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Wednesday, February 17, 2016

IL TROVATORE LIGURE -- fin'amor

Speranza

La prima lirica moderna in lingua romanza nacque nelle corti feudali. 

Si tratta della poesia in la "lingua d’oco". 

Essa subisce certamente l’influsso della lirica medio-latina ma, con ogni probabilità, la sua matrice è da identificare nell’ambito clericale e liturgico.

Infatti, il termine "trovatore" deriva dal verbo trobare (‘comporre’) <-- font="" tropus.="">

Si tratta di una composizione nuova, “trovata” e aggiunta a un canto liturgico mediante l’applicazione di parole a una melodia già esistente.

I trovatori operarono tra l’XI e il XIII secolo.

Questa poesia riprende le tematiche già attraversate in parte dal romanzo.

In primo luogo l’amor cortese, espressione più recente, o la fin’amor, espressione risalente agli stessi trovatori. 

Pare che l’amor cortese sia debitore al trattato De Amore di Andrea Cappellano (metà XII secolo) e alla poesia amorosa di Ovidio. 

In realtà, secondo lo studioso Erich Köhler, le origini sarebbero da ricercare nelle condizioni socioeconomiche della piccola nobiltà. 

Il vassallo sta al suo signore come il poeta sta alla donna amata: una sorta di rapporto di fedeltà vassallatica in termini amorosi. 

Midons (mea domina, la donna) rappresenta un «trasferimento nel rapporto amoroso del vincolo di soggezione e fedeltà assoluta che nella società univa il vassallo al suo signore»

Questo tipo di amore ha delle caratteristiche ben precise che vale la pena elencare.

La donna cantata dal poeta è la più bella di tutte le creature, sovente è Dio stesso a meravigliarsi della sua bellezza.  

La donna è socialmente superiore all’amante ed è sempre già sposata.

L’amante, ossia il poeta, deve sperare solo che la donna accetti il suo corteggiamento.

Spingersi oltre, infatti, contravverrebbe alle regole di cortesia, ma sono assai frequenti i casi in cui il poeta azzarda richieste più intime alla dama.  

L’identità della donna deve restare celata, motivo per il quale il poeta ricorre ad un senhal (pseudonimo) per indicarla.

Bisogna evitare di ascoltare i lusingatori (lauzengiers), ossia coloro che parlano male solo per invidia.  

La sofferenza provocata da amore è spesso ben accolta perché rappresenta un mezzo per raffinarsi ed essere più degni di accogliere il sentimento.
Contrariamente all’ipotesi di Köhler esposta sopra, spesso i trovatori appartengono alla più alta nobiltà, su tutti il primo poeta trobadorico Guglielmo IX, duca d’Aquitania e VII conte di Poitiers. 

La produzione di questo poeta è caratterizzata da liriche antitetiche.

Ve ne sono di più vicine alla lirica cortese tradizionale, mentre altre cantano l’amore sensuale (Farai un vers, pas mi sonelh) o la burla (Farai un vers de dreit nien).
L’amore, sebbene carico di sofferenze, è inteso come perfezionamento della persona e i versi di Bernart de Ventadorn ce lo confermano:
No es meravelha s’eu chan
melhs de nul autre chantador,
que plus me tra ̇l cors vas amor
e melhs sui faihz a so coman
Non c’è da meravigliarsi se canto
meglio di qualunque altro trovatore,
perché più il cuore mi trascina verso amore
e meglio sono disposto a farmi comandare da lui.
(Bernart de Ventadorn, ed. Appel 1915 pp. 186-93 in P. Gresti, Antologia delle letterature romanze del Medioevo, p. 176)
Dal punto di vista tecnico e poetico, la poesia trobadorica può essere divisa in due “scuole”: il poetare semplice (trobar leu) e il poetare difficile (trobar clus). 

Il primo rappresentava una poesia più immediata (mai banale) sia dal punto di vista tecnico sia da quello contenutistico.

Il secondo era costituito da parole rare, rime difficili e concetti complessi con allusioni spesso incomprensibili. 

Questo dimostra che i trovatori non erano dei semplici giullari, ma dei veri e propri professionisti.

Essi maneggiavano la lingua e le tecniche poetico-musicali con grande maestria e traevano di che vivere da questo mestiere. 

Il trovatore non restava nell’anonimato e spesso firmava le proprie opere, anche in maniera singolare (sotto forma di acrostici o nella tornada). 

Con ogni probabilità, i trovatori avevano avuto una formazione presso scuole clericali, le uniche in cui avrebbero potuto studiare e apprendere la letteratura e le tecniche.

I trovatori, inoltre, erano dei veri e propri musicisti, in quanto essi scrivevano anche la melodia per le poesie e quest’ultime venivano recitate sempre con l’accompagnamento musicale
Dal Sud della Francia la poesia trobadorica si diffuse nelle corti di tutta Europa.

Nella Francia del Nord, in Spagna, in Germania e anche in Italia. 

In modo particolare alla corte di Federico II in Sicilia. 

Quest’ultimo fu un grande estimatore della cultura e si fece circondare da scrittori, scienziati ed eruditi. 

Nella sua magna curia, circolava una poesia scritta in siciliano illustre, una lingua caratterizzata dai tratti regionali, ma scevra delle peculiarità marcatamente dialettali. 

Una sorta di koinè sovra-regionale, agevolmente comprensibile da tutti. 

Questa lingua si avvaleva di latinismi e provenzalismi per motivi di prestigio e a suggellare il legame esistente con la poesia precedente. 

La poesia siciliana è sicuramente debitrice alla poesia provenzale, anche se nessun trovatore frequentò mai la corte di Federico. 

E’ vero che le corti medievali erano itineranti e certamente qualche poeta siciliano avrà potuto assistere a qualche spettacolo, ma con ogni probabilità alla corte di Federico vi era qualche codice che conteneva liriche trobadoriche e che ha potuto in qualche modo influenzare la scuola siciliana.
La poesia trobadorica non ha però come unico argomento l’amore.

Infatti, i trovatori esprimono anche ira, attacchi, rimproveri, polemiche verso la politica e verso la poesia stessa, attraverso il genere del sirventese: una composizione che si appoggia a una melodia già esistente. 

Si tratta di un testo di estrema attualità, spesso uscente in concomitanza con l’evento in esso narrato, con la pretesa di essere divulgato e memorizzato (motivo per il quale si serve di una melodia già esistente: più rapida e più pratica da tenere a mente). 

I sirventesi hanno diverse motivazioni alla base (morale, personale, politica etc..), ma è soprattutto la Crociata Albigese ad aver dato un enorme impulso alla redazione di sirventesi (v. Guilhem Figueira, D’un sirventes far)
La crociata contro gli albigesi fu condotta tra il 1209 e il 1229 contro i gruppi di eretici provenienti dai Balcani che si stanziarono in Francia nella regione di Albi (da cui il nome albigesi). 

Fu indetta da papa Clemente III per estirpare l'eresia catara dai territori della Linguadoca. 

Dopo la sconfitta della prima campagna militare promossa da Papa Lucio III e i vani tentativi di convertire gli albigesi con l'aiuto dei frati domenicani, Papa Innocenzo III prese spunto dall'uccisione di un legato pontificio avvenuta nel 1208 per invocare una nuova crociata contro di loro.
Sotto la guida del legato papale e del comandante Simon de Montfort (che morirà nel 1218), i crociati - quasi tutti cavalieri provenienti dal centro e dal Sud della Francia - sterminarono la maggior parte degli albigesi e si impossessarono delle loro terre.
La tradizione narra che il legato pontificio, nel decidere chi delle persone rifugiate in una chiesa dovesse essere riconosciuto eretico e quindi bruciato sul rogo, ordinò di uccidere tutti indiscriminatamente, dicendo: "Dio riconoscerà i suoi". 

Nel 1209 conquistarono Albi e Béziers uccidendo 20.000 persone. 

I massacri tra gli albigesi acquistarono tali proporzioni che Innocenzo III si adoperò senza successo per mitigare gli scontri. 

Le lotte si inasprirono fino a diventare un conflitto politico per conquistare il potere sul territorio della Linguadoca.
Dalla parte degli albigesi si schierò il re d'Aragona, mentre la Francia, con Luigi VIII e Luigi IX, appoggiò i crociati assicurandosi in questo modo il dominio del territorio, che fu assoggettato definitivamente nel 1271. 

Nel 1229 il conte Raimondo VII di Tolosa, uno dei comandanti degli albigesi, dovette accettare la disfatta di questi ultimi, sancita dal trattato di Meaux (dal nome della località presso Parigi dove venne stipulato). 

La conquista di Montsegur e le esecuzioni in massa sul rogo del 16 marzo 1244 posero fine all'ultimo tentativo di ribellione da parte degli albigesi. 

Piccoli gruppi sopravvissero in aree isolate e furono perseguitati dall'Inquisizione sino alla fine del XIV secolo. 

In Italia nel 1277 il movimento fu decapitato. 

Furono catturati a Sirmione circa 170 fra Vescovi, preti e perfetti Catari che furono imprigionati e posti al rogo a Verona. 

L'azione fu fatta dagli Scaligeri in concerto con Corradino di Svevia. 

I Veronesi, ghibellini, assediarono e catturarono i Catari, anche loro ghibellini, al fine di far ritirare la scomunica del 1267 da parte del papa Clemente IV preoccupato dell'alleanza fra Scaligeri e Corradino.
In un sol colpo scomunicò Scaligeri, Corradino di Svevia e tutti i cittadini veronesi. 

La brutalità del genocidio non lasciò indifferenti i Templari (ufficialmente neutrali) i quali, nelle precettorie presenti sul territorio, offrirono rifugio a molti catari, difendendoli anche
con le armi ed accogliendone molti tra le loro fila.


BIBLIOGRAFIA
Martín de Riquer, Leggere i trovatori, eum, letteratura, storia 2010.
I trovatori e la crociata contro gli Albigesi, a cura di Francesco Zambon, Luni editrice
Paolo Gresti, Antologia delle letterature romanze del Medioevo, Pàtron editore, Bologna 2011.
Guglielmo IX, Vers, a cura di Mario Eusebi, Luni editore.
Lucia Lazzerini, Letteratura medievale in lingua d’oc, Mucchi, Modena 2010.
Langella, Gresti, Frare, Motta, Letteratura italiana. Pearson 2011.

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