  eterna di bellezza e di verità ; costituirete I’Italia, e  getterete il fondamento alla fratellanza democratica di  tutta Europa. Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia  dello spirilo, per mostrare come lo spirito sia necessariamente condotto dalla sua interna dialettica al punto  di vista del sapere assoluto, il Del Zio schizza con  pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli invitava  con molto calore: Deliberando di seguirmi fraternamente nel mondo del sapere, renderete testimonianza  dell’ istinto divino che move lo spirito del nostro tempo,  e della vita novella d’Italia resa a sè stessa ed alla  sua naturale grandezza... Il nuovo metodo dell’insegnamento filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore  assoluto, della morte alle cose finite e a se stesso, e  dell’ amore per 1’ assoluto, in cui lo spirito deve rinascere. Quindi combatteva le obbiezioni mosse all’ hegelismo dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimentalismo ipocrita della santocchieria. Ai filosofi dell’intelletto, del pensare finito addebitava la loro incosciente  predilezione dello scetticismo e del nullismo: e dimostra che « non solo il sapere assoluto è possibile, ma  che esso è 1’unicamente possibile; poiché ninna realtà  finita, naturale o spirituale, può dirsi conosciuta fuori  del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici di  buona o di mala fede, cercava d’ additare il carattere  intrinsecamente religioso della filosofia hegeliana, nella  quale la verità della religione non è negata, ma trasfigurata e fatta valere per la ragione, assolutamente. In-    1 Intelletto (Verstand), nel senso di Hegel.  fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora saldissimo tra i giobertiani di Napoli, del primato italico-  e della filosofia nazionale, sosteneva, a simiglianza di Spaventa, che la grandezza del nostro spirito non è  tanto nel sapersi precursore di tutto l’incivilimento occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne il  successore eterno. Si ammira Vico: ma egli travaglia  por tutta la vita per provare che uno spirito solo regge  il mondo delle nazioni, che una è la mente dell’Umanità, e che un piano ideale stringe in armonia assoluta  la totalità de’ fatti politici e le forme svariatissime del1’intera vita sociale. La storia della filosofia è davvero un’ opera unica, una sola attività produttrice. Le frutta abbondanti di quei primi pensieri filosofici,  che gl’ italiani destarono nella  coscienza umana sono appunto i grandi sistemi della filosofia moderna... Nutricandoci del supere e della vita  europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,  celebreremo la festa di commemorazione a quel Risorgimento, che il papato e l’Impero soffocarono nel sangue  di tutta la Penisola: sopra tutto a Bruno, la cui vita  randagia per 1’Europa, ma COMINCIATA IN ITALIA E IN ITALIA TRAGICAMENTE FINITA, sembra a Zio il simbolo divino del corso storico della filosofia moderna nel mondo. E col ricordo della vita del Bruno e  un invito a vendicarne la morte facendo tornare in  Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare viaggio,  termina questa prolusione. Cinque giorni dopo legge nell’ Università la prolusione al suo corso Spaventa, tornando a trattare il  tema: Della nazionalità nella filosofia. Fiorenti Waddingtoìi e Spaventa Affrettando col desiderio la pubblicazione dell’ importante carteggio della marchesa M. Fiorenti Waddington  tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fiorentino, gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa,  alcune lettere e ricordi di questa egregia donna, che  non ci paiono inutili alla storia della fortuna di  Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in relazione con lo Spaventa aveva passata la sessantina,  essendo nata: da Schelling è giunta fino a  Hegel: dall’ammirazione del Mamiani, per la conversazione frequente con Fiorentino, che da Bologna andava  spesso a Perugia ospite suo, era potuta passare a quella  del critico severo della prefazione, che il Mamiani aveva premessa alla sua traduzione del Bruno di  Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che ne caròla  promessa con un certo imperio di belletta che. ancor possiede, come ROVERE scrive al suo fratello;* prefazione piaciuta già allo stesso  Schelling. 3 Ma ben presto la marchesa tedescheggiente  e libera pensatrice e il conte italianissimo e cantore dei  santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi intendere. In una lettera Mamiani le rimprove- Vedi Spaventa, Saggi di critica. Napoli, Gliio. Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della, fllos. contemp. in Italia  IMamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E. Viterbo. Roma In una sua lettera a un suo amico, Maraiant scrive: «Quantunque lo vi discorra della tllosolla tedesca  moderna con gran franchezza di giudicio, lo Schelling non se ne tiene  punto mal soddisfatto, e scrivendo alla traduttrice, che è la march.  Florenzi, ha detto di me parole onorevolissime. Cfr.  il Bruno stesso, ed. I.e Monnier, Leti Cfr. la lett. al fratello rava di ragionare un po’ alla tedesca, e, non avendo alla  mano ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della  nebbia del suo grande maestro, lo Schelling. L’ anno appresso le scriveva: « ìli congratulo molto con voi dello  studiare indefesso che fate e dello involgervi coraggiosa  tra le tenebre sacre della metafisica di Schelling. È quasi un addio dalla spiaggia a chi si avventurava  per il rischioso viaggio! Sul principio del 18GB, la Fiorenti pubblica  i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia (Perugia, Bartelli) ; e Fiorentino, che dove scriverne una  recensione, nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P.  di Torino), la  incita a mandarne un esemplare a Spaventa. Quindi  la seguente lettera:   Signore,   Se un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non m’ incoraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io non  oserei inviarglielo. Esporlo al giudizio d’uno de’ più distinti  lilosofi è al certo temerità più die grande. Ma io mi affido  più assai all’ indulgenza di cui sono capaci i grandi uomini,  e temo maggiormente i piccoli. Ardisco ancora dimandare il  suo leale, franco giudizio e la sua severa censura; ed ancbo  la disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi complimento.   È dunque sotto l’egida del nostro amico che il mio libretto  vieue a cercarla. Mi abbia per iscusata s’io l’incomodo por  cosa di sì poco valore; ma, le ripeto, io riposo nella indulgenza  sua. Me le offerisco e raccomando.   Perugia, Obb.ma M. Marianna Florenzi WAnDiNcroN.  Spaventa in ricambio le mandò il suo volume  Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, starn- 1 Lett. pato1’anno innanzi ; a cui la Florenzi fece gran festa,  diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che si  raccoglievano intorno a lei.  € Dono prezioso, scrive all’autore, di cui mi valgo per miu istruzione e per  ammirare uno de’più grandi filosofi (o il più grande),  che ora dia fama alla nostra nazione.   Da altre lettere della colta gentildonna si rileva che  tra gli ammiratori guadagnati da lei allo Spaventa, desiderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano anche delle  donne. Tanto poteva 1’esempio della Florenzi! Questa manda a Spaventa un suo  piccolo discorso sojrra l' Eleroyenia che doveva essere stampato coi Filosofemi. È instancabile. Quando Spaventa le manda la memoria su Le prime categorie della logica di Hegel, ella poteva annunziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato anche  quell’argomento (Saggio di psicologia e di logica, Firenze). Mi preme sempre di leggere le cose sue,  e per questo ho indugiato a dirmene grata e riconoscente. Non ho parole per esprimerle quanto quella  lettura mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo  non poteva a meno di escogitare fino al fondo l’argomento trattato, ed in vero non c’ è nessuno che abbia  penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni di  llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi.  Ella ha ragione: chi è mai entrato sì puramente  nella scienza del filosofo?  Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in  quanto che io aveva già compiti due capitoli del libro  che scrivo ora: Il divenire e V essere e il non essere, pen-  Cfr. la Necrologia che scrisse di lei il Fiorentino, in Scritti vari,  Napoli siero ed essere. Quanta istruzione io posso ricavare da  lei! Dunque, per tutto il piacere e per tutto 1’ utile ricevuto io ne la ringrazio di cuore ed anima » (Lettera).   In una poscritta d’ una delle sue lettere la Florenzi  scriveva allo Spaventa: «Vi prego di fare il grande  sforzo di rispondermi al pili presto » . Spaventa, infatti, è tardissimo a scrivere, anche se chi aspettava  era una dama così gentile. Il Fiorentino badava a fare  le sue scuse. Così, in una lettera a Spaventa, gli scriveva : Alla marchesa Florenzi  ho parecchie volte detto quale sia la vostra indole, perciò  non ho durato fatica a persuaderla della vostra trascuranzn nello scrivere. Ella ha sotto i torchi due saggi,  uno di logica e 1’ altro di psicologia, ed aspetta di averli  in pronto per rispondervi. Credo che li avrà prima che  il mese finisca. Li ha composti con l’intendimento di  dare due lavoretti elementari, e mi sembrano molto giudiziosi e precisi e chiari, da qualche capitolo almeno  che ho scorso, correggendo gli stamponi che le venivano  quando io ero colà. A proposito di lei, che cosa avete  fatto per l’Accademia, di cui mi parlaste costà? Io non  le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e sarebbe  cosa ben fatta se si potesse effettuare, perchè veramente  è una donna meravigliosa per 1’ ardore che ha per la  scienza. Spaventa aveva pensato di premiare la nobilissima  operosità e il virile animo, onde la Florenzi proseguiva  gli studi filosofici, facendola ascrivere all’Accademia  delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina che  la scrittrice gradì molto, e ne fregiò il frontespizio  de’ suoi libri pubblicati dopo. Primo il Saggio  sulla natura (Firenze), che è dedicato appunto allo  Spaventa: non per orgoglio, ma soltanto perla fiducia che gl’ ingegni, quanto più sono alti, tanto maggiore indulgenza tisano alle persone di buona volontà. Gliene chiese  licenza con una lettera molto modesta, dove sono espressi gli stessi sentimenti della dedica a stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio era  da tre mesi in tipografia. È a Napoli Waddington, marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa  liete accoglienze. Egli se n’è tornato, scrive Fiorentino, contento di aver conosciuto un uomo  del vostro ingegno e con quella franca ed ingenua indole,  che è segno infallibile. E come a Napoli si preparava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Congresso scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci  anche lei; come infatti ci venne: «Ebbi la vostra memoria 1 che ho letta con grande attenzione per raccoglierne quell’ utile che sogliono apportare i vostri scritti.  Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò pur  io fra poco, perchè ai primi di agosto contiamo di essere  costì nuli’ ostante gli eventi del monito.   « Mi faceste dire di fare un qualche piccolo discorso  per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato alquanto,  e per distenderlo vorrei la certezza se si fa o no codesto  Congresso.  Io presumo che no, stante 1’ imminenza della  guerra ; nulla di meno vi prego a scrivercene una riga ;  ed ancora più mi preme sapere se vi troverete in Napoli a quell’epoca, o alla campagna, ed in quale campagna, od in quale città ; infine, mi direte dove dimorerete. La dottrina della conoscema di Bruno, pubbl. negli Atti  dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli; risi. In Saggi di critica pp.  Una lettera ha un certo interesse, per l’accenno che vi si fa al discorso Della  immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi pubblica. Io mi preparo o mi sono già preparata a scrivere  un opuscolo sulla immortalità dell’anima: problema  scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’ immortalità dentro di me e voglio essere immortale a tutti  i costi. Sarà dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la  mia assoluta opposizione».   Nè anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani, d’Italia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E Spaventa allude forse, con quell’ ironia che gli era  propria, al discorso poco persuasivo della Florenzi,  quando, scrivendo a Meis, la chiama: la nostra immortale Marchesa, immortale  almeno come, socia della Beale nostra Accademia!   L’intimo pensiero di Spaventa sull’ immortalità  dell’ anima individuale apparisce dal principio d’una  malinconica lettera da lui scritta a Meis; dove ricorda la sua prima figliuola morta  a tre anni:  Napoli, Mio caro Camillo, Spero che la festa di quel sant’ nomo del De Lellis, tuo  omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno cogli amici.  In particolare io conto sulla reminiscenza, anche involontaria,  di que’ maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di quelle  cocozzelle, oramai divenuti celebri no’ nostri annali domestici.  Via de’ Fiori a San Salvario, n... Il numero non lo ricordo 1 II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb-  li chhe il sostenne la mortalità dell'anima. J v. scritti filoio/lci. ed. Gentile San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria di Meis. Recapito dello Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella  Scano. moglie di Spaventa, a lui sopravvissula, morta più, e non ho tempo (li consultare la signora Isabella, che  attende alle faccende di casa. Non lo ricordo; ma fa lo stesso:  ricordo il luogo, il prato, la soala, il piano, le stanze e il  mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che scrivevo :  le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi hegeliani svelati ; e te che venivi ogni giorno, angelo consolatore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia povera  prima Mimi e lo sue ultime parole: Papà lavorai Papà  lavora! Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in piedi;  oramai non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sussiste tuttora qui, come forse non ha mai meglio esistito iu  realtà, nel mio cervello, o, come (licevano una volta, nell’ a-  nima mia; o non si dileguerà se non quando questo cervello  (Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E che ne sarà!  Che significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf Eppure  è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che non è  sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine  umana ha trovato lo consolazione: tutto nasce e perisce, è  vero, ma gli atomi restano, e son sempre quelli, non mutali  mai. Bella scoperta! me li fo fritti gli atomi, io.  Troppo serio per la festa di San Camillo ; troppo malinconico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia! Spaventa, non occorre dirlo, non era materialista.  Ma nella concezione hegeliana della natura e dello spirito non trovava posto per lo spiritualismo astratto, e quindi neppure per l’immortalità personale. Il primo scolaro (li Spaventa ( Fiorentino).   Battaglie carducciane ancddote. Nella nota polemica con Acri Fiorentino  dice di aver conosciuto tardi Spaventa, e poco prima  i suoi saggi. Letti i suoi saggi, intravidi un altro  mondo, e mi parve rinascere. Allora ero professore a Maddaloni, e stavo a Napoli. Tra i molti che si preparano a combatterlo c’ero io; ma, lettolo,  mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi avversarii  non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia  maraviglia, quando dai più sinceri riseppi, ch’ei non  avevano lotto nulla di lui, e che lo combattevano,  perchè volevano combatterlo, senza sapere perchè! Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma, quando,  sullo scorcio, ANDA A BOLOGNA professore di Storia  della filosofia, non E aveva visto che due volte o tre. L’ultima di queste ne ebbe consigli e suggerimenti  circa gli studi per cui la Biblioteca Universitaria di  BOLOGNA avrebbe potuto offrirgli E opportunità. Giacché da Spaventa egli è stimolato a intraprendere quelle  ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui provennero le sue opere più importanti. E quando si divisero, Spaventa dove annunziargli il saggio, che  allora stampa, Prolusione e introduzione alle lezioni  di filosofia, dove Fiorentino trova uno  SCHEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Glielo inviò  poi infatti con una lettera, della quale possediamo la  risposta:  Mio carissimo amico,  La vostra lettera e il vostro libro lungamente aspettati  mi sono arrivati carissimi. Mi son messo subito a leggerlo,  e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se non che  intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impaziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite  sempre profondo e stringato ragionatore; oogliete nel criticare  il nodo del sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi lucidamente che meglio non si può. lo vi ho sempre tenuto, e  vi tengo a ninno secondo nell’arto difficilissima della critica  filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui NOI ITALIANI abbiamo La fllos. contemp. in Italia, Napoli, specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente  notato. Le considerazioni su la lìlosofia nazionale sono esatte,  e l’indole della filosofìa del Risorgimento, che io ho letta  fino a Bruno, è scolpita cou molta fiuezza, e contorni assai  rilevati. Le osservazioni su l’antichissima sapienza degl’italiani di VICO, e ricavate qunuto al fondo dalla Scienza  nuova, sono inappuntabili; ed a rifiutarlo bisognerebbe disconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo adottata.  Io mi rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo amico,  ed auguro all’ Italia molti uomini che vi rassomiglino. Negli scrittori, come negli uomini, a me piace la lealtà del  manifestare le proprie convinzioni, quali che si fossero; la  coscienziosa ricerca nel formarsele, ed il saldo proposito del  sostenerle. Ora invece si scrivacchia e si cinguetta a sproposito, e più ilei nomi e dell’autorità si fa caso, che non  della verità eterna ed immutabile. Voi siete molto opportuno  nelle condizioni poco prospero del nostro paese, e gran bene  potrete fare. Esperto come siete di gran parte delle nostre  città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o nessuna  può spingere e continuare il movimento della italiana filosofìa. Qui se ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano  pochi uditori, alle altre della mia facoltà meno che pochi,  o nessuno. Per buona ventura è venuto qua a continuare i  suoi studi filosofici un bravo giovane delle provincia meridionali, un tal JAJA (si veda), quel medesimo che mi accompagna, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno,  e buona volontà, eh’è ancora più rara no’ nostri.  Altri vanno e vengono più per curiosità che per vaghezza ili  studio: sono le comete di tutte le cattedre. Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che lessi  qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà.  Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia competente, altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi  sapete che io non mi sdegno dell’essere appuntato e corrotto:  amo la verità più del mio amor proprio. A SAGGI FILOSOFICI qui si sta molto male, e sebbene mi sia  stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe  venire, pure io ci conto molto poco per la scarsezza dell’assegnamento di cui gode questa Universitaria Biblioteca. Avrei  bisogno di buoni espositori di Platone e d’Aristotile, perchè  questo anno mi occupo della filosofia greca, e intanto, tranne  alcuni commentatori antichi, non si trova altro. Ho fatto venire «lei mio la esposizione della Logica aristotelica di Barthólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come si riescef  ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le vostre  prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine  poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno Medio Evo  pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I manoscritti di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che  su la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere,  e a parer mio ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto  Erigena, e Patrizzi, che costà non mi era riuscito avere. Oopo  che avrò letti questi, mi metterò a studiare la storia della  filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi diceste buona. * 1  Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio Cousin  scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto intorno a Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo.  È piuttosto una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi  manderò, se vi aggrada leggerla. Parla altresì di VERA (si veda). Ecco quante ve no ho dette, e forse vi avrò annoiato: ma  io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho fatto alla  mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi amo  assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più  scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando  avrete tempo scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con  qualche spirito privilegiato ed amico in tanta solitudine in  cui vivo. Se potessi in qualche cosa adoperarmi per voi, mi  terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque, mio carissimo  amico, ed amate   Di Bologna.  Il tutto vostro  Fiorentino.  Colebrooke, celebre indianista, presidente della Società Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè  Vedas and on thè phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Misccllaneous Essaj/s (London); — e a parte: Essays on  thè relii/ion and phtlos. of thè Hlndous,  London Tra la corrispondenza Inedita del Cousin ci sono lettere di  Fiorentino: vedi Gentile, Albori delta nuova Italia, La prolusione al corso di storia della filosofia è da Fiorentino pubblicata nel  Progresso di Napoli;  ma non venne più ristampata. È infatti ancora un documento della fase giobertiana del pensiero di Fiorentino, quantunque vi appariscano le prime tracce dei  nuovi studi e delle nuove tendenze dell’ autore. Giova  riferirne qualche brano:   Il pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie, perché  esso è la pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua compenetrazione, e la sua identità. L’ essere senza il pensiero è sparpagliato, disterminato, e però incompiuto e Unito. Imperocché  l’essere compie se medesimo geminandosi, vale a dire facendosi principio e fine; ed il mezzo, pel quale esso si pone e  conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità suprema.   Se non che esso nel mondo inorganico si occulta inconsapevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad agitarsi  operoso nel vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal  grave involucro della materia nella forma dell’animale; e si  sveglia libero e padrone di sé filialmente nella coscienza  umana... Il pensiero divino che trasparisce attraverso tutto  il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica, appaia  piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela ampiamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il resto della  natura è parola scritta, rinchiusa, direi quasi cristallizzata:  l’uomo solo è parola viva e palpitante. La dualità di natura e spirito non è insuperabile.  Essa inette capo « nell’ unità cosmica ». E in virtù di  questa la natura tende allo spirito; che comincia bensì  aneli’ esso come forza individua partecipante all’ università del cosmo ; ma esso si generalizza pensandosi. Do spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e  ciò che questa è in potenza, ed esso è in atto. Or quando  lo spirito si abbia assimilato la natura e sé stesso per quella  serie di sviluppamenti che va spiegata nella Fenomenologia, egli, a rendere scientifico il suo processo spontaneo ed incosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può rifarsi in  tre modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel ripensamento che si dice riflessione psicologica; e quando si ripete  su la natura, partorisce la riflessione detta da Gioberti ontologica. Ma sopra eoteste due guise di riflettere, ve u’ ba una  terza, che lo vince di pregio e di amplitudine, vale a dire  la riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su la  sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura e   10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non  è il moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, l’ultimo grado del pensiero sarebbe la riflessione psicologica e  l’ontologica, e la logica non sarebbe possibile. V’è logica,  perché v’ha un assoluto perfettamente uno; v’è la logica,  perchè v’è Dio... Da logica è dunque l’unità finale della  cosmologia e della psicologia, come la protologia n’ era stata  1’ unità primitiva. L’unità assoluta, ’unità cosmica, 1'anima, il concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa il  pensiero speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima  e la massima, e che comprende la protologia, la cosmologia,  la psicologia e la logica. Venendo alla storia della filosofia, Fiorentino dichiara che il disegno della storia si deve modellare  su quello della scienza : sicché la storia dev’ essere essa  medesima un sistema. « Una storia che non fosse un  sistema ma un’ imbastitura di fatti racimolati qua e là,  non sarebbe meritevole di tanto nome». Quindi la connessione da preferire tra i vari sistemi è quella logica. So bene io essersi talvolta tenuto conto o della successione  cronologica, o della continuità etnografica; confesso che  queste maniere contengono qualche parte di vero ; che il  tempo maturi ed incalzi le deduzioni della logicn ; che la  scienza alcune volte si sviluppi come un dramma vivente in  una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura estemporanea ed eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra questi  angusti cancelli... Egli è da maravigliaro intanto come fra  tanti che hanno trattato la storia della filosofia quasi uiuno  abbia fatto capo dellu genesi logica dei sistemi, salvo l’Hegel in cui celesta legge si appalesa inflessibile come il fato; e  nelle cni mani la storia si trasforma in una geometria, dove  nulla viene lasciato all’arbitrio del pensatore. Hegel accorcia  e distende i sistemi come il Procuste della favola, affinché  tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della tricotomia. Richtor inchina per contrario a sostenere l’autonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi,  e leva di mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò  monotona, nell’altro la varietà rimaue disordinata ed inorganica. Contemporaro però questi due estremi, badare alla  continuità del pensiero universale, senza disconoscere l'influenza individuale, è proprio mettersi sul giusto mezzo, ed  in postura convenevole, onde si possa portar giudicio sopra  i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia,  ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla convinzione  del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento della  sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali  cause lo abbiano sforzato a questa credenza. La storia della filosofia presuppone un sistema, che  sia come il regolo con cui conviene riscontrare e misurare le dottrine. E dalla maggiore o minore ampiezza  del criterio di una storia, dipende il valore di questa.   Hegel ha immedesimato la storia della filosofia col suo sistema, affermando non essere tutti gli altri se non momenti del  suo, e (singolare ardimento!! egli non si è peritato di piantare le colonne di Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà  di lui, provando coi fatti, se dopo la grande Enciclopedia  ancora allo spirito umano qualche cosa rimarrà da fare. Infine Fiorentino tocca la questione di una FILOSOFIA ITALIANIA contestata dagli storici stranieri. Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel  tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco inalienabile, tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il  Cousin di poi, n cui non tornava conto una terza nazione,  non avendo una tripartizione a fare, ridusse le partite, e  diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania ed alla  Francia. Il professore di Berlino e quello della Sorbona si  trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1  Forse Telesio e Galilei non parlarono mai del metodo sperimentale? Bruno non mosse dall’unità della sostanza  prima ancora dello stesso Spinoza? Campanella non iniziò la  osservazione psicologica? E Vico non partì dalla conversione  del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido cito  potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;  tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi  non rimase luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni di  oltremonte non ha fatto mai nulla, non ha pensato mai a  nuli», e sola, spogliata del comune retaggio dell’urnan gonero, ella è costretta a stare spettatrice stupida od ingloriosa  delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il passato della Germania o della Francia potesse diventare il suo presente;  troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità, le  venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi  manipoli hanno gli altri mietuto.   Mi rincresce, o signori, di dover prorompere in parole  amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore molta rivegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover rinfrescare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri  fu chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli. No,  io protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli  allori dei nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della  loro gloria, fragile schermo alle immeritate rampogne. Fiorentino ricorda la gran sollecitudine che  a Napoli egli vede affaticare gl’ intelletti traendone argomento a bene sperare e ad asserire che forse  la filosofìa era « deputata a maturare i fati della patria.  Fa voti cho quel « desiderio ardentissimo » si diffondesse da Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter  proseguire l’impresa, che a BOLOGNA inaugura il  suo illustre predecessore»; cioè Spaventa. Infine,  una patriottica perorazione: Por gli altri, o signori, la scienza può essere forse un addobbo ed un decoro, por noi italiani è desiderio di riscossa,  è condizione indispensabile di vita. Noi non sapremmo passarcene senza tralignare dalla nostra antica fierezza, senza disconoscere la missione nostra nella storia. E poi grandi  cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio allenarci,  che fortificandoci la mento di profondi studi. Nella infanzia  dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica possibili  le crociate; nella loro virilità non si possono aspettare altri  miracoli, che lineili della scienza. Un pensiero che non fosse  progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei;  ma esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire  pensiero, si bene fantasma vano, e passeggero capriccio. Io  nel filosofo anzi tutto voglio guardare l’uomo coni’esso è, e  voglio trovarcelo vergine, schietto, maschio e vigoroso. Io  batto le mani a Socrate che combatte u Potidca, sento un cotal  orgoglio di coltivare la scienza elio mantenne serena la fronte  di GBruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte che  lascia la cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non  so rifinire di ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Curtatouo, ove siete caduti voi, Santarosa, Poerio e Pilla, valorosi ingegni, valorosissimi cittadini. Sì, o itali, di profondi veri e di magnanimi fatti noi  abbiamo bisogno, e 1’Italia sarà. Addoppiate gli sforzi. Percorriamo di conserva e con alacrità 1' arduo arringo della  scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa potentemente  al riscatto della patria nostra. La scienza lo iniziò, ed essa  indubitatamente lo coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il  cuore a piò candidi alletti ed utlbrzando le braccia della novella ed adulta generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto  prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale  cantato sulle serve lagune dell’Adriatico, e le piume dei nostri  bersaglieri si agiteranno al vento che spira dai sette colli. Dagli studi sulla filosofia greca pel corso universitario  annunziato nella lettera, fatti sotto  l’ispirazione di Spaventa, usce il Saggio storico sulla  filosofia greca (Firenze, Monnier), dove GIOBERTI uno di tre anni innanzi, autore dell’ opuscolo 1l Panteismo e Bruno, si palesava hegeliano e scolaro  di Spaventa, di cui infatti metteva a proposito la  memoria su Le prime categorie della Logica di Hegel. Così Fiorentino si stacca coraggiosamente dagl’amici di Napoli: onde nella conclusione del Saggio  accenna. Devoto alla verità, non mi terranno del certo impastoiato nè  preoccupazioni,  nè codarde paure. Non gli mancarono, infatti, silenzii  sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura,  che è la prima origine della polemica scoppiata dodici  anni dopo con Acri e Fornari. Nella seguente lettera  ne abbiamo il più antico documento. Mio carissimo amico, Vi so infinitamente grado di llo coso gentili che mi dito  del mio libro, o non vi nascondo che le vostro parole mi  sono valso di sprone efficacissimo a seguitare. Voi sapete di  quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo anteponga  ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o anche (V oltremente 5 onde me n’ è venuta allegrezza o buona voglia da  non potersi misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un  amore, e perciò mi vi sou messo in buona fede, e senza preoccupazione di partigiano. Non timido amico del vero, io  dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in ciò debbo  confessare che voi mi siete stato esempio e conforto. Delle  altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me  la continua non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio  costume; uon mi dorrà di perdere amici, i quali pretendessero  d impormi un treno, e di vincolarmi con pastoie, che Panimo  mio, non che nou comportare, anzi disdegna. Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e epocialmente di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre esposizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto ho in  pn.'gio il vostro lavoro su Kant e SERBATI, dove mi pare vedere il kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue lacune.   Mi vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per  occuparmene in un lavoro che ho in animo di stendere que-  st’anuo medesimo. Ditemi voi se le biblioteche di Torino,  dove siete stato, ne hanno qualcuno, e quale; perchè potrei  chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno mandati a  questa hibliot«^ca por studiarli...   Vi ricordo e rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica G., Storia della filosofia.  Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il tempo di dedicarsi alla continuazione di quella stampa. Add.o, uno carissimo amico, e ricordate ed amate    Di Bologna,   Il tutto rostro  £—5S-Svt*-Addio.   Dal lavoro su Kant e Rosmini di Spaventa ossia  La filosofia di Kant e la sua relazione con LA FILOSOFIA ITALIANA (Torino, rist. in Scritti filos.)  Fiorentino mostra nel Saggio di avere ben  compreso il valore della categoria kantiana. Ma poco  vantaggio potè certo cavare dalla esposizioneCousifr^Li «fe filosofìa di Kano che è stata pure tradotta in italiano da Irmctiera eredità, probabilmente, dei primi studi di Napoli, avan  alla conoscenza di Spaventa. Della tradurne della Metafisica di Aristotele, che Bonghi pubblica a Torino, Fiorentino insieme con Bonatelli, che allora gli è collega a BOLOGNA procura di rendere possibile, con una sottoscrizione.  resto della stampa, anzi la pubblicazione completa, con  hTristampa della prima parte; ed è a deplorare che non ‘ S riusci», e che Jop» Bonghi ne .1*» »b.n. donato il pensiero, quantunque la sua interpretazione   non sia senza difetti. TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli Sancti e Settembrini.  Il corso è in effetti consacrato a Kant. Della  prolusione è notizia in quest’altra lettera, dove Fiorentino torna a lagnarsi del silenzio di Fornari, dando  a divedere quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso: Carissimo amico, Io sono venuto qua a passarvi le feste, ed ieri, appena,  arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da BOLOGNA. Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le vacanze ve ne lasciano il tempo.  Ho letto a BOLOGNA una prolusione su Kant, di cui questo  anno mi occupo precipuamente. È stampata a Firenze in  un giornale scientifico, elio ha per titolo “La civiltà  italiana”, e eh’è diretto da Gubernatis. Quando ne avrò  gl’estratti, ve ne mando uno subito. Se voi voleste scrivere  qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo giornale, so che Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un  bravo, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto. Sapete voi, che, avendo mandato il mio saggio ad alcuni a  Napoli, non ne ho avuto neanche risposta! Che voglia dire,  non so; ma mi par barbara usanza il voler imprigionare la  mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e rinunzio volentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono conciliarsi con l’amore della verità. Por la soscrizione ili Bonghi vi rinnovo le premuro, perchè  egli sta aspettando che io gli rimandi i manifesti. So come  si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non assumiamo  nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed  amate Di Perugia, Il vostro afet.mo sempre  Fiorentino. La Civiltà italiana pubblica il discorso di Fiorentino: Kant ed il mondo moderno; come pubblica di  lui stesso il saggio su I dia-    1 Cfr. quello che se ne dice nella Filos. contemp.,  Ioghi di Rucellai; le  lettere Stilla Scienza Nuova di VICO (si veda)  e il  discorso Dell’armonia del concetto d’ALIGHIERI come filologo, come storico, come statista: saggi  tutti ristampati più tardi, salvo il primo,  negli Scritti vari. Del discorso su Kant dimenticato conviene riferire qualche pagina, la quale dimostra quanto FIORENTINO  avesse profittato della lettura dei saggi di Spaventa. Ecco, per esempio, come pone il problema kantiano:   jjji sperienzu prima di Kant è stata smaltita siccome il  fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne d’Ercole, di là dalle quali non è dato allo spirito umano  travalicare senza pericolo d’imminente naufragio. Kant riflette, clic la sperieuza è tiu fatto, e ebe perciò non può  essere primitivo; essendo un risultamento, del quale si può  e si deve cercare la guisa e la ragione del nascimento. Egli  adunque propone una domanda nuova nella storia della tìlosoiìa.  coni’è possibile la sperienzat E più generalmente ancora:  coni’ è possibile il conoscerei Con la quale domanda 1 orizzonte della scienza si trova onninamente cangiato, e i vecchi  filosofi seriamente imbrogliati. Galluppi, che PRIMO IN ITALIA giudica convenevolmente il movimento kantiano, si accolse  di questa novità di problema, e con la Bolita sua semplicità  di linguaggio la espose così. Prima di Kant la filosofia è dommutio .1 o scettica. Con Kant comincia una nuova forma, la  critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano la sperienza,  o no. Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma dice: come si  formai II problema così mutato non versava più sull’esistenza del fatto, ma sul suo nascimento; e cotesto è la mutazione più sostanziale che Kant reca in mezzo nella  scienza filosofica. La scolastica mutua or dalla tradizione religiosa, or dalla  storia, or finalmente dalla FILOLOGIA (Grice) il contenuto della sua  scienza: presuppone l’anima, il mondo, Dio, i loro attributi,  la loro origine, e vi attaglia una forma scientifica per palliare l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegna, e sopprimendo quel vuoto ingombro, fece capo alla coscienza, dove credette trovare il punto stabile, sul quale puntellando la leva onnipotente del pensiero si mettesse in grado di smuovere il mondo  antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra tagli ridusse lo spirito a tavola rasa, e vi disegna sopra le  prime linee della scienza nascente. Kant sorpassa l’uno e  l’altra, e soffiò su tutto il sapere precedente, perfino su la  coscienza di Cartesio, pertìuo sulla sperienza di Locke; essendoché entrambe contenevano degli elementi variabili,  ed egli, messo sull'avviso dalle rigide deduzioni di limile]  non vuole più far entrare nella scienza nulla elio avesse  sembianza di mutabilità. Esposte rapidamente la unificazione del molteplice, onde nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e  onde si giudica per mezzo delle categorie le intuizioni,  FIORENTINO dimostra come la vera unificazione ancora  non sia compiuta, essendosi passati dall’ opposizione  della materia e della forma dell’intuizione a quella di  intuizione e categoria. Il legame primitivo, ove si rannoda il multiplo sì della  sensibilità, come della intuizione, è l’unità trascendentale  della coscienza. E badiamo che non ci tragga in inganno il  nome medesimo di coscienza, di cui Kant si vale in due significazioni ben differenti. Questa coscienza trascendentale ò  primitiva ed originaria; producondo gl’opposti, non può ella  essere un opposto. Se no, si andrebbe all’infinito. L’altra  coscienza di soconda muno vien contraseguata con la giunta  d’empirica, ed è una fattura di quella primo, come ogni  altro fenomeno. Va costruita con la forma del tempo, con le  categorie di possanza, di causa, di relazione, e via via. La  coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai alla coscienza  trascendentale, la quale sola ò unità originaria e feconda. E non è senza ragione se ho ribadito questa distinzione, essendo capitalissima nel sistema che stiamo abbozzando, il vero merito di Kant non è di avere trovato i concetti a priori,  ma di avere posto a capo della sintesi quella eli’ ei chiama energia portentosa, vale a dire la unità sintetica originaria della  coscienza. L’illustre SPAVENTA lia con molto aocorgimento messo in sodo questo punto, criticando la esposizione che SERBATI fa di Kant. Non è gii che gli opposti sieno  dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne impadronisca e li  vada elaborando. Questo processo ci è prima di Kant, ed  egli lo sorpassa, vedendone la insufficienza. Imperocché  quale conoscenza potessi avere, posto che i termini, ond ella  si compone, fossero stati accoppiati per caso e alla rinlusaf  Data da uua parte l’intuizione, dall’altra la categoria, e  poi lo spirito che le sforza ad un’ unione innaturale, o per  lo meno arbitraria. Non si vede che il giudizio sarebbe  un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non già  un processo dello spirito, il cui carattere specialissimo è  l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è perchè  entrambi scaturiscano da una sorgente comune, e perchè il  riunirli è per lui una scria necessità. Ma Kant non è coerente a questo concetto della sua  energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale  pura con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione  logica delle categorie, che ripescò perciò empiricamente  attraverso i giudizi; stralciò il pensiero dall’essere, facendo della sua attività una forma affatto vuota; e finì  nel noumeno inconoscibile.  E la conseguenza è giusta, ogni volta che si ammetti' un  pensiero che non pensa nulla, e, di rincontro, un essere che  non può essere pensato. Se non che lo sbaglio sta appunto  in questa concessione. Un pensiero vuoto non è: un essere  non pensato non è. Sono due astratti, ai quali voi accordate,  con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir mai  cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?  Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo  balenato alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non conoscerlo ed io vi replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile  a conoscere di questo punto oscuro. Esso è l’oggetto del  pensiero spogliato di ogni determinazione, vuotato di ogni  contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’ identità puramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu creatura vostra?. Nè le altre due Critiche riescono a sanare pienamente  le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta  tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura. Nella stessa Civiltà italiana Fiorentino inserì una recensione del  primo di quei tanti libri che poi Ruffaele Mariano venne  compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo Eraclito,  € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze). Recensione benevola verso il giovine autore, nella quale giova  rilevare due osservazioni, che mostrano ben  determinate le due direzioni divergenti degli scolari di VERA (si veda) da una parte e di quelli di Spaventa dall’ altra.  Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in senso  di... retriva la filosofia di SERBATI? Perchè dir filastrocca  quelln del GIOBERTI? Questo acerbo procedere verso due  illustri italiani, quando anche si fondasse sul vero, non  sarebbe certo modesto consiglio il tenerlo. Nè veggo che  l’essere hegeliano debba di necessità far avere in poco  conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e  seria, che l’illustre Spaventa ha fatto dell’ uno e  dell’altro, prova il contrario.  L’altra è anche più notevole. Ammesso come preferibile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra  Eraclito, non v’ha proprio nulla a ridire, specialmente  su la relazione che Hegel pone tra Eraclito e l’ultimo  degl’eleatici? VELIA (si veda) E forse vero che Eraclito segni un  progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello è apparsa alla coscienza speculativa prima della  dialettica zenoniana; onde l’andamento storico, per lo  meno, sembra essere stato da Hegel capovolto. Dico ciò,  allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso  la eccessiva fiducia nell’autorità di maestri, per grandi  che fossero. Le colonne di Ercole dell’ingegno umano. bisogna tenerle discoste più che si può ; e se si potesse  affondarle nell’oceano, tanto meglio. Anche Spaventa è di quest’avviso. Fiorentino si accinse al suo lavoro su  Pomponazzi, pur continuando a BOLOGNA i corsi sulla  filosofìa tedesca moderna. E scrive a Spaventa: Mio carissimo amico,  È trascorso gran tempo che manco <li vostre nuovo, non  ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando il  Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella campagna. Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto  inquieto per causa di qualche amico elle vi ho, e più d ogni  altro per causa vostra. Levatemi da questa iuquietitudine  scrivendomi due parole che m’informassero della vostra salute. Io sono tornato qui prima della ri-apertura di BOLOGNA,  e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate le vacanze qualche  giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia, e poi  il più del tempo in villa.   Sto esponendo la filosofìa tedesca da Kant in qua ; e ciò  alla Università. Sto preparando una biografia ilei Pomponazzi  ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla nella Società  di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima non  dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di  qualche pensatore più importante che abbia insegnato a Bologna. Oltre l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse  potrei farla ancora del Cromonini, che, stato a Ferrara, può  dirsi delle stesse provinole di Emilia: del Zabarella no, eh’è  stato soltanto a Padova. Io poi a queste biografie, elle leggerò  nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò per conto mio  la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei loro  libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne  pare t   ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto contenente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per  compiacere a De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la  sua Civiltà italiana. Non sapendo se abbiate o no avuto quel  periodico, ve le mando così radunato, come le feci estrarre;  e vi prego di accettarla come testimonianza della mia sincera  stima ed amicizia.   Addio adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed  amato Di Bologna. Il vostro afi.mo amico Fiorentino. E questo il primo disegno di Pomponazzi, la cui  biografìa è prima inserita negl’atti della Deputazione  di Storia Patria per le provincie di Romagna, e  poi riprodotta in capo al volum. Fiorentino, che diventa  sempre più intrinseco di Spaventa, torna a darne  notizia all’amico: Io aspetto la nuova ristampa della  tua memoria su Campanella, perché essendomene  quest’ anno occupato nel corso scolastico, sono desideroso  di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono attorno ad  una monografia su Pomponazzi, attorno a cui raggrupperò i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa Monnier. Me ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri  che mi sono occorsi. La stampa  del mio saggio è finita, e sono attorno a scrivere due  parole di conclusione, per le quali ho aspettato di rileggere tutto il saggio, che non avevo riletto, nè ricopiato,  dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai  di POMPONAZZI (si veda) un manoscritto inedito col titolo di Quæsliones ammostiate: le chiesi al Napoli. 3 Mi promise di  spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi turba  non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Maledetta fiaccona degl’italiani! III Saggi ili critica, Napoli, Cfr. Fiorentino, Pomponazzi Napoli, allora segretario generale del Ministero della I. P. Uscito il saggio, Fiorentino, mandato che l’ha a Spaventa, ne attendeva con la solita ansietà un giudizio.  E giudice, in altro campo, era stato quell’anno Spaventa a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco  risuona anche nella lettera qui appresso riferita del  Fiorentino. È stato con Brioschi e Messedaglia a  fare quella ispezione alla Università, di cui parla Carducci in Ceneri c faville ; e aveva riferito lui al Ministero. Mio Carissimo amico,   Ilo ricevuto i manoscritti di GATTI (si veda), che ho consegnato  subito a Siciliani, uonchè lo due dispense che mi mancavano,  e di cui ti ringrazio vivamente. Non ho visto incora l>e  Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera di venti pagine: 1  ci dovrà essere una epopea intera.   Qui si fa un grati dir male di te per la famosa relazione: io uon l’ho letta, e se non la leggerò, non me ne sto al detto  di nessuno. Mi si è detto cose, alle quali, come puoi pensare,  non ho potuto dar credito: tra le altre cose che voi avete  dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in massa,  e che in difetto di scienza, si va in cerca di popolarità nello  associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il detto, nou  protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una grossa  dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non  no ho avuto mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci  vorrà un pezzo prima che me ne tocchi un briciolo. Manco  male se si acquistasse dormendo, perchè allora potrei averci  delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello che si bucina qui,  e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse vero,  La lettera a Meis che è pubblicala col titolo Paolotttsmo,  positivismo e raslonallsmo, c che é qui appresso citata.  Si allude a una Relazione da Spaventa presentata al Ministero  della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in commissione  con Brioschi e con Messedaglia, a Bologna, iter ragioni  d'ordine politico. Un articolo di Carducci su questa faccenda,  pubblicato nell'Amico del popolo, di Bologna, iami. si  può vedere nel volume teneri e faville: Opere, è qnell’aver messo sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un  fascio, i professori bolognesi, lo sono nn mezzo proscritto, perchè  sapendomi tuo amico, o si guardano di me, o mi tempestano  a tutta furia.   Lasciamo questa miseria. Ho letto i documenti che Berti  lui stampato della vita di Bruno. Il processo veneto, se  non e stato adulterato il contenuto, fa mostra di poca fermezza, o non so persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli hai  visti! Ho tra le mani pure la seconda edizione delle opere di  Comte, e voglio leggerla tutta, perchè ne ho Ietto soltanto  esposizioni, benché assai larghe. Il mio saggio è finito, almeno le correzioni ultime le mandai  una settimana fa, ma ancora noi vedo. Appena usce, scrivo  a Firenze, che di là stesso te ne mandino mia copia, per far  più presto. Tu poi leggila col tuo comodo, e dimmene il tuo  parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o che  non puoi tutto quello che vuoi. Mi prometto di avere qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa  del Settembrini, fosse anche tuia pagina. Siciliani spesso  me ne fa premura. Io non solo non ti ammazzo, ma ti ringrazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi che inai.  Non credo però a quel subito, con cui vuoi darmi ad intendere che mi scriverai del lavoro di Labriola. Sii contenterei  che fosse tra nn mese. Hai avuto il libro del De Meis! Dopo il Don Chisciotte non  ho letto libro che mi avesse fatto rider tanto. Le cause del  riso sono spesso gravide di grandi pensieri. Mi piace molto,  ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, Rossi perchè  noi trova abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate animali domestici, e portino i bambini per essere stati ingiuriati Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo veneto,  si confermò Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un suo  scritto nel Oiorn. napol. di fllos. e teli., Non saprei dire a qual lavoro si alluda. Il Dopo la laurea di Meis per tignosetti. La contessa Gozzadini gli scrive una lettera,  nella quale si firma:  “l’animale domestico di Gozzadini.” Addio, mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te ne  voglio io   Di Bologna, 19 maggio ’68.   Aff.mo tuo amico Fiorentino. Spaventa dovette rassicurarlo sul contenuto della  famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera di Fiorentino: Mio carissimo amico,  Ero capacitato anche prima, che tu non potevi aver detto  tutta quella roba da chiodi di questa Università, che altri  diceva, ed i pih credevano, lo perù, come amico, mi tenui  in obbligo di informartene, non per conto mio, ma per tua  regola. Tu puoi già pensarti, che con gli altri ho detto, e  gridato, e asseverato, esser impossibile che tu avessi voluto,  e potuto dire quello che non era; e elio la verità poi non si  può, nè si dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene,  perchè mi ha snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’intendo, propendeva sempre a darti ragione, e non ci era bisogno di altri eccitamenti. Io dunque non solo non ti ammazzo,  ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno poi per  mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico, di  cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale  prevalga pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti  non voglio applausi; dunque, mi sento in grado di resistere  ad ogni tentazione. Ad una sola cosa non resisto, ed è il  bisogno di voler bene agli amici, e di dir loro franca, ed  anche brusca la verità. Tu avrai dovuto ricevere a quest’ora una copia del mio POMPONAZZI (si veda); perchè io, vedendo il ritardo di Monnier a  spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di spedirne    1 Maria Teresa G., di cui scrive la Vi la 11 marito, Gozzadini (Bologna, Zanichelli), con pref. di Carducci. V. pure  Carducci, Opere, una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo commotlo nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die tu  possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più  istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi  più me lo dirà chi meno me ne crederà degno, nè io ho da  peccar contro la modestia per accettarli, o per pronunziarmeli  io stesso; ma chi mi mancherà di certo sarà chi mi dica: qui  hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio: queste pagine  avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che  quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso  l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio  mezzo tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir  tutto in una parola, figurati di scrivere una pagina di quella  relazione, per la quale vivrai eterno tra gli archivi del Ministero, e poi scrivimi un letterone quanto quello che scrivesti  a Meis. Più male parole ci troverò, e più te ne renderò  grazie. A proposito, quella tua lettera, con partito unanime, fu licenziata alla stampa, riseoandone certi nomi propri, e certe  espressioui che ricordavano il Candelaio di Brano. Io mi occupo in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori. Vorrei  farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare  lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che  a me pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le  lezioni, perchè tu sai che questa rivista non è tanto facile. Addio, mio carissimo Spaventa, e veglimi bene come te no  voglio io  Di Bologna Ajff.mo tuo amico Fiorentino. La lettera di Spaventa, stampata nella Rivisiti Bolognese, che allora Fiorentino pubblica con Albicini, Siciliani e Panzacchi, è quella a Meis,  col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo (rist.  in Scritli filosofici). Gli articoli che Fiorentino ha in animo di scrivere sulla scoperta dello  Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò  qualche anno più tardi in quello inserito nell’itoh'a  dell’ Hillebrand.  STORIA DELLA FILOSOFIA E poiché abbiamo accennato alle brighe universitarie  bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il Carducci,  diamo pure un altro curioso brano di lettera di Fiorentino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza  da Bologna, dove si serba il ricordo d’una polemica  di Carducci con Meis e con Fiorentino. Io sono stato poco bene, parte per la stagione che  corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale  ci siamo trovati Meis ed io, e di cui non so se ti  è pervenuto rumore. Or dunque, hai da sapere, che il  Carducci, credendo dall’articolo di  Meis, intitolato  Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli scrive  contro nell’Amico del popolo parole aspre. Gli da dell’imbecille, chiama citrullerie le cose dette da Meis. L’ articolo non è firmato ; ma io sapeva esserne stato  autore il Carducci, per aver questi scritto le stesse cose  in una lettera particolare al Siciliani. s Risposi io, dicendo... potersi combattere le opinioni, senza insultare  le persone. Carducci si rivolse contro di me una prima  volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto  sul vivo. Non si stette a questo avviso, e ripigliò da  capo una tirata contro di De Meis e di me ad un tempo. Fiorentino replica, ed ha, a quel che sembra,  l’ultima parola. Ma, tutto ciò mi ha irritato, egli  scrive nella stessa lettera, ed il povero Meis  n’è rimasto seriamente afflitto: dopo avuta la rivincita, che TUTTA BOLOGNA approva, si è rinfrancato; ed ora Pubbl. nella Rivista bolognese. Documenti dell’amicizia di Carducci per Siciliani sono i  giudizi del primo sul Rinnovamento della filosofia positiva in Italia  del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II, Opere, VII, 362-68: e le affettuose parole Alla bara di P. Siciliani, in Ceneri e faville, s. Ili,  Opere è allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra battaglia,  eh’è finita con nostro decoro».   Quegli articoli il Carducci non li volle pili ristampati.  Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rintracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia  di questo aneddoto. 1   In un’altra lettera di due anni appresso del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: Io  sono sul punto di rientrare in lizza col Carducci, che  mi ha provocato con una nuova lettera insolentissima.  Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto sottrarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi definitivamente da BOLOGNA. Fiorentino, infatti, si fa tramutare a NAPOLI. Ma non lascia Bologna quando comincia a  lavorare intorno a Telesio. Ecco infatti che cosa scrive  a Spaventa Mio carissimo amico, Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò ho  avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo fratello,  che tu eri stato a villeggiare negl’Abruzzi. Ora è cominciato  un anno nuovo, e voglio ritentare se tu, chi sa, volessi pure  incominciare una vita nuova. Dalla parte mia non voglio  mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali non ultimo  quello di scrivere un poco più frequentemente agli amici. Vedi,  che non ho detto di pensare o di voler bene ad essi, perchè  so che per questo riguardo non ci è bisogno di miglioramenti.   Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o di Spinoza principalmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di Maebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori  e critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer. Vedi CROCE, Documenti carducciani: una dimenticata potèmica tra Carducci, Fiorentino e Mele, nella Critica  Avrei intenzione di scrivere quulclie cosa sul movimento  telesiano, ed ho scritto per avere alcuni manoscritti che riguardano TELESIO, e che si trovano parte costà, parte a  Firenze. 1 lo aspetto sempre il tuo parere sul mio libro;  parere, che per essere più aspettato, e piìì pregiato di tutti,  si fa lungamente desiderare. Ma verràf Lo spero.   Hai letto che cosa ne scrisse Franti sul Centralblatt? Egli  stesso mandommi con molta cortesia un numero di quel giornale, dove ci era la sua rivista sul mio libro.   Con De Meis ci vediamo spesso, ma egli non è in grado di  darmi tue nuove, più che io non sia riguardo a lui. La  neve ieri si è fatta vedere la prima volta in città: tu però  quest’anno non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi quasi  sarei tentato di pregare che a qualche professore saltasse in  capo di tribuneggiare per la tassa del macinato, per vederti  comparire in commissione straordinaria. Ma non vorrei poi il  danno del prossimo: in questo sono cristiano. Tra questi giorni scriverò a VERA (si veda) per invitarlo a scrivere  qualche cosa su la nostra rivista.Siciliani, con le suo velleità ortodosse, n’ò uscito, come saprai, ed io ed Albicini  vorremmo tenerla in piedi, anche uu po’ più decorosamente. Con te non ci vogliono inviti; ma, lo so purtroppo, non c’è  neppure da far grande assegnamento. Addio, mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per dire  a chi mi doumnda di te, che sei vivo o sano. Di Bologna Aff.mo tuo amico  Fiokentino. L’articolo di Franti sul Pomponazzi usce nel Centralblait, e ètradotto dal Tocco e  pubblicato in Italia, in una difesa dell’opera del maestro  contro gl’attacchi della Civiltà Cattolica (nella Rivista  contemporanea di Torino. Di TELESIO si torna a parlare in una lettera. Tocco ti ha mandato la prima dispensa 1 Vedi Settembrini, Epistolario, con pref. e note di Fiorentino, Napoli.  delle sue Lezioni,  1 e so che aspetta il tuo giudizio. Io  ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un  lavoro sul Telosio, che non so come mi potrà riuscire.  Aspetto la tua memoria completa su P Etica di Hegel. 1  Quanti più ne conosco, tanto più ti stimo e ti voglio  bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te ed  a De Meis questo mio lavoruccio sul Telesio, quando'  sarà finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te non  ci sono timori di adulazione, o di altri secondi fini :  è una pubblica professione di stima e di amicizia, che  mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del Telesio è dedicato, infatti, al Spaventa: non solo  come testimonianza di amicizia, ma come dovere di gratitudine e di giustizia: di giustizia verso chi aveva  scritto i saggi su Bruno e su Campanella ; di gratitudine per l 'insolita luce che scintillava da essi, e da  cui il I iorentino era rimasto colpito. In questi studi  storici sui filosofi italiani del risorgimento il Fiorentino  infatti non fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello  Spaventa: da lui avviato e da lui guidato.   Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per prepararsi al primo corso di Filosofia della storia da tenere  a Napoli:   Camerino.   Mio carissimo amico, Ti Borivo da Camerino, per sapere come stai, poiché non  mi iti dato di rivederti a Bologna, dove sperava poter passare  qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di discorrere    1 F. Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei, Bologna, R. Tipografia, con pref. di Fiorentino. 1 il proemio a gli Studi sull'mica di Hegel usce nella  Riv. bolognese; ristampalo con gli Studi negli  Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi. di Napoli; e il tutto ripubblicato da me col titolo di Principti di Eitca (Napoli, Pierro). teco seriamente, per sapere che cosa avresti creduto meglio,  ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno venturo in coleste  Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i desideri!, ed  anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere  sui generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come introduzione, entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo  tuo avviso in contrario, il mondo grimo. Dol mondo orientale  so poco: avrei bisogno di studiare prima; ed il tempo, per  questo anno almeno, mi manca. Della Grecia conosco qualche  cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei suffiiiien-  temente. Che cosa ne dici tu? Quali saggi mi consigli di leggere? lo sto rileggendo gli storici greci; e dopo averli riletti  testualmente, uii gioverò di Grote e di Curtius. Per la parte  letteraria ho Milller (Ottofrodo); per le religioni, la Storia  di Minirv; PER LA PARTE FILOSOFICA, ZELLER; per arte  greca forse mi gioverebbe il Winckelmann, a noi so, perchè  ancora non lMio lotto. Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i materiali; ma U  resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia Mia storia mi servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio  largo assegnamento. Intanto comincia dal darmene qualcuno,  e fa presto. Tutto tuo  Fiorentino. Aggiungo qui appresso un altro gruppetto di lettere  o frammenti di lettere dello stesso Fiorentino a Spaventa, di cui trassi copia alcuni anni fa dalla carte  dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca della  Società napoletana di storia patria ; poiché anche queste  lettere e frammenti / gettano qualche luce sugli studi,  sulle passioni, sulle idee, che si agitavano in Italia intorno a Spaventa (Pisa). Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed  a quest’ora è a Milano, e domani parlerà a Bergamo. Si  trattenne con me la giornata d’ ieri, ed arrivò qni avantier-  sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato tanto. Gli dissi  elle ti avrei scritto stamattina ed al solito ti mando questa  lettera col liciti. 1 K la tna lunga lettera? 15 rimasta tra i pii desiderii, di  cui è lastricato, dicono, 1’ inferno. Io ho scritto una risposta all' accademico linceo Pietro Hucione. Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne guardassi  le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini,  perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle  mie solite.La presunzione e l’ignoranza in Ferri si bilanciano tanto, che non so a quale delle due dare la preferenza. Aspetto tua lettera dopo letto questo articolo: mi preme  sapere il tuo giudizio, e ti do piena facoltà di mutare, e di  cancellare anche qualche cosa, die non ti paia conveniente,  o inesatta.   (Portici). Ieri tornai da Soma, dove lasciai Silvio che sta benissimo. Trovo qui una lettera  di Zeller, clic mi annunzia la sua venuta a Napoli. Oggi  P ho visto, ed ho insieme saputo da Labriola, che tu sei a  Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli desidererebbe di conoscerti di persona, come ti conosce di fama. Dimora questa settimana. (Pisa) Prima che tramonti l’ultimo sole ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti. Il  tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me,  ohe quando si tratta di te, il peggio che possa pensare è,  che il calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia.  Kccoci ora intesi : tu taci, io scrivo. Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la Tuta 3 eh’è un  po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e la  Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo che stiate  meglio. Pisa  0 ’* malenla lico, che insegnava nella Università di   lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici dello Spaventa  applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel Olorn  Napol. di filo.,, e leu, aveva rilevato lo strafalcione dal  j,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia) l'epitrrafe  della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise*  Pelei lìucionts [invece di retri — bucionisj non fefetut eum    HestItuta Trebbi, moglie del Fiorentino. Isabella Scano moglie di Spaventa; Camillo e Mimi tigli. Ln disfatta del nostro partito mi ha commosso non por me,  che sai quanto io stimi il genere umano in massa; ma pe  miei amici, per tuo fratello specialmente, che non ha alte  vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato costernato,  ancora è scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1 arbitro  dell’Italia, e tutti, o quasi, gli si curvano, gl. si prosternano  innanzi. Quanta viltà 1 Quanta corruzione! Vaie il pregio <  curarsi del prossimo! E una terribile domanda : piò si conosce  il moudo, e piti si devo disprezzare: Leopardi non aveva  torto. Ma... c’ è un ma; ed io ti confesso che non mi “,re “ do -  con tutte le ragioni in contrario. Mi sono chiuso, vivo tra.  miei ed i libri, non vedo nessuno, non conosco e “   conosciuto, e mi sento beato in questo silenzio ed in questa  oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha tonto  alletto e tanto accorgimento, che mi diverte e mi ristora,  tess’io vederlo giovane fatto come il tuo (.umilio   Non Io perchè, mi sento ora più legato alla vita, come non   Cì iTn povero 1 Settembrini f  A casa mia ci fu lutto come  se fosse morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a  dell’Emilia, ed insieme appresi la scondita di bihio.  colpi in una volta. Ma Silvio tornerà alla Camera, e al Ministero, se il senso dell’ onestà non sarà spento nel nostro  nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu.   Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano;  è la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo   tr Che3 U rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di  filosofia pei Licei: il Morano mi è stato addosso, e finalmente  mi ci sono piegato. È cosa molto ardua, ed il noti poterti  allargare quante vorresti, toglie gran parte della scioltezza  del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e quel  eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un   f..U, munirò .. «,>   fogli, ora con la spada alle reni ni’...calza per la tonti   n u azione.  i n settembrini mori addi 3 . Fiorentino non   scrive poi l'articolo di cui parla in questa lettera; del rimpianto  scrisse P°',, u Scriui va .u di tener, polii, ed atte   (Napoli, Morano; e l’Epistolario, premettendo agl.   uni e all'altro belle e affettuose prelazioni. All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto la  tua memoria sull’etica di Hegel. Hai visto il giudizio  portato da Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto  gusto, perchè la sua autorità non è sospetta, come In mia,  appresso la filosofia italiana. Povero Bortini, spento anche lui 1 Scrivimi, se puoi, e se vuoi: lascio la cosa al tuo arbitrio;  non cosi, il volormi bene che in mezzo a tanti disiugauni  mi preme e mi giova assai.   Alla tua famiglia di tanti augurii anche da parte della  mia, e tu credimi sempre, e non a parole.  S. Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale  napoletano.   (Samhinse). Ed ora un’altra notizia.  L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto  su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione  di un uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono votato a te anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, possessore de’ documenti della storia antidiluviana, non sa farsi  capace della mia polemica contro il vice-gesh, ed il vice-  Fornari; cioè contro Fornari, ed Acri. Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14 mesi, è venuto  fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica, e  come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva  convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qualunque sia il libro, che ancora non conosco, se non per la  receusione dell’arciprete noetico. Su Berlini v. lo mio Origini della fllos. contemp.  in Italia. Il giudizio cui alludo Fiorentino, é contenuto  in una lettera di Berlini a Merlo, pubblicata nel Giornale  napoletano di fllos. e letl., dov’é detto. Vi ringrazio di avermi mandato il saggio di Spaventa, che io considero corno  il più serio e il più chiaroveggente degl’Hegeliani d'Italia. Volendo lo  terminare un corso di FILOSOFIA elementare ad uso de’ licei mi sono  creduto in obbligo di tener conto delle dottrine di quel valentuomo,  tanto più che io sono sempre in questa persuasione, che II restringere il vocabolo scienza a significare puramente i risultati dell'esperienza, dell'osservazione e dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni valore scientifico alle discipline speculative, sia non solo arbitrario,  ma contradittorio. Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad  Hegel, o per dir meglio, al suo metodo, e a quella sua assoluta, e  direi quasi eroica fiducia nelle forze della ragione umana.  STORIA DELLA FILOSOFIA  (Pisa). Prima di scordarmi, ae hai portata la Vita di BRUNO, 1 dalla al Betti che me la  porterà: se no, mandala a Domenico Morano, affinchè me  la l'accia pervenire.   li Bruno si sta copiando, e dentro questa settimana comincerò a mandare il manoscritto. Spero che tu hai concertato pei caratteri, pel formato, per la carta. Se non avessi  ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il tuo  ritorno.   Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si conserva soltanto il manoscritto dell’Oratio coneolatona; ma non mi dice  neppure s’è autografo. Quest’orazione io la trovai a Roma  tra la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è  rarissima. Vale la pena di far veniro il manoscritto? Nota  che a Gottinga, la copia stampata non l’hanno neppure.   L’edizione del Gfrorer ! non si trova in commercio: Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante della  quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi  riuscirà pescarla. Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie idearum. Ho riscontrato Buhle: non dice nulla di manoscritti: porta  un catalogo delle opere abbastanza esatto. Tovo qualche  altra notizia su Bruno uelPAoidalio. Dopo che tu partisti di Roma, riseppi che nell’archivio  della congregazione di San Giovanni decollato c’è la notizia del giorno della esecuzione di Bruno, e che questa  data non corrisponde a quella generalmente ritenuta. Mi è stata promessa una copia, benché quei  fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia aggiunge, che a nessun patto si volle convertire. Come sai, questa notizia è un documento autentico, perchè finora non  c’ è altro che la lettera di quel furfante dello Scioppio. I.a Vita scritta da Berti (Torino, Paravia). Ossia il volume degli Scritti latini di BRUNO, pubblicati  (frontespizio) da Kr. Gfrorer a Stoccarda. Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine di BRUNO,  ed. Naz. Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle Opere latine del  Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze).   Inoltre il cav. Podestà 1 mi disse, che a lui orati venute sott’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il Bruno: non  sapeva però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne volevano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di tornare.  Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci  andrò io per lina settimana. Mi ci sono messo, o voglio riuscire. Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica: comparvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono tre  volte; due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come  fossi stato io d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano  ancor», o tra giorni andremo in campagna, in una villa che  ho trovata in iptel di Lucca. Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non ancora:  conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra l’incudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi. E tu dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e  dovei Vorrei saperlo. LABRIOLA (si veda) mi mandato un suo saggio sulla libertà; e  vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci trovo imbrogliato.  Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco quando  Bcrive. Non ha stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed  ha la pretensione di parere elaborato, come egli mi scrive.  Capisco Herbart, non capisco lui. L’oscurità non è nelle  parole, o nello stile, è dentro la testa.   Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera  all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e qual forza  di carattere nella seconda! Il discorso appartiene al mondo  moderno, ma la lettera è di altri tempi, ed ora non tutti  possono gustarla.   Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia, che  fa lo stesso con te. 1 11 bibliotecario Bartolomeo P. <m. noi 1910), allora nella Vltt.   Emanuele di Roma. Bàrbera, che è professore di filosofia morale nella R. Università di Bologna. Del concetto della libertà, studio psicologico, nell'Archivio di statìstica (risi, in Labriola, Scritti cori, ed. CROCE (si veda), M’ero dimenticato di raccomandarti Persiani. È  impaurito, perché il relatore 1 non sei tn, ina un lombardo  (forse Teneaf), e par che dalla Lombardia non si riprometta  gran che di bene. Son certo però che tn potrai njutarlo  sempre (Pisa). Avantieri ti scrive a Napoli,  ed ora avendo saputo che Betti ò stato chiamato per telegrafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò questa lettera per mezzo suo. Io non gliela posso portare di persona, perchè sono alquanto infreddato a causa della lezione d’ieri. Tu che sei la fenice dei presidenti, specialmente quanto  a prudenza, vedi se non entra fra le attribuzioni presidenziali  quello che ti chiedo io. Ho bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è  finito, e per continuare la stampa voglio esser certo che il  ministro non adduca cavilli: nel qual caso pianterei 11 la  baracca. Premesso ciò, e visto e considerato che il Ministero  ha premura pel Siciliani, e poca o punta premura pel concorso  di Torino, visto e considerato, che sta alla chiaroveggente  perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la convocazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi; che,  convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri  ecumenici di Roma a finir la eterna questione di Torino; e  son certo, come ogni dottor Pangloss, che tutto anda per lo  meglio in questo perfettissimo mondo, tranne il mio raffreddore  che sempre piò s’inasprisce. Ed ora che ti ho detto il mio desiderio, tu con quell’occhio  critico che ti rende (che cosa dico!) che ti rende piuttosto  singolare che raro, farai quel che crederai. Ed orn da capo, ma su di un altro argomento, una notizia.  Nell’ultima puntata (stile mamianico) della Filosofia delle  scuole italiane, il sullodato Conte scrivendo all’amico Ferri,  sai che cosa gli dico f Che in tutta Europa (le pelli rosse e gli  Zulus non ci vanno compresi) a parlare di Platouo e delle  idee non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone! Chi glielo avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti conviti,  Nel Consiglio Superiore della P. I., di cui Tenca, come Spaventa, fa parte, e da cui Persiani aspetta 1’abilitazione  all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi l’uno) che lo ringiovanirono,  lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai, finita la digestione del  pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee non ne vuol  sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino quello  ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate anche  loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo  aspettavo, che sareste rimaste platoniche lino ad aver  trovato un marito, o un facente funzione; ma Finali, Monabrea, Borgatti, tutta gente massiccia, chi avrebbe mai creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il suo  illustre oommilitonef  Vista la brutta china, direbbe Sella, io proporrei (il  raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte) che ROVERE (si veda) e Ferri siano impagliati, e ben conservati nell’atrio  dell’Accademia de’ Licei con questa memore iscrizione. QUESTI BIPEDI IMPLUMI  ULTIMI DELLA SPECIE ESTINTA RIMASERO platonici, ESSI SOLI IN EUROPA DOPO IL PRANZO PLATONICO Dopo della qual cerimonia vorrei che l’Accademia prelodata  a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa  perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1 Alle Termopili sono treceuto finalmente, eppure Simonide  s’incarica di cantarne: qui si tratta di line soli, in Europa,  non contro schiere barbariche, ma contro eserciti di dotti, e non  ti paro che ci sia più materia di canto? Ridettici bene, e poi  dimmi il tuo avviso.   Tu duuque hai leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te, 1 Scolare dell’ Istituto superiore di Magistero, allora fondato a  Roma: le quali — era la prima volta che si vedevano tante signorine  in una Università  frequentano alla Sapienza le lezioni di Berti. Su questo pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp. Una critica che Marino (che è poi professore di filosofia  morale a Catania) pubblica degl’Elementi  di fllosofia di Fiorentino. che hai tanto tempo da marineggiare. Io l’ho qui il suo  libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed ho una  sua lettera autografa, che impaglierò pure. Povero!  Mi ha scritto con una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo  abhraccerei. Abbracciarlo sì, ma leggere no. Non gli ho neppure  risposto, ed ho fatto male. Volevo leggere prima e poi scrivere. La bestia che sono stato! Bisogna fare il rovescio: uè  senza un perchè i metodi moderni fanno precedere la scrittura  alla lettura. Berti, p. es., fondatore della moderna pedagogia  prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese iu qua,  a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.   A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui,  perchè Camoeraceneie, che vuol lire di Cambrai, egli l'ha  tradotto della Sorbona: facendo poi una dottn osservazione,  che cioè Bruno or* saltato a piè pari dentro la rocca dol1’aristotelismo eco. E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un  libro, uno tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, numero et figura; quando il De immenso ole. contiene otto libri,  ed il De monade, che sarebbe il contenente, non contiene nè  otto, nè due, perchè è un libro solo, unico tiglio di madre  vedova. Sono piccoli nèi, lo so, ma che dimostrano una piccolissima  cosa: il precetto pedagogico che testò avevo 1’onore di dirti,  cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse scrisse, e poi  spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare nella  lettura. Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran capolavoro della  critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al solito, non  1’ ho visto; e poiché 1’articolo è tradotto certamente dnll’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che  faranno quegli eruditi di laggiù. A furia di scrivere, mi sono snebbiato un poco il capo,  ina temo forte di averlo annebbiato a te; legge di compensazione. Quando io mi trovavo a discorrere di FILOSOFIA con Berti, rimanevo muto: tu sei più fortunato di me, hai il  pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il [Nell’ art. sulla FILOSOFIA IN ITALIA pubbl. in una rivista inglese,  e poi tradotto nella Muova Antologia] tabacco, »e tornassi deputato, per non dovermi ingoiare quelle  forti dosi di FILOSOFIA scientifica, che mi somministra il nostro BERTI (si veda), m’imparerei a fumare. Meglio lo stomaco sconvolto,  elle il cervello come un mulino. Spero bene però che non sono costretto a nessuno di questi tormenti. Non mi dicesti se Morano ti da o no la prima parte  del Manuale ili moria della FILOSOFIA. Fattelo ilare, e leggicchialo: invece di Marino, potresti dure un’occhiata al saggio mio. Vorrei sapere se quel tanto è sullìciente per la coltura generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi servirebbe di norma  per le altre duo parti (Portici). Ha lettera da Zeller,  che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste insieme felicemente. M’incarica pure di dirti tante cose per la lettera  che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla mattina  nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e non  che siamo a due poli opposti. Ha la ricetta: si è fatta la bobba, ma non li’ è venuta  fuori la storia delle prove dell’esistenza di Uio. Per un concorso a una cattedra universitaria, della  cui commissione fa parte Fiorentino ed è presidente io SPAVENTA, questi lo prega di raccogliere gl’appunti per una relazione sulla voluminosa  Storia delle prove dell’esistenza di Dio di Bobba. Fiorentino, da Pisa gli risponde. Letto il tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto mano alla lettura del Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase  alla prima pagina; ma ho lasciato il poema lutino ai primi  due versi e mezzo. Eccoteli: Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborem, Insipidimi scilicet putidumqiie ingoiare bobatam; Obediain tamen etc. Esto prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret Finirà prima la pazienza mia, che le sue sciocchezze. È un  pover’ uomo, e noi uccideremo un morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della  Legge morale di  Crescenzio: il titolo è Francesco Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo libro  della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa miracoli. Ma la cosa non Unisce qui: il terzo libro sarai tu. 1 u  in persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana, tu sarai un libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri: a congetturare  dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa in  100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole, il veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri  personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi: ed io per  ora sono venduto a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque  soldi ; o calerai a tre, secondo che P opera seguirà il processo  ascensivo o il discensivo. Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore dimostra che io sono causa di parecchie depredazioni e grassazioni nei pressi di Casale. La mia influenza venefica s è  esercitata, per non so quale selezione, su la provincia di Ales¬  sandria: e la tua! Probabilmente verso Girgenti, o in quei  pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica hegeliana è come la filossera, si estende per salti di 70 chilometri la volta. Delle stroncature, come oggi si direbbe, dei Crescenzio ormai chi se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre  qualche De Crescenzio in giro, pronto a dimostrare,  come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo o  il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o  le leggi fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può  accogliere siffatte dimostrazioni con lo stesso buon umore  del Fiorentino. Intorno al Fiorentino v. le mie Origini della filosofia contemporanea in Italia. Giovanni Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to – philosophically? To ‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete frammenti di storia di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile: implicatura conversazionale” -- Conversation and inter-subjectivity. – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gentile.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Trieste – filosofia triestina – filosofia friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Abstract. Grice: “There is such a slight difference between the Greek words ‘philosophos’ and ‘sophista’ that I have decided to replace every occurrence of ‘sophista’ by ‘philosophista’ and see what happens!” Keywords: sophist, philosopher. Filosofo triestino. Filosofo friulese. Filosofo italiano. Trieste, Friuli Venezia Giulia. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested in Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends his views to all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’ so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola padovana" di metafisica neo-aristotelica.  Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa: Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano: Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone, Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione, Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti); “Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo, Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola); “Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti, Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal Rinascimento fino a Kant -- La filosofia contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi di una nuova storia della filosofia, Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI). Dizionario biografico degli italiani. G. occupa sicuramente un posto importante nella storia della filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare. La sua concezione della filosofia come problematicità pura si di-mostra infatti quale dice di essere, veramente classica, in quanto, evidenziando in tale problematicità quella che non può non essere con-siderata la caratteristica fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana della metafisica classica, G., proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una posizione originale che, giunta a maturità speculativa negli scritti padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Spirito, anche dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di Bontadini. Le sue opere più significative, in particolare  Come si pone il problema metafisico  (Padova),   Breve trattato di filosofia  (Padova) e  Trattato di filosofia  (Napoli), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo. La fecondità della problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il “domandare tutto che è un tutto domandare” è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio “metodo”, che il maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i motivi di interesse riscontrati nel pensiero di G. da alcuni studiosi che lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore, ora espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno ripensamento dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso risulta subito evidente nell’articolo di BERTI (si veda), uno dei primi e forse il principale tra gli allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma su uno scritto apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro, forse l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si tratta infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti essenziali l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per ripensare le due caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza e l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla causa suprema ordinatrice del cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio di Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di “fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone, pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la comunicabilità e l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno, a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di G., interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine del TRATTATO DI FILOSOFIA, e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico dell’intelli-genza che coglie il principio nell’esperienza, e quindi una normatività nel reale. In questa lettura l’importanza della problematicità gentiliana emerge specialmente nel farci intendere come il manifestarsi del principio, e quindi del valore, sia inseparabile dall’esperienza, intesa come atto che precede e trascende continuamente la distinzione soggetto-oggetto nella sua costitutiva tensione al sapere. Ma essa ci fa anche meglio compren-dere la prospettiva metafisica di G., che si presenta come ripresa della concezione aristotelica, ma allo stesso tempo accoglie dal pensiero moderno l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice classica, ma non è per questo oggettivista, come altre, più note, versioni della stessa. Una particolare declinazione dell’azione morale è costituita dalla pratica pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione filosofica gen-tiliana, cui è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della riflessione comune di Xodo e Benetton. La pedagogia di G. è una pedagogia umanista, poiché l’umanesimo – egli scrive – che è ricerca di classicità, si attua come   paideia, cioè come sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una sollecitazione a riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla verità della persona, ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa prospettiva, considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo, anziché contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito scolastico, con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino manuali. L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma della potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi possiamo infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la voce di Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un necessario scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e a interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia period antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico, i filosofisti, i filosofisma ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gentili: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia romana arcaica scuola di Roma – la scuola di Valmontone -- scuola romana – filosofia romana – filosofia lazia – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Valmontone). Abstract. Grice: “I seldom use ‘rhetoric,’ but Leech has: calling my thing a conversational rhetoric – I guess I like that!” -- Keywords: rhetoric. Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Valmontone, Roma, Lazio. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too – he is a classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has explored the beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the old schools of Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea  a Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio" di Roma.  Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, G. ne fu subito conquistato e Perrotta lo  volle come assistente.  Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente, giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava l'insegnamento sulle sue ricerche.  Gli anni non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide. Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma, Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. G., Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione classica" Treccani. La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo romano il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico. L’arco di tempo della difficoltà dei rapporti e non solo. Tensioni, incomprensioni e scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci di dissenso da NERONE, che sono le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche con ciò che la mentalità comune pensa dell’imperatore: ma qui la nostra analisi si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima trova resistenze nella CONCRETEZZA tradizionale dei Romani. L’astrazione filosofica suscita sospetti diffusi, come se si tratta di un imbroglio, un raggiro. Non mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene., perché giudicati pericolosi per la società romana. Soprattutto tale appare quel Carneade sul quale si interroga don Abbondio nella notte degl’imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure e d’importazione greca. Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandisce dalla città insieme retori e filosofi non-romani. Ma la novità culturale non si arresta per decreto: e la tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente apprezzata anche dai Romani, purché fosse rigorosamente controllata dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: PLOZIO GALLO. E. la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche CICERONE, per testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i allievi di allora e del suo rammarico per non potervi accedere: Arpinate e infatti trattenuto da altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica SOLO IN GRECO, come una volta si fa. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di PLIOZIO GALLO? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i consiglieri di CICERONE agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto didattici, quanto politici. La scuola dei retori latini rischia agl’occhi loro, e agl’occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di PLOZIO GALLO col popolare MARIO, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati nella guerra per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre CICERONE a informarci, nel trattato intitolato “De oratore”, dell’esistenza di questi maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di LUCIO LICINIO CRASSO che, allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. E una scuola di impudenza e di perdita di tempo, agl’occhi di Crasso e dei suoi amici. Essi andano ripetendo che la mente divene ottusa e si rafforza la loro pericolosa sfacciatagggine, mentre i retori si proponeno esattamente il contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché delle cose e dei problemi. Il genere di insegnamento consiste sostanzialmente in una sintesi di filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura completa. Si dove trattare quindi del superamento di una preparazione esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale dell’oratore. Questi divenne così il depositario di una cultura in grado di fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si forma CICERONE.  E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di Boldrini, Lanciotti, Questa, Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ. Philol., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella stragrande maggioranza dei contributi, dedica al saggio 'Storiografia romana arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal mediocrity, e.g. a potted survey by G.": un giudizio drasticamente negativo, non sorretto da un'ombra di argomentazione; diverso evidentemente il parre di Musti, che ne ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca. Guida storica e critica, Bari. Certamente ognuno, nel recensire un saggio, ha il diritto di giudicare come crede il saggio che recensisce. Ma ha il dovere di motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se il Badi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida molto perentoriamente la sto l’intervento. Ma quando egli definisce sic et simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio in uno stato originale" il mio discorso, debbo pensare che egli d'ira, provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, ed. Dorey, London, che, esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza alcuna pretesa di originalita. Egli stesso del resto lo presenta come un'esposizione panoramica intesa a riproporre alla storiografia una tem?tica da essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo saggio stato da me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho scritto in collaborazione scorso storico nel pensiero greco e G. con Cerri, Le teorie del di Roma, ricerche la storiografia, e che rappresenta l’edizione arcaica, delle dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta m?tica" "non sull’argomento. solo un risentimento che, prima ancora che a gl’effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un rispetto sa che la studio. alla tecnica di tipo Come quella da nel soleo ? me allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, l’opera storiografia 'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale che riconduce di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degl’Annales di FABBIO PITTORE Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II Verri, al quale di proposito avevo rinviato all’inizio dell’intervento nel Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World, ed. Havelock e Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento delle varie ancora: puo dirmi programmatico di il Badi?n se la mia Sempronio Asellione interpretazione del con una nuova A questo punto sarebbe doveroso da parte del Badi?n tornare sull’argomento per dimostrare, se ? in grado di farlo, che l’impostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui. Universita di Urbino Letteratura: addio al insigne studioso di metrica. Accademico dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma,  (Adnkronos). G., insigne studioso della letteratura classica e in particolare della metrica, è morto a Roma. L'annuncio della scomparsa è stato dato dall'Accademia dei Lincei di cui è socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore a Urbino, dove ha insegnato i classici, nella facolta' di Lettere che insieme al rettore Bo ha contribuito a istituire. Fondatore della rivista ''Quaderni urbinati di cultura classica', di cui e' stato a lungo direttore. Filologo rigoroso, G. si dedica allo studio della lirica e della metrica arcaica, curando anche edizioni critiche di testi di diversi poeti. Tra i suoi saggi ''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori a VIRGILIO (si veda)'', ''Metrica greca arcaica'', ''La metrica dei greci, l'edizione critica di Anacreonte, ''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca''; l'antologia ''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con Perrotta).  La vasta bibliografia di G. comprende anche ''Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la STORIOGRAFIA ROMANA ARCAICA' (in collaborazione con Cerri), ''Storia del mondo romano'' (in collaborazione con Pasoli e  Simonetti), ''Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro ROMANO arcaico', ''Storia e biografia nella FILOSOFIA antica (in collab. con Cerri) e ''Poesia e pubblico nella antichita”, che che e' valsa all'autore il Premio Viareggio-saggistica (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ: G. NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI. Kein Volk der Geschichte, auch das begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus zuständlichem Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder seine äußere noch seine innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die Fäden zu verfolgen, die es mit außen verbinden. (Usener). Il senso vero di una vita piena è quello che essa imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a loro modo sono verità) è labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di stringerlo, ecco scom-pare. (Anceschi). G.  ha visto comparire vari ampi e impegnati ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più significativi nella carriera scientifica del grande classicista; nel riper-correrla si dà davvero la possibilità di posare lo sguardo sulla storia della filologia classica, via via italiana europea. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore innovativo nell’incessante attività critica e filologica di G., con la fondazione dei Quaderni Urbinati di Cultura Classica, vera e propria officina intellettuale dove su impulso del fondatore e direttore la filologia classica, senza mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la sociologia della letteratura. A tale sensibilità può ben connettersi la visione che G.  elabora della traduzione, nella ricerca e nell’asserzione di una teorica eminentemente pragmatica -- Così Catenacci -- e quindi una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di modelli già esperiti, così sempre tendendo a «una poetica aperta che si costrui- sca gli strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»: il problema del tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira l’antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo. Una prospettiva che nello studio e nella traduzione dall’antico (e dell’antico) a G. certo si schiuse in relazione e risposta alle sfide prodotte dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo antropologico appunto: una prospettiva d’apertura nell’analisi e negli strumenti applicati all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare della Grecia di età ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa dalla prima citazio-ne in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici al volgere di un secolo, Usener. Il passo proviene da un discorso rettorale bonnense riproposto in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn, e richiamato da Gentili nel famoso saggio   L’arte della filologia. A differenza della fortunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire lento»), il rimando a Usener è passato piuttosto inosservato. G. si rifà alla   Rede  bonnense, dal titolo   Philologie und Geschichts- wissenschaft  4, discutendo della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» La prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli studi classici sin dal XVI secolo francese e ugonotto, subito poi riservando  G., dalla relazione presentata al convegno   La traduzione dei testi classici.  Teoria prassi storia  (Palermo), nei cui Atti poi comparve (G.).  All’interno della   Festschrift   per il convegno curata da Schmidt; al congresso bonnense G. presenta il fondamentale intervento   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura orale  (G.). 4  U. G. Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia strettamente connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben chiarito nella postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft verzeichnet nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di Bentley (zur Grundlegung einer Wissenschaft die Wege dazu hat erst das Genie Rich. Bentleys gebahnt), pur riconoscendo solo alla cultura tedesca, nel fatale trapasso, la decisiva spinta perché lo studio dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen Wissenschaft. Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e Camerarius, la centralità della Parola proclamata dalla Riforma si era rivelata determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco nelle nuove scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori evangelici, finché nei rifondatori della letteratura tedesca (Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen Protestantismus», laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita della cultura e della scienza tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske, Heyne. L’organica sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della   Rekonstruktion des Altertums  secondo l’intuizione dei grandi edificatori e teorizzatori dell’Altertumswissenschaft, Wolf e soprattutto Boeckh si fa altresì modello per le nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte dell’enorme ampliarsi delle conoscenze non solo all’interno dell’Altertumswissenschaft, con diretto riferimento al mondo classico nelle sue varie epoche e aspetti, ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti dalle antiche civiltà del Vicino Oriente rivelate dall’archeologia, Usener riconosce l’impossibilità di isolare la civiltà greca dall’attenta considerazione di quegli influssi, certo determinanti nella genesi almeno dell’arte greca: heute zeigen die Reste Babylons und Ninivehs verglichen mit den griechischen und italischen Gräberfunden  jedem, der Augen hat zu sehen, von wo jene hellenische Kunst ihre Anstöße und auf lange hin nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In realtà a Usener preme soprattutto mettere in rilievo che il concetto stesso di storia si è enormemente ampliato, al di là della tradizionale identificazio- ne nella «pragmatische Entwicklung der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und Völkern», ormai annettendo territori ignoti, nati dall’indagine delle origini delle lingue, dei credi, dei costumi, dei miti (die unbegrenzte Ferne einer vorgeschichtlichen Geschichte. In tale condizione appare al professore bonnense ormai impossibile aderire a una costruzione della filologia quale quella boeckhiana. La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come scienza storica, perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia propria del tardo XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da  Onde se la moderna POESIA ITALIANA e francese è figlia degli studi umanistici, la letteratura tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto rapporto di sorellanza» (Usener). 8  Usener è in proposito molto chiaro: Es bleibt also dabei: eine geschichtliche considerarsi ein Studienkreis, un insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i contenuti della conoscenza storica, costituisce «die letzte Voraussetzung aller geschichtlichen Forschung: una filologia come tecnica dell’interpretazione che, potenziata dalla prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i tratti di «una sorta di antropologia. Ho indugiato sul saggio di Usener perché l’insieme della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione, anche in ragione degli interessi ‘trasversali’, comparativi e  religionsgeschichtlich  che l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia dapprima protestante e poi cattolica nella Germania, e forse anche sulle origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle religioni e di storia del cristianesimo. Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte della filologia, il suo rifarsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse intendono forse associare proprio il filologo bonnense, quasi provocatorio in una prolusione rettorale nel definire Kunst l’essenza dell’attività filologica, pri- Wissenschaft ist die Philologie nicht. Sie konnte und mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit». 9  «Wenn es also wahr ist, daß der Boden aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese Kunst haben wir in der Philologie erkannt» (Usener). Così Momigliano A partire soprattutto dal seminario a Pisa coordinato da Momigliano e subito pubblicato come  Aspetti di Hermann Usener filologo della religione  (Arrighetti). Sono apparse negli ultimi anni edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener; Usener; Usener. ssai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi di particolare attualità, è la lettera al teologo bavarese I. von Doellinger, nella quale Usener afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso dei miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa della nostra nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano. È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco nota, presentazione che del   Le-benswerk  di Usener, grande maestro che l’Italia colta quasi ignora, da Pestalozza, sulla rivista del modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni, vd. i riferimenti in Benedetto Non sorprende il dissenso, rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa la visione della filologia presente nella Rektoratsre-de, prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und natürlich ebenso Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della   parola scritta. La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel testo visto da G. come struttura complessa di materiali linguistici, d’IMPLICAZIONI (IMPLICATURE) metrico-ritmiche, referenziali e pragmatiche nel cui processo interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno  Studienkreis, appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia, varia, settantennale attività scientifica di G., si cercherà piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con la figura di Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia classica nella prima metà del Novecento, la produzione e la serie di saggi di portata fondativa scritti da G., nei quali evidente è una svolta per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi della traduzione dall’antico. L’esordio di G. si ha e nel pieno della Seconda guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con MERCATI (si veda), dedicato soprattutto a passare in rassegna quattro inesplorati codici delle  Storie di Agazia conservati in biblioteche italiane (tre Vaticani e un Marciano) . In quegli anni drammatici il giovane studioso li collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova edizione critica dell’opera, in vista della quale non tace anzi l’intenzione di provvedere a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto Vulcaniano conservato nell’allora inaccessibile Leida. Il netto cambiamento di interessi e una decisa virata ver- und Glaube und Geschichte) ist tot: unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […] dann  empfinde ich, daß Philologie doch etwas für sich ist, oder wenigstens ihr τέλος  hat (lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder), e cfr. Sassi. G.  Philologie in dieser Auffassung ist nicht eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis (Usener). Sin d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal   Ri-cordo di G. di Angeli Bernardini; Catenacci; Cerri; Lomiento; G. A. Privitera, commemorazione lincea lincei.it/ files/documenti/ Privitera_commemorazione_G. .pdf  ; Tedeschi. Cerri. Non si tratterà di Gentili editore e critico del testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione. Gentili. Come chiaramente lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto appare chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica ed anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore effettivo di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale manoscritto, secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità di una recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e quindi più solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di poter assolvere».   Vd. in particolare ccorrerebbe perciò una nuova collazione accurata  [so la poesia greca arcaica si legano all’incontro con Perrotta, sulla cattedra romana di greco come successore di Romagnoli e impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca (Saffo e  Pindaro. Due saggi critici  uscì presso Laterza), ma attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei, in particolare con interventi accolti nei pasqualiani STUDI ITALIANI DI FILOLOGIA CLASSICA nota è in particolare la polemica intorno al poeta degli epodi di Strasburgo. Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su   La filologia classica nell’ultimo ventennio, apparsa per il Natale di Roma in un volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta), se è priva non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il «vero progresso segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo indirizzo vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti, edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato, l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa supera di gran lunga la FILOLOGIA CLASSICA di qualunque altro Paese del mondo. Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa, presentando ai let-tori insieme al condirettore Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due grandi poeti, a Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale continuità e coerenza con se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa dello «studio della civiltà antica, per noi moderni» in un «rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra l’eredità del classicismo europeo  del manoscritto, che mi propongo di fare quanto prima»; si tratta del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius per l’ editio princeps  del testo greco del   De impe-rio et rebus gestis Iustiniani imperatoris libri quinque, uscita a Leida (cfr. Dewitte). Vulcanius (Smet), e professore nella nuovissima università di Leida. Lomiento Su circostanze e contesto della successione illuminanti scorci in Canfora Sulla quale, e sulla persuasiva identificazione in Ipponatte sostenuta da Per-rotta, vd. Gamberale; Sisti; Morelli. Perrotta degli ultimi due secoli (la tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt, di Winckelmann e di Schlegel, di Shelley e di Keats, di Hölderlin e di Nietzsche, di FOSCOLO e di LEOPARDI, di CARDUCCI (si veda) e di PASCOLI) e una pratica filologica che, nutrita di adeguata consapevolezza critica e storica, trascendesse le mai del tutto sopite conseguenze delle polemiche, e dei connessi schieramenti, che avevano lacerato gli studi classici italiani d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che abbia l’abnegazione d’un grammatico alessandrino e l’entusiasmo d’un umanista del Quattrocento, la tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi dell’Ottocento, il senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici letterari dell’età nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo storicismo, la filologia senza il filologismo, la critica estetica senza l’estetismo e il vacuo filosofismo. Non manca subito di séguito una citazione da Nietzsche, dalla qua-le risulta la filologia nel suo senso più elevato rappresentata, come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica. Né manca un richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia», nell’ampia e intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della morte a Ettore Romagnoli 28, accostato a Nietzsche nell’accesa e immaginifica vita di filologo, quindi rievocato come professore universitario a Catania  Funaioli – Perrotta. Che punto nodale del «discorso sulla filologia» sia «la divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione per Gentili: cfr. G.. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa in rilievo da Gigante, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo italiano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in Perrotta. Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali, onde egli afferma sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo crociano commemora entusiasticamente il Romagnoli, proclama ripetutamente la indipendenza dei supremi valori poetici da ogni condizionamento ambientale e culturale» noterà Paratore (appunto a intendere «quella sopravvalutazione della critica let-teraria che è sembrata così singolare in un uomo di così severa formazione filolo-gica» è dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte rifusa nel profilo Perrotta  in Grana). È utile citare il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Nietzsche giovinetto concepiva una dissertazione filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva certo, con queste parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane, del quale egli presagì il genio. Ma un intuito profondo gli fa coprire in Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano Guglielmino), in particolare quando  leggeva con predilezione i lirici greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale. È anche quando, a cura di Perrotta e del suo as-sistente G., usce   Polinnia, antologia della lirica greca ad uso dei licei destinata a grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del Novecento, sino alla recente e rinnovata terza edizione. Non fu la prima antologia dei lirici greci destinata alla scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i programmi, con LA RIFORMA GENTILE, più decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si diffusero antologie scolastiche nate in un periodo di estetica esasperata, di olimpico dispregio per tutto quello che si chiama (e la parola è oltraggio) FILOLOGIA, come vollero osservare prefando i loro   Lirici greci scelti e commentati  Ugolini e  Setti che a quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello essenzialmente   Aglaia, la  nuova an-tologia della lirica greca da Callino a Bacchilide  pubblicata da Lavagnini. In sede di valutazione storica è giusto rilevare che ad   Aglaia  si sono ispirate tutte le antologie successive che si  finirà sempre per mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli (Perrotta). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte nella sezione su Romagnoli in Grana Nel   Profilo di Bruno Gentili  premesso da Carlo Bo al I volume dei ricchissimi  Scritti in onore di Bruno Gentili, Romagnoli ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore. Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua formazione, perché accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini  Nella   Prefazione  a Ugolini – Setti 1940 due sono «tra i lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili «per il loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di Lavagnini si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’  Antologia della melica greca  pubblicata con pre-fazione del maestro Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte delle scoperte papiracee accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di Ugolini e Setti dopo usce un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti possono definire serie, a cominciare da   Polinnia » 32, senza dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia di Lavagnini toni ben più diretti 33  di quanto dieci anni dopo accadrà a Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in   Polinnia ), e più in linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta. I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di immoralità   tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro dei più noti studiosi di Saffo da Welcker a Valgimigli: impostazione da Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in  Saffo e Pindaro Così Degani. Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così caldi da prendere i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani da quel suo mondo. Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema Lavagnini aveva dato nella sua precedente Nuova antologia dei frammenti della lirica greca  (Lavagnini), dall’ incipit  e dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in Saffo «una  invertita : essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il potenziale affettivo ( libido  secondo la termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del sesso opposto. Al di là dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini meritano di essere particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna italiana della psicanalisi, quando si pensi che la RIVISTA ITALIANA DI PSICOANALISI, diretta da Weiss, è fondata e soppressa due anni dopo: ricco di informazioni in proposito, benché talora disorganico e confuso, Zapperi Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito trattati rimando a Benedetto Cfr. Perrotta, in pagine non prive di sarcasmo e oggi dimenticate: «Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo appassionato essi stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente  an Sappho publica fuerit In realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se potesse udire i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i termini della questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve nulla Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento, di un pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione, e perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un  club  estetico di donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era tutto. Significativo il pieno consen [La parte curata da G. comprende tra gli altri Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupa. Nella difesa che G. fa (come già Coppola e Perrotta) dell’allegoricità del famoso frammento alcaico ora V. citato da Eraclito stoico («nella nave è rappresentato lo Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina, tra affinità e differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla pragmatica dell’allegoria della nave. Superando i vincoli ancora operanti in   Polinnia  connessi al tradizionale confronto ‘estetico’ con Orazio, tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a riconoscere nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più idoneo e perciò scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di «trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo  comprensibile solo  dall’uditorio dei compagni. Crocianamente priva di introduzione sia generale, sia ai singoli poeti,  Polinnia  riserva particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una nota», sì da divenire per un liceale il primo impatto reale con la metrica greca. Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione per gli studi metrici che la scarna premessa   Ai lettori  rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che permetta ad ognuno d’interpretare i versi come vuole, ma una scienza che è facile imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura metrica, ci siamo presa la libertà di segnare gli  ictus  dei piedi, benché agli  ictus  non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento dinamico, ma L’ACCENTO (cf. GRICE) musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile: coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con gli  ictus  non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella psicanalisi. Perrotta – G. . Sulle   Allegorie omeriche  del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro in G. G. Si ricordi per confronto la collana laterziana degli  Scrittori d’Italia, priva d’introduzione e di qualsiasi apparato interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli poeti sarà anche la successiva edizione del 1965: Perrotta – G. Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico, che alla metrica di   Polinnia  dedica Di Benedetto 2001, 141 sggsponde alla lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di ogni lettura metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa passione didattica, animano la prefazione a   La metrica dei Greci, il saggio che rappresenta lo sdoganamento» di tale disciplina nella scuola e, più in generale, negli STUDI CLASSICI ITALIANI. Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita IN ITALIA la mancanza di un MANUALE DI METRICA ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo considerano di scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenendola del tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni l’indefessa indagine metrica di G.: In realtà la metrica non è né estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella mia   Metrica greca arcaica, alcune teorie metriche dei moderni, quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri nel loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità dello studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per il valore dei metricisti antichi e la visione non ancillare degli studi metrici, da intendersi non Catenacci G. Circa venticinque anni dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello studio della metrica greca «nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di una disciplina esoterica con sospetto e diffidenza», G. tornerà a cita-re l’idea largamente diffusa «della impossibilità di costruire per la versificazione greca una teoria coerente ed univoca», inoltre aggiungendo l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni Trenta «che aveva reciso alla radice ogni altro impulso all’indagine critica che non procedesse nel solco della teoria estetica dell’arte»: cfr. G. Sensibilità critica in cui Cerri, ravvisa l’indizio di una attitudine ‘an-tropologica’ già allora in qualche modo operante nella filologia di Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa costantemente su di esse la propria trat-tazione è del tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentalecome meramente funzionali o subordinati alla critica del testo, ma in-dispensabili innanzitutto per una piena comprensione dell’antica poesia, nella convinzione «che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia stessa», come è poi ribadito all’inizio dell’  Introduzione . Lì è anche subito affermata l’unità ritmica del verso antico, la sua strutturale unione con la musica, onde «posta l’unità del verso greco, non sarà più legittimo parlare di piedi, ma soltanto di  cola. Rievocando di recente le lezioni di metrica tenute da Gentili alla Sapienza nell’immediato dopoguerra, Privitera ha colto nella «prospetti-va storica» l’aspetto che in quelle esercitazioni più colpiva, quando «a differenza dei trattatisti, che nei manuali si limitano ad esporre le loro interpretazioni, Gentili citava anche le opinioni dei metricisti antichi e dei metricisti moderni: come con ampiezza appunto avviene in   Me-trica greca arcaica, il volume dedicato a Perrotta, anch’esso aperto dalla rivendicazione della metrica come «una scienza al pari delle altre discipline classiche», tutta «nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano i primi due capitoli del libro, dove dapprima (Studi metrici: brevi cenni) G. delinea con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali analisi e teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal, a Usener, a Wila- Privitera, commemorazione lincea.  G. Ho consultato la copia conservata presso la biblioteca del Centro di papirologia Vogliano’ (Dipartimento di studi letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano, con  ex libris  dello stesso Voglia-no (segn. Vgl.II.B.61), in quegli ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto incompiuto   La lirica eolica e Pindaro nella critica di Hermann.  La cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses già è lodata in Usener Di Usener è rammentato con interesse il trattato   Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender Metrik   (Usener), con la sua «analisi comparativa del-la metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici, slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione negativa di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich nicht in kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht. Ich kann überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische Religion», lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder). Dal punto di vista della linguistica storica e della metrica comparativa indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà Campanile, cfr. anche Morelli mowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo capitolo (  Metrica e musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei suoi   Poeti lirici, si segnala per la riflessione sulla centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età ellenistica, quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta nella rinascita degli studi italiani di metrica antica, nei quali «egli raggiunse una competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio in Italia. Così Paratore all’indomani della morte del collega grecista nell’ateneo romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa indispensabile per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando la pro-fonda coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta» con l’intera sua concezione degli studi classici (nella metrologia di Perrotta veramente filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le più feconde : nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- [Cui già allora Gentili imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvalutazione empirica’dell’observatio metrorum  e il connesso profondo scetticismo per tutti i problemi metrici di  Urgeschichte »: G. Particolarmente il secondo volume (I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo, Saffo, Bologna) è costellato di «traduzioni in segnatura moderna della realizzazione sonora», cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei frammenti dei tre antichi autori; almeno da un punto di vista storico non a torto Stella indica come merito di Romagnoli quello di avere richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul binomio   poesia-musica, in stretta interdipendenza di nota e parola, nei poeti greci fino all’età ellenistica ROMANA, e di aver così dato avvio ad una compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo e Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini sulla musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd. Martinelli Messi in rilievo da Albini, il quale anche ricorda che «quando la morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul saturnio», sul contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli. Resta il paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio, che «nella produzione di Perrotta, anche tenendo conto delle notazioni occasionali e delle scansioni fornite in   Polinnia, i contributi di carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza. Paratore. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I capitolo di   Metrica greca arcaica: Critica testuale, metrica, interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati contemporaneamente dal filologo classico; essi rappresentano una unità indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di Paratore, la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia», derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di G. L’esperienza di Perrotta metricista non può disgiungersi dal magistero pasqualiano. Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno Pasquali e la FILOLOGIA CLASSICA: Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio, chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di superare questa difficile prova. I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il grande filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e nei  cantica  della tragedia e della com-media del quinto secolo», in relazione soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli dove «egli crede di poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono». Ciò che qui conta mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli incontri dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, di affrontare il tanto discusso problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico: che cioè, più in generale, Pasquali già avesse  testo, curarono nelle loro edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα  dei cori lirici, tragici e comici. Se oggi il filologo dissente da essi nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque, la metrica di un poeta significa poter intendere più profondamente la sua stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del verso.  Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale G. Per la centralità nella ricerca metrica di Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così denominati nel secolo scorso da Westphal», nella dialettica tra individuazione di  cola  unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di origine boeckhiana vd.  e. g.  G. – Giannini Così G. 1950, 21, in un passo e in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data, ma Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze). Si ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi   Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie, trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni. In parte riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro Maia alcuni problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema preferito da Gennaro Perrotta nelle  conversazioni con i suoi allievi, i μετρικώτατοι. L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra, pur con vari dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che diverrà, soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a Gentili e alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno Gentili gli anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive. Poco dopo la precoce scomparsa di Perrotta, G. divenne all’Università di Urbino ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui è subito figura cardine. La prolusione urbinate, pubblicatacon il titolo Aspetti del rapporto poeta, commit- lidei in cui la presunta corruttela del metro, per la responsione non perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo, difeso ammettendo la responsione impura in G. Il racconto di G. va naturalmente letto tenendo presente la frattura tra Pasquali e Perrotta su cui vd. Morelli, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i rapporti epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina G. (poi nei monumentali  Studi in onore di Perrotta ). Nella stessa  Gedenkschrift   non manca un breve contributo di Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford: Maas. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame delle carte segnalate in Lehnus e LehnusUna quindicina d’anni dopo Gentili osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia di scarso valore e di nessuna utilità per noi. Ma, ch’io sappia, nessuno sino ad oggi ha realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il disprezzo e il totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli studi metrici del Novecento (G.). Dello sviluppo degli studi sulla colometria antica guidati da Gentili negli anni successivi sono testimonianza molti contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: come sguardo d’assieme vd. Pretagostini, Gentili – Perusino e più di recente la  Tavola rotonda; breve consuntivo del dibattito in corso in García Novo Sugli studi classici a Urbino dapprima nella Facoltà di Magistero poi in quella di Lettere e Filosofia vd. il profilo di Colantonio – Bravi 2006tente, uditorio nella lirica corale greca, presenta un chiaro carattere pro-grammatico 62  e introduce quell’insieme di temi che «nel tempo si rivelerà più produttivo e tipicamente gentiliano. Fin dalle prime righe del sag-gio è messo in evidenza il valore di strumento di conoscenza del reale proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo, il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito, e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio la relazione tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e in genere del carme corale sul quale per più di un secolo da Boeckh in poi la critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica». Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca, e che Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione pindarica in Saffo e Pindaro, dedicandovi una rilettura di oltre cento pagine attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti compresi, infi-ne giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia estetica sia logica nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la visione romagnolia-na di Pindaro come «poeta del mito, l’interpretazione di quel «poeta puro, più che poeta-moralista o poeta-filosofo» 65  è infine da Perrotta per intero riportata all’interno della dicotomia crociana poesia/non poesia, senza arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di quella scelta critica: Non poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta dell’etica e della politica dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico. Ma poeta grandissimo del mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a ripudiare come non poesia buona parte dei versi del poeta. Questo forse dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena considerazione convincerà, che, anzi, il poeta è [Una specie di manifesto per la Scuola urbinate lo definisce ABernardini Catenacci La cui derivazione da Burckhardt sottolinea Paratore  Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico modo di onorare un poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti impoetiche, non che fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a caso subito Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca («naturalmente continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura, dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli ammiratori dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo dantesco), a proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce aveva teorizzato e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni autore e opera letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella ‘allotria’, attinente una varia INTERPRETAZIONE FILOSOFICA e pratica» 68 .Trent’anni dopo, nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento degli studi italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse alle ipoteche critiche della prima metà del secolo, G. in certo modo proietterà all’esterno il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo nel mondo dei valori che il poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della poesia era portato a interpretare. Discernere nella orazione urbinate i fili di una nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di giustificazioni, quando si pensi che il saggio Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca, nato da quella prolusione e poi pubblicato in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di Studi Urbinati contenente gli  Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70  aperti da una pagina di presentazione di G. stesso, alla quale segue un inedito perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche. Significative le parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e classica: Perrotta E così prosegue: «gli uni e gli altri si riterranno i soli capaci d’intendere i poeti, pur essendo incapacissimi d’intendere qualunque poesia, perchè per poesia intendono l’allegoria, oppure la così detta poesia d’idee, oppure perfino una rac-colta di massime belle e utili». 68  Mi limito a rimandare in proposito, come testo esemplare, all’  Introduzione  di CROCE (si veda), che cito da una ristampa laterziana sostanzialmente immutata. Saranno poi i temi fondamentali di molte, famose pagine di   Poesia e pubblico nella Grecia antica,  Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma del polipo . G. Perrotta 1Chi gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola, ascoltarlo nella conversazione abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza umana, apprese, oltre che il rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del nostro tempo, diremo l’impegno a comprendere nell’inesauri-bile mondo della grecità arcaica e classica la problematicità dei rapporti di valore culturali e civili, quali uomo-scienza, uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della nostra inquietudine e per i quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi della odierna civiltà industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo, dell’uomo non come strumento ma come fine  . La seconda parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù di Pindaro, anticipando traduzioni destinate all’antologia Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide, che uscì per Guanda; il saggio originato dalla prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente immutata, a mo’ di introduzione dal titolo   Poeta e com-mittente . Nuovo è però l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità ‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica corale greca: In un momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia, giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una nuova lettura dei poeti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide, Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica, troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti consentiti dall’indole della collana, un panorama delle op-poste tendenze ideologiche e artistiche che animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella quale la poesia, come solo rare volte nella storia della cultura occidentale, divenne strumento di conoscenza del reale. Si tratta dunque di una affermazione di ‘contemporaneità’ della lirica greca ancorata a solide e rinnovate basi filologiche e storiche, proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra le più incisive e impetuose, come oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare qualche eco dei  [Parole che in parte torneranno trent’anni dopo nell’introduzione premessa da G. alle  Giornate di studio su Perrotta . Si può aggiungere che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, G. segnala che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori del neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e latina» presso l’Università di Urbino. G. Ho consultato presso la Biblioteca centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di G. datata Urbino Con l’ultimo periodo si apre il saggio in Studi Urbinati clamori suscitati dalla beat generation  di A. Ginsberg, il cenno iniziale agli sperimentalismi d’avanguardia nell’àmbito della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle loro ragioni, essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli anni, la cui fase preparatoria si suole riconoscere nel dibattito culturale sviluppato sulla rivista milanese Il Verri: sin dall’inizio diretta d’Anceschi, se n’era avviata una seconda serie presso l’editore Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi destinati a fama e fortuna nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato Barilli, Eco, Giuliani, Guglielmi, Porta, Sanguineti). I nomi appunto intorno a cui si è aggregata l’antologia poetica   I Novissimi: poesie per gli anni Sessanta  (con testi di Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Porta, Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta poli entrambi di definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana,   poetae novi  avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo, volti (i più) alla destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica modalità di espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come tale 76 . Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri, Anceschi saluta il determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della poesia italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta  anacoretica, o  ermetica, o  chiusa, non senza certe tentazioni di involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come estrema voce del soggetto nascosto e introverso come sintesi illuminante, pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola», si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia dissacrata, estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata talora alla casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio significante dell’effimero, di modi analitici, a struttura complessa e multipolare, tale che può farsi capace di una critica di vita, di un’azione per la trasformazione dell’uomo»: egli avver-tiva insomma il farsi avanti di una poesia, e di una stagione di poesia, come  accrescimento della vitalità, e nuove tecniche, e volontà di forme aperte, e speranze di una maggior portata di comunicazione. Il saggio già apparso in Studi Urbinati è da G. subito ripubblicato [Nonché «uniti e avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso  boom »: così Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo Sganciato il linguaggio da intenti determinati e da precise responsabilità semantiche, lo scrittore appare attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da ciò che sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di invenzione linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie avventure e peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e del godimento, come efficacemente sintetizza Curi appunto su «Il Verri, all’interno di un numero monografico  Classicità e contemporaneità  contenente contributi anche di altri studiosi del mon-do antico. Il fascicolo è introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi non fortuiti una zona antica e nuova della classicità, qui volto a riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse di un continuo vivere dei classici al di fuori della astrazione, ormai incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile,  una  delle sue fibre,  una  delle voci di una cultura che si è aperta, aperta al riconoscimento delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo scorso sembra aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di questo genere. Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine recuperare i nostri antichi. Particolarmente appropriati, nel contesto del numero de Il Verri, ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di G. i rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale, tra le varie forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte) anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura classicistica. Il culto della poesia pura idoleggiò in essi quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda metà  [Anceschi G. Grande ( Grecità ); DIANO (si veda) (Ritorno a Plutarco); Pasoli ( Per una lettura dell’epistola d’ORAZIO (si veda) a Giulio FLORO (si veda)); Giardina (Note per l’esegesi d’ORAZIO (si veda) lirico );  Mele ( Orazio e il significato culturale del classicismo latino ). 80  Cit. in Nisticò  Anceschi. Quanto una ben diversa visione della Grecia come antica madre comune» è IN AMBITO FILOSOFICO ITALIANO ancora viva pochi anni prima testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini, dove a fronte del senso della crisi dei valori oggi tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei, che nessuna generazione del passato potrebbe probabilmente reggerne il paragone, si propugna un ritorno alla Grecia, che vagheggiata dall’Umanesimo al Romanticismo come il felice e radioso mattino della nostra storia, sembra non avere mai deluso chi ricerchi in essa i germi del modo occidentale di considerare e vivere la vita (dell’Ottocento, non solo e non primariamente nelle traduzioni. Carducci in particolare, e per vari aspetti già a Foscolo, si deve «la riscoper-ta, nelle immagini e nei metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana memoria, e poi di Alcmane come modelli di poesia pura, all’origine di un ricco e complesso processo di ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che attraverso Pascoli 85  e D’Annunzio conduce sino ai   Lirici greci tradotti da Quasimodo, usciti a Milano, introdotti da un saggio critico del ventinovenne Anceschi. A Milano ANCHESI (si veda) si è formato con BANFI (si veda), subito segnalandosi con il volume   Autonomia ed ete-ronomia dell’arte, radicale presa di distanza dall’intuizionismo estetico crociano e dalla sua incapacità di comprendere le poetiche. Come  Bo per la corrente ‘fio- Tra le quali per più ragioni merita ricordare quella che Cavallotti, allora già famoso deputato dell’Estrema, dedicò a  Canti e frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Gio-suè Carducci, Milano, con prefazione, interessante per il rifiuto della metrica barbara (il tentativo che non data da oggi di ricondurre la poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e LATINI, mal saprebbe giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio), e per l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel mondo tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo milanese di Porta Nuova), finanche citando la versione olandese in versi di Bilderdijk: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata di Stefano che ancora oggi fra tutti i distillamenti di cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più sicura. Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi della  Coma  catulliano-callimachea come   poesia lirica  sin dalla dedica a Niccolini (non credo che l’antichità ci abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li pareggi») della traduzione e commento de   La Chioma di Berenice poema di Callimaco tradotto da CATULLO (si veda): ivi il   Discorso quarto. Della ragione  poetica di Callimaco  si chiude nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saffo nei superstiti  rari vestigi  a fronte d’ORAZIO (si veda) e di CATULLO (si veda). Sul pindarismo foscoliano dal commento alla  Chioma di Berenice  attraverso i  Sepolcri  sino alle  Grazie  come riflessione sul nesso che lega lirica antica e moderna vd. Benedetto Nava; qualche utile elemento si trae da Tomasin Fondamentali soprattutto i   Poemi Conviviali  (la prima edizione in volume) sin dal liminare  Solon, su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato commento in Treves  Un àmbito di particolare interesse è quello della sperimentazione pascoliana ispirata ai metri della lirica greca, cfr. Giannini e ora Capone – Giannini Lo stesso anno de   La poetica del decadentismo  di W. Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici degli anni Quaranta di M. Untersteiner vd. Lehnus Sui fondamenti filosofici e critici del precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa  (La nuova fenomenologia e la nozione di poetica); su Anceschi, la critica di ispirazione fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già con l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto] rentina’ dell’ermetismo, sul versante milanese Anceschi fu figura di spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: poetica della parola sulla cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai  Lirici greci, dicendola erede dell’«esperienza complessa della poesia dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo, LEOPARDI (si veda) e, soprattutto, scorgendone l’antecedente nella pura e libera voce dei lirici greci. Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico svoltosi per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che nella cultura europea non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici greci. Quella stagione ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia veramente  nuova  e  contemporanea » e soprattutto «nella aspirazione al raggiungimento di una rigorosa purezza lirical’ermetico Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè la purezza di quell’antica sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia. Senza sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della terribile crisi della civiltà europea, risuona l’appello alla lirica greca come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla no-stra coscienza come  un tutto  è, appunto, la lirica – per la prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la   parola  (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci un’approssi-mazione felice a quel segreto. Se pregevole appare la sottolineatura del concorrere di parola, danza e musica nel definire la particolare natura della lirica greca, è indubbio che il suggerire compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della parola’   cara agli ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici greci conservati   per fragmina  («qualche parola altissima, e interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno del concetto e della realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica: all’indomani della guerra pubblicamente lo segnala Valgimigli, peraltro con Quasimodo e  Consapevolezza che ad esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante frase di Valéry: une civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui enverraient les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres de Ménandre ne sont plus du tout inconcevables: elles sont dans les  journaux. Valgimigli. Dopo aver ricordato che dei lirici greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e quella pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro tutto il resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e da subito ben disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi risultati. Quando G., nel saggio pubblicato su «Studi Urbinati» e su «Il Verri», polemicamente allude a quell’impresa nei termini su citati (il culto della poesia pura idoleggia nei grandi poeti della lirica monodica quella che è ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura la poesia del frammento condensata in un’immagine di pochi versi superstiti), i   Lirici greci  di Quasimodo erano nel pieno della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la for-ma  ne varietur  delle versioni dai lirici nell’edizione mondadoriana degli  Opera omnia  del poeta, tra vivaci polemiche di recente laureato dal Premio Nobel, quelli sono gl’anni in cui se ne radica e diffonde la presenza nelle scuole italiane, particolarmente dopo l’istituzione della scuola media unica. Si può dire che in Italia nella percezione comune, anche genericamente colta, la lirica greca coincise con i Lirici greci  di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani della morte del poeta si prese a riconoscere come la sua migliore. La stessa scelta da parte di G. di  tazioni indirette, oppure, dove siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni storico-culturali di quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in frammenti: ora, se io penso a quelle che furono ai principi del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo, non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le cause di questo incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in certo senso, alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di certa poesia lirica greca. Quanto sopravvive dei carteggi Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto – Greggi – Nuti. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da Padova, su carta intestata R. Università di Padova, Seminario di Filologia Classica») con cui Valgimigli ringrazia il poeta per l’invio di una copia degli appena pubblicati   Lirici greci : Caro Quasimodo, Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel pudore senza inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro. Ma dove, in questi giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E auguriamo bene al nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in Benedetto – Greggi – Nuti). Così per primo Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura dell’  Introduzione  alla sua importante antologia einaudiana   Poesia italiana accomuna in iconoclastico dileggio antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Bo   Letteratura come vita ; appunto perché gli antichi lirici risultano volgarizzati, mediante il Quasimo- [antologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale (Pindaro, Bacchilide, Simonide) è con ogni evidenza determinata dal fatto che si tratta appunto degli autori non presenti tra i Lirici  di Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una pura (attuale e antica)  idea della poesia  perciò fu osservata la scelta dei testi. Naturalmente è ben definito il senso anche delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza di poeti semi-lirici (giambici o elegiaci, gnomici, FILOSOFICI, o politici) troppo disposti alla  sentenza, all’esortazione  o alla  narrazione : a indubbie condizioni di prosa. Dopo la comparsa dei   Lirici greci  prefati da Anceschi, G. propugna e realizza il rovesciamento di quella prospettiva critica; ci si può quindi chiedere perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divulgare il saggio Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Quanto si è prima accennato circa i convincimenti da Anceschi rende chiara la risposta: nemico di ogni posizione cristallizzata, Anceschi soprattutto con Il Verri individuò come primario compi-to del critico «quello di risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e l’instabilità. Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si  do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai   Lirici greci, definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo» e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica». Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di Anceschi: per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali del tardo ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide, più elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi nei contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e condizionarono il loro canto (G. ). Anceschi – Campagna – Colombo Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione cristallizzata. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e che lo aveva visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi rinchiudere in esso. E magistrale è la sua capacità di muoversi in territori ambigui, d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi come punto di riferimento per chi cercava la sua strada. Anceschi, saggio con cui si apre il primo numero de Il Verri, riproposto nella nuova serie de «il verri»; sulla condizione della letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra le ultimeera convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della stagione ermetica, ma tornò ad affrontare i   Lirici greci  e la sua stessa introduzione dieci anni dopo, riscrivendola per una nuova edizione mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca (come peraltro già le pagine  lasciavano sospettare), prende atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti, è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo. Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa nella veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi   frammenti  (la giustificazione della vali-dità del frammento è sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro forza che la poesia  non  sta nella struttura,  non  sta nella «musica esterio-re»,  non  sta nel «contenuto morale» o nella «narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto all’introduzione è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di Renato Serra Intorno al modo di leggere i greci, pubblicato postumo da Valgimigli su «La Critica». Ispirate dalle contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata dei   Lirici greci  del Fraccaroli gli suscitano, le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie-  manifestazioni dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare delle situazioni» torna ad esempio Anceschi Non dimenticherò certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia italiana contemporanea. È, credo, un giorno dell’autunno: l’introdu-zione anceschiana  è ristampata in Quasimodo. Ho davanti a me i Lirici di Fraccaroli. Che cosa è dunque l’interesse di questo libro? L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi dei lettori comuni questi avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno possa vedere e giudicare senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel che valgono. Con questo animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto lietamente, come sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a questa lietezza io resto malinconico e dubitoso  ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;»  Sent from the all new AOL app for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al gusto fin de siècle  («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e con la cretese, con le fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli egiziani, e insomma con l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più crudo, barbaro, romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»), e soprattutto sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo ‘bisogno di antico’: Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la differenza profonda fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le statue, le fotografie, le immagini, i processi, i costumi, in somma la vita nella sua indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di seminario e delle figure di Longino. Una cosa è chiara, direi quasi  a priori ; che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale della grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi e le formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati del saggio di Serra provengono dal fascicolo de Il Verri dedicato a  Classicità e contemporaneità, che si apre con estratti da   Intorno al modo di leggere i greci . Sugli appunti di Serra si sofferma il liminare   Intervento  di Anceschi. Nel giovane critico cesenate caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura  assoluta  dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi, con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento. Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e l’attività di G. in quegli anni come filologo e come docente. Ne è conferma la scelta di continuare a pubblicare su Il Verri gli articoli di maggior impegno teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica: in particolare i due saggi L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo  e   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il primo (G. pienamente si presenta al lettore ‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso problema di fon-do che è il problema stesso della sopravvivenza del mondo classico nella nostra cultura», letto all’interno del più radicale tema della ‘morte della storia’ nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva. Serra Già in QUCC, con il sottotitolo  Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale: G. . Dopo, sono riflessioni che colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo, irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici, politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a livello internazionale degli studi sulla lirica greca arcaica, sulla spinta soprattutto dei lavori di Havelock, muovendo dal riconoscere che dato comune alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V sec. fu il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma orale», e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti mentali diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una ‘tecnologia di scrittura’   rinvenibile «in contesti poetici di altre culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche, estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della   performance  poetica che mira a pubblicizzare il personale e il soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere emozionalmente l’uditorio attraverso la ricca serie di immagini e metafore proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici, vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di amiche e di amici di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo lavoro di G. e della sua scuola sulla lirica greca arcaica. È opportu-no sottolineare la volontà di G. di legare l’interpretazione dei lirici greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa, protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi, [Esemplare l’esposizione in G. Sent from the all new AOL app for iOSl’idea cioè cui aspira l’antropologia contemporanea, dell’interpretazione come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione umanistica tradizionale della poesia greca come eterna storia naturale del gusto e dell’arte sia del neo-umanesimo etico, e in definitiva la presa d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale» in un contesto culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira all’affermazione di un diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma variamente concordanti di Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo sforzo di capire in concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una linea critica attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le domande, le cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla lessicologia semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia, dalla sociologia all’antropologia», e il vero tema risulta infine il problema concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale. Allo scopo evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di una costante riflessione concernente passato dell’oggetto e presente dell’interprete, «contro il pericolo di arbitrari travestimenti, il saggio si chiude con una breve citazione da Eliot, cara a G., che la ripeterà in futuro. Si tratta di un passo proveniente da un saggio (Euripides and Murray ), violento attacco dello scrittore contro le traduzioni euripidee approntate per la scena dal famoso grecista, accusato di adottare per le proprie versioni un obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del testo greco e di renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa dalla devastante frase finale: «è per il fatto che il Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che, quali siano stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray proposte  on the stage  furono grandemente popolari per decenni, e anzi it is largely due to Murray that Greek tragedy establishes itself as a permanent feature of the theatrical landscape. L’intervento è incluso [Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da individuarsi nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia culturale», al fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e dei singoli passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali» vd. soprattutto le osservazioni di Cerri. Con riferimento a quanto sembra alle interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più polemizza Gentili. 103  «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in modo così vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente. Cfr. Garland. Su   Euripides and Murray  vd. ora i rilievi di Morwood; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le letterature classiche e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e nell’autorappresentazione del poema  The Waste Land del concetto   Sent from the all new AOL app for iOSda Eliot nella raccolta   IL BOSCO SACRO, rivelata alla cultura italiana dalla traduzione di Anceschi, che premise una lunga introduzione dove non manca di essere menzionato  Euripides and Murray, da Anceschi accostato al saggio «incompiuto e bellissimo di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e che non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle, certo più rigorose, dell’arte. Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato, è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine secolo», appunto quella «  filologia poetica, che è riuscita a ridurre i liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso) nell’introduzione ai   Lirici greci, priva invece di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di Eliot contro Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella rielaborata, quasi palinodica pre-fazione anceschiana. Il terzo ampio e importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla rivista di Anceschi (Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici : G.) è per intero dedicato a discutere i radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento nel definire l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di tutto registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti», particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo persistere della «critica del gusto» e in  di   fragment   («these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di Martindale. Anceschi Anceschi Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo. Questo il passo. Quasimodo sembra perciò essere veramente il più adatto – oggi – per una impresa così ardua – necessariamente – difficile in reazione a certa   filologia poetica, che è riuscita a ridurre i lirici greci ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento bellissimo:  Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene /  Mezzanotte: l’ora vola; io son qui sopita e sola, dove il riferimento è natural-mente al famoso frammento saffico. In Quasimodo, dove Eliot nel saggio su Euripide è menzionato accanto a pensieri sul tradurre di LEOPARDI (si veda) e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in italiano de  Il bosco sacro, il richiamo a Murray di Eliot a proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia da certi filologhi non so come invasati dal dio è già in Anceschi,   Presentazione  in Anceschi – Porzio dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna, Eschilo, VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), CATULLO (si veda)] generale di quel gusto del lirismo che domina la cultura italiana è indicata l’ancora presente tendenza a ricondurre il testo originale al gusto del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale, così procedendo a un’operazione che annulla le categorie del tempo e dello spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» in cui possano cadere le traduzioni, G. torna a menzionare il passo di Eliot  contra Murray  già citato al termine dell’articolo di due anni prima (  L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario intento del brano, e in genere di Euripides and Murray, è l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo dell’‘occhio creativo capace di render vivo Euri-pide con una traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione classica. Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella ‘filologia poetica fine di secolo a lungo di voga in Italia, colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle  forme di un linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano. È opportuno citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il sag-gio di Eliot si conclude: Abbiamo bisogno di una digestione che assimili insieme Omero e Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno studio accurato degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia tanto presente a noi come il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto. Eliot: I classici han perduto il loro posto di pilastri del sistema politico-sociale. Se i classici devono sopravvivere e giustificare se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo, come fondamento per la letteratura che speriamo di creare, sono proprio sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se del LIZIO d’Aristotele si può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci spieghi come sia materia vitale per noi il rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche utilità per noi. Si deve dire che iMurray non è l’uomo adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di sollecitazione per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un volgare avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne. Anceschi discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non si rife-risce ad un letterato di bella educazione e di civilissimo spirito, come Valgimigli Per l’Anceschi come per quello e parimenti  (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti grottesche traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli venne dai   Lirici greci  di Quasimodo, frutto d’acuto, inatteso, e ormai da molti anni pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo, fonte di poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di lì a poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più nota e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore. Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a quella operata da Quasimodo con i lirici greci,   Euripides and Professor Murray  è invece evocato da Gentili come alleato contro gl’arbitrari travestimenti realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo. Lo si nota non per ossessione fontistica o gusto della minuzia paradossale, ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo che nei decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei   Lirici  ha, come presenza immanente e come termine di confronto positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello filologico e accademico. Nel caso di G. una tale presenza e un tale confronto dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando si pensi che la prima (e pressoché unica) re-censione dei   Lirici greci  di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Perrotta. Dimenticata dopo la guerra in [Ottime in proposito le osservazioni di Albini,   Prefazione, in Perrotta – Albini,  V: Le due traduzioni dei lirici greci che hanno contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare la bellezza e la grandezza dei classici antichi. Si voleva spalancare una grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico, richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi. Dall’introduzione di Anceschi ora in Quasimodo Pare certo che G. sia giunto al saggio di Eliot attraverso Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione dei Lirici greci. Ancora nella postuma   Premessa  di Anceschi,   Brevi parole, su un modo del tradurre  a Mariotti, le versioni di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni floreali del prof. Murray, non meno che da quelle di certi nostri professori-poeti», e si ha un interessante ricordo personale delle «traduzioni dai   Frammenti dei tragici greci che legge ai tempi del liceo LIZIO, lontane ormai, ma non dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore che rimase esente dalle rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie degli esuberanti traduttori  liberty  del suo tempo. Anche in questo senso non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello Gigante, che «la traduzione dei Lirici greci  ha conquistato un posto ben definito nella storia degli studi classici ragione della sede in cui è pubblicata, la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare errori e spropositi della traduzione (Bella cosa, se Quasimodo sapesse un po’ meglio il greco!), ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo quella di «un poeta, un modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci modernamente, e riesce così a conservare ad essi la semplicità antica»: da contemporaneo Perrotta comprese cioè il novecentismo dei Lirici greci, la loro pertinenza (come Anceschi dirà del classicismo post-simbolista di Eliot) a una zona di dignità anticamente moderna, di classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte dell’Europa civile Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare e meglio valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso i   Lirici greci  quasimodei nonché verso significato e influsso nella cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia greca. Nel saggio di G. compreso nell’annata de «Il Verri» alle versioni di Quasimo-do dai lirici è accostato il   Pindaro  di Leone Traverso, cioè la traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che il grecista e germanista L. Tra-verso pubblica per Sansoni. Va ricordato che sede originaria di   Prospettive critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età dei lirici  fu l’imponente numero in due tomi di Studi Urbinati per intero dedicato a ospitare  Studi in onore di Traverso, con   Dedica  di  Bo, di cui è altresì presente il saggio   La cultura europea in Firenze. Vi si rievoca il clima degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi professore di Lingua e letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani poeti e scrittori (Bo, Bigongiari, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il Frontespizio» e a «Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo, prima di tutto come esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e organicamente volta perciò alla traduzione: «anni dove la poesia è una sorta di religio- [Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono molti giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai   Lirici greci  è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta in  Studi Perrotta  e in Perrotta; sul tema vd. Benedetto. Anceschi; ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca Traverso – Grassi G. Cfr. Bo  (in origine conferenza pronunciata a Firenze); nel I tomo è l’ampio saggio di Macrí, dove particolare attenzione è riservata alla rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti. Già coinvolto in una polemichetta con Quasimodo (duce  Lavagnini) ancor prima dell’uscita dei   Lirici greci, intorno all’interpretazione di ὤρα come  giovinezza  nel famoso fr. Diehl di Saffo (Tramontata è la luna ), Traverso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio 1940. Pur notando qualche arbitrio e difetto nella resa del greco, sin dall’ incipit  egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici («perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo), alla sua modalità e ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone, Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come ufficiali quali Pindaro e Bacchilide  – egli isola di quella poesia una zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in tutte le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle reliquie  – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario) Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra erme-tico di Traverso, G. assimila   Lirici greci  di Quasimodo e   Pindaro  di Traverso come «prove più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema d’immagini, d’invenzione linguistica, di ricerca di stile. Mentre in Quasimodo la vera fedeltà di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico» con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto originale-traduzione, l’assai più ricca  è morto, ecc.) ma di colpo, al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una vivace intervista Macrí ha a ricordare Traverso all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al caffè San Marco infusi del demone delle letterature straniere», insieme naturalmente a Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura francese, maestro Foscolo Benedetto, anche di Luzi (Tabanelli Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un articolo di Bo,   Ma dove va la poesia?, apparso sul Corriere della Sera, ora in Bo I testi della disputa, avvenuta su «Corrente di vita sono ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti Traverso; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana, indipendente, che ne risulta. E quindi, come da molti è stato osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare   Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata. Pur tra loro sotto molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli occhi di G. accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una «fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e di traduttore, la risposta scelta da G. fu ri-nunciare a soffermarsi sul «problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire fenomenologicamente, investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità. Si tratta di pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur rigoroso valore comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite e di continuo inverate nel lavoro di G. dei decenni a venire: Una poetica non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma una poetica aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre dai G. Le considerazioni a proposito di Traverso, e delle tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà all’originale, torneranno in B. G., Introduzione, a G. Bernardini – Cingano  Giannini G.  richiama in nota il pregevolissimo saggio di Mattioli, com-preso nel numero speciale  Classicità e contemporaneità, dove anche si aveva la fondamentale prolusione urbinate   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di Mattioli si conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire dalla convinzione che la soluzione univoca (traducibilità assoluta o intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto in un contesto prammatico, cioè sul piano delle molteplici risposte della storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di sostituire domande quali come si traduce? e CHE SENSO HA IL TRADURRE?, cioè «sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo fenomenologico greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più ampia di quella idea cui aspira l’etnografia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche, sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo. Poiché fedeltà alla poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei suoi registri linguistici e metrici ma anche di tutta la realtà extralinguistica e situazionale dell’enunciato poetico. Senza passare dettagliatamente in rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi che in futuro variamente continueranno ad occupa-re G.. Così l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata alla complessa struttura metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la preferibilità del verso libero delle grandi odi dannunziane, finanche segnalando le possibilità aperte dal verso dinamico e “atonale” della poesia dei Novissimi», e in effetti nell’antologia   Lirica corale greca  dello stesso G. tenta di risolvere il movimento dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia contem-poranea dei Novissimi: va detto che un profondo interesse per le strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e novecentesca sin dall’inizio caratterizza i «Quaderni Urbinati di Cultura Classica . La  G. [Sono affermazioni che ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio, nell’  Appendice II. La traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre  in G., Si ricordi la scelta del verso libero per la traduzione delle   Pitiche, con l’os-servazione che «le grandi odi delle   Laudi  del D’Annunzio, particolarmente il verso libero della   Laus vitae, scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo tecnico un modello esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle forme ritmi-che, tali da riecheggiare i molteplici schemi della metrica pindarica» (G.,   Introduzione, a G. – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini); e si ricordi altresì la lunga citazione da   Maia, con l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al principio dell’  Introduzione  alla postrema fatica G. – Catenacci  – Giannini – Lomiento Lo rileva Bernardini [In àmbito diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso G., l’importante e innovativo lavoro  Cultura dell’im- provviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica  (G.), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione si esprime vivo interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in America, di un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il suo alimento dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi decenni, non solo dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla più autorevole filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del Parry, del Lord e dell’Havelock» poi in G. Già nel primo numero si ha l’articolo di Pinchera, che si apre lamentando l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla storia delle forme metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per vari decenni in Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel secondo dopoguerra del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il contemporaneo «crollo dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più autorevole nel settore della classicità e più coerente con l’orientamento crociano è riconosciuta in G. Perrotta, particolarmente per  Saffo e Pindaro. Circa la più generale posi-zione critica del maestro, G. tiene a mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al canone dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi filologiche e storiche, non era in altri termini una critica del gusto», giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di sovrastruttura, sul tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica introdotta in Italia da Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i fermenti di un approccio linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura classica: la ricerca filologica costituiva soltanto il momento preliminare e necessario di un’indagine il cui fine era l’intelligenza del mondo an-tico nella viva concretezza della sua cultura. Nel prosieguo del contributo, Gentili brevemente si sofferma sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di Dodds e di Vernant allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il problema cardine della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel corretto rapporto tra livello sincronico e livello diacronico della ricerca», il che è stimolo per accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di Bundy, e poi di Young. Ad essi G. rimprovera un’analisi limitata ai soli aspetti sincronici delle strutture linguistiche e formali, tale da precludere «la possibilità di comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici della   performance  della lirica pindarica». Alcuni anni dopo, più ampia- mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il fastidio che suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a repe-rire le costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei singoli contesti ed alla impostazione ideologica dei diversi autori: è per noi interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio [In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di Valgimigli, «da noi la prova più rilevante di una critica del gusto permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana fra i due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece favorevole all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci  pubblicati da E. Raimondi nel numero de «Il Verri» su  Classicità e contemporaneità ; si consi-deri anche che in occasione del cinquantenario della morte, è il saggio di Bo La religione di Serra, poi accolto nel volume   La religione di Serra e altre note di lettura, Firenze Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni vent’anni dopo in G.. Su questi temi vd. poi almeno G., dell’approccio del maestro, «una critica estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica.. L’articolo si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco oggettivismo metastorico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario, consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte culturale del nostro tempo. Assai più dei due precedenti interventi accolti su «Il Verri», Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici  è attento al tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e di cogliere il momento puntuale in cui significante e significato si compenetrano» 136, nella fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non viceversa» 137 . La presenza di contributi di G. G.; sul conflitto tra gli indirizzi di Bundy e della SCUOLA URBINATE di G., le considerazioni di Lehnus. Ampia analisi delle posizioni di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto) della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di Bonelli, con ricca bibliografia. G.. Analogamente, e fenomenologicamente, si concludeva il già citato Mattioli: Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il discorso, non solo perché si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma anche perché i  discorsi conclusi  in questo àmbito di studi sono palesemente insensati». Si veda già Mattioliper l a proposta di «una impostazione fenomenologica della ricerca, considerata particolarmente necessaria e opportuna nel campo dell’antichità classica proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il tentativo, compiuto in Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica crociana nella interpretazione delle letterature classiche. G.,   Introduzione, a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini Così in G., dove anche è ricordato il giudizio di Perrotta, per il quale ANNUNZIO (si veda) è non solo il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti ha saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamente. Più positivo si fa nel citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138, ma sino alla vigilia del-la morte di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore bolognese, che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a tornare con il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei  Lirici greci  e al suo significato storico e culturale. A quella stessa seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee e di propositi appartiene il numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», come espressione del  Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica latina  diretto da G.  e connesso al CNR. Un effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili comportereb-be una sistematica rilettura non solo dei contributi e degli interventi del direttore dei  Quaderni  ma più in generale delle principali linee di ricerca espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare ed evolvere nel corso di cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi di Gentili su Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a distanza di oltre quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici dei  Quaderni  di G.. Il primo è   La veneranda Saffo, che [Sino a G. Cerri: sull’importanza dell’articolo per successivi saggi di G. sulla storiografia antica vd. Bernardini Oltre a un cenno in un’annotazione («Eccellente scritto di G. sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora una volta acu-te considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi umanistici», cfr.   Anceschi), si veda soprattutto quella d («Lettera molto lusinghiera di G.. Conosco l’ironia, ed è tale da non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr.   Diari Anceschi). Nell’Archivio Anceschi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate lettere di G.: cfr. Campagna; si tratta della presenza più ampia per un filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti lettere), del quale sulla rivista anceschiana vd.   Plauto e il “metateatro” antico  (Barchiesi), con la premessa: «sulla tentazione erudita […] prevalse l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello che è più che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula stessa del “Verri”, classicità e contemporaneità. Così: Con Quasimodo ho avuto una frequentazione amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai problemi con vivi impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati tanti anni; per altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la forza della mia vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale. La traduzione dei Lirici Greci  fu una esperienza radicale alle origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda, costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» ( Diari  Anceschi G. confluito in forma abbreviata in G. prende spunto dal famoso fr. 384 V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è supposto) «l’ incipit   di un car-me dedicato all’illustre concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz» a difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero intendere e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice: «affo pura, dal dolce sorriso, dal crine di viola. L’omaggio devoto dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare: non si può pretendere di giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese. Ognuno vede quanto sarebbe ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia. Al passo, per molti aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di Saffo, Gentili non fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo articolo di Ferrari, allievo di Pasquali inviato come assistente di Perrotta a Roma. Se merito dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre l’interpretazione dell’epiteto  ἄγνα all’àmbito della «castità profana», caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di Saffo» e a tutte le «moderne idealizzazioni della sua poesia, dimostrandone invece il senso arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del sacro», d’altra parte – rileva G. – l’indagine di Ferrari sfociava in una idealizzazione di Saffo sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di stretta osservanza crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio dal  Saffo e Pindaro  di Perrotta, scritto appena cinque anni prima . Nel varare la fortunata avventura dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica, dalla ‘purezza’ di Saffo G. decide  Degani – Burzacchini Perrotta. Canfora  L’articolo di Ferrari era ricordato a proposito del «significato di ἀγνός»  anche nella I edizione di   Polinnia. Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili l’anno prima, in occasione del rifacimento della sezione su Alceo per l’edizione di   Polinnia  del 1965, 224 (anche in Gentili – Catenacci). 147  Gentili di prendere le mosse: da quello stesso frammento, si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su Saffo nei Lirici greci  di Quasimodo (o coronata di viole, divina dolce ridente Saffo). In conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno precedente   Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella lirica corale greca, dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso dell’apostrofe è rintracciato attenendosi al senso reale del contesto alcaico, così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità sacrale della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla funzione religioso-sociale nell’ambito del tiaso. L’inveterato tema degli amori di Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti, scopi del tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento dell’esistenza nella dinamica del tiaso di pre-cise unioni per così dire ufficiali fra le ragazze tali da non escludere «probabilmente un rapporto di tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues e marient entre elles et adoptent des enfants». G. offre qui un geniale esempio di «interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo», come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn: al di là di eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque verosimile, conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega antico e contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro, quando si pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi oc-cidentali quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati nella rifles-sione giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale. Esempio forse tra i più chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della loro interpretazione, abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane, basi della (post)moderna  sexual revolution, con tutte le forzature e gli arbitrî propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture. Dell’attenzione di Gen- [G. Importanti in quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di Alcmane, a partire soprattutto da G.  (poi rifuso in Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi  in G.); sul più ampio tema delle iniziazioni femminili l’assai più recente volume G. – Perusino In luogo di rifarmi alla sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso ideologicamente determinata, ricordo il capitolo   Klassieken en seksuele vrijheid  nel bel libro di Veenman: con particolare riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e implicazioni, è infine testimonianza  Saffo ‘politicamente corretta’, l’articolo  (in collaborazione con Catenacci) dove la ribadita posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di elementi avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e paideutico è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai  gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti, e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo. Un coraggioso intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il quale una tale Saffo   politically correct   va respinta, al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché «rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti. Nel quadro del crescente interesse nei Quaderni Urbinati di Cultura Classica dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo di Miralles, dal titolo  The use of classics today, aperto dall’indubbia constatazione «the huma-nities are losing ground and classical studies are in retreat. Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme differenza di tempi e condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da G. più volte ricordato nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata edizione di   Polinnia  è stato giustamente e autorevolmente rilevato che «in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno dimenticato né che la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia e la filologia, né che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. G. non ha rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace di produrre fiori non prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una risposta positiva. Benedetto si devono determinanti apporti nell’elaborazione di teoria e prassi della moderna sessualità liberata, Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due secoli i classici hanno aiutato a capire e denominare l’omosessualità -- de klassieken hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen. – Catenacci 2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi limito a rinviare alle incisive osservazioni di Most. Va detto che in generale la critica più recente sembra avvertire una quantità crescente di aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo ristretto e omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua poesia, nel caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni indebite (Michelazzo). Miralles Bettini Albini, Perrotta, «nomon Anceschi,   Primo tempo estetico di Eliot, in T. S. Eliot,   Il bosco sacro. Saggi di poesia e di critica, con uno studio di L. Ance-schi, Milano 1Anceschi,  Critica e immaginazione, «Il Verri» (il verri). Anceschi,  Orizzonte della poesia, «Il Verri» Anceschi, Intervento, «Il Verri» Anceschi,   Del “Verri”, perché lo abbiamo fatto e lo  facciamo, «Il Verri» Anceschi, Interventi  per «il verri», a cura di L. Vetri, Ravenna Poeti antichi e moderni tradotti dai lirici nuovi, a cura di Anceschi e Porzio, Milano Il laboratorio di Luciano Ance-schi. Pagine, carte, memorie, a cura di M. G. Anceschi – A. Campagna  – D. Colombo, Milano Bernardini,   Ricordo diG., «QUCC Aspetti di Hermann Usener, filologo della reli-gione . Seminario della Scuola normale superiore di Pisa, a cura di Arrighetti et al.; prefazione di Momigliano, Pisa Barchiesi,   Plauto e il “metateatro” antico”, «Il Verri» Barié – Sini,   I Greci e noi, Milano Benedetto,   I Sepolcri nella storia della fortuna di  Pindaro, in Dei Sepolcri  di Foscolo, a cura di G. Barbarisi – W. Spaggiari, Milano Benedetto,   Filologia classica e storia antica: pre-messe e sviluppi, PER UNA STORIA DELL’UNIVERSITA DI MILANO, Bologna Annali di storia delle università italiane Benedetto,  Tradurre da poesia classica in frammen-ti: note di Manara Valgimigli ai Lirici greci di Quasimodo, in   Lirici greci e lirici nuovi. Lettere e documenti di Manara Valgimigli,  Anceschi e Quasimodo, a cura di Benedetto – Greggi – A. Nuti; introd. di M. Biondi, Bologna Lirici greci e lirici nuovi. Lettere e documenti di Manara Valgimigli, Luciano Anceschi e Salvatore Quasimodo, cur. Benedetto – Greggi – A. Nuti; introd. di M. Biondi, Bologna Bernardini,   Rassegna critica delle edizioni, traduzio-ni e studi pindarici dQUCC» Bettini,  Una nuova  Polinnia, «QS» Bo,  Letteratura come vita, «Il Frontespizio» Bo,   La cultura europea in Firenze, «Stud- UrbB Bo,   Letteratura come vita, antologia critica a cura di S. Pau-tasso, Milano Bonelli,   Pindaro. Formalismo e critica estetica, AC  Bossina,  «Textkritik». Lettere inedite di Paul Maas a Giorgio Pasquali, «QS Campagna,  Appendice I. Elenco di consistenza per autore dell’epistolario Anceschi, in   Il laboratorio di Luciano Anceschi.  Pagine, carte, memorie, a cura di Anceschi – Campagna – Colombo, Milano Campanile,   La metrica comparativa di Hermann Usener, in   Aspetti di Hermann Usener, filologo della religione . Semi-nario della Scuola normale superiore di Pisa, a cura di G. Arrighetti [et al.]; prefazione di A. Momigliano, Pisa Canfora,   Il papiro di Dongo, Milano  Capone Giannini,  Gli appunti di metrica classica di Pascoli tratti dalle lezioni di Vitelli, Firenze, Catenacci 2014 = C. Catenacci,   Ricordo di Bruno Gentili, Eikasmós Cavallotti,  Canti e frammenti di Tirteo. Versione let-terale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Giosuè Carduc-ci, Milano Cerri,   Ricordo di Bruno Gentili, «Maia Colantonio – Bravi 2006 = M. Colantonio – Bravi,   La tradizione classica, in   L’Università di Urbino a cura di Pivato, II,   I saperi  fra tradizione e innovazione, Urbino Croce, La poesia di Dante, Bari Curi, Il critico stratega e la nuova avanguardia. Luciano  Anceschi, i Novissimi, il Gruppo 63, Milano-Udine Degani,   La poesia greca antica, in  Giornate di studio sull’opera di Bruno Lavagnini. Palermo, Atti, a cura di Ippolito – Nicosia – Rotolo, Palermo Degani – Burzacchini Degani – G. Burzacchini,   Lirici greci, seconda ed. con aggiornamento bibliografico a cura di Magnani, Bologna 20Dewitte,   Bonaventura Vulcanius Brugensis. A bibliographic description of the editions Benedetto,   Ricordo di Polinnia, Lexis Il richiamo del testo. Contributi di filologia e letteratura, Pisa I diari di Luciano Anceschi, «il verri I diari di Anceschi, il verri Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder Usener und Wila-mowitz. Ein Briefwechsel hrsg. von Dieterich, F. Hiller von Gaertringen, mit einem Nachwort und Indices von Calder, Stuttgart-Leipzig.  Eliot,   Euripides and Murray, in  The sacred wood. Essays on poetry and criticism, London trad. it. IL BOSCO SACRO saggi di poesia e di critica, Milano Funaioli – Perrotta,   Ai lettori Maia Gamberale,   Le scuole di filologia greca e latina, in   Le grandi Scuole della Facoltà, Roma García Novo,   Métrica, in  Veinte años de filología griega, ed. Adrados et al., Madrid Garland,  Surviving Greek tragedy, London G.,   I codici e le edizioni delle “Storie” di Agatia, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano G.,   Metrica greca arcaica, Messina-Firenze Gentili, La metrica dei Greci, Messina-Firenze G., Bacchilide. Studi, Urbino G., Problemi di metrica Maia Studi in onore di Perrotta, Bologna G., Aspetti del rapporto poeta, committente, udi-torio nella lirica corale greca, «StudUrbB G., Aspetti del rapporto poeta, committente, udito-rio nella lirica corale greca, «Il Verri» Gentili Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide, con testo a fronte versioni introduzione e note di B. G., Parma G., La veneranda Saffo, «QUCC  G.,   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale, «QUCC G.,   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo, «Il Verri» G.,   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici, StudUrbB G.   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici, «Il Verri» G., Il Partenio   di Alcmane e l’amore omoerotico  femminile nei tiasi spartani, «QUCC G.   Metrica greca. Problemi di metodologia e rap- porto metrica-musica, in  Storia e civiltà dei Greci, direttore R. Bianchi Bandinelli; La crisi della polis. Arte, religione, musica, Milano Gentili,   Poeta, committente, pubblico, in  Storia e civil-tà dei Greci, direttore R. Bianchi Bandinelli; La Grecia nell’età di  Pericle. Storia, letteratura, filosofia, Milano G., Cultura dell’improvviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica, «QUCC G.,   Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari G.,  Gli studi di Pasquali sulla metrica gre-ca e sul saturnio latino, in  Pasquali e la filologia classica del  Novecento . Atti del Convegno Firenze-Pisa, a cura di Bornmann, Firenze G.,  Tradurre poesia, Aufidus G.,   Die pragmatischen Aspekte der archaischen griechischen Dichtung,  A e A G.,  Tradurre poesia, in   La traduzione dei testi clas-sici: teoria, prassi, storia . Atti del Convegno di Palermo, cur. Nicosia, Napoli G.,   Introduzione, in  Giornate di studio su Perrotta . Atti del Convegno (Roma a cura di B. Gentili – A. Masaracchia, Pisa-Roma, Gentili,   Leone Traverso traduttore di Pindaro, «QUCC G. Angeli Bernardini –Cingano – Giannini  = Pindaro,  Le  Pitiche, introd., testo critico e trad. di B. Gentili; comm. a cura di P. An-geli Bernardini – E. Cingano  B. G. Giannini, Milano Polinnia. Poesia greca arcaica, cur. G. e Catenacci, Messina-Firenze G. – C. Catenacci,  Saffo ‘politicamen-te corretta’, «QUCC» N. S. Ge. – Catenacci – Giannini – Lomiento = Pindaro,  Le Olimpiche, introd., testo critico e trad. di B. G.; comm. a cura di C. Catenacci  Giannini L. Lomiento, Milano G. Cerri,  Strutture comunicative del discorso storico nel pensiero storiografico dei Greci, «Il Verri» G.–  Giannini,   Preistoria e formazione dell’esametro, QUCC La colometria antica dei testi poetici greci, a cura di B. G. – F. Perusino, Pisa-Roma Le orse di Brauron. Un rituale di iniziazione  femminile nel santuario di Artemide, cur. G. Perusino, Pisa Giannini,   Pascoli e la lirica corale, «QUCC» Gigante,  Perrotta e Croce, in  Giornate di studio su Perrotta, Atti del Convegno, Roma, cur. G. – Masaracchia, Pisa-Roma I critici. Per la storia della filologia e della critica moderna in Italia, collana diretta da Grana, Milano repr.  Lavagnini,   Nuova antologia dei frammenti della lirica greca, Torino Lavagnini,   Aglaia. Nuova antologia della lirica greca da Callino a Bacchilide, Torino Lehnus,  Pindaro, DIZIONARIO DEGLI SCRITTORI LATINI, Milano  Lehnus, Rileggendo Untersteiner interprete di Pindaro, in   L’etica della ragione. Ricordo di Untersteiner, cur. Battegazzore Decleva Caizzi, Milano Lehnus, Incontri con la filologia del passato, Bari Lehnus,   Repertorio di libri ed estratti postillati da  Paul Maas, «QS  in L. Lehnus, Incontri con la  filologia del passato, Bari Lehnus,   Repertorio di carte di Paul Maas e di documenti da lui provenienti o a lui indirizzati, QS ora in L. Lehnus, Incontri con la filologia del passato, Bari Lisa,   Le poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai Novissimi. Linee evolutive di un’istituzione della poesia del Novecento, Firenze Lomiento,  Ricordo di G., Lexis Maas,   Ein seltsames Versmass in Schiller’s Jungfrau von Orleans, Maia Studi in onore di Gennaro  Perrotta, Bologna Macrí, Traverso e l’esperienza ermetica, «Stud- UrbB» Mariotti, Da Saffo a Ovidio. Con un priapeo,  Lecce Martindale,   Ruins of Rome: Eliot and the pre-sence of the past, in   Roman presences. Receptions of Rome in European culture, ed. Edwards, Cambridge  La Musa dimenticata. Aspetti dell’esperienza musicale greca in età ellenistica, cur. Martinelli, Pisa Mattioli,   Prospettive fenomenologiche per lo studio dell’antichità classica, «Il Verri» Mattioli,   Introduzione al problema del tradurre, Il Verri» Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre, a cura di F. Mazzocca, Milano Michelazzo,   Alceo e Saffo: risorse (e insidie) ese-getiche di un contesto comune, in   I papiri di Saffo e di Alceo . Atti del Convegno internazionale di studi Firenze, a cura di G. Bastianini– Casanova, Firenze Miralles,  The use of classics today, QUCC Momigliano,   Hermann Usener, Tra storia e storicismo, Pisa, Morelli,   Metrica greca e saturnio latino. Gli studi di Gennaro Perrotta sul saturnio, Bologna Morwood,  Gilbert Murray’s translations of Greek tragedy  in  Murray reassessed. Hellenism, theatre, and interna-tional politics, ed. by Ch. Stray, Oxford Most,   Reflecting Sappho, in   Re-reading Sappho. Re-ception and transmission, ed. Greene, Berkeley-Los Angeles-London Nava,  Cultura e poesia del mito tra Otto e Novecento, in   Pascoli e la cultura del Novecento, a cura di A. Battistini G. Miro Gori Mazzotta, Venezia Nisticò,  Anceschi, Belfagor Storia della letteratura italiana, diretta da Malato. La critica letteraria dal Due al Novecento, coordinato da P. Orvieto, Roma Paratore,  Commemorazione del corrispondente Perrotta, «RAL» Paratore,  Perrotta, RCCM Perrotta,  Saffo e Pindaro, Bari Perrotta,   La filologia classica nell’ultimo ventennio, in  Scienza e Università italiane in un ventennio di Regime fascista Roma Perrotta,   Ettore Romagnoli, «Maia» Perrotta, Il Lamento di Danae, «Maia» Perrotta,   Lucano, «StudUrbB» Perrotta,   Poesia ellenistica. Scritti minori, cur. G. – Morelli – Serrao, Roma. Perrotta Lirici greci, introd. e trad. di Perrotta; a cura di Albini, Firenze Perrotta – G.,   Polinnia. Antologia della lirica greca, Messina  Perrotta G.,   Polinnia. Poesia greca arcaica . Nuova edizione cur. G., Messina-Firenze Pestalozza,   Usener, «Il Rinnovamento» Pinchera,   L’influsso della metrica classica sulla me-trica italiana del Novecento (da Pascoli ai “novissimi”), «QUCC» Porro,  Vetera Alcaica. L’esegesi di Alceo dagli Alessan-drini all’età imperiale, Milano Pretagostini,   Le teorie metrico-ritmiche degli an-tichi. Metrica e ritmo musicale, Lo spazio letterario della Grecia antica. Roma Pretagostini,  Tradizione e innovazione nella cultu-ra greca da Omero all’età ellenistica: scritti in onore di G., a cura di Pretagostini, Roma Lirici greci, tradotti da S. Quasimodo, Milano Quasimodo,   Lirici greci, a cura di N. Lorenzini; con tre scritti di L. Anceschi, Milano Sanguineti Poesia italiana del Novecento, a cura di E. Sanguineti, Torino Sassi,   Dalla scienza delle religioni di Usener ad Aby Warburg, in   Aspetti di Hermann Usener, filologo della religione . Se-minario della Scuola normale superiore di Pisa, a cura di Arrighetti [et al.]; prefazione di A. Momigliano, Pisa, Wesen und Rang der Philologie. Zum Gedenken an Hermann Usener und Franz Bücheler . Für den 5. Internationalen Kongreß der Fédération Internationale des Associations d’Études Classiques Bonn, hrsg. von Schmidt, Stuttgart Serra,   Intorno al modo di leggere i Greci, a cura di E. Raimondi, Il Verri Sisti,  Gli scritti sulla lirica greca arcaica, Giornate di studio su Perrotta, Atti del Convegno (Roma  cur. G. – Masaracchia, Pisa-Roma Stella, Romagnoli umanista nel centenario della sua nascita, StudRom Studi in onore di Perrotta, Bologna. Tabanelli,  Bo. Il tempo dell’ermetismo, testi-monianze di Bo – Luzi – Betocchi – Macrí – Bigongiari  Parronchi – Vallecchi –  Pratolini – Ulivi – Caproni, Milano Tedeschi,   Ricordo di G., A e R, Tavola rotonda, QUCC Tomasin,  Varia (s)fortuna di Alceo in Italia, ASNP Traverso,  Lirici greci, Primato Traverso – Grassi Pindaro,  Odi e frammenti, trad. e prefazione di Traverso; note introduttive e note al testo di Grassi, Firenze. Pascoli, L’opera poetica  scelta e annotata da Treves, Firenze Ugolini, Lirici greci,   scelti e commentati da   Ugolini – Setti, Firenze.Ugolini Lirici greci e poeti ellenistici, antologia a cura d’Ugolini, Setti, Firenze Usener, Altgriechischer Versbau: ein Versuch verglei-chender Metrik, Bonn Usener,   Philologie und Geschichtswissenschaft, in Id.,  Vorträge und Aufsätze, Leipzig-Berlin Usener,  Triade. Un saggio di numerologia mitologica, a cura di Ferrando, Napoli. Usener,   I nomi del divino. Saggio di teoria della formazione dei concetti religiosi, cur. di Ferrando, Brescia Usener,  Le storie del diluvio, cur. Sforza, Brescia Valgimigli, Poeti greci e lirici nuovi, La Fiera Letteraria (poi in Valgimigli, Del tradurre e altri scritti, Milano-Napoli Veenman, De klassieke traditie in de Lage Landen, Nijmegen Zapperi,  Freud e MUSSOLINI. LA PSICO-ANALISI IN ITALIA DURANTE IL REGIME FASCISTA, Milano. Grice: “I know Gentili’s type – once in love with Greek, you cannot be a honest Latinist. So he found that everything Roman had to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this of course irrirtates and rightly so Latinists – there are Roman ways which are not Hellenistic ways. Geymonat has analysed this in social-class terms in his history: Athens remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore famiglie romane’ – and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but Cato won: Latin remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of academia for the poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate enough to have Hardie – but imagine you are born near Urbino and decide to study classics at Urbino and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin literature” and all he teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are not poor and that you don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili. Keywords: implicature, il rettore latino – la chiasura della scuola di rettorica a Roma di Crasso e Plozio  – Cicerone – una perdita di tempo che chiude le teste dei Romani. G.: Apri!, la rettorica a roma: i primi e gl’ultimi semestri – Plozio – la guerra di Mario per l’apertura della cittadanza agl’italici --- la chiasura di la scuola di rettorica di Crasso. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gerratana: all’isola – la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto sociale – la scuola di Scicli – filosofia ragusese -- ffilosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Scicli). Abstract. Grice: “The conceptual analysis of ‘justice’ is eschatologically important!” -- Keywords: giustizia. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Scicli, Ragusa, Sicilia. Grice: “I like Gerratana; for one, he translated Rousseau, and I have been called a contractualist, if not like Grice [G. R. Grice].” Grice: “Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice: “I like Gerratana; they – Italian philosophers, generally -- philosophise on the working people – operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla resistenza a Roma, nelle file dei GAP, legandosi a Salinari e Pintor, conosciuto al corso allievi ufficiali di Salerno, e ricordato in “Sangue d'Europa.” Prende parte alla ricostruzione del PCI romano e si laurea a Roma. Insegna a Salerno e Siena. Studioso sobrio e rigoroso del marxismo, cura Labriola e Gramsci. La sua edizione, con un'accurata ricostruzione cronologica, archiviò definitivamente l'edizione tematica. G. mette in luce lo stile "frammentario" e "antidogmatico" di Gramsci. Altre opera: “L'eresia di Rousseau, Roma, Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Labriola di fronte al socialismo giuridico, Milano, Giuffrè editore); “Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal carcere. Treccani L'Enciclopedia italiana". Biografia di G. nel sito dell'ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.  Si è svolto a Roma il 18 e 19 novembre nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre, un convegno di studi in memoria di un importante esponente del pensiero politico italiano, G. Essenzialmente noto per aver curato l'edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, G. e in realtà uno studioso politicamente appassionato e uomo politico di estrema cultura. Merito di questo convegno è stato l'aver messo in luce tanto l'impegno politico e morale di un uomo quanto l'eclettismo, la vivacità intellettuale e la serietà di un pensatore troppo poco conosciuto in fin dei conti, la molteplicità variopinta dei suoi contributi scientifici e la continuità e coerenza del suo impegno, politico ed intellettuale.  Il convegno è stato organizzato dalla Societea Gramsci – di cui Gerratana fu co-fondatore,  assieme a Tortorella, Baratta e  Liguori. Le giornate, divise per sessioni tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua complessità: partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza, giornalista, curatore e studioso di molti classici della storia della letteratura, della FILOSOFIA e del marxismo (dalla cura dell'edizione critica degli Scritti politici di Labriola a quella degli scritti estetici di Marx ed Engels, ai contributi su Rousseau, Machiavelli, Lukács, Lenin), ma noto in tutto il mondo anzitutto come curatore e studioso del pensiero di Gramsci (dall'edizione critica dei Quaderni, all'approfondimento dell'indagine sulle categorie sociali e politiche della riflessione gramsciana e la cura – assieme al suo più stretto collaboratore, SANTUCCI (si veda) – del volume sugli scritti gramsciani dell'Ordine nuovo. Non è facile informare esaurientemente sul convegno, credo proprio per la personalità e la grande vivacità intellettuale di G., emersa nella sua complessità lungo la due giorni di lavori.  L’evento ha messo alla prova intellettuali e ricercatori, ha dialettizzato l'ascolto reciproco di relatori e pubblico, fra i quali si è avuto un confronto sereno ma anche serrato, indubbiamente appassionato. Ne è risultato – e ne va il merito agli organizzatori – un evento generoso per ricchezza e poliedricità delle tematiche affrontate, per l'eterogeneità degli accenti che si sono avvicendati (secondo l'esperienza politico-culturale di relatori e pubblico), quanto infine per la vastità dei territori culturali esplorati (dalla storia – italiana e internazionale, alla filosofia, alla politica). Su tutta l'iniziativa s'è aggirato lo spettro benevolo di Gramsci, della sua vicenda umana come anche di quel lascito inesauribile che è la sua produzione culturale. E di Gramsci G. non è stato solo il curatore e il promulgatore, ma anche un indimenticabile interprete. Gli anni e la formazione giovanile: partigiano antifascista ed intellettuale engagé Questa introduzione credo consenta di comprendere forse più chiaramente il contesto e lo spirito in cui il convegno di questi giorni ha trovato spazio.   Anche la presenza e il saluto delle istituzioni che con la IgsItalia hanno permesso il convegno – contrariamente al solito – sono stati sentiti ed interni al tema in oggetto dell’incontro. La figura di G. è stata difatti ricordata con stima sincera e rispetto da Cecilia D'Elia (Assessora alla cultura della Provincia di Roma) e Domenici (Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Roma Tre). Elia ha sottolineato la rilevanza di questo convegno su G. – figura complessa, in cui ricerca politica e ricerca della libertà si intrecciano –, studioso che sempre volle tener connesso l'impegno pratico e l'impegno teorico, combattente antifascista negli anni della Resistenza, uomo che diede un contributo decisivo alla costruzione della democrazia in Italia. Sulla stessa linea d'onda Domenici ha salutato con piacere l'evento in ricordo di G., anzitutto perché questa facoltà contribuisce a formare i formatori: ed è stato forse fra i più grandi meriti di G. l'aver decisamente contribuito a divulgare la genesi del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci, a partire dalla cura dell'edizione critica dei Quaderni di Gramsci. Non pochi interventi hanno messo in luce i meriti di G. riguardo la divulgazione del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare ricordiamo qui l'intervento di Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre, che ha messo in luce il valore generale degli studi di pedagogia della tradizione marxista che delineano quella fondamentale concezione della formazione umana come "sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale impegno risulta ancora più fondamentale in epoca di globalizzazione capitalista, sottolinea Santarone, in cui il lavoro dell'uomo e la sua formazione paiono ormai finalizzati unicamente ai processi di valorizzazione di capitale, i centri di formazione ed istruzione di massa vengono de-finanziati mentre nel contempo si sostengono economicamente scuole e poli di eccellenza privati, volti a creare le future élite e classi dirigenti. L'impegno di G. come intellettuale engagé è stato sottolineato in molti interventi nel corso del convegno, fra cui quello di Liguori che – in apertura dei lavori – si è soffermato sulle ragioni della scelta dell'espressione gramsciana filosofo democratico come carattere fondamentale dell'animo e dell'impegno di G.. Tale formulazione sta ad indicare un pensatore che non si chiude nella propria torre d'avorio, ma contribuisce attivamente alla creazione di un senso comune di massa, un uomo «convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale (Q). É questa essenzialmente l'immagine che Liguori ci ha voluto restituire di G.: un pensatore che non si accontentò del «pensiero proprio, "soggettivamente" libero, cioè astrattamente libero», ma che operò per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in cui solo si realizza la libertà di pensiero», secondo un «rapporto maestro-scolaro, filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria attività intellettuale come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il cui impegno politico e la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza della migliore tradizione del comunismo e del marxismo italiani. Fa seguito l'intervento di Demurtas, che illustrato i criteri e i temi sulla base dei quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di G. assieme alla collega Salvatori, di cui è stato letto un contributo, e che ha sottolineato come grazie al riordino delle carte e dei documenti sia ora possibile svolgere ricerche e approfondimenti sull’attività di G.. I documenti archiviati, difatti sono fascicoli, che si è deciso di suddividere in partizioni tematiche fra studi e attività, e fra queste risultano particolarmente rilevanti le quantità di fascicoli dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una grande meticolosità nell'elaborazione. Ha concluso la prima parte di introduzione ai lavori del convegno la lettura della lettera di saluto del Presidente della Repubblica Napolitano in cui è stato espresso «il più vivo apprezzamento per la scelta di ricordare un insigne studioso, cui va il merito di aver contribuito, con l'edizione critica dei Quaderni del Carcere di Gramsci. È stata poi la volta del primo relatore, Musci (studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi storici) che ha ricostruito gli anni giovanili di G., in particolare quelli degli studi universitari e della polemica con Croce, sottolineando una tendenza di G. a considerare gli eventi storici attenendosi ai fatti, alle formule logiche e alla loro riproducibilità, ma senza prescindere del tutto dalla "situazione psicologica" in cui questi si svolgono e che spesso si maschera in concetti. Ma G. non fu solo un intellettuale impegnato. Fu un partigiano. Questo hanno ricordato le successive relazioni della mattina proseguite con i due contributi "di memoria storica" di Reichlin e Prestipino–, significativi per la nota autobiografica in essi contenuta, che ha permesso una comprensione più articolata del senso dell'impegno politico di Gerratana negli anni della lotta di liberazione nazionale dal regime fascista. Medaglia d'Argento per l'impegno negli anni della lotta di Liberazione dell'Italia dal regime fascista, la narrazione di quei mesi è stata emozionante nell'intervento di Reichlin. Che ha ricordato gli anni giovanili della "passione politica" (tema che è stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei lavori del convegno) e le vicende in cui, nella Roma occupata dai tedeschi, Reichlin incontra G. Con Pintor formarono una cellula, e G. divenne loro dirigente, nome di battaglia "Santo". Sono quelli gli anni in cui nacque un sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella dell'impegno. Come allora – conclude Reichlin – il popolo italiano, nonostante appaia fiacco e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli intellettuali, e questi dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di combattimento. G. fu dunque un partigiano antifascista con un deciso interesse per la storia e la filosofia politica. Ma anche un giornalista. La tendenza all'impegno culturale trovò uno sbocco concreto in questa attività – su cui si è soffermata la relazione di Prestipino –, quando cominciò a scrivere sulla Voce della Sicilia. Prestipino racconta di un comunista, un uomo d’innata modestia, che non firma i suoi saggi, direttore di giornale cordiale ma austero, un intellettuale pensoso. G.: uomo di cultura, FILOSOFO DEMOCRATICO, marxista Non solo di politica, ma anche di letteratura e di FILOSOFIA si occupa G.. La sua natura di intellettuale a trecentosessanta gradi è stata ben messa in luce da tre relazioni in particolare, quelle di Voza, Savorelli e Burgio. Voza ricorda come si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema della lotta per il realismo, che nel dopoguerra espresse una tendenza la quale si afferma in molta parte dell'intellettualità. Nasceno le poetiche neo-realistiche della cronaca e del documento come ricerca di un massimo d’oggettività di contro all'influenza di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla crisi del neorealismo al realismo si colloca il contributo di G., che ritene quest'ultimo un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta all'intervento polemico di Croce Sanctis-Gramsci? (Lo Spettatore Italiano), G. stende per "Società". Sanctis-Croce o Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica e sviluppa il ragionamento nell'Introduzione all'estetica desanctisiana desanctisiana (“Società”). Egli ha come riferimento la positiva valutazione di Gramsci del realismo desanctisiano, fondato sull’analisi del contenuto artistico in connessione alla lotta culturale. Difatti Gramsci coglie nel Sanctis un modello di critica letteraria che lo rende emblema della concezione di un'estetica realista e anticipatore di una concezione marxista dell'estetica. Alla base della sua concezione vi sarebbe la ricerca di unitarietà fra La Scienza e la Vita, titolo di un famoso saggio desanctisiano, più volte citato da Gramsci nei Quaderni, cosicchéSanctis si discosta dalla concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso la tendenza estetica di Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente estetica» (Q). Per tali ragioni Sanctis resta, per Gramsci, un modello di come nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti, possano confluire convenientemente giudizio estetico e valutazione di una tendenza artistico-culturale, cosicché G. condivide l'appello gramsciano del ritorno a Sanctis (Q), intendendo con ciò la necessità di assumere verso il rapporto arte-vita un atteggiamento di stretta connessione, così come lo intendeva Sanctis ai suoi tempi. Nella seconda parte del suo intervento Voza ha ricordato come G. abbia steso il saggio Lukács e i problemi del realismo (“Società). Si ricordi che con la pubblicazione di Il marxismo e la critica letteraria di Lukács giungeva anche in Italia quella poetica dell'estetica marxista che si poneva come obiettivo la costituzione di una nuova letteratura in una società socialista – dunque la necessità di definirne la natura e il ruolo che in essa avrebbero dovuto ricoprire gli intellettuali. G. mette in luce due diverse idee di realismo: come metodo (di impronta lukácsiana) e come tendenza (di memoria gramsciana), specificamente come tendenza culturale che esprime un atteggiamento programmaticamente orientato verso la realtà piuttosto che verso la sua evasione. La lotta di G. per il realismo, conclude VOZA (si veda), alla luce del carattere complesso che intendeva conferirgli, alludeva in certo modo alla "lotta per l'egemonia" così come delineata da Gramsci e alle nozioni di progresso intellettuale di massa e riforma intellettuale e morale.  Se l'intervento di Voza ha posto in luce la capacità di G. di dar conto anche di questioni legate alla scienza estetica, l'intervento di Burgio ha affrontato la lettura critica da parte di G. del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le tappe di sviluppo ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha illustrato come G. e Rousseau siano stati legati da un lungo rapporto di fedeltà, particolarmente significativo per il fatto che G.  scelse di leggere una parte degli scritti rousseauiani – quelli politici – e perché non mancò mai d'interrogarsi sull'attualità di questi testi, pur leggendoli entro una prospettiva storica. Questa è la ragione per cui si tratta di un Rousseau sempre diverso a seconda delle diverse fasi della ricerca di G., che possono delinearsi anzitutto secondo un ordine cronologico. È sua la prefazione di G. al contratto sociale, in cui egli denota il maggior valore di questo testo rispetto ai discorsi – reazione sentimentale al compromesso della cultura illuministica con la realtà sociale iniqua e corrotta del tempo. Il moralismo di Rousseau appare tuttavia a G. storicamente attuale in forza dei valori sui quali si impernia – un valore sopra ogni altro, la libertà. D’altra parte, sottolinea G., non la libertà estenuata dal completo esautoramento da cui sembrerebbe condannata da una lunga e ormai logora tradizione liberale, bensì una libertà resa concreta dalla stretta connessione con l'uguaglianza»; piuttosto una libertà la cui essenza costitutiva è precisata dal riferimento all'idea di eguaglianza e di legge, ciò che consente a G. di riformulare il tema della libertà in chiave collettiva, sociale, vincolandolo al criterio della giustizia e della autonomia politica della società. Negli anni caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra il PCI e BOBBIO (si veda) – G. prende parte alla discussione sul tema della transizione dalla democrazia al socialismo (rispetto al quale Rousseau veniva chiamato in causa da VOLPE (si veda) come ispiratore dello stato democratico e socialista. Egli interviene con una prosa misurata e sobria: Rousseau è il tramite teorico-pratico dell'evoluzione della democrazia borghese in senso socialista; quello di Rousseau è dunque un programma di massimizzazione della democrazia, non d’anticipazione del socialismo. Il discorso di G. muta decisamente nella seconda parte degli anni '60, quando stende l'Introduzione alla traduzione del Discorso sull'ineguaglianza, Riuniti, sullo sfondo della quale pare di intravedere le lotte sociali che sfoceranno nel moto studentesco ed operaio. Non si tratta più del tema della transizione, nota Burgio, ma della trasformazione sociale nel suo complesso e non è più il Contratto al centro della riflessione di G., ma il secondo discorso. G. stende un saggio con al centro nuovamente l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in “tudi politici in onore di FIRPO (si veda), Angeli: Rousseau è ancora il padre della democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes, teorico dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile mutamento di prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di G., facendo perno sul testo rousseauiano: se gli scritti privilegiano il contrat (classico del costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota BURGIO (si veda) – in chiave fondamentalmente montesquieuiana), il contributo dtrova il suo oggetto nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di G. del versante distruttivo del progresso, della civilizzazione e della cieca tendenza degli uomini a far valere le proprie istanze particolaristiche.   Infine ricordiamo il contributo di Savorelli sul LABRIOLA (si veda) di G., che si è soffermato sull’intento di G. di sottrarre il pensiero di Labriola dalla lettura che ne faceva la tradizione crociana e liberale. Negli anni '60 G. riconsidera LABRIOLA (si veda) alla luce della polemica con lo spontaneismo dei movimenti e con la contestazione del marxismo ‘storicista’, mentre negli anni dell'arretramento del movimento operaio, mentre si profilava la crisi del PCI – G. si preoccupa per le degenerazioni della politica (sistema di aggregazioni corporative di interessi locali, per l’emergere in Italia della disinvoltura pragmatica di spregiudicati mestieranti, avventurieri e giocolieri), destinate a spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. SAVORELLI (si veda) sottolinea come le attualizzazioni cui G. volse il pensiero di Labriola non furono una forzatura; al contrario il richiamo a Labriola, al critico sferzante della società italiana e delle sue classi dirigenti, era sinistramente profetico dell’accelerazione impressa in quel decennio ai fenomeni degenerativi di lungo periodo. Infine nell’ultimo Labriola G. scorse l’intuizione di problemi (imperialismo, globalizzazione, regresso della democrazia, «crisi della cultura popolare», ritorno del misticismo), che sarebbero ancora i nostri (G., Labriola e la politica, Studi storici). Diniha concluso la serie di testimonianze sulla vita e l'impegno culturale di Gerratana raccontando della comune esperienza negli anni dell'insegnamento universitario a Salerno. Dini ha letto una pagina dedicata da Racinaro a G. nella quale quest’ultimo è descritto come uomo poco diplomatico, amante di una verità da pronunciare senza mediazioni, uomo poco tenero anche con i cari, amante della filosofia illuminista, in particolare del Kant di Cassirer; e la sua stessa vita accademica si caratterizzava per la puntualità "kantiana", il forte senso del dovere e il rigorismo morale, quasi draconiano, che fu messo in luce anche durante gli anni all’Università di Salerno. D’altra parte il rigorismo morale di G., secondo DINI (si veda), sarebbe stato trasferito in modo eccessivamente rigido contro quella società che si stava rivoltando in quegli anni di sommovimenti sociali e popolari, dacché ne risultava un rigorismo spesso astratto. Dini ha inoltre ricordato che G. riprese l’attività universitaria a Salerno sotto sollecitazione di Colletti, che ne promosse l’ingresso, ritenendo questo rapporto G./Colletti un esempio del minimo rigorismo ideologico di G., della sua concezione aperta del marxismo – evidente anche nella ricostruzione non sistematica dei Quaderni.   Il quadro non sarebbe completo se non si accennasse a un altro tema (assieme all'indagine su Gramsci) che ha attraversato l'evento: l'impegno di G. come intellettuale marxista. Questo aspetto è stato messo in luce essenzialmente da due relazioni, quella di Frosini e quella di Filippini. Quest'ultimo ha discusso due aspetti peculiari della cultura filosofica di G., l'esser insieme democratico e marxista, e si è soffermato soprattutto su due esempi emblematici di ciò, un dialogo fra Gerratana e Colletti ed un lungo articolo di G. sul saggio di Althusser sugli Apparati ideologici di Stato. Ma è stato soprattutto  Frosini a ricostruire le linee del marxismo di G., a partire da Ricerche di storia del marxismo. Il testo, che è in realtà una raccolta di saggi già pubblicati altrove, ha una sua sistematicità. Nella Prefazione al volume Gerratana sottolinea che il principale denominatore comune degli otto saggi è il rapporto fra marxismo e movimento operaio, fino ad affermare che «marxismo e storia del marxismo fanno tutt’uno (Ricerche). La loro unitarietà sarebbe dunque nell'idea stessa di storia del marxismo. Il marxismo di G. pare a Frosini ben sintetizzato da un passo della Prefazione: «Nei confronti della pratica sociale l’analisi scientifica si distingue dalla raffigurazione ideologica perché non è solo, come questa, funzionale alla prassi, ma al tempo stesso è funzionale alla comprensione di questa prassi, che mostra l'imprescindibile reciprocità di prassi e teoria scientifica atta comprendere la prassi. In conclusione, secondo Frosini il marxismo di G. che emerge dalle Ricerche è confinato nel piano di una generalizzazione sempre provvisoria e da riprendere ogni volta in condizioni solo parzialmente ripetibili; e questa sarebbe l’unica condizione per rispettare l’apertura costitutiva di una verità che si definisce nella pratica, a contatto con la politica di massa.   G., politico (e) gramsciano   La terza sessione del convegno si è incentrata essenzialmente sul rapporto fra G. e l'impegno politico per un verso, la cura delle opere e lo studio del pensiero di Gramsci dall'altro. Presieduta da VACCA (si veda), la mattinata si è aperta con l'intervento di Albertina Vittoria sull'esperienza di G. alla Fondazione Gramsci – con cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua fondazione e che abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente da dissidi teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di G. l'impegno di studioso e insieme quello di "organizzatore della cultura", come anche l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare l'attività di G. all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello editoriale come anche quello nella Commissione culturale del PCI. Egli è considerato un militante anche sul piano culturale e subito dopo la Liberazione, G. collabora all’Unità, a Rinascita, fa parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. È, con Platone e Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile della Commissione Propaganda del PCI; è responsabile dell’edizioni Rinascita e dopo la fusione fra queste e i Riuniti comincia la sua collaborazione con la fondazione Gramsci fondata a Roma come studioso di FILOSOFIA. Sono questi anche gli anni del rapporto con Colletti e Cerroni. Nel '54 l'Istituto Gramsci diviene “Fondazione”, nell’anno della "svolta" del Congresso del PCUS, degl’eventi di Ungheria e del manifesto dei 101 – G. resta in accordo con le posizioni di Alicata e Togliatti. Si organizza il primo convegno di studi gramsciani, evento che dà il via all'opera di divulgazione del pensiero di Gramsci, alla cui base era la necessità di riarticolare teoricamente il legame fra movimento operaio e democrazia. Sono per G. gli anni dell'impegno per l'Edizione critica dei Quaderni del carcere, impegno che aveva a monte l'intento di offrire un contributo alla garanzia dell'indagine critico-filologica. G. divenne poi direttore del centro studi gramsciani dell’istituto Gramsci, avente come obiettivo la cura degli scritti di Gramsci nel loro insieme el'attività gramsciana ga soprattutto come fine un riordino in quindici volumi dell’opera del comunista sardo. Sono i dissapori con la nuova direzione dell'Istituto, quella di Vacca (la diatriba che si incentrò soprattutto su una diversa datazione dei Quaderni sul piano metodologico, ma Vittoria rileva anche come il dissenso fosse in generale culturale e politico). La crisi giunge all'apice: G. vuole dimettersi, dimissioni successivamente ritirate, sebbene da allora in poi continui a lamentare il fatto che vi fosse un tacito dissenso sul suo lavoro. Furono questi gli eventi che infine condussero G. all’abbandono dell'Istituto Gramsci. É pur vero che G. è essenzialmente ricordato per esser stato curatore, interprete e divulgatore del pensiero di Gramsci, con l'edizione critica dei quaderni, ciò che l’ha reso noto in tutto il mondo. Da questo evento, difatti, si è avviato a livello internazionale un approfondimento dei testi e della riflessione di GRAMSCI (si veda), con l'edizione dei Prison Notebooks (cur. da Buttigieg, intervenuto su questo tema) e l'avvio in America degli studi su Gramsci come scienziato politico, tema su cui è intervenuto Coutinho. I due contributi hanno mostrato ciò che in apertura di questa relazione si è tentato di individuare come spirito del convegno: poliedricità degli accenti pur su tematiche affini, partecipazione rispetto al tema affrontato (giacché il pensiero di Gramsci è indagato come cosa viva), esigenza di dialettizzare la riflessione di G. con gli eventi politico-culturali che vedono oggi coinvolti i paesi di provenienza dei relatori. Cosicché se per Buttigieg l'edizione critica si è rivelata uno stimolo per dar vita ad una ricerca che appagasse l'esigenza di riscoprire il pensiero di GRAMSCI (si veda) come cultura aperta e dei riferimenti validi per il pensiero democraticoprogressista; per Coutinho, grazie all'edizione, il pensiero di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per indagini di scienza politica alla luce della contemporaneità – dal marxismo alla "filosofia della prassi", al rapporto di questi con i processi di trasformazione sociale. In particolare Coutinho – docente di teoria politica all’Università Federale di Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore dell'edizione dei Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce come Gramsci nel suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista della totalità. Negli scritti di G. che Coutinho prende in esame emerge la trattazione prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione ed egemonia. Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di egemonia consente a Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di rivoluzione. G., Sul concetto di rivoluzione e Grice sul concetto di rivoluzione minore. A questi due concetti gramsciani principali se ne dialettizza un terzo (che in certo modo li tiene insieme entrambi), quello di stato allargato, che – secondo G. – viene adoperato da Gramsci per allargare il ruolo politico delle masse, per «concepire un processo di estensione delle democrazie, in connessione con il concetto di egemonia (G., Stato, partito). Come nel pensiero di Marx e di Lenin, anche in quello di Gramsci vi è un nesso filosofico-politico che tiene assieme egemonia e Stato da un lato, la rivoluzione dall'altro. Secondo Gerratana Gramsci modificò la propria concezione della rivoluzione nel corso dell'evoluzione del suo pensiero: se negli anni giovanili questa venne intesa come volontarismo soggettivista, già negli anni dell’ordine nuovo Gramsci avrebbe dato vita a una vera e propria «teoria organica della rivoluzione. G., Sul concetto di rivoluzione, in particolare a seguito dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo secondo momento Gramsci avrebbe tenuto conto anche del peso delle condizioni oggettive in cui opera la volontà. In generale secondo G. sia Gramsci che Lenin concepirono l'egemonia come superamento della dimensione corporativa in cui opera la classe; ma quel che Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto l’aver integrato questo concetto (la teoria dello stato-forza) con la dottrina dell’egemonia. Secondo Coutinho Gramsci dà vita in tal modo ad una generale teoria dell'egemonia, ed è qui che G. offre il suo più importante contributo: «per Gramsci le forme storiche dell’egemonia non sono sempre le stesse e debbono variare a seconda della natura delle forze sociali che esercitano l’egemonia. Egemonia del proletariato e egemonia borghese non possono avere le stesse forme né possono utilizzare gli stessi strumenti. Sviluppando l'elemento del consenso proprio dell'egemonia gramsciana, G. distingue l’egemonia borghese, che si basa su un consenso passivo o manipolato, e l’egemonia proletaria, che necessita un consenso attivo. Accenniamo infine ad altre due relazioni che hanno chiuso il convegno, quella di Tortorella e quella di Meta. Tortorella si concentra essenzialmente su due aspetti portanti della personalità dello studioso gramsciano, la passione politica e il rigore morale. Ha indicato in G. non uno studioso come altri, ma un uomo che la cui vicenda intellettuale è da porre dentro una storia specifica e collettiva: quella della Resistenza e della nascita del PCI. È proprio attraverso la storia di queste vittorie e tragedie collettive che si è sviluppata la trama della vita personale e intellettuale di G.. Tortorella ha messo in luce la profonda inquietudine che s'aggirava nell'animo di G., al di là dell'apparente serenità scientifica ed il suo rigorismo. Se una distinzione per lui esisteva fra politica (come etica pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il rapporto fra queste era per lui molto stretto (non a caso si era espresso sempre in modo contrario rispetto a guerre di aggressione presuntivamente etiche o a qualsiasi violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La concezione etica cui G. fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno quella di Spinoza, ma in diretta connessione con la sua passione politica, dove la politica era intesa come un'impresa razionale. La passione politica, difatti, poteva avere due diversi contenuti: volgersi a favore o contro le dittature, e G. scelge questa seconda strada. In questi anni è nato dunque un modo nuovo di intendere la libertà come effettualità, anzitutto come libertà dai rapporti di dominio sul piano materiale. L’intervento di Meta ha infine affrontato la ridefinizione del concetto di persona nella riflessione di G.. Nel corso della relazione, Meta ha mostrato come G. abbia risposto positivamente all'interrogativo sull'esistenza o meno di una teoria della personalità nel pensiero di Gramsci a partire dallo scritto Unità della persona e dissoluzione del soggetto (Critica Marxista). Indagando gli scritti gramsciani alla luce dell'elaborazione marxiana delle Tesi su Feuerbach e di Miseria della filosofia, G. ricorda che GRAMSCI (si veda) – in un quaderno dal titolo emblematico, Che cosa è l’uomo?– argomenta che l’uomo è essenzialmente un processo, precisamente «il processo dei suoi atti. D'altra parte l’individuo entra in rapporti con gli altri uomini organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così lo sviluppo e costituzione della personalità di ciascuno è da intendersi come acquisizione di coscienza di tali rapporti e insieme modificazione di sé in relazione al modificarsi di tali rapporti: difatti «ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui è il centro di annodamento. Ed è proprio G., secondo Meta, uno dei pensatori che più avrebbe colto questa natura dialogico-relazionale della filosofia gramsciana, che intesse tutta la trama dei quaderni. Sottolineiamo infine un ultimo aspetto che ha qualificato questi due giorni di confronto intellettuale: la ricchezza del dibattito. Il convegno ha messo in luce come sia possibile recuperare una trasversalità reciproca nel modo di concepire il rapporto fra relatori e pubblico, fra ricerca e scienza, fra passato e presente. Quest'ultimo aspetto è stato la cifra indiscutibile del convegno: non si è trattato di esposizioni accademiche di memoria, ma di un confronto vivo con l'eredità intellettuale di G., che ha riportato all'ordine del giorno l'attualità della ricerca e della riflessione sulla scienza storico-politica del passato al fine di comprendere la politica e la cultura del nostro tempo, finanche alla luce d'uno sguardo internazionale. Su molte questioni poste dai relatori il pubblico è difatti intervenuto: dal rapporto fra G. e Calvino (Durante), G. e Rousseau (Ausilio), G. e Colletti (Liguori), al rapporto fra il pensiero di Gramsci e Lukács (Caputo), alla dialettica fra organicità e frammentarietà nei Quaderni del carcere ( Forenza). Lea Durante ha ricordato come la stretta amicizia fra G. e Calvino risalisse. Nonostante fossero intellettuali provenienti da una diversa impostazione culturale, tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto ed in comune l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio G./Calvino in merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la lettura di questo evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto piuttosto all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia" di questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli intellettuali entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La sottoscritta è intervenuta cercando di porre in luce come la fedeltà di G. a Rousseau nel corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche relativamente all'unitarietà dell'opera rousseauiana, a un rapporto complementare fra i discorsi e il Contrat, da cui emerge un pensatore che per un verso è interno alla modernità borghese, per l'altro ne comincia a cogliere, prima di altri, i rischi ed i limiti. Caputo si è dialettizzato con la relazione di Voza confrontandosi sul merito della concezione lukácsiana del realismo e rilevando da un lato che l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è tutt'altro che un "cane morto", dall'altro la necessità di riconsiderare la battaglia di G. per il recupero di SANCTIS (si veda) non tanto in contrapposizione a Hegel quanto in funzione dell'esigenza di liberarsi della lettura crociana dell'autore. Liguori è intervenuto sul rapporto fra G. e Colletti, affermando che fra i due intellettuali – sebbene legati dall’amicizia – non vi era solo una distanza, ma una radicale contrapposizione teorica. Infine Forenza ha interloquito in particolare con la relazione di Buttigieg, sottolineando il valore dell’edizione critica dei quaderni di G. nella sua capacità di porre in luce il carattere frammentario della riflessione gramsciana dei quaderni, l’attualità dialogica di un processo conoscitivo inteso come ritmo e sviluppo, la centralità della tensione nell’organicità dell’opera carceraria e il valore del frammento come elemento del processo. Ma uno dei contributi che più ha emozionato è stato quello di Manacorda, intervenuto per ricordare che in quello "Zibaldone" che pure sono i Quaderni vi è un'unità assoluta, che ritorna nelle pagine pedagogiche, e ha riguardato l’indagine gramsciana sulla formazione dell’uomo nuovo, fondata sul principio dell’unità di braccia e cervello (Q). Questa ricerca coinvolge la questione (che l'umanità si porta dietro da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da sempre alla base vi è una sua declinazione come duplice, cosicché quella duplicità dell'attività umana trova spazio in una duplicità sociale (gli eroi da una parte come intellettuali, la plebe dall'altro). Quell'unità fra i due elementi che si ricerca nella filosofia antica viene rotta dal cristianesimo, che ha separato drasticamente anima e corpo (così come nella struttura sociale ha diviso cleres e milites), e da allora ci trasciniamo questa duplicità, che pure oggi biologia e fisica negano esistere del tutto. Storia passata e futura: la lezione di G. serve ancora In questa due giorni di convegno si sono succeduti ricercatori, storici, docenti di filosofia, intellettuali di orientamento politico affine ma niente affatto identico, esponenti di rilievo dell'odierna intellettualità italiana che sono (o sono stati) spesso insieme politici e uomini di cultura, che hanno partecipato alla costruzione della storia democratica del nostro paese; e che si sono interrogati sul contributo culturale di G. come lezione viva, esempio per la storia politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da e per G., dunque: antifascista, organizzatore di cultura, interprete di politica e filosofia, pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando necessario nelle sue convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche alla rottura. Gli interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni affettuosamente alla memoria) la riflessione di G. come frutto della contraddittorietà della modernità: di quella terra dissestata e martoriata che è stata l'Italia negli anni della lotta partigiana, di quella storia che si è radicata nella consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed eguaglianza sociale. Ecco: discutere e ricordare in questi giorni G. ha significato parlare insieme della nostra storia passata e delle prospettive future per questo paese, che ha trovato in una figura come Valentino un indimenticabile esempio di caratura morale, coerenza politica, onestà e intellettuale, amore per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza sociale, per la dignità umana e per la libertà – e questa storia, in fondo, non è di uno. Ma di tutti noi. Valentino Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu, Grice on social justice giustizia legale-politica, giustizia morale, Gramsci, Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia di rousseau, labriola a fronte del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo – G. A. P. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Geymonat: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del temperamento romano – filosofia torinese – la scuola di Torino -- filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Abstract. Grice: “Unlike others, including myself, I fear, Geymonat has talked the talk and walked the walk when it comes to the systematicity and continuity in the history of philosophy!” Keywords: storia della filosofia. Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo Italiano. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a neo-rationalist, like Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” – Grice: “Geymonat has explored the origin of infinity in the triangle of Tartaglia.” – Grice: “Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ – Grice: “Geymonat has a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer essay on ‘reason.’ – Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of probability – from Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni Battista, un geometra liberale di origini valdesi. Frequenta la scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale, un liceo classico torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo anno di corso a causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con l'ortodossia e così conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour.  Si laurea a Torino con “Il problema della conoscenza nel positivism” sotto Pastore e sotto Fubini lcon “Sul teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere”. La sua scelta di unire, nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute separate in Italia dall'imperante cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con la sua riforma della scuola, privilegia la cultura umanistica, e quella crociana, con la sua concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso del filosofo abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra l'apertura europea delle prospettive di ricerca intravista allora da G. e la sua estraneità al provincialismo culturale italiano. Un rifiuto che egli estese anche alla politica del regime allora dominante. Assistente di Analisi algebrica nell'Torino ma avversario del fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito fascistacio è di prendere la cosiddetta tessera del pane vedendosi così preclusa la possibilità di una carrier statale. Si avvicinò altresì a  Martinetti, non tanto per comunanza di prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire la dottrina del Circolo di Schlick, e  pubblica “La filosofia della natura”  e “Nuovi indirizzi della filosofia.”  e iscritto clandestinamente al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola Leopardi di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome di battaglia Luca fu partigiano in Piemonte nella Brigata Pisacane e, dopo la Liberazione, assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto il concorso a cattedra, e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e Milano. Fonda il Centro di studi metodologici a Torino. Ha uno stile di pensiero razionalista ateo. La sua filosofia può essere inquadrata nel filone del neo-positivismo (ha diversi contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato nell'ottica del marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono tracciare due fasi. Nella prima fase, approfondisce temi tipici del positivismo. Nella seconda fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed a questo scopo utilizza concetti caratteristici del materialismo dialettico.  Interpreta la concezione della matematica di GALILEI (si veda) come un strumento d'interpretazione della realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello della causalità, il fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione, centrali nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito Comunista Italiano, da cui si allontana poi per aderire a Democrazia Proletaria e successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione, a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo Oggi (Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e sul teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”, spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo strumento della ragione.  Per fare questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per G. il suo corso del neo-razionalismo, che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore della non-sovietica. Si deve a G. l'introduzione in Italia di Kuhn.  Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galilei, Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia della scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con Renato Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi e rivoluzioni. scienza e politica, Giorello e Mondadori, Il Saggiatore, Milano, La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper, Dedalo, Bari. Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le ragioni della scienza” (Laterza, Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La società come milizia, Minazzi, I sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia, scienza e verità, Rusconi, Milano, La Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis, Mario Quaranta, Il poligrafo, Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, Cuen, Napoli, La ragione, con Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità del Marxismo. Quaderni di Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, Boringhieri, Torino. Regny, Mangione: breve storia di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale Marxista», in Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non fate ideologia. L'Occidente non è quest'inferno, Antiseri, articolo su Il Mattino di Padova, lincei. G. Mario Quaranta, G. filosofo della contraddizione, Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore di G., Garzanti, Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in Italia negli anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano e G. . Bobbio, Ricordo, "Rivista di Filosofia" Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf (Cnr), Genova,  Minazzi, “La passione della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat, La Città del Sole, Napoli, Minazzi, Contestare e creare. La lezione epistemologico-civile di G., La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, in Bollettino della Società Filosofica Italiana», Maiorca,Scritti sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi,G., un Maestro del Novecento. Il filosofo, Edizioni Unicopli, Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna, Minazzi, G. epistemologo, Mimesis Edizioni, Milano Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola di Milano. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai, Scienza e filosofia: G. e Preti, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.Articoli della stampa italiana su L. G,, dal Sito Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale di G. (Preve). La setta di Crotone rappresenta un movimento filosofico di livello scientifico molto superiore a quello delli precedenti. Per la verità non tutti lo storici della filosofia italiana sono d'accordosu ciò. Taluni sostengono infatti che Pitagora (il quale non lascia nulla di scritto) sia stato il fondatore di una setta analoga all'orfismo, che non di un vero e proprio  movimento  di  pensiero  scientifico-filosofico come il di Austin. Essi affermano che soltanto mezzo secolo dopo la morte del fondatore la setta comincia ad interssarsi di filosofia. Oggi però si ritiene dai più che l'interpretazione ora accennata sia eccessivamente  critica, e si preferisce ritornare all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora la  maggior parte delle concezioni. La ricchezza del suo sapere ci è del resto attestata d’Eraclito, che polemicamente lo define polymathés,  erudito. Anche noi dunque ci atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trattare la reazione dei Crotonesi ai Veliani rappresentata  da Filolao. Pitagora si trasfere nella “Magna Grecia”, e precisamente a Crotona in Calabria, dove e fiorita  un’ importante scuola di filosofi medici medic. A Crotona fonda una setta che  ha un notevole peso, essendo legata al partito aristocratico. La setta e  organizzata sulla base di regole rigorosi che esigeno dagli scolari un lungo periodo di tirocinio prima di essere ammessi ai segreti. Su questa base si crea la divisione fra acusmatici od ascoltatori e matematici, partecipi degl’insegnamenti che in seguito si accusarono a vicenda di non essere i veri depositari delle dottrine del maestro. L'insegnamento di Pitagora e circondato da grande rispetto, e si ripone in lui una fiducia illimitata, tanto che a lui si rifere l’”ipse dixit” (autòs  efa). Una sommossa provocata dal partito della plebe caccia i filosofi da Crotona. Pitagora fugge a Metaponto e muore.  Sul  grande filosofo sorsero numerose leggende,  alcune delle quali note ad Aristotele. Queste accentuano il carattere religioso della sua figura, facendone poco meno che un semi-dio, e sono particolarmente care a quella filosofia misticheggiante, attraverso Numenio e Giamblico. La realtà accertata dagli storici è che, dopo l'espulsione da Crotona, si organizzarono varie sette. Esse  hanno lunga  vita  e  danno notevoli sviluppi. Le più celebri sono la  scuola  di  Filolao e quella d’Archita, che  fiore a Taranto,  dominando anche la città.  Di Filolao ci sono pervenuti frammenti,  che dopo lunghe discussioni vengono oggi ritenuti autentici,  e che costituiscono la base per  ricostruire la  dottrina  di  Pitagora. Archita,  uomo  di  straordinaria  va- stità di  interessi, fu legato da amicizia con Platone. Platone ricorda Archita affettuosamente nella VII Epistola, ed esercita per suo tramite gran influenza sull'Accademia.  Né l'influsso della setta di Crotona si limita alla filosofia ed alla scienza, ma si risente fortemente in tutte le manifestazioni della filosofia.  All'acustica si possono far risalire molte delle teorie musicali tramandateci dagli Elementi armonici d’Aristosseno ed al pitagorismo  esplicitamente  si  richiama Policleto,  amico  di  Fidia,  che  nel  Canon  sviluppa una teoria artistica basata sulla  concezione del del corpo bello come giusta proporzione delle parti. Legato a Crotona e pure Ione di Chio. Questa dottrina si impernia su di un pensiero  fondamentale. El numero e il principio di tutto. Tutte le cose che si conoscono hanno numero. Senza numero nulla e possibile pensare, né conoscere. Dovremo ora cercare, innanzi tutto, di comprendere il significato filosofico di questo pensiero. Poi di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche.  Alla fine del capitolo accenneremo al valore intrinseco della  teoria, e al significato della crisi scientifica formatasi nella scuola prima ancora della cacciata di Pitagora da Crotona. Pitagora prende forse le mosse dalle ricerche ioniche sul  principio  e  in  particolare  dalla  teoria  dell'àpeiron  d’Anassimandro. Una più acuta  sensibilità ai problemi etico-religiosi  (quali  l'opposizione  del  bene  e  del  male  nel  mondo, la vicenda della colpa e del  riscatto),  stimolata  probabilmente  dall'incontro in Italia con  i culti  misterici,  e  d'altro  canto  una  maggiore  attenzione  per  le  leggi  formali  e  modali  della  realtà,  cui  diedero  impulso  le  sue  prime  ricerche  acustiche,  dovettero però fargli apparire inadeguato il principio unico dei naturalisti ionici. Per rendere conto di questi più complessi problerill, Pitagora sdoppia il principio in due opposti. Da una parte il principio del limitato, del finito, dell'unitario, che rappresenta l'ordine, il  cosmo,  il  bene; dall'altra  il  principio  dell'il- limitato,  dell'infinito, che raffigura  il disordine, il caos, il male.  La sua grande intuizione consiste nel vedere nel numerola  chiave  e la struttura ultima di un assetto della realtà. Col termine “numero” i crotonesi intendeno soltanto il numero intero. Non  fanno  particolari indagini  sulla  natura  di queste unità,  limitandosi  a  rappresentarle  con  un punto,  circondato da uno spazio vuoto. Proprio questa rappresentazione spaziale  facilita  il passaggio,  caratteristicamente arcaico, dalla concezione del numero come chiave e rapporto alla sua concezione come costituente fisico elementare delle cose. Il problema essenziale diventa allora, per i crotonesi, quello di cogliere il modo con cui dalla collezione di più unità si generano tutti gl’esseri. Le leggi della formazione dei numeri venne considerate come leggi della formazione delle cose,  e. si ritene di poter trovare in esse la vera ragione esplicativa del mondo fisico e morale. La più importante di tali leggi e costituita - secondo i crotonesi dall'opposta struttura  dei  numeri  dispari  e di  quelli  pari. L'antitesi  dispari-pari  venne cosi  assunta  a  principio  di  una  serie  di  altre  opposizioni,  che  spezzano  il  mondo  in  due:  limitato-illimitato  (opposizione  che  e  stata il  problema  iniziale,  ma  puo ora  venir  spiegata  sulla  base  dell 'antitesi  precedente);  uno-molti;  destra-sinistra; luce-tenebre;  buono-cattivo;  immobile-mobile; retto-curvo; quadrato-rettangolo. Alcune di queste opposizioni hanno palesemente un  carattere  fisico  (quella  per  esempio  di  luce  e tenebre;  da  essa  scaturiva  la  raffigurazione  del  cosmo  come  costituito da un fuoco centrale, immerso in un'estensione illimitata di nebbia; altre invece un preciso carattere morale. Questa presenza di significati multipli finiva coll'infondere ai numeri in generale, e a certuni d’essi in particolare, un vero e proprio valore  magico-simbolico.  Così  “V” veniva  assunto  a rappresentare  il matrimonio,  essendo  la somma del primo numero dispari,  il III,  con  il  primo numero pari, il II (l'I viene considerato come parìmpari ervendo a generare sia i numeri pari che i dispari;  il IV e il IX venivano presi come simboli della giustizia; il VII dell'opportunità; e così via. Di derivazione crotonesi è un trattato di medicina intitolato Sul numero sette, Peri hebdomadon, che cerca appunto nei rapporti settenari la spiegazione della struttura dell'organismo  e delle sue affezioni. Qualcuna di queste concezioni è pervenuta fino a noi, onde s’attribuisce per esempio a VII un significato speciale etico e fisico VII sono i vizi  capitali, sette le opere di misericordia, in varie malattie si ha la settima, ecc.. La purificazione religiosa, che forma almeno in un primo tempo il fine principale dell'insegnamento pitagorico, era cercata essa pure attraverso  la contemplazione dei numeri. Questa venne pertanto a possedere un doppio aspetto: filosofico e mistico. La peculiare nobiltà dell'ascesi pitagorica consiste appunto nel fatto che a ogni sua tappa dove corrispondere la conquista d’un più alto gradino del sapere. Il carattere mistico delle ricerche matematiche costituì per molto tempo un notevole impulso al loro sviluppo, e insieme un  impedimento al loro caratterizzarsi come ricerche puramente filosofiche. In particolare, la concezione ora spiegata spinse i pitagorici a studiare la geometria per via aritmetica. Ne sorge una disciplina che, pel suo doppio carattere, e chiamata aritmo-geometria. Essa e fondata sulla convinzione che da un lato. fosse possibile ricavare le principali caratteristiche delle figure a partire dal  numero dei punti supposto, in ogni caso, finito che le compongono, e dall'altro è possibile- viceversa- ricorrere alla forma delle figure per illustrare le più recondite proprietà dei numeri. Di qui la distinzione dei numeri in vari tipi. Per esempio: triangolari poligonali quadrati cubici. Al numero triangolare  X venne attribuita un'importanza speciale, come somma dei primi quattro numeri  naturali. I dispari venneno chiamati gnomoni, pella possibilità di rappresentarli informa di gnomone, cioè squadr. Questa rappresentazione permise di scoprire che ogni numero dispari è la differenza di due quadrati; per esempio: 7 = 42-32 Varie testimonianze tra cui quella di Proclo ci dicono che Pitagora e il primo a comprendere la validità generale del teorema che ancor oggi porta il  suo nome, e che, per taluni casi particolari per esempio quando i cateti valgono III e IV, e  l'ipotenusa V, è noto già prima di lui. Non sappiamo però quale ragionamento serve a Pitagora per provare l'importante teorema. Certamente la dimostrazione riferita negl’Elementi” d’Euclide non è ideata dal filosofo di Crotone. IV La dottrina che i numeri sono il principio di tutte le cose trova  pure conferma negli studi d’acustica. Stando alla più antica tradizione dobbiamo infatti ammettere che Pitagora riuscì a scoprire i principali intervalli musicali. Sarebbe giunto a questa notevolissima scoperta dallo studio sperimentale delle corde sonore, e dalla constatazione che nei principali accordi il rapporto fra le loro lunghezze è espresso da numeri interi molto semplici. L'acustica  venne in tal modo a costituire una specie d’aritmetica applicata, come l'astronomia costituiva una geometria applicata. Il quadro delle ricerche filosofiche risulta pertanto suddiviso in quattro rami fondamentali: aritmetica, musica, geometria, astronomia. L'astronomia pitagorica parte dall'ammissione d’un fuoco centrale immerso in una sconfinata nebbia di tenebre. Intorno a tale fuoco  si pensa ruotassero dieci corpi notiamo l'intervento del numero X: la Terra, l'Antiterra invisibile, la Luna, il Sole, i cinque pianeti allora conosciuti, e il cielo delle stelle fisse. I movimenti ciclici di questi corpi produrrebbero - secondo Pitagora una meravigliosa armonia, che noi però non riusciamo a percepire a causa della sua continuità. La loro ciclicità sarebbe la causa del ritorno  periodico di tutte le cose. Questa ripartizione costituisce il lontano antecedente del celebre quadrivio, che starà alla base dell'istruzione nelle  scuole del  medioevo. successivi  l'astronomia  pitagorica  portò  a  concezioni  di  grande  interesse  scientifico; degna  di  particolare  menzione l 'ipotesi  eliocentrica,  ideata  per  la  prima  volta  da  Aristarco  di  Samo. Ricordiamo  infine  la  teoria secondo cui tutto il cosmo sarebbe sorto dal fuoco centrale e ritornato in esso per poi nascere un'altra volta. Con riferimento ad essa, i pitagorici chiamano anno cosmico l'intervallo di tempo impiegato dal cosmo per nascere e ritornare nel fuoco. La teoria pitagorica dell'anima, malgrado la sua ambiguità, ebbe notevoli riflessi sui filosofi posteriori. Da un lato alcune testimonianze  ci dicono che l'anima veniva concepita dai pitagorici come armonia del corpo, nel preciso senso in cui si parla d’armonia dei suoni emessi da uno strumento musicale. Secondo questa interpretazione, l'anima dove venire necessariamente pensata come mortale, poiché spezzato lo strumento - anche l'armonia viene a cessare. D'altro lato sappiamo però che uno dei cardini della filosofia della setta di CROTONE era costituito dalla trasmigrazione delle anime metempsicosi, e questa suppone ovviamente che l'anima non muoia col corpo che la ospita. Un frammento del medico Alcmeone che  vive a Crotone e è legato ai circoli pitagorici afferma che l'anima è immortale—cf GRICE CHICKEN SOUL --  per la sua somiglianza colle cose immortali la luna, il sole, gli astri. Come risolvere l'apparente contraddizione? Probabilmente bisogna ritenere che i pitagorici ammettessero due specie di anime: una costituita dal temperamento psichico, legato indissolubilmente al corpo e destinato a morire con esso; l'altra da un principio immortale o anima-dèmone. In ogni vita si avrebbe una stretta rispondenza tra le due anime; questa rispondenza verrebbe però a cessare coll'uscita dell'anima-dèmone dal corpo. Tale uscita sarebbe da lei desiderata per raggiungere la purezza di una vita interamente spirituale. A tali dottrine s’ispira il modo di vita pitagorica, altamente  lodato dall’accademia pella sua unione di teoresi e di ascesi. La metempsicosi in particolare determina il più famoso dei divieti rituali pitagorici, quello di mangiare la carne di certi animali, nei quali potrebbe essersi incarnata un'anima. Anche dio veniva concepito dai pitagorici come anima; e precisamente come anima del mondo che circola continuamente in esso e perciò è presente in ogni luogo. Il rapporto dio-mondo resta tuttavia molto incerto nella filosofia pitagorica, sicché non possiamo cercare in essa un vero e proprio sistema teologico. Ad Alcmeone si deve la notevolissima scoperta che il centro della vita organica e mentale va localizzato – Grice: “nell’uomo, no l’ameba” --  nel cervello. Quanto abbiamo finora riferito basta per farci comprendere la  complessità dell'insegnamento pitagorico. Se in taluni punti esso può apparirci ingenuo, in altri casi contraddittorio, ciò non deve farci sottovalutare l'importanza dei temi ivi abbozzati, che ricompariranno ampliati e sviluppati nei più diversi indirizzi filosofici. Notiamo, per esempio, che l'idea di cercare nei numeri, cioè nella matematica, la spiegazione di tutti i fenomeni, ricomparirà  potenziata nell'epoca moderna e forma per molto tempo la spina dorsale di tutta la ricerca scientifica. Vi è chi sostiene, esagerando forse le cose, che le più celebri teorie della fisica-matematica per esempio la teoria della relatività generale non costituirebbero altro che il proseguimento del programma pitagorico. Ma, a parte ciò, noi troviamo nella matematica della setta di CROTONE un carattere speciale che la differenzia notevolmente da molte altre concezioni, pur esse accentratesi sulla ricerca matematica. Il carattere cui voglio riferirmi, suol venire indicato col termine discontinuità. Si dice che la scienza della setta di CROTONE è una matematica del dis-continuo o DIS-CRETO, o digitale, perché essa si fonda esclusivamente sui numeri interi e su ciò che può venire espresso con i numeri interi per esempio sulle frazioni ordinarie, e non, invece, sui numeri irrazionali. Secondo essa, l'accrescimento di una grandezza procede per salti dis-continui – FLAT vs. VARIABLE GRICE --, essendo impossibile aggiungere qualcosa che sia minore dell'unità. Taluno giunge a riconoscere nelle teorie quantistiche moderne una sopravvivenza dell'antica eredità pitagorica sotto forma dì concezione dis-continua dell'energia. Lasciando da parte le reminiscenze pitagoriche presenti nella fisica, va detto però ben chiaramente che l'aritmo-geometria di Pitagora non ha vita lunga nella filosofia greca. La sua fine è provocata, pell'appunto, dalla crisi di quell'idea di dis-continuità che costituiva come s'è detto uno dei suoi cardini fondamentali. La grande crisi è causata dalla scoperta che le figure geometriche sono costituite non d’un numero finito, ma d’una infinità di punti. Le teorie che tornano ad un'idea rinnovata di dis-continuità sosterranno implicitamente che la geometria classica - proprio perché parla d’una infinità di punti - non trova esatta applicazione nella realtà. Il primo fatto geometrico che costrinse i pitagorici a riconoscere che le figure sono costituite d’infiniti punti, è proprio connesso a quel medesimo teorema che porta il nome di Pitagora. Ed infatti, applicando detto teorema  ad uno dei due triangoli isosceli in cui è diviso un quadrato, si dimostra facilmente che il lato e la diagonale di tale quadrato non possono avere alcun sotto-multiplo comune, cioè sono in-commensurabili. Orbene proviamo a supporre che un segmento sia generato dall'accostamento d’una serie finita di punti piccoli ma non nulli, e tutti eguali fra loro, come allora s’immagina: ne seguirebbe che uno qualunque di questi punti risulterebbe contenuto un numero intero, e finito, di volte per esempio m volte nel lato e un altro numero intero, e finito, di volte per esempio n volte nella diagonale. Lato e diagonale avrebbero dunque un sotto-multiplo comune, e non sarebbero come s’era dimostrato – in-commensurabili. La loro in-commensurabilità esige pertanto che essi sono costituiti d’una infinità di punti. La leggenda racconta che il fatto scandaloso, ora riferito, è gelosamente custodito per vari anni tra i segreti più pericolosi della setta. Esso è rivelato fuori della scuola pitagorica d’IPPASO (si veda) di Metaponto, una delle figure più notevoli dell'antico pitagorismo. Pastosi a capo degl’acusmatici pella moderna irre- quietezza del suo ingegno che mal tollera il dommatismo della setta, egli sarebbe stato vicino ad Eraclito pell'idea che il fuoco è il principio di tutte le cose, e si sarebbe schierato dalla parte dei democratici nei moti  che condussero alla cacciata dei pitagorici da Crotone. Per avere rivelato la natura delle grandezze incommensurabili, Ippaso è cacciato ignominiosamente dalla scuola, ed a lui anzi i pitagorici hanno eretto una tomba come ad un morto. Secondo la tradizione su di lui è caduta anche l'ira di Giove, il quale lo fa perire in un naufragio; la sua triste morte non impede tuttavia che lo scandalo si diffondesse rapidamente tra i cultori di matematica e finisse per scuotere dalle fondamenta l'intera concezione pitagorica. Questa crisi verrà resa ancor più acuta dalla scoperta delle antinomie del VELINO sul movimento e sulla divisibilità. Per uscire da essa, i maggiori filosofi greci non troveranno altra via se non quella di scindere completamente la geometria dall'aritmetica, interpretando la prima come studio del continuo e la seconda come studio del dis-continuo. Il rapporto tra continuo e dis-continuo resta, per tutta la storia della filosofia, un problema molto difficile e molto dibattuto; verrà, anzi, considerato come uno dei più astrusi labirinti della ragione. L'averne intuito l'esistenza e la difficoltà va dunque considerato come un merito, e molto notevole, dello spirito greco. Il primo passo della ragione umana si compie, in ogni ricerca, col porre a nudo le difficoltà ivi esistenti, per gravi che esse siano, non col nasconderle. Solo chi le conosce, non chi le ignora, può sentirsi spinto a cercare i mezzi indispensabili per risolverle o, comunque, dominarle; e questa ricerca è la molla più decisiva del progresso filosofico. Oggi si riconosce quale autentico fondatore della scuola eleatica il grande Parmenide, nato a VELIA (si veda). VELIA scrive un poema allegorico, Sulla natura, Perì physeos, di cui ci sono pervenuti alcuni interessantissimi frammenti che, integrati da varie testimonianze, ci permettono di ricostruire con sufficiente sicurezza la sua filosofia. Data la vicinanza di VELIA (si veda) ai maggiori centri del pitagorismo, è indubitato che VELIA subì, in forma più o meno diretta, l'influenza di questo indirizzo di filosofia. Taluni storici, accentuando questo legame, giunsero a presentarcelo come un pitagorico, distaccatosi dalla scuola di provenienza per divergenze di ordine filosofico. Tale interpretazione ci costringerebbe a vedere in gran parte degli argomenti eleatici, come ad esempio nelle aporie del VELINO, un intento polemico soprattutto anti-pitagorico. La gravità di questa conseguenza lascia tuttavia perplessi molti autorevoli critici. Si ritiene oggi piuttosto che la critica di VELIA è rivolta in generale contro tutte le filosofie ioniche ed italiche del molteplice MULTIPLEX GRICE e del divenire, di cui egli rilevava acutamente la contraddittorietà: nel tentativo di spiegare razionalmente la realtà, e di modellare la ragione sui dati dell'esperienza, tali filosofie dovevano ammettere una serie d’opposizioni e d’alterità di cui però s’assume la co-esistenza. Ora - osserva VELIA - se d’una qualsiasi cosa (TWEEDLEDUM – I know someone is hearing a noise) si dice o si pensa che è, di ciò che è diverso od opposto ad essa (TWEEDLEDEE – it is not the case that I know that someone is hearing a noise GRICE NEGATIO ET PRIVATIO) si dovrà dire o pensare che non è: e com'è possibile riconoscere realtà alcuna a ciò che non è, se non si vogliono violare le leggi immutabili del discorso e del pensiero? La grandezza della filosofia di VELIA, quella grandezza che costituì un fecondo punto di partenza pella filosofia successiva e anche un difficile problema la cui soluzione era  tuttavia indispensabile per poter progredire, sta proprio qui: nell'aver cioè individuato nella sua radice filosofica l'ambiguità della speculazione ionica ed italica, e nell'aver posto in primo piano il problema della verità della lingua e del pensiero, il problema della via, cioè del metodo, che lingua e pensiero dovevano percorrere per giungere alla realtà. Il metodo vero costruisce  conoscitivamente la realtà, l'essere, perché elimina gradualmente dal pensiero tutti i contrassegni d’irrealtà, di non-essere, che vi s’erano infiltrati: la molteplicità nello spazio, intesa come differenziazione di parti, la molteplicità nel tempo, intesa come differenziazione di momenti, il vuoto inteso come assenza di realtà, la generazione e la distruzione intese come limiti dell'essere. Partito  dal riconoscimento logico e metodologico delle esigenze del pensiero e del discorso, VELIA  giunge al culmine della via a dichiarare l'impensabilità, l'inesprimibilità e l'inesistenza del non-essere (DAS NICHTS NICHTET), e la parimenti assoluta esistenza dell'essere, che condiziona la possibilità di pensare e di dire il vero. All'essere non potrà venir riferito sempre pell'opposizione or  ora accennata alcun attributo, che possa in qualche modo diminuirne la positività, assimilandolo al non-essere. Ci si dovrà limitare a dire che esso è uno, invariabile, immobile, eterno. Qualche critico moderno però come Untersteiner ha ritenuto che VELIA avesse concepito l'essere come totalità e non come unità. L'erronea interpretazione della sua filosofia sarebbe dovuta alla falsa testimonianza di Teofrasto che attribuisce a VELIA il sillogismo. Quello che è oltre l'essere non esiste; quello che non esiste è nulla; dunque, l'essere è uno. L'attributo dell'unità, con cui polemizza il lizio, risalirebbe solo a Melisso. Come possiamo conciliare la concezione de VELIA dell'essere col fatto incontrovertibile che l'esperienza ci presenta ad ogni piè sospinto degl’esseri  molteplici, variabili, temporanei? Di fronte a questo stato di cose risponde VELIA non vi è altro da fare che respingere la nostra spontanea fiducia nell'esperienza, riconoscendo che essa costituisce pell'uomo una via di conoscenza fallace e illusoria. Al mondo dell'esperienza è appunto dedicata la seconda parte del poema di VELIA. Confutate le opinioni dei mortali, quali si sono  espresse nelle precedenti cosmologie naturalistiche basate sul divenire, VELIA non rinuncia tuttavia a costruire una propria spiegazione di questo mondo, di cui dichiara la radicale inconsistenza di fronte all'assoluto essere. Molto s’è discusso fra i filosofi sul significato d’attribuire a questo sconcertante aspetto della filosofia di VELIA: fra le più recenti, le due posizioni estreme sono  quella di Raven, secondo cui VELIA, impegnato nella polemica contro l'indebita confusione di razionale e d’empirico tipica dei suoi predecessori, avrebbe voluto costruire una cosmologia a base puramente empirica, d’affiancare alla dottrina logico-razionale dell'essere in modo d’isolare ancor più chiaramente i due momenti; e quella dell'Untersteiner cf COLLI LA PORTA DI VELIA, che ritiene che il mondo dell'essere e il mondo dell'esperienza siano unificati nella filosofia di VELIA dal medesimo metodo razionale, in grado d’individuare il fondamento di realtà presente anche nel secondo: una realtà, tuttavia, che si differenzia da quella assoluta in quanto immersa nel tempo, e che ne costituisce perciò soltanto una immagine. In ogni caso se ne può concludere che  per VELIA solo la ragione è un mezzo di conoscenza veramente efficace; solo essa, rompendo la crosta delle apparenze, può farci cogliere l'unità profonda del reale. L'opposizione tra razionalismo ed empirismo, che tanti sviluppi ha nella storia della filosofia, trova proprio qui la sua prima radice. L'essere di VELIA è stato interpretato da taluni in senso idealistico, da talaltri in senso  materialistico. Enttrambe queste interpretazioni svisano, però, il pensiero del grande eleata, non tenendo conto che esso antecede, in realtà, ogni consapevole distinzione tra idealismo e materialismo. L'affermazione di VELA che più si presta ad una interpretazione materialistica è quella che ci presenta l'essere come sferico cioè come una sfera piena. Evidentemente VELIA pensa alla  sfera, perché la superficie sferica non è limitata da alcun perimetro né interrotta d’alcuno spigolo. Non si può tuttavia negare che la sfericità ora accennata vada accolta colla massima cautela; s’infatti l’interpretassimo alla lettera, cadremmo in contraddizione con tutto l'insegnamento di VELIA, perché siamo costretti ad ammettere l'esistenza d’un non-essere o vuoto, che è al di là  dell'essere sferico, e lo limita. Essa va intesa invece come identità e assolutezza dell'essere lungo tutte le direzioni; come è stato recentemente osservato, la sfera di VELIA è più simile allo spazio curvo einsteiniano che al solido euclideo che siamo portati a raffigurarci. L'interpretazione idealistica è d'altra parte esclusa perché se il pensiero scopre l'essere, certamente non lo crea; anzi è  piuttosto l'esistenza dell'essere a rappresentare la possibilità e la condizione del pensiero, che in esso culmina e con esso deve identificarsi. VELIA ha due grandi  discepoli: il VELINO e Melisso. Il contributo d’essi arrecato all'affinamento della filosofia del maestro assicura loro un posto assai ragguardevole nella storia della filosofia. Entrambi s’adoperarono a difenderne le tesi sia  pure svolgendo in direzioni opposte la tensione che v’è implicita: VELINO cioè approfondendo la problematica del logos nella sua crescente autonomia, Melisso invece sviluppando il tema dell'essere nella sua assolutezza sostanziale. IL VELINO di VELIA e un ingegno acuto, sottile, e vigorosamente polemico. Pegl’argomenti ideati a difesa dell'unità intesa come omogeneità e  continuità non divisibile in parti ed immobilità dell'essere, e pel suo metodo di discussione, il lizio, che li discute a lungo nella Fisica, lo considera il fondatore della dialettica GRICE ATHENIAN DIALECTIC. L'originalità del suo metodo consiste nell'assumere a punto di partenza la tesi da confutare e nel dedurne rigorosamente tutte le logiche conseguenze, per mostrarne la  contraddittorietà e di conseguenza l'assurdità della tesi. S’occupa di politica e contribue notevolmente al buon governo di VELIA. Muore con grande fierezza per aver cospirato contro il tiranno della città Nearco o Diomedonte. Sullà sua fine si tramandano vari particolari  che ne confermano l'eccezionale coraggio. I celebri argomenti del VELINO  a difesa della filosofia di VELIA di VELIA (si veda) mirano a provarci che, se la negazione del movimento e della molteplicità può a prima vista apparire assurda, l'ammissione d’essi conduce tuttavia ad assurdità ancor più gravi, nascoste, ma non risolte, dalla lingua ordinaria. Il perno di tali argomenti consiste nella dimostrazione che, sia nella nozione di movimento, sia in quella di pluralità, s’annida il delicato concetto  .d’infinito. Immaginiamo che un mobile debba spostarsi d’un estremo all'altro d’un I Ecco, per esempio, una versione dei suoi ultimi istanti. Antistene, nelle Successioni, racconta che il VELINO, dopo aver denunziato come cospiratori gl’amici del tiranno, è da questi interrogato se c'è qualche altro complice. Egli rispose: Tu, la rovina della città. E poi, rivolto ai presenti, esclama: Mi  meraviglio della vostra viltà, se siete servi della tirannide per timore di questo che ora io sopporto. Da ultimo, mozzatasi coi denti la lingua, gliela sputa addosso. I cittadini allora, incitati da questo esempio abbatteno il tiranno. dato segmento: prima d’aver percorso. tutto il segmento, dove averne percorso la metà; prima di questa, la metà della metà, e cosl via all'infinito. In modo  analogo, se il piè veloce Achille vuole raggiungere la lentissima tartaruga, che lo precede d’un tratto s, egli dovrà percorrere: innanzi tutto quella distanza s,  poi il tratto s' percorso dalla tartaruga mentre Achille percorre s,  poi il tratto s" percorso dalla tartaruga mentre Achille percorre s',  e così via all'infinito. Nell'un esempio come nell'altro, il fatto in apparenza semplicissimo del  movimento, si frantuma dunque in infiniti moti, sia pure sempre più piccoli ma non mai nulli. Proprio questa loro infinità è causa di profonde difficoltà concettuali, che non possono non rendere perplesso qualsiasi uomo disposto al ragionamento. Quanto all'argomentazione di VELINO contro la molteplicità, essa si svolgeva così: supponiamo che esistano due entità A e B distinte; per  il fatto d’essere distinte, queste due entità devono risultare separate da uno spazio  ntermedio C. Ma C è distinto tanto da A quanto da B, e quindi esisteranno altri  d).le elementi D ed  E che separano rispettivamente C da A e da B,  ecc. Poiché ciò può venir ripetuto all'infinito, se ne conclude che l'ammissione di due entità distinte conduce di necessità all'ammissione d’infinite entità.  Al fine di porre luce sulle difficoltà logiche di quest'ammissione, VELINO passa poi a dimostrare come, partendo d’essa, si debba giungere a negare l'esistenza di qualsiasi lunghezza finita. Ed infatti- così ragiona se gl’elementi che costituiscono un segmento AB sono infiniti, o essi sono nulli, o non sono nulli; nel primo caso la lunghezza del segmento non può essere che nulla perché  la somma d’infiniti zeri è zero; nel secondo non può che essere infinita perché a suo parere la somma d’infinite quantità diverse da zero sarebbe infinita. È ingiusto considerare questi ragionamenti del VELINO e gli altri che, per brevità, siamo costretti a tralasciare) quali semplici filosofismi o pseudo-ragionamenti. In realtà, essi attirano efficacemente la nostra attenzione su talune  gravissime difficoltà dei due concetti di movimento e di lunghezza, dovute all'inevitabile introduzione dell'infinito, sia allorché si scompone un intervallo di tempo o il moto attuantesi in qtJ.esto tempo, sia allorché si scompone un segmento. Questi argomenti che venneno ad aggiungersi alle difficoltà connesse alla scoperta delle grandezze incommensurabili - suscitarono presso i greci  una tale diffidenza nei confronti dell'infinito, da persuaderli a compiere qualunque sforzo pur d’escludere tale concetto per lo meno nella forma d’infinito attuale 1 - da ogni seria costru-I Si dice che una grandezza variabile costituisce un infinito potenziale quando, pur assumendo sempre valori finiti, essa può crescere al di là  ~i  ?gni limite; se per esempio immaginiamo di suddividere  un dato segmento con successivi dimezzamenti, il risultato ottenuto sarà un infinito potenziale perché il numero delle parti a cui perventamo, pur essendo in ogni caso finito, può crescere ad arbitrio. Si parla invece d’infinito attuale quando ci si riferisce ad un ben determinato insieme, effettivamente costituito di un numero illimitato di elementi; se per esempio immaginiamo d’avere  scomposto un segmento in tutti i suoi punti, ci troveremo di fronte a un infinito attuale perché non esiste alcun numero finito che riesca a misurare la totalità di questi punti. zione scientifica. Oggi noi abbiamo imparato, coll'analisi infinitesimale e colla teoria degl’insiemi, a trattare con disinvoltura l'infinito matematico sia l'infinito potenziale sia quello attuale; proprio perciò tuttavia ci  rendiamo conto che le difficoltà incontrate dai greci sono effettive, non artificiose, e possiamo affermare con piena consapevolezza che non sono certo dovute a volgari errori di logica, non sono dei filosofismi nel senso usuale del termine. Dal punto di vista dell'eleatismo, il metodo scelto dal VELINO per difendere le posizioni di VELIA di VELIA (si veda) pone tuttavia la premessa  di una loro crisi e d’un loro superamento. Lo spregiudicato uso logico-matematico che egli fa del logos non si muove più sulla via d’una identificazione del logos stesso all'essere, del riconoscimento d’una realtà scoperta dal pensiero ma in cui il pensiero dove confondersi; VELINO pone piuttosto le premesse per uno svincolamento del discorso logico-matematico dalla realtà, e  lavora  quindi oggettivamente alla rottura di quella unità discorso-pensiero-essere che caratterizza la vera via proposta dal grande maestro di VELIA (si veda). La figura di Melisso è assai diversa da quella di VELINO. Nato a Samo quasi contemporaneamente a VELINO, egli trascorse tutta la vita nella propria isola, ove ricoprì importanti cariche politico-militari. Basti ricordare che fu capo  della flotta con cui Samo sconfisse gl’ateniesi. La sua permanenza a Samo costituì, in certo modo, il ponte ideale attraverso cui l'insegnamento eleatico pervenne dalla Magna Grecia nell'Asia Minore. La lunga lotta fra Mileto e Samo può del resto contribuire a spiegare l'abbandono melisseo della tradizione ionica; una tradizione, tuttavia, che continua ad operare indirettamente nel suo  pensiero condizionando in senso realistico la sua riforma dell'eleatismo, in contrapposizione all'indirizzo prevalentemente logico che quest'ultimo aveva assunto nel VELINO. Più che alla difesa delle teorie del maestro, Melisso si dedica infatti al loro sviluppo e alla loro integrazione. Abbandonatane l'iniziale carica logico-verbale e metodica, Melisso si propose una più coerente  deduzione dei caratteri sostanziali e antologici dell'essere. Egli è il primo ad insistere sul suo carattere di unità, che rappresenta più adeguatamente in senso spaziale e temporale la totalità dell'essere parmenideo, e soprattutto sulla sua infinità. Melisso afferma in proposito che non è possibile interpretarlo come sferico per le difficoltà accennate alla fine del paragrafo n bensì lo si deve  concepire come infinito o illimitato sia nello spazio sia nel tempo. Per analoghe ragioni egli nega che si puo ammettere, nell'uno, una qualsiasi sofferenza o dolore o altra passione, perché ciò provocherebbe in lui una specie di perturbazione e quindi ne diminuirebbe l'unità e immobilità. Quest'ultimo argomento sembra mostrare come Melisso, sulla traccia della teologia di Senofane e  della tradizione ionica, dove interpretare l’unico essere come dotato di vita: una vita, probabilmente, identica al pensiero, secondo l'equazione parmenidea che abbiamo già esposto. Secondo la tradizione, Melisso avrebbe anche definito l'essere come incorporeo, il che contrasta colla sua infinita estensione spaziale e colla negazione VELINA del vuoto: ciò mette a nudo in realtà una profonda contraddizione della dottrina di VELIA, che non puo concepire la realtà come puramente intelligibile ed incorporea, ma tuttavia tentava di attribuirle tutte le caratteristiche di pura intelligibilità richieste da  una filosofia ormai maturo. L'incorporeità dell'uno di MELISSO significa dunque soltanto che esso è invisibile e illimitato da qualsiasi forma o corpo tangibile; e significa al tempo stesso il portare al limite una contraddizione già implicita in VELIA (vedasi) del cui superamento avrebbe grandemente beneficiato la filosofia posteriore. L'avere reso l'essere infinito nello spazio e nel  tempo impede a Melisso d’accettare la bipartizione di VELIA tra realtà a-temporale e mondo sensibile temporale: a quest'ultimo dove venir negata qualunque sia pur secondaria sussistenza, ed è infatti alla negazione dell'esistenza e della concepibilità delle cose sensibili che Melisso dedica alcune delle sue argomentazioni più suggestive. Perché una cosa qualsiasi, egli dice, possa essere  conosciuta, pensata ed esistere, essa dovrebbe essere sempre identica a se stessa, assolutametnte immobile ed immutabile nello spazio e nel tempo, giacché una minima modificazione ne farebbe una cosa diversa e così via all'infinito; dovrebbe dunque avere le stesse caratteristiche dell'uno. Proprio questo argomento, che egli intende come una sfida contro il pluralismo, è stato rovesciato  e raccolto dalla corrente estrema del pluralismo, quella atomistica: si può dire infatti che l'atomismo attribuì alle sue infinite unità fisiche proprio tutte le caratteristiche dell'uno di MELISSO, ad eccezione dell'immobilità che non è più necessaria dato il riconoscimento del vuoto. Col VELINO  e con Melisso di VELIA, l'arco dell'eleatismo di VELIA (si veda) si conclu e ci è rivelata dai  sensi; ma il suo scopo è quello di rivelarci la verità di questa molteplicità dando conto dell'unità che la informa e della necessità che la domina. D'altra parte, la conoscenza mitica è penetrazione intensiva di questa unità e necessità, è il porsi per così dire dal punto di vista dello sfero che simbolizza l'unità da un punto di vista sia fisico, sia religioso, sia morale; è drammatica consapevolezza,  tuttavia, della necessità del ci-do e dd molteplice GRICE MULTIPLEX SIGNIFICATIO, nel loro decadere dall'età aurea e nel loro fatale tornarvi. Di qui le purificazioni, di qui la dottrina di CROTONE della metempsicosi che adegua la sorte dell'anima al ciclo cosmico. E la via alla purificazione etico-religiosa è ancora una volta, per GIRGENTI (si veda), quella di vivere fino in fondo  la vicenda pel singolo uomo, il dramma dell'uno e dei molti, del tempo e dell'eterno, della necessità e del caso. La via della purificazione è quella che conduce nel cuore profondo della natura che sola giustifica l'uomo e il suo destino, che sola gli. concede conoscenza e potenza nel tempo, salvazione nell'eternità. Sicché la leggenda della morte del filosofo sparito nella voragine dell'Etna  bene esprime, sotto questo aspetto, la vocazione della filosofia empedoclea. Si intende così anche il senso dell'ambiguo atteggiamento di GIRGENTI (si veda) verso le technai, e del suo interesse profondo per quelle che consentissero un immediato controllo della  natura (la. medicina, le tecniche manifatturiere, la fisica; mentre la matematica gli dove sembrare irrimediabilmente lontana  dal mondo della vita e quindi sterile. Non v'è nulla di più ingiusto dell'immagine trasmessaci dalla tradizione di un GIRGENTI (si veda) abile medico e tecnologo che ciarlatanescamente ammanta di magia i suoi successi per guadagnarne in prestigio. In realtà, l'opposizione fra technai e magia sarebbe sembrata assurda ai suoi occhi. Al culmine della sua capacità di penetrazione e di  controllo, la techne aderisce così compiutamente all'intima vita del mondo da diventarne, dall'interno, una forza agente: il miracolo è una possibilità di fysis che techne porta alla luce non troppo diverse dovevano essere le vedute degli alchimisti rinascimentali. Techne si situa dunque al crocevia di conoscenza razionale-discorsiva e conoscenza mitico-intensiva; come il problema del  rapporto tra uomo e mondo, tra conoscenza e realtà s'è tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo, così a techne, allorché muova dalla consapevolezza della struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza della natura per poter penetrare sempre più profondamente in essa, per paterne acquisire un sempre maggiore controllo.  Disvelandosi all'osservazione  dell'uomo, la natura gli aveva donato la conoscenza; offrendosi ad una techne che ne sappia comprendere i segreti, essa gli concede l'accesso alla potenza: sicché alla fine, nel volgere del ciclo, l'uomo diviene profeta, bardo, medico e principe, pari agli dei immortali, come GIRGENTI (si veda) proclama di se stesso. Data la natura della conoscenza e delle technai, è chiaro come per il filosofo di 1 V'è un oracolo del fato, antico decreto degli dei, suggellato da larghi giuramenti: se mai alcuno dei demoni anime che ebbero in sorte lunga vita, macchi le sue membra di sangue colpevole, o seguendo la discordia empio spergiuri, vada errando tre volte diecimila anni !ungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte le forme mortali, permutando i penosi sentieri  della vita. Uno di essi sono anch'io, fuggiasco dagli dei ed errante, perché fidai nella folle discordia Da quale onore e da quale ampiezza di felicità, così bandito mi aggiro fra i mortali! La traduzione di questi frammenti, come di quasi tutti quelli empedoclei citati, è di MONDOLFO (si veda). Ma v'è la via del ritorno: Ma alla fine essi vengono sulla terra fra gli uomini come profeti,  bardi, medici e principi, e poi assurgono al rango di dei degni d'onore. Io vengo nelle vostre città quale un dio eterno, non certo mortale, coperto d'ogni onore. GIRGENTI non si ponesse il problema della logica e del metodo. Il metodo che egli in effetti usa è essenzialmente analogico: acute  inferenze dall'osservazione quotidiana, sia biologica il palpito del cuore, lo sviluppo dell'uovo,  il meccanismo della respirazione, ia fisica 1 la riflessione, l'evaporazione, il ciclo stagionale, sia tecnica il travaso dei liquidi, la manifattura dei vasi, la miscelazione dei colori, gli offrivano lo spunto per audaci generalizzazioni cosmiche. Tuttavia ai suoi occhi queste estensioni non avevano nulla di arbitrario, basate com'erano sulla certezza di una fondamentale unità e significatività  di tutte le manifestazioni della natura una certezza, come abbiamo visto all'inizio, a sua volta ricavata dall'esperienza immediata, sia sensoriale sia psichica. Allo stesso modo, l'espressione linguistica di GIRGENTI (si veda) non puo che tentare di riprodurre, grazie ad una poesia potentemente sintetica e visualizzante, lavita del mondo nella sua ricchezza; anche qui, l'immagine poetica  la trasvalutazione delle radici in divinità o in membra del mondo, l'affiorare ovunque dello psichico, del vivente, dell'organico riposa sulla profonda verità che per questa via si tenta di rivelare. Tale dunque la risposta di GIRGENTI al nodo di problemi che si sono esposti in sede introduttiva: una delle più grandiose sintesi mai elaborate dalla filosofia greca ed anche una delle più  affascinanti ipotesi scientifiche. Il rischio che GIRGENTI (si veda) s’assume è d'altro canto totale quanto il suo sistema: o quest'ultimo si rivela davvero capace di spiegare l'intero universo, o sarebbe crollato tutto quanto, perché l'agrigentino non offriva - né, date le sue premesse, avrebbe potuto farlo - alcuna regola di pensiero e di metodo esterna al sistema ed atta a modificarlo, a  criticarlo, a renderlo più comprensivo. La potenza del genio di GIRGENTI (si veda), in tutta la sua ambiguità, s’esercita sulla filosofia greca ed oltre; e dinanzi a lui, osserva BIGNONE (vedasi), le prospettive del mondo greco si scompongono stranamente: è già un antico rispetto a Tucidide, che è di pochi lustri più giovane di lui; ed è, dopo più secoli, quasi un contemporaneo rispetto  a Platino e Porfirio. Subito rifiutato dal miglior filosofia scientifica, d’Anassagora ad Ippocrate, che vede nel dommatismo dell'esperienza, nel vitalismo mistico, nel rifiuto d’ogni strumento razionale di tipo logico-metodologico il più mortale pericolo per un libero progresso della ricerca, il sistema di GIRGENTI (si veda) apparve tuttavia a lungo come l'unico che potesse garantire una  sicura base speculativa alle scienze nascenti, dalla biologia alla fisica, l'unico che ne assicurasse l'universalità. Così la dottrina dei quattro elementi, la concezione organicistica dell'universo che presto significa anche visione finalistica, il prevalere della qualità sulla quantità, finirono per trionfare della scienza ionica e passarono in gran parte al platonismo del Timeo, all'aristotelismo,  alla medicina I Il sole è il luogo dove l'emisfero terrestre, che agisce come una lente, riflette e concentra il fuoco emesso dall'emisfero etereo; il mare è il sudore della terra: sotto l'azione del calore; la terra stessa è stata disseccata dal calore al pari di un vaso d'argilla; e così via. siciliana di Filistione. Tramite questi canali, e sia pure con aggiustamenti progressivi, tali vedute percorsero  un lunghissimo cammino, fino ad affacciarsi al RINASCIMENTO ITALIANO e alle soglie dell'età moderna. Qui tornarono a scontrarsi col meccanicismo di tipo democriteo, e risultarono questa volta soccombenti senza però lasciar del tutto il passo. Poco sappiamo della vita di FILOLAO. Nato a Crotone, e ivi formatosi in ambiente pitagorico, egli si trasferì a Tebe dove lo troviamo  a capo di una fiorente scuola pitagorica, in rapporto col gruppo socratico-platonico ad Atene. Questa presenza di Filolao a Tebe, congiuntamente all'esilio peloponnesiaco di GIRGENTI, ci rivela un ri-fluire della filosofia italica nella madre-patria greca, localizzato non a caso nelle poleis che combattevano Atene nella guerra del Peloponneso: la filosofia ionico-attica si trova così in  qualche modo circondato non meno di quanto lo fosse, in senso politico-militare, la sua metro-poli. I frammenti di Filolao sono stati a lungo contestati per vari motivi filologici, alla cui base sta tuttavia la constatazione che essi anticipano un importante aspetto dell’accademia, e dunque la preoccupazione che questo potesse risultarne sminuito nella sua originalità. L'autenticità dei  frammenti è stata per fortuna rivendicata da MONDOLFO (si veda) e da TIMPANARO-CARDINI (vedasi); ed è chiaro, secondo una più corretta visione storiografica, che il genio dell’accademia risulta tutt'altro che diminuito dalla consapevolezza che egli sa fondere in una sintesi critica gran parte dei risultati della filosofia pensiero scientifica, pur conferendo ad essi la propria  originalissima impronta. D'altra parte, già questa considerazione impone di dare alla figura di Filolao il posto che gli compete fra i protagonisti della filosofia pre-accademica. Il problema centrale di FILOLAO è analogo a quello di GIRGENTI, ma i suoi punti di riferimento speculativi sono meglio definiti, e il suo approccio alla realtà è più chiaramente delimitato dall'eredità pitagorica  di cui egli si fa portatore.Certo, il pitagorismo originario era stato travolto, in campo matematico, dalla crisi degli irrazionali, in campo fisico-filosofico, dalla critica di VELIA al molteplice GRICE MULTIPLEX e dalla sua incapacità a soddisfare i nuovi requisiti logico-metodici. Vedremo come si svolge fino ad Archita di TARANTO, il processo ri-costruttivo delle matematiche  pitagoriche, al quale Filolao stesso da un importante contributo. Qui ci interessa piuttosto il suo sforzo di ri-costruzione del pitagorismo come sistema globale del mondo, compiuto innestando sul tronco di quella tradizione la più matura consapevolezza post-VELINA. Si tratta innanzitutto di salvare entrambi i termini della diade costitutiva di uno e molteplice, di limite e illimitato, dove il primo termine assicurava la verità e l'intelligibilità del secondo ma dove il secondo garantiva l'estensibilità del primo al mondo del reale, la sua presa sull'esperienza, conferendogli quindi una concretezza e una funzionalità sepza le quali esso sarebbe stato confinato alla sfera delle aspirazioni etico-religiose. Ma non basta più, dopo VELIA, contrapporre la serie dell'uno e del limite  alla serie dei molti e dell'illimitato; giacché su quest'ultima sarebbe poi gravata la dichiarazione d’assurdità e di irrealtà, che avrebbe vanificato la tensione insita nella diade. Il problema di FILOLAO di CROTONE era dunque quello di calare il principio d’unificazione e di verità profondamente all'interno della struttura molteplice dell'esperienza, in modo da garantirne con ciò stesso  la realtà; è di trasformare i termini della diade in modalità e struttura intima di un unico mondo, di cui essi potessero dar conto nella sua totalità. La chiave più ovvia pella soluzione del problema era, agli occhi di Filolao, quella offerta dal numero. Generato dall'uno, e governato da leggi – LOGICALLY DEVELOPING SERIES, ALLA MANDER JOACHIM, like the soul – GRICE -- che sempre all'uno puo riportarsi senza contraddizione, il numero era tuttavia atto a fungere da limite al molteplice perché ne riflette in sé la struttura; ma la riflette in modo tale da renderla omogenea all'uno e alla sua legge. Si consideri, come nella recursione di PEANO GRICE, ad esempio la decade il numero dieci: secondo l'analisi di Filolao, essa comprende in sé tutti i possibili  rapporti aritmo-geometriciche si originano a partire dall'unità ed è perciò stesso atta a comprendere e ad organizzare il molteplice, come MACHIAVELI E LIVIO ben lo sanno. Ma Filolao non poteva più arrestarsi alla generica veduta pitagorica del numero come natura delle cose. Occorre che è davvero possibile, leggendo il libro della natura, scoprirne i caratteri aritmo-geometrici; da  un punto di vista complementare, occorre dare una più precisa dimensione spaziale al numero e concretarla d’una sussistenza corporea. Perciò, partendo dall'assioma aritmo-geometrico secondo cui l'unità rappresenta il punto, il due la linea, il tre la superficie, il quattro il solido, Filolao da un impulso originale e deciso alla geometria solida, giungendo a costruire un certo numero di figure semplici che si possono agevolmente riportare alle modalità fondamentali dei numeri. Queste figure s’assicurano una prima realizzazione grazie alla loro applicabilità ai movimenti e alla configurazione degl’astri, e, tramite l'astrologia pitagorica, allo stesso assetto del divino. Più efficaci di ogni spiegazione critica sono le parole di Filolao sulla decade. L'essenza e le opere del  numero devono essere giudicate in rapporto alla potenza insita nella decade; grande è infatti la potenza del numero e tutto opera e compie, principio e guida della vita divina e celeste e di quella umana – GRICE: “I GUESS that is why Austin’s translated Frege’s essay on number!” --, in quanto partecipa della potenza della decade; senza questa, tutto sarebbe interminato, incerto ed  oscuro. Conoscitiva è la natura del numero – 7 = 5 = 12 KANT GRICE SYNTHETIC A PRIORI --, e direttrice e maestra per ognuno, in ogni cosa che gli sia dubbia o sconosciuta. Perciò nessuna delle cose sarebbe chiara ad alcuno, né per se stessa, né in rapporto alle altre, se non ci fosse il numero e la sua essenza. Ora questo, armonizzando tutte le cose colla sensazione nell'interno  dell'anima, le rende conoscibili e tra loro commensurabili secondo la natura dello gnomone, in quanto compone o scompone i singoli termini delle cose, così delle interminate come delle terminanti. Né solo nei fatti demonici e divini tu puoi vedere la natura del numero e la sua potenza dominatrice, ma anche in tutte, e sempre, le opere e parole umane, sia che riguardino le attività  tecniche in generale, sia propriamente la musica trad. TIMPANARO-CARDINI (vedasi). Da varie testimonianze risultano le ingegnose deduzioni di natura sia aritmetica e geometrica, sia fisica, dalle quali Filolao traeva conferma al dominio della decade. A questo punto tuttavia Filolao avvertiva l'esigenza di una semplificazione del mondo fisico che è assente nella tradizione pitagorica,  e  riconosce nel sistema empedocleo il più potente strumento in questo senso. È propriamente nell'assunzione che ne fa Filolao che le radici di GIRGENTI si trasformarono in elementi, avulsi ormai dalla vita del cosmo ed inseriti su di una più fredda struttura numerico-geometrica. Nei quattro elementi, infatti, e nello sfero che li riassume, Filolao vide il veicolo ideale pella conquista  del mondo fisico da parte dei suoi solidi geometrici. Per via analogica, il cubo trova il suo equivalente nella terra; il tetra-edro nel fuoco; l'otta-edro nell'aria;  l'icos-aedro nell'acqua; il dodeca-edro, infine, nello sfero. Da un altro punto di vista, ciò equivale a dire che gli elementi trovano il proprio limite, la propria forma, la propria armonia, infine la propria razionalità nelle rispettive  figure. I molteplici oggetti GRICE OBBLE dell'esperienza e le loro mutazioni si presentano ormai come aggregati degli elementi e dunque come composizione di forme geometriche semplici; ma, imbrigliati dal limite, armonizzati dalla figura, il loro variare nulla più aveva di misterioso o di irrazionale, sempre riconducibile com'era, sia pure per vie complesse e non tutte esplorate, alla  legge del numero. Filolao giunge dunque a modificare così l'assioma pitagorico che i numeri sono le cose. Tutte le cose hanno un numero; senza questo, nulla sarebbe possibile pensare, né conoscere. Le cose hanno un numero perché, come in un universo cristallografico, hanno una figura-forma che le delimita e che è riconducibile a rapporti numerici; 1 e perché sono inserite in  un'armonia cosmica che ne ritma il divenire e che è anch'essa riconducibile al rapporto logos numerico. Nel frammento che abbiamo ora citato Filolao compie un'altra fondamentale deduzione: poiché la nostra conoscenza, se vuol essere vera, non può che muoversi dall'uno e seguirne la legge, poiché il nostro pensiero non può che essere e di fatto, nella tradizione pitagorica, è logos  mathematikòs, ecco che il numero instaura la sua suprema armonia fra pensiero e realtà, fra uomo e mondo; ecco che la lingua dell'uomo è identica alla lingua di fysis, e basterà affinarlo nel medesimo senso per de-cifrare fysis tutta intiera. Così egli ristruttura il pitagorismo in modo d’adeguarlo all’esigenze post-VELINE e insieme ne allarga l'orizzonte fino a includervi le necessità di spiegazione naturalistica. Più rigoroso, sebbene meno ricco di quello empedocleo, il suo sistema si presta a brillanti deduzioni cosmologiche, ma, posto a confronto  con i problemi del significato e della vita, è spesso costretto a sce- I [È interessante a questo proposito la figura d’Eurito, un pitagorico spesso associato a Filolao. Eurito  famoso fra i suoi contemporanei perché, assegnato a qualsiasi oggetto reale un determinato numero non sappiamo come lo ottene, egli dimostra in un modo caratteristico la necessità naturale del rapporto fra l'uno e l'altro: si provvede di un pari numero di sassolini, traccia la figura dell'oggetto in questione e incastr11va lungo il suo perimetro tali sassolini il numero atto a definire la figura dell'uomo è per esempio 250. Variando le dimensioni dell'oggetto, il numero di sassolini, che ne esprimeno i rapporti essenziali, non cambia. In tal modo Eurito vuole stabilire visivamente la relazione, tipica anche della filosofia di Filolao, tra numero e forma limitante gli enti ROMAN SONS GRICE reali: il numero, tradotto in forma, è quindi il principio d’individuazione e anche d’intelligibilità della natura.] gliere la via del  superamento mistico alla maniera del pitagorismo; oscillazione riconoscibile lungo tutto l'arco della riflessione naturalistica di Filolao. L'uno, ipostatizzato fisicamente nel fuoco, sta al centro del cosmo; dal suo rapporto coll 'infinito circostante, un rapporto paragonabile al processo dell’inspirazione ed espirazione, si è generato tutto quanto il cosmo, che consta di una sintesi inscindibile  d’uno e molti, di limitante e illimitato. Rinnovando la meccanica celeste della tradizione pitagorica, spinta a un tempo dall'esigenza astronomica di spiegare l’eclissi e da quella mistica di assegnare all'uno-fuoco il posto centrale dell'universo, Filolao fa audacemente della Terra un pianeta eccentrico e mobile come gli altri, anticipando così di secoli la veduta d’Aristarco. La medesima  ambiguità si riscontra nell'ipotesi di un decimo pianeta, l'Anti-terra, in aggiunta ai nove conosciuti: si tratta, da un lato, di costruire un modello di meccanica celeste atto a spiegare fenomeni quali la maggior frequenza, in uno stesso luogo, delle eclissi di luna rispetto a quelle di sole; e, dall'altro, di trovare un'ulteriore conferma al valore universale della decade. Analogamente a GIRGENTI, Filolao di CROTONE riteneva poi il sole percepito dai nostri sensi un semplice riflesso focalizzato del fuoco centrale. Filolao è anche attento cultore di biologia e di medicina: operando nel solco della tradizione alcmeonica, egli accoglie da un lato alcune posizioni del sistema vitalistico di GIRGENTI, dall'altro, grazie proprio a quella tradizione, appariva più vicino  all'empirismo esprimentesi nella medicina cnidia; né puo riuscirgli agevole la trasposizione dei punti di vista aritmo-geometrici al campo della vita. Proprio per questa complessità d’approccio, appaiono nel filosofo di Crotone germi interessanti di teoria medica; essi passano nell’accademia e in alcune opere del corpus hippocraticum, e per un altro verso nella scuola siciliana di medicina,  ma non troveranno una diretta continuazione per il progressivo abbandono, da parte del successivo pitagorismo, delle ricerche più propriamente naturalistiche. Un primo movimento analogico permette a Filolao di ravvisare nel ritmo della vita organica una stretta affinità cosmogonica. Principio costitutivo della vita è lo sperma, il calore originario; principio del corpo è dunque il calore,  così come il fuoco lo è del cosmo. D'altra parte la respirazione introduce nel corpo l'elemento freddo necessario ad equilibrare tale calore, proprio come l'inalazione dell'illimitato circostante da parte dell'uno origina l'universo. Gli stessi organi principali del corpo sono racchiusi in uno schema quaternario analogo a quello degl’elementi, ed essi sono visti come rispettivamente egemonici  nelle varie classi di viventi. Il cervello, cui corrisponde il pensiero – “NOT THE MEMBRVM VIRILE” – Grice --,  è così egemonico nell'uomo qui è chiara l'eredità alcmeonica; il cuore, cui corrisponde il principio della vita sensibile, è egemonico negli animali prevalendo qui l'ispirazione di GIRGENTI; l'ombelico, che presiede alla crescita dell'embrione e alla vita vegetati va,  contrassegna la classe delle piante; i genitali, infine, da cui proviene il seme fecondante, individuano tutti i viventi in quanto tali. In senso più propriamente medico Filolao costruì un'eziologia in cui i maggiori agenti patogeni, di derivazione cnidia, sono la bile vista come siero delle carni, il sangue e il flegma o catarro che si origina dalle urine ed è comunque il prodotto di una  infiammazione. I fattori scatenanti i processi morbosi sono poi ravvisati, alla stregua della dottrina alcmeonica, nell'eccesso o nella scarsità d’alimenti, d’esercizio fisico, dei fattori ambientali necessari alla vita dell'uomo. La teoria dell'ANIMA GRICE SOUL è in Filolao strettamente connessa alla concezione dell'organismo: l'anima rappresenta infatti da un lato il respiro vitale, il  principio di refrigerazione che tempera il calore corporeo e da luogo alla vita; dall'altro essa è l'armonia che scature dalla tensione degl’opposti elementi fisici, come dalle corde di uno strumento musicale, e li tene connessi nel miracoloso equilibrio della vita. L'anima è dunque la presenza dell'armonia universale nel corpo vivente, e d'altro canto l'espressione intrinseca dei diversi fattori che si componeno armonicamente a dar luogo alla vita stessa. Così strettamente legata  all'equilibrio transeunte della vita organica, l'anima individuale non poteva sopravvivere al dissolversi nella morte degli elementi corporei che essa armonizza; ancora una volta, per giustificarne l'immortalità secondo il dettame pitagorico, Filolao era costretto ad un trascendimento religioso della propria dottrina. Al contrario di GIRGENTI (si veda), Filolao viene così offrendo alla filosofia uno strumento d'indagine dotato di una enorme potenzialità: quello cioè dell'analisi formale e modale della realtà, e della sua traduzione nei termini della logica aritmo-geometrica. In questo senso, è fondamentale il suo apporto allo sviluppo della matematica, che puo ormai procedere sulla via della specializzazione arricchita della certezza che qualsiasi sua scoperta avrebbe  comportato oggettivamente una più vasta e profonda comprensione della realtà, avrebbe comunque rivestito un significato universale. E parimenti fondamentale anche se destinato ad un meno immediato successo è il suo contributo alla fisica, che pella via della matematizzazione è avviata ad una intelligibilità, ad un rigore nuovi; un rigore persino superiore a quello della fisica atomistica, che, come osserva Rey, si basa sulla meccanica, una disciplina molto meno progredita nella filosofia greca di quanto non lo è l'aritmo-geometria di Crotone. Se in epoca moderna matematizzazione e concezione atomica della fisica sono destinate  a riunirsi, dando luogo al sistema del mondo proprio della scienza, nel mondo greco la dotrina di Crotone ed atomismo restano però a lungo contrapposti. Ciò è dovuto anche all'ambiguità che abbiamo visto sottendersi a tutta la speculazione di Filolao di TARANTO. Il logos mathematikòs non è soltanto, e non tanto, un metodo della filosofia quanto la struttura essenziale, garantita,  dell'universo; il numero non è tanto uno strumento euristico dell'uomo quanto una realtà originaria, primale, che garantiva la validità della scienza, ma soprattutto la condiziona al riconoscimento di sé, principio dommatico del conoscibile prima che del conoscere. Già pella matematica, questa natura del numero crea una situazione di privilegio necessariamente ambigua: giacché essa  veniva trasvalutata in una sorta di teologia razionale, secondo un processo che è comune all’accademia e a tutto il successivo pitagorismo, sempre più alieno dalla ricerca empirica, sempre più portato a rifiutare il contatto così fecondo tra la matematica stessa e le discipline tecniche e naturalistiche. Nel senso di Filolao di TARANTO, assolutizzazione delle matematiche voleva dire  dunque anche loro isterilimento sul piano scientifico-tecnico, e contemporaneamente condanna ad uno status non scientifico delle technai di controllo della natura, dalla meccanica alla biologia. L'accentuarsi della natura mistica del numero che all'origine anche significa l~ preoccupazione di una saldatura tra uomo e mondo, tra conoscenza e realtà avrebbe scavato un solco sempre più profondo tra la scuola di Crotone e le tendenze più vive della filosofia, conducendo d’ultimo alla fusione tra un pitagorismo teologizzante ed un parimenti infiacchito platonismo. Filolao di TARANTO, con tutta la sua ricchezza d’interessi metodici e scientifici, è certamente lontanissimo da tali esiti. Ma la sua impossibilità di liberarsi da talune ambiguità di fondo lo pone già, nonostante  tutto, su questa via. LEONZIO (si veda) nacque a Lentini. La tradizione ci raccontà che e discepolo vuoi dei pitagorici vuoi di GIRGENTI (si veda). Senza dubbio riuscì a conquistarsi la stima dei suoi concittadini, tanto è vero che è d’essi inviato come ambasciatore ad Atene per chiedere aiuto contro Siracusa. Viaggia per tutta la Grecia, facendo ovunque sfoggio della sua sottilissima arte dialettica GRICE OXONIAN DIALECTIC che è basata su una tecnica analoga a quella di Zenone VELINO (vedasi). Scrive varie opere,  fra le quali ci limitiamo a ricordare l'Elena e il trattatello intorno al non ente ROMAN SONS GRICE PRAESENTI ASSENTI o intorno alla natura, Perì tou me ontos GRICE NEGATIO ET PRIVATIO é perì Jjseos. Nella prima viene svolta, con molta abilità, la paradossale difesa della celebre eroina, scagionata d’ogni colpa pell'abbandono della casa del marito, e viene intessuto l'elogio dell'onnipotenza della parola, specie quando essa è guidata dalla retorica. La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà. Nell'altra opera LEONZIO (si veda) espone, una triplice tesi: nulla è; se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; se poi fosse conoscibile, non sarebbe esprimibile, poiché il mezzo con cui ci esprimiamo, è la parola; e la parola non è la cosa GRICE RES, ciò che è realmente; non dunque realtà esistente noi esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola che è altro dalla cosa. La critica della filosofia di Parmenide di VELIA (si veda) è qui evidente. Essa si fonda sull'equivocità aequi-vocality multiplex significatio GRICE del termine essere usato ora nel senso d’esistere GRICE OWEN EARLY GRICE ora invece nel senso puramente copulativo PREDICATION RELATION GRICE. Ma più ancora di questa critica è importante la chiarezza con cui si pongono i problemi della conoscibilità e dell'esprimibilità cioè i problemi se tutto ciò che esiste possa, per il solo fatto d’esistere, venire conosciuto e venire espresso. Abbiamo parlato, a proposito sia di Protagora sia di LEONZIO (si veda), di critica alla scuola di VELIA (si veda). Tale critica investì certamente il tentativo della scuola di VELIA DIALETTICA VELINA GRICE OXONIAN DIALECTIC di stringere in una rigida unità l'ordine del pensiero e della lingua con quello della realtà percepita e vissuta, e vi contrappose la relativa autonomia di questi due momenti. Ciò premesso, la critica moderna tende tuttavia a non sottovalutare i legami che connessero i maggiori sofisti alla scuola di VELIA, e non solo nel senso che la situazione di crisi creata da quest'ultimo rappresenta il loro punto di partenza. Nell'ordine logico, i filosofisti coi suoi filosofismi accettarono infatti i requisiti di verità imposti dalla scuola di VELIA (si veda), quali l'identità tautologica di cui la orthoépeia protagorea è una versione raffinata e la pregnanza MULTIPLEX GRICE di significati esistenziali e copulativi del verbo essere. La rivendicata autonomia dell'esperienza vissuta si tradurrebbe pertanto in una sizioni professionali variano da individuo ad individuo, sicché ognuno, possedendone alcune, è privo delle altre, la capacità di contribuire a conservare e perfezionare l'organismo sociale deve essere considerata presente in tutti gli individui normali. rinuncia a controllarla con strumenti logici, e in un suo abbandono alla psicologia dell'individuo a sua volta stratificato nella convenzione sociale. Questo atteggiamento si traduce, da un lato, in una certa incapacità della filosofistica di comprendere l'originale rapporto di logica ed esperienza che si viene realizzando nella scienza di qui la polemica di Protagora e di LEONZIO (si veda) contro la geometria, la fisica e, indirettamente, contro la medicina; dall'altro, nella tendenza a considerare il momento irrazionale del profitto e della forza come primario nell'ordine sociale TRASIMACO DI GRICE, trascurandone l’esigenze etico-storiche. Questo non toglie nulla alla fecondità dell'atteggiamento critico della filosofistica, ma certamente sottolinea la vastità del compito di ricostruzione scientifica, filosofica e storico- sociale che spetterà alla filosofia greca dopo il fallimento VELINO (si veda), l'esaurimento della filosofia della natura e la critica filosofistica. Non sappiamo se a CROTONE, quando vi approda Callifonte, l'asclepiade di Cnido, già esiste una scuola di medicina o se la sua fondazione si deve a questo scienziato venuto  dall'Oriente. È certo, tuttavia, che la scuola conobbe una rapidissima  fioritura. Già il figlio di Callifonte, Democede, si guadagna la fama di miglior chirurgo del mondo greco, e, fatto ritorno alla nativa costa ionica, impone alla corte del re di Persia la supremazia della nuova scuola ellenica su quella tradizionale d'Egitto. Tocca al crotoniate ALCMEONE (si veda) di portare la scuola al suo massimo livello scientifico. E soprattutto tocca ad ALCMEONE (vedasi) che Wellmann define a buon diritto pater medicinæ grecæ di rinnovare profondamente la filosofia scientifica ellenica, condizionandone lo svolgimento lungo tutto il v secolo. A contatto attraverso la sua scuola colle esperienze maturate dalla historle ionica, egli entra d'altro canto in relazione colle filosofie i tali che che sullo scorcio di quel secolo si sviluppavano rapidamente: il pensiero di Senofane da un lato, il pitagorismo dall'altro. Dalla critica senofanea al sapere umano, Alcmeone deriva la consapevolezza, via via affinatasi, che l'osservazione empirica non può immediatamente offrire la chiave della conoscenza, che la verità non si rivela tutt'intera a chi si limiti a descrivere la natura. Col pitagorismo, ALCMEONE mantenne rapporti su di una base di autonomia, da scuola a scuola; insofferente del carattere settario, dogmatico, della dottrina e della prassi pitagorica, egli rivolse contro di esse la sua critica teorica e la sua azione politica democratica. È tuttavia profondamente interessato non solo dai progressi che i pitagorici fanno compiere alle scienze naturali, ma soprattutto dal loro tentativo di scoprire leggi dell'esperienza che fungessero da principio d’organizzazione e d’interpretazione dei fenomeni osservati. Ecco dunque che sul  tronco dell'empirismo ionico, cui per altro resta solidamente ancorato, ALCMEONE viene innestando una problematica e una consapevolezza nuove, la cui carenza  aveva sempre frenato, come s'è visto, i progressi di quell'empirismo. Proprio colla dichiarazione di questa acquisita consapevolezza si apre l'opera d’ALCMEONE. Delle cose invisibili, delle cose mortali gli dei hanno immediata certezza, ma agl’uomini tocca procedere per indizi tekmdiresthai GRICE SEGNI NATURALI. Basta un tale punto di vista gnoseologico ad infrangere l'illusione dell'immediata trasparenza GRICE NON-OPAQUENESS dell'esperienza, ad aprire la via ad una osservazione  critica dei fenomeni e ad un più attivo intervento dello scienziato nella loro interpretazione. ALCMEONE si vale del principio così scoperto nel vivo della propria ricerca scientifica, e d'altra parte è la ricerca stessa, divenuta criticamente più vigile, a confermargliene la validità. Nel campo dei fenomeni naturali egli non vede più alcun elemento alcuna coppia di contrari, alcuna arché che di per sé valessero a spiegare la natura e la vita. Da biologo, egli riconosce piuttosto nell'empirico una indefinita molteplicità di principi attivi o qualità, vale a dire di stimoli capaci di determinare nell'organismo una certa reazione fisiologica l'amaro, il freddo e così via; di conseguenza, non v'era continuità fra organismo senziente e il suo ambiente, ma il rapporto fra l'uno e l'altro  è quello di stimolo e reazione – SQUARREL GOBBLES NUTS WHEN HUNGRY questo è il significato della sensazione per contrari attribuita ad ALCMEONE, in contrasto colla sensazione per simili che è tipica di GIRGENTI (si veda)). Parallelamente, Alcmeone scopriva, grazie alla pratica coraggiosamente scientifica della dissezione, che la funzione del percepire GRICE PREHEND POTCH COTCH è nell'uomo HOMO SAPIENS SAPIENS bensì diffusa nei vari organi di senso, ma che essa viene poi co-ordinata GRICE MOLYNEUX da un organo centrale, e precisamente dal cervello GRICE ON GRICE’S BRAIN IN A STATE WHEN GRICE BELIEVES THAT SNOW IS WHITE. Con questa scoperta Alcmeone non solo compiva un progresso di fondamentale importanza per tutta la biologia greca, ma trova altresì una decisiva conferma al proprio punto di vista gnoseologico: la funzione del cervello GRICE’S BRAIN WHEN GRICE JUDGES THAT SNOW IS WHITE spezza di fatto il legame immediato fra uomo e mondo, fra conoscenza e realtà.  Ed Alcmeone rende esplicita questa conseguenza dichiarando che, se la sensibilità è una proprietà di tutti gl’organismi viventi, la funzione del comprendere, cioè del ridurre a sintesi significativa l'esperienza, e del prender coscienza della sensibilità stessa è propria esclusivamente dell'uomo – GRICE: “MAN, AND NOT A VERY INTELLIGENT, RATIONAL, PARROT.” Il valore di queste asserzioni si puo intendere appieno ove si ricordi che ancora una generazione più tardi la dottrina della centralità del cuore conduce GIRGENTI (si veda)  a conclusioni estremamente anti-tetiche. In ogni modo, profondo è il solco così apertosi fra l'uomo e la realtà che egli vuol comprendere e trasformare. Il mondo dell'esperienza riacquistava la sua concretezza, e l'esperienza stessa veniva riconosciuta incapace di dare spontaneamente conto di sé. Così, lo scienziato riconquista un'autonomia e una possibilità di comprensione e di controllo sul mondo, scoprendo un punto di vista ad esso eterogeneo. Ma Alcmeone si avvide di una conseguenza decisiva di questa situazione: la realtà si fa a un tratto opaca agli occhi dello scienziato; la sapienza, intesa come perfetta trasparenza di tutto il mondo all'uomo, resta ormai solo una proprietà del divino. In termini di metodo scientifico, la sapienza dove allora venir sostituita dall'indagine, la rivelazione dalla congettura, l'osservazione e le analogie che essa sembra offrire dovevano essere integrate dal metodo dell'indizio e della prova. Quando Alcmeone pone il tekmdiresthai, il proceder appunto per indizi, congetture e prove, come metodo tipico della conoscenza umana, egli conferiva una consapevolezza teorica alla prassi della medicina TRATTATO DI SEMIOLOGIA, che dove interpretare l'esperienza THOSE SPOTS – DO THEY “MEAN” MEASLES? -- per ritrovare in essa un ‘significato’, un valore di sintomo, e risalire così all'unità della malattia e delle sue cause: una consapevolezza che, come s'è visto, fa sempre difetto ai cnidi GRICE: TO DAHL, THE SPOTS MEANT NOTHING; TO THE DOCTOR THEY MEANT MEASLES – but alas, it was too late. Sulla base di queste prospettive teoriche, Alcmeone poté anche offrire alla medicina una dottrina fisio-patologica e un'eziologia unitaria cui i cnidi non avevano potuto pervenire. Le infinite qualità 4Jnàmeis agenti nell'organismo, formano nel loro stato normale un composto krasis omogeneo ed armonico isonomia. La malattia nasce dalla rottura di tale equilibrio e dal prevalere patologico monarchia di uno solo di questi principi, oltre che per l'azione di una molteplicità di fattori ambientali. È importante notare, per l'influenza che questa veduta ebbe su Ippocrate, che Alcmeone lascia indefinito il numero delle 4Jndmeis, senza irrigidirle né nello schema quaternario degli elementi proprio della scuola di GIRGENTI (vedsi), né in quello degl’umori sviluppatosi nella tarda scuola di Cos. Queste determinazioni negative, le uniche che ci restano delle 4Jndmeis alcmeoniche, sono tuttavia importanti, perché gettano il seme di una embrionale chimica fisiologica, consapevole della molteplicità degli elementi e dei composti come ribadirà  anche Anassagora e attenta soprattutto alla loro sempre variabile funzionalità nelle sintesi organiche. D'altra parte, rompendo anche qui con tutta la tradizione della bsiologia, Alcmeone afferma l'irreversibilità dei processi biologici e dunque l'impossibilità del ciclo.Gluomini per ciò periscono, che non possono congiungere il principio colla fine. Troppo innovatrici erano tuttavia le sue intuizioni, perché Alcmeone ne potesse trarre tutte le conseguenze. La via del metodo scientifico era stata indicata, ma un lungo cammino dove essere ancora percorso perché quel metodo potesse essere sviluppato e consolidato. Il problema del rapporto fra pensiero e realtà, fra teoria ed esperienza era stato posto senza che le strutture di quel rapporto potessero essere compiutamente analizzate e rese esplicite. Questa mancanza di una chiara elaborazione teorica spiega come l'eredità alcmeonica si sia suddivisa in due filoni diversi e contrastanti. D’un lato, infatti, essa fu riassorbita dalla fysiologia italica e siciliana, che utilizza alcune delle sue conquiste scientifiche contestandone altre e soprattutto annullandone via via la carica innovatrice dal punto di vista del metodo. Attraverso GIRGENTI (si veda), questo filone dell'eredità alcmeonica passa alla scuola italica di medicina. L'altro filone ci interessa qui più da vicino: tramite l'autonoma ricerca medico-biologica, esso rifluì nell'ambiente scientifico ionico-attico, e dunque nel suo crogiuolo ateniese, destandovi immediatamente l'interesse delle più vive correnti di pensiero. Ad Anassagora la lezione alcmeonica apporta la veduta dell'alterità del conoscere rispetto al conosciuto, dell'inesauribile concretezza del mondo empirico, del tekmdiresthai come metodo della conoscenza; agli scienziati che si raccoglievano intorno al filosofo, ai medici come lppocrate, Alcmeone insegna l'importanza metodica del sintomo, la centralità del cervello, le basi fisiologiche della patologia;  agli uomini di cultura, agli storici come Tucidide, egli trasmette analoghi spunti metodici, e ancora il suo rifiuto della ciclicità, la sua concezione così suggestivamente trasferibile alle vicende umane dell'armonia come salute, della monarchia come sua rottura patologica Seguendo questo secondo filone dell'eredità alcmeonica, occorre quindi tornare nell'Atene, dove si venivano  intrecciando i nodi di tutto il pensiero scientifico greco e grazie a ciò si poneno le premesse per le sue conquiste più alte. Nel seguire il filone alcmeonico che si svolge attraverso Anassagora e culmina in Ippocrate, accennammo anche al permanere di una scuola medica in Magna Grecia e in Sicilia, nella quale l'eredità di Alcmeone dove però esser ben presto sopraffatta dal prepotente  influsso della fysiologia di GIRGENTI (si veda).  Quest'ultima è in effetti tale da condizionare sia nelle premesse sia nei metodi la ricerca medico-biologica, promuovendone a un tempo lo sviluppo e indirizzandolo verso esiti estremamente insidiosi. La concezione del inondo come un organismo vivente pare infatti assicurare la fondazione più universale e più valida alle scienze  biologiche;  e la riduzione del mondo stesso a quattro elementi primari, o archai, sembra a sua volta offrire uno strumento decisivo pella comprensione della struttura del corpo e delle sue affezioni. La metodica da porre in opera è pure esemplificata da GIRGENTI (si veda): si tratta di battere la via dell'analogia tra microcosmo e macrocosmo, di riportare cioè costantemente i fenomeni  organici alla struttura di fondo del corpo e la struttura del corpo a quella dell'universo, ritrovando in quest'ultima una garanzia di verità e una premessa per ulteriori spiegazioni. Entro tale orizzonte la scuola italica si sviluppa, FILISTIONE (si veda) di Locri la conduce al suo definitivo assetto dottrinale e metodico. Importante in senso dottrinale l'elaborazione della teoria del pneuma o  respiro, principio vitale che anima la struttura elementare sia del corpo sia del cosmo, e che vale a spiegare molti fenomeni patologici quando la sua circolazione organica risulta anomala. Ma soprattutto importante, dal punto di vista metodico, è la traduzione in senso biologico degl’elementi empedoclei, che certamente Filistione deriva dalla scuola ma cui egli conferì una forma destinata a dominare per lunghi secoli la filosofia naturalistica. Non immemore della lettera almeno dell'insegnamento alcmeonico, e impegnato più direttamente di GIRGENTI (si veda) GERGENTI nell'osservazione dei fenomeni organici, Filistione trasforma gl’elementi in qualità o principi organici attivi c!Jndmeis: così la terra viene espressa dalla djnamis secco, l'acqua dall'umido, il fuoco  dal caldo, l'aria dal freddo: queste c!Jndmeis sono secondo Filistione la forma specifica con la quale la struttura elementare dell'universo si manifesta nell'organismo umano; grazie tuttavia alloro legame univoco con gl’elementi, esse non potevano diventare, come in Anassagora ed in Ippocrate, stati relativi e mutevoli delle cose empiriche, bensì restano principi stabili e necessari  dell'empirico stesso. Il processo analogico con il quale Filistione giunge alle quattro qualità era strettamente affine alla deduzione empedoclea degli elementi, e non occorre tornare a descriverlo; e la sua critica più pertinente, dal punto di vista del metodo della medicina empirica, è del resto anticipata dallo stesso Ippocrate in Antica medicina. L'importanza storica della rielaborazione  di Filistione e la ragione del suo duraturo successo stanno da un lato nell'aver offerto alla biologia uno strumento di spiegazione e di semplificazione dei fenomeni pur sempre dogmatico ma tuttavia assai più riconoscibile nella concretezza dei processi organici di quanto lo fossero gli elementi empedoclei ad esempio il calore vitale e il suo eccesso patologico rappresentato dalle febbri  si spiegano meglio con le vicende della qualità caldo che colla materia fuoco; d'altro lato, togliendo dalla fysiologia empedoclea quanto vi era di materialistico e in fondo di meccanicistico, Filistione ne tronca i pur possibili legami coll'atomismo e la rende assai meglio accetta al prevalente indirizzo qualitativo della filosofia dell’accademia e soprattutto del lizio. Un'altra importante  evoluzione egli fa poi subire all'organicismo del filosofo di GIRGENTI. Mentre quest'ultimo non aveva mai compiuto esplicitamente il passo che porta dalla concezione vitalistica del mondo al riconoscimento di un finalismo in esso operante, Filistione trova, ad esito delle sue ricerche anatomiche sull'organismo, proprio questo grande principio esplicativo: che la natura, e soprattutto  la natura vivente, è organizzata in funzione di un sistema di fini, che questa organizzazione si ritrova al livello di tutti gl’organi, e che dunque l'indagine biologica non deve vertere tanto sul che cosa e sul come, quanto sul perché finale dell'assetto dei fenomeni studiati. Nel trattato sul cuore, Perì kardies, dove tra l'altro, nonostante la sua grande dottrina anatomica, egli rifiuta Alcmeone  per Empedocle e pone l'intelligenza nel cuore stesso Filistione concepisce quest'organo come la costruzione mirabile di un buon artefice, che tutto ha predisposto affinché la vita potesse aver luogo nel migliore dei  modi. L'incontro di queste dottrine coll’accademia, concretatosi in quello fra Filistione e Platone avvenuto in Sicilia all'inizio del periodo d’elaborazione del Timeo, dove avere conseguenze incalcolabili pella scienza della natura greca. Attraverso Platone, passarono infatti al Liio, che le adotta ancor più risolutamente del maestro, e grazie a lui conquistarono una egemonia per lungo tempo quasi incontrastata. Ma prima che tutto questo avesse luogo, le posizioni della scuola italica facevano sentire la loro pressione sulla stessa scuola di Cos post-ippocratica,  e occorre ora seguire gli estremi tentativi di quest'ultima di salvare la techne, l'antica medicina, da così agguerriti avversari. Già si parlò dell'opera di Filolao, Qui vogliamo ancora accennare ai progressi compiuti, nell'ambito della matematica, dal filosofo e scienziato Archita, vissuto a TARANTO (si veda), figura di statista pitagorico. Egli rende per lungo tempo la sua città  incrementandone la prosperità e la potenza militare, facendone la prima della Magna Grecia. Si ritiene che Archita  applica  la propria dottrina matematica alla meccanica militare, e, poiché sappiamo pure che fa uso di strumenti meccanici per risolvere problemi geometrici, si può dire che per primo e sfortunatamente con pochi imitatori per molto tempo egli intuì la fecondità teorica e  pratica di una relazione fra matematica e meccanica. Profonda è l'impressione che la personalità d’Archita suscita in Platone in occasione del suo soggiorno a Taranto. In campo matematico, Archita riprende il problema di Delo secondo le linee tracciate da Ippocrate di Chio, e lo porta a soluzione mediante la rappresentazione strumentale di figure geometriche in movimento. La  soluzione d’Archita è troppo complessa per essere qui riportata: da essa risulta comunque che egli era familiare con i processi mediante cui si generano cilindri, coni e altri solidi di rivoluzione, e che è il primo ad usare consapevolmente il concetto di luogo geometrico. In questo modo, Archita offriva il primo esempio d’applicazione della geometria dello spazio alla soluzione dei  problemi di geometria piana, e insieme dava inizio alle ricerche che concluderanno alla teoria delle coniche. Ma quello che va messo in maggiore rilievo è lo spregiudicato coraggio con il quale TARANTO (vedasi) fa ricorso, nonostante la polemica dell’ACCADEMIA a tutti i metodi e gli strumenti che permetteno di far progredire la ricerca. Parimenti ardite le sue impostazioni in arimmetica e in acustica. Quanto alla prima, egli contribuisce a sviluppare il concetto che il numero è essenzialmente un rapporto, perciò indipendente dalle condizioni di commensurabilità e razionalità, e poté quindi tornare a rivendicare la supremazia dell'arimmetica fra le scienze matematiche. Quanto alla seconda, egli scopre che il suono è dovuto al movimento e all'urto dei corpi, e che l'aria è un corpo atto a ricevere la vibrazione e a propagarla. La tradizione che fa di TARANTO (vedasi) uno dei tutori d’Eudosso, anche se dubbia, vale certamente a simboleggiare la funzione del tarantino nel passaggio dalla matematica alla grande fioritura che ha luogo. I filosofi romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, non si occupano affatto né di problemi speculative. Il loro interesse si concentra tutto sul problema giuridico, per l'evidente importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente. La conquista romana della Macedonia li porta a contatto immediato  colla filosofia. Questo t tutt'altro che armónico. La penetrazione in Roma della filosofia infatti costituie un pericolo per lo stato romano,  minacciando di alterarne quei caratteri  che costituie la base stessa del suo successo come civilizazione.. Gl’elementi conservatori, come CATONE (si veda), se ne avvidero immediatamente e cercano di opporre una seria resistenza. Un senatoconsulto ordina che i filosofi emmigrati a Roma come esuli della Macedonia,  fossero cacciati da Roma. Atene invia a Roma una missione diplomatica, formata da tre filosofi (Critolao, rappresentando il LIZIO,  Diogene  di  Babilonia,  il Portico,  e  Carneade, l’Accademia). Essi approfittarono di questo soggiorno per esporre nel Campidoglio le proprie dottrine sullo giusto. Ottennero un enorme successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria, ricca di sottili argomentazioni dialettiche, riusce a conquistare la parte più  intelligente dell’elite romana.  Famoso è rimasto il discorso di Carneade sul contrasto fra il giusto e il vero, dimostrato proprio con l'esempio di Roma, che fonda la propria potenza sul territorio strappato con la violenza ad altri. Questa non e l'ultima ragione per cui I filosofi ateniesi, conclusa la loro missione, furono ordinati a lasciare Roma. È noto che questi due ostacoli non riuscirono a fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni, la situazione muta radicalmente. I membri delle migliori famiglie romane accorrono sempre più numerosi a studiare filosofia dagli schiavi che frequentano I circoli d’influenti  personalità  politiche. A Roma e per oltre un decennio Panezio, rappresentanti del Portico. Panezio  si lega  particolarmente  al circolo di SCIPIONE (si veda) Emiliano, detto L’Affricano minore. Questo circolo – il primo circolo filosofico romano -- comprende  oltre allo storico Polibio, i maggiori rappresentanti della cultura romana del tempo: TERENZIO (si veda), LUCILIO (si veda), Caio  LELIO (si veda), Quinto Elio TUBERONE (si veda), ecc. Roma comincia a diventare un centro culturale di notevole importanza. E erroneo tuttavia ritenere che la filosofia, con i successi ora ricordati, sia effettivamente riuscita a imporre a Roma la  propria stampa. Che non sia stato così ce lo dimostra il fatto semplicissimo. Mentre il greco si  e  rapidamente  diffusa in  tutto il  mondo  mediterraneo  orientale  (per  esempio  in  Egitto), tanto  da  diventarvi  l'unico  mezzo  di  comunicazione  della  cultura,  nulla  di  simile  accadde  a Roma.  Nel  campo  linguistico, la  resistenza  del gran CATONE (si veda)  riporta  piena  vittoria. I romani filosofano in latino, arricchizzendo il vocabolario. La civiltà mediterranea finisce a poco a poco per diventare latina. Nel campo della filosofia le qualità più caratteristiche del temperamento indigeno romano buone o cattive che fossero - non andano sommerse. La ripugnanza pella speculazione astratta scolastica, l'interesse volto più alla conclusion pratica che alla premessa, la spiccata attitudine del filosofo romano all’azione, fanno sentire il peso della loro influenza. I notevoli riflessi di questo temperamento caratteristico dei romani hanno conseguenze nell'ambito della filosofia romana. Ora può essere opportuno per dimostrare l'immediata efficacia che tale spirito ha sugli stessi studiosi premettere qualche cenno intorno a filosofi particolarmente  significativi:  Polibio e Strabone. Polibio è inviato a Roma come ostaggio dalla lega achea e vi rimane per oltre sedici anni, nei quali ha modo d’assimilare profondamente lo spirito di quel popolo. Scrive le storie sulle imprese di Roma; opera solitamente considerata come un grande  trattato, oltreché di storia, anche di geografia descrittiva, pell'enorme ricchezza di notizie riferite sugl’usi e costumi dei vari popoli presi in esame. Orbene il modo con cui è concepita quest'opera è una prova evidente che Polibio intende la ricerca scientifica in  maniera completamente  diversa  dai  suoi  connazionali. Proprio nulla, infatti, lo interessano le teorie generali e tanto meno le ipotesi sulle zone lontane e mal note del mondo; esse non meritano la sua attenzione, perché prive di immediata utilità. Secondo lui, ogni indagine seria deve essere giustificata da un ben preciso scopo pratico. Il compito, per esempio, che egli si propone è quello di istruire i romani intorno al mondo mediterraneo in cui hanno svolto e svolgeranno le loro conquiste: tutto ciò, dunque, che fuoriesce da questo programma non può che apparirgli privo di senso e dannoso allo sviluppo della ricerca. Da un  punto di vista metodologico merita di venire notato che la storiografia di Polibio presenta alcune affinità con quella di Tucidide: la ricerca tenace della certezza, l'analogia da lui resa esplicita col metodo della medicina, la rinuncia ad ogni abbellimento retorico. Ancora più profonde sono tuttavia le differenze che lo separano dal grande ateniese. Polibio crede nella diretta fruibilità della  storiografia come magistra vitae, nella autonoma significatività delle informazioni riferite quanto più possibilfedelmente, e si ricollegava in tal modo alle teorie sia d’Isocrate sia di Teofrasto. Gl’è ignoto lo sforzo di compenetrazione tra ragione e fatti che Tucidide cerca d’attuate nel suo metodo storiografico, convinto com'è che solo d’esso potesse scaturire quella essenziale verità della  storia la cui utilità è certamente meno immediata ma più fondata e più generalmente feconda. In tal senso la storiografia di Polibio sta a quella tucididea esattamente come la filosofia ellenistica sta a quella. Strabone vive un secolo e mezzo dopo. Nato ad Amasea nel Ponto da una famiglia di sangue misto greco-asiatico, è anch'egli fortemente influenzato dallo spirito romano come ce  lo dimostra la decisione con cui sostenne il dominio politico di Roma. Compì lunghi viaggi e scrive una geografia, geografike, ampio trattato. Ebbene, questo trattato dimostra, non meno della storia di Polibio, il nuovo tipo d’interessi che anima il suo autore: brevissima è la parte dedicata all'aspetto matematico della geografia; ricchissime La filosofia post-aristotelica e diffuse sono  invece le notizie sugl’usi, l’istituzioni, la storia dei paesi via via presi in esame. La differenza fra l'indagine di Strabone e quella compiuta dai geografi alessandrini di qualche secolo prima non potrebbe essere maggiore. L'oggetto di studio conserva lo stesso nome, ma il modo con cui è condotta la ricerca dimostra che il significato stesso della scienza è completamente mutato.  L'espressione più caratteristica dell'interesse prevalentemente pratico del filosofo romano nell'ambito delle  ricerche è l'eclettismo. Non che esso sia nato per opera del filosofo romano, né che tutti i filosofi romani sono direttamente o indirettamente legati ad esso. Ma nell'ambiente culturale di Roma –“Grice: “a differenza del mio a Oxford, coll’egemonia della filosofia della lingua ordinaria!” --, l’ecclettismo trova le ragioni del suo successo. Il suo più illustre sostenitore e CICERONE. Per trovare un esempio di filosofo romano che non ha compiuto alcuna concessione all'eclettismo, bisogna riferirsi a LUCREZIO (si veda). La particolare posizione di LUCREZIO (si veda) non è che la conseguenza  logica della sua adesione a un sistema o dottrina. Già sappiamo, infatti, che una dottrina puo essere un unico indirizzo d mantenutosi  costantemente fedele alla propria concezione teoretica, e. g. del giardino, senza evoluzioni interne, e questa sua stessa staticità esclude che abbiano potuto sorgere seri tentativi di conciliazione fra esso e gli indirizzi avversari. A parte Lucrezio, però, è difficile scoprire  filosofi romani che  non  mostrino  qualche  venatura  d’eclettismo (forse Catone il minore, il perfetto stoico). Esplicitamente  eclettico è l'amico del avvocato Cicerone, ma anche del genio militare VARRONE (si veda); atteggiamenti eclettici  caratterizzeranno i grandi filosofi romani rappresentanti del Portico e del Cinargo, e del LIZIO e l’Accademia. del  periodo del principato. Un  po' di  eclettismo,  mescolato  con  molto della “Scesi”, puo venire  ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più rappresentativi e gli spiriti più raffinati della filosofia romana,  come per esempio in ORAZIO (si veda), che riusce ad esten- dere la propria concezione eclettica fino ad includervi anche molte dottrine filosofiche  caratteristiche del GIARDINO ROMANO. L’eclettismo  ha le  sue  prime  affermazioni  nella cosidetta Accademia e nel Portico. Esso rappresenta un tentativo di soluzione della crisi che la filosofia stav  attraversando a Roma,  e rispecchiò  una  diminuita  fiducia da parte  di  ciascuna  delle sette  - nei  propri  principi. Da questo punto di vista possiamo giustamente  sostenere che l’ecceltismo esprime un rilassamento del rigore e la gravitas dello spirito  filosofico,  una  profonda  stanchezza  e  una  mancanza  di  originalità.  Esprime  anche,  però,  la raffinata  consapevolezza  dei pericoli cui va incontro qualsiasisistema filosofico coerente, e la convinzione  di  poter  trovare, su di un piano meno rigido che quello dei principi  generali, la via per una comprensione e per una soluzione a un problema più  interessanti per il filosofo romano concreto. Da studente, CICERONE ascolta con molto interesse le lezioni di filosofi che, come  Filone  nell'Accademia e Posidonio nel Portico,  sostenneno la necessità d’un'evoluzione filosofica in senso eclettico, e si lascia d’essi facilmente convincere che qualcosa di buono si trova di  fatto  in varie dottrine, specialmente  nei  loro  precetti  d'ordine  pratico,  che  il più delle volte coincidono,  pur venendo fatti derivare da  principi molto diversi  e in  apparenza quasi  antitetici. La  adesione del avvocato Cicerone all'eclettismo fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse costituire il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico. Proprio questo atteggiamento largamente comprensivo gli consente di  studiare  con  sincero  interesse  tutta  la  storia  della filosofia romana,  sforzandosi con impegno e intelligenza di renderla accessibile ai romani. Il suo perfetto possesso della eloquenza latina permitte a Cicerone in  particolare,  di trovare espressioni eleganti e sobrie per le più difficili formulazioni tecniche. La filosofia, dice nelle  Tusculanae  disputationes, è rimasta fino ad oggi negletta, e  su  d’essa  le lettere nostre, non ha portato nessuna luce.Ma io debbo illuminarla ed esaltarla, così che, se io sono stato di qualche utilità ai miei concittadini romani nelle faccende attive della vita, puo esserlo  anche,  se  mi  riuscirà,  standomene  ozioso. Se CICERONE ha il torto di dimenticare, in queste parole, il contributo dato alla filosofia romana da LUCREZIO (si veda), egli riesce tuttavia  ad esprimerci molto bene l'animo con cui si accinge a scrivere questo o quello saggio o dialogo di filosofia. È un dovere che Cicerone compie per colmare un gravissimo  vuoto nelle letttere romane. Cicerone sente che,  se anche non introduce Nessun concetto originale,  il semplice riuscire a mettere in  circolazione, tra I suoi amici, un  patrimonio  così  serio  come  lo e la  filosofia  costituie un  merito  di  cui  i concittadini  dovranno  essergli grati. E di fatto gliene saranno grati non solo i concittadini,  ma  tutta la cosidetta civiliazione occidentale (senza gallilei) anche  i  posteri,  poiché  i  suoi  scritti  rappresenteranno  per  molti  secoli  una  delle  principali  fonti per la conoscenza del pensiero filosofico.Tra  le principali saggi e dialogi di  Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le Tusculane), il “Delle leggi”, “Le deffinizioni del bene e del male, “La  natura degli dei,” “Sui  uffizi, il Sogno di Scipione e la sua fonte, La repubblica, Ortensio, (un'esortazione alla filosofia che influenza profondamente  Agostino,  e che era un'imi- tazione  del  Protrettico di Aristotele),  ecc. E callunniante asseverare che Cicerone si limita a presentare le filosofie altrui senza apportarvi nulla di suo. Cicerone le ri-pensa dal suo punto di vista,  le espone in modo tale da poterle utilizzare  a  favore  della  concezione  eclettica. Ora utilizza Platone, ora Aristotele,  ora  invece  la Scessi o ilPortico e conclude.Qui si accenna al fatto che Cicerone si accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso dalla vita politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo di GIULIO (si veda) CESARE. Proprio CICERONE (si veda) pubblica il poema di LUCREZIO (si veda),  e  tale  dimenticanza  è dovuta probabilmente alla posizione  dichiaratamente  anti-giardino da  lui  assunta  in  sede  filosofica. con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico criterio di verità il consenso dei filosofi (prova evidente - secondo CICERONE  - che esistono delle idee innate, a tutti comuni). In queste molteplici  discussioni, non  prive talvolta di incoerenze l'una rispetto all'altra, nel difficile ecomplesso lavorio di selezione e coordinamento delle tesi, una preoccupazione appare costantemente presente in CICERONE: quella di rendere ogni romano consapevole dell'immenso valore della filosofia. Solo la filosofia,  infatti,  può farci cogliere il valore esatto di essere umano, delle nostre conoscenze;  solo la filosofia ci  insegna a guardare con effettiva serenità la vita,  mostrandoci con chiarezza ove risiede la  vera  felicità . Non  v'è  dubbio  che,  per il senso pratico dei romani, questa  capacità della  filosofia dialettica costituie la  sua  più  seria  giustificazione:  unica  giustificazione – il pro e il contra -- veramente sicura e da tutti accettabile ANTONINO (si veda) nasce a Roma. Salì al trono imperiale alla morte d’Antonino Pio di cui è figlio adottivo; E convertito al portico dalla lettura d’Epitteto. Scrive il “ad seipsum,” una delle più interessanti opere filosofiche della sua epoca: Colloqui con se stesso, Ta eis heaut6n, ordinariamente nota col titolo  di ricordi. Le note dominanti della sua filosofia nella quale emergono sempre più chiari  i  caratteri del PORTICO ROMANO  - sono un disprezzo ascetico di tutti i beni esteriori e una profonda religiosità. L'essere divino non è semplice fato, ma è soprattutto provvidenza universale. Il rapporto dell'uomo con dio è un rapporto d’effettiva  parentela, che di conseguenza viene a legare fra loro tutti gl’uomini. Oltre ai caratteri ora accennati, è tuttavia presente in ANTONINO (si veda) un carattere nuovo, evidentemente connesso proprio al tipo di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in sorte come capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria carica, ma perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha quindi il dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai compiti -- per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la forma mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità. Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi edifici, ma non riuscea  a comprendere l'interesse della vera e propria ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di energia. Il fatto appare tanto più singular quando si pensi che proprio risale la massima invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idraulico.È un fatto che non sembra spiegabile se non facendo appello alla difficoltà di comprendere i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo sfruttamento sistematico delle varie forme di energia naturale, mentre esse apparivano. Assai più costose dell'energia umana (schiavi) e animale. Per quanto riguarda lo scarso interesse dimostrato dal filosofo romano verso gl’ artificiosi congegni esposti negli Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato che la via da percorrere, onde giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala, non puo non apparire troppo lunga e difficile al filosofo romano - come appunto gl’ingegneri romani -- direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate. L'abbandono di tale atteggiamento richiederà una profonda trasformazione sociale e culturale, che ha inizio solo parecchi secoli più tardi. Fra gli filosofi romani che scriveno saggi di  ingegneria di qualche pregio, il più importante è Vitruvio, ingegnere militare di GIULIO (si veda) CESARE e OTTAVIANO (si veda). Il suo saggio principale, “De architectura", reca  evidenti gl’ultimi sviluppi della matematica e dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri. Vitruvio  ricorda  infatti  esplicitamente  Ctesibio, riferendoci parecchie sue invenzioni  (la pompa, una balestra ad aria  compressa, l'argano  idraulico, ecc.). Il  voluminoso trattato di VITRUVIO s’articola in libri che esaminano una gamma assai vasta di argomenti: dalla preparazione filosofica richiesta  all'architetto ai problemi specifici concernenti la costruzione di edifici pubblici e privati, all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di richiami storici, di indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce una preziosa fonte per studiare la cultura  tecnologica, e in generale i costumi  dell'epoca. In essa sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi difetti. Pur sforzandosi di risultare tecnicamente chiaro e cercando ove necessario d’introdurre nuove espressioni adatti al linguaggio tecnico,VITRUVIO non può nascondere talune pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la dizione, ove accanto a volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose e ricercate. Inoltre Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta, onde non solo non riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi l'impressie di non comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di esporre. Gli è che la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice pratica; essa è scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una profonda preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi aveva manifestamente studiato troppo poca matematica. Più che di ingegneria la cultura romana si era occupata di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati di CATONE (si veda), di VARRONE (si veda) e di COLUMELLA (si veda). È proprio una disciplina tecnico-scientifica parallela  all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi  più  originali: l'agrimensura, detta gromatica dalla groma, lo strumento che gl’agrimensori romani usavo nella misurazione dei terreni. Il codice arceriano ci ha conservato una parte delle opere degl’agrimensori da cui si possono ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro importanti compiti. Ad essi e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti, fondare le città e le colonie, misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei fiumi nelle campagne militari, far applicare le leggi agrarie e stabilire le confische ed i tributi. Apposite scuole erano istituite nel principato romano per istruire questi funzionari  imperiali nella geometria, intesa nel suo aspetto pratico, nel diritto, nell'arte militare e nei rituali  religiosi  che  accompagnavano le  loro  opere. Fra i maggiori  autori agromatici possiamo ricordare Balbo, famoso per aver condotto a termine l'opera di misurazione di tutta l’Italia che era stata iniziata con Cesare, Igino, e infine Sesto Giulio Frontino, una volta console sotto Vespasiano e Traiano, autore anche di un'opera di arte militare  sugli Stratagemmi e di un'opera  sugl’acquedotti  di  Roma, “De  aquis  urbis  Romae”. Grice: “Geymonat, for some reason, is obsessed with science as we at Oxford are not. Indeed, he wrote a LOOONG history of “THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford. The French and Latin types in general use it – pensée – the idea is something like science, mathematics, philosophy, you name it. So, his remarks about how the ignorant Romans started philosophy is interesting. According to Geymonat it was a generational thing. Catone did not want to do anything with it – for reasons of ‘state’, Geymonat says, i. e. philosophy would be subversive, as it indeed is. The odd thing is that it attracted the knock knock it’s the youngest generation knock knock knocking at the door. The Senate forbade philosophers in 161 and five years later Carneade and two more arrived and that changed things. Geymonat makes two comments. For one, the best youth – I figli delle migliore famiglie romane – would have something like the Americans call a Rhosdes – they would go to Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that Scipione Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where Polibio Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third terribly interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek slaves who called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only two he quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to the Roman ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he characterizes in a fourtfold way: concretto, interested in the conclusions – conclusive, rather than the premises – prattico --. So the history by Polibio is only one that may interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical prose! And the geography of Strabone has no information on calculus and measures – only bits about institutions of people the Romans might conquer – nothing about foreign distant lands! The second most notable remark is then that Scipione Emiliano paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’ won in the end – as is seen by the mere fact that Latin was retained as the lingua romana – in romano – unlike the Empire of the East where Greek was adopted – So with the fall of the Eastern Empire, the West became bilingual. The rough tongue of the Latins survived this fashion for things Hellenic! Geymonat spends enough time on what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it starts with Crotone and Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem he underwent a crisis, and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his lover, Zenone, and Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then there was Girgenti, and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty things about the four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s Filolao, educated at Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and himself teacher of Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement started with Gorgia of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know it, had an Italic origin, and is molded in the language of the conquering Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords: ragione -- temperamento romano – concretto – pratico – Catone – il trionfo di Catone colla lingua latina – la gioventu romana entusiasta con Carneade – I Scipioni ellenisante – la gioventu delle megliore familie – grand tour a Grecia! -- il teorema di Picard, il teorema di Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool Library.

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