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Tuesday, February 16, 2016

IL TROVATORE ITALIANO

Speranza

La quasi totalità dei provenzalisti concorda nell’affermare, pur con diversità di accenti, che il complesso sistema attraverso il quale si esprime e si codifica la concezione amorosa elaborata dalla lirica trobadorica appare sostanzialmente compiuto e organico già nei poeti delle prime generazioni.

Ciò pone, di conseguenza, una delicata questione delle origini.

Tra le varie tesi che sono state proposte al riguardo – e che oggi appaiono alla critica più accorta viziate da un ragionare in modo unitario e unidirezionale, che nuoce alla valutazione esatta dei dati offerti dalla tradizione (poiché si muovono in un’ottica neoromantica, che vede nella poesia dei trovatori una sorta di creazione collettiva e spontanea; oppure neopositivista, che intende il problema in termini esclusivamente di derivazione genealogica) – non è mancato chi ha voluto trovare un nesso genetico tra temi e motivi della poesia erotica latina e l’amore cantato dai trovatori.

Il principale sostenitore della tesi latina, ovidiana in particolare, è  J. Schwietering.

Tuttavia, come ben sintetizza W. Meliga, se sicuramente alcuni dei tratti fondamentali di quest’amore (come ad esempio la celebrazione della dama, il servitium nei suoi confronti e soprattutto il sentimento verso l’amata concepito come esperienza totalizzante che conduce l’io lirico alla sofferenza e alla dipendenza) fanno parte del repertorio di topoi tipico della poesia elegiaca latina,

I paradossi della fin’amor e il carattere morale del servizio cortese escludono ogni derivazione dalla letteratura latina antica.

Ciò non significa, ovviamente, che gli intellettuali trovatori, perlomeno quelli che ebbero la possibilità di compiere almeno in parte il percorso della formazione scolastica, non avessero conoscenza di un nutrito numero di scrittori latini, tra i quali, pur nella totale assenza del nostro criterio di distinzione, cronologico ed insieme valutativo, fra autori classici, latinità argentea ed autori tardi e medievali e pur nella mancanza di qualsiasi discriminazione fra scrittori cristiani e scrittori pagani , spiccano molti auctores della classicità latina, e, in particolare, Cicerone, Sallustio, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano, Persio, Stazio, e Giovenale.

Lo studio degli autori latini, tra l’altro, assume – all’interno delle concezioni pedagogico-didattiche del medioevo – un valore formativo che oggi diremmo trans-disciplinare o, forse più propriamente, meta-disciplinare, poiché il discente non apprendeva le regole grammaticali latine dal manuale, nella loro astrattezza, né per lo più si faceva uso di esempi coniati lì per lì dal maestro, come nelle nostre grammatiche.

Egli era messo al più presto possibile davanti ad un testo letterario latino da interpretare nella sua totalità e da considerare insieme fonte di regole e modello di scrittura.
'
Attraverso l’esame minuziosissimo

Le liste di occorrenze qui fornite e compilate in base ai dati offerti da Anglade, Chambers e dalla COM2, presentano i componimenti trobadorici nell’ordine della BdT e/o della BEdT, dalle quali sono ricavati il numero del trovatore e del componimento.

La forma dei nomi è quella della BdT.

Per le indicazioni cronotopiche, quando esse siano possibili, e quelle relative al genere poetico ci si attiene alla BEdT.

Sia per i testi trobadorici sia per le opere narrative le edizioni di riferimento sono quelle utilizzate dalla COM2.

Per indicare i canzonieri latori della lirica trobadorica sono utilizzate le sigle alfabetiche, in grassetto, normalmente in uso tra i provenzalisti (e che corrispondono sostanzialmente al sistema istituito da Bartsch).

Si vedano però in proposito almeno le fondamentali pagine di Lazzerini sulla trasmutazione insensibile che, nella lirica medievale in "lingua d’oco", porta dalle origini alla codificazione cortese.

Ovvero quelle medio-latina, mariana, araba, folclorica e altre ancora.

Sulla questione delle origini in questa sede sarà sufficiente rimandare al classico Bezzola.

cui ogni opera era sottoposta e poi mediante il processo di memorizzazione reso necessario in parte anche dalla scarsità e dal costo del libro la scuola dava a chi avesse studiato grammatica un patrimonio letterario di tale ampiezza da improntare profondamente, indelebilmente la sua cultura.

In ogni caso, se si considerano il valore intrinseco della lirica medievale in "lingua d’oca" ed il suo ruolo “esemplare” per tutta la successiva letteratura europea, e non solo dell’Europa romanza, quello della conoscenza e dell’utilizzo degli autori della classicità latina da parte dei trovatori non può non apparire come uno dei più interessanti capitoli della storia della ricezione e re-interpretazione del patrimonio che la classicità ha lasciato alla cultura medievale che si espresse in volgare.

La bibliografia in proposito è sterminata, in particolare per quanto riguarda la presenza-ripresa nella lirica trobadorica di alcuni autori, in particolare Ovidio, Properzio e Virgilio, nonché di personaggi, temi e motivi del mito classico.

Tralasciando gli studi generali sulla presenza dei Cicerone, o meglio il nome di Cicerone, è invece del tutto assente nella poesia dei trovatori, mentre è significativamente presente già in un esponente arcaico, con ogni probabilità il più arcaico, della lirica italiana, esponente la cui recente scoperta è forse destinata a sconvolgere il panorama della letteratura italiana delle origini, come la canzone, "Quando eu stava in le tu cathene":

null’om cun cunsillo de’ penare contra quel ke plas’al so signore ma sempre dire et atalentare como fece Tulio, cun colore»

Si legge nell’ed. Formentin, che al v. 11 segue una congettura di Giunta.

Il signore del v. 12 è ovviamente amor, citato al v. 2; per la bibliografia su questo componimento, tràdito dalla cosiddetta carta ravennate, rimando a

Sulla base dei dati offerti dalla COM2 è possibile rinvenire Tullis/Ciceron nelle "Leys d’Amors".

Tullis viene citato come auctoritas “garante”.

Tullis, d’aquesta flor tractan esenha que tres formes ha.

Segon que Tullis nos aviza trobam que·s fa per autra guiza es adonx als descripcios non es mas declaracios de so que segre se poyria d’alcuna cauza, si·s fazia.

qui·l fag passat vol recitar aysi quo si·l vezia far demostracio ditz e pauza Tullis es guerens d’esta cauza

-- e nell’Istoria Petri e Pauli:

mystère en langue provençale du XVe siècle secondo la definizione dell’editore, Guillaume --

or vuelhos Ciceron auvir volent provar que Diou es como mon prepos de sus ay pres nil est prestancius Deo mundum regi necesse est ab eo nuli igitur est nature obediens, nec subiectus Deus omnez ergo regit ipse, naturam or as ouvi tout per certan como Diou es que regis tout quant es, per sos beoulx dis de Ciceron lo philosophe cre donc eysint et ayes fe layssant aquello intencion.

Assente nella poesia dei trovatori anche il nome di Orazio, citato invece in Flamenca.

e si con Oracis retrais que nom parlet jes per esquais ges ola leu perdre non deu la sabor don primas s’enbeu

e con ogni probabilità nel "Breviari d’amor", all’interno di un lungo elenco di amanti famosi.

donc pus la natura d’amor sabron li verai aimador ne dei hieu saber tot quan n’es quar plus fis aimans no viu ges ni fo anc plus fis en amor de me Floris ab Blanchaflor ni Thisbes anc ni Priamus ni Serena ni Eledus Alions ni Filomena ni Paris anc ni Elena ni la bel’Izeutz ni Tristans Oratz, Alma, ni autr’aimans.

Si cita qui alcuni esempi, da non intendersi in alcun modo come un repertorio esaustivo, di utilizzo nella poesia dei trovatori di nomi di personaggi dell’epica romana e in generale del mito classico latino.

Non stupisce che sia molto rappresentato il genere dell’enseignamen, o "sirventes pour jongleurs", in cui l’io lirico si rivolge ad un giullare enumerandogli il repertorio, le competenze e le conoscenze che deve possedere per svolgere la sua professione.

Si tratta insomma degli  nsegnamenti pe’giullari di Giraut Cabreira, di Giraut de Calanson e di Bertran de Paris de Roergue, come De Bartholomaeis intitola il volume in cui si occupa di questi testi, tra i quali il più antico è sicuramente il primo, variamente collocato dagli studiosi tra la metà e la fine del XII secolo, modello per Guiraut de Calanso e Bertran de Paris de Rouerge.

Va da sé che, come per l’Ulisse di Dante Alighieri, è impossibile sapere con precisione a quale delle molteplici versioni del mito all’epoca circolanti, anche oralmente, ci si riferisca, o se la fonte non sia da rinvenirsi in una delle tante riprese della mitologia classica operate dalla letteratura medievale gallo-romanza, specialmente nel roman (=è, insomma, spesso la norma il caso dell’"Enea" citato da Arnaut Guillem de Marsan in cui l’allusione poco circostanziata non permette di stabilire se ci si riferisca al famoso roman d’Enea o alla tradizione classica direttamente (cfr. Dido, Escaneus/Ascanio). .

In alcuni casi, peraltro, come si vedrà meglio infra, potremmo essere di fronte a nomi che hanno a che fare con la demologia e la paremiologia, ovvero nomi tratti da proverbi, modi di dire, ecc. Biblis e Hyris, Ytis, e Itis.

"The reference is surely to Byblis (Ovidio, "Metamorphoses", IX), who fell in love with her brother Cauno.

But the mention of Hyris or Itis, not a part of the story in Ovidio, makes it clear that there was some other intermediary source.

classici latini nel medio-evo e quelli più specifici sulla 'reception of Ovidio from the Middle Ages to for the Provençal poets (Chambers  s. v. Biblis; cf. anche ivi, s. v. Iris, Hyris, Ytis: Unidentified, mentioned with Biblis, who in Ovidio loves her brother Cauno, while neither Iris nor Ithys figures in her story -- Metamorphoses IX.

The form "Iris" seems preferable.

In realtà in Guiraut de Cabreira sono compresenti i nomi di "Ytis", "Biblis" e "Caumo".

Con ogni probabilità erronea l’indicazione di Anglade , s. v. Biblis: «G. de Calanson, Fadet, ai versi . di Guiraut de Calanso si dice:

E de Ditis e de Felis si com lo fes amors morir -- versione di D.

La versione di R riporta:

E de Teris e de Feris, ni com lo fes amors morir.

Si veda in proposito Marshall 1971, s. v. Felis:

Named among the great lovers, but unknown. G de Calanso 243,7a, Fadet joglar 149 (Felis – or Feris – and Ditis or Teris were killed by love)».

Per Ytis cf. anche infra, nota 22 - Aimeric de Belenoi 9.20, v. 47: «que anc Hyris / jorn de Biblis / no fo tan enveyos». - Arnaut de Maroill 30.III, v. 153: «E Rodocesta ni Biblis [...]» («non agro la mitat / de joy / ni d’alegrier ab lurs amis, / com yeu ab vos, so m’es avis», vv. 158-160). - Arnaut de Maroill 30.IV, v. 170: «ni anc Itis, ço cre, / no amet Biblis re, / avers so qu’eu am vos». - Guiraut de Cabreira 242a.1, v. 164: «Ni sabs d’Ytis, / ni de Biblis, / ni de Caumus nuilla faisson». Caumus Marshall 1971, s. v. Caumus: «(sic). Caunus, with whom his sister Byblis [...] fell in love (Ovid., Met., IX)». - Guiraut de Cabreira 242a.1, v. 165:

Ni sabs d’Ytis, / ni de Biblis, / ni de Caumus nuilla faisson». Dido Cf. anche infra, sub Eneas. - Guiraut de Calanso 243.7a, v. 144 (versione di D): «e d’un amor / qu’es de dolor / de Dido car s’en volc ausir» (versione di R: «e d’un’amor / q’es de dossor, / de Dido can se volc aussir»; al v. 171 la versione di R ha: «e Dido qe·l let l’escremir», ma si veda la versione di D al medesimo verso: «e de Picolet l’escremir»). Eneas (ed Escaneus/Escanus/Ascanis) - Arnaut de Maroill 30.IV, v. 155: («q’anc, Domna, ço sapchaz, / non fo neguns amans / qe tant be, ses engans, / ames com eu am vos», vv. 146-149) «ni Lavina Eneas». - Bertran de Paris de Roergue 85.1, v. 20: «ni d’Achille non crei sapias re / ne d’Eneas qe suffri maint afan». - Guiraut de Calanso 243.7a, v. 90 (versione di R): «e del trezaur / que Eneas fetz sebelir» (versione di D, vv. 86-87: «e del tezaur / qu’Octovian fes sebelir»). - Guiraut de Calanso 243.7a, vv. 110 e 112: («Pueis aprendras», v. 70) «e d’Eneas / con el annet secors querir; / e d’Escaneus»(versione di D; versione di R: «De Peleas, / e d’Eneas / com anero secors querir; / e d’Escanus»). - Peire de Corbiac 338.I, vv. 748 e 749: «mais las gestas majors sai be triadamens, / de Troia e de Tebas co fo·l destruimens; / e com en Lombardia venc Eneas fugens, / com fetz sos fils Ascanis d’Albanals bastimens». BdT 243.7a, v. 110 è la sola occorrenza presente s. v. Aeneas in Anglade 1915, ma si veda anche ivi, s. v. Eneas – senza alcun tipo di rimando interno tra le due voci –, ove si indicano nuovamente BdT 243.7a, v. 110 e poi: Arnaut de Miroill 30.IV, Peire de Corbiac 338.I ed anche «A. de Marsan, Qui conte», ovvero Arnaut Guillem de Marsan 29a.I (per la grafia del nome seguo la BEdT, l’autore in questione non essendo registrato dalla BdT; il testo non fa parte del corpus su cui si basa la COM2): - Arnaut Guillem de Marsan 29a.I, v. 209: «Aprendes d’Eneas: / aquel no·us oblit pas, / car ies no fai a faire / si d’amors uzatz gaire, / car, si·n sabiatz tan, / aras ni derenan / leu poiratz enquerer / dona e conquerer».

Per quanto riguarda Escaneus/Escanus/Ascanis, si tenga conto che le occorrenze qui indicate sono censite anche da Anglade 1915, s. v. Ascanis, mentre ivi, s. v. Escaneus, e senza rimando interno alcuno tra le voci, si indica soltanto «G. de Calanson, Fadet [= BdT 243.7a], 112 D»; Marshall, per conto suo, censisce solo, s. v. Escaneus, BdT 243.7a, v. 112. Meleagr’ (e Talant’) - Arnaut Daniel 29.9, v. 32: «qu’il m’es plus fina et eu lei sers / que Talant’ e Meleagr’ e». Cf. anche Anglade 1915, s. v. Atalanta e soprattutto Marshall 1971, s. v. Meleagre:

Meleager, who was passionately in love with Atalanta (Ovid., Heroides 4, 99; in the Metamorphoses his beloved is called by other names)» e s. v. Talanta: «Atalanta, not the familiar heroine of the footrace (Ovid., Met, 10), but the beloved of Meleager in Ovid’s Heroides 4, 99». Narcisus (Narcis, Narcisi, Narsisus) - Bernart de Ventadorn 70.43, v. 24:

Miralhs, pus me mirei en te, / m’an mort li sospir de preon, / c’aissi·m perdei com perdet se / lo bels Narcisus en la fon». - Bertran de Paris de Roergue, 85.1, v. 16: «ni no sabes qi val mais c’on del mon, / ni co·s perdet Narsisus en la fon». - Peirol 366.21, v. 20:

Mal o ai dig, ans folley follamen, / quar anc Narcis, qu’amet l’ombra de se, / si be·s mori, no fo plus fols de me». - Anon 461.9a, v. 14: «car la bela tan m’a vencut e·m lia / que per mos olhs tem que perda la via / com Narcisi, que dedins lo potz cler / vi sa ombra e l’amet tot entier / e per fol’amor mori d’aital guia». Orielus (e Nisus) - Guiraut de Calanso 243.7a, vv. 181-182 (versione di D): «d’Orielus / e de Nisus, / c’anc lor amor non pot partir». Marhall 1971, s. v.

Nisus e s. v. Orielus, rimanda al Roman d’Eneas. the Renaissance»11 o su «Ovid’s Contribution to the Conception of Love Known as “L’Amour Courtois”»12, può essere utile indicare (senza alcuna pretesa di esaustività) alcuni tra i più importanti items della bibliografia sul rapporto classici latini/trovatori, dai fondanti (e per certi aspetti tuttora insostituiti) studi di Schrötter, Lot-Borodine, Viscardi e (soprattutto) Scheludko e Roncaglia fino ad arrivare agli interventi di Rossi, Bernardi e Bologna, passando per Crosland, Köhler, Wilhelm, Müller, Bond, Sabot, Kasten, Cahoon, Blakeslee, Heinrichs, Tilliette, Bianchini, Onesta, Ginsberg, Haar .

 Il nostro, minimo, invero, contributo alla questione consisterà nella compilazione di una lista, con citazione del contesto, delle occorrenze di nomi propri di classici latini presenti nelle poesie dei trovatori.

Si intende per tali i componimenti censiti dalla BdT e/o dalla BEdT, partendo dai dati rinvenibili nella COM, strumento di lavoro che finalmente offre allo studioso la possibilità di superare i limiti di repertori onomastici fondamentali ma inevitabilmente lacunosi come quelli di Anglade e Chambers, nonché eventualmente di allargare (come qui però, in considerazione dello spazio consentito, si farà solo occasionalmente) il corpus di riferimento ai testi narrativi in versi del medioevo occitanico.

Inoltre si cercherà di fornire alcune interpretazioni dei dati raccolti, integrando e arricchendo le notizie disponibili.

Ciò permetterà, tra l’altro, di ripercorrere la storia degli strumenti di lavoro sub specie onomastica a disposizione del provenzalista, dalla liste des noms propres qui se rencontrent dans les poésies des troubadours stilata da Chabaneau e integrata da Anglade (liste che «represents only a starting point for additional research on the part of the user) al repertorio dei "proper names in the lyrics of the troubadours" pubblicato da Marshall, "a usefull tool for students of Provençal literature -- secondo l’indicazione di Marshall medesimo) e poi ancora, come s’è appena visto, alla COM2, nella consapevolezza che manca tuttora, pour l’ancienne littérature provençale, il «Dictionnaire des nomes propres  avec citation des passages, identification des noms, discussions historiques, commentaires, etc.» di cui quasi cento anni fa Anglade denunciava l’assenza.

A questo tema, ad esempio, è dedicato il «Twenty-seventh International Congress on Medieval Studies, WMU, Kalamazoo, Michigan».

Dell’argomento si occupò in precedenza anche il XXV congresso dal titolo, "From the Troubadours to the Troilus: The Ovidian Love Tradition as “Enablement” for a Medieval Secular Poetic».

La questione dell’influenza di Ovidio nel Medioevo e fino a Shakespeare è ben sintetizzata, tra gli altri, da Stapleton.

Cf. anche infra la nota 32. 12

Così si intitola un ancor oggi utilissimo studio di Crosland

In ordine cronologico:
Schrötter 1908
Lot-Borodine 1928
Viscardi 1934
Scheludko 1934
Crosland 1947
Köhler 1960
Wilhelm 1965
Müller 1971
Sabot 1982
Bond 1986
Roncaglia 1985
Kasten 1986
Cahoon 1987
Blakeslee 1989
Rossi 1989
Rossi 1990
Heinrichs 1990
Rossi 1994
Tilliette 1994
Bianchini 1997
Onesta 1997
Ginsberg 1998
Haar 1998
Rossi 2003
Bernardi 2007 (di Marco Bernardi da segnalare anche la relazione dal titolo, Fortuna e tradizione della poesia oraziana in area trobadorica (X-XII secolo)» presentata al Convegno triennale della Società Italiana di Filologia Romanza Culture, livelli di cultura e ambienti nel Medioevo occidentale, Bologna.

Una storia che diventa più che bicentenaria, se si considera che Jean-Baptiste de Lacurne de Sainte-Palaye stilò una tavola dei nomi propri presenti sia nei componimenti contenuti nelle copie di manoscritti trobadorici da lui stesso esemplate o fatte esemplare sia nelle analisi letterarie che accompagnano le sue traduzioni (un elenco completo e delle copie di canzonieri provenzali e dei mss. contenenti le liste di nomi propri, materiali oggi conservati presso la Biblioteca dell’Arsenal di Parigi, in Gambino.


È questo il giudizio – del tutto condivisibile – di Chambers, si indica con chiarezza i limiti della liste di Anglade.

Esistono in proposito contributi parziali, come, ad esempio, per i nomi tratti dall’epica Birch Hirschfeld 1878, per quelli delle donne cantate Bergert 1913, che ingloba e completa Bergert 1912 e per la presenza di Federico II nelle poesie dei trovatori.

Comunque utili Langlois e Flutre, repertori dedicati rispettivamente all’epica e alla narrativa (non solo in linga d’oc, ma anche in lingua d’oïl).

LISTA DELLE OCCORRENZE DI NOMI PROPRI DI CLASSICI LATINI PRESENTI NEI COMPONIMENTI CENSITI DALLA BDT E/O DALLA BEDT

19 Ovidio (Ovides, Ovidis) - Arnaut de Maroill 30.19, v. 28:

«Mas Ovidis retrais / qu’entre·ls corals amadors / non paratgeia ricors». - Bertran Carbonel 82.6, v. 30: «Aisi, dona, co yeu dic, ses falhensa / vos ai amad’ e·us am de cor plenier, / mas tan m’aura dat fin’amors temensa / de dir a vos, que, qui·m des Monpeslier, / no·n parlera; qu’ieu truep en l’escriptura / c’Ovidis dis qu’ieu feira desmezura». - Peire de Corbiac 338.I, v. 740: «Faulas d’actors sai ieu, a miliers e a cens, / mais que non fes Ovidis ni Tales lo mentens». - Richart de Berbezill 421.10, v. 29: «E per aisso voill sofrir las dolors, / que per soffrir son main ric ioi donat / e per sofrir maint orgoill abaissat / e per sofrir venz hom lauseniadors, / c’Ovidis dis el libre que no men / que per soffrir a hom d’amor son grat, / e per soffrir son maint tort perdonat / e sofrirs fai maint amoros iausen»20 . - Uc Catola 451.1 (= 293.6)21, v. 37: «Catola, Ovides mostra chai / – e l’ambladura o retrai – / qe non soana brun ni bai, / anz se trai plus aus achaïz»

I nomi degli autori latini vengono elencati in ordine alfabetico.

Questo luogo di Richart de Berbezill è ripreso nel Breviari d’amor (v. 33610: «don digs Rigautz de Berbezilh, / que saup d’est’amor lo dreg cors: / E per aisso vuelh sufrir las dolors / quar per sufrir so man ric joi donat / e per sufrir so mant erguelh baichat / e per sufrir vens hom lauzenjadors, / qu’Ovidis ditz el libre que no men / que per sufrir ha hom d’amor son grat / e per sufrir so mant paupre pujat / e sufrir fai mant amoros jauzen»). Ovidis è menzionato dal Breviari anche al v. 31400: «E qui volra jauzir d’amor, / mantenen gaug, pretz e valor, / pesse de tener son corss gen / de causar e de vestimen / e d’arnes seguon sa rictat, / tenen son cap be penchenat, / que non veia, lui remiran, / sidons en lui re malestan, / e guardar s’a fort, si m’en cre, / que non corrumpa son ale / ab lunha mala vianda, / quar Ovidis o comanda».

Si corregga il refuso di Marshall 1971, s. v. Ovidi: «293,5». 22 Anglade 1915, s. v. Ovidis, riporta anche «Az.[alais] de Porcairagues, Ar em al freg temps» (ovvero BdT 43.1), senza altra indicazione. Probabilmente nelle carte di Chabaneau (si ricordi che il repertorio di Anglade è sostanzialmente la riproposizione della «liste sur fiches des noms propres qui se rencontrent dans les poésies des trobadours» rinvenuta «parmi les papiers de Chabaneau», Anglade 1915, p. 81) si fa riferimento alla versione del componimento tràdita dal canzoniere «H 46 (anonym, cobla IV/III als cobla dobla») (Rieger 1991, p. 480), che il medesimo Chabaneau aveva potuto leggere in Raynouard 1816-21, III, pp. 39-41. Laddove (vv. 21-22 dell’ed. Rieger 1991) la canzone recita (secondo N) «Car so diz hom sai e lai: / amor per ricor no vai» o (nella versione di CDIKd) «car so diz om en Veillai / que ges per ricor non vai» (Liborio-Giannetti, glossano: «Non vai: ossia “non è morale (sottint. ‘amore’) per ricchezza”»), la cobla dobla di H riporta (vv. 13-14): «qe Ovidis o retrai / c’amors per ricor non vai,

La presenza di Ovidis può essere nata da una grafia ques odis o per que so dis om: «Après avoir créé l’auteur classique Ovidis de cet odis», il copista «à arrangé a la suite au mieux» (cf. anche Rieger 1991, p. 488, nota ai vv. 21-22, e Rossi 1994, pp. 118-120). Se è comunque molto probabile che negli apparati critici delle edizioni si nascondano parecchi “tesori onomastici”, non sembra tuttavia che uno di questi tesori sia quello cui un po’ misteriosamente allude Anglade 1915, s. v. Ovidis: «G. Faidit, Ara cove (?) (Peut-être, d’après les variantes, cf. Appel, Prov. Chr. 3 [= Appel 1895], var. du vers 50». In effetti in Appel 1895, Eigennamen, s. v. Ovide-s, la segnalazione di BdT 451.1, v. 37 (cf. supra) è seguita tra parentesi dalla seguente indicazione: «28, 50 [= Gaucelm Faidit 167.7, v. 50] Ovizis, Ovis aus dem Varianten herzustellen?». Nell’ed. riportata alle pp. 68-69, il verso in questione suona: «que . . . . . . . . . sap ben e mos Conhatz» (e poi, vv. 51-54: «c’ab los fals brais dels lauzengers savais, / cui Dieus abais, se vir’amors en caire / e franh e fen, per que fai faillimen / dona qui·ls cre ni·ls ama ni·ls consen»); relativamente al v. 50 l’apparato riporta: «Qa M, E R; donz itis AI donç uis D, donius E, douzitis F, don osui M, donç ius N, don oui R; s. b.] sable M» (il componimento è tradito dai canzonieri ADEFIKMNR, ma Appel non considera K, forse perché “gemello” di I). Si veda tuttavia Mouzat 1965, che così pubblica i versi in questione (vv. 71-78. nella sua ed.): «qe Donz Itis sap ben, e mos coignatz / c’ab lo fals brais / dels lauzengiers savais / — cui Dieus abais! — / se vir Amors en caire, / e fraing e fen — / per que fai faillimen / dompna qui·ls cre ni·ls ama ni·ls cossen!» (l’apparato per il v. 71 riporta: «donç uis ou itis (peu lisible) D, donnis E, douzitis F; qa donos ui M, e donouoi R; s.b.) sa b. R, sable M»), e commenta (ivi, pp. 223-224): «Au vers 71, Donz Itis, clairement attesté par plusieurs mss. malgré certains flottements et les scrupules d’Appel, est un senhal qui malheureusement ne se retrouve pas dans d’autres poèmes de G. Faidit. Celuici est emprunté à un personnage de roman courtois, l’Ates du Roman de Thèbes» (cf. però supra, nota 10). Ovidis è citato anche in: - Flamenca, vv. 5569 («E, si con Ovidis declina, / Amors es domna e reina / que vol de tota gen trahut, / et eu non l’en ai ges rendut»), 6275 («Mala vi dona sa beutat / quan merce pert e pietat / e conoissenza e mesura, / car beutatz faill e merces dura. / Aissi con Ovidis retrai, / tems sera que sil c’aras fai / parer de son amic no·l quailla / jaira sola e freja e veilla»), 7553 («Tota bona dona sab be / que ja sos amics no·s moura / ni sa boca non fugira / cora ques ill baisar lo vueilla, / mais homs ha paor qu’il si tueilla / de josta lui, e que fugissa, / s’el la vol baisar, o·s gandissa / sa boca o so teng’ a mal. / E per so plus en tal art val / una domna que mil baron; / so dis Ovidis qu’en saup pron»); Seneca - Gavaudan 174.8, v. 66: «Anc Nero, c’aussi Seneca, / non ac un jorn son cor clar; / ni fals’amor non declara / son cor a selh que·s demuga, / si tot li jura ni·l pliu». - Guillem de l’Olivier 246.56, v. 1: «Seneca dis, que saup philozophia, / que mieu e tieu mogron discordi’ el mon; / mas contr’aiso nos fes Dieus un aon, / cant nos mandet c’amassem ses fadia / nostre pruesme, cascus aisi com si». - Guillem de l’Olivier 246.57, v. 1: «Seneca, que fon hom sabens, / ditz c’aissel es savis clamatz / que mielhs sap cobrir sas foldatz». Serveri de Girona 434a.VI, v. 3744: «e dits ho sans Mathieu, / Senequ’ e sans Bernats: / aman las causas, greu / seras per Dieu amats»23 . - Dona sancta Maria, flors di virginitat (preghiera alla Vergine ascrivibile agli anni ’40 del Duecento), v. 686 («Ja mais non er donada tan bela redempsos / ni tan valens thesaurus ni tan meravilhos; / no·i sabria metre pretz David ni Salamons, / Ypocras ni Virgilis, Ovidis ni Catos, / prophetas ni apostols, que trob majers no fos / lo cors de Jhesu Crist, quan si liuret per nos / moren sus en la cros el mieg de dos lairos»), all’interno di una lunga lista di svariate e multiformi auctoritates. 23 Questa occorrenza non è censita da Anglade 1915 (s. v. Seneca) e Marshall 1971 (s. v. Senéca). Seneca è pluricitato nel Breviari d’Amor come auctoritas garante di verità morali o paremiologiche (ai vv. 5319: «Don le savis Seneca ditz / per consolar homes marritz / que no son fort ni vigoros / en sofrir tribulatios, / pauzan los trebailhs d’aquest mon, / e, quan los ha pauzatz, respon»; 5325: «Ditz Seneca: tu me dirass: / sabchas, ses dubte, que morass; / pueis el respon: be·m fora bell / que dicheses qualque novell»; 9703: «e Seneca ditz atressi: / a son amic et a vezi / deu quascus homs voler far be / quan pot, ses nozemen de se, / si que no·ilh fassa frachura; / doncz quex deu seguon drechura / far almornas de sas obras»; 9729: «E deu hom castiar peccat / ab amor et ab caritat, / si secretz es, secretamen, / e de premier non aspramen; / d’aisso Seneca dizia / que mais es de cortezia / castiar ab perdonansa / quez ab trop aspra vengansa, / e qu’om deu mais las malvestatz / voler destruir que·ls malvatz»; 9735: «En autre luoc Seneca digs: / cell que mal ha fag o grazigs / qui lo·i mostra cruzelmen / no·s castia ni·n pren salut, / enans se te per ofendut»; 9756: «e Seneca ditz que quascus, / los malificis perdonan / als malvatz, / als bos dona dan»; 10095: «Et aichi sanhs Ambrueis o ditz / que·l sebelirs non es trobatz / per mortz mas per vius, so sabchatz; / so ditz Seneca per razo / d’esquivar la corrupcio / e·l desplazer e la pudor / e la fertat e la dolor»; 10290: «E Seneca ditz eichamen: / le dos es de doble plazer / quant hom lo dona ses querer»; v. 10295: «Don almorna mais valria, / qui ses querer la fazia, / quar Seneca ditz veramen: / dos non es qu’es datz al queren / francs, liberals ni tan prezatz / quo quant es ses querer donatz»; 10299: «En autre luoc ditz Seneca: / qui tost ditz de no mens pecca / que cell que fai muzar en se / lo queren, pueis no·ilh dona re»; 13171: «don «ditz le savis Seneca: / mais es cruzels e mais pecca / totz hom perdonan a quascu / que no perdonan a negu»; 15839: «don digs le savis Seneca: / s’ieu certanamen sabia / que·ls peccatz quez ieu faria / lunhs hom no saubes, et apress / Dieus de grat los me perdoness, / no·m poiria venir en cor / qu’ieu fezes peccat a lunh for, / ni·m poiria cazer en grat / per la vileza del peccat»; v. 33744: «Et atressi digs Seneca / quez oms vielhs quez ama pecca, / et als joves mou de vertut / quant amon en lur joventut»). Un caso analogo, sempre nell’area della narrativa in versi in lingua d’oc, di utilizzo di nomi di classici è rinvenibile, ad esempio, nei cosiddetti Dits des Philosophes pubblicati da Orlando 1990 (in cui sono presenti proverbi e locuzioni variamente sapienziali attribuiti a: Juvenal, Virgili, Chaton, Senequa, Lucas). Andrà poi notato che uno dei più autorevoli tra i testi edificanti tramandatici dalla letteratura provenzale medievale è il cosiddetto Libre de Seneca (sul quale mi limito qui a rinviare ad alcuni tra i più recenti contributi: D’Agostino 1984, Orlando 1984, Borghi Cedrini 1989); dal Libre discendono, perlomeno sul piano dei contenuti, i Mettra Ceneche («Versi di Seneca») del ms. Dd XV 33 del fondo valdese (Morland) della Biblioteca Universitaria di Cambridge (cf. Borghi Cedrini 1981, p. I). Va ricordato anche il caso di Boezio, autore molto diffuso e ammirato, come si sa, per tutto il Medioevo. Anglade 1915, s. v. Boeci (Marshall 1971 non censisce questo proper name) riporta soltanto «P. de Corbian, 27», ovvero - Peire de Corbiac 338.I, v. 572: «Per aquest art sai ieu tot evezadamens / far sons e lais e voutas e sonar estrumens. / Tota la solfa sai e los set mudamens / e tocar per la man deforas e dedens, / si con Guis e Boecis feron diversamens». Boezio è citato (come savis per eccellenza) anche in Flamenca, v. 7685: «Baboins es e folz e nescis, / s’era plus savis que Boecis, / maritz ques, on despendre cuja, / sa mullier ad amic estuja». Tutte le altre occorrenze di Boeci/Boecis censite dalla COM2 sono tratte dal Boecis in antico provenzale (Lo Poema de Boecis, composto poco dopo il 1000, in cui la vita del filosofo viene assimilata a quella di un martire cristiano; sul Boecis in questa sede sarà sufficiente rimandare alla recente mise au point di Cropp 2005, con ampi riferimenti bibliografici). Per il suo sen, inoltre, i trovatori citano anche Ulpiano: - Matfre Ermengau 297.8, v. 21: «La malvestatz es tan granda / dels degnes generalmen, / qu’en poiri’ om far legenda, / e quascun iorn vai creishen; / qui entre lor vai, comanda / o prelatura queren / o dignitat o prebenda, / pro·n trobara per argen / mais que pel sen Salamo, / d’Ulpia ni de Plato, / ni per vertutz a que·s tenda». Ricordo, infine, che il Catone spesso citato dai trovatori «for his wisdom» è Catone l’Uticense («reputed author of the Disticha Catonis, a collection of moral maxims», Marshall 1971, s. v. Cato, Caton). Catone è indicato come esempio di autorità o sen o cosseilh anche in alcuni testi narrativi (ad esempio Breviari d’Amor, v. 2033; Leys d’Amors, v. 292). Nel Libre de Seneca (v. 1092 della versione pubblicata da D’Agostino 1984; v. 1089 di quella edita da Orlando 1984) Cato è, insieme a Seneca e a Salamo, fonte per la salvezza dell’anima e la serenità del cuore («Pels prastz Seneca e Terenzio (Therensis) - Bertran Carbonel 82.9, v. 33: «Therensis dis, que savis fo, / que cascuna test’ a son sen». Virgilio (Vergili, Vergilis, Virgili, Virgils) - Arnaut de Maroill 30.VI, v. 7: «Razos es e mezura, / mentr’ om el segle dura, / que aprenda cascus / de sels que sabon pus. / Ja·l sen de Salamon, / ni·l saber de Platon, / ni l’engens de Virgili, / d’Omer ni de Porfili, / ni dels autres doctors / q’avetz auzitz plusors, / no fora res prezatz / s’agues estatz selatz». - Guillem Augier Novella 205.4 = 201.3, v. 20: «Sel qu’entre·ls rics a gran ricor pleneira / que quer d’aqui en sus, / que .c. savis pot metr’ en una teira / a cascun donan, pus / c’Aristotils, sobre·ls prims dus, / pres dons dels rics e Virgils la ribeira / de Napol jus: mais am donar que quieira». - Guiraut de Calanso 243.7a, v. 158 (all’interno di un lungo elenco di ciò che «Fadet juglar», v. 1, deve saper fare e conoscere) «de Virgili, / con de la conca saup cobrir; / e del vergier, / e del pesquier, / e del fuec que·l saup escontir» (versione di D; versione di R: «e de Virgili, / com de la conca·s saup cobrir; / e del vergier, / e del pesquier / e del foc que saup escantir»). - Serveri de Girona 434a.I, v. 621: «e d’aysso trasc actors / — reys e emperadors / que han estat e son —, / denan frayre Ramon / — un bon presicador / que ha per confessor —, / c’om per domn’ es valens / segons aquests guirens, / e·ls autres damont dits / que ja avets auzits: / Salamo e Vergili»(e poi un lungo elenco che mischia alla rinfusa Omero, Catone, Lancillotto, Tristano, Perceval, Davide, Platone, ecc.). - Serveri de Girona, 434a.VI, v. 4111: «Vergilis l’encantayre / volc com besti’ anar / si com vi l’emperayre: tant saub sa fyla far». - Serveri de Girona, 434a.VI, v. 4292: «Si·l bo libre aprens / de Vergili, sabras / tots los coltivamens / de terra, e·y veyras»24 . Cato / e pels verdies de Salamo / passiey e culhi de las flors, / non ges totas, mas las melhors, / et ay ne fach aquest iardi / on las ay plantadas atressi: / lo frug que d’aquestas flors nays / salva l’arma e lo cors pays, / e totas malas dichas tol / e fay estar en pas lo fol; / al fat dona entendemen / e lo plus paure fay manen; / hom te tostems ad honor / e garda·l de man de Senhor, / e per via plana lo mena / on non e supa ni s’enclina; / detrair fay lo mal del be / e Dieu reconoyser en se», vv. 1089-1106 dell’ed. Orlando 1984). Per il Catos presente al v. 686 della preghiera alla Vergine Dona sancta Maria, flors di virginitat, cf. supra, nota 22. Il contenuto di più d’una citazione trobadorica («lo sen Cato» o «de Cato»; «mais saber de Cato») fa pensare a veri e propri utilizzi paremiologici del proper name: - Bertran Carbonel 82.9, v. 17: «So dis us verssetz de Cato, / que senher es fols sertamen / can no vol creyre son sirven / de cosselh profechos e bo». - Bertran Carbonel 82.12, v. 12: «Laia cauza es tengud’ al doctor, / so dis Catos, cant . . . lo repren, / e qui mais val, mais fay de falhimen / can falh en res qu’us homs ses valor». - Bernart de la Font 62,1, v. 33: «qu’apres ai sen de Cato». - Guillem d’Autpol, 206.3, v. 82: «“Toza, si Dieus mi perdo, / trop sabetz mais de Cato; / qu’ieu no say plus greu fazenda / que servir ses gazardo”». - Guiraut de Borneill 242.80, v. 20: «Detorn me vai e deviro / foldatz, que mais sai de Cato». - Guiraut de Cabreira, 242a.1, v. 198: «ja non sabras, / ni de Tebas ni de Caton». - Guiraut de Calanso 243.7a, v. 199 (versione di D): «Apren Caton / e del monto, / con per maistre saup guerir». - Peire del Poi 354.1 (= 8.1), v. 12: «N’Aymerics, ab un tal doctor / conosc qe vos est encontratz / don ha tot drech seres sobratz, / e qe acses lo sen Cato». - Serveri de Girona 434a.4, v. 33: «mas li clerch no·s van laxan / c’om no·n trobes mil d’un to, / que cendat e cisclato / laxon, e crezon Cato / que re de l’autruy no han». - Serveri de Girona 434a.I, v. 624: e Cato e Samso (citati all’interno di un elenco di guirens, v. 618: cf. sub Virgilio). Serveri de Girona 434a.VI, v. 2052: «Ligen ho as trobat / si as apres Cato: / conseyl secret, celat, / liur’a a ton compayno». 24

Come si vede, nei testi appena citati (emblematico il caso di Serveri de Girona) convivono il Virgilio “classico” ed il Virgilio “mago” della tradizione popolare (e popolareggiante) medievale (su cui è sufficiente rimandare al fondamentale Comparetti 1872 e ai testi segnalati nella nota 62). Un esempio poco conosciuto e davvero interessante del Virgilio “mago” è rinvenibile nella novella cortese occitana (nova) Frayre de Joy et Sor de Plaser («selon toute apparence du XIVe siècle», Méjean-Thiolier et Notz-Grob 1997, p. 37), vv. 127 («Lo fill del rey de Florianda / ausi parlar de la donseyla / con vivent era fresqu’ e bella, / e morta pus beyla .c. tans, / e con era l’emperi grans / e·l loch ab encantament fayt; / non fo semblant de nagun playt, / mas justet d’aur una gran soma / e anet s’en tot sol en Roma / a Virgili que ladoncs vivia, / ez ac son acort que apendria / d’encantaments, e que passes / lo pont e qu’en la tor entres / gardar la donseyl’ab plaser»), 138-139 («Tant servit e tant donet d’or / a Virgili, son mostrador, / que Virgili li ensenyet / tant que en un jorn hi entret / lay on la donseyla jasia»), 327

Vergili, qu’aycella saysos / avia noyrit un bon jay»), 343

E car Vergili molt amava / Ffraire de Joy, e car tenia, / dits per amor que li daria / lo pus rich don que anch fos dats, / e det li l’auzell, don payats / ffo mays que si les Yelanda», ivi, p. 229) e 804

Lo jay pux trames çay e lay / per fer saber a sos amichs / lo fayt que s’era bos e richs, / que tuyt lo tengron per honrrat; / e foron al palay justat, / part d’altres emperadors trey / qu’eren sey parents, e cinch rey, / .xx. comptes e .xxx. comtors, / esters d’altres nobles

LUOGHI TROBADORICI CITATI E DISCUSSI

 Aimeric de Belenoi 9.20, v. 47 (descort). Ed.: Poli 1997, pp. 153-155. Arnaut Daniel 29.9, v. 32 (canzone). Ed.: Toja 1960, pp. 285-289. Arnaut Guillem de Marsan 29a.I, v. 209 (enseignamen; con ogni probabilità fine del XII o inizio del XIII). Ed.: Sansone 1977, pp. 109-180 («Arnaut Guilhem de Marsan, Insegnamento al cavaliere»). Arnaut de Maroill 30.19, v. 28 (canzone; testo indatabile su base interna: ante 1202?). Ed.: Johnston 1935, pp. 147-50. Arnaut de Maroill 30.III, vv. 153; 158-160 (salut d’amor). Ed.: Bec 1961, pp. 71-91. Arnaut de Maroill 30.IV, v. 146-149; 155; 170 (salut d’amor). Ed.: Bec 1961, pp. 114-126. Arnaut de Maroill 30.VI, v. 7 (enseignemen). Ed.: Eusebi 1969. Azalais de Porcairagues 43.1, vv. 21-22 (canzone; Occitania, Linguadoca). Ed.: Rieger 1991, pp. 481-482. Bernart de la Font 62,1, v. 33 (canzone; metà XIII sec.). Ed. Appel 1915, pp. 302-303. Bernart de Ventadorn 70.43, v. 24 (canzone). Ed.: Lazar 1966, pp. 180-182. Bertran Carbonel 82.6, v. 30 (canzone; Provenza, testo intadatabile su base interna). Ed.: Routledge 2000, pp. 23-24. Bertran Carbonel 82.9, vv. 17; 33 (tenzone fittizia fra il poeta e il proprio cuore; Provenza, testo indatabile su base interna). Ed.: Routledge 2000, pp. 36-37. Bertran Carbonel 82.12, v. 12 (sirventese; Provenza). Ed.: Routledge 2000, pp. 49-50. Bertran de Paris de Roergue 85.1, vv. 16; 20 (enseignamen). Ed.: Chambers 1957. Gaucelm Faidit 167.7, v. 50 (canzone). Ed.: Mouzat 1965, pp. 220-222. Gavaudan 174.8, v. 66 (vers morale, satirico; Linguadoca; 1195 ca.). Ed.: Guida 1979, pp. 370-372. Guillem Augier Novella 205.4 = 201.3, v. 20 (tenzone; Provenza). Ed.: Calzolari 1986, pp. 122- 125. Guillem d’Autpol, 206.3, v. 82 (pastorella; post 1278, ante 1298). Paden 1993, pp. 430-432. Guiraut de Borneill 242.80, v. 20 (devinaill). Ed.: Kolsen 1910-1935, I, pp. 334-340. Guiraut de Cabreira, 242a.1, vvv. 164; 165; 198 (enseignamen; Provenza; 1196-1198). Ed.: Pirot 1972, pp. 546-562. Guiraut de Calanso 243.7a, vv. 86-87; 110; 112; 144; 148-150; 158; 171; 181-182; 199 (versione di D); Guiraut de Calanso 243.7a, vv. 90; 110; 112; 144; 148-150; 158; 171 (versione di R) (enseignamen). Ed.: Pirot 1972, pp. 563-595 [la COM2 si avvale anche del testo della «nouvelle édition de M. De Conca (à paraître)]». Guillem de l’Olivier 246.56, v. 1 (cobla). Ed.: Schultz-Gora 1919, p. 43. Guillem de l’Olivier 246.57, v. 1 (cobla). Ed.: Schltz-Gora 1919, p. 40. Matfre Ermengau 297.8, v. 21 (sirventese). Ed.: Richter-Lütolf 1977, pp. 31-33. Peire de Corbiac 338.I, vv. 572; 740; 748; 749 (trattato). Ed.: Jeanroy-Bertoni 1911. Peire del Poi 354.1 (= 8.1), v. 12 (tenzone; Provenza; ante 1236-1237). Ed.: Lavaud 1957, pp. 408- 412. Peirol 366.21, v. 20 (canzone; testo indatabile su base interna). Ed.: Aston 1953, pp. 93-95. Richart de Berbezill 421.10, v. 29 (canzone; testo indatabile su base interna). Ed.: Varvaro 1960, pp. 203-206. Serveri de Girona 434a.4, v. 33 (sirventese; Catalogna; estate 1275). Ed.: Riquer 1947, pp. 88-90. Serveri de Girona 434a.I, vv. 621; 624 (componimento didattico-dottrinale; 10 marzo 1271: data interna al testo). Ed.: Coromines 1985, pp. 39-80. senyors, / arsavesques, bisbes, prelats / e·y fo, alegre e payats, / Virgili ab Pestre Johan»). Sul personaggio di Virgilio in questa nova cf. Méjean-Thiolier 1995 e l’analyse littéraire condotta da Méjean-Thiolier 1996, capitolo II; l’allusione alla cupidigia di Virgilio si ritrova, come s’è appena visto supra, anche in Guillem Augier Novella 205.4 (cf. Roncaglia 1985, p. 275). Serveri de Girona 434a.VI, vv. 2052; 3744; 4111; 4292 (raccolta di proverbi). Ed.: Coromines 1991, pp. 11-326. Uc Catola 451.1 (= 293.6), v. 37 (tenzone; testo indatabile secondo Gaunt-Harvey-Paterson 2000, pp. 98-99; tenzone ascrivibile agli anni 1133-1137 a parere di Roncaglia 1968, pp. 212-213). Ed.: Gaunt-Harvey-Paterson 2000, pp. 100-102. Anon 461.9a, v. 14 (canzone). Ed.: Gambino 2003, pp. 145-146.

TESTI NARRATIVI IN VERSI CITATI E DISCUSSI:

Breviari d’amor, Ed.: Ricketts
Dona sancta Maria, flors di virginitat, Ed.: Suchier
Flamenca, Ed.: Gschwind
Frayre de Joy et Sor de Plaser, Ed.: Méjean-Thiolier et Notz-Grob
Istoria Petri  e Pauli, Ed.: Guillaume
Leys d’Amors, Ed.: Anglade
Libre de Seneca, Orlando.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUI NOMI DEGLI AUTORI LATINI NEI TROVATORI

I testi segnalati precedentemente offrono allo studioso del Fortleben del mondo classico, un tema in continuo sviluppo e che conosce rinnovata fortuna, una notevole ricchezza di spunti.

Ci si limiterà qui a mettere in rilievo alcuni spunti che emergono dai dati raccolti e che potrebbero risultare meritevoli di approfondimento.

Partiamo da una conferma che apre le porte a una riflessione metodologica: pur tenendo conto delle opportune cautele di Meliga, i testi poetici trobadorici contengono sicuri riferimenti agli autori greci e latini e ai personaggi mitologici e storici della classicità, anche se sia il numero degli scrittori presenti sia quello dei trovatori che li ricordano con il loro nome appare abbastanza basso.

A fronte dei 460 trovatori inseriti nel catalogo BdT quelli ricordati da G. Noto sono solamente 10 e non sono presenti alcuni tra i nomi più famosi, come Jaufré Rudel, Arnaut Daniel, Raimbaut de Aurenga, Giraut de Bornelh e Bernart de Ventadorn.

In compenso sono piuttosto frequenti le citazioni di figure mitologiche, che risultavano probabilmente più funzionali al ruolo di auctoritas rappresentato dagli scrittori antichi.

I dati relativi all'"incidenza dell'antico" potrebbero segnare un'ulteriore crescita se si tenesse conto non soltanto della citazione esplicita del nome, ma anche delle allusioni e dei riferimenti intertestuali, legati al "sistema letterario" dei poeti, per usare le note parole di Gian Biagio Conte, alle attese e agli orizzonti culturali del pubblico di riferimento.

Non è una novità che si citino autori antichi in età medievale.

Risulta interessante invece la possibilità di indagarne la presenza in un contesto estremamente variegato, anche se connotato da forme espressive comuni e ricorrenti come la poesia trobadorica.

La prospettiva di ricerca che si apre è, quindi, legata soprattutto alla corretta interpretazione dei contesti in cui compaiono gli autori antichi, al loro ruolo nello sviluppo del discorso poetico, alla motivazione delle citazioni e alle loro caratteristiche: di tutto ciò si cercherà di offrire qualche specimen infra.

Può essere interessante verificare la cronologia dei trovatori in cui si individuano le citazioni, facendo riferimento ai dati ricavabili da BdT e Rialto (www.rialto.unina.it): Trovatore Generazione Epoca.

Si pensi solo alla benemerita attività del Centro Studi "La Permanenza del Classico" dell'Università di Bologna (http://www.rassegna.unibo.it/Permanenza/) o del Centro Studi sulla Fortuna dell'Antico di Sestri Levante, ideato dal compianto E. Narducci. Uc Catola I prima metà del XII secolo Arnaut de Maroill III ultimo terzo del XII secolo (1170-1200) Richart de Berbezill III seconda metà del XII secolo Gavaudan III fine XII secolo - inizio XIII Guillem Augier Novella26 IV prima metà del XIII secolo Guiraut de Calanso IV prima metà del XIII secolo Bertran Carbonel V seconda metà del XIII secolo Peire de Corbiac V prima metà del XIII secolo Guillem de l’Olivier VI seconda metà del XIII secolo Serveri da Girona VI seconda metà del XIII secolo

Come si può notare, la citazione nominale degli autori latini è più frequente nei trovatori attivi a partire dalla seconda metà del XII secolo. Il dato, per quanto puramente indicativo, è interessante, in quanto proprio nel XII-XIII secolo assistiamo a quel netto incremento della disponibilità di manoscritti di autori classici in Europa che è stato ampiamente descritto e che ha indotto la critica a creare alcune categorie cronologico-interpretative come il concetto di aetas (Ovidiana, Senecana, Vergiliana) per connotare i periodi in cui la presenza di manoscritti di questi autori si fa più consistente, garantendo - almeno a livello teorico - un aumento delle possibilità di lettura - e quindi di conoscenza - degli autori antichi27 .

Una terza riflessione è legata a varie suggestioni di lettura, che qui verranno esaminate più per presentare problemi che per risolverli.

In primo luogo un caso extravagante, ovvero la presenza di Cicerone della canzone, "Quando eu stava in le tu cathene."

Se la ricerca confermerà la datazione alta della canzone provandone il carattere di primo testo letterario in volgare italiano, allora bisognerà osservare come fin dagli albori della nostra letteratura Cicerone occupi uno spazio significativo nella dinamica del comunicare informazioni ("dire", affine al docere) e del delectare ("atalentare"), ovvero in due elementi cardine dell'arte oratoria.

Che Cicerone qui funga da modello di eloquenza e di retorica è confermato dal riferimento "cun colore", in cui si sottolinea l'importanza del color, ovvero della capacità stilistica di abbellire la dizione e l'azione, fatto che sembra rivelare un'origine scolastica del riferimento, del tutto coerente con le nostre notizie sulla fortuna di Cicerone nelle scuole fin dall'età tardoantica.

Esaminiamo ora i singoli autori, seguendo l'ordine alfabetico. Ovidio costituisce, come è noto, il serbatoio mitologico della letteratura occidentale e assume spesso la funzione di una modello di riferimento.

Arnaut di Maroill 30,19,28 ricorda che il poeta

L'identificazione di questo trovatore è "molto problematica.

Non è da escludere che i testi sotto la sigla 205 appartengano in realtà a più autori distinti, per quanto operanti tutti nella prima metà del XIII secolo" (BdT, sub voce).

Rimando per notizie ulteriori a Calzolari 1986. 27 Cf. Munk Olsen.

Il XII secolo si segnala per la composizione di un notevole numero di commenti ai testi classici, che sostituiscono quelli dell'antichità e dell'alto Medioevo» (Munk Olsen 1995, 391). Sul concetto di aetas e sui suoi limiti interpretativi cf. Villa 1992. 28 Cf. supra nota 9. 29

Mi pare che l'esegesi di Stussi 1999 ripresa da Giunta 2006, p. 653 ("parlare in modo da rendersi gradito") non renda pienamente il senso del verso, che sembra avere un valore più pregnante: non si tratta qui di una comunicazione pura e semplice, ma di un tipo di espressione attentamente costruita, propria di un uomo "cun cunsillo" (v. 11). 30

Rimando exempli gratia al classico volume ancora non superato di Zielinski 19123 , a Balbo 1996 e a de Paolis 2000. 31 Cf. le numerose citazioni di personaggi del mito raccolte nella nota 10 e la bibliografia segnalata alle nn. 11-12. non ammetteva tra gli amanti l'interferenza della ricchezza ("entre le corals amadors / non paratgeia ricors"), un'espressione che è stata accostata a passi delle Metamorfosi e dell'Ars amatoria.

Bertran Carbonel riconosce alla "escriptura" di Ovidio un ruolo regolativo nel comportamento da tenere nei confronti della donna, alla quale non si può confidare il sentimento in modo esplicito ("qu’ieu truep en l’escriptura / c’Ovidis dis qu’ieu feira desmezura".

Il valore di auctoritas è dichiarato esplicitamente da Richart de Berbezill, che identifica il poeta con il "libre que no men"; compare qui il tema della sofferenza d'amore, che risale probabilmente all'Ars amatoria e non è estraneo ai Remedia amoris.

L'accostamento tra Ovidio e Talete di Peire de Corbiac si fonda sulla comune connotazione come uomini colti e sapienti ("actors"), un dato tipicamente medievale, che ricorre anche in Dante, Inf. IV,90 e 137, mentre il poeta di Sulmona è maestro d'amore nello scambio di battute tra Catola e Marcabrù, in cui il secondo afferma "Ovides mostra chai / – e l’ambladura o retrai – / qe non soana brun ni bai, / anz se trai plus aus achaïz"36.

Qui gli studiosi hanno per lo più indicato come modello Ars 1,769-770, inde fit ut quae se timuit committere honesto / vilis in amplexu inferioris est37, ma il passo ovidiano si adatta meglio alla seconda parte del testo di Catola, mentre la prima rimanda molto probabilmente ad Am. 2,4,39-40, candida me capiet, capiet me flava puella / est etiam in fusco grata colore Venus.

La conflazione dei due luoghi è piuttosto interessante, ma non prova la conoscenza diretta dell'opera ovidiana da parte del trovatore, bensì solamente la presenza di una serie di topoi, forse di origine scolastica, accostati l'un l'altro, come pare suggerito da due considerazioni: a) da un lato gli editori della tenzone ritengono che il senso dell'espressione di Catola sia negativo, perché i colori a cui fa riferimento sono simbolicamente utilizzati nel resto della produzione di Marcabrù per contrassegnare l'immoralità38; in Ovidio, però, questa relazione colore-moralità sembra assente in questo passo 39; b) inoltre Catola fa riferimento ai colori dei capelli, mentre il modello ovidiano associa la carnagione chiara e il colore biondo: già la fonte del trovatore sembra aver reinterpretato il contenuto del luogo classico. Seneca è definito da Guillem de l'Olivier "hom sabens" e "que saup philozophia", un'immagine anche in questo caso molto tradizionale; nell'autore, che dedica a Seneca due coblas moraleggianti, compaiono espressioni proverbiali: «que mieu e tieu mogron discordi’ el mon.

Si tratta di un modo di dire molto antico, testimoniato da Platone in rep. 462 c43, assente nelle opere

È noto come i secoli dall'XII al XIII abbiano per molti aspetti costituito una aetas Ovidiana, in cui il poeta di Sulmona costituì modello di scrittore d'amore, di narratore mitologico, epico e dell'esilio.

La bibliografia su questo tema è immensa.

Mi limito, in aggiunta alla nota 10, a richiamare le sintesi di Munk Olsen, Villa, Hexter, e Fyler (quest'ultima di respiro minore).

Met. 2, 846-847: non bene conveniunt nec in una sede morantur maiestas et amor; più opportuno mi sembra però l'accostamento con il seguente: Ars. 2, 161: non ego divitibus venio praeceptor amandi [...] 165 Pauperibus vates ego sum, quia pauper amavi.

I passi sono segnalati da Paden 2000, p. 52 n. 13. 34 Forse qui non è estraneo un luogo di Her. 4, 9-10:

Qua licet et seuitur, pudor est miscendus amori; / dicere quae puduit, scribere iussit amor: cf. Puerto Benito 2008, p. 141. 35 Secondo van Vleck 1991, p. 252 n. 4 qui Richart avrebbe in mente due versi dell'Ars (2, 177-178) si nec blanda satis nec erit tibi comis amanti / perfer et obdura, ma la studiosa dimentica di segnalare il pesante debito ovidiano con Cat. 8, 9-10, nec quae fugit sectare, nec miser vive / sed obstinata mente perfer, obdura. Il tema è comunque molto diffuso in tutta l'Ars e al dossier di loci similes si potrebbe anche accostare il seguente: litore quot conchae, tot sunt in amore dolores (Ars 2, 520).

Catola, Ovidio ci insegna e punto per punto dimostra che non sdegna bruno né biondo, anzi s’appiglia di preferenza a chi meno vale», tr. Roncaglia. 37 Gaunt-Harvey-Paterson 2000, p.104, sulla scorta di studi precedenti come Goddard 1987. 38 Ibidem; cf. anche i componimenti 24, 4-6 e 31, 33 di questo canzoniere. 39 Cf. e. g. McKeown 1998, 3, 64-84; d'altro canto, come hanno rilevato i commentatori (da ultimo McKeown 1998, 65), in questo carme Ovidio riecheggia Properzio 2, 25, 41-44: vidistis pleno teneram candore puellam / vidistis fuscam, ducit uterque color; / vidistis quandam Argiva prodire figura,/ vidistis nostras, utraque forma rapit, dove non vi è alcuna connotazione negativa nel catalogo. 40

La bibliografia della "Senecana" non offre contributi sul tema "Seneca nei trovatori".

Un interessante recupero del termine in una forma ancora molto legata all'ortografia latina classica. 42 «Mio e tuo hanno portato la discordia nel mondo». 43 \Ar¾ ou\n ejk tou'de to; toiovnde givgnetai, o{tan mh; a{ma fqevggwntai ejn thæ' povlei ta; toiavde rJhvmata, to; te ejmo;n kai; to; oujk ejmovn. conservate di Seneca, ma presente nella forma Quietissimam vitam agerent homines si haec duo verba e natura omnium tollerent, meum et tuum nelle raccolte medievali dei proverbi pseudosenecani come il Liber de moribus, 9845, in Martino di Braga46 e in Albertano da Brescia; b) «aissel es savis clamatz / que mielhs sap cobrir sas foldatz.

Questo dictum, che non è presente nelle opere senecane, nelle quali sembrerebbe contraddittorio, richiama da un lato il tema della dissimulazione di una condizione umana chiaramente limitata e debole per natura, dall'altro sottolinea fortemente la necessità di un atto di volontà per tenere sotto controllo i propri istinti.

 L'idea deriva probabilmente da qualche raccolta proverbiale, come già aveva rilevato Cnyrim 1888, 38 n. 527, che lo aveva inserito tra i proverbi relativi alla pazzia, senza però fornire informazioni sulle fonti; in Walther 1963-1969, 27520e è segnalato un detto proverbiale che fa riferimento alla medesima situazione: sapientes sua celant mala.

Il Walther non segnala una fonte precisa e fa a sua volta riferimento a J. Hilner, Gnomologicum Graecolatinum, Lipsiae 1606, p. 139, una preziosa opera di erudizione che ne segnala l'origine euripidea. Quest'ultima sembra individuabile nel fr. 683 Kannicht 2004 (= 912 M.) di Euripide, sofoi; de; sugkruvptousin50 oijkeiva" blavba", riconducibile ai perduti Sciri, l'opera che trattava un episodio marginale del ciclo troiano, la seduzione di Deidamia da parte di Achille, ospite in abiti femminili di Licomede di Sciro51.

I pochi frammenti disponibili del dramma non ci permettono di collocarlo con sicurezza in un determinato contesto. Secondo Aricò 1981, p. 227, questo verso era probabilmente riconducibile all'espressione dell'ira e del dolore da parte di Licomede per il vergognoso comportamento dell'ospite fedifrago; secondo Jouan-van Looy, invece, le parole erano pronunciate dal coro o dalla nutrice, ma nessuna delle due ipotesi è realmente convincente, anche se quella di Aricò è molto suggestiva; quel che è qui significativo è il colorito sapienziale, che aveva colpito per la sua particolarità già Stob. IV, 45, che lo aveva incluso insieme ad altri frammenti tragici e comici nella sezione relativa alla necessità di rivelare la felicità e di celare l'infelicità.

Proprio la presenza del verso in questa sezione dell'Anthologium ci fornisce forse un indizio sul percorso che può aver compiuto la massima, in quanto viene in questo modo fatta rientrare all'interno del ricco tema topico dell'opportunità di tacere i mali e di usare il silenzio come soluzione ai problemi.

Nella lontana eco medievale non vi è ovviamente alcuna traccia del contesto originario.

Mi pare interessante che il detto sia stato attribuito a Seneca come risultato della convinzione che un'affermazione di sapore filosofico possa essere stata espressa solamente dal sapiente per eccellenza dell'antichità.

Significativo mi sembra anche l'accostamento a Salomone, in cui si 44 In aggiunta alla bibliografia segnalo solo Ruhe 1969. 45 I frammenti del de moribus furono editi già da E. Woelfflin nel 1869 e compaiono poi in L. Annaei Senecae Ludus de morte Claudii, Epigrammata super exilio, De amissis libris testimonia veterum et fragmenta ex iis servata, Ad Gallionem de remediis fortuitorum liber, De paupertate excerpta e Senecae epistulis, De moribus lib., De formula honestae vitae lib., Epistolae Senecae ad Paulum apostulum et Pauli apostoli ad Senecam, Epitaphium Senecae, ed. F. Haase, Lipsiae 1902; su di essi cf. Lausberg 1989 e Munk Olsen 2000, pp. 179-180; sulla loro ricezione Brugnoli 2000, p. 246. 46 Cf. Kudla 20073 , p. 197.

La sententia nella forma quieta vita his qui meum tollunt et tuum compare ancora nell'edizione di Publilio Siro di Zell del 1829. Su Martino di Braga e Seneca cf. da ultimo Torre 2005. 47 «Viene chiamato saggio colui che meglio sa coprire la propria follia».

Il saggio stoico per definizione non può essere folle, in quanto saggio. 49 Ringrazio L. Battezzato per avermi aiutato nell'individuazione di questo luogo. 50 Blaydes 1894, p. 338 suggerisce senza particolari necessità di leggere ejpikruvptousin. 51 Kannicht 2004, 682-686; Lesky 1996, pp. 492-493 con bibliografia; Jouan-Van Looy 2002, VIII, 3, pp. 51-74; su questa tragedia cf. anche van Looy 1992, p. 289, con ulteriore bibliografia . 52 {Oti dei` ta;" me;n eujtuciva" profaivnein, ta;" de; ajtuciva" kruvptein.

Si tratta di una sezione molto breve, solo 4 pagine nell'edizione critica di Hense 1912 (993-996), che comprende frammenti tragici e un più lungo testo platonico; il verso è riportato anche nella raccolta proverbiale di Orione. 53 Su questo concetto, che ascrive al silenzio uno dei ruoli più importanti in relazione alla saggezza, sia sufficiente il rimando a Tosi 1997, pp. 9-17 (n°14-34).

La storia di questa derivazione è però ancora tutta da scrivere. 54 Walther 1983-1969, n° 27523 segnala anche un altro dictum, di contenuto non troppo dissimile: sapientia admixtum habet aliquid stultitiae, già individuato da E. Margalits nel Supplementum al Florilegium Proverbiorum universae Latinitatis, Budapest 1910, p. 233.

Una eco di questo detto sapienziale si trova nella Collatio IV de dono scientiae delle verifica il frequente procedimento di raddoppiamento degli esempi (uno di tradizione cristiana e uno del mondo pagano), per cui il filosofo romano assume il valore di auctoritas etica indiscussa, dall'altro colpisce la riflessione finale del poeta, «per qu'ieu deman s'entre-ls homes que son / N'a nulh savi que falha, oc o non», una considerazione tra l'amaro e il sarcastico sull'errore come cifra del vivere e dell'agire quotidiano55.

Interessante è anche la "cristianizzazione" del filosofo latino nella serie di Serveri da Girona, in cui è associato con san Matteo e san Bernardo, fenomeno a cui non è forse estranea la grande fortuna dell'epistolario pseudosenecano-paolino.

Storicamente ineccepibile e del tutto in linea con l'immaginario medievale è l'accostamento di Nerone e Seneca in Gavaudan: l'imperatore romano è infatti un modello negativo per eccellenza, crudele oltre ogni limite e la sua presenza nel componimento è persuasivamente spiegata da Saverio Guida sulla scorta di osservazioni di A. Graf e C. Pascal.

La figura dello scellerato imperatore doveva [...] tornare tanto più odiosa in un periodo - come quello in cui scriveva Gavaudan - nel quale le personalità più impegnate nell'opera di formazione, ammaestramento e guida politico-morale della classe signorile erano portate a vagheggiare e a proporre un tipo di principe buono, generoso e leale»56; nel passo l'immagine negativa dell'imperatore

-- anc Nero c'aussi Seneca / non ac un jorn son cor clar --

viene enfatizzata dalla posizione iniziale nella sezione e dall'uso metaforico dell'aggettivo "clar", che indica la sincerità e l'onestà di azione, secondo un uso frequente nei trovatori.

L'accostamento tra i due dovette essere facilitato anche dal contesto del passo, in cui si parla del legame tra il falso amore e i suoi seguaci, a cui si poteva ricondurre per analogia il rapporto di discepolato dell'imperatore dei confronti del filosofo.

La presenza di Seneca come modello letterario e scriptor sapiens atque ethicus per eccellenza dovette essere più agevole in un personaggio come Gavaudan, in contatto sia con gli ambienti clericali che con quelli scolastici del tempo e aperto agli influssi di opere e personaggi che mostrassero, come lui, sensibilità e preoccupazione per i problemi della morale e della società civile.

Curiosa è la menzione di Terenzio: di lui si mette in rilievo la saggezza (que savis fo), il che lo colloca all'interno del contesto dei personaggi esemplari; gli viene inoltre attribuito un dictum di sapore paremiografico (che ciascuna test'a son sen) che sembra possibile far risalire a quot capita tot sententiae, una versione abbastanza comune della sententia di Phorm.

quot homines tot sententiae.

Il tovpo" è però ancora più antico e risale addirittura a Omero e a un luogo del comico Filemone e compare nuovamente in Cicerone, fin. 1,15 (quot homines, tot sententiae ) Orazio, Sat. 2,1, 27-28 (quot capitum vivunt, totidem studiorum) e Ovidio, ars 1,759 (pectoribus mores tot sunt quot in orbe figurae).

Nonostante le osservazioni di Rossi 198862, una serie di ricerche avviate nella seconda metà del Novecento ha cominciato ad approfondire il problema del Fortleben di Virgilio nei trovatori, pur essendo ancora ben lontana dalla soluzione del problema.

Già Roncaglia aveva raccolto e analizzato persuasivamente il materiale qui citato e le sua posizioni paiono del tutto condivisibili e Collationes de septem donis Spiritus Sancti di Bonaventura da Bagnoregio: alio modo dicitur scientia gratuita scientia Sanctorum, quia nihil vitiositatis habet admixtum,

D'altronde, la presenza di Seneca come autorità sapienziale è garantita da testi come i Dits de philosophes e i Mettra Ceneche: cf. nota 23. 56 Guida 1979, 390.

La sequenza, nella traduzione di Guida 1979, suona (falso amore) procura sempre tormenti ai suoi seguaci, giovani, vecchi e anziani. Nerone, che fece uccidere Seneca, non ebbe mai nemmeno per un giorno il suo cuore sincero».

Si noti che aussi (lett. uccise) è reso con il causativo nella traduzione, a sottolineare la responsabilità diretta dell'imperatore nel suicidio del filosofo. 58 Cf. Goddard, Guida. Cf. Routledge, molto sommario su questo punto.

Per ulteriori notizie cf. Tosi.

L'apparentemente esigua, per non dire evanescente, presenza dell'opera virgiliana nella poesia trovatoresca d'espressione occitanica è singolarmente sottolineata da un inquietante silenzio della critica.

Questo contributo si occupa non solo dei poeti che conoscono il nome dell'autore antico, ma anche di alcuni riferimenti alla leggenda di Enea e ad eventuali riscontri testuali con i poemi virgiliani. sono ancora state approfondite da Rossi 1988, Rossi 1989 e Ziolkowski-Putnam 2008, che rappresenta per ora la sintesi più completa ed esauriente sulla fortuna del poeta in tutte le sue forme fino al 1500. Virgilio è soprattutto rappresentato "comparettianamente" come mago ("encantayre") e come modello di sapienza64, dall'"engeinz" straordinario, accostato a Omero, Porfirio e Salomone da Arnaut de Maroill, sulla scorta probabilmente sia della parabola evangelica dei talenti sia del testo francese Roman de Thèbes.

Lo stesso tipo di accostamento si trova in Serveri de Girona, in cui la sequenza Omero, Porfirio, Virgilio è accresciuta da Salomone, Davide, Platone, Lot e Salomone, da un lato con una forte mescolanza di esempi classici e cristiani, dall'altro con un tono «sottilmente ironico» legato al contesto misogino

le sue opere non sono utilizzare direttamente, ma si fa riferimento a un patrimonio leggendario ricchissimo, di cui sono esempi alcuni racconti molto fantasiosi.

In Guiraut de Calanso la fuga del poeta dalla prigione tramite un prodigio realizzato con un bacile d'acqua68, a cui si associano riferimenti al misterioso hortus Vergilii, il "vergier", un giardino incantato di cui parlano Alessandro di Neckam (vissuto fra il XII e il XIII secolo) e Gervasio di Tillbury (attivo nel XII secolo), al modellino della città di Napoli contenuto in un'ampolla di vetro e destinato a proteggerla da ogni male, secondo quanto riferisce Corrado di Querfurt, cancelliere di Arrigo VII vissuto nella seconda metà del XII secolo, (il "pesquier", la "brocca") e, infine, all'estinzione del fuoco nella città di Roma a causa di una beffa a lui rivolta dalla figlia dell'imperatore, una variazione sul tema della "vendetta di Virgilio".

In Guillem Augier Novella si fa cenno al dono al poeta di tutto il litorale da Napoli fino alla Calabria, come premio per aver composto il distico Nocte pluit tota, redeunt spectacula mane / commune imperium cum Iove, Caesar, agis, che compare con sicurezza a partire dal VI-VII secolo e che non è naturalmente virgiliano; la notizia si trova già nella Ystoria Rogerii regis Sicilie Calabrie atque Apulie di Alessandro di Telese: Vergilius, maximus poetarum, apud Octavianum imperatorem tantum promeruit ut pro duobus quos ad laudem sui ediderat versibus, Neapolis civitatis, simulque Calabriae dominatus caducam ab eo receperit retributionem

Ancora in Serveri de Girona75 434aVI, 4 v. 4111, una raccolta di proverbi e sentenze, Virgilio il mago «volle andare a guisa di bestia, così come l'imperatore poré vedere: tanto seppe fare sua 63 Su Virgilio mago, oltre ai testi segnalati in n. 24, cf. Mora  e Ziolkowski-Putnam 64 «Il nome del poeta nei testi occitanici non è mai legato all'Eneide (Rossi).

Qui sages est nel doit celer, / ainz doit por ce son senz monstrer, / que quant il ert du siecle alez / tous jorz en soit mes ramembrez. / Se danz Omers et danz Platons / et Virgiles et Quicerons / leur sapïence celissant / ja n'en fust mes parlé avant» (vv. 1-8): cf. Rossi 1988, p. 330. 66 Rossi 1988, ibidem.

L'insieme delle leggende virgiliane è raccolto da Ziolkowski-Putnam.

Les allusions que Guiraut rattache au nom de Virgile renvoient en effet - comme déjà Adolf Birch-Hirschfeld l'avait reconnu [Ueber die den provenzalischen Troubadours des XII. und XIII. Jahrhunderts bekannten Epischen Stoffe, Halle 1878, 28-29,  à l'épisode légendaire où, pour s'evader de la prison, Virgile se fait apporter un baquet d'eau, dans lequel il disparait après d'avoir prononcé une formule magique» (Roncaglia).

L'episodio era già stato studiato anche da Comparetti 1872, 2, 68-69. 69 Ziolkowski-Putnam 2008, pp. 855-857. 70 Comparetti 1872, 2, pp. 68-70; Ziolkowski- Putnam 2008, pp. 852-853.

Non profuit civibus illis civitatis eiusdem imago in ampulla vitrea magica arte ab eodem Vergilio inclusa, arctissimum habente orificium, in cuius integritate tantam habebant fiduciam ut eadem ampulla integra permanente nullum pati posse civitas detrimentum (Comparetti 1872, 2, pp. 185-187); cf. anche Ziolkowski-Putnam 2008, pp. 848- 849. 72

E del feuc que saup escantir». 73 La leggenda - su cui Ziolkowski-Putnam 2008, pp. 874-890 (pp. 875-876 su Guiraut) - si trova attestata a partire dal XII secolo e descrive l'ira di Virgilio che, innamorato della figlia dell'imperatore e da lei rifiutato, spegne tutti i fuochi della città di Roma. In Guiraut, però, la storia è appena accennata. 74 Cf. Comparetti, Roncaglia, Calzolari, Rossi.

Va probabilmente accettata l'identificazione di Guillem de Cervera, autore di questi Proverbis, con Cerveri da Girona: cf. Riquer 1947. figlia» viene sviluppata la leggenda della beffa della figlia dell'imperatore, che si aggancia a quella del "filosofo cavalcato", normalmente attribuita ad Aristotele76 . Un unico passo, che compare in Serveri de Girona, sembrerebbe offire almeno la traccia di un riferimento alle Georgiche, il che costituirebbe un unicum fra i trovatori, ma ancora una volta molto opportunamente Roncaglia ha osservato come esso in realtà derivi da un luogo dei Disticha Catonis, telluris si forte velis cognoscere cultus, Vergilium legito78.

 Qui al patrimonio leggendario si accosta il sapere mediato da una tradizione paremiografica. In sintesi, l'analisi dei passi in cui compare nominantivamente Virgilio sembra confermare le osservazioni di Rossi 1988 e Rossi 1989 sulla mancata conoscenza diretta delle opere del poeta mantovano da parte dei trovatori79 .

Un altro spunto interessante è costituito - con tutte le cautele del caso - dalle motivazioni delle mancate citazioni di altri autori classici. Ancora una volta, per studiare il problema, bisogna tenere conto sia della diffusione dei manoscritti, che costituisce un riflesso della conoscenza degli scrittori antichi, sia della formazione culturale dei trovatori, che possono essersi trovati in contatto con ambienti in cui non si conoscevano alcuni scrittori antichi.


Se facciamo riferimento a Munk Olsen 1991, pp. 118-122, constatiamo come Cicerone, Orazio, Virgilio, Lucano, Seneca filosofo e lo pseudo Seneca dell'epistolario con S. Paolo, lo Stazio della Tebaide e Terenzio fossero gli autori più presenti nei codici.

Sorprende perciò nei trovatori l'assenza di Lucano, la cui Pharsalia risulta presente in bene 113 codici del XII secolo80; Lucano, d'altronde, non è né poeta d'amore né fonte di exempla positivi, a parte - forse - Catone Uticense.

Queste brevi considerazioni non esaustive vorrebbero aprire la strada verso un approfondimento dell'interpretazione del rapporto dei trovatori con gli autori classici, che non appare connotato da sostanziale originalità (gli autori sembrano muoversi sulla tradizione esemplaristica e nell'orizzonte sapienziale), ma è declinato secondo alcune peculiarità dovute al genere letterario (l'attenzione al poeta d'amore, il riferimento a dicta di saggezza connessi con l'esperienza amorosa) o alla conoscenza di fonti che mediano il testo classico a volte meno scontati, come nel caso del Virgilio georgico.

Rossi segnala una reminiscenza leggendaria anche nei versi precedenti, nei quali, però, non compare il nome del poeta.

Ceyl per cui fo.l portals de Roma derocats fo entre ls. finestrals oer l'amfanta panjats.

Colui ad opera del quale fu distrutta la porta di Roma, fu sospeso tra le finestre della fanciulla.

Cf. anche Ziolkowski/Putnam,

Si·l bo libre aprens de Vergili, sabras tots los coltivamens de terra, e·y veyras.

Interpretazione condivisa da Rossi.

Se ad essi aggiungiamo anche i luoghi in cui si fa riferimento ai ai personggi virgiliani e quelli che sembrano in ualche modo riecheggiare l'opera del poeta (anche qui attraverso fonti intermedie), si constatano, secondo Rossi, un certo interesse per le Bucoliche, soprattutto nel canzoniere di Marcabru, ma senza riferimenti al nome del poeta, e una notevole contaminazione ovidiana. Lucano compare nei Dits de philosophes: cf. n. 23.

Si ricordi come la ricostruzione della tradizione di Lucano dopo il IX secolo costituisca un compito che la filologia classica deve ancora svolgere.

Sulla lettura di Seneca fino al XIII secolo cf. l'ampio Brugnoli.

Su Catone come personaggio, come è noto, in tutto il Medioevo vi furono confusioni e moltiplicazioni della figura catoniana, grazie anche alla fortuna dei Disticha Catonis: cf. Navone

Credo perciò che, da qui, si possa ripartire per approfondire l'indagine, soprattutto nella direzione dell'esame della biblioteca dei trovatori.


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