1. Bisognerebbe oggi parlare piuttosto di metafisica del male comune… Siamo infatti
dinanzi ad un certo tramonto del politico, almeno nell’Occidente post-industriale: lo siamo
nel senso che la società civile, negli ultimi decenni, ha assorbito in sé ciò che una volta era,
almeno in parte, contenuto della sfera politica; ma lo siamo soprattutto nel senso che il
compito politico sembra troppo difficile da eseguire ed è in effetti non di rado tradito da
coloro che ne sono in prima battuta responsabili. Ad una sorta di processo di disseminazio-
ne di progettualità creativa in seno alla società civile sembra corrispondere una sorta di di-
scredito e di scetticismo quanto alla sfera politica. La sfera politica sembra non riuscire più
ad occuparsi della cosa comune ed essere diventata, piuttosto, il luogo di una distribuzione
corporativa delle risorse. Quando non si giunge, come ad esempio in Italia (ma certo non
soltanto in Italia), a forme molto gravi di corruzione e di spreco. Il cittadino medio tende
perciò a ritrarsi dalla politica o semplicemente cerca di profittarne.
2. ��������������������������������������������������������������������������������������������� Di fronte all’ingestibilità della progettualità politica, e pure di fronte al discredito del-
la politica, si capisce perché vi sia un generale movimento di conversione dai fini ai fondamenti
della comune convivenza. Ma questa conversione a me pare, in realtà, non tanto una con-
versione dalla progettualità politica all’amministrazione della società civile, quanto una
qualche conversione dalla politica all’etica.
3. Ci si è convertiti all’etica, quasi per esaurimento della sfera politica: questo ho appena
suggerito. Ma l’etica non pare offrire uno spettacolo diverso dalla politica, nonostante oggi
la si chiami fuori, l’etica, per dirimere, quasi giudice supremo, i conflitti tra il politico, il so-
ciale e il privato; anche l’etica, infatti, ha i suoi problemi, né suscita consensi facili, quando
si va a determinare caso per caso che cosa può dirsi garantito dall’etica. Sono note ad es. le
polemiche sulla bioetica, tanto per citare uno dei temi oggi forse più rilevanti, anche per le
sue immediate ripercussioni in ambito politico. Dobbiamo dunque mettere sul conto della
nostra quotidianità una eclisse anche dell’accordo sulle convinzioni etiche? Così pare. E il
multiculturalismo spinge nello stesso senso. Fino a qualche decennio fa la trasgressione
prendeva di mira la legge politica (si ricordi la temperie sessantottina); oggi quel tipo di
trasgressione sembra rientrata e sembra, appunto, presa di mira anche l’etica. Cito solo un
sintomo, ma vistoso: ciò che si discute con sempre maggiore frequenza è la possibilità di
stabilire regole per tutti che siano regole puramente convenzionali o formalistiche, anche
sul piano “etico”. L’area anglosassone, più sperimentata in fatto di multiculturalismo, ha
avanzato non poche proposte in tal senso. Ma bisogna pur dire che ogni formalismo con-
venzionalistico contiene in sé il difetto radicale di valere tanto per le cose buone quanto per
42
Carmelo Vigna
quelle malvagie (anche una organizzazione mafiosa rispetta una serie di convenzioni...),
sicché serve solo a scansare il problema fondamentale, anzi che a risolverlo. Ed è qui che
il bisogno di stare al sostanziale tende alla compensazione dell’etica, lmeno nel senso di
ricorrere ad elementi o frammenti di rimandi all’etica, per ottenere coesione e consenso.
Una certa fiducia nell’universale rispetto dell’essere umano e un certo rimando ad una fede
paiono non di rado un collante più potente di qualsiasi considerazione ideologica, visto
anche il discredito su larga scala patito dalle ideologie novecentesche.
4. Eppure, dell’etica e della politica, in realtà, nessuno può fare a meno. L’etica e la
politica, come tutte le cose “necessarie” per la vita degli uomini, si raccomandano da sole.
Come tutte le cose “necessarie”, l’etica e la politica ricompaiono e persino dominano anche
là dove le si vuole a tutti i costi esorcizzare. Solo che tutte queste cose prendono vesti di-
verse da quelle di una volta: tendono a frantumarsi in molti rivoli o assumono andamenti
carsici. Per esempio, l’etica e la politica diventano oggi cura del mondo della natura o
riscatto del femminile, lotta per l’integrazione delle etnie o sostegno per gli emigranti e gli
emarginati. Comunque, quando e a misura che appaiono onorate, queste dimensioni del
senso della vita umana sembrano rendere possibile la convivenza, perché esse si presenta-
no come custodi di ciò che accomuna gli esseri umani nel profondo. Più di quanto accada
alla semplice fattualità dell’ethos. L’etica e la politica sembrano qualcosa di infinitamente
più prezioso dell’ethos. Sono in effetti il giudizio sull’ethos a partire dalla verità del desi-
derio umano, se intendiamo per ethos ciò che appare come la realizzazione storico-fattuale
di tale desiderio.
5. Abbiamo evocato la “verità” a proposito del desiderio umano. In realtà, l’etica e la
politica, sono solitamente intese come il luogo del riferimento all’”oggettività” normativa.
Ma l’”oggettività” qui che cos’è, se non la “verità” di quel che il desiderio del singolo o
della collettività desidera? Una certa eclisse dell’etica e della politica, in particolare, sem-
bra l’eclisse della consapevolezza di questo legame originario con la verità dell’esistenza.
E allora? Come far fronte a questa “sfida” paradossale del nostro tempo, che vorrebbe fare
a meno dell’universale verità, proprio mentre la invoca per governare la frammentazione
delle esperienze dei singoli e dei molti? Semplificando non poco, io azzarderei questo tipo
di risposta. Un codice universale di natura semplicemente teorica, cioè veritativa, sembra
diventato di fatto improponibile. Questo non significa che sia impossibile. Significa sempli-
cemente che la cultura dominante, incline al relativismo e allo scetticismo, non lo cerca e
non lo vuole. In fondo, ne dispera. Eppure, tenta di rimediare a questo fallimento epocale
mediante la ricerca di un codice pratico. È degna di rilievo la circostanza che gli “ultimi fuo-
chi” della “fondazione” di qualcosa siano, nel pensiero filosofico occidentale, di tipo etico-
pratico (cfr. ad es. le proposte di Apel). Ma anche la fondazione dell’eticità, purtroppo, è…
un che di teorico. Perciò non funziona più di tanto. Ossia: anche l’etica e la filosofia della
politica dividono. Sembra che unisca, piuttosto, la pratica tout court, forse perché nella
pratica ci si deve necessariamente determinare così e così. La pratica è “reale”, si pensa, o
è almeno la riconduzione del pensiero alla realtà (laddove la teoria è la riconduzione della
realtà al pensiero e quindi sembra offrire un margine maggiore alla variazione soggettiva).
43
Per una metafisica del bene comune
Ma non ci si illude anche da questa parte? È possibile. E tuttavia la pratica, come alter-
nativo terreno di intesa, sembra più efficace della teoria, perché si orienta al reale, e il reale
tendenzialmente unifica, se e quando ci è dinanzi (almeno in qualche modo), più di quanto non
accada alla teoria, che soffre degli equivoci insuperabili della comunicazione.
6. ����������������������������������������������������������������������������� Ma una maggiore approssimazione al nostro obbiettivo richiede una manovra ag-
giuntiva. Noi dobbiamo cercare ciò in cui gli esseri umani possono praticamente convenire,
ossia ciò che li può praticamente accomunare. Orbene, ciò che tutti desideriamo è almeno
questo: d’essere riconosciuti e onorati nella nostra umana soggettività. Detto in altri ter-
mini, ogni soggettività umana chiede d’essere riconosciuta come un orizzonte di senso
inoltrepassabile, cioè intenzionalmente infinito, perché tale essa è per via del logos che la
informa. Ma le soggettività sono molte. E come è possibile che più orizzonti intenzional-
mente infiniti coesistano? Non si riesce facilmente a capire proprio questo. Sulle prime, più
infinità, per quanto semplicemente intenzionali, sembrano incompossibili. L’una sembra
togliere all’altra proprio tale carattere (Sartre). Di qui l’impulso al conflitto e quindi alla po-
tenziale esterminazione dell’altro. E in effetti l’esito è inevitabile, se ogni soggettività viene
innanzi esigendo, anzitutto, dall’altra il riconoscimento della propria trascendentalità. Cioè
imponendolo. L’altra, per lo più, farà lo stesso con la prima. Così entrambe le soggettività
finiranno per lottare per la vita e per la morte. Non così, se ogni soggetto, anziché esigere
d’essere riconosciuto nella sua trascendentalità, viene innanzi offrendo, anzitutto, il proprio
riconoscimento della trascendentalità dell’altro. Non così, se l’altro, riconosciuto, viene in-
nanzi riconoscendo a sua volta la trascendentalità del primo. Poiché la trascendentalità in
tal caso non è predata, ma reciprocamente offerta, accade che ognuna delle due coscienze
sia riconosciuta dall’altra. E poiché ognuna liberamente riconosce, resta nella propria tra-
scendentalità anche quando lascia essere l’altra allo ste4sso modo. Due trascendentalità,
così chiasmaticamente incrociate, non sono più incompossibili, anzi si sostengono e si ali-
mentano a vicenda. L’inciampo dell’ostilità reciproca è qui tolto in via di principio.
7. �������������������������������������������������������������������������������������� Il primo codice universale e il più efficace è dunque il principio del reciproco rico-
noscimento. In effetti, il principio del reciproco riconoscimento è il codice universale più
praticabile: un gesto di riconoscimento può esser fatto da chiunque lo voglia.
8. ����������������������������������������������������������������������������������� La sequenza che ho sinora esposto si può riassumere così: possiamo tornare alla po-
litica solo se transitiamo per un’etica del riconoscimento reciproco. Ma il riconoscimento
reciproco implica inevitabilmente trattare ogni essere umano come fine in sé. Cioè come
qualcosa di inoltrepassabile. Cioè come libero dall’ambiguità delle relazioni di dominio.
La vita umana non può che abitare questo luogo, se andiamo alla sua regola secondo ve-
rità. Ma come in concreto si struttura la salvaguardia della vita umana nella società civile?
Credo che si possa agevolmente rispondere a questa domanda riproponendo nel giusto
ordine tre grandi convinzioni che da tempo immemorabile gli esseri umani hanno tentato
in un modo o nell’altro di onorare: la libertà del gesto, che fa dell’azione una azione umana
nella sua dignità, la mira del bene, che riscatta la libertà da possibili ambiguità, la giustizia
del gesto che fa della mira del bene una questione non solo della vita del singolo, ma an-
44
Carmelo Vigna
che della vita di tutti. Vediamo partitamente queste tre convinzioni, che rendono possibile
l’umana convivenza come società civile e che devono essere protette dall’umana convivenza
come società politica.
9. Il primo breve discorso che vorrei fare è quello sul bene1, perché sono convinto del
fatto che dal bene cominci propriamente la possibilità di una determinazione equilibrata
delle altre due parole: la libertà e la giustizia e perché il bene custodisce in sommo grado
la natura sacro-santa della vita umana. La vulgata precedenza della libertà sul bene e sulla
giustizia è in realtà un capovolgimento della vera sequenza teorica. Dobbiamo tale errata
precedenza alla modernità. Essa compare con solennità epocale per la prima volta nelle
parole d’ordine della rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, fraternità. Da allora in poi
ha fatto, purtroppo, molta strada. Dico “purtroppo”, perché sono dell’avviso che, comin-
ciando dalla libertà si onora un essere umano, ma solo cominciando dal bene lo si orienta
in modo conveniente nei suoi propositi di vita, singolare o collettiva. E un essere umano è
libero soprattutto per questo, per confrontarsi col bene. Il bene è infatti il fine d’ogni azione
e nella vita pratica tutto prende senso dal fine.
10. ��������������������������������������������������������������������������������� Ma lasciamo i discorsi formali e veniamo a qualche considerazione un po’ più con-
tenutistica. Chiediamoci, anzitutto, perché nel corso della modernità il bene è stato gra-
dualmente messo da parte (il grande discrimine è il Kant della Critica della ragion pratica).
La risposta a questo interrogativo è nota ai metafisici – solo la richiamo – ed è duplice.
Prima parte: il tema del bene è stato accantonato, perché strettamente legato all’ontologia
metafisica, da Kant in poi (v. Critica della ragion pura), per comune convinzione, considerata
impossibile. L’ontologia metafisica, veicolata, specialmente da Wolff in avanti, come un
sapere sistematico, con l’aura dell’assolutezza, era simbolicamente accostata, in termini
politici, a qualcosa come la monarchia assoluta e/o il papato. Ma questo, in molti spiriti
liberi, significava inevitabilmente dispotismo, autoritarismo, inquisizione e simili. La mo-
dernità è rappresentabile, da questo punto di vista, come la rivolta della soggettività contro
un simile apparato, in nome d’un nuovo fondamento di senso: la soggettività medesima,
cui appartiene essenzialmente l’attributo trascendentale della libertà. Il cogito cartesiano
inaugura questa stagione, anche se l’emergenza della figura della libertà è da addebitare
alla stagione illuministica.
11. Ma vediamo l’altra parte. Nella modernità il riferimento al divino, cui il bene era da
molti secoli, in ultima istanza, rapportato, si attenua fortemente e gradualmente; dall’Uma-
nesimo in avanti, viene innanzi, e anche occupa per intero lo scenario, l’essere umano con
il suo mondo. Il contenuto del bene diventa proprio questo. Non è, il bene, sparito dalla
circolazione delle idee: ha solo mutato nome. E del resto non poteva sparire, perché fa parte
del modo in cui necessariamente viviamo. Dunque, il bene della soggettività moderna in rivol-
ta è la soggettività medesima: in versione singolare o in versione comunitaria. Troviamo l’espres-
sione più netta della rotazione di senso nella prima e nella terza parola della sequenza della
1 Mi permetto rimandare al vol. da me curato, AA. Vari, La libertà del bene, Vita e Pensiero, Milano 1998 e spec. al
mio saggio su Bene e male. Una riconsiderazione, ivi, pp. 55-80.
45
Per una metafisica del bene comune
rivoluzione francese: la “libertà” e la “fraternità”. A seconda che si propenda per il primato
dell’una o dell’altra parola, si avrà nel seguito il liberalismo o il collettivismo. Da allora, a
mio avviso, non è cambiato molto su questo terreno. Tutti i pensatori etico-politici moderni
e molti dei pensatori contemporanei si schierano tendenzialmente da una parte o dall’altra.
12. Direi che questa “vulgata” ha per ora pochi avversari. Ma a breve le cose potrebbero
cambiare. Timidamente si fa innanzi presso alcuni post-moderni (ad es. Foucault) e presso
alcuni esponenti radicali del pensiero verde (v. Bateson, ad es.) l’oltrepassamento della cen-
tralità del soggetto e dei soggetti, in direzione di un paganesimo cosmicizzante. Nietzsche
è il piccolo padre anche di questa nuova ondata. La cosa era forse in certo modo prevedibile.
Una volta eliminato il Dio della metafisica e della religione, il piccone della critica si è anda-
to esercitando, anzi si è andato accanendo sulla portata trascendentale della soggettività, e
ne ha decretato la fine. E allora, cosa può diventare riferimento ultimo del senso, messo da
parte Dio e l’uomo, se non il cosmo, che è poi la terza della grandi parole della metafisica,
ancora presenti nella critica kantiana come indicazioni sistematiche ideali?
13. Questa recente direzione di marcia lavora sulla fine della soggettività trascendentale
forse anche a partire da un certo fascino indotto dalla vita materiale: la durezza delle di-
namiche economiche, apparentemente incontrollabili; il trionfo della tecnologia, dilatabile,
si opina, senza limiti; il fascino della biosfera, che fa sognare una sorta di unità mistica
quanto alle forme di vita, compresa la vita umana; la rete mediatica che influisce poten-
temente sui costumi e produce condotte eteronome di massa, l’enorme flusso migratorio,
che relativizza tutto ciò che la soggettività singola ha costruito come propria storia. La
soggettività moderna, insomma, ne sembra schiacciata. Marx pensava ancora di mettere
innanzi la grandezza della specie umana per governare la storia. I contemporanei si sono
arresi, quando anche questa variante consolatoria è fallita. Le voci che fanno dell’umanità
un giocattolo in balia di mani più forti, come sono quelle della tecnologia o quelle delle
forze naturali, sono sempre più ascoltate.
14. ������������������������������������������������������������������������������������� Personalmente, resto scettico di fronte ai tentativi di oltrepassamento dell’orizzon-
te della soggettività in una neutra oggettività. Neutra, poi, non proprio, perché si colora
subito di irrazionalità, arbitrarietà, crudeltà e cinismo. Nietzsche ancora una volta ha già
predetto l’essenziale, cioè ha visto in anticipo la deriva di ciò che segue alla “morte di Dio”.
Egli voleva reagire a questa deriva, con un rinnovato umanesimo. E noi siamo forse ancora
al punto in cui egli si era fermato; dobbiamo, cioè, capire che fare quanto al nostro destino
di umani, ora che cominciamo a nutrire seri dubbi sulla capacità nostra di governare la
terra.
15. Chiedersi da che parte andare è lo stesso che chiedersi qual è il nostro bene, il bene
per noi post-moderni. S’intende: trattandosi del nostro bene, si tratta del bene non solo
di un singolo, ma anche dei molti e in una società pluralistica. Si tratta del bene comune
dell’intera umanità. A guardare le cose un po’ dall’alto, vien da dire che oggi bisognerebbe
decidere quale delle tre grandi parole della metafisica prima citate può interessare una so-
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Carmelo Vigna
cietà pluralistica come riferimento di senso. Dico “può interessare”. Faccio, in altri termini,
un discorso di “persuasività”, non un discorso di stretta “verità”. Se dovessi fare un discor-
so di stretta verità, dovrei molto semplicemente affermare che il primo e, in certo senso,
l’unico oggetto degno dell’attenzione originaria di un essere umano è l’Assoluto. Cioè,
solo Dio è degno, in ultima istanza, dei nostri desideri e dei nostri pensieri. Nessun altro
e nient’altro. La stragrande parte degli uomini, in modo più o meno rozzo o più o meno
sofisticato, pensa spontaneamente così e in qualche modo cerca di onorare questo modo di
pensare. L’enorme impatto sulla faccia della terra delle convinzioni religiose è lì a testimo-
niarlo. Solo una sparuta minoranza, in realtà, per lo più abitante dell’Occidente opulento
e post-industriale, si permette, a questo riguardo, forme insistite o incistate di scetticismo
a trecentosessanta gradi. Se si vuol fare, tuttavia, un discorso di persuasività etico-politica,
cioè un discorso che si fonda su una serie di evidenze abbastanza facili da percepire per
i più, allora il discorso sul bene in una società pluralistica non può che essere centrato sugli
esseri umani. Non certo sulla natura, la quale deve essere, sì, oggetto di cura, perché è il no-
stro “grande corpo organico”, ma, appunto, di una cura subordinata alla cura degli umani;
non, purtroppo, su un Dio trascendente, perché non tutti lo riconoscono, perché di Lui,
comunque, nulla possiamo sapere in linea puri intellectus, eccetto l’esistenza sua, e quel che
ne diciamo quanto alla sua essenza, ci divide più di qualsiasi altra cosa. Insomma, resta
l’uomo come fine. In termini etico-politici, cioè di pragmatica possibilità di stringere accordi
potenzialmente universali, una impostazione come quella ad es. di Hans Jonas potrebbe
essere accettabile. Ma studiosi come Rawls o Habermas propongono strategie simili. Del
resto, se questo primato antropologico venisse perseguito a fondo, sarebbe più facile per
molti sentire in cuor proprio il bisogno di volgersi all’origine ontologico-metafisica della buo-
na qualità dei rapporti tra noi, anche perché una parte, almeno, dell’umanità sicuramente
continuerà a testimoniare il nesso tra la pratica della fraternità e il rimando inevitabile ad
una suprema e universale Paternità. Lì abita in ultima istanza il sacro-santo della vita. Ma
qui devo lasciare in sospeso il tema, perché andrebbe nel senso della teologia politica, su
cui è bene che sia altri a dire.
16. �������������������������������������������������������������������������������������� Ora andiamo al tema della giustizia. Come è noto, l’etica pubblica si divide tra i so-
stenitori del primato della giustizia come elemento procedurale e formale dell’architettura
della convivenza umana e i sostenitori del primato del bene o dei beni come acquisizione
“sostantiva”. Lo abbiamo accennato prima. Io credo, invece, che si tratti di due “cifre”, la
giustizia e il bene, per nulla alternative, anche perché entrambe “originarie”.
17. Se ben si riflette, appare sufficientemente chiaro che il giusto è un certo rapporto, men-
tre il bene è il termine di un rapporto. Giusto, poi è il rapporto buono, mentre il bene non si
risolve semplicemente nel rapporto giusto. Il rapporto giusto è solo uno dei beni possibili.
I due significati, dunque, non sono propriamente equivalenti (il bene, ad evidentiam, ha una
estensione maggiore), anche se l’uso linguistico tende a trattarli quasi in modo sinonimico2
.
È vero, piuttosto, che essi in qualche modo si determinano a vicenda, perché il bene non
2 È anche evidente che l’oggetto cui ci si rapporta è più importante del rapporto. Il rapporto è una realtà inten-
zionale, mentre il bene è una realtà ontologica. Naturalmente, anche la realtà intenzionale è in qualche modo
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Per una metafisica del bene comune
può prescindere da un certo rapporto e il giusto non può fare a meno del riferimento al
bene. E tuttavia, se è vero che il bene non può fare a meno d’essere un rapporto, ciò che
nel determinare il bene importa è, in primo luogo, la natura dell’oggetto cui ci si rapporta;
parimenti, se il giusto non può fare a meno di una relazione ai beni (questo è specialmente
evidente nella giustizia di tipo distributivo, ma poi appare anche in quella di tipo commu-
tativo), la natura del bene è per il giusto relativamente indifferente. Si può stare nel giusto
con beni piccoli o con grandi beni. Conta, appunto la natura del rapporto, cioè che si tratti
di un rapporto in cui non manchi l’uguaglianza (commutativa o distributiva che sia).
18. Che ne è della giustizia in una società veramente civile? La domanda importa che
si trovi un rapporto giusto per tutti, indipendentemente da una certa identità culturale. Ora,
che cosa è anzitutto giusto per qualsiasi essere umano? Ossia: quale rapporto un essere
umano giudica come tale che non viola le proprie attese originarie di giustizia? La risposta
obbligata mi par questa: per un essere umano è anzitutto giusto o ingiusto ciò che concerne
l’immediato rapporto suo con gli altri esseri umani. E il rapporto giusto è il rapporto che
rispetta, anzi onora e quindi si prende cura della soggettività nella sua trascendentalità; è
il rapporto che lascia essere gli esseri umani come tali, cioè non li riduce a oggetti manipo-
labili; è il rapporto, per dirla kantianamente, che tratta un essere umano sempre anche come
fine e mai come semplice mezzo. Abbiamo già detto che questo, universalmente praticato, è
proprio solo del rapporto di riconoscimento reciproco, perché solo nel riconoscimento reci-
proco le due (o più) soggettività si lasciano essere come tali. Bene e giustizia, dunque, qui
convengono. Soltanto qui. E questo per il fatto che l’essenza di un essere umano è d’essere
un rapporto. Egli è, dunque il bene del rapporto e, nel contempo, il rapporto del bene, se
si rapporta riconoscendo. S’intende, secondo le forme della finitudine. Non ho inteso, con
ciò, dimenticare la complessità e la difficoltà di trovare criteri appropriati per la giusta di-
stribuzione dei beni della terra. Non v’è dubbio che il concetto di giustizia passa, innanzi
tutto e per lo più, per questa pratica quotidiana. Ma la giusta distribuzione dei beni non è
che l’effetto, in parte, e in parte l’individuazione simbolica del giusto rapporto tra noi, che è,
appunto, il rapporto di riconoscimento reciproco.
19. Giustizia dunque come riconoscimento della dignità di un essere umano, delle sue
opportunità d’ingresso alla vita e del suo onesto disegno di fioritura. È a questo punto che
può cominciare l’istruzione del tema della libertà. La libertà non può che essere l’ultima
delle tre parole, e non la prima. Questo non significa che essa non sia altrettanto originaria
delle altre due. Significa solo che è ordinata alle altre due, mentre non è vera l’affermazione
reciproca. Lo smarrimento di quest’ordine, che direi onto-etico, è forse una delle più grandi
sciagura della modernità. E noi viviamo ancora sull’onda di quella deriva. I moderni han-
no fatto della libertà una magica parola, cui tutto dovrebbe essere sottomesso; ma la libertà,
come prima ho ricordato, fa la dignità del gesto di un essere umano, non ne fa, da sola, la
bontà, anche per il fatto incontestabile che esistono, e come!, gesti di libertà cattivi.
qualcosa e quindi ha una valenza ontologica, ma l’ha di seconda battuta. Un po’ come accade alla verità rispetto
all’essere.
48
Carmelo Vigna
20. Una società veramente civile è possibile pensarla, solo se si oltrepassa la convinzione
moderna del primato assoluto e incondizionato della libertà e si accede al primato assoluto
e incondizionato del bene di e per ogni essere umano (che comprende di certo anche la sua
condizione di libero, ma non si riduce a quella). Né basta dire che la mia libertà finisce,
quando comincia la libertà dell’altro, che è lo slogan più noto della tradizione liberale.
Non basta, anzitutto, perché questo slogan confligge teoricamente con l’idea del primato
incondizionato della libertà. La libertà dell’altro invocata come limitante è, infatti, un bene
dell’altro; quindi la libertà è limitata, come dev’essere, dal bene e non è affatto incondizio-
nata. Solo il bene lo è. Non basta poi perché, riducendo il bene dell’altro alla libertà dell’al-
tro, si tace di tanti altri beni dell’altro che devono costituire, anch’essi, un limite alla mia
libertà. Non è sufficiente, infatti, che l’altro sia libero. Se l’altro è libero di morire di fame, e
io sono libero di mangiare a crepapelle, la mia libertà è la maschera penosa e vigliacca di un
delitto. Io mi approprio in esclusiva dei beni della terra che sono comuni e di fatto escludo
l’altro che ne ha gli stessi diritti. Così lo lascio morire.
21. ������������������������������������������������������������������������������������� C’è un senso, tuttavia, secondo cui la libertà può esser concepita come incondiziona-
ta, ma non è il senso difeso dalla tradizione teorica liberale: io la chiamo: la libertà del bene,
cioè la libertà di fare il bene3. Qui la libertà è incondizionata, perché gode, per una sorta di
simbiosi, dell’incondizionatezza del bene. Poiché in una società veramente civile, la libertà
come arbitrio non può avere solo l’altrui libertà come limite, ma deve avere come limite
tutti i diritti dell’altro, compreso certo anche quello della sua libertà, per questo l’umana
libertà deve farsi carico di tutto ciò che la giustizia invoca per l’altro. È questa la ragione
per cui le società liberali sono incapaci di essere veramente civili, nonostante l’abbondanza
delle dichiarazioni in contrario. Esse dimenticano facilmente, o meglio, occultano il lato
della cura e della giusta promozione dell’altro e così proteggono di fatto le situazioni di-
scriminanti, che sono poi la radice permanente della conflittualità endemica. La situazione
nordamericana è un esempio per molti versi eclatante. Sotto il manto della libertà, mes-
sicani, asiatici e neri praticano in massa gli umili mestieri che consentono ai bianchi una
vita agiata. Sono liberi d’esser poveri… Più o meno come accade in Italia per la fascia degli
immigrati extracomunitari.
22. Se la libertà del bene guida l’azione, allora la mira è il bene dell’altro, cioè l’altro come
bene. È anche il mio bene, ma di me come l’altro di un altro. Solo così io posso conseguire,
storicamente parlando, il massimo bene. Sulle prime, questa affermazione può parere per-
sino patetica: l’invocazione del “buon cuore” come regola di condotta in un mondo che il
pluralismo tende piuttosto ad indurire. Una riflessione accorta però è in grado di far vede-
re che il mio bene, cioè poi la mia fioritura di vita, può avere senso solo se il movimento del
desiderio verso l’oggetto a lui conveniente, il bene, appunto, compie il giro della referenza
immediata all’alterità e di quella all’identità in modo mediato. Mediato, appunto dall’alterità.
3 Rimando di nuovo al vol. La libertà del bene, cit., e stavolta spec. alla mia Introduzione, pp. 3-18.
49
Per una metafisica del bene comune
23. Provo a tirare in breve le fila del mio discorso. Posso anche far presto, perché tutte
le fila conducono, come si è di certo inteso, allo stesso punto: alla cifra del riconoscimento
come forma regolativa dell’esistenza degli esseri umani. Una società veramente civile infatti
è possibile, se i molti si onorano reciprocamente, cioè appunto, reciprocamente si riconoscono. È
questo il senso primo (primo per noi) del bene comune. Nel reciproco riconoscimento, ognuno è
signore dell’altro (in quanto riconosciuto nella propria trascendentalità, quindi come oriz-
zonte inoltrepassabile di senso) e ognuno è servo dell’altro (in quanto riconosce nell’altro
la signoria del senso). Le forme democratiche di vita politica tendono ad approssimarsi a
queste dinamiche più d’ogni altra forma. Nella democrazia infatti l’autorità del cittadi-
no su un altro cittadino è o dovrebbe essere semplicemente di tipo funzionale. Tutti sono
eguali, cioè tutti sono signori, ma fatti signori gli uni dagli altri, mai da se stessi.
24. All’interno della cifra del riconoscimento, come regola universale, prendono un sen-
so determinato, come si è detto, tanto il bene, quanto la giustizia e la libertà come realiz-
zazione e, insieme, protezione del bene comune. Bene significa voler ciò che consente la
mia fioritura di vita; bene è dunque volermi bene, volendo bene altri come quegli che tale
fioritura in me rende possibile. Altri, naturalmente, solo che lo si voglia o, meglio, solo che lo si
creda, può essere scritto – dovrebbe anche essere scritto – con la maiuscola (la dinamica relazionale è
la stessa). Il bene comune in una società veramente civile è questo, essenzialmente. Giustizia
significa rendere ad ognuno ciò che gli spetta (unicuique suum). Ma ciò che spetta ad ognu-
no è anzitutto d’essere trattato come una soggettività (trascendentale). Cioè come un essere
umano in totalità. La reciprocità riconoscente è dunque il luogo della massima giustizia per
ognuno di noi. Libertà significa non arbitrio incondizionato, bensì libertà di fare il bene. E
poiché il primo bene, storicamente parlando, è l’esserci d’altri per me, libertà del bene vuol
dire di nuovo libertà di riconoscere l’altro come il mio bene. Come il bene che tutti accomuna
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