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Tuesday, July 15, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z N

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nannini: la ragione conversazionale e l’implicature conversazionali dei corpi animati – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Abstract. Grice: “In my ‘Personal identity,’ I take issue against Gallie who was referring to things like ‘Someone is hearing a noise’ as ‘purely philosophical’ uses of ‘I’ just because its link to a ‘body’ – or soma – is nowhere to be detected. In my tripartite taxonomy, I classify ‘I’ (or ‘someone’) sentences into ‘purely somatic’ (“I was hit by a cricket bat”, “I fell down the stairs”), psycho-somatic (“I am seeing a pillar box”) and purely psychic (“Someone is hearing a noise”). Gallie was not impressed, but then he was a Scot!” Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice: “Nannini has intuitions in Italian.” Grice: “I agree with Nannini about the naturalism: the ‘anima’ is there to ‘explain’ ‘spiegare’ the action, ‘l’azione’ – He is the Italian Muybridge!” – Grice: “The Nannini series is the equivalent of the Muybridge series” Studia a Firenze con Luporini e Landucci e, inizialmente, con Luporini. Ha accompagnato la sua attività di ricerca in campo filosofico ed i suoi impegni accademici con una intensa attività politica a Siena come militante del Partito Comunista Italiano. È stato Professore di Filosofia Morale all'Urbino e di Filosofia Teoretica all’Università Siena, dove ha insegnato per alcuni anni anche filosofia della mente ed è stato principale cofondatore e direttore di una scuola di dottorato interdisciplinare in Scienze Cognitive. È stato inoltre più volte, visiting professor presso le Osnabrück, North London, Bremen e Oldenburg. Attualmente in pensione, è ancora pro tempore Docente Senior presso l’Siena e dal  è direttore di Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia. I suoi studi giovanili si sono incentrati sulla filosofia delle scienze sociali, lo strutturalismo francese e la storia del pensiero antropologico. Successivamente, rivoltosi alla filosofia analitica ed in particolare alla teoria dell’azione, ha cercato di sviluppare il “naturalismo metodologico” criticando il ritorno di neo-wittgesteiniani come Wright alla distinzione storicistica tra scienze della natura e scienze dello spirito. Sempre muovendosi entro la filosofia analitica, ma rivolgendo il proprio interesse alla filosofia pratica, ha difeso il non cognitivismo in meta-etica. A partire dagli anni Novanta Professoresi è infine spostato dalla teoria dell’azione alla filosofia della mente. In una prima fase si è occupato soprattutto della storia del concetto di mente, per approdare ad una forma di naturalismo cognitivo basata su una soluzione fisicalistico-eliminativistica del problema mente-corpo.  Saggi: “Il pensiero simbolico” (Bologna, Il Mulino); “Cause e ragioni” -- Modelli di spiegazione delle azioni” umane nella filosofia analitica” (Roma, Riuniti); “Il Fanatico e l'Arcangelo” -- Saggi di filosofia analitica pratica, Siena, Protagon. “L'anima e il corpo” --  Una introduzione storica alla filosofia dell’animo, Roma, Laterza; “Naturalismo” cognitivo: Per una “teoria materialistica” dell’animo, Macerata, Quodlibet, “La Nottola di Minerva” -- Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo” (Milano, Mimesis);“Educazione, individuo e società” Torino, Loescher ), L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena), SeB Editori. Saggi, Freud e l'antropologia, in La Cultura. Rivista di Filosofia, Letteratura e Storia, “ Il materialismo “primario”, in, Il pensiero di Luporini” ( Milano, Feltrinelli); “L'anomalia dell’animo «Rivista di filosofia», Corpi animati, nel dibattito contemporaneo, in  L’animo, Milano, Mondadori, I corpi animati e e società nel naturalismo forte, nella Civiltà delle Macchine», Realismo scientifico e ontologia materialistica, in «Giornale di metafisica»,  Nicolaci G., Perone U., Ontologia e metafisica, Il concetto di verità in una prospettiva naturalistica, in Amoretti, Marsonet, Conoscenza e verità” (Milano, Giuffré); “L’Io come Direttore Assente” (in Cardella V., Bruni D., Cervello, linguaggio, società: Atti del Convegno di Scienze Cognitive, Roma, CORISCO, Orologi, animo e cervello: Riflessioni preliminari su tempo reale e tempo fenomenico tra fisica teorica e filosofia dell’animo, in Amoretti, Natura umana, natura artificiale” (Milano, Angeli); Rappresentazioni naturalizzate, in «Sistemi intelligenti», Kant e le scienze cognitive sulla natura dell’Io, in Amoroso L., Ferrarin A., La Rocca C., Critica della ragione e forme dell'esperienza’ (Pisa, Edizioni ETS); Realismo scientifico e naturalismo cognitivo, La coscienza può essere naturalizzata?, in Nannini S., Zeppi A., L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena), SeB Editori,  In-conscio, co-scienza e intenzioni nel naturalismo cognitivo, in «Sistemi intelligenti», La svolta cognitiva in filosofia, in «Reti, saperi, linguaggi: Naturalismo cognitivo: Per una teoria materialistica dell’animo, Quodlibet, N., La Nottola di Minerva: Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo, Mimesis. Sandro Nannini. Nannini. Keywords: corpi animati, l’interazione dei corpi animati, l’ego come direttore assente, freud e il nos come dirretori assenti --. Luigi Speranza: “Grice e Nannini: il santo, l’eroe, il fanatico, l’arcangelo” – The Swimming-Pool Library. Nannini.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia. Grice e Nardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Alighieri -- dantesco – Alighieri – la scuola di Spianate -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Spianate). Abstracct. Grice: “I like Nardi – for one, he doesn’t know where to place Alighieri within the history of philosophy – which is mutatis mutandis the same doubt I have with Shakespeare!” -- Keywords: Oxford, Bologna, Bologna, Oxford. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Spianate, Altopascio, Lucca, Toscana. Grice: “The Italians are fortunate: with Alighieri they can philosophise about him!” Primogenito di una famiglia benestante, composta di nove figli, viene avviato sin dalla tenera età alla carriera ecclesiastica. Entra nel collegio dei frati francescani a Buggiano e diventa chierico, assumendo il nome di frate Angelo. Usce dal convento di Buggiano perché non aveva intenzione di continuare nella vita religiosa, avendone perduta la vocazione. Proseguì gli studi di filosofia e teologia frequentando il convento di Sant'Agostino di Nicosia in provincia di Pisa. Volendo proseguire gli studi, i genitori gli indicarono un'unica strada, quella di entrare in seminario e diventare prete. Venne ammesso al seminario di Pescia e diventò sacerdote. Qui si avvicinò fugacemente al movimento Modernista, condannato da papa Pio X con l'Enciclica Pascendi. N. sostenne l'esame di concorso per una borsa di studio triennale conferita dall'opera Pia Galeotti di Pescia al fine di frequentare un corso di perfezionamento filosofico presso l'Università Cattolica di Lovanio (Belgio). N. aveva da poco iniziato a frequentare l'Università Cattolica di Lovanio che già decise l'argomento della sua tesi di laurea Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Dante, che venne discussa con Wulf. La lettura dell'opera di Pierre Mandonnet, nella parte dedicata a Sigieri, non persuadeva N. sulla soluzione data al problema della presenza di questo averroista nel Paradiso dantesco. Due pregiudizi la inficiavano: il primo “consisteva in un'inesatta visione storica di quello che nel Medio Evo e nel Rinascimento era stato l'averroismo. Il secondo pregiudizio del Mandonnet era quello di ritenere il pensiero filosofico di Dante conforme in tutto e per tutto a quello d’AQUINO." Nel momento in cui N. Entra a Lovanio abbandonò il modernismo teologico, ma non abbracciò la filosofia neo-scolastica che quella Università belga stava elaborando. Non aveva senso per lui ripetere, sul finire dell'Ottocento, nell'epoca del positivismo, l'operazione culturale d’AQUINO che prevedeva l'unificazione di fede e ragione. Il metodo di lavoro che Nardi seguì nel corso della sua vicenda di studioso e ricercatore, rimase sempre improntato al massimo rigore filosofico, risentendo come una traccia indelebile dell'esperienza di Lovanio, dove dovette affrontare studi scientifici. Per Nardi l'interpretazione del testo coincide con la libertà, ma tale atto libero non può attivarsi senza uno scrupoloso lavoro di scavo e ricerca del materiale documentario, l'esatta interpretazione filosofica dei testi. Ottenuta un'ulteriore borsa di studio dall'Opera Pia di Pescia frequenta corsi di filosofia a Vienna, Berlino, Bonn. Oltre alla pubblicazione della propria tesi su Sigieri nella “Rivista di filosofia neo-scolastica”, N. vi pubblica altri interventi spesso critici con la linea editoriale del periodico. scritto ai corsi dell'Istituto di Studi Superiori di Firenze perché voleva riconoscere in Italia la sua laurea in filosofia conseguita a Lovanio. A Firenze discuterà la tesi di laurea in filosofia dedicata alla figura del medico e filosofo padovano Abano. Collabora alla “Voce”, rivista fondata da Prezzolini con il quale mantenne per lunghi anni una fitta corrispondenza. N. volle abbandonare il sacerdozio. In una successiva lettera indirizzata al vescovo Angelo Simonetti, spiegava che era stato l'ambiente familiare a spingerlo a chiedere la sacra ordinazione, con preghiere e minacce. Di trasferì a Mantova per insegnare filosofia presso il liceo classico Virgilio, dove vi restò fino al quando si trasferì a Milano. Ha da Giovanni Gentile un incarico per l'insegnamento della filosofia medievale presso la facoltà di lettere dell'Roma. Tuttavia non ottenne la cattedra universitaria (se non dopo molti anni), a causa dell'art. 5 del Concordato in base al quale la curia romana escludeva i sacerdoti secolarizzati dall’insegnamento. Gli fu assegnata la “Penna D’Oro” dal presidente del Consiglio Tambroni. Gli fu conferita la laurea honoris causa da parte dell’Padova e da parte di quella di Oxford. Le opere e gli studi su Alighieri si è dedicato instancabilmente per di più in mezzo secolo allo studio del pensiero di Dante, anche quando si occupava di Virgilio, di Sigieri di Brabante, di Pomponazzi. Nardi ha saputo mettere in discussione schemi consolidati, ha aperto strade nuove, ha formulato proposte inedite che ci permettono di avere una più esatta comprensione dei testi danteschi. Una costante di Nardi è di aver conservato sempre una propria autonomia, se non un vero e proprio distacco, rispetto agli ambienti culturali in cui si era trovato ad agire, fossero Lovanio, Firenze o Roma. Il coraggio con cui seppe polemicamente ribaltare tesi consolidate negli ambienti accademici, gli fruttarono ingiustamente isolamento e non adeguata considerazione rispetto alle sue acquisizioni veramente anticipatrici. Basti pensare alle sue tesi sull'averroismo latino, all'importanza data alla figura di Avicenna, di Alberto Magno, al rifiuto del preteso tomismo di Dante. E se di Gentile parlava come di un "vero e grande maestro", dandogli ragione nella sua polemica con il De Wulf (relatore della sua tesi a Lovanio), Nardi pur tuttavia non aderirà al Neoidealismo, ma vi trarrà soltanto spunti e stimoli per le sue ricerche. L'incontro con Dante costituisce per N. l'episodio decisivo della sua vita intellettuale e morale. Scriverà nel 1956: "in Dante trovai il vero e primo maestro, quello a cui debbo la maggior gratitudine". Il senso della sua ricerca è stato interrogare il "miracolo" della Divina Commedia, questo "singolare poema sbocciato all'improvviso contro tutte le buone regole dell'arte e del dittare". Secondo N. nella commedia è custodita la Verità, che si è manifestata ad un poeta ispirato da una profetica visione. La lunga fatica del Nardi è giunta a concludere che la filosofia di Dante non si riduce a nessun sistema codificato; è una sintesi complessa tendente a superare le antinomie e che mantiene intera la sua spiccata originalità, il suo personalissimo pensiero. Per arrivare a coglierlo occorre da una parte ristabilire il preciso significato delle parole in rapporto alla terminologia filosofica e scientifica del Medioevo, e ricostruire dall'altra l'ambiente culturale e l'atmosfera spirituale nelle quali Dante si muoveva per arrivare a determinare la fonte, il libro letto da Dante. N. ha gettato luce su molti elementi e suggestioni che Dante derivava dalla filosofia araba e neoplatonica. Essenziali per comprendere Dante sono Alberto Magno e Sigieri più di Tommaso; così come il neoplatonismo e la cultura araba più dello scolasticismo aristotelico. A N. interessava particolarmente affrontare il tema della "visione dantesca", esperienza profetica che seppe tradurre come nessun altro nel linguaggio della Divina Commedia. La visione di Dante non è finzione letteraria, è rivelazione reale dell'aldilà, concessa da Dio in virtù di un supremo privilegio. Dante visse il rapimento mistico ed estatico al terzo cielo come esperienza reale. Dante credette di essere sceso veramente nell'Inferno, salito veramente al Purgatorio e al Paradiso. Per N. la Commedia si distacca dagli altri scritti di Dante, perché ne è il loro compimento. Tale culmine si realizza attraverso un'esperienza eccezionale, di origine mistico-religiosa a lui soltanto riservata, una rivelazione che ha il potere di trasformare e rendere nuove tutte le altre opere precedenti. L'opera dantesca, secondo Nardi, si deve suddividere in tre fasi: la prima fase, che termina a venticinque anni, è sotto l'influsso di Guinizzelli, assente del tutto la filosofia. La seconda fase, quella filosofico-politico, coincide con le rime allegoriche, il Convivio, il De vulgari eloquentia e la Monarchia. La terza fase, quella della poesia profetica, coincide con la Divina Commedia, poema che segna il ritorno all'unità della filosofia cristiana. Dante vi compare come profeta che deve annunciare al mondo l'avvento di un inviato di Dio per la redenzione umana. La Commedia è "poema sacro", la sua è poesia religiosa. Nardi vede in questa terza fase finalmente riconciliarsi la speranza cristiana spezzatasi con l'aristotelismo e l'avverroismo. Per Nardi l'aristotelismo è inconciliabile con il cristianesimo, e il tomismo pertanto è "il più strano paradosso del pensiero umano". La Commedia testimonia della riunificazione della filosofia con la rivelazione di Dio. Dante visse una visione profetica, esperienza che mancò ad Aristotele. L’'Accademia dei Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Saggi: “Flosofia dantesca” (Bari, Laterza) – ALIGHERI -- ; “Critica dantesca” (Milano, Ricciardi); “Filosofia dantesca” (di Alighieri) (Firenze, Nuova Italia); “La filosofia medievale” (Roma, Ed. di storia e letteratura); “Alighieri” (Roma, Laterza). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,."Giornale Critico della Filosofia Italiana", Premi Feltrinelli, su lincei, Medioevo e Rinascimento,” Firenze, Sansoni, Alberto Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, ad vocem Sigieri di Brabante e Alessandro Achillini, Di un nuovo commento alla canzone del Cavalcanti sull'amore, “Cultura neo-latina”, Noterella poetica sull'averroismo di Cavalcanti, Rassegna filosofica, Sigieri di Brabante e le fonti della filosofia di Alighieri, in “Rivista di filosofia neoclassica” Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Alighieri, Spianate, La teoria dell'anima o animo e la generazione delle forme secondo Pietro d'Abano, “Rivista di filosofia neoscolastica”, Vittorino da Feltre al paese natale di Virgilio, in “Atti del IV Congresso nazionale di Studi Romani”, Roma, Lyhomo (note al “Baldus” di T. Folengo), “Giornale critico della filosofia italiana”, “Nel mondo di Alighieri” (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); “Sigieri di Brabante nel pensiero del rinascimento italiano” (Edizioni italiane, Roma); “Alighieri profeta, in Dante e la cultura medioevale; “Saggi di filosofia dantesca” (Bari, Laterza); “La mistica averroistica e Pico”; “L' aristotelismo padovano (Firenze, Sansoni) – i lizii -- già edita in “Archivio di filosofia, Umanesimo e Machiavellismo”, Padova); “Il naturalismo del Rinascimento, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, Roma, Universitarie; “L'alessandrinismo nel Rinascimento, Corso di Storia della filosofia. Anno accademico, I. Borzi e C. R. Crotti, Roma, “La Goliardica” La fine dell'averroismo, Gli scritti di Pomponazzi. “Giornale critico della filosofia italiana”, Le opere inedite di Pomponazzi. Il fragmento marciano del commento al “De Anima” e il maestro di Pomponazzi, Trapolino, Il problema della verità, soggetto e oggetto dell'conoscere nella filosofia antica e medioevale” (Universale di Roma, Roma); “La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, Corso di storia della filosofia T. Gregory, “La Goliardica” Il commento di Simplicio al “De Anima” Archivio di filosofia”, Padova, La miscredenza e il carattere morale di Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Le opere inedite di Pomponazzi, “Giornale critico della filosofia italiana” Le meditazioni di Cartesio, Lezioni di storia della filosofia. “La Goliardica”, Roma, Pomponazzi e la cicogna dell'intelletto, “Giornale critico della filosofia italiana” Il dualismo cartesiano, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Il dualismo cartesiano degl’occasionalisti a Leibniz, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Ancora qualche notizia e aneddoto su Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Marcantonio e Zimara: due filosofi galatinesi, “Archivio storico Pugliese” Un'importante notizia su scritti di Sigieri a Bologna e a Padova alla fine del sec. XV, “Giornale critico della filosofia italiana”, Contributo alla biografia di Feltre, “Bollettino del Museo civico di Padova”, Letteratura e cultura del Quattrocento, in “La civiltà veneziana del Quattrocento” (Firenze, Sansoni); “Appunti intorno a Trapolin, In Miscellanea” (Edizioni di Storia e letteratura, Roma); “Copernico studente a Padova”; “Studi e problemi di critica testuale. Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i Testi di Lingua, Bologna, L'aristotelismo della Scolastica e i Francescani, in Studi di Filosofia Medioevale” (Storia e letteratura, Roma); “Pomponazzi e la teoria di Avicenna intorno alla generazione spontanea dell'uomo” (Mantuanitas vergilana – (Ateneo, Roma); La scuola di Rialto e l'Umanesimo veneziano, in Umanesimo Europeo e Umanesimo veneziano” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pomponazzi” (Monnier, Firenze); “I lizii di Padova” (Monnier, Firenze); “Corsi manoscritti di lezioni e ritratto di Pomponazzi, in Atti del VI Convegno internazionale di studi sul Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pietro Pomponazzi” (Monnier, Firenze); “Saggi e note di critica dantesca, Ricciardi, Filosofia e teologia ai tempi di Alighieri in rapporto al pensiero del poeta, in Saggi e note di critica dantesca” (Ricciardi, Milano); “Saggi e note sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova); “Saggi sulla cultura veneta del Quattro e del Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova, Divina Commedia, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Un profilo biografico, Consulenza scientifica Società Dantesca Italiana. L’ARISTOTELISMO PADOVANO. STUDI SULLA TRADIZIONE ARISTOTELICA NEL VENETO, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA, CENTRO ARISTOTELICO. L'ARISTOTELISMO PADOVANO. SANSONI, FIRENZE. Il volume di N. è stato pubblicato a cura e sotto gli auspici del centro per lo studio della tradizione aristotelica nel Veneto e del Comitato per la storia dell'università di Padova. Stampato in Italia. N. adere di buon animo a che venissero riuniti in un volume, per comodo degli studiosi che ne fanno ricerca, alcuni saggi sull'aristotelismo padovano e particolarmente su quell’interpretazione del pensiero del “LIZIO” (antica ortografia di “Lyceo”) che prende il nome d’Averrois che 7 gran commento feo, sparpagliati, come numerosi altri loro confratelli, in varie riviste ormai non più facilmente accessibili. Questi saggi abbracciano un periodo assai lungo di ricerche dal igi2 al ig^ó, e nel loro insieme offrono un quadro sufficientemente completo, per monografie che si richiamano fra loro, della filosofìa a Padova dai tempi di Abano (SCHIAVONE, si veda) a quelli di ZABARELLA (si veda) e PICCOLOMINI (si veda), quando ormai, a Padova e altrove, il LIZIO comincia a volgere decisamente al tramonto, per il nascere delle nuove scienze della natura e del nuovo metodo di ricerca filosofica. Fuori della presente raccolta, già abbastanza pingue, son rimasti i saggi stille opere inedite di POMPONAZZI (si veda), meno quello relativo alla miscredenza di VERNIA (si veda), perché essi potranno essere riuniti a suo tempo in un volume a parte, ed altresì quello sulla letteratura e cultura veneziana, apparso in La civiltà veneziana pella Fondazione Cini, che potrà meglio figurare insieme ad altri, che vado preparando, sulla filosofia veneziana del Rinascimento. Nella formazione del presente volume non è stato sempre rispettato l'ordine cronologico nel quale i saggi qui compresi sono apparsi, per il bisogno di contemperarlo con la successione storica degli argomenti trattati. Ad ogni modo, sono stati sempre indicati in nota la data e il luogo ove ciascuno ha visto la luce la prima volta. Inoltre, ritengo opportuno avvertire che tutti sono stati più o meno leggermente ritoccati, e qualcuno in modo assai notevole. Quello che mi ha guidato in queste non agevoli ricerche, non è stato, cerne forse taluno potrebbe pensare, il gusto delle notizie erudite, pur sempre indispensabili alla ricerca storica, sibbene il bisogno di prospettare le particolari condizioni e circostanze d'ambiente culturale in cui certi problemi filosofici eran posti dagli aristotelici padovani, e lo sforzo da questi sostenuto per trovarne una soluzione e per evadere da abitudini mentali e pregiudizi che alla soluzione di quei problemi s'opponevano. Su alcuni di siffatti problemi discussi e ridiscussi mille volte nel corso di quasi quattro secoli, era naturale che avessi a fermarmi con insistenza e abbondanza di citazioni, perché chi legge avesse modo di rendersi conto, quasi toccando con mano, dell'imprecisione e non di rado dell'avventatezza di talune affermazioni da parte di non pochi storici che la storia delle idee non hanno mai preso sul serio, contenti troppo spesso di luoghi comuni e vacue generalità: Per oppormi appunto a questo andazzo e per restituire ai pensatori sui quali mi sono fermato i lineamenti della loro umana fisionomia, m'è parso non fossero da sdegnare notizie particolari e perfino aneddoti che rasentano il pettegolezzo, ma intanto rivelano curiosi tratti del loro carattere morale e aprono uno spiraglio su quell'ambiente scolastico, per tanti aspetti così diverso di quello d'oggi. La distinzione poi che s'è preteso di fare tra filosofia e cultura s è rivelata inconsistente, non solo quando s'è tentato di giustificarla, col definire in termini rigorosamente logici il concetto di cultura come diverso da quello di filosofia, ma più ancora quando, in omaggio a quella: pretesa distinzione, nel tracciare la storia del pensiero d'un epoca, s'è tenuto conto quasi esclusivamente dei pionieri e si sono disprezzate forme di pensiero meno avanzate e, diciamo pure, piii umili, come, ad esempio, pel Rinascimento, le credenze magiche ed astrologiche, condivise da dotti non meno che dal popolino, e le opinioni intorno al potere delle streghe e al loro commercio col diavolo, cui davan credito, non meno del volgo, insigni cherci e letterati grandi e di gran fama, non che giuristi e teologi i quali s'argomentavano d' estirparne la mala semenza con gli esorcismi e col rogo. Così del Rinascimento s' è mostrato solo un aspetto, mettiamo pure il migliore e più, seducente, ma unilaterale e incompleto, per aver relegato nell'ombra il rovescio della medaglia, cioè quelle forme di pensiero che persistevano non solo nelle masse popolari e incolte, ma altresì nei ceti borghesi di media cultura, nella nobiltà, nelle corti principesche e nel clero. Eppure anche siffatte convinzioni rappresentano particolari maniere di raffigurarsi la vita e il mondo e costituiscono anch'esse modi di pensare la realtà, che, per quanto arretrati, furon condivisi dall'enorme maggioranza degli uomini nel periodo che si dice del Rinascimento. Altrettanto si dica della distinzione fra ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero del passato, quasi che potesse morire quel che non è mai stato vivo, e che vivere non fosse un correre alla morte, cioè un continuo rinnovarsi. Singolarmente penosa appare infine l'ansia che pel concetto, la natura, il metodo, le sorti della storia e pel valore del giudizio storico dimostrano taluni che, chiusi nella loro specola teoretica, senza scomodarsi colla ricerca e la critica dei documenti e delle testimonianze, indispensabili al giudizio storico, pretenderebbero di dedurre a priori gli eventi della storia universale. Sì, lo sappiamo, per interpretare la lingua dei documenti e delle testimonianze ci vuol cervello; e per cervello intendo la categoria, cioè la capacità a inserire il fatto accertato nella trama logica del pensiero. Ma la categoria è vuota senza l’intuizione, e la mola del pensiero frulla a vuoto se dalla tramoggia non cala giù il buon grano falciato nei campi arsi dal sole, battuto vagliato e seccato sull'aia. Sì che a ragione pare a VICO aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni coll'autorità de'filologi, come i filologi che non curarono d'avverare le loro autorità colla ragione dei filosofi. Il già celebre e oggi invece quasi sconosciuto filosofo di Padova, SCHIAVONE (si veda), vien classificato ordinariamente dai rari storici della filosofia che si degnano consacrargli qualche linea, fra gl’averroisti: da qualcuno è, anzi, presentato come fondatore dell'averroismo a Padova. Ma, cosa strana, dell'averroismo di SCHIAVONE tacciono affatto gl’antichi storici che pur lo fanno passare come astrologo, mago, eretico, e che a queste accuse, riguardanti le dottrine di lui, n’aggiungono ben altre riferentisi al carattere personale, per quanto queste ultime abbiano l'aspetto di favole se non, spesso, di denigrazioni evidenti. Scorrendo la monografia che gli consacra FERRARI (vedasi), il sospetto che l'averroismo di SCHIAVONE non fosse una pretta leggenda, s’accrebbe in me a tal segno che decide di consultare per conto suo il Conciliator differentiariini philosophormn et praecipiie medicorum. Sennonché, essendo l'opera relativamente rara e trovandomi da quattro anni quasi sempre all'estero, non li fu così facile procurarsela; quando, nell'essere a Bonn s'abbattei in un'edizione senza data, ma che porta in testa questa nota manoscritta: impressus. Me codex est Venetiis per Herbart de Selgenstadt, alemanmmi. Mentre andava trascrivendo i passi più importanti dal punto di vista filosofico, quasi quasi non sa credere a lui stesso, finché non li ha collazionati con altre Già apparso nella Riv. di Filos. Neoscolastica. Solo qualche lieve ritocco. I tempi, la vita, le dottrine di SCHIAVONE. Saggio storico-filosofico di Ferrari, Genova.] edizioni e specialmente con quella di cui, oltre le copie possedute a Padova, a Firenze, a Torino ecc., una si trova con sua grande sorpresa proprio nella capitolare di Pescia. Dice che non sa credere a lui stesso, perché i passi, a cui FERRARI (vedasi) rimanda, lungi dal rivelare le preoccupazioni averroistiche che egli, con critica bizzarra, crede scoprire ad ogni pie sospinto attraverso le dichiarazioni di SCHIAVONE, dimostrano, al contrario, che questi aderisce esplcitamente e senza riserve o esitazioni di sorta ad un'altra teoria intorno all'ANIMA – GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY --, ch’è l'antitesi perfetta di quella dell’arabo. Quei passi sono così chiari che FERRARI (vedasi) stesso si sente imbarazzato e suda due camicie per interpretarli a rovescio, come fa. Dovrei forse dubitare della buona fede di lui? Certo, nell'opera erudita di FERRARI (vedasi) si rivela qua e là un gusto matto di sorprendere nel filosofo da lui studiato atteggiamenti e pose d'eretico che agl’occhi dell'autore lo rendono più simpatico. E quando gli fanno difetto i documenti e le dichiarazioni esplicite, ricorre a stravaganti congetture o a insinuazioni ridicole. Ma N. ritiene FERRARI (vedasi) un perfetto galantuomo, e per dubitare della sua completa buona fede non ha motivi sufficienti. Pensa invece che gli manchi l'esatta conoscenza della filosofia medievale; in maniera che egli non sa comprendere nel loro giusto significato certe dottrine, le quali non si possono capire se non in rapporto ai movimenti d' idee a cui mettono capo. Ora, infatti, sostiene che SCHIAVONE è accusato di MATERIALISMO. Più tardi, invoca la stessa condanna per dimostrare che questi non è sincero quando dichiara prava la teoria averroistica dell'unità dell'intelletto. Ora gongola di gioia perché SCHIAVONE, nel riferire l'opinione dell’arabo, la lascia passare senza una nota di biasimo. Una pagina, dopo, ti verrà a dire che la nota di biasimo che SCHIAVONE quest'altra volta invece ha affibbiato agl’averroisti, va presa per un'ostentazione a ufficio di scudo! E via di questo passo. FERRARI (vedasi) avrebbe fatto bene, invece di rimandare alle opere di SCHIAVONE, che il lettore non sa procurarsi con tanta facilità, d’offrire estesamente citazioni più abbondanti e meno laconiche. Il pubblico poi che s’occupa di queste materie sa, crede N., fare a meno, e quanto a lui molto volentieri, della traduzione che FERRARI (vedasi) sostituisce ai passi citati, i quali nel loro latino scolastico sono molto meno oscuri. Confesso la verità. Arrivato in fondo a dove FERRARI (vedasi) parla della psicologia genetica e metafisica, non sono mai riuscito a raccapezzarmi sulla vera dottrina del filosofo SCHAVIONE. La quale, pertanto, se si piglia in mano il conciliator, è abbastanza chiara, nelle sue linee generali, ed è ben diversa da quello che FERRARI (vedasi) va fantasticando. Ecco qui uno dei passi più importanti e nello stesso tempo meno ambigui. Alla differentia si discute la questione se il seme umano è o no animato. E, a proposito di questo problema, SCHIAVONE espone la sua teoria sullo sviluppo dell'embrione e sull'origine e natura dell'ANIMA. Egli dice. Rector autem huius tain divini operis, cioè dello sviluppo embrionale, virtus est dieta informativa ab ANIMA parentis decisa, per impulsionem coeuntis incitata, quam Galenus de virtutibus naturalibus, secundo, ca. 2, appellat summam artem praesidem et intellectivam sine mente, il LIZIO autem intellectum vocatum sive intellectivam divinam, ceu ei Haly ascripsit. Nominavit autem eam LIZIO intellectum vocatum, ad differentiam intellectus potentionalis et agentis pars existentium ANIMAE intellectivae, ut tertio de anima inquit. Dico autem intellectum quo ANIMA opinatur et sapìt, ad differentiam intellectus quem ponebat Anaxagoras chaos dieta ex eodem consimilia sequestrantis. Et ideo apparet hic erroneus intellectus lacobitarum me persequentium tamquam posuerim ANIMAM intellectivam de potentia educi materiae; differentia 9; cum aliis mihi 54 ascriptis erroribus. A quorum nianibus gratia dei et apostolica mediante me laudabiliter evasi. Da qua quidem virtute, ló. ANIMALIVM, Avicenna. Virtus informativa est illa quae DAT VITAM et est proportionalis virtuti super-coelestium. Arrestiamoci a precisare il significato di questo passo. SCHIAVONE parla qui non dell'anima umana, ma della virtù informativa, la quale più sotto è così descritta sulla scorta del DE ANIMALIBVS e di Avicenna. Virtus informativa est illa quae DAT VITAM et est proportionalis virtuti super-coelestium, et ista virtus facit similia secundum quid virtutibus super-coelestibus quousque sit possibile illam RECIPERE VITAM, et est dispersa per universam substantiam corporis sive sit humiduin sive siccum: et in spermatis substantia est potentia potens recipere hanc virtutem et est SPRITIVS primus deferens calorem coelestem et ipse est causa omnium partium spermatis. Estque haec virtus a CORPORE abstracta, cui etiam ab LIZIO accipiens commentator. j° metaphy i^Comm. ]: LIZIO dixit in libro DE ANIMALIBVS, quod ipsa sit similis intellectui in hoc, quod non agit per instrumentum CORPORALE et membrum proprium. La teoria della virtù informativa, qui esposta, è tratta dal DE GENERATIONE ANIMALIUM del LIZIO e la si ri-trova quasi negli stessi termini presso AQUINO. Siccome, per altro, i giacchiti di Parigi credeno che SCHIAVONE intende parlare dell’ANIMA, per questa ragione, com'egli dichiara, l’accusarono dell'errore d'Alessandro d'Afrodisia e di Galeno, l'ultimo dei quali sostene che L’ANIMA è la stessa complexio del CORPO organizzato e il primo che l’intelletto materiale o possibile dove farsi consistere in una certa virtìt risultante ex universa illa temperatura vel constitutione propria dell'organismo umano. L’accusano, dunque, dell'errore opposto all'averroismo e contro il quale l’arabbo aspramente polemizzato a più riprese. A quest'accusa da certamente motivo l'appellarsi che SCHIAVONE fa a Galeno e al di lui fidelissimus interpres, Haly ben Rodoam. Questi sa trovare presso Aristotele, non si sa come, la teoria dell'intellectus vocatus, della cui provenienza del LIZIO il nostro, con quella sua espressione: ceu ei Haly ascripsit, sembra tutt'altro che convinto. L'intellectus vocatus è la traduzione letterale del ó HO KALOUMENOS NOUS xixXoù\j.tvoc, voui; del De generatione animalium. Basandosi su di essa, Haly sostene che l’intelletto separato del LIZIO, distinto dall'ANIMA individuale e identico al voij? d'Anassagora, è la stessa virtù informativa, ossia l'influenza degl’astri la quale per mezzo del seme paterno presiede allo sviluppo e all'organiz tkxvtwv (xév yùp év tcò oTuéppiaTi ÈvuTrdcpxei OTTEp TTOiEÌ yóvifxa elvai xà CTTrép[xaTa xò xaXou(i,evov -!>£p(i.óv. xoùxo 8'où TTup, oùSè xotauxY] SuvafjLit; Icttiv, àXkà xò l[jiTrepLXajjt.pavó(XEvov èv T(p CTTÉpfxaxi, jcai èv xo) à9p(óSEi. TTVEUjj'.a xal rj Èv xw TTVsufAaxt, quando viene a parlare de electionihus. Egli intanto distingue la ricerca, invero innocente, dell'bora laudabilis incipiendi aliquod opus, affinché l'opera d’intraprendere ha felice risultato, pur senza tentare di modificare il corso o l’influenza del cielo, dai tentativi, per mezzo d' immagini Ferrari, SCHIAVONE e di scongiuri, di modificare favorevolmente l’influenze celesti pella buona riuscita dell'opera che s'intraprende. Che la prima ricerca non ha niente d' illogico, dati i presupposti astrologici che noi conosciamo, o di temerario dal punto di vista della dottrina teologica del tempo, è evidente. Perciò l'autore dello Speculum non solo la ritiene legittima, ma dichiara ch’è opportuno, come pensa anche SCHIAVONE, conoscer l'ora favorevole al concepire, al prender medicine e alle operazioni chirurgiche. Per quel che riguarda invece la costruzion dell’immagini a fine di modificare l'influsso celeste, egli stima necessario far molte riserve. Parti electionum dixi supponi imaginum scientiam, non quarumcunque, sed astronomicarum. Quoniam imagines sunt tribus modis. Est enim unus modus imaginum abominabilis, qui significatione et invocatione exigit. Est alius modus aliquantulum minus incommodus, detestabilis tamen, qui fit per inscriptionem characterum, per quaedam nomina exorcizando. Tertius autem est modus imaginum astronomicarum, qui eliminat istas spernendas suffumigationes et invocationes, et non habet neque exorcizationes, neque characterum inscriptiones admittit, sed virtutem nanciscitur solummodo a figura caelesti. Posta tale distinzione, mentre egli condanna gl’esorcismi, gl’incatesimi e la necromanzia, pensa di non potersi arrogare il diritto di condannare o di negar l'efficacia dell’immagini astronomiche. D'immagini astronomiche, ammesse dall'autore dello speculum, si parla nella già citata differenza X e nella CI del conciliator. Ma SCHIAVONE sembra andar più oltre ed ammettere anche quel genere di pratiche condannate dall'autore dello speculum. Si tratta per altro d'un equivoco EQUIVOCO GRICE. Egli crede al fascino, all'arte notoria, alla pvaecantatio e alla magia, e questo deve, senza dubbio, aver contribuito a crear la sua fama di mago e di necromante; ma intanto spiega i fenomeni e i resultati ottenuti con queste arti, sforzandosi di trasportarli sul terreno della magia bianca, allora ritenuta lecita dai teologi. Conciliator, diff. Champier Conciliator, diff. Champier. Intorno alle interessanti varianti del numero 8 nelle varie edizioni del conciliator, Ferrari, Pella biografia etc. Così egli ammette l'efficacia del fascino e degl'incantesimi, come l’ammette Avicenna e come l'ammette POMPONAZZI, ma esclude d’essi ogni carattere sovrannaturale e segnatamente l'intervento di demoni, pur senza negar l'esistenza d’essi. Per SCHIAVONE, L’ANIMA DI CERTI UOMINI è fornita, per uno speciale influsso celeste, di virtù eccezionali, e si comporta, nel modificare l’influenze astrali sulla terra, come l’immagini artificiali costruite dai sapienti dell' India. La praecantatio è utile al filosofo, come gl’è necessaria la fiducia da parte dell' infermo. Ma le parole dell'incantesimo verbale desumono la loro efficacia dalla virtù celeste, come dalle disposizioni favorevoli delle costellazioni deriva l'efficacia, secondo Albumasar, della preghiera astronomic. L'efficacia, insomma, di tutte queste pratiche è desunta dall'astrologia. Samo fuori del dominio della magia nera. Una censura speciale di Champier riguarda anche una dottrina la quale non ha niente che fare colle dottrine di carattere prettamente astrologico ch’abbiamo riferite; ma che, anzi, sotto un certo aspetto, è opposta a quelle. N. intende la dottrina della produzione delle forme – come il cerchio -- GRICE -- nel mondo infra-lunare. Essa suona così: Ponentes creationem, etsi verissimi in lege sint, in philosophia tamen non sunt admittendi, cum ipsam levem faciant omnino, ac primam quasi causam multiplicibus vexent laboribus; decorem non minus et ordinem et per consequens perfectionem removentes, secundum LIZIO, ab universo. Champier pretende che con siffatta dottrina SCHIAVONE viene a contradirsi, quia simul stare non possunt, quod lege sint verissimi, et tamen admictendi non sint in philosophia; quia omne verum consonat. Dove non sai s’egli accusi il filosofo d’aver negato la creazione, o d’avere ammessa la dottrina averroistica della doppia verità. Ma nell'uno come nell'altro caso, ha frainteso senz'altro la filosofia di SCHIAVONE Conciliator, diff. Conciliator, diff. Conciliator, diff. loi Champier realtà, di tutte le dottrine censurate da Champier, tre appena sono tacciate d’eresia e segnate d’un biasimo speciale, e cioè: quella, ora accennata, intorno alla creazione; l'avere SCHIAVONE affermato che il divino non puo operare nel mondo infra-lunare se non per mezzo d'intermediari; e l'aver ritenuta efficace la prae-cantatio. Ora la prima dottrina è stata semplicemente fraintesa da Champier; la seconda è esagerata, poiché così come SCHIAVONE l’intende, non suona affatto eretica ai tempi di lui. Quanto alla terza, egli non s’è accorto come la prae-cantatio e le altre pratiche affini hanno perduto in SCHIAVONE quel loro carattere originario derivante dalla magia nera che le rende singolarmente sospette. Se Champier esamina il conciliaior coll'animo scevro dai pregiudizi d’una scuola teologica che ha già perduto per sempre il senso della libertà nel campo scientifico, quel senso di libertà che s’è così poderosamente affermato; s’egli, dice N., studia l'opera del filosofo con quel senso di tolleranza che rivela il teologo autore dello speculum, e non colla grettezza sospettosa degl'inquisitori padovani, avrebbe potuto forse risparmiarsi quasi tutte le sue censure e castigationes. Notevole, per altro, che nemmeno Champier, che con tanto zelo si dette la pena di spulciare l'opera ritenuta pericolosa, formula l’accuse ben altrimenti gravi che, con altro scopo, solleva contro SCHIAVONE il suo biografo. Ferrari. Eresie di SCHIAVONE, secondo Ferrari: Dio e il mondo, Scienza e fede. L'averroismo di SCHIAVONE secondo Ferrari. Dottrina della creazione; lo schema platonico; il concetto di creazione mediata. Eternità della materia Il problema circa l'eternità del mondo. La pretesa tendenza al panteismo. Il miracolo. La doppia verità. L'ultimo processo alle dottrine filosofiche di SCHIAVONE è quello intentato ad esse nella voluminosa e farraginosa biografia scritta intorno al nostro filosofo da Ferrari. Anzi che colla serena comprensione dello storico, si dice che questo autore s’è accinto allo studio della filosofia di SCHIAVONE colla stessa parziahtà di Champier e, quasi dice N., colla stessa mentalità degl'inquisitori padovani: coll'aggravante d’una minore disposizione a intenderlo, derivante dalla scarsa conoscenza, che ha Ferrari, d’una filosofia così complessa e ricca di motivi come quella medievale. La scarsa conoscenza della filosofia medievale, che verremo documentando, si rivela subito, fin dal primo tentativo col quale Ferrari caratterizza la dottrina filosofica di SCHIAVONE, ora asserendo che questi inclina e simpatizza pell'avverroismo, ora sforzandosi d'inquadrarne il pensiero nel movimento d'idee noto sotto il nome d’averroismo LATINO. All'averroismo più o meno latino inclina il maestro padovano: pella negazione della creazione dal punto di vista filosofico, per avere ammessa la materia eterna, la necessità d' intermediari tra la causa prima e i fenomeni del mondo infra-lunare, e l'eternità del mondo; per una non ben precisata tendenza al panteismo e per un certo NATURALISMO – bete noire H. P. GRICE -- che lo porta a negare la possibilità dei miracoli; per aver professata la dottrina della doppia verità; e finalmente pella dottrina dell'intelletto separato. Discuteremo il giudizio di Ferrari sui primi tre punti. Al quarto punto riserveremo il paragrafo che segue, giacché ne vale la pena. Alla fine del paragrafo precedente, abbiamo visto che Champier segnala come errore, et horrendus, l'affermazione di SCHIAVONE che la dottrina della creazione, pur essendo vera dal punto di vista teologico, è da rigettarsi da quello filosofico. L'interpretazione sbagliata che Champier colla sua censura da d’un passo male inteso, diventa Un esempio caratteristico dell'incapacità a comprendere e a giustificare, nel loro genuino significato storico, l’idee del passato, è il capitolo che Ferrari dedica a SCHIAVONE astrologo. Egli riassume purchessia le dottrine astrologiche del nostro, ma non le spiega. Anzi, ad un certo punto non sa far di meglio ch’uscire in questa goffa esclamazione: Piaccia al nostro lettore che non ci smarriamo in tali labirinti del pensiero umano che mettono avvilimento e pietà. Pella biografia, etc. L'accusa d'averroismo, per altro, risale, sebbene non precisata come presso Ferrari, pello meno a Renan e a Tiraboschi. addirittura una mostruosità storica sotto la scorrevole penna di Ferrari. Udiamo, infatti, qual concetto questi si sia fatto della relazione tra la il divino e il mondo secondo la mente di SCHIAVONE. L’azioni del mondo superiore sulla terra e su noi vengono infine dal divino; salvoché l’une producendosi per una serie di mezzi, sono coordinate a questi e n’hanno la misura, la costanza, la prevedibilità, oltre che sono relativamente ad essi inevitabili; onde le possiamo in certo modo ridurre alle qualità degl’elementi, anche se non vediamo precisamente il come; l’altre s’esercitano senza movimenti, absque medii alteratione, o dal divino stesso o dalle stelle imprimenti una speciale virtù, com'è nel caso del magnete, la cui virtù attrattiva è collegata, lo attesta l'esperienza, col polo artico. L'opera divina è del resto palese nell'ordine universale e nella finalità che governa il cosmo. L’ACCADEMIA ripose le cause universali in divinità secondarie, specie di ministri alla prima, che danno le forme alle cose, onde Averroè dice che l’ACCADEMIA in un modo alquanto oscuro aveva asserito che il creatore fé' gl’angeli e ordina poi loro di creare l’altre cose mortali, il che veramente non si dee prendere alla lettera. Il LIZIO le forme delle cose terrestri volle, secondo che pare anche a Temistio, sono generate dal sole e dal suo giro. Alcuni ammisero che le forme sono nella nostra terra latenti, quali Anassagora, GIRGENTI, Democrito. Altri parlarono di creazione. I primi traggono le cose dal caos, i secondi vogliono invece che il divino le produca dal nulla. E quest'ultima opinione induxit loquentes trium legum, quae hodie sunt, dicere aliquid fieri ex nihilo adeo quod diciint quod homo cum moveat lapidem expellendo, non est movens, sed agens illud creai motum. Di tali sentenze possiamo leggere in Giovanni Filopono. Ma tra le due opinioni opposte e' è luogo per due intermedie, anzi per tre, che convengono nell'ammettere due tesi: la generazione essere un tramutarsi delle sostanze, e niente prodursi dal niente. Convengon in ciò, ma si discostano poi nel 4 L'osservazione è meravigliosa! Neanche a farlo a posta, SCHIAVONE cita subito il Timeo, nominando espressamente Platone e l’ACCADEMIA: Quare, 12. Metaph. [comm. 44], Commentor: Plato e l’ACCADEMIA suis obscuris verbis dixit quod creator creavit angelos manu. Del resta alla diff. si legge. Plato e l’ACCADEMIA namque posuit substantias separatas, quas ideas appellavit. modo di pensare l'agente. L'una pone che l'agente crei la forma e la dia alla materia, sia poi esso congiunto o no con materia: opinione di Temistio e lino a un certo punto di Alf arabi. La seconda nega che l'agente sia affatto legato alla materia e lo chiama dator delle forme, come pensarono Algazel ed Averroè. La terza è quella del LIZIO, che l'Afrodisio giudica non ambigua, e alla quale non si può non assentire. L'agente non fa se non il composto di materia e forma, movendo la materia finché n’esca in atto la forma che vi giace in potenza. La sentenza del LIZIO in qualche cosa somiglia a quella dei creazionisti e in qualche cosa ne differisce ma è la sola vera, perché sol essa non porta a conseguenze impossibili, come vi portano l’opinioni dell’ACCADEMIA e d’Anassagora, che sono dal LIZIO combattute vittoriosamente. Coloro che invocano la creazione, etsi verissimi lege sint, in philosophia tamen non sunt admittendi. Dopo questa che vorrebbe essere una parafrasi, invero molto libera, d’un importantissimo passo del conciliator, Ferrari dice ancora. L'essenza della materia rende inevitabile l'uso di qualche mezzo o strumento, per certe produzioni, al divino stesso. In altre parole il divino produce e governa i cieli, gl’angeli, L’ANIME, ma nulla poi potrebbe fare nei regni inferiori delle cose corporee senza il loro mezzo, pella troppa distanza tra i due termini. Gl’è così che per una serie di mediazioni, e con armonia meravigliosa discende alle infime cose terrestri l'azione divina, passandosi per gradi dalle cose incorruttibili, anzi dall'imo semplice ed immobile ag’esseri composti, variabili corruttibili. Parrebbe, dunque, a sentire Ferrari, che il divino, sorgente prima di tutte l’azioni del mondo celeste su quello terrestre, avesse di fronte a sé un principio eterno di passività che sarebbe poi la materia; che questa materia fosse eterna al pari di Dio e non prodotta; che l'azione divina sul mondo Leggasi Avicenna, e non Averroè, il quale ha sempre combattuta la teoria del dator formarum. Le edizioni hanno solo un' A., che ovunque è abbreviazione d'Avicenna. Ferrari un'altra volta legge Aristotele, arruffando tutto il senso di un passo importantissimo della diff. SCHIAVONE SCHIAVONE. Il luogo del Conciliator qui parafrasato è stato riportato per esteso sopra, corruttibile non potesse in nessun modo esercitarsi se non attraverso una serie di mezzi, che sono i cieli, gl’angeli e le anime. Se gì'inquisitori parigini e padovani, che se n'intendevano, avessero lette queste cose negli scritti di SCHIAVONE, non avrebbero aspettato ad arrostire un cadavere, né r imputato sarebbe sfuggito loro dalle mani. Il fatto, invece, è che il pensiero genuino di lui è ben diverso dall'esposizione che ne fa Ferrari.Vediamo dunque di chiarirlo. Secondo lo schema accademico d’Alfarabi e Avicenna, riassunto anche da SCHIAVONE, dalla prima causa, che è motore immobile e quindi idem et stabilis permanet, non puòderivare ciò che è molteplice e mutevole; ma solum unum immediate, cioè la prima intelligenza col primo cielo. Da questa è prodotta la seconda intelligenza col secondo cielo; e così di seguito, di grado in grado, secondo un ordine d’emanazione discendente, fino all'intelligenza lunare, la quale produce la così detta intelligenza agente, gubernantem quae sunt in activorum et passivorum spaerà simplicium et compositorum, cioè tutte le forme del mondo infrahmare. SCHIAVONE accetta in parte questo schema, ma v'introduce profonde modificazioni. Egli pone, tra la causa prima e la materia, una serie d'intermediari che gli servono a spiegare, come ad ALIGHIERI, la contingenza nel mondo inferiore; ma in nessun luogo afferma che la materia sia eterna, come vorrebbe farci credere Ferrari, per il quale eterna vuol poi dire non creata. E sebbene dica, secundum Aristotelem et Commentatorem, quod Deus nihil potest in haec interiora operari absque medio, è evidente che egli intende parlare, non di una necessità di natura e SCHIAVONE come gli scolastici del suo tempo mette con Avicenna anche Algazele. In realtà questi scrive un'esposizione delle dottrine d’Alfarabi e Avicenna, alla quale tene dietro la sua confutazione fatta dal punto di vista della teologia mussulmana ortodossa. Fino ai tempi di SCHIAVONE solo la prima parte è tradotta in latino; la Destructio philosophorum si conobbe assai più tardi. Di qui l'abbaglio. Palacios, Algazel, Zaragoza, igoi. Duhem tuttavia crede che quando Algazele scrive la prima parte dell'opera, egli accettas quelle dottrine accademiche che rifiutò poi nella Destructio Duhem, Le système du monde etc, Paris. Conciliator, diff. loi. Farad. il saggio di N, ALIGHIERI e SCHIAVONE nei Saggi di filos. dant. Conciliator, diff. assoluta, ma di una necessità conseguente a quella a perfecta ratio che è poi la stessa sapienza divina, la quale ha volontariamente stabilito l'ordine mondano; ordine che è sospeso alla volontà divina la quale è immutabile. Ma se la causa prima fissa l'ordine cosmico, nel quale gl’eventi del mondo infralunare dipendono dal moto e dalle 'a^iazioni che accadono nei corpi celesti, intermediari tra i due estremi dell'atto puro e della pura potenza, non ne segue logicamente che non possa, in quanto è superiore a quest'ordine da sé stabilito, derogarvi. Anzi troviamo esplicitamente asserito il contrario: Potest primus sua mera benignitate, cum sit agens supernaturale, per voluntatem, absque motu et transmutatione in haec in inferiora operari, quicquid dicat peripateticus. Ora se SCHIAVONE può pensare ad un intervento diretto, anche se fuori dell'ordine naturale, della causa prima sul mondo della generazione e corruzione, vuol dire che la necessità degl'intermediari, affermata da lui sulla scorta di Aristotele e del commentatore, non è la necessità assoluta dei platonici arabi, per i quali è sempHcemente impossibile, cioè anche ancilla e jamula della teologia, la filosofia è riconosciuta indipendente da quella e autonoma entro la propria cerchia di ricerche naturali. Così, non ostante tutti i tentativi più o meno ingegnosi per unificarle, quella filosofia e quella teologia non rimanevano meno distinte, se non opposte, per i loro metodi propri di ricerca e per il loro spirito. In questa distinzione, accettata da tutti i teologi del tempo di SCHIAVONE, era il germe latente dell'eresia di cui a torto si vorrebbero render responsabili solo i veri o pretesi averroisti. Una volta proclamata la legittimità della ricerca razionale e filosofica, per mezzo di metodi propri e diversi da quelli teologici, quale autorità teologica in terra avrebbe potuto più mettere un freno a coloro che, intrapreso il cammino della ricerca scientifica, intendeno percorrerlo fino in fondo. E infatti, s’era appena riconosciuta quella distinzione, che fu subito avvertito il contrasto tra filosofia e teologia, contrasto che venne sentito più o meno da tutti i filosofi scolastici, da Brabante come d.Aquino, da SCHIAVONE come da Duns e d’Alighieri; e tutti cercarono di risolverlo con particolari e diversi atteggiamenti spirituali. Il contrasto, da prima latente, dove portare, e porta, al conflitto fra i rappresentanti delle due principali facoltà degl'istituti universitari, quella dell’arti e quella di teologia. Nella facoltà dell’arti si leggeno e si commentano i libri d'Aristotele e le trattazioni d’Avicenna, Averroè, Galeno, Tolomeo e di numerosi altri autori. E vi rifiorirono così, e s’accrebbero, l'astrologia, la matematica, la medicina, l'alchimia e la magia, tutte insomma le scienze create o sviluppate dal genio filosofico. Che queste scienze sono infestate d’inveterati pregiudizi metafisici, non toglie che il loro sviluppo concorre in larga misura allo sviluppo del sapere scientifico e al progresso dello spirito umano. Per mezzo d’esse si inaugura nell'occidente il metodo della ricerca filosofica, s'inizia la libera indagine delle cause naturali dei fenomeni del mondo ter E di porre un freno si tenta più volte, ordinando, come a Parigi agli scolari della facoltà dell’arti di astenersi dal determinare contra fidem quando hanno da discutere d’un problema che /idem videatur attingere simulque philosophiam. Carthularium Universita Parisiensis restre. Al pregiudizio teologico si sostituì, è vero, quello astrologico. Ma l'errore d’aver riposto le cause dei fenomeni naturali in influenze astrologiche, non è poi così grave e imperdonabile, s’esso significa anzitutto libera ricerca di cause naturali, affermazione di leggi ed esclusione dell'arbitrario dal mondo dell'esperienza. E intanto quell'astrologia, quell'alchimia, la vecchia medicina e la stessa magìa venivano raccogliendo da ogni parte ed accumulando preziose osservazioni ed esperienze, che, nella Rinascenza, dovevano portare al superamento dei pregiudizi e concetti metafisici, e contribuire direttamente al rinnovamento della scienza. Al quale non si sarebbe mai giunti, senza l'inaugurazione di quel metodo razionale, la cui legittimità era stata proclamata all'unanimità dagli stessi teologi scolastici, non solo in teoria ma anche in pratica. Vediamo infatti Aquino esporre con intera libertà e senza prevenzioni le dottrine di Aristotele, fino a dichiarare, contro il parere dei teologi, che l'eternità del mondo non implica contradizione e che la tesi della creazione nel tempo non può dimostrarsi colla sola ragione. E Alberto di Colonia insieme al pensiero aristotelico espone quello degh altri peripatetici, pur notando che non di rado esso cozza coi dommi cristiani. Ora all'esempio di Colonia si richiamano espressamente o tacitamente SCHIAVONE e Brabante, quando dichiarano di trattare de naturalibus naturaliter, senza farla da teologi. De naturalibus naturaliter: ecco il programma di quegli AMBIENTI LAICI, che sono le facoltà dell’arti. LAICI, s'intende, solo per i metodi dell'indagine scientifica e filosofica in contrapposizione con quelli della teologia. Di questi ambienti laici SCHIAVONE incarna perfettamente lo spirito. In questo spirito è la sua vera, la sua unica eresia; un'eresia inconsapevole che s'era già insinuata nella coscienza di tutti coloro che avevan fatto buon viso al rinascente pensiero aristotelico, e che era penetrata fino nelle scuole di teologia. Senza prestargli dottrine eterodosse che negli scritti a noi noti egli ha il studio di N., La posizione di Colonia di fronte all'averroismo La filosofia, infatti, questa povera ancella della teologia, ha il compito di stabilire i praeambida /idei e dichiarare il contenuto delle formule dommatiche. Le opere teologiche della Scolastica, compresa espressamente riprovate, senza attribuirgli quel continuo sdoppiamento di coscienza che piace a chi, per il gusto di farne un eretico, ne farebbe volentieri un ipocrita, pronto ad affermare il contrario di quello che in cuor suo pensa, per salvare la pelle dal rogo; le sue audacie dottrinali, dal punto di vista della teologia imperante, sono evidenti: maggiore di tutte quelle intorno ai miracoli e ai fatti meravigliosi. SCHIAVONE è lo scienziato forse più caratteristico di quel periodo di cui Aquino è il maggior teologo, e Alighieri il sommo poeta. Pella vasta erudizione, pur senza essere un rinnovatore e un precursore, rappresenta la scienza in tutti i suoi molteplici aspetti, in ogni sua tendenza. L'idea centrale della scienza di lui è un'idea astrologica. E i creatori della leggenda popolare di un SCHIAVONE mago, sebbene non cogliessero i veri caratteri della sua magìa, magìa bianca, ben differente dalla necromanzia, ci hanno tramandato un'immagine dell'uomo, che forse è meno difforme di quel che non si creda, dalla sua storica personalità. la grande Summa d’AQUINO, son impregnate di razionalismo; razionalismo che s’afferma nettamente in Lullo. L'ancella comincia ben presto a farla da padrona! Ili Se SCHIAVONE non è un avverroista nel senso vero e proprio della parola, avveroista è invece l'eremitano Nicoletti, il quale professa a Padova un tipo d'avveroismo guardingo, che forse «gli vi portò da Parigi, se pure non v'era già arrivato da BOLOGNA, e che risente della lettura dell'opera di Sigieri di Brabante, De intellectu ad jratrem AQUINO, oppure degli scritti di Wilton impugnati a BOLOGNA Bologna, dal francescano Alnwick. NICOLETTI è andato a studiare a Oxford, insieme a un suo fratello germano, anch'egli eremitano, e v'era Dal voi. Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano. Roma, Edizioni Italiane, salvo una modificazione fino al quinto capoverso. Sigieri di Brab. ecc. Che l'averroismo a PADOVA ha origini in BOLOGNA è ipotesi verosimile; ma non si può escludere un'origine oltre-montana. Che poi Averroè è tenuto in gran conto a Padova assai prima di NICOLETTI, è provato dagl’affreschi di Menabuoi nella cappella Cortelieri nella chiesa degl’eremitani, anteriori, e dei quali ci resta la descrizione di Schedel di Norimberga che è studente a Padova. Giunto raffigura Averroè insieme agl’eremitani maestro ALBERTO DA PADOVA e al beato GIOVANNI DA BOLOGNA. Schlosser, Giusto's Fresken in Padua n. die Vorlàufern der Stanza della Segnatura, Jahrbuch der Kunsthistor. Sammel. des allerhòch. Kaiserhauses, Wien, Bettini, Giusto S. M. e l'arte. Padova, P n? NICOLETTI dove ben conoscere quegli affreschi. 2 Maier, Alnwicks BOLOGNA Quaestionen gegen Averroismus, Gregorianum rimasto almeno un triennio. Il soggiorno di NICOLETTI a OXFORD non era rimasto ignoto a CITTADINI (vedasi) da Faenza, che a Ferrara detta un commento polemico dei Logica minora dell'eremitano, in principio del quale si legge: Ferunt autem quidam non auctoritate indigni, hunc libellum in BRITANNIA, ubi olim et dialecticae et PHILOSOPHIAE studia floruerunt, in antiquissimis litteris compertum esse, ut ex illis constaret, prius opusculum hoc extructum fuisse quam NICOLETTI natus esset. Quod eo magis a non nulhs creditur, quod certuni est NICOLETTI apud Britanos visendorum GYMNASIORUM gratia aliquando commoratum esse, ac postea in Italiani revertentem multos libros secum detulisse, quorum auctores Italis penitus erant incogniti. Più tardi soggiorna anche in tlorentissima universitate Parisina, ove NICOLETTI espone gli ante-praedicamenta di Aristotele. Egli è lettore nella facoltà dell’arti a Padova, e quivi compone quella Summa naturalium nella quale è esposta la dottrina del libri fisici e della Metafisica d'Aristotele, con sobrie discussioni dei problemi agitati nelle scuole. Notevole in questa summa il trattato concernente il De anima, perché in esso ritroviamo le tesi fondamentali del De intellectu di Sigieri. Ma di questo scritto aristotelico NICOLETTI ci lascia un'assai più ampia esposizione redatta non di molto posteriore alla Summa naturalium Reg. Re. mi Barth. Veneti, nell'Archivio della Curia generalizia degl’eremitani in Roma Dd. il studio di N. sulla Letteratura e cultura veneziana, La civiltà veneziana. Firenze, Sansoni Cod. Urb. lat. Ghiotta notizia, segnalatami da Pagallo, in una annotazione al Cod. della Bodleniana di Oxford Catal. di H.O. CoxE, P. Ili, Oxford La data di composizione della Summa naturalium è fissata dal codice marciano che ne contiene solo tre parti. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Veneiiarum, Venezia, Lat. Come non molto posteriore è 1'Expositio super libros Physieorum Aristotelis necnon super comento Averois cum dubiis eiusdem Duhem, Le niouvement absolu et le mouvement relatif. Revue de philosophie. Montligeon (Orne) Le stesse variazioni che Duhem riAnche in questa seconda opera l'influsso esercitato sull'eremitano dal trattato dell'averroista belga contro AQUINO, è decisivo, come possiamo convincerci dalla lettura dei seguenti brani che per comodità del lettore riferiamo. Nell'esposizione del testo del De anima, Nicoletti si pone, ad maiorem dictorum evidentiam, alcuni dubia, il secondo dei quali verte sul problema utrum in eodem animali plures possint esse anime totales, che egli risolve nel modo che segue, non senza aver prima confutate altre soluzioni: Circa liane materiam, siint plures modi dicendi. Primus modus est, quod piante non habent nisi unam animam totalem, scilicet vegetativam; bruta duas, scilicet vegetativam et sensitivain; homines vero tres, videlicet vegetativam, sensitivam et intellectivam; non tamen simul generantur, sed successive per tempus, ita quod primo generatur vegetativa, deinde sensitiva, tertio leva – GRICE PIROTOLOGICAL PROGRESSION -- tra quest'opera e la Summa naturalium, si posson notare anche fra quest'ultimo scritto e il commento Super libros Aristotelis de anima, che senza dubbio rivela una maggiore complessità e maturità di pensiero. Nel commento, a proposito del quesito se gli universali sint in rerum natura, NCOLETTI dichiara d'averne trattato quanto basta in alio opere et in prologo physicorum. È probabile che, dopo l'esposizione sommaria delle dottrine fìsiche e metafìsiche dello Stagirita, Nicoletti si sia accinto a commentare le singole opere aristoteliche alle quali si riferiva la Summa, cominciando, come sappiamo, dagli libri della Fisica e proseguendo poi col De caelo, col De generatione et coruptione, coi libri Meteorologici, col De anima e colla Metafisica. Una vera biografìa filosofica di NICOLETTI non è concepibile senza aver tolto in esame tutte queste opere che da parte di Momigliano sono state piuttosto ricordate che vedute e lette. Tornato a Padova, dopo le peripezie che lo avevano costretto a lasciare questa città o forse l'eremitano s'accinse a commentare di nuovo il De anima, come ci attesta Ripalta, piacentino, allora studente nello studio padovano. Questi si procura una copia dell'esposizione completa dell'opera aristotelica, poiché il maestro che con tanto grido era tornato a leggerla non anda oltre il capitolo de gustabili, essendo stato colto dalla morte. Valentinelli NICOLETTI, In libros de anima explanatio cimi textu incluso singulis locis, maxima qiiidem diligentia a vitijs mendis atque erroribus quibus hacteniis ex ignavia impressorum scatebat purgata ac pristine integritati restituta etc. E nel colophon: Scriptum super librimi de anima ex proprio originali diligenter emendatum per clarissimum. artium doctorem. D. magistrum Hieronymum Surianum, filium prestantissimi quondam artium doctoris, Domini magistri lacobi. de Surianis de Arimino Venezia, Eredi di Scoto, comm. post completarti organizationem membrorum generatur intellectiva Hic modus dicendi est superfluiis. Secundus modus dicendi est, quod in quolibet vivente est solum una anima totalis; et quod est ordo in productione animarum, quia FETVS PRIMO VIVIT VITA PIANTE, deinde vita animalis; tamen tales anime simul non manent in eodem, sicut nec due figure, sed in adventu secunde corrumpitur prima, et in adventu tertie corrumpitur secunda. Iste modus est impossibilis, quia tunc aliqua forma per se ageret ad corruptionem sui ipsius. Tertius modus dicendi est, quod in nullo nisi in homine sunt plures forme substantiales seu anime totales, scilicet sensitiva et intellectiva, quarum prima educitur de potentia materie per agens naturale, secunda autem creatur a deo, non obstante quod ita bene inhereat sicut prima, adducendo illud philosophi, de animalibus: intellectus venit deforis. Sed hec opinio includit contradictionem, quia si anima intellectiva inheret materie, ergo educitur de potentia materie et generatur ad generationera corporis animati et corrumpitur ad corruptionem eiusdem. Item hec opinio non est naturalis, quia ponit intellectum creari; et Aristoteles una cum commentatore ponit ipsum perpetuum et eternum. Deinde, si anima intellectiva inheret materie, ergo intellectio et volitio sunt subiective in materia; quod est centra philosophum et commentatorem ponentes potentias rationales esse abstractas a corpore, et consequenter actus illarum. Quartus modus, quem solum puto rationalem, est iste, quod pianta habet solum unam animam totalem, scilicet vegetativam, compositam ex partibus diversarum rationum; et consequenter animai imperfectum simpliciter, quod non habet aliquem sensum exteriorem nisi sensum tactus, nec aliquem motuin ad locum, sed solum motum dilatationis et constrictionis, habet etiam solum unam animam, scilicet sensitivam, que propter sui imperfectionem supplet vices anime vegetative, ita quod in ostrea vel spongia marina eadem anima est sensitiva et vegetativa. Animai autem perfectum habet duplicem animam, scilicet partialem vegetativam, in carne vel osse vel in aliquo proportionali, et Questa teoria è la seconda delle opinioni da N. elencate in Giorn. Crii, della Filos. Ital., ed è ricordata d’ALIGHIERI, Purg., come quello error che crede ch'un 'anima sovr 'altra in noi s'accenda. Questa dottrina, già accolta dal francescano RocheUe, fu difesa, com' è noto, d’AQUINO. lo stesso Giorn. Crii., opinione. Questo tertius modus, che è una teoria intermedia fra quella d’AQUINO e quella schiettamente averroistica, non è altro che la opinione da N. elencate, professata da Alberto Magno, Peckam ed ALIGHIERI. Giorn. Crii.; come pure il voi. Di N., ALIGHIERI e la cultura medievale, Bari, Laterza Questa è anche la tesi di Bate; Sigieri, nel pens. nnam sensitivam totaleni, ut equus vel asinus. HOMO autem, preter partiales animas, habet duas totales: cogitativam sensitivam, generabilem et corruptibilem, inherentem et informantem, et intellectivam perpetuam et eternam, informantem et non inherentem. Da siffatta teoria risultano alcune conseguenze a mò di corollari Tertio sequitur quod HOMO non est homo precise per animam cogitativam, nec precise per animam intellectivam, sed per ambas simili. Cogitativa enim denominat hominem esse animai, et intellectiva denominat hominem esse RATIONALEM. Sed HOMO est diffinitive et convertibiliter ANIMAL RATIONALE – corpi celesti ANIMAL RATIONALE AETERNVM --. Ergo ambe anime concurrimt ad constitutionem hominis. Quo dato, oportet concedere quod, sicut genus est prius differentia et potentiale ad illam, sicut universaliter minus perfectum ad maius perfectum, ita cogitativa est prior intellectiva in homine et potentialis Nella Summa philosophie natura! is o naturalium Venezia. Eredi di Scoto, De anima: conclusio: Necesse est in homine esse plures animas totales. Probatur: nam sol et homo generant hominem, physicorum; ergo homo generatur; sed terminus generationis est forma accipiens novum esse, ut colligitur ex sententia philosophi, phisicorum; ergo aliqua forma hominis generatur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva generatur. Item, philosophus, coeli: omme genitum aliquando corrumpetur; ergo homo aliquando corrumpetur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva. Et ita necesse est ponere in homine duas animas: unam intellectivam, ingenerabilem et incorruptibilem, secundum philosophum, et aliam sensitivam, generabilem et corruptibilem, quam Commentator vocat, de anima, cognitivam cogitativam. Conclusio: Impossibile est in aliquo vivente non intellectivo esse plures animas totales. Patet, quoniam si in plantis vel in brutis ponerentur plures anime totales, una necessario superflueret, quoniam illa que est maioris perfectionis totum actuaret, sicut illa que est minoris perfectionis, et omnes operationes eius exerceret, ex quo in ea fundantur omnes potentie inferioris anime. Dicatur ergo quod in plantis est solum una anima totalis, que est tota in toto et pars in parte, et hec est vegetativa. In animalibus autem imperfectis est solum una anima totalis, et illa est sensitiva, supplens vicem anime, que etiam extenditur ad extensionem subiecti; et in animalibus perfectis sunt plures vegetative partiales et una sensitiva totaUs, multiplicata ad omnem partem heterogeneam. Sed IN HOMINIBVS, praeter formas partiales vegetativas, sunt due totales, scilicet sensitiva multiplicata ad partes heterogeneas, et intellectiva non multiplicata ad aliquam partem illius individui, sed bene ad omnia individua speciei humane, eo quod intellectus est unus in omnibus hominibus, iuxta intentionem Aristotelis et determinationem Commentatoris, de anima. illam sequitur quod idem individuum est diversarum specierum essentialium. Patet, quia HOMO per animam cogitativam sensitivam est alicuius speciei generis animalium, immo supreme speciei, quia, secluso intellectu, PER COGITATIVAM HOMO HABET DISCVRSVM QUODAMMODO RATIONALEM – GRICE PRINCIPLE OF RATIONAL DISCOURSE --, ratione reminiscentie reperte in eo et non in aho; licet enim memoria reperiatur in liis animalibus, non tamen reminiscentia; neque reminiscentia competit homini ratione intellectus, sed ratione cogitative virtutis, quia reminiscentia est passio anime sensitive, secundum Aristotelem, in de meìnoria – GRICE PERSONAL IDENTITY -- et reminiscentia H. Item, quia intellectus humanus est pura potentia in genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio huius, et per consequens est primus gradus illius generis, ideo per intellectum constituit primam speciem intellectivoruni, sicut per cogitativam constituit ultimam speciem generis animalium. Nec est inconveniens duos gradus specificos esse immediatos, quia species sunt sicut numeri, inetaphysice. Et si concluditur ex eodem fundamento, quodlibet mixtum esse diversarum specierum essentialiter, ratione forme mixti et forme elementi, negetur consequentia, quia forma elementi non se habet respectu forme mixti nisi materialiter et potentialiter per modum dispositionis prefinientis in materia formam mixti; ideo non dat mixto nomen specificum nec diffinitionem essentialem. Sed anima cogitativa non se habet tanquam dispositio prefiniens animam intellectivam, cum eque simul inducantur in corpore, nec una potest naturaliter esse sine alia. Cogitativa tamen dicitur esse prior intellectiva et potentialis ad illam propter suam imperfectionem. Come è facile vedere, già in questo luogo dell'esposizione del libro secondo del De anima, la tesi caratteristica di Sigieri, Anche Sigieri, come sappiamo, afferma che la cogitativa è ordinata in intellectivam, talché nec potest intellectus informare materiam non informante cogitativa, nec potest cogitativa informare materiam non informante intellectu; Sigieri nel pens. Quella parte dove sta memora chiama l'anima sensitiva anche Cavalcanti, nella canzone Donna mi prega, tutta pervasa di dottrina averroistica; il mio voi. Dante e la cult, medievale Gli averroisti negano si la memoria che la reminiscenza all'intelletto; il mio voi. Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura Altra tipica tesi di Sigieri che NICOLETTI sviluppa. Allo stesso modo anche nella Summa naturalium Ad secundum dicitur, quod anima intellectiva non advenit enti in actu substantiali, quia eque primo adveniunt corpori sensitiva et intellectiva. Item, dato quod sensitiva precederet tempore intellectivam, adhuc advenit enti in potentia, quia forma sensitiva hominis dicitur potentialis ad ulteriorem actum; non autem anima intellectiva. Hec ergo est differentia inter formam substantialem et accidentalem, quia forma accidentalis advenit enti in actu ultimato, forma autem substantialis advenit enti in potentia, licet non in pura potentia. Ol che r intelletto, pur essendo in sé una sostanza separata unica per tutta la specie umana, s'unisce ai singoli con un vincolo sostanziale, sì da potersi dire forma, atto e perfezione dell'uomo, è accennata in modo esplicito. Ma 1'influsso del brabantino sull'udinese è ancora più evidente nell'esposizione del libro, del pari che nei capitoU della quinta parte della Summa naturalium. In quest'ultimo scritto, NICOLETTI tratta anzitutto della passività o passibilità dell'intelletto umano, formando conclusioni: Quarum prima est ista: Intellectus humanus nullam habet de se in actu speciem intelligibilem, sed ad quamlibet talem est penitus in potentia. Intellectus non est aliqua una natura sed solum habet possibilitatem recipiendi omnes formas materiales. Intellectus possibilis humanus ante intellectionem nullatenus est actu. Intellectus humanus est immaterialis et incorporeus et immixtus. Tutte e quattro queste conclusioni ritornano, con una leggera variazione nel loro ordine, in principio dell'esposizione del De anima; ma qui alla conclusione che corrisponde alla seconda della Summa, il maestro padovano ricollega il problema dell'unità dell'intelletto che nella Summa è discusso. Tanto nella Summa naturalium conclusio, quanto nell'esposizione del De anima combatte la tesi sostenuta un tempo a Oxford da Kilwardby e Wilton, e accolta anche da Jandum, che in aliquo vivente possit esse multitudo formarum iuxta pluralitatem predicatorum essentialium Della qual tesi nell'esposizione del De anima egli dà questo riassunto: Tenentes pluralitatem formarum in eodem iuxta multitudinem predicatorum quiditativorum, dicunt quod prima forma Sortis est illa qua ipse est substantia, et secunda qua est corpus, et tertia qua est corpus animatum, et quarta qua est animai, et quinta qua est HOMO, et sexta qua est Sortes; et ita de individuis aliarum specierum; et imaginantur isti quod, quantum ad animam sensitivam, omnia animalia sunt eiusdem rationis substantialis, a qua sumitur hoc genus animai; et secundum formas ulteriores specifìcas, sunt homines, equi et canes diversarum rationum substantialium; concedentes omnes tales formas realiter distingui et fundari in materia inhesive, ordine essentiali, secundum quod taha predicata invicem essentiahter ordinantur. Ista opinio est impossibilis. Summa naturai., In libros de anima col. Sul modo di concepire la passività dell'intelletto possibile e il concorso dell'intelletto agente e del fantasma ll'atto dell'intendere, l'eremitano riferisce opinioni, l'ultima delle quali è quella d'Averroè: Opinio est Averroys intellectui possibili nihil nisi passibilitates assignantis, fantasmati vero activitatem tanquam particulari agenti, et intellectui agenti tanquam agenti universali; ita quod ad primas intellectiones et species intelligibiles concurrit fantasma tanquam agens particulare, et intellectus agens tanquam agens vniiversale; ad omnes autem conseguentes se habet intellectus agens sicut causa particularis, fantasma autem sicut causa sine qua non, intellectus autem possibilis solum recipit et nunquam agit. Da questa opinione NICOLETTI dichiara di dissentire, non per quel che concerne le prime intellezioni, nelle quali l'intelletto possibile è totalmente in potenza, e quindi del tutto passivo, sibbene per quel che concerne le intellezioni successive, alle quali, essendo già attuato dalle prime, è in grado di concorrere attivamente, semper tamen virtute intellectus agentis. Di qui la conclusione formulata piti oltre, che cioè: Intellectus ante actuationem speciei intelligibilis aliter est in potentia quam post actuationem eius. Dopo aver affermato l'essenziale passività dell'intelletto possibile, NICOLETTI si pone nella Summa naUiralmni il quesito del rapporto da stabihre tra questo intelletto e il corpo umano, intorno al quale tam Inter veteres quam modernos multa discrepantia fuit. E prima di tutto ricorda quod Plato posuit intellectum uniri corpori, non ut formam materie, sed ut motorem mobili, eo modo quo nauta unitur navi et intelligentia orbi, non per modum informationis, sed per contactum virtutis alium a contactu corporeo. Il problema fu a lungo discusso fra le varie scuole nella scolastica della decadenza, senza che ci si rende ben conto della sua gravità, poiché è problema che investe tutta la filosofia fino a Kant: come salvare l'immanenza dell'atto del conoscere, se esso ha bisogno d'una causa esterna che la produca nel soggetto conoscente Summa naturai Quanto ad Averroè, il nostro eremitano ne espone il pensiero in questi termini: Secundo notandum ex intentione commentatoris, ij de anima comm, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam, et non cedit ei organum fantasticum seu imaginative virtutis, cum sit quid corporale, intellectus autem quid spirituale; organum predictum non cedit intellectui, et per consequens illa eadem intentio que informat virtutem imaginativam, informat intellectum materialem; et hoc dico quia intellectus copulatur nobis per formam suam. Copulatur enim nobis per intentiones imaginatas, que sunt eedem cum intentionibus existentibus in intellectu possibili; et ita unitur homini per fantasmata intellecta in actu. Intentiones enim imaginative, per commentatorem, ut informant virtutem imaginativam, plurificantur, quia sunt ibi cum conditionibus materie; sed ut informant intellectum possibilem fiunt una intentio in ipso, quia non recipit cum conditionibus materie. Et ideo inquit Commentator, quod copulatur nobis intellectus per continuationem intentionis intellecte, quia eadem est intentio informans intellectum et virtutem imaginativam. Siffatta interpretazione del pensiero del commentatore arabo anzi che da Sigieri è suggerita invece da COLONNA, al quale il confratello veneto s'appella esplicitamente nel commento al De anima: Opinio fuit Averoys dicentis quod intellectus humanus non unitur corpori ut forma, sed per fantasmata intellecta in actu. Ad quod declarandum, est notandum primo secundum eum in hoc tertio, iuxta expositionem COLONNA, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam etc. All'opinione d'Averroè, NICOLETTI aggiunge quella di Jandun che, al parere di N., egH non ha ben compreso. Ecco ad ogni modo com'egli la riassume: Opinio fuit ianduno dicentis quod intellectus, secundum commentatorem, unitur corpori humano, non ut forma dans esse, sed ut motor mobili dans operari, eo modo quo unitur intelligentia orbi et nauta navi; concedens consequenter quod datur duplex homo: unus qui componitur ex corpore et anima cogitativa; et alius qui componitur ex intellectu et toto residuo In libros de anima COLONNA, Do intell. pass, contra Averr., Venezia quibus proportionaliter respondet duplex intelligere, scilicet universale et particulare; homo sumptus primo modo, solum particularia intelligit; et sumptus secundo modo intelligit solum universalia. A queste opinioni egli oppone la tesi d'Aristotele, secondo il quale l'intelletto è vera forma sostanziale dell'uomo, cui dà essere ed operare. Ma com'egli intenda il pensiero dello Stagirita su questo punto, c'è detto nella Summa naturalium. Anima intellectiva non unitur corpori humano per inherentiam. Patet tripliciter: primo quia ipsa est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima; modo nulla forma inheret materie per transmutationem, scilicet materie que non generatur et corrumpitur, ut colligitur a philosopho, de genevatione, et a Commentore, in de substantia orbis. quia intellectus est impassibilis et intransmutabilis, de anima; sed nulla forma inheret materie nisi per transmutationem et passionem. quia anima intellectiva est indivisibilis et impartibilis per carentiam partium integralium; nam quelibet forma inherens materie suscipit conditiones intrinsecas materie secundum quas inheret; cum ergo conditio materie, secundum quam forma inheret, sit habere partes integrales, licet non partem extra partem, quia hec est conditio quantitatis, etc. Anima intellectiva unitur homini substantialiter per informationem, ita quod est forma substantialis corhumani, non solum dans operari, sicut intelligentia orbi, sed etiam esse specificum et essentiale. Probatur: differentia specifica constituens aliquam speciem sumitur a forma illius speciei, sicut apparet ex intentione philosophi, metaphysice, dicentis quod contraria consequentia materiam non faciunt differentiam in specie, sed contraria consequentia formam; modo differentia propria hominis est rationale; ergo sumitur a forma humana; sed rationale sumitur ab eo quod est intellectivum; ergo intellectus vel anima intellectiva est forma corporis humani. Item, rationale ponitur in diffinitione eius non tanquam additamentum, sed tanquam differentia eius, ut ponit Porphyrius et Aristoteles; ergo rationale est de essentia hominis; sed nihil est per se rationale nisi per aniinam intellecti Sigieri Opinio fuit Aristotelis dicentis intellectum esse veram formam substantialem hominis. Ideo est dicendum cum Aristotele et alijs perypateticis veris, quod intellectus est iorma substantialis hominis, dans sibi esse et operari..vam; ergo etc. Unde ex diffinitione anime data a phylosopho, de anima, convincitur hanc conclusionem esse de intentione sua. Arguitur enim sic: Anima intellectiva secundum ipsum est anima; ergo est actus primus corporis; patet consequentia a dififinito ad diffinitionem; ergo est forma substantialis; patet consequentia secundum phylosophum, de anima, eo quod actus primus est forma substantialis corporis; et nonnisi corporis humani; ergo etc. Deinde anima intellectiva est illud quo primo intelligimus; ergo est forma substantialis hominis; patet consequentia, quia non est alia ratio ad probandum animam vegetativam esse formam substantialem corporis vegetantis, et animam sensitivam esse formam corporis sensitivi; ergo etc. L'anima intellettiva dunque è, sì, forma dell'uomo, in quanto gli dà l'essere e l'operare di uomo, ma non perché sia inerente al suo corpo alla stessa maniera delle altre forme naturali. Su questa differenza NICOLETTI ritorna anche nel commento al De anima: Intelligenda est differentia inter informare et inherere: quoniam informare est dare alteri esse actuale et hoc dicit perfectionem in forma, imperfectionem in materia, quia dare dicit perfectionem; sed inherere est ab alio sustantificari, et hoc dicit perfectionem in materia et imperfectionem in forma, quoniam sustantificare dicit perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam a subiecto – GRICE SUBSTANTIATION --. Ex isto notabili, sequitur quod anima intellectiva, licet informet corpus humanum, non tamen nheret illi, quia non dependet ab eo; quocumque enim tali corpore dato, ante illud fuit et post illud erit anima intellectiva, cum illud generetur et corrumpatur, anima autem intellectiva sit eterna. Ouatuor rationibus arguitur animam intellectivam non inherere materie; quarum prima est ista: anima intellectiva non educitur de potentia materie; ergo sibi non inheret. Secunda ratio: anima intellectiva est prior materia; ergo non inheret illi. Tertia ratio: anima intellectiva est impassibilis et intransmutabilis; ergo non inheret materie. Quarta ratio: anima intellectiva est indivisibilis et inpartibilis per carentiam partium integralium, secundum philosophum et commentatorem, in hoc tertio; ergo non inheret materie. Anima sensitiva o cogitativa ed anima intellettiva son dunque, per il maestro padovano, due forme totali che costituiscono l'uomo nella sua natura di animale ragionevole. Ma pur essendo due forme distinte, sono unite da un intimo In libros de anima legame talmente stretto, che l'una è fatta per l'altra e l'una completa l'altra. Per questa ragione Nifo, più che due anime le dice due semi-anime costituenti, pella loro sostanziale unione, una sola anima umana; -- GRICE UN TERTIUM ANIMAE -- che è anche il pensiero d’ALIGHIERI, il quale ad esprimerlo si serve della immagine del calor del sole che si fa vino, giunto all'omor che dalla vite cola. La tesi di NICOLETTI è dunque identica in sostanza alla tesi professata da Sigieri nel trattato in risposta a quello d’AQUINO contro gli averroisti; ma d'accordo col brabantino il maestro padovano non è nella pretesa d'attribuire questa tesi al commentatore arabo; anzi egli riconosce che è vero il contrario: Cominentator tamen diceret intellectum per se subsistere, et ipsum non uniri materie ut formam; sed non sui ipsius{sic, leggi: sum ipsius) opinionis. Ma se il nostro eremitano dissente da Sigieri su questo particolare, non dissente affatto da lui nel ritenere che, pur essendo forma dell'uomo, l'intelletto possibile è unico per tutti gli uomini. E nella Summa naturalium ritiene sia questo il pensiero non soltanto d'Averroè, bensì quello d'Aristotele: Unde secundum philosophum, primo et tertio de anima, natura nihil facit frustra et non abundat in superfluis, nec deficit in necessariis; cum igitur natura alicui speciei non dederit nisi unum individuum, et alteri plura, hoc est ideo, quia una species in uno individuo potest se perpetuo preservare, et non alia; ut species angelica que perpetuo preservatur in una intelligentia, et non species humana; sed ita est quod species anime intellective potest se preservare perpetuo in uno individuo, quia anima intellectiva est perpetua et eterna sicut aliqua intelligentia celestis, ergo frustra et preter intentionem nature ponuntur plures anime intellectuales solo numero differentes. tem, intellectus venit de foris, secundum philosophum, libro de animalibus: aut ergo per creationem, iuxta opinionem fidei; aut per motum a corporibus celestibus, iuxta opinionem Platonis; aut per introitum unius corporis, aliud relinquendo, iuxta opinionem Pictagore; aut per novam actuationem unius corporis humani, aliud non relinquendo: nullus trium priorum modorum potest assignari, quia intuenti libros Aristotelis notum est ipsum oppositum Sigieri nel pens.Purg. In libros de anima opinari; ergo est dare quartum modum; et cum in eodem corpore non possint esse plures anime intellective simul, secundum omnes opiniones, sequitur quod unicus est intellectus in omnibus hominibus secundum intentionem Aristotelis. E più oltre: Quarta conclusio: Intellectus non numeratur numeratione individuorum, sed est unicus in omnibus hominibus. Probatur: pluralitas individuorum in eadem specie non est nisi per materiam, per philosophum, celi, et metaphysice, ubi probat quod non possunt esse plures intelligentie separate solo numero differentes, per hoc medium: quecunque conveniunt in eadem specie et differunt numero, habent materiam; sed anima intellectivam non habet materiam scilicet ex qua, nec in qua per inherentiam; ergo etc. Unde arguitur sic: anima intellectiva est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima, et non contingit dare multitudinem infinitam, celi et physicorum, et species sunt eterne, posteriorum et physicorum; ergo unica est anima intellectiva omnium. Patet consequentia, quia, si anima intellectiva mutatur mutatione individuorum speciei humane, aut ergo per generationem et corruptionem, ut posuit Alexander, et hoc non, quia repugnat prime parti antecedentis; aut per multiplicationem finitam animarum recedentium et advenientium, ut posuit Plato vel Pictagoras, et hoc iterum non, quia omnes sciunt oppositum scripsisse Aristotelem; aut per generationem vel creationem et incorruptibilitatem, ut ponit fides, et hoc iterum non, quia repugnat secunde et tertie parti antecedentis; ergo oportet dare unicum intellectum in omnibus hominibus, secundum opinionem et intentionem Aristotelis. La stessa tesi NICOLETTI sostiene anche nell'esposizione del De animaci, ma con una piccola variazione: nella Summa, la teoria dell'unico intelletto in tutti gli uomini è detta sen In libros de anima: Secundo notandum, secundum Commentatorem, eodem commento, quod Illa natura intellectus non est hoc aliquid, nec corpus nec virtus in corpore, quoniam, si ita esset, tunc reciperet formas secundum quod sunt diverse et individuales; et si ita esset, tunc forme existentes in illa essent intellecte in potentia, et sic non distingueret naturam formarum secundum quod sunt forme, sicut est dispositio in formis individualibus, sive in spiritualibus sive in corporalibus. Intentio commentatoris est, quod intellectus humanus non sit aliquid singulare vel individuum, ex quo non est corpus nec virtus in corpore; quoniam materia est ratio individuationis, a qua separatur intellectus humanus sicut et quelibet intelligentia celi. Tria ergo inconvenientia adducit, concesso quod intellectus sit hoc aliquid. Primum inconveniens est, quod intellectus z'altro rispondere al pensiero d'Aristotele iuxta impositionem Commentatoris; nel commento invece è presentata semplicemente come intentio e opinio Commentatoris: segno che sul vero pensiero d'Aristotele s'era forse affacciato qualche dubbio alla mente del maestro padovano. Un'altra tesi tipica di Sigieri consiste, come sappiamo, nel ritenere che l' intelletto agente, tanto per Aristotele quanto per il suo commentatore arabo, sia Dio. Nella Summa naturalium, NICOLETTI ritiene: quod intellectus agens et possibilis non separantur ab anima intellectiva, sed sunt differentie illius non substantiales, sed accidentales. Intellectus agens est coniunctus anime intellective per inherentiam et fantasmatibvis per presentiam et indistantiam. Per altro nella risposta Ad primum argumentum egli accenna anche alla tesi di Sigieri, ma senza aderire ad essa: Commentator autem vult intellectum possibilem esse essentiam anime intellective, et intellectum agentem esse primam cavisam, vitaliter immutantem ipsum intellectum possibilem; sed hanc opinionem non teneo ad presens. Invece, quando scrive l'esposizione al De anima, egli era ormai convinto che la tesi di Sigieri fosse la sola vera, non soltanto dal punto di vista della filosofia aristotelica, ma altresì da quello teologico: Dubitatur, si intellectus agens et possibilis differunt tam inter se quam ab assentia anime, utrum sint substantie vel accidentia. In hac materia fuerunt quatuor opiniones. Prima fuit Avicenne et Algacelis, dicentium intellectum agentem et possibilem esse substantias invicem separatas loco et subiecto, ita quod secundum eum sic intellectus possibilis est forma hominis, et intellectus agens est decima intelligentia appropriata decime spere, a qua nostra felicitas dependet; sicut ergo iste unus sol non reciperet nisi formas individuales et secundum quod sunt diverse. Secundum inconveniens: quod species intelligibiles essent intentiones intellecte in potentia et non in actu; quod est falsum, cum sint universales et depurate a conditionibus materialibus. Tertium inconveniens: quod intellectus non poneret differentiam inter formas universales et singulares, sive ille forme corporales sive spirituales. E dopo aver riferite obiezioni contra commentatorem, comincia la sua risposta con queste sintomatiche parole: Responsurus prò opinione Averroys, dico totum universum illuminat, per cuius illuminationem possunt omnes oculi videre, sic, dicebant illi, est aliqua una substantia separata irradians super fantasmata omnium hominum, per cuius irradiationem possunt omnes homines intelligere. Hec opinio est in parte defectuosa, quia postquam intellectus factus est in actu nos intelligimus quandocumque volumus, secundum quod posuit supra Commentator et habetur ad experientiam; sed talis substantia separata non videtur irradiare supra fantasmata quandocunque volumus, sicut nec sol illuminat oculum quandocunque volumus; cum ergo non intelligamus absque intellectu agente, ergo intellectus agens non est talis intelligentia separata. Siffatta critica della tesi d'Avicenna, ci fa presentire come la pensi NICOLETTI su quest'argomento: se invece di identificare r intelletto agente colla decima intelligenza celeste, che è r infima delle intelligenze separate, Avicenna l'avesse identificato con Dio, questo certamente irradia della sua luce i fantasmi quandocumque volumus. Il difetto insomma di questa teoria consiste nell'avere identificato l'intelletto agente con un intelletto particolare, anzi che con un intelletto veramente universale. Dopo di che, NICOLETTI espone e critica come seconda opinione quella di COLONNA, AQUINO, e di tutti quegli antichi scolastici che ritenevano l'intelletto possibile ed agente facoltà accidentali dell'anima. La terza opinione, da lui riferita parimente rifiutata, è quella di Giovanni Eucliph, ossia WycHf, il cui ricordo dove essere ancora ben vivo a Oxford, quando vi giunge il nostro eremitano. Indi prosegue: In libros de anima La opinione è così riassunta: opinio fuit Eucliph dicentis intellectum possibilem et intellectum agentem esse potentias anime inteUective, non tamen esse substantias nec accidentia; sicut enim dicunt theologi quod pater, filius et spiritus sanctus sunt tres persone realiter distincte, non tamen tres substantie nec tria accidentia, sed una substantia que est deus, ita intellectus agens et intellectus possibilis et voluntas sunt tres potentie realiter distincte, non tamen tres substantie, nec tria accidentia, sed una substantia que est anima intellectiva; et sicut pater non est filius, nec spiritus sanctus, et tamen est ille idem deus qui est filius et spiritus sanctus, ita intellectus agens non est intellectus possibilis nec voluntas, et tamen est intellectus agens illa eadem anima intellectiva numero, que est voluntas et intellectus possibilis. Opinio ista non est tenenda phylosophice nec theologice etc. Quarta opinio, que tenenda est, fuit Aristotelis ponentis intellectum agentem et possibilem esse virtutes et potentias anime non subtantiales nec accidentales, sed intellectum possibilem esse accidens proprium et inseparabile anime intellective, quo recipit omnes formas speculativas, sicut materia prima per suam accidentalem potentiam recipit omnes forinas naturales. Intellectuin vero agentem voluit esse substantiam primam, coniunctam intellectui possibili non per modum forme informantis nec inherentis, sed per modum forme et habitus presentis et indistantis; nec aliqua intelligentia, preter primam que deus est, potuit esse intellectus agens, quia, sicut potentialitati prime materie respondet actus purissimus in quo sunt active omnes forme naturales que sunt in prima materia passive, ita potentialitati anime intellective competere correspondere agens primum, in quo sunt effective omnes forme speculative, que passive sunt in anima intellectiva, mediante intellectu possibili. Si enim aliqua intelligentia dependens esset intellectus agens, per istam non posset intellectus possibilis intelligere primam causam, quia intellectus agens abstrahit intellecta et agit ea, secundum Commentatorem; modo nulla intelligentia inferior potest abstrahere causam primam nec in illam aliquo modo agere, ratione independentie suedependentie et imperfectionis. Et hec opinio non solum est physica, sed etiam a theologis tenetur. Nel commento al De anima, dunque, ogni riserva è sciolta, e NICOLETTI giudica la dottrina che identifica l'intelletto agente colla causa prima, cioè con Dio, non soltanto conforme al pensiero d'Aristotele e d'Averroè, ma senz'altro vera in se stessa e tenuta dai filosofi, non meno che da non pochi teologi. La tesi di Sigieri, intorno alla quale aveva avuto dei dubbi, aveva finito per prendere il sopravevnto nel suo animo. Altrettanto non possiamo dire d'un'altra tesi del brabantino, strettamente connessa con quella che concerne l'intelletto agente, la teoria cioè della beatitudine per mezzo del congiungimento della mente umana coli'intelletto divino. Su questo punto Sigieri aveva fatta sua l'interpretazione che il Commentatore arabo, nella celebre digressione inserita nel commento del De anima, dava del Allo stesso modo per Dante, Conv. l'anima in vita tratta per virtù celestiale dalla potenza del seme, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima intelligenza è. Sul qual passo, N. Dante e la cultura medievale e Giorn. Crit. filos. Hai.. QI pensiero d'Aristotele. Anche l'eremitano sa bene come la pensa Averroè: Commentator autem dicit de annna, quod, cum intellectus possibilis fuerit intellectus adeptus, id est actuatus omnium specierum materialium, intelligit intellectum agentem per essentiam propriam Ma neppur questa volta egli è dell'avviso dell'arabo; e postosi il quesito Qualiter intellectus noster intelligit substantias separatas, lo risolve affermando che l'intelletto umano conosce le sostanze immateriali non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Così nella Summa naturalium. Ma nell'esposizione del De anima è anche più esplicito, se fosse possibile. Postosi di nuovo il problema Utrum intellectus possit intelligentias separatas cognoscere, fa questa osservazione che è presa alla lettera dal commento d’AQUINO: Istam questionem non solvit hic philosophus, dicens se determinaturum alibi, scilicet in libro metaphysice; hec questio tamen non invenitur soluta per ipsum, quia complementum illius scientie nondum ad nos pervenit, vai quia nondum est totus liber translatus, vel forte morte preoccupatus librum non complevit. Ciò non di meno egli espone qual fosse il pensiero d'Averroè e in che differisse da quello degli altri interpreti della dottrina d'Aristotele. Ma giunto alla fine della discussione, egli ci fa sapere quod hec opinio iam non tenetur a theologis vel philosophis, e ripete quod intelligentie separate cognoscuntur ab intellectu possibili non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Da quanto precede, mi pare risulti in modo da non lasciar dubbio, che Nicoletti, quando insegna a Padova, aveva od aveva avuto tra mano per lo meno lo scritto di Sigieri in risposta al trattato d’AQUINO. De unitale intellechis. Questa e verosimilmente altre opere del brabantino circolavano già fra i maestri dello studio padovano, o fu il Summa naturai In libros de anima AQUINO, De anima. nostro eremitano a portarvele, forse da Oxford o da Parigi? Non saprei che dire, perché tanto l'una che l'altra supposizione, in mancanza di dati sicuri, è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche nella letteratura manoscritta concernente i maestri che professarono a Padova e Bologna potranno gettare qualche luce sulle correnti d'idee che fervevano in quei due centri d'intensa vita intellettuale. Per il momento, a noi basti di ricordare quel maestro Taddeo da Parma, il quale insegna a Bologna, e che nel suo commento al De anima accoglie la tesi difesa da Sigieri nelle Quaestiones de anima intellectiva. Ma Taddeo, più che l'opera del brabantino sembra aver letto le Quaestiones di Jandun, le quali ebbero in Italia la più larga diffusione e furono trascritte e stampate in parecchie edizioni, discusse con vivacità e qualche volta fraintese. Fraintesa in particolare sembra essere stata da NICOLETTI, e da altri la dottrina intorno al modo come l'anima intellettiva è forma del corpo, la quale, come già sappiamo è in sostanza quella di Sigieri, cui espHcitamente accenna. Il bisogno di togliere alla dottrina averroistica quello che essa aveva d'eretico, dopo che il concilio di Vienne aveva definito esser l'intelletto forma del corpo umano, dove invogliare gl’averroisti italiani a procurarsi quegli scritti nei quali Sigieri s'era difeso contro le obiezioni d’AQUINO, e nei quali, senza rinunziare alla tesi dell'unico intelletto avea tentato di dimostrare com'esso s'unisse all'uomo con tale intimo e sostanziale legame, da potersi dire forma dell'individuo umano cui s'attribuisce l'atto dell'intendere. L'insegnamento di Nicoletti a Padova è una inequivocabile testimonianza che gli scritti di Sigieri non erano ignoti. Un'altra cosa questo insegnamento ci attesta: che la dottrina averroistica poteva esser liberamente discussa ed esposta a Padova, senza che chi se ne fa sostenitore incorresse nella taccia d'eretico; tanto vero che NICOLETTI non sente neppure il bisogno di Vanni Rovighi, Le Quaestiones de anima di Taddeo da Parma. Testo e introduzione. Milano, Soc. Ed. Vita e pensiero ripetere la solita formale protesta, che altri averroisti avevano cura di non omettere, cioè che essi trattavano dallo spinoso argomento come filosofi e non come teologi. E forse perché gli averroisti padovani usano senza parsimonia di questa libertà, il vescovo Barozzi d'accordo coli' inquisitore locale proibì quovis quaesito colore le dispute intorno all'unità dell'intelletto. Ma il divieto riguarda la DIOCESI di Padova, e non, per esempio, Bologna e Pavia, ove si continua a disputare con grande spregiudicatezza. Non mi stancherò mai dal ripetere, per coloro che han l'animo sgombro da pregiudizi, che una vera e propria dottrina della doppia verità nel medio evo e nel Rinascimento non fu mai sostenuta da alcuno. Molti invece furon quelli che, contro il concordismo d’AQUINO, posero in rilievo l'opposizione di fatto fra la teologia e la filosofia, intendendo per filosofia la dottrina della natura congegnata in sistema da Aristotele, detto perciò il filosofo per eccellenza, e sviluppata dai suoi commentatori. Il primo a rendersi conto, in modo chiaro ed esphcito, di questa opposizione, fu Alberto. Il quale, non solo dichiara apertamente che theologica cum physicis principiis non conveniunt, ma giungeva fino a sostenere, non doversi far caso dei miracoli che Dio opera oltre il potere della natura, quando si tratta di conoscere quello che è il corso degli eventi naturali. Perciò, egli che s'era proposto totam Aristotelis scientiam prò viribus explanare, dichiarava di rifuggire dall'interpretazione che del pensiero aristotelico danno i dottori latini: quoniam in istarum quaestionum determinatione omnino Giorn. Crit. di Filos. Ital., e in Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, nonché quanto ne ha scritto Gilson, Etudes de philos. médiév., Strasbourg; id., Dante et la philosophie, Paris A. Magno, Metaphys. A. Magno, De gener. et corrupt., la mia nota La posizione di Alberto di fronte all'averroismo, Riv. di Storia d. Filos. abhorremus doctorum latinorum verba; fra i quali è sicuramente il suo confratello italiano, Aquino. La pretesa teoria della doppia verità non fu dunque una teoria né una dottrina, ma la semplice constatazione del disaccordo o contrasto fra la filosofia aristotelica e il pensiero cristiano. Ed era perfettamente logico che gli espositori del pensiero aristotelico diffidassero dei tentativi concordistici d’AQUINO e d'altri teologi, e preferissero attenersi neir interpretazione d'Aristotele ai principii fondamentali della sua metafisica, senza preoccupazioni teologiche, sia che le conclusioni cui giungevano s'accordassero o no coi dogmi della fede, avendo per altro cura di dichiarare che quello che affermavano come filosofi, cioè come interpreti d'Aristotele, non riguarda né intacca la verità di fede, cui essi protestavano di credere come fa ogni buon cristiano. Dal punto di vista logico e oggettivo, questo atteggiamento degl’averroisti era perfettamente coerente e non impHca in sé niente di contradittorio, e tanto meno costituiva quell'eresia che Aquino e alcuni altri teologi vi scorsero. Il che compresero bene non pochi altri teologi ai quali il tentativo d’AQUINO di cristianeggiare la filosofia aristotelica, per ancorare ad essa il dogma, non parve né di buon gusto né di A. Magno, De anima; La posizione d'A. M. Pomponazzi, che rifugge del pari da questo fratrizzare, id est miscere diver.-a brodia Phys. Vili,, Bibl. Nation. di Parigi, cod. lat., loda anche lui Magno, perché a differenza degli altri fratres omnes, cioè di COLONNA, AQUINO, Scoto e RIMINI, s'è astenuto dal frateggiare, mescolando filosofìa e teologia. Sicché isti fratres truffadini, dominichini, franceschini vel diabolini habent bene rationem comburendi Albertum, quia omnes questiones sunt contra fìdem nostram licet dicat in fine, quod ita dicit quia ut philosophus loquitur, et philosophica non sunt miscenda cum theologicis; et dicit quod in theologia aliter sentit; et dicit quod est fatuum miscere eredita cum physicis; me autem vellent comburere {Phys., Vili, Arezzo, Fraternità de'Laici, m. cod. Parig. il articolo di N., Alberto Magno e AQUINO, Giorn. Crit. d. Filos. Ital., e La posiz. di A. M., Non va confusa con questa tesi la dottrina, svolta più tardi da Bruno, e anch'essa d'origine averroistica, la quale attribuisce alle verità di fede un valore puramente pratico, che il filosofo accetta solo come tale. Dell'origine e dello sviluppo di questa teoria ho parlato n Giorn. Crit. d. Filos. Ital., buon augurio. E in particolare lo compresero gì' inquisitori che sorvegliavano con occhio sospettoso le manifestazioni dell'eretica pravità. A questi ultimi importa mediocremente di sapere come la pensa Aristotele e Averroè sull'eternità del mondo o sull'unione dell'intelletto all'uomo: essi invece volevano essere rassicurati sui sentimenti personali dei commentatori cristiani d'Aristotele intorno a questi argomenti. E per esserlo, bastaron loro, a quanto pare, le pubbliche dichiarazioni che, neir insegnamento e nei loro scritti, gli aristoteli si facevano premura di non dimenticare. Ciò spiega come l'averroismo e l'alessandrismo abbiano potuto avere una vita abbastanza florida; e com'essi fossero apertamente professati a Padova, a Bologna ed altrove senza che per questo corre sangue, come fantastica Orestano. Ch'io sappia, neppure una goccia ne fu versato, a meno che non fosse dal naso nell'ardor delle dispute. E nella libera discussione, entro e fuori le aule universitarie, a Padova e a Bologna, e non per editti restrittiva, l'aristotelismo nelle sue varie tendenze esaurì la propria vitalità, quando si comprese che i problemi da esso posti erano insolubih, per esser mal posti. Ma, intanto, quella che s'usa chiamare dottrina della doppia verità, aveva ottimamente compiuto la sua funzione storica, di assicurare un'assai ampia libertà d'indagine e di critica, di cui il pensiero del Rinascimento s'è avvantaggiato. A questo punto nasce per altro un dubbio perfettamente legittimo e stimolante: erano poi sinceri, averroisti e alessandristi, quando dichiaravano di limitarsi ad esporre quello che, a loro avviso, era il pensiero d'Aristotele, ossia la verità filosofica, senza aderirvi, ma anzi ripudiandola, e di credere alla verità della fede? oppure si beffano in cuor loro degli inquisitori, mettendosi al riparo, per mezzo di quelle dichiarazioni, contro le pene canoniche comminate agli eretici? Un dubbio siffatto solleva problemi delicati, di difficilissima Riesame della Beatrice svelata, in Studi su Dante, Milano, Hoepli; il mio voi. Nel mondo di Dante, Roma. N., Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano. anche la voce Averroismo ndll’Enciclopedia Cattolica. soluzione. Intanto si deve constatare che, in generale, gì' inquisitori si mostraron piuttosto propensi a credere alla sincerità di quelle dichiarazioni e a lasciare che, nel foro interiore, ognuno s'aggiustasse con Dio come meglio crede. Non tutti, però: che noi sappiamo della citazione di Sigieri, di maestro Bernieri di Nivelles e di maestro Gosvino de la Chapelle da parte dell'inquisitore di Francia; del processo intentato a Biagio PELACANI, maestro a Pavia, dal vescovo di questa città; e dell'editto emanato dal vescovo di Padova e dall' inquisitore del luogo, col quale si vieta ai maestri e agli scolari ogni pubblica disputa intorno alla dottrina averroistica dell'intelletto. Quanto al primo caso, sappiamo tuttavia che Sigieri e i compagni interposero appello alla curia papale avverso la sentenza dell'inquisitore di Francia, né risulta che questa fosse confermata. Il processo contro PELACANI dev'essere stato motivato da espressioni veramente ardite contra fìdem catholicam et sanctam ecclesiam, come quelle che s' incontrano nelle Quaestiones sul De anima conservateci nel Codice Chigiano O., e discusse quando Biagio insegna a Padova. Il maestro si dichiarò male contentus del linguaggio da lui tenuto, e dopo aver chiesto perdono de commissis, il vescovo di Pavia restituit eum ad lecturam et salarium solita. L'editto invece di Barozzi, vescovo di Padova, e dell'inquisitore Lendinara merita più lungo discorso. Insegna allora nello studio padovano, come lettore ordinario di filosofia naturale Vernia da Chieti, che per la sua piccola statura era chiamato ed egli stesso si firma Nicoleto, come Pomponazzi, suo alunno, sarà detto, pella stessa ragione, Pereto -- Nicoletto e Perette son forme italianizzate della schietta forma dialettale padovana Nicoleto e Pereto. Addottorato in filosofia naturale a Padova, dopo avere studiato la logica a Venezia sotto Riv. di Storia d. Filos., Maier, Die Vorlàufer Galiìeis, Roma, QQ Paolo dalla Pergola, occamista, e la filosofia nello studio patavino sotto Thiene, averroista, conseguì anche la laurea in medicina. Succede a Thiene come ordinario di filosofia naturale. In suo testamento, pubbUcato da Ragnisco, accade di leggere una dichiarazione, nella quale il testatore, nell'imminenza della morte che sentiva avvicinarsi, vuol purgarsi dell'accusa che pesa su di ui, d'aver fatta sua la dottrina averroistica dell'unità dell'intelletto: Ego Magister Nicoletus Vernias Theatinus antedictus, publice legens in florentissimo gymnasio patavino ordinariam philosophiam naturalem sine aliquo concurrente, quam legi per annos triginta tres elapsos, ac disputavi ac tenui quod opinio unitatis intellectus Averrois fuerit opinio AristoteHs, et post niultos annos, duni vidissem et graecos et arabes doctissimos, repperi non solum dictam opinionem alienam esse a fide nostra et veritate, sed etiam ab intellectu AristoteHs, prout in quadam mea quaestione intulata Reverendissimo Dominico Grimani ad plenum declaro; et hoc feci prò removendo nialas opiniones, qiias /orlasse habnerunt auditores mei; nani Deum testor quod numquam credidi tali opinioni, et cum sim in aetate decrepita, et considerans quod oinnes morimur secundum naturalem cursum, et videns incertitudinem temporis, diei et horae, et deliberans disponere supra rebus meis, ut possim consequi vitam aeternam in altera vita promissam bonis iuxta legem nostram, et, prout in supradicta quaestione declaravi, etiam iuxta opinionem philosophorum hic non potest esse vita beata, sed tantum misera m. Fra coloro che s'eran formata una cattiva opinione di VERNIA, oltre ad alcuni suoi scolari, era certamente anche il vescovo Barozzi. Fine spirito d'umanista e, come molti Documenti inediti e rari intorno alla vita ed agli scritti di Vernia e di Elia del Medigo, Atti e memorie dell'Accad. di Scienze Lettere ed Arti in Padova, disp. E cosi, a che serviva tutta la sua speculazione filosofica intorno alla copulatio o continiiatio dell'intelletto possibile coll'intelletto agente, in cui avrebbe dovuto consistere la felicitas dell'Etica Nicomachea in questa vita ? Intorno al quale è da vedere 1'introduzione di Gaeta, Il Vescovo di Padova Barozzi e il trattato De factionibus extinguendis. Fondazione Cini, Venezia-Roma. patrizi veneziani suoi contemporanei, animato di religioso ardore, Barozzi è vescovo di Padova alla sua morte. Pastore di anime e maestro di vita cristiana in una città dotta, sede d'un rinomato studio al quale affluivano scolari da tutte le parti d'Italia e d'oltralpe, non potè mostrarsi indifferente alle rumorose dispute la cui eco si diffonde lontano. Quel battagliare intorno al vero pensiero d'Aristotele, del suo commentatore arabo e degli interpreti greci, gli pare che inaridisse le sorgenti della vita e del pensiero cristiano. Inoltre, l'accanimento che molti dei disputanti mettevano nel sostenere le interpretazioni d'Aristotele più lontane dal comune modo di pensare dei credenti, dove alimentare in lui il sospetto, suscitato da voci che correno, che qualche maestro dello studio patavino, mentre si da l'aria d’essere un semplice espositore della dottrina peripatetica, in realtà ha finito per farla sua propria fino a negare i premi e le pene nella vita futura. L'editto episcopale e inquisitoriale, pubblicato nelle scuole di Padova, dopo aver citato alcuni passi scritturali, prosegue: Et rursum memores eorum que ad Colossenses magis ad rem de qua in presentiam agimus accomodate scribit Apostolus, dicens: Videte ne quis vos decipiat per philosophiam et inanem fallaciam secundum traditionem hominum, secundum elementa mundi et non secundum Christum. Et scientes sic Inter disputandum solere animos perturbar!, ut interdum homines quod falsum esse sciebant, prò vero suscipiant et defendamt. Volentesque ut et hi qui philosophiam discunt, sic discant ut christianam philosophiam, que longe omnium prestantissima est, non dediscant, et hi qui docent, dum se philosoplios esse meminerunt, non obliviscantur se etiam christianos existere, ac venena disputationum malarum iuxta epulas philosophice discipline non ponant. Et postremo existimantes eos qui DE VNITATE INTELLECTVS disputant ob eam potissimum causam disputare quod, sublatis ita tum premiis virtutum tum vero supphciis vitiorum, existimant se liberius maxima queque flagitia posse committere: mandamus ut nullus vestrum, sub pena excomunicationis late sententie quam si contrafeceritis incurratis, audeat vel presumat DE VNITATIS INTELLECTVS quovis quesito colore publice disputare. Non si tratta, com'è chiaro, della scomunica lanciata personalmente contro Vernia, che della dottrina dell'unità Ragnisco, Documenti, dell'intelletto era, in quel momento a Padova, il piìi risoluto assertore; ma d’un provvedimento che riguarda lui ed altri, e che sopratutto denuncia una pericolosa moda d' insincerità e doppiezza che s'anda affermando ed era nociva non meno al costume morale che alla pietà religiosa. Può darsi che, vietando ogni discussione sull'argomento dell'unità dell'intelletto, Barozzi e frate Martino spiegano uno zelo eccessivo; ma la mala opinione che gl’alunni avevano concepito di taluni maestri e le voci che sul conto di essi correvano, giustificano almeno in parte il severo ammonimento. Poiché a questo in fondo si riduce l'editto episcopale; né si sa che esso da luogo a processi, né che alcun maestro è ridotto al silenzio. Anzi è noto, al contrario, che Trapolino, alunno di VERNIA, continua a professare pubblicamente il suo moderato averroismo anche dopo la promulgazione dell'editto. E lo stesso fanno altri. Due soltanto, eh' N. sappia, s'affrettarono a cambiare indirizzo ai loro pensieri e a recitare la loro palinodia: Nifo da Sessa e Vernia da Chieti, in gara tra loro. Nifo, com'egli stesso informa, aveva cominciato averroista della corrente sigieriana; e, prima d’abbandonare definitivamente questa posizione, deve aver giocato d'astuzia da quell'uomo scaltrissimo che era. Alla fine del De intelledu e del commento al De animae heatiUidine, pretende d'aver portato a termine queste due opere a Padova. Ma N. pensa che su questa affermazione bisogni fare molta tara: poiché nella dedica del De inielleciu a Badoèr, nell'edizione veneta, che è la più antica che si conosce, Nifo dice in sostanza d'aver rimaneggiato l'opera, costituita originariamente d’una Quaestio de intellectu, che gl’avversari gl’avevano impedito di pubblicare, avendolo accusato d'eresia. Da questa accusa era riuscito a discolparsi, a quanto pare, pell'intervento di Barozzi stesso, di Badoèr e di teologi e filosofi amici che ne presero le difese. Nella redazione l'autore non esita a confessare d'essersi indotto a pristinam mutare sententiam; e questo non soltanto per ciò che concerne la forma primitiva dell'opera, giacché egli ammette: placuit quaedam tollere, mutare alia. D» intellectu, Venezia addere plurima, Rabberciato alla meglio il De intellectu e rifattasi una verginità filosofica, egli tenta, lontano da Padova, quella fortuna che non manca mai d’arridere agl’uomini della sua prolifica specie. Vernia era noto in tutta Italia, attraverso i suoi numerosi discepoli, come uno dei più decisi averroisti. Per noi è un po' ditficile oggi ricostruire, nel suo insieme, la sua dottrina intorno ai diversi problemi agitati nelle scuole del tempo, perché non sappiamo dove sono andati a finire i suoi scritti, se dati alle fiamme da lui stesso prima di morire, oppure se lasciati insieme alla sua biblioteca al monastero di S. Bartolomeo in Vicenza, ovvero al figlio adottivo Nicoletto della Scrofa, o ad altri. Nonché le opere scritte di suo pugno, non ci son pervenute nemmeno le reportationes degli scolari che pur non dovettero mancare. Ci restano soltanto, eh' io sappia, i seguenti scritti a stampa elencati da Ragnisco: la Quaestio Dicaveram tibi anno superiori questionem meam de intellectu. Eamque, ne labores iuventutis mee perditum irent, imprimendam esse curavissem, nisi emuli affuissent, qui me hereseos accusassent. Ac malui ad hoc tempus pervenire morando, quam huiuscemodi criminis culpam subire. lam cessant accusationes: emulorum iniquitas, sic mea fide postulante, in propatulo est. Ergo suo tribuant commodo, si quam utilitatem accepere qui me insidiis persequuti sunt, discantque interea diligentius legere que volunt criminari, ut cautius egisse videantur. Sed valeant isti, satisque mihi sit Barotium episcopum patavinum, christianorum nostre etatis decus et splendorem, te cui non minus in fide quam in philosophia tribuo, et quamplurimos alios tum theologos tum philosophos iudices ac censores habuisse, qui semper innocentie mee testes eritis. Tractaveram hanc nobilissimam materiam et de fontibus omnium antiquorum phylosophorum exhaustam, recenti stilo, quod omnes fere commendare visi sunt, preter paucos, quorum precipuus fuit Hieronymus Malclavellus, tunc privatus scholaris, nunc nostre academie diligens ac iustus moderator; qui ut est rectus ingenio, acer iudicio, splendidus in omnibus atque liber, numquam ubi de honore ac utilitate amicorum suorum agit, assentari novit. Hic cohortatus est me, ut universum opus in capitula secarem, asserens antiqua stilo esse antiquo tractanda. Hac unica huiusce viri ratione persuasus, licet alias adduxerit quarum illi copia est, pristinam mutavi sententiam: placuit quedam tollere, mutare alia, addere plurima. Nihil delevi quod sit contra fidem catholicam; non enim potest destrui quod factum non invenitur. Seb. Badoèr morì i Diarii di Sanudo. La dedica dunque e il rabberciamento dell'opera sono anteriori, e probabilmente dello stesso periodo nel quale Nifo prepara anche l'edizione dei Collectanea sul De anima, usciti anch'essi, presso la stessa officina veneziana de Quarengiis. Sembra pertanto che l'edizione del De intellectu, ricordata e perfino citata da taluno come uscita a Venezia, non sia mai esistita! an ens mobile sii totitis philophiae naturalis suhiectum; il prologo alla Fisica col titolo De divisione philosophiae; la Quaestio an medicina nohilior ac praestantior sii iure civili. la Quaestio an caelum sit animatum, nell'infelice riportazione d’uno scolaro che forse è Sermoneta; Quaestio an deniur universalia realia; la Quae Stampata a Padova nel volume di commenti di COLONNA, di Marsilio di Inghen e d'Alberto di Sassonia al De generatione et corruptione, ed anche nell'edizione scotina della stessa opera Venezia. Nell'edizione padovana precede la dedica a Languardo, vescovo di Acerenza e Matera. Ragnisco, Documenti; Vernia. Studi storici sulla filosofia padovana, Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. Questa Quaestio e lo scritto precedente si trovano in principio del volume: Burley, Expositio in libros de physico auditu Aristotelis stagerite, emendata per me nicoletum verniam theatinum puhlice et ordinarie legentem Venetiis, La Quaestio è stata ristampata da Garin, La disputa delle Arti, Ediz. Naz. dei Classici del Pensiero Italiano, Firenze, Vallecchi. Precede la dedica a Badoèr, censore di Venezia, il quale, come Vernia, era stato discepolo di Paolo dalla Pergola, ed era un convinto scotista, qual erasi rivelato a Nicoleto, per averlo questi udito argomentare con vigore in una pubblica disputa in occasione d'un capitolo generale di Frati Minori tenuto a Venezia. In questa dedica Vernia accenna anche ad una amplissima quaestio de INCHOATIONE formarum che avrebbe dovuto trovarsi nello stesso volume, ma che poi è stata omessa. L'argomento per altro è ripreso con certa ampiezza nella Quaestio an dentur universalia realia, di cui sotto. Pubblicata da Ragnisco, Documenti. In principio del raro volume Urbanits Averoista philosophus sumnius ex almifico Servoritin Divae Mariae, comentorum omnium Averoys super librum Aristotelis de physico audita expositor clarissimus. Per probum virum Bernardinum Tridinensem de Monteferrato. Venetiis.Questa importante opera dell'averroista bolognese dell'Ordine dei Serviti, la quale nel prologo dell'edizione stampata porta la dat, era stata ritrovata, coperta di polvere e corrosa dalle tarme, nella biblioteca bolognese dell'Ordine, dal priore generale dei Serviti, frate Alabanti, che, compresone il pregio, tanto più che anch'egli si professa averroista, ne scriss a Vernia, come quello che aveva sempre difeso le parti d'Averroè, onde averne il parere per un'eventuale stampa; e all'uopo gli mandò lo scritto d'Urbano perché l'esamina: Ad te igitur libellus noster confugit: tu eum paterno amplectaris amore; et tandem tua censura maturoque Consilio examinatum censeas si dignus est ut in claram lucem professoribus perypatheticis ad doctrinamque Averoys aspirantibus emergere possit, ad nosque rescribere digneris. Quod si feceris, ut speramus et oramus, non minus tibi et Urbanus noster, operis conditor, quam Averoys et qui eius doctrinam sequuntur, interstio de gravibus et levihus, senza data; è la Quaestio, rimasta sconosciuta a Ragnisco, An celum sit ex materia et forma constitutum vel non, che termina: Et sic est finis huius questionis compilate per me Nicolettum verniam theatinum Padue philosophiam publice legentem, e che si trova in principio della rara edizione veneziana, curata dallo stesso Vernia, del commento d'Averroè alla Fisica, ove occupa ben dodici colonne in-folio. Tutti questi scritti sono schiettamente averroistici; e sebbene non riguardino alcuno dei problemi scabrosi pei quali gli averroisti eran tenuti in sospetto, tuttavia non è difficile qua e là imbattersi in espressioni rivelatrici dello spirito del loro autore. Si prenda, ad esempio, la prima quaestio ricordata qui sopra. Dapprima, secondo lo schema familiare al Vernia, sono addotte le opiniones ab Aristotele et suo commentatore deviantes, e in primo luogo quella d’AQUINO che egli, nativo di Chieti, si compiace di chiamare suo compatriota, poiché suddito anche lui dello stato napoletano. AQUINO appunto aveva sostenuto, in principio del suo commento alla Fisica, ens mobile et non corpus mobile, contra Albertum merito cognomine magnum, esse totius philosophiae naturalis subiectum. Poi ricorda le critiche mosse da COLONNA ego quoque minimus accedo, ingentem immortalemque semper gratiam habebimus. E il maestro padovano gli risponde, dando dell'opera e dell'autore questo giudizio: Vir ille ut dicam quod sentio cum omnibus bis, qui Averoym ad haec usque tempora secuti sunt, certare mihi visus est et plurimos etiam vincere. Nemini vero ut mea quidem fert opinio cedit. Cum enim Averoys verba sensusque per obscuros aperire illustrareque aggreditur, nihil illius explanatione enodatius, nihil clarius, nihil denique absolutius dici potest. Quaestiones vero quae in naturali philosophia et plurimae et gravissimae occurrunt, nequaquam dissimulat. Sed ut est acri iudicio praeditus, ita acute subtiliterque solvit, ut ad rei perfectionem nihil addi posse videatur. E mentre approva il disegno della stampa, informa che a Padova nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, esiste un altro codice dell'opera d'Urbano, attribuito fino allora a Marcanova, e promette che, per far meglio conoscere il commento del servita, terrà un corso sulla Fisica. La quaestio del Vernia sugli universali occupa quattro fogli non numerati, prima del commento di Urbano, ossia 12 colonne intere e 2 mezze colonne. Nel voi. Acutissime questiones super libros de physica auscultatione ab Saxonia edite, Venezia, con dedica al filosofo Bolderio da Verona. alla tesi d’AQUINO, e il giudizio di Jandun su AQUINO, ritenuto melior expositor inter latinos, unde per excellentiam dicitur expositor, sicut Averrois commentator. Incappa infine nella tesi degli scotisti Canonico e Andrès, i quali s'eran permessi di criticare Aristotele. Contro tanta audacia egli insorge ripetendo il giudizio, comune a tutti gli averroisti, sullo Stagirita: Ad illa respondet Canoniciis, et similiter Andreas, concedendo Aristotelem male dixisse et insufficienter ipsum philosophiam tradidisse; philosophus enim tanquam sacrilegus insufficienter et erronee tradidit nt)bis philosophiam naturalem, ut Antonius inquit. Sed minor de istis, quod cum tam pauca reverentia centra philosophorum principem loquantur; ncque unquam invenio Albertum, AQUINO aut doctorem subtilem talia contra Aristotelem dixisse. Unde beatus Hieronymus, de eo loquens, scribens ad Eustochium, De vita nionachonim, ait: Absque dubitatione prodigium fuit grandeque miraculum in tota natura, cui, ut pergit, pene videtur infusum quicquid naturaliter capax est genus humanum. Cui concordat Averrois, De anima, dicens: Ipse fuit regula in natura et exemplar quod natura invenit ad ostendendum ultimam perfectionem possibilem in materiis. Venendo poi alla soluzione del problema, il filosofo chietinf) sostiene de intentione aristotelis et sui commentatoris averrois cordubensis fuisse, quod corpus mobile est subiectum in scientia naturali. Ancora più tipico è il caso della Quaestio aii medicina iiobilior ac praestaiitior sii iure civili. È notevole, anzi tutto, che egli abbia lasciato in pace i canonisti, strettamente imparentati coi teologi, gente, gli uni e gli altri, colla quale è prudente non aver briga. Per dimostrare, dunque, la tesi affermativa, che cioè la medicina è da più del diritto civile, il nostro si rifa Lo stesso passo dell'opera pseudo geronimiana m'è accaduto di trovar citato nel De pietate Aristotelis erga Deiim et ìioinines di Liceto Udine, amico e collega di Galileo a Padova. Costui, al pari di Tostado, vescovo di Avila, In librum paradoxorum Venetiis, e di Sepulveda, da Cordova Opera, Madrid, Epist., lettera al teologo Serrano, pensa, se non proprio a una canonizzazione, che fosse almeno altamente verosimile la salvezza eterna di Aristotele. Al quale però Tostado, da buon umanista, unisce le anime di Socrate, di Platone e di siffatti filosofi, che Cristo avrebbe liberato discendendo al limbo. al concetto, comunemente ammesso, che la medicina nella sua parte teorica rientra nella filosofia naturale ed è scienza speculativa; il che non può dirsi dal diritto civile. Ora nella speculazione intorno alla natura Aristotele aveva fatto consistere il fine ultimo e la perfezione suprema dell'uomo, a cui si giunge soltanto mediante l'apprendimento delle scienze speculative, coronato dal congiungimento o copulatio con r intelletto agente. Ex quo sequitur, hominem equivoce dici de homine rationali et iurista, cum iurista non sit nisi equivoce, cum inrista ultimo fine hominis sit privatus. Et hoc est quod Averrois dicit in prologo libri Physicorum, quod homo equivoce dicitur de homine perfecto per scientias speculativas et de homine ignorante eas, sicut dicitur equivoce de homine vero et picto Ci sarebbe da chiedersi se mastro Nicoleto non fosse per caso in vena di scherzare, per dar la baia ai colleghi della facoltà di diritto: ma purtroppo egli non fa che ripetere cosa di cui tutti gli averroisti erano convintissimi; anzi taluni diessi, come Achillini e Bacilieri pensano che al raggiungimento della suprema perfezione e della felicità cui l'uomo aspira, bastassero i libri bene interpretati di Aristotele e d'Averoè, che quelli ritenevano aver conquistato il più alto grado di felicità di cui l'uomo è capace in questa vita, non ostante i sorrisi ironici degl’alunni, e quelli di Pomponazzi Al cospetto della morte, Nel citato voi. del Burley sulla Fisica, Venezia. Il passo d'Averroè in principio al prologo della Fisica, al quale accenna Vernia, è questo: Declaratum est in scientia considerante in operationibus voluntariis, quod esse hominis secundum ultimam perfectionem ipsius et substantia eius perfecta est ipsum esse perfectum per scientiam speculativam; et ista dispositio est sibi felicitas et sempiterna vita. Et in hac scientia manifestum est, quod praedicatio nominis hominis perfecti a scientia speclativa, et non perfecti, sive non hahabentis aptidinem quod perfici possit, est aequivova, sicut nomen hominis quod praedicatur de homine vivo et de homine mortuo, sive praedicatio hominis de rationali et lapideo. il mio Sigieri nel pens. Accade spesso al mantovano di fare dell'ironia sulla copulatio degli averroisti qui continuo prandent cum deo et qui habent intellectum adeptum comm. al delle Meteore. Parigi, Bibl. Nat. cod. lat.. E del Bacilieri riferisce: Ideo Tiberius iactatus solum sibi defìcere quatuor digitos, ad hoc ut felicitatem istam pertingat Comm. alla Metaph., Arezzo, Frat. Laici, ms. Parigi, e. s., cod. lat.. Questa convinzione abbandona il filosofo chietino, persuaso ormai che non solo secondo la fede, ma etiam iiixta opinionem philosophorum, hic non potest esse vita beata, sed tantum misera. Evidentemente anch'egli, come molti, ignora la manzoniana preghiera allo Spirito divino: Dona i pensier che il memore ultimo dì non muta. Averroista era Vernia anche nella soluzione del problema se il cielo è animato, e di quello sul moto dei gravi e leggeri. Anzi, su quest'ultimo argomento, mentre perfino molti averroisti avevano finito per scostarsi dalla dottrina d'Aristotele e avevano accolta la teoria nominalistica degli impetus, Vernia segna un ritorno puro e semplice alla tesi dello Stagirita, seguita da Averroè, da Sigieri e da pochi altri. La Quaestio an denhir universalia realia è invece un tentativo di mostrare l'accordo tra Averroè e Alberto sulla dottrina, convenientemente interpretata, della inchoatio formarum; poiché gli universali di cui qui si parla, non sono le intentiones primae et secundae dei dialettici, ma le idee considerate come cause della realtà, gli universalia physica, come li chiama Vernia, ossia le forme delle cose. Nel voi. cit. delle Acutissime questiones di Sassonia Maier, Zwei Grundproblenie der scholastichen Philosophie. Roma, Ediz. di Storia e Letter. Nel voi. di Urbano Averroista, col.: Ex quo patet error illorum qui dicunt inchoativum secundum commentatorem et Albertum esse potentiam subiectivam materie, cum, ut visum est, sit potentia formalis distincta a potentia materie, que est in substantia forma substantialis, imperfecta tamen, cum omnis potentia materie taUs, quam ponunt, si distincta ab ea et sit accidens Ex quo sequitur dari universalia realia ad mentem veriorum philosophorum peripatheticorum, tum Grecorum, tum Arabum, TVM LATINORVM GRICE MINNIO PAULELLO OXFORD; cum tales essentie sint universalia physica et in re, ut visum. Il primo di tali universali fisici è per Vernia la forma corporeitatis di Avicenna, coeterna alla materia. In proposito, abbiamo questa informazione nel commento di Pomponazzi al De substantia orbis di Averroè Cod. Reg. lat.. Credo quod haec responsio fuerit Nicholeti; quia etiam ipse tenebat ad mentem commentatoris formas corporales de prae-dicamento substantiae materiae primae esse coaeternas. Et tunc glosabat ipse commentatorem, hic dum dicit quod materia non habet formam quae reponat eam in esse specifico et ultimo, quia si materia prima baberet formam ultimam specificam, tunc non posset ipsa materia aliam formam recipere, quia, cum ultimo non detur ultimum, ipsa forma esset in actu completo, nam infra formam ultimam specificam non sunt nisi individua; et in hoc commentator dissentit ab AviIo8 Anche in questa Quaestio, non mancano accenni alla dottrina averroistica dell’intelletto; ma sono accenni più cauti. L'editto episcopale era stato promulgato evidentemente per qualche cosa. A Colze nel vicentino, mastro Nicoleto dovette pensare al modo di dissipare i sospetti d'eresia che gravavano su di lui, e, sebbene affetto da oftalmia, prese la penna e cominciò a buttar giù una specie di confutazione dell'averroismo. Nasceno così le Quaestiones de pluralitate intellectus contra falsani et ah omni ventate remotam opinionem Averroys et de animae felicitate. L' idea di quest'opera gli fu suggerita non iniussa cano! da frequenti esortazioni del doge di Venezia, Barbadigo, e dallo stesso Barozzi, che, se da una parte lo minaccia di scomunica, dall'altra cerca di adescarlo con buone promesse. La composizione dello scritto non dovette procedere molto rapida. Poiché soltanto l'opera fu presentata ai revisori ecclesiastici e al vescovo per la stampa. I revisori, Trombetta, Merlino e Ibernico, prodigarono all'autore le più ampie lodi, e il vescovo Barozzi se ne dichiarò pienamente soddisfatto. Tuttavia, anche nel dare atto del nuovo atteggiamento assunto, ricorda le voci che un tempo correno sul conto di lui, e non osa dichiararle infondate; anzi lo stesso paragone che egli fa del chietino con S. Paolo, il quale di persecutore del nome cristiano era divenuto un ardente difensore della fede – GRICE HERESY APOSTASY – back to goold old Paul --, sembrerebbe insinuare il contrario: cenna qui ponebat talem formarti specificam ultimam; sed commentator dicit, quod talis corporeitas non est forma specifica completa, sed est forma generica imperfecta; et sic dicebat ipse Nicholetus quod materia prima habet istam formam genericam sibi coaeternam, et in ipsa etiam formam elementorum. Così, per esempio, in principio della colonna: Et tu nota hoc prò Averoy, quod anima intellectiva non dat esse corpori humano; sed hoc quod dicitur est mendatium purum, ut in De anima declarabo. E più oltre a metà della stessa colonna: Unde intellectiva anima apud ipsum non creatur, sed est eterna; et in hoc Albertus, et bene sicut fidelis christianus, ei adversatur, volens ipsam de novo fieri per creationem, et hoc secundum Aristotelem. La quale apparve nel volume già cit. delle Acidissime questiones super libros de physica auscuUatione ab Saxonia edite, Venezia. A. Calcedonio da Pesaro, M. D.2 ra. i Cum prius et disputando et docendo unum esse in omnibus intellectum sic explicaveris, ut totam pene Italiani errare feceris, ut aiunt malivoli tui et minuti philosophi, ut in epistula tua ais, etsi istud non senseris, fuisti forte causa ut alii hoc sentirent. Nunc opusculum composuisti, quo sentire te contrarium non solum dicis verum etiam probas. Quod cum diligentia vidimus et approbamus. Quo circa, sive ita senseris sive non, opusculum istud componere precium fuit, ut error pessimus illius maledicti Averroys extirparetur. Nihil hac mihi re gratius, nihil iis qui te audiverant utilius, nihil tibi, qui apud miiltos ob eam rem infamiam non mediocreni excitaveras, honorificentius. Per purgarsi di questa non mediocre infamia e per impedire che si parla di un voltafaccia, mastro Nicoleto insiste nel dichiarare che la difesa un tempo da lui assunta dell'averroismo non muoveva da intima adesione alla dottrina dell'unità dell'intelletto, ma era fatta soltanto disputandi ac acuendi ingenii gratia. Era sincero in questa sua protesta, rinnovata con solennità anche nel suo testamento? Per il vescovo e per l'inquisitore questo non aveva importanza: ad essi basta il fatto che, comunque l'avesse pensata un tempo, ora il sospettato fa lodevole ammenda del passato col suo ultimo scritto contro l'averroismo. Ma tra i suoi alunni d'un tempo ve n'era sicuramente qualcuno che, assistendo ai funerali e alla tumulazione di lui – e suo corpo -- nella chiesa di S. Bartolomeo a Vicenza, e ripensando al carattere del maestro, dove sorridere di questa commedia e ripensare in cuor suo alla novella di Ser Ciappelletto. Vernia non era precisamente quello che si dice un cuor di leone. Nello stesso suo testamento revoca, come giuridicamente nulla, una donazione de'suoi beni alla moglie, fatta sotto la minaccia di morte da parte del cognato Pietro de Salvato. Era stato richiamato all'ordine dal Senato, perché pare facesse i suoi comodi, leggendo senza concorrente e trascurando di studiare con grande lagnanza degli scolari, Nifo, già suo alunno, ci narra di lui due episodi che possono servire a lumeggiarne il carattere. Il primo è meglio Nella dedica a Grimani Ragnisco, Nic. Vernia. Cfr. qui sotto il saggio successivo. no riferirlo in latino; Cum Nicoletus Theatinus, praeceptor noster, sua aetate peripateticus eximius, ludibriis ludificationibusqiie oblectaretur, plurima jecisse multi norunt. Et inter prima, cum Veronam peteremus, ut baptizaremus puerum cuiusdam communis discipuli, et post crepusculum ad urbem applicaremus, essetque caupo prohibitus recipere iudaeos, qui extra urbem hospes erat, nobis hospitium conferentibus dixit: Te recipere non possum, quia prohibitus sum, demonstrans Nicoletum; te autem possum, annuens me. Interrogantibus quare respondit: Quia Iudaeos hospitari prohibitus sum. At praeceptor subiecit: Audi, amice, a secretis. Et mox penem praeputiumque ostendit. Quem cum vidisset, hospitatus est nos. Nifo aggiunge che la mattina dopo, sopraggiunti alcuni della città ad incontrarli e a riverirli, l'oste chiede umilmente scusa, mentre mastro Nicoleto non si stanca di raccontare a tutti, uomini e donne, il piccante episodio. L'altro aneddoto si può raccontare anche in volgare, sebbene sia assai più sconcio del primo, se è vero. Narra dunque Nifo che, rimasta vacante a Padova una cattedra di diritto, per la morte del titolare. Barbadigo, che era allora capitanio della città, era sollecitato dagli studenti a corpirla con un dottore di diritto canonico siciliano. Barbadigo annunzia che aveva già pronto l'uomo che fa al caso, e questi era mastro Nicoleto. Ma Nicoleto è un filosofo, osservano quelli, e di diritto non se n'intende. Montato su tutte le furie, il magistrato li manda a farsi impiccare, e chiamato a sé Nicoleto gli propone di legger diritto al mattino, per 300 ducati d'oro, e di continuare a legger filosolia nel pomeriggio. Il maestro non si perita di accettare, effondendosi in ringraziamenti. Se fin qui la faccenda era abbastanza sporca, il peggio vien dopo. Gli studenti malcontenti andano da Nicoleto a pregarlo di voler far capire lui stesso a Barbarigo che il diritto non era il fatto suo. Che io vada a fare una dichiarazione del genere ad un uomo che mi giudica sommo in ogni ramo dello scibile? Gli studenti non si scoraggiarono e lo tentano per un altro verso: si che non molto dopo, munusculis A. NiPHi, Opuscula moralia et politica cum G. Naudaei de eodem auctore iudicio, Parigi, De re aulica. III non mediocribus acceptis ab illis studentibus, si presenta a Barbadigo e con ogni rispetto lo prega di liberarlo d’un carico che pesa troppo sulle sue spalle. Chi oserebbe insinuare che l'idea di conferire a lui una seconda cattedra e un secondo stipendio fosse ispirata a Barbadigo da Vernia stesso? Ma non meno interessante, pella religiosità e l’indole morale di lui, è quel che apprendiamo dalle lezioni di Pomponazzi, che, al pari di Nifo, del chietino fu alunno e collega e, da ultimo, successore sulla cattedra di Padova. Il ricordo del maestro padovano e del suo carattere faceto e bizzarro accompagna il mantovano per tutta la vita. Così nella lezione del commento al De sensu et sensato, tenuta, tre mesi prima della morte, accennando al modo superficiale col quale SCHIAVONE tratta un quesito intorno ai sapori – GRICE TASTE --, dice: eo modo quo dicebat Nicolettus, praeceptor meus, sicut mus super farinam et gatta super carbones. Un'altra volta, a proposito del noi usato spesso da Averroè, ricorda: Dicebat Nicoletus: advertendus est sermo; loquitur da papa, ponendo numerum pluralem. Nelle lezioni sulla Fisica, narra che Vernia spaccia come sua un'opinione che era invece di Thiene, come si vide dopo la stampa di questo: Magister Nicoletus attribuebat sibi hanc opinionem. Impresso Gaetano, latro inventus est. Un'altra volta accennando alla a via nominalium, Pomponazzi aggiunge: imo merdalium, ut dicebat Nicholetus. In principio del commento alla Fisica, accenna a un dissidio tra gli scolari sui libri di quest'opera che il maestro avrebbe dovuto leggere: Unde lepidissinms vir nicholetus qui, curti versaretur discordia inter scolares sicut modo versatur inter vos, an scilicet primi an ultimi libri physicorum essent legendi, dixit: Non timeatis, quia ego unica lectione legam omnes 4or primos Bibl. Nation. di Parigi, Cod. lat. Cod. lat., In Metaphys. Arezzo, Bibl. della Fraternità de' Laici, Ms., Super Physicorum, Ms., Super Phys.1 Bibl. Nat. Parigi. Nello stesso commento, in una lezione intorno ai sottili accorgimenti di Averroè per salvare Aristotele, narra del suggerimento dato da Vernia a uno scolaro ignorante che dove affrontare un esame: Credo ergo quod commentator voluit dicere hoc; sed sibi accidit ut cuidam scholari patavii, qui volens disputare, et nihil sciebat, fuit ad Niccoletum, qui eum doceret. Volebat enim iste scolaris ingredi collegium, et non poterat nisi disputaret. Quare magister Nicoletus dixit: Dabo tibi unam responsionem ad omne argumentum; distingue enim et dicas: Tuum argumentum tenet propter quia, et mea conclusio propter quid. Et ita vult dicere Averrois. Tamen possemus dicere ad omnia illa argumenta. Oportet enim scaramuzare quandoque. Sempre nelle lezioni sulla Fisica, incontriamo un altro aneddoto, ove Vernia è alle prese con Nardo, in una disputa di moda, de intentione et remissione formarum, che concerne la dottrina dei calculatores, particolarmente invisi a Pomponazzi: Et ubi Aristoteles in hoc loco Phys. fuit parcus, Entisbery in suo tractatu et Calculator fecerunt de hoc magnos tractatus. Aristoteles enim dimisit hec, quia ille compositiones et ille truffe spectant ad matematicum; et calculatores latenter vincunt ph^dosophos; interponunt enim geometricalia. Sed philosophus, ut phylosophus est, non se intromittit ad hec. Et isti calculatores sophiste appellantur; quare non se debent intromittere in philosophia, sed in geometria. Unde erat magister Franciscus neritonius, erat enim vir doctissimus, et in uno capitulo fratrum erat etiam Nicholettus, protesto ignorantissimus, et arguebat domino francisco neritonio in illa disputatione, et in calculatione argumentabatur; et dominus franciscus nesciebat respondere, quia mathematica ignorabat. In hoc enim argumento erat quater fortassis totum alphabetum. Dominus tamen franciscus intrepide respondit sibi, quod Nicholetus fecerat ut contigerat in suo capitulo cuidam fratri, cui prior comiserat ut predicaret de conceptione virginis. Cum venisset tempus predicandi, dixit ille bonus vir qui debebat predicare illa die: O domini auditores, ista materia de conceptione est tante difficultatis, quod non poteritis numquam eam percipere. Itaque, rogo vos, ut loco istius dimittatis me narrare ystoriam sancti Alexandri, quam Arezzo, ms. Allo stesso episodio Pomponazzi aveva accennato anche nelle lezioni In de anima nel cod. della Bibl. Nazionale di Napoli, Ms. Vili, ed ivi fa il nome dello studente somaro, che pare sia un Baldassarre da Chiusi. promptissime capietis. Sic etiain, dixit dominus franciscus, contigit domino Nicoleto: qui dum in hac materia quam posuimus disputandam nihil intelligeret, incepit nobis cum suis argumentis calculatoriis narrare ystoriam beati Alexandri. Ben più grave è quanto Pomponazzi narra agli scolari, in una lezione sul De caelo, tenuta a Bologna. Stava esponendo il testo, e poiché taluni dicevano che Dio e le intelUgenze celesti prima intentione agunt propter se, mentre le cose generabili e corruttibili prima intentione faciunt propter alia et secundario propter se, ha il coraggio di dire apertamente che non è vero: Non videtur verum; imo videtur totum oppositum; quia quicquid homines faciunt, faciunt primo propter se, secundario vero propter alios. Verbi gratia, homines student: prima intentio eorum est hicrari scientiam et fieri perfecti et eiusmodi; secundario vero ut illustrent domuin suam et patrem etc. Unde Aristoteles numquam somniavit, quod deberet fieri bonum ut ireturin paradisum, et evitari malum ne iretur in infernum; sed bene dicit quod debemus exponere vitam prò patria et eiusmodi, et potius mori quam committere peccatum, ut acquiramus illarn virtutem, sciHcet fortitudinem. Ergo quicquid homo facit, prima intentione facit propter se, ut in omnibus discurrere potestis. Ideo videtur fatuitas philosophorum dicere hoc de generabiUbus, scilicet quod primo agant propter alia, et secundario propter se. Unde Nicoletus, vir lepidus, qui non credebat, ut ita dicam, dal tecto in su, cum sepissime audiret beatum Bernardinum de Feltro predicantem et in suis predicis dicentem: O tu, attende tibi; o tu, attende tibi, mulier luxuriosa, bonus Nicolettus emebat bonos pullastros, fasianos, et si quis diceret illi: Quid vis tacere, o Nicholette?, respondebat: Volo attendere mihi'. Item rapinabat et eiusmodi, et si dicebatur illi: Quid vis facere?, dicebat: Attendere mihi volo. Omnia ergo faciebat propter se Lo stesso ritratto morale del buon Nicoleto, Pomponazzi traccia negh stessi termini agli scolari bolognesi in una lezione sul delle Meteore. Arezzo Bernardino da Feltre predica la quaresima a Padova Wadding, Annui, e di nuovo vi fu quando Patavium profectus, in Ecclesia Cathedrali, assumpto i lio trito suo themate Attende tibi, egregie populum de rebus saluti maxime necessariis instruxit. Parigi, Bibl. Nat. Erat Padue quidam frater sancii Francisci de observantia, qui dicebatur frater Bernardinus de Feltro, qui predicabat et in predicatione semper dicebat: Attende tibi, attende tibi. Unde Nicolettus, qui legebat Padue, emebat perdices, capones et multa bona. Inde ipse erat malus homo, et prò uno quadrante perdidisset hominem, et nullum habebat prò amico. Unde, eundo ad predicam, accepit illud verbum attende tibi suo modo, scilicet: attende tibi, id est sguazza et triumpha. Ideo emebat perdices etc. Tale è il ritratto morale del Vernia quale fu conosciuto da Peretto:miscredente, crapulone, rapinatore, che per un quattrino avrebbe rovinato un uomo, senza amici. Così giudica Pomponazzi l'autore delle Quaestiones sulla pluralità degl’intelletti e sull'immortalità dell'anima, nel quale ai revisori ecclesiastici deputati da Barozzi e a Barozzi stesso era parso di ravvisare il campione stesso dalla fede, che aveva debellato definitivamente l'averroismo e l'alessandrismo! Tuttavia non va dimenticato che Peretto era stato assente da Padova, in seguito a dimissioni dalla cattedra da lui occupata e sulla quale era stato sostituito da Nifo. Ora è sicuramente in questi anni che la crisi filosofica e religiosa del Vernia, venne a maturazione, se vera crisi ci fu in un uomo così lepido e astuto. E la testimonianza di Pomponazzi non può aver valore pegli anni in cui il mantovano lo perde di vista. Del resto, queste oscillazioni tra una spregiudicatezza quasi scettica e il bisogno di conformarsi all'ambiente religioso e d’accettarne il formalismo, è tutt'altro che alieno dall'indole, piena di contradizioni, d’un uomo dell'età di papa Borgia Cod. lat. Oliva, Note sull’insegnamento di Pomponazzi, Giorn. Crit. d. Filos. Ital. Ritengo che questo ameno e spregiudicato maestro, prima che a Padova, si recasse a Venezia, in casa del Patrizio Badoèr, nei cui lari era stato educato il suo conterraneo e parente Manupello da Chieti', che, addottorato in artibus a Padova, vi s'addottora anche in medicina. Altrimenti non si spiega come, nella dedica dell'esposizione di Burleo alla fisica d'Aristotele Venezia, egli potesse dire d'essersi affezionato al Badoèr a teneris annis, e come mostrasse di conoscere così a fondo la storia leggendaria di questa famiglia. Dal testamento fatto a Padova e pubblicato da Sambin, si conosce il nome del padre, per esser detto clarissimus artium et medicine doctor dominus magister Nicolaus filius honorabilis viri ser Antonii de civitate Theatina. E lo stesso si legge nell'atto di donazione Dal Giorn. Crit. d. Filos. Ital. La nota su Cristoforo da Recanati è inedita. Expositio excel. mi philosophi Giialterij de burley anglici in libros de physico anditn Aristotelis stagirite emendata per me nicoletum verniam theatinimi publice et ordinarie philosophiam in gimnasio pattivino legentem Venetiis. dedicata a Badoèr, censore del comune di Venezia: Del Manupello si legge appunto nella dedica: affinis ac conterraneus meus clarissimus phisicus et mediciis Nicholaus manupellus Theatinus in tuis laribus fuit educatus. Erotto e Zonta, Ada graduum academicorum Gynnasii Patavini, Padova Sambin, Intorno a VERNIA, in Rinascimento, docum. de'suoi libri al monastero di S. Giovanni in Verdara. Dai quali documenti si rileva che il buon Nicoletto si lascia passare come artium et medicinae doctor, quando dottore di medicina non era! Nella stessa dedica a Badoèr si legge: cum enim sub disciplina clarissimi philosophi pauli pergulensis essem, a quo etiam tu eruditus fuisti, pluries ab eo audivi te summum philosophum atque theologum evasisse, nullumque esse qui te in docrina francisci de marronis subtilisque doctoris lohannis scoti antecelleret Orbene: Paolo da Pergola era reggente delle scuole annesse in Venezia alla chiesa di S. Giovanni Elemosinarlo a Rialto, nel quale anno egli era anche piovano di questa chiesa; e reggente di queste scuole restò fino alla sua morte; fu sepolto nella chiesa di cui era piovano, Tanto Badoèr quanto Nicoleto, e, suppongo, anche Manupello, sono stati sotto la disciplina di Paolo a Venezia. Questa scuola merita d'esser meglio conosciuta, sia per gì'insigni maestri che, dopo il pergolese, vi insegnarono, sia perché essa fu una specie di succursale dello Studio patavino, nella quale molti veneziani cominciavano gli studi di filosofia, che poi andano a completare a Padova, ove s'addottoravano. Così appunto sappiamo aver fatto anche il chietino, il quale, da Venezia, forse dopo la morte del pergolese, si reca a Padova, ed ivi, dopo essere stato qualche tempo sotto la disciplina di Thiene, consegue il dottorato in artihus, primo promotore lo stesso maestro Gaetano. Dopo questa data, non si hanno di lui altre notizie fino a quando fu assunto alla lettura straordinaria di filosofia. Dalla dedica del Vernia docum.Segarizzi, Atti dell' Istit. Veneto e la breve notizia dello stesso in Nuovo Arch. Veneto. anche il mio studio già cit. Letter. e cultura veneziana, Valsanzibio, Vita e dottrina di Gaetano di Thiene, Padova, I stesso a Languardo, arcivescovo d’Acerenza e Matera, del volume di commenti di COLONNA, di Marsilio di Inghen e d'Alberto di Sassonia al De generatione et corruptione, stampato a Padova, veniamo a sapere che era stato chiamato ad legendum philosophiam in locum quondam Gaetani Thienei philosophi celeberrimi; carriera abbastanza rapida che mal si spiega senza l'appoggio di potenti patroni ch'egli aveva a Venezia. L' intervento di questi patroni a suo favore si fa palese, del resto, con l'edificante episodio che traggo dagli atti del Sacro Collegio dei Filosofi di Padova, a solazzo dei laudatores temporis acti, i quali vanno dicendo che certe soperchierie avvengono soltanto ai nostri giorni. Ecco dunque l'episodio. Ma, prima di narrarlo, bisogna sapere che al sacro collegio dei filosofi, che aveva un numero limitato di membri, erano aggregati solo FILOSOFI PADOVANI e veneziani, in numero limitato, dopo aver conseguita la laurea in artihus, e a seconda della disponibilità dei posti. Da sapersi è altresì che soltanto ai membri del collegio spetta di farsi promotori dell'ammissione di coloro che ne fossero degni al tentativum e al privatum examen pel conseguimento del titolo di dottore in artibus e al primo promotore tocca il privilegio di conferire le insegne del grado al neo-dottore, previo il giuramento di rito. Coloro che non fossero cittadini padovani o veneziani, ma fossero MAESTRI nello studio di Padova, sì che non avessero più bisogno di essere ballotati periodicamente, potevano essere aggregati al collegio in seguito al parere favorevole dei membri di questo e colle cautele previste dagli statuti. Ora sentite questa. Un bel giorno il priore del sacro collegio dei filosofi di Padova, che era il dottore in artibus Maestro Cristoforo da Recanati de rechaneto, udito il parere dei consiglieri, convoca il collegio in assemblea straordinaria e tiene Arch. ant. dell'Univ. di Padova, S. Coli, de' Filosof. Su lui, Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, ai convenuti questo discorso: Famosissimi doctores, causa convocationis excellentiarum vestrarum est ista, quia die heri quidam officialis Magnifici domini pottestatis padue mihi mandavit, ex parte prefati magnifici domini pottestatis, quatenus hodie convocare facerem collegium ad instantiam d. M. Nicoleti, et, in executione literarum serenissimi ducalis domini dicto d. M. Nicoleto, assignare debere locum in collegio cum conditionibus prout in dictis literis continentur, et quod unusquisque super hoc dicat apparere suum. L' intervento della Signoria veneziana a favore del filosofo chietino mette in serio imbarazzo il collegio, geloso dei suoi diritti e privilegi. Forestiero, laureato nell’arti, lettore di filosofia a Padova, Vernia veniva imposto dall'autorità politica centrale, senza che il collegio fosse stato nemmeno interpellato prima, e senza una ragione di particolari benemerenze che gli dessero la precedenza su altri. Che modo di procedere era questo? Vero è che anche Maestro Cristoforo da Reeanati era entrato a far parte del collegio, di cui egli era priore, mentr'era legens ordinarie philosophiam naturalem, per l'intervento e l'imposizione dallo stesso governo veneziano e senza il gradimento del collegio stesso IO Arch. Ant. dell'Univ. di Padova, Maestro Cristoforo Rappi secondo Benedettucci, Biblioteca recanatese, Recanati da Recanati s'era addottorato in artibus a Padova Arch. della Curia Vescovile di Padova, Diversovitìu. Non mi risulta la data esatta del dottorato, che sicuramente ebbe luogo pochi anni dopo. Ma ebbe dal Senato veneziano un aumento di stipendio come professore di filosofìa naturale da molti anni nello studio patavino, allo scopo d’impedire che egli accetta un invito fattogli dal vicedomino di Ferrara; que res universis scolaribus studii ipsius molestissima est, non sine incomoditate et iactura nostri domini, quia si recederet, omnes qui illum audiunt, eum sequerentur Arch. di St. di Venezia, Senato-terra, Reg. Di queste buone disposizioni del Senato a suo riguardo Recanati non tardò ad approfittare; poiché sotto la data si legge: In studio nostro paduano, ut notum est, reperitur Clarissimus doctor magister Christophorus Recanatensis, legens ordinarie philosophiam naturalem. Qui, ut litere Rectorum nostrorum et rectoris Universitatis Artistarum padue testantur, neminem in Italia habet parem. Et qui vehementer optai prò honore suo cooptari in collegio Artistarum padue, in locum scilicet primi qui deficiet, et multi prestantiorum doctorum ipsius collegii hoc velie et cupere videantur. Vadit IIQ Ma sentiamo come l'estensore del verbale continua a riassumere il discorso dell'avveduto priore: Sed sibi videtur, quod durum. est centra stimulum calcitrare Actiis. Et quod ipse non vult in hac re nisi quod vult totum collegium, ad quod omnino oportet super hoc providere: aut quod ipse d. M. Nicolletus acceptetur in dicto collegio iuxta tenorem literarum, aut quod colligantur duo experti qui sint doctores dicti collegii, et quod ipsi accedant ad Magnifìcos dominos pretores sic, 1. rectores padue et etiam ad Serenissimum dominium, ad deffendendum iura collegi contra dictum M.pars, ut dictus magister christophorus, quo, hoc gradu honoris auctus, animatior et promptior reddatur ad perseverandum in sua lectura, Auctoritate hiiius consilii cooptetur in dicto collegio, in locum scilicet primi qui quoquo modo deficiet. De parte, ; de non, 12; non sinceri. Ritengo che di parere contrario dove essere Landò, dottore e milite, non che Sapiens terre firme, il quale ammoni quod serventur promissiones facte collegio doctorum artistarum padue, evidentemente col rispettarne i privilegi e gli statuti. Anche allora il collegio aveva pestato i piedi e masticato amaro, ma poi aveva finito per rassegnarsi. Simili ingerenze del governo veneziano nelle faccende del collegio non erano una novità: che anche quando di Quirini, veneziano e doctor artium, pose la sua candidatura per essere accolto nel Collegio padovano, ove i veneziani avean diritto a un certo numero di posti, la decisione si trascinò per oltre un mese, finché la domanda fu respinta con 9 balote contro 8 Arch. Ant. dell' Univ. di Padova, Sacro Coli, degli Artisti. Dopo la morte di Thiene, Recanati fu chiamato dal Senato veneto con voto unanime Senato-terra, Reg. a succedergli nella prima lettura ordinaria di filosofia. Morì , sec. Benedettucci e fu sepolto nella chiesa delle monache di S. Francesco dell'Osservanza, in vico pontis Altinatis, in un'arca di pietra cum doctoris effigie dormientis, e un epistaffio che lo raccomanda ai posteri come medico celeberrino et philosophorum inclyto, quem universae Italiae Gymnasia peripateticae scholae principem luxerunt lac. Salomonius, Insc. ript. Urbis patav. Padova Io, purtroppo, non conosco se non le Quaestiones recollectae super Calciilationes sub magistro Chistophoro de Recaneto, huius artis principe. Ma il Coxe, Catal. Mss. Bibl. Bodl., Ili, Oxonii, segnala l'esistenza di un'esposizione Magistri Christofoli de Reganato super de celo et niundo ad instantiam Magistri. Yeronimi de Cammarino, e forse anche sul De physico auditu, nonché di certe pillulae magistri Christophori Rechanatensis. È un po'poco per giudicare delle lodi che gli tributarono i contemporanei. Ad ogni modo, è inesatto quello che scrive Facciolati, Fasti Gymnasii Patav., che egli primus averroi auctoritatem in Gymmasio Patavino conciUasse dicitur, eius commentarla in philosophando unice secutus. Prima di lui c'erano stati NICOLETTI e Thiene, di cui il recanatese era stato discepolo. Nicoletum, et petere quod diete littere revocentur, tanquam impetrate et concesse contra formam statutorum dicti collegi, ipso collegio et iuribus suis inauditis. Et super hoc factis multis sermonibus et arengationibus, prefatus dominus prior posuit ad partitum, quod quibus placet quod acceptetur in collegio d. M. Nicolectus iuxta tenorem literarum Serenissimi domini, ponat suffragia sua in pisside rubea; quibus vero placuerit quod defensentur iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum per expertos dicti collegi, ponat balotam suam in pisside viridi. Et facto scrutinio cum bussolis et balotis, in vente fuerunt balote quinque in pisside rubea, in favorem dicti M. Nicoleti, et balote xv in pisside viride, quod defensentur iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum. Cinque contro sedici costituisce un bello scacco per ser Nicoletto. Tuttavia è notevole che cinque membri del Collegio si mostrassero disposti, fin dal primo momento, a incassare il colpo, non ostante l'affronto al corpo. Lo facevano per simpatia verso il filosofo chietino, o perché eran persuasi anch'essi che durum est contra stimulum calcitrare? Si trattava ora di eleggere coloro che dovevano assumersi la difesa dei diritti del collegio al cospetto dei rettori della città e del governo della Serenissima. Deinde posuit prior ad partitum, de consensu dominorum consiliariorum, quod quibus placet quod elligantur d. M. Nicolaus de Sancta Sophia, d. M. Ioannes Michael de Bredepalea, d. M. lacobus f. q. mag. Gratiadei de Venetis et d. M. Ioannes Petrus de cararis, qui accedant ad Magnificos pretores rectores padue et ad Serenissimum dominium Venetiarum, ad deffendendum iura et statuta dicti collegi contra d. M. Nicoletum et literas per ipsum impetratas, ponat balotam suam in pisside rubra; quibus vero non placet, ponat balotam suam in pisside viride. Et facto scrutinio invente sunt balote xx in pisside rubra, et balote due in pisside viridi negante. Et sic fuerunt ellecti. In questo verbale v'è un piccolo dettaglio che potrebbe facilmente sfuggire. Il messo del podestà aveva detto, a nome di questo, che fosse riunito il collegio e che ogni membro dicesse la sua intorno alla faccenda: et quod unusquisque super hoc dicat apparere suum. E l'estensore del verbale ci assicura che furono fatti dai convenuti molti discorsi e arringhe in proposito e a sproposito. Gli animi della maggio Arch. ant. delI'Univ. di Padova v. I ranza s' infiammarono nel denunciare l'affronto fatto al sacro collegio e ai suoi statuti, e infiammati si suggestionavano a vicenda sino a prendere le decisioni che presero. Ma tornato a casa, ognuno di quelli che avevano gridato piti forte contro la soperchieria che si perpetra da parte della Serenissima Signoria, si sarà messo a riflettere che anche le mura della chiesa di S. Urbano, ov'eran raccolti, avevano orecchie, e probabilmente più d'uno si sarà morsa, un po' tardi, la lingua. Fatto sta che il sacro collegio fu di nuovo convocato dallo stesso priore, non più nella chiesa di S. Urbano, ma in palatio Episcopali. Il priore si fa eco delle considerazioni che due giorni di riflessione avevano maturato nell'animo dei suoi magnanimi colleghi, e parla una lingua più circospetta. Illico et immediate prefatus prior dixit: famosissimi domini doctores, vos vidistis Mandatum mihi factum nomine collegij Potestatis, ut accipere debeamus omnino in collegio, in executione literarum ducalium, d. M. Nicoletum, prout in literis ducalibus continetur. Mihi videtur, ne videamur esse inobedientes et rebelles Hteris Serenissimi domini Venetiarum, quod bonum esset ipsum d. M. Nicoletum acceptare in dicto collegio ad ultimum locum, cum protestacione quod non intendimus ipsum acceptare in preiudicium iurium et statutorum nostrorum, et quod reservamus nobis ius prosequendi iura nostra centra dictum d. M. Nicoletum et petendi revocationem dictarum literarum tanqviam indebite, collegio nostro inaudito, concessarum et commissarum dicto d. M. Nicoleto. Et ita satisfaciemus Voluntati Serenissimi dominij impune et absque alio inconvenienti et schandalo dicti collegij. E COSÌ fu deciso. Un paio di settimane dopo, Nicoletus comincia a figurare in coda alle liste dei membri del Collegio; poi, man mano che altri membri entrano a farne parte, il suo nome dall'ultimo posto passa al penultimo, e, su su, diventa uno dei primi, e comincia ugualmente a figurare in quelle dei promotori nei verbali di dottorato. Della protesta e della riserva cui accenna il priore del Collegio, l'egregio dottore in artihus Maestro Cristoforo da Recanati, non si parla più, ritenendosi che il fatto ricade sotto l'impero di quello che i giuristi pisani chiamano 1'ius mengicum seu gengicum de praescriptione, e che molti filosofi molto filosoficamente ritengono un precipitato storico della giustizia eterna! Il povero Nicoletto, sano per grazia di nostro Signor Gesù Cristo mente et sensu, era tuttavia corpore languescens; e pare si tratta di malattia piuttosto seria, se provvide a far testamento, disponendo dei suoi averi a favore del monastero di S. Giovanni in Verdara a Padova. Da questo documento confrontato col testamento pubblicato da Ragnisco appare che egli a Padova abita in contrata burgi Capellorum e non ancora in contrata S. Lucie, né ancora in contrata putei Bonelli; risulta parimente che non era ancora cittadino di Vicenza, che non dispone dei possessi di Colze, e non si sa se ancora avesse avuto a che fare con la famiglia vicentina Dalla Scrofa. Questi rapporti sono strettamente connessi coll'acquisto poco chiaro della cittadinanza vicentina e della villa di Colze, quando i suoi guadagni erano aumentati assai. Su tutti questi punti potrebbero far luce ricerche negli archivi notarili di Padova e di Vicenza. Ad ogni modo, pare che le sue fortune cominciassero a prosperare, scapolato alla morte; ed anche allora coll'appoggio di autorevoli patroni. Dal primo dei tre documenti pubblicati da Persiani, si rileva che l'amba Sambin, /. e. Sui rapporti di Vernia coi canonici Regolari Lateransi del monastero di S. Giovanni in Verdara a Padova getteranno luce le ricerche dello stesso Sambin sulla biblioteca di questo monastero. Uno studio sulla tomba del Vernia e sui rapporti di lui con gli stessi Canonici Lateranensi del monastero di S. Bartolomeo a Vicenza sta per dare in luce negli Atti dell'Accademia vicentina, Pozza, direttore della Bertoliana. In Atti e Memorie dell'Accad. di Se. Lett. ed Arti di Padova, disp. Ili pubblicato dal Sambin, ma in mercoledì. Quindi o è sbagliato l'anno, oppure il giorno. Ragnisco, /. e In La Riv. Abruzzese di Se, Leti, ed Arti, Vili. sciatore napoletano, Dott. Arcamona, s'adopra presso il Senato veneziano, perché il famoso dottore Maestro Nicoletto da Chieti, che legge a Padova la filosofia ordinaria cum maxima elegantia et sufficientia ac contentamento omnium, fosse confermato in detta lettura ita ut non subiaceat de cetero ulli ballottationi. Era già aggregato al collegio! La domanda fu accolta con 122 voti favorevoli, e uno solo contrario. Molto più importante è il secondo documento pubblicato dallo stesso Persiani. Da esso si rileva che ser Nicoletto, ottenuta la stabilità a vita, aveva messo su boria, e sub pretextu quod non habeat ccncurrentem sibi parem, obtinuit pridem a dominio nostro litteras, per quas ei concessum fuit ut legere possit bora extraordinaria, quo fit quod venit eo modo carere concurrente. Quanto al credersi superiore ad ogni altro professore che fosse a Padova, e magari sotto la cappa del cielo, Vernia fu buon maestro ad Agostino da Sessa, che si ritene il primo homo dil mondo, com'ebbe a dichiarare al console veneziano a Napoli, Anselmi. In questo sì il maestro che lo scolaro eran ben lontani dalla modestia del Peretto mantovano che preferiva di confessare con Socrate: Hoc unum scio, quod nihil scio. Ed anche questa volta ser Nicoletto era riuscito ad ottenere r insolito privilegio con lettera della Signoria veneziana. Ma egU non aveva fatto i conti cogli studenti, che, per quanto chiassosi, erano anche allora i migliori giudici della capacità dei loro professori. E gli studenti appunto protestarono per r immeritato privilegio e pella flagrante violazione degli statuti accademici da parte di coloro che avrebbero dovuto esserne i vigili tutori. L' istituto della concorrenza a Padova esige che per ogni materia professata i lettori ordinari fossero due, e che leggessero e commentassero gli stessi testi NEGLI STESSI GIORNI E ALLA STESSA ORA. Gli studenti potevano ascoltare la lezione dell'uno o dell'altro concorrente, scambiandosi poi gl’appunti e le impressioni, e avviare discussioni, sollevando obiezioni Sanuto, Diarii Giorn. Crii. d. Filos. -- alla fine della lezione, e continuando le discussioni, avviate entro l'aula, al circolo dei filosofi, che più tardi ebbe la sede sotto il portico del podestà, a pochi passi dal Bò. L'intento perseguito coll'istituto della concorrenza è OBBLIGARE A PROFESSORI A TENERSI AL CORRENTE ED A STUDIARE. Et hoc ut fiant dihgentissimi coactique sint studere, et ex consequenti satisfacere habeant scolaribus audientibus. Ora Mastro Nicoletto, ottenuto il privilegio di LEGGERE SENZA CONCORRENTE, hora extraordinaria, scelta a suo piacimento, dice il documento pubblicato da Persiani, minime curat studere, fitque negligens cum magna murmuratione scolarium, qui, hanc ob causam, relieto studio, venerunt ad presentiam nostri domimi et indolentes sic, 1. dolentes supplicantur ut forma et continentia ipsorum statutorum superinde loquentium sibi observetur. Non saprei se fra quei cari studenti v'era anche Pomponazzi, il quale si laurea in artihus appena qualche mese prima che il senato obbliga il maestro chietino a rispettare gli statuti sul fatto della concorrenza e a rinunziare al privilegio abusivamente concessogli. Ultimo aneddoto della vita padovana di Vernia è il suo dottorato avvenuto un po'alla chetichella. Dopo anni d'insegnamento della filosofia naturale, in riconoscimento dei suoi meriti, la signoria veneziana, coll'approvazione di tutto il consiglio, gl’aveva finalmente concesso il raro privilegio che un tempo era stato concesso, pelle loro benemerenze, a Gaetano da Thiene e a Maestro Cristoforo da Recanati, di leggere senza concorrente. Pare che ormai non dove avere altra aspirazione che quella di portare a compimento le Quaestiones de pluralitate intellectus contra falsam et ah onini ventate remotam opinionem Averroys, per riguadagnarsi la stima del vescovo di Padova e per ottemperare all'invito del doge Barbarigo, dimostrando falsi e calunniosi i sospetti che si susurravano in angulis, d’una sua adesione all'averroismo. Eppure alla distanza di anni dal dottorato in artihus non esita a sottoporsi agli esami per conseguire il titolo di dottore in medicina. Promotori furono i suoi colleghi Aquilano, Lorenzo da Noale e Girolamo da Verona; testimoni i patrizi veneziani Lorenzo Donato e Vincenzo Quirini, e i maestri dello Studio Pomponazzi e Francanziano. Che cosa l'avrà spinto a procacciarsi il titolo di medico? e a che cosa poteva giovargli? La risposta forse potremo trovarla in questa notizia che si legge nei Diarii di Sanudo, a di 2 zener. Vene li miedigi di collegio di questa terra Venezia, exponendo, conzò sia che a tempo di le vachation maestro Zuan dell'Aquila, maestro Nicoleto, maestro Hironimo da Verona et maestro Zerbi legeno a Padoa, venissero a miedegar in questa terra; per tanto chiedeno, nel tempo stevano dicti medici qui, facessero l’angarie come Ihoro, sì da pagar il medico in armada etc. E li fu concesso, et cussi per la Signoria, consulente collegio, fo terminato in scriptura. Ecco a che cosa dove servire la laurea in medicina: ad andare a miedegar a Venezia durante le vacanze, facendo concorrenza ai medici del luogo, sia col fatto di essere maestri di medicina dello Studio patavino, sia perché questi padovani non facevano le angarie che dovevano fare i medici veneziani sì da pagar il medico in armada. Lo stipendio di 180 fiorini non pare abbastanza al filosofo chietino, che, al dire di Pomponazzi, prò uno quadrante perdidisset hominem, e dove invidiare i guadagni che i colleghi medici traevano, nel periodo delle vacanze, a Venezia, dall'esercizio della loro arte. Due di essi, Aquilano e il veronese Torre, erano stati suoi promotori, ed entrambi godevano di onorata nominanza a Padova e altrove per la loro perizia nel miedegar, sì che la loro opera era molto ricercata. Ma di gran lunga più celebre era Zerbi, anch'esso veronese, avversario di Iacopo Berengario da Carpi, che gli muove gravissime accuse, forse infondate o almeno esagerate. Appena sei anni più tardi morì di morte efferata, nel viaggio di ritorno dalla Turchia, ove la sua fama era giunta, recatavi dai veneziani. Padova, Arch. d. Curia Vesc, Acta graduum Coiraiuto compiacente di questi e altri colleghi, il filosofo chietino ebbe dunque le insegne di dottore in medicina, conferitegli da Aquilano, e quattro anni dopo lo troviamo a Venezia a miedegar, in sieme a Aquilano, a Gerolamo da Verona e Zerbi, ai quali la piacevole compagnia del faceto filosofo non dove riuscire ingrata. Ma bel gioco dura poco. Ed il primo ad abbandonare il quartetto fu proprio maestro Nicoletto, il quale fece appena in tempo a preparare per la stampa il libro che lo fa tornare nelle buone grazie del Barozzi. A Vicenza detta le sue ultime volontà, e due mesi dopo trova pace nella tomba presso i Canonici Regolari Lateranensi della stessa città. Sotto al bel monumento sepolcrale che ora trovasi nella cappella dell'Ospedale Civile di Vicenza, e già da N. riprodotto in Giorn. Crit. d. Filos. Ital., si legge questa iscrizione, in cui è fatta speciale menzione della sua ultima opera: Nicoletus, Philosophus Clarissimus, De animi pluralitate ac felicitate edito libro, Patavina in Accademia floruit. Obiit Comunemente, quando si parla oggi d'averroismo, vien fatto di pensare alla dottrina dell'unità dell’intelletto possibile per tutta la specie umana; la quale dottrina vien designata, con un vocabolo moderno che si direbbe coniato apposta per accrescere la confusione, pampsichismo. – GRICE THOSE SPOTS MEAN MENTE MEASLES -- Ma rari sono coloro che dell'averroismo mettono in evidenza quella tipica dottrina mistica che fu uno degl’argomenti maggiormente discussi fra gli’averroisti e i loro avversari. E, ciò che è più strano, ne tacciono sia Mandonnet che Steenberghen nelle loro massicce diffuse monografìe dedicate a Sigieri di Brabante. Eppure la mistica averroistica era stata fatta oggetto di ampia discussione da parte di Alberto COLONIA, d’AQUINO e di Sigieri. Sebbene non fosse stato ancora tradotto in latino il trattatello De animae beatitudine, essi conoscevano bene il commento e l'ampia disgressione d'Averroè sul De anima, assai più importante di quel piccolo trattato, e per chiarezza e per compiutezza. In questo testo del De anima, s'accenna al problema se è possibile che l'intelletto unito al corpo arrivi a conoscere le sostanze separate. Ivi Aristotele promette che questo argomento sarà discusso più tardi; a noi per altro non è giunto alcuno scritto dello Stagirita nel quale il problema ora accennato sia risolto. AQUINO, dopo aver dubitato che Aristotele, sorpreso dalla morte, fosse mai pervenuto a trat Dal volume Umanesimo e MACHIAVELLI Machiavellismo dell'Archivio di Filosofia, Padova, Editoria Liviana. I Arist., De Anima tare delle sostanze separate, finì per credere che il problema è risolto dallo Stagirita in un'opera non ancora tradotta in latino che gl’era stata mostrata Anche Alberto, che a questo problema dedica il suo De intellectu et intelligibili, ritiene che quest'opera, rimasta sconosciuta a lui, era ben nota a molti dei discepoli d'Aristotele, i quali si sarebbero ispirati ad essa in quei numerosi scritti che Alberto ben conosce e nei quali crede di trovare il fior fiore dell'insegnamento aristotelico. Neil'intento di chiarire il pensiero di Aristotele su questo punto, commentatori greci come Alessandro d'Afrodisia e Temistio, o arabi come Alfarabi, Avicenna ed AbuBaker Avenpace, cercano negli scritti dello Stagirita quale, a loro avviso, dove essere la soluzione di quel problema, conforme ai principi della filosofia peripatetica. Averroè, venuto dopo costoro, intraprende nel commento al De anima, una vivace critica delle loro teorie, in parte rigettandole e in parte sforzandosi di correggerle. Afrodisia ritene che l'uomo potesse arrivare alla conoscenza del mondo immateriale mediante la copulatio dell'intelletto potenziale coll’intelletto agente. L'intelletto potenziale è, per l'Afrodisio, una semplice preparazione o disposizione dell'organismo vivente di vita sensibile. L'intelletto agente invece è la causa prima di tutte le cose, la quale, irraggiando la luce dell'intelligibilità sulla materia, la plasma e trae dalla potenzialità di essa tutti gli esseri del mondo corporeo. Questi imprimono le loro qualità dapprima sui sensi esterni; e per mezzo di queste prime impressioni suscitano l'attività dei sensi interni e particolarmente dell'immaginativa. L’ATTIVITÀ CONOSCITIVA DEGL’ANIMALI INFERIORI ALL’UOMO S’ARRESTA QUI. Ma l'organismo umano, sviluppatosi sotto l'azione dell'intelletto agente, è dotato d'un principio vitale più perfetto che tende più su. V’è in esso una capacità o disposizione che, per quanto legata all'organismo vivente, lo porta ad aprirsi una veduta sul AQUINO, De anima, lez. AQUINO, De imitate intellectus cantra averr., ed. Keeler, Roma, Pontificia Univ. Gregoriana, Alb. Magno, De intellectu ed intelligibili, I tr. i, e. i mondo intelligibile. Questa capacità o disposizione è ciò che Aristotelechiamato l'intelletto in potenza. Soltanto la luce inteUigibile dell'intelletto agente, la quale avvolge € vivifica tutta la natura, può trarre all'atto questa pura potenziaHtà. Ma la luce divina dell'intelletto agente attua r intelletto potenziale per gradi: prima per mezzo degl'intelligibili astratti dai fantasmi dell'immaginativa; poi per mezzo delle scienze speculative; finalmente, quando l'intelletto umano è intelletto in atto o in abito, l'intelletto agente, cioè la luce divina, lo riempie di sé, lo informa e lo rende capace di contemplare in se stesso il mondo divino dei puri spiriti. Siccome in questo stato l'intelletto contempla il divino per mezzo del divino stesso, esso è detto intelletto acquisito. La teoria dell’Afrodisio, con la sua graduale ascesa della mente umana al divio, che nell'ultimo grado della sua elevazione finisce per essere deificata, sembra aver sedotto Averroè. Il quale, per altro, ne scorge acutamente le difficoltà. Se il punto di partenza di questa ascesa verso il divino è l'intelletto in potenza, e se questo è semplice attitudine dell'anima sensitiva essenzialmente legata all'organismo del quale subisce le vicende, bisogna ammettere che una virtù organica, generabile e corruttibile, vincolata cioè dalle condizioni dello spazio e del tempo – GRICE PERSONA VERSUS UMANO --, fosse capace d'elevarsi alla conoscenza di ciò che è universale, libero cioè dallo spazio e dal tempo, ossia dalle condizioni della sensibilità o, come si dice nel medio evo, della materia – GRICE MATERIALISMO BETE NOIRE --. Si può bene intendere, fino ad un certo punto, che la causa prima operi, come causa agente, sul mondo materiale e sull'intelletto potenziale; ma non si riesce a capire in che modo l'intelletto agente possa farsi forma d'una virtù organica e renderla simile a sé. L'intelletto acquisito è concetto che non è punto chiaro. In quanto acquisito parrebbe qualcosa di diverso dal soggetto che lo acquista; ma non si vede come un soggetto corruttibile possa acquistare e far suo l'eterno. Per queste ragioni parve ad Averroè che l'intelletto potenziale NON dove essere ncque corpus ncque virtus in corpore; in altri termini, la natura di siffatto intelletto vuol essere sciolta da ogni intrinseco legame colla materia. Sostanza separata esso stesso, l'intelletto possibile diviene capace di quella ascesa al mondo delle sostanze separate, mediante la copulatio coir intelletto agente. Anche Abu Nasar Alfarabi s'era fermato a meditare sul problema posto da Aristotele e sulla soluzione che ne aveva dato Alessandro. E nella sua opera intorno all'Etica Nicomachea – HARDIE GRICE --, avendo accettata la dottrina del commentatore greco suir intelletto possibile, s'era limitato a considerare l'intelletto agente come causa attiva del passaggio di quello dalla potenza all'atto, e non come forma che s'unisce ad esso. Invece, nel De intellectu et intelligibili, Alfarabi ammise che r intelletto possibile, già pienamente attuato dagl'intelligibili tratti del mondo sensibile, diventa soggetto d'una più intima unione coli' intelletto agente, dal quale riceve una più copiosa illuminazione che gli dischiude la vista del mondo sovrasensibile. In questa unione coli' intelletto agente, cui serve di preparazione l'acquisto delle scienze speculative, e che anche Abu Nasar chiama intelletto acquisito, intellectus adeptus, consiste la suprema perfezione della mente umana e la beatitudine finale dell'uomo. Ma Averroè informa, nel De animae beatitudine, che il povero Abu Nasar, giunto al fine de'suoi giorni colla ferma convinzione di potere arrivare a questo alto grado di perfezione, cui s'era apparecchiato procacciandosi tutto il sapere a lui accessibile, come s'accorse che non c'era arrivato, ha a dichiarare impossibile e vana l'aspirazione a congiungersi colle sostanze separate, ritenendo ormai favole da vecchierelle le descrizioni puramente immaginarie che taluni fanno dell'uomo pervenuto a tale sovrumana altezza – GRICE IN OUR BETTER MOMENTS OF COURSE. Quest'umile riconoscimento della limitatezza del sapere umano fatto d’Alfarabi, ormai sul passo estremo, non ha per altro scoraggiato AbuBaker Avenpace. Il quale, dice Averroè, s'adopera a lungo a risolvere l'arduo problema, senza perderlo di vista un batter d'occhio. Oltre che nel suo commento al De anima, Avenpace tratta di questo argomento in molti altri suoi libri, di due dei quali conosciamo i titoli: Alpharabii, De intellectu, nell'edizione di Avicenna, Opera per canonicos emendata. Venezia, eredi di Scoto. Il trattatello è stato ristampato nella traduzione latina da GiLSON, Archives d'hist. doctr. et litt. au moyen 8ge. N., introduzione ad Aquino, Trattato sull'unità dell'intelletto contro gli averroisti, Firenze, Sansoni, Nifo, In Averrois de animae beatitudine, Venezia, eredi dì O. Scoto Avere., De Anima, comm., digress. r Epistula de perfectione, e il Tractatus de copulatione. Anche la teoria di questo pensatore si ricollega strettamente a quella di Alessandro e d'Alfarabi, per quanto concerne la natura dell'intelletto potenziale e nel ritenere che alla conoscenza delle sostanze separate si possa giungere per mezzo del sapere speculativo, ossia della progressiva attuazione dell'intelletto, in potenza. L'atto col quale l'intelletto umano dal sapere scientifico s'eleva alla conoscenza dei puri intelligibili separati, potrebbe dirsi un atto di superastrazione, col quale dai concetti astratti – GRICE ABSTRACT ENTITIES --, ricavati dalla realtà sensibile, s’astrae quella pura essenza intelligibile che è semplice e identica per tutte le menti: Et cum philosophus ascenderit alia ascensione, considerando in intellecto inquantum intellectum, tunc intelliget substantiam abstractam. Sembra, per altro, che Abu Baker si mostra alquanto perplesso in merito a questa suprema ascesa, che dove coronare gli sforzi di chiunque è giunto in possesso di tutto lo scibile filosofico; e che egli, nell'Epistola de perfectione, la ritene possibile non tanto pello sforzo della natura umana, quanto piuttosto per un aiuto divino: intellectio istius intellectus est de possibilitate divina, non de possibilitate naturae. Ad ogni modo, la maggiore difficoltà, che travaglia anche la teoria di Alf arabi e d'Avenpace, consiste nel punto di partenza, cioè nell'aver considerato l' intelletto potenziale generabile e corruttibile, come l'aveva ritenuto Alessandro d'Afrodisia. Non così possiamo dire di Temistio. Per questo parafraste bizantino d'Aristotele, com'è stato inteso da Averroè, l'intelletto potenziale è immateriale – GRICE METHOD PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY FUNCTIONALISM MULTIPLE REALISABILITY --, uno ed eterno, al pari dell'intelletto agente che n'è la forma. Il problema che concerne Temistio, è un altro. Se l'intelletto potenziale è uno e ingenerabile, ed uno e ingenerabile è l'intelletto agente; e se il primo è tratto dalla potenza all'atto e diventa intelletto speculativo per r informazione del secondo, non si riesce a vedere come il concorrere di due cause eterne possa dar luogo ad un effetto generabile e corruttibile, qual' è il mio individuale atto d' intendere, susseguente, in particolari contingenze di 8 MuNK, Mélanges de philosophie, Parigi AvERR., /. e, p '0 AVERR. tempo e d'ambiente, al non intendere, e diverso dall'atto col quale altri intende quel che non intendo io. Nel pieno congiungimento dell'intelletto potenziale con l'intelletto agente consiste anche per Temistio il più alto grado di perfezione raggiungibile dall'uomo; ma il bizantino non spiega perché questo congiungimento avvenga soltanto alla fine e non al principio dello sviluppo intellettuale dell'uomo; egli cioè non spiega perché l'intelletto agente, fin dal primo momento della sua unione all'intelletto possibile, non attua tutta intera la potenzialità di quest'ultimo, se è vero che gì'intelligibili, come pensa Temistio con Platone, anzi che tratti dalle immagini sensibili – GRICE CIRCLE SUBLUNARY CIRCLE --, sono irraggianti dall'intelletto agente su quello potenziale. A risolvere le difiìcoltà contro le quali urta d’un lato la teoria d'Alessandro e dall'altro quella di Temistio, il commentatore arabo pone questi fondamenti. Anzi tutto, l'intelletto che è soggetto del pensare, in quanto questa funzione conoscitiva si differenzia dal sentire – GRICE POTCH AND COTCH --, non può essere e quindi al privatum examen per ottenere il dottorato in medicina. Ecco il verbale di quest'ultimo atto, rimasto ignoto a Ragnisco il quale, confondendo col Vernia Nicolò Manupello, egli pure da Chieti e parente del Vernia, ritene che questi si fosse laureato in filosofìa: A nativitate Domini nostri Jesu Christi sic. Indictione, in loco solito examinum. Privatum examen et Doctoratus in facilitate Medicinae Clarissimi Artium doctoris Domini Nicoleti Verniatis, theatini, ordinariam philosophiae legentis absque concurrente, examinati per Sacrum collegium artium doctorum, corani venerabili Domino presbytero Antonio de Malgarinis, cathedralis ecclesiae paduanae Mansionario, in hac parte Vicario, in assistentia spectabihs domini Butironi, Rectoris, approbati unanimiter et concorditer ac nemine penitus discrepante, sub promotoribus Domino Joanne Aquilano qui de dit insignia prò se ac Dominis Laurentio de Noali et Hieronymo de Verona. Testes. D. Laurentius Donato, Camerarius. D. Vicentius Quirino, artium scholaris. D. M. Petrus de Mantua D. M. Antonius Trachantianus In questo atto da me veduto Arch. d. Curia Vesc, e gentilmente trascrittomi da Barzon, il dottorato di Maestro Nicoletto è fissato. Ma che si tratti d'un semplice lapsus dell'estensore è provato dal fatto che l'atto immediatamente precedente porta altra data. Inoltre, cade in giovedì, e non martedì. Infine, Pomponazzi non pcteva fare da testimone, perché lascia Padova, e vi fa ritorno solo dopo la morte di Vernia. Ma forse non si tratta d’errore, bensì dell'aver computato il principio a nativitate Domini. Notevole nell'atto riferito è poi la presenza, fra i testimoni, di Donato e Quirini. Il primo era un patrizioveneziano, e a lui, questore a Padova, Nifo, alunno di Vernia, dedica il prologo d'Averroè alla fisica, stampato in fine del commento dello stesso Nifo alla destructio destructionum dello stesso Averroè. Del secondo, al quale Nifo a Padova e da Salerno ostenta il suo particolare e interessato attaccamento, faremo cenno piìi giti. Ma potrebbe anche darsi che il motivo che spinge il filosofo chietino ad ddottorarsi fosse un altro. Leggiamo infatti nel Sanudo che i veneziani si lagnarono in collegio perché Aquilano, maistro Nicoleto, Girolamo da Verona e Zerbo, che leggevano a Padova, durante le vacanze andao a miedigar in questa terra, cioè, a Venezia, e non applicano ai clienti le angarie di legge che dovevano far pagare i medici di Venezia, a prò del medico dell'armata. Pare che a quei tempi l'esercizio della filosofia desse guadagni più vistosi della teologia; e a maistro Nicoleto dovevano far gola. Ma comincia pella filosofia padovana un periodo di crisi che coincide colla partenza di POMPONAZZI. Questi, messo a dura prova dalla concorrenza di Nifo, dove sentirsi spronato ad accogliere un invito che gl’era fatto d’andare a stabilirsi alla corte di Alberto Pio a Carpi. E egli rinunzia alla cattedra e chiede licenza d'andarsene, adducendo a motivo i suoi personali interessi. Questo risulta dal decreto del Senato veneziano Venezia, Arch. di Stato, Senato terra, Reg.: Renuntiavit niiper eximius doctor D. Petrus de mantua lecturae ordinariae philosophiae gymnasij nostri patavini, cuius retinebat primum locum; et hoc impulsus privatis suis negotijs. Sicché i sapienti del Consiglio e della Terra ferma, nella necessità di provvedere alla cattedra rimasta vacante, nominarono a succedergli Agostino Nifo, qui erat concurrens ipsius. D. Petri de mantua secundo loco, promovendolo al primo, col salario di 90 fiorini, e dandogli come concorrente, ad secundum locum, il famoso e a tutti gratissimo dottore Fracanzano, vicentino, de cuius sufficientia et doctrina litterae Rectorum nostrorum Paduae dant amplum testimonium, coll'annuo salario di 80 fiorini. Ma Nifo non valeva il Pomponazzi, e d'altra parte risulta che non sappiamo per quali ragioni, se per motivi di stipendio o per attriti col Fracanzano, ad un certo momento taglia la corda. Sì che il Senato veneziano, in seguito a rapporto del rettore degl’artisti di Padova, considerando che maestro Nicoletto ob suam ingravescentem etatem continue non potest legere, quamvis ob eius sufficientiam est valde gratus omnibus scolaribus, et quoniam illam lectionem alias legebat D. Augustinus de sessa cum florenis 90 in anno, vir apprime sufficiens et gratus illis scolaribus, qui libenter veniret ad legendum, decide che Nifo sia condotto di nuovo con fiorini 120, ed abbia a concorrente lo stesso Fracanzano (Reg.). Questi s'era addottorato in artibus, era stato assunto alla lettura della logica, e questa cattedra occupa ancora Padova, Arch. della Curia, Acta grad.); aveva conseguito la laurea, e quindi assunto alla cattedra straordinaria di filosofia che occupa (Arch. d. Curia). Fu promosso alla cattedra ordinaria secundo loco. Ben poco ci è noto anche del suo indirizzo filosofico. Di scritti di lui a stampa N, non conosce che le Quesiiones in consecutiones Stradi ac de sensu composito et diviso, pubblicate nel volume del faentino Vittori, In Tysberum DE SENSV composito ac diviso cum eiusdem collectaneis in suppositiones NICOLETTI. Nec non Tractatus Alexandri Sermonete, Bernardini Petri de Landìtciis, Pauli Pergulensis et Baptiste da Fabriano in eundeni Tysberum. Item qiiestiones Frachanciani Vicentini in consecittiones etc. Venetiis, impensa heredum q. Oct. Scoti, e dedicate a Sermoneta. Esse appartengono senza dubbio al periodo nel quale Fracanzano fu lettore di logica. Di opere manoscritte N. ne conosce invece due. Una è nel cod. Ashburn nella laurenziana di Firenze con titolo: Excellentissimi Doctoris Domini fracantiani Vicentini de casu et fortuna fatoque quaestiones incipiunt. L'altra è nel codice Vat. lat., e porta questa intestazione: Tractatus proportionalitatum Domini fracantiani Vicentini di ff. io. È scritta di mano d'un allievo, che probabilmente è Accorumboni o Accoramboni da Gubbio. Ecco quanto scrive questo alunno: Finis Tractatus proportionum Fracantiani, praeceptoris mei, qui legit patavii ordinariam philosophiae. Ego vero eram tum bacchalarius ordinarius in studio patavino. Pontifex erat prope bononiam cum exercitu, ut dominum iohannem expelleret. Niente son riuscito a sapere del commento inedito In Physicorum di cui parlano i Memorabili di Schio nella Bibl. Bertoliana di Vicenza, e che era posseduto da Querengo. Interessante è quanto riferisce Sanuto, come furon ricevuti a Venezia in collegio maestro de Starniti teatino et maestro Zerbo, doctori, lezeno a Padoa in philosophia, insieme col retòr di scolari artista, con commission dil collegio di doctori; et forno alditi in contraditorio con maestro Fraganzan, dotor vicentin, leze in philosophia, qual non voria aver concorente inferior a lui, né vorìa essi doctori esso in nel collegio di doctori. Or fo gran parole, e scrito ai retòri di Padoa, dagi Information. N. non conosce l'esito di questa bega; ma è certo che l'insegnamento della filosofia a Padova versa in gravi condizioni. Nifo se n'era andato, e non fa più ritorno a Padova, ove non gli mancano gl’appoggi di potenti amici, ma dove aveva dovuto cozzare altresì contro l'avversione di maestri e scolari. Poi era morto maestro Nicoletto, che a Vicenza fa l'ultimo suo testamento, e con lui spariva dalla scena padovana la figura forse più nota fra gli studenti di filosofia e più popolare pelle sue bizzarrie. Nessun maestro di qualche rilievo occupa più le cattedre di filosofia. Di ciò ha a preoccuparsi il senato veneziano nella seduta Senato terra, Reg.. A succedere a Vernia fu perciò richiamato Magister Peretus de Mantua, vir singulari doctrina preditus et studentibus gratus, con 180 fiorini di salario; per concorrente gli fu assegnato Fracanzano, vir doctissimus, qui legit, quando fu nominato lettore di logica; e poiché il vicentino ricusa l'ufficio di concorrente col salario di 80 fiorini, fu deciso di portarlo a 130, onde possit legere contentus et facere bonam concurrentiam. Alla cattedra straordinaria di filosofia fu accettato il bolognese Bacilieri, discepolo, amico e collega di Achillini, del quale porta a Padova le dottrine. Egli aveva dovuto lasciare la città natale, in seguito alla sospensione per un quinquennio inflittagli da quel Collegio dei filosofi. E forse Bacilieri dove fare da concorrente al Peretto, quando Fracanzano entra al seguito di Corner, che, elevato alla sacra porpora, ha ancora bisogno d'andare a Padoa a studia Sanuto. Ma ritornato sulla sua cattedra il Fracanzano, e ripreso il suo posto di concorrente di Pomponazzi, Bacilieri lascia Padova per Pavia N. Sig. di Brah. nel pens. del Rinasc. ital.. Nella stessa delibera si trova ancora: Demum legit in dicto gymnasio iam annos sexdecim dunque dall'anno scolastico quando Trapolin salì sulla cattedra di filosofia quale straordinario Magister Petrus trapolino, qui est onustus ingenti numero filiorum, et habet florenos 250 de salario in anno, quod exiguum est respectu laborum quos sustinet in legende. Ideo captum sit quod dicto magistro Petro addantur floreni quinquaginta, ita quod habeat de salario trecentos in anno et ratione anni, attento presertim quod eius concurrens che era Zerbo habet fiorenos sexcentos de salario in anno. Con questa delibera del consiglio veneziano che vigila sulle sorti dello studio patavino la crisi della filosofia padovana era avviata a una felice soluzione. Intanto venivan su ottimi elementi, alunni dei maestri, che, appena addottorati e taluno anche prima, salivano sulla cattedra. Così s'addottora in artihus Molino, da Rovigo, alunno di Pomponazzi e di Trapolin che al dottore confere le insegne, e nel verbale di dottorato troviamo annotato che egli era già stato deputato ad lecturam dialecticae Arch. d. Curia Vesc. S'era addottorato in artihus il veronese Burana, e un anno dopo lo troviamo ordinario di logica. Il veronese Plumazio, già alunno del Nifo, fu chiamato ad extraordinariam philosophiae lecturam. Anche Trapohn, al quale conferì le insegne di dottore in artibus il padre, troviamo che electus est ad lecturam publicam logice. Fu promosso straordinario di filosofia naturale. E dopo la laurea, anche questa volta promotore. D. Petro Trapolino GENITORE suo qui dedit insignia e fra i testimoni era Contarini, passò alla scuola, collega del padre e, come questo, collegiato. S’addottorò in artibns delle Pelli Negre da Troia in Puglia, promotore Trapolin, ed anche egli era già stato eletto ad MORALEM PHILOSOPHIAM – GRICE AND THE WHITE CHAIR OF MORAL PHILOSOPHY AT OXFORD --- publice legendam. S'addottorò Bagolino di cui abbiamo udito l'elogio fatto da Avanzo e del quale è ben nota la carriera scolastica. S’addottorò in artihus Zimara, promotore ancora Trapolin, e comincia a insegnare prima logica, poi filosofia. Conseguì il dottorato in artihus Fracastoro, anch'egli già ad lecturam logice deputatus. Proprio in questi anni, affluiscono a studiar filosofia a Padova membri delle più ragguardevoli famiglie patrizie veneziane. Primi fra tutti Quirini, Gradenigo, Taiapietra, Moro, Marcello, Contarini, Tiepolo, Surian, Contarini, e Venier. Quirini, ancora artium scholaris, figura in vari atti di dottorato come testimone; ma recatosi a Roma, vi sostenne le conclusion nella chiesa dei Santi Apostoli, presenti Bembo e l'oratore veneziano Zorzi, e fu addottorato in artihus da Alessandro. Il suo esempio seguirono anche Taiapietra e Tiepolo, addottorati essi pure a Roma, dopo avervi disputato le loro brave conclusion da Giulio II, Sanudo; Bembo, Opp., Venezia. Invece Marcello, ch aveva sostenute ai Frari, a Venezia, alcune conclusion Sanudo, s'addottorò in artihus a Padova, promotore Trapolin, e gli fecero da testimoni Foscarini, vescovo di Città Nova e ancora studente di diritto, Barbarigo, primicerio di S. Marco, e Pomponazzi Arch. di Curia Vesc. Del dottorato in artihus di Mocenigo, discepolo di Pomponazzi, N. trova questo verbale, indictione. Privatum examen in artibus, in loco solito examinum, per venerandum collegium artium doctorum, et comprobatio unanimiter et concorditer ac nemine penitus discrepante, in assistentia Spectabilis. D. Pauli Zerbo Rectoris, coram Reverendo d. Ludovico de rugerijs vicario. Et deinde in medio cathedralis ecclesiae, assistentibus Mocenigo praetore, patruo, et Paulo Trivisano equiti, praefecto urbis, avunculo, et aliorum praestantissimorum doctorum scholarium civium et praelatorum corona, per R.mum D. Episcopum, eius domino Vicario recitante, pronuntiatus fuit Doctor in Artibus M. cus et doctissimus vir. Mocenigo, natus mi D. Leonardi, fili olim Serenissimi principis Venetiarum Mocenici, post longas lucubrationes et scholasticos labores et publicas disputationes ac varia virtutis et doctrinae suae experimenta. Cui tradita fuerunt insignia per Excell.mum artium et medicinae doctorem, D. Magistrum Petrum trapolinum prò se ac Dominis Magistris Ioanne de Aquila, Symone Estensi, Hieronymo de foelicibus ac Bernardino Spirono. Testes: D. Laurentius Venerio, D. Suriano, Contareno, artium scholares. È notevole che anche qui s'accenni a pubbliche dispute, tenute verosimilmente a Padova e a Venezia, delle solite conclusion. S'addottora in artibus Gradenigo, ed ebbe a testimoni il Magnifico G. Batt. Memo, suo zio e podestà di Padova. S'addottorò in artibus Foscarini, promotore Montagnana; fu eletto lettore di filosofia nelle scuole di Rialto a Venezia, al posto di Giustinian nominato ambasciatore (Sanudo). S'addottorò parimente in artibus Venier, el Gobeto, del quondam Marino procurator di S. Marco, e gli furon testimoni Corner, padre del Cardinale e podestà di Padova, Trevisan, capitanio, Surian e Polani Arch. Cur. vesc. Prima del dottorato a Padova, egli aveva tenuto le sue conclusion ai Frari in Venezia, disputando per più giorni con Bragadin, lettore di filosofia, con Badoèr, dottore e cavaliere, con Zorzi, anch'egli dottore, e con alcuni frati Sanudo. Fu la volta di Moro di Marino, che ebbe a testimoni Molin, podestà di Padova, Trevisan, capitanio, i due celebri scotisti francescani Trombeta e Ibernico, lettori nelle scuole del Santo, e Pomponazzi Arch. Cur. Vesc. Anch'egli aveva tenuto le conclusion ai Frari, qual'è impresse Sanudo. E finalmente Surian, nipote del patriarca dello stesso nome, dopo una disputa pubblica di due giorni a Padova e di un giorno ai Frari a Venezia Giorn. Crii. d. Filos. Hai., ebbe le insegne di dottore in artibus da Speroni, prò se ac Dominis Magistris Ioane de Aquila, Benedicto de Odis, Trapolino, Maripetro, Antonio de Faenza, Francisco ab Equis, Petro de Mantua, Carrano et Carolo de lanua compromotoribus suis Arch. Cur. Vesc. Dal qual verbale appare che Pomponazzi, forestiero, era stato aggregato al collegio dei filosofi di Padova, Dallo stesso Archivio della Curia Vescovilesi rileva che xA.ntonio D. Petri Trapolini ricevve la prima tonsura dalle mani del vescovo Barozzi, il quale venne a morte di lì a poco. Questo figlio del Trapolino fu avviato allo studio del diritto, e, dopo alcuni anni di vita dissipata, rimessosi sulla buona strada, professa Decretali e diritto civile a Padova. Ma morì se sono esatte le notizie raccolte da Facciolati Fasti Gymnasii Patavini. Divenuto un fiorente centro d’intesa vita intellettuale, lo studio di Padova attira, oltre la nobiltà veneziana e studenti di molte parti d'Italia, molti studenti d'oltralpe. Fra coloro che vi sostarono è da ricordar Copernico, che, già studente di diritto e quasi certamente anche dell’arti a Bologna, a Padova fu studente e a Padova certo non può aver trascurato lo studio della matematica e dell'astronomia. A Padova avevano insegnato queste scienze Peurbach e Regiomontano, ossia Muller di Kònigsberg, e dipoi Capuano di Manfredonia, i quali avevano discusso le osservazioni di Tolomeo e quelle di Albategni in rapporto ad una revisione, che si rende ogni giorno più necessaria, delle tavole alfonsine. Si parla anche della fama di profondo matematico goduta da Trapolin, considerato nientemeno che il primo matematico del suo tempo, sì che per questa sua fama accorrevano a Padova, avidi d'ascoltarlo, scolari d'ogni nazione Vedova, Biogr. d. Scrittori Padovani. Alunno di Trapolin e Pomponazzi era stato il mantovano Tiriaca che s'addottorò in artihus, promotore Trapolin che gli conferì le insegne, e testimone il Peretto suo concittadino. Egli tenne la cattedra di matematica e astronomia con tanto plauso che, avendo dato le dimissioni, bandito il concorso per dargli un successore, quando gli studenti seppero i nomi degli aspiranti a quella lettura presero ad agitarsi e chiesero che Tiriaca fosse richiamato sulla cattedra, come fu fatto con deliberazione del Senato veneziano. È arduo pensare che Copernico non l'abbia avvicinato e si sia disinteressato dell'insegnamento del maestro. Un confronto dei ritratti di Copernico, e specialmente dell'autoritratto, col matematico seduto e intento a tracciare un disegno nel quadro del Giorgione i tre filosofi , l'ha indotto a credere a N. che questo sia proprio Copernico, studente a Padova. Volgendo le spalle a Tolomeo e all'arabo Albategni, egli è rappresentato dal pittore di Castelfranco Veneto, al centro ideale e prospettico del quadro, nell'atto di scrutare la natura che ha dinanzi e di volgere le spalle ad un sapere che sta per tramontare. Trapolin era a Venezia, presente alle solenni esequie fatte a Sabellico nella chiesa di S. Stefano. Egnazio fece l'orazione funebre dell'amico umanista deceduto, Sanuto, Vili. Pomponazzi, circondato dalla stima e dall'affetto dei suoi alunni e dei colleghi rinnova l' ingaggio de firmo et unum de respectu; e in quell'occasione il Senato gli aveva portato lo stipendio dai 180 ai 250 fiorini, motivando l'aumento colla singolare dottrina del filosofo e coi bisogni della numerosa famiglia da À mantenere Venezia, Arch. di Stato, Sen. terra, Reg. Quanto alla numerosa famiglia, sappiamo che sotto Natale egli si sposa con Cornelia di Francesco Dondi dell' Orologio, dalla quale aveva avuto una o forse già due figliolette. Per parlare di numerosa famiglia bisogna pensare che egli avesse a carico altri parenti. Tanto più che lo stesso motivo del bisogno in cui versa pella famiglia numerosa sarà addotto da Peretto per chiedere un nuovo aumento in occasione del rinnovo dell'ingaggio. Lo stipendio questa volta gli fu portato a 370 fiorini. Le cose dello studio patavino procedevano dunque a gontie vele, e quando, ad Achillini costretto a fuggire da Bologna pella caduta dei Bentivoglio dei quali era fautore, fu offerta la cattedra di filosofia naturale, secundo loco, che era stata del Fracanzano, morto; si che il bolognese si trova ad essere concorrente di Pomponazzi. E in disputa tra loro al circolo dei filosofi, al portico pretorio, fra il palazzo della ragione e il Bò, li ritrasse ambedue al vivo Giovio, il quale era alunno del Peretto, e a Padova rimase fino a quando fece ritorno a Pavia. Ma la serenità che Bologna invidia a Padova non dura a lungo e un violento uragano s’abbatté su questa, quando, pel furore totius fere Europae virium in Rem Venetam conspirantium, come con bella frase si legge sulla tomba del doge Loredan nella chiesa di San Zane e Polo, Venezia corse pericolo mortale e le milizie imperiali occupano Padova. Sembra che proprio lo stesso giorno dell'entrata dei tedeschi in Padova, morisse, non saprei in quali circostanze, Trapolin. E fu certo ventura per lui che, giacendo nella pace del chiostro di S. Francesco, ov'era la tomba della famiglia Trapohna nella stessa chiesa riposa Roccabonella, non ebbe a vedere lo scempio della città, il saccheggio della sua casa e la sciagura dei suoi congiunti ed amici. All'avvicinarsi del nemico i rettori della città e il consiglio cittadino, formato di 16 deputati, discussero a lungo s’arrendersi o resistere. E parlò Trapolin, che si voleno tenir pella Signoria, e non si dar al re di romani, si non vedono mazor exercito eh'1 nostro a preso Padoa, ben non voleno danno, ni el nostro campo entri in Padoa, dice Sanuto. Vili. Ma le difese veneziane eran deboli, e Padova cade. Vi fu un principio di saccheggio, ma una grida rassicur i cittadini; fu formato un governo provvisorio di notabili padovani, e l'ordine fu ristabilito Sanudo, Vili. Di questo governo fa parte anche Trapolin, Bagaroto, lettore di diritto e Conte. Qualche settimana dopo insieme ai predetti fa parte di questo governo provvisorio anche un altro dottore padovano, Lion Sanudo. L'ordine relativo che regna in Padova consentì che i professori dello studio continuassero a svolgere i loro corsi e a fare esami. Così mi risulta che Pomponazzi era promotore nel dottorato di Alvise da Brescia Arch. ant. dell'Univ., Sacro Collegio dei filosofi. Ed altri esami si tennero anche nei giorni successivi. Ma i veneziani mal si rassegnano alla perdita di Padova, anche perché sapevano che non pochi padovani non se la prendevano poi tanto calda per Venezia, e ricordavano che nel tentativo di Marsilio da Carrara non pochi l'avevano favorito, e la Signoria per dare un esempio memorabile, FA IMPLICCARE UNA SESSANTINA DI PERSONE, fra le quali l'avo di Alberto e di Pietro Trapolin. Perciò s’affrettarono a ricuperare la città, affidando l' impresa a Gritti. Entrate in Padova, le milizie veneziane si dettero a saccheggiare le case dei fratelli Trapolin e di altri padovani, compromessi o sospetti, mentre Alberto, col fratello Roberto e con Conte, s'asserraglia nel palazzo del Capitanio, ove fatto prigione fu mandato a Venezia, coi suoi compagni, per render conto del suo contegno verso la Signoria. È appunto col ritorno dei veneziani che cominciarono i maggiori guai per Padova. Nell'elenco delle case saccheggiate che menziona Sanudo Vili, figurano quelle dei fratelli Alberto, Roberto e Nicolò Trapolin, e quella di Francesco loro nipote, e figlio del u quon m dam maistro Pietro. La stessa casa di maestro Pietro, ove vive la vedova Maria, coi figli Giulio, Alessandro ed Alba, non fu risparmiata, e pare che in questo saccheggio andassero distrutti per intero le opere manoscritte e i corsi di lezioni da lui tenute. Sanudo poi informa che anche Julio Trapolin, fo fiol di missier Piero, fu fatto prigioniero e dal capitanio di Padova spedito a Venezia con altri compagni per esser giudicato. Ma anche ripresa dai veneziani, Padova rimane sotto la minaccia degl’imperiali che ne occupano i dintorni immediati e tentarono di fare di nuovo irruzione in città. Soltanto i tedeschi levarnoo il campo. Intanto l'università riceve un fiero colpo: maestri e studenti cominciarono a prendere il largo, e taluni non vi ritornarono piìi, altri soltanto più tardi. Fra quelli che NON ritornarono, è POMPONAZZI. A dir il vero, gli era morta la moglie ed era rimasto con due bimbette ancora in tenera età. Forse dopo essersi in fretta riammogliato con Ludovica del nobile Pietro da Montagnana, cittadino padovano che ritengo abitasse nella contrada di S. Lucia, lascia Padova colla famiglia, forse per riparare a Mantova, portando con sé il ricordo dello studio patavino, delle battaglie chev'aveva combattuto, degl’alunni che a lungo gl’attestarono la loro devozione, primi fra tutti Bonamico da Bassano, Gaspare e Marcantonio Contarini, e dei colleghi, e in particolare di quello che era stato suo maestro e poi caro amico, Trapolin. Invece Zimara da S. Pietro in Galatina già ALUNNO E POI FIERO AVVERSARIO – GRICE STRAWSON – di Pomponazzi, dopo aver girovagato in patria, a Salerno e a Napoli, vi fa ritorno. Non è esatto per altro che lo studio venisse chiuso, poiché dagli Ada graduimi dell'Archivio della Curia Vescovile risulta che, per esempio, fa il dottorato in artibiis Binno de'Tomasi figlio di Maesto Jacopo veneziano, ed ha le insegne da Genua; s'addottora ugualmente in artibus Oldoino, e fra i testimoni era Genua figlio del dottore Nicolò; ebbe le insegne di dottore pure in artibus il Magnifico e generoso Francesco del fu Chiarissimo Morosini, promotore lo stesso Genua, e testimoni i Magnifici Spinelli partenopeo, dottore cavaliere, conte di Cariato e oratore massimo di Sua Maestà Cattolica, Pietro Duodo, podestà di Padova, Alvise Emo, Capitanio, nonché i Reverendi Contarini, dottore in artibus, in teologia e in decreti, e Giustinian, canonico patavino. Ed altri dottorati ebbero luogo, come può vedersi negli stessi Ada della Curia Vescovile e in quelli più volte ricordati dell'Archivio antico dell'Università, per quanto lacunosi. Certo è, per altro, che la attività dello Studio, sia per il minor numero degl’alunni, sia per scarsità di maestri, fu assai ridotta fino alla ripresa. Nel quale anno, troviamo il dottorato in artibus di Speronello figlio dello Spettabile ed esimio dottore Bernardino Speroni, nobile padovano, presenti come testimoni i Magnifici Donato, podestà, e Loredan, degnissimo capitanio, non che i nobili veneziani Almorò Donato, Venier, e Giacomo Loredan. Dopo la deportazione a Venezia dei fratelli Alberto e Roberto Trapolin, del loro nipote Giulio, lìglio di Pietro, e degli altri che s'erano compromessi nei fatti di Padova, più di 100 per sospetto, oltra li ritenuti (Sanudo), fu fatto il processo a carico di Trapolin fratello di misier Piero dotor excellentissimo, el qual Alberto era di XVI al governo di Padoa, homo di gran inzegno, et anche suo avo fo apicato a Padoa a tempo di la novità di misier Marsilio di Carrara, di Conte, fato cavalier per r imperator presente novitev, di Bertuzi Bagaroto, dotor, qual lezeva publice in iure a Padova et havia 300 ducati all'anno della Signoria, era richo e famoso, e di Giacomo da Lion dotor, el qual fé' la oration a l' imperator l'orazione è riportata da Sanudo, Vili quando se deteno padoani, ne la qual dice gran mal de'venitiani. Il Consiglio dei X con la Zonta fu implacabile con questi padovani, che vennero impiccati. Sanudo, che ci dà alcuni particolari della loro impiccagione, e' informa anche che i loro beni furono confiscati, e aggiunge: Restane a spazar li altri padoani Della fine di Trapolin e dei suoi compagni parla anche il vicentino Porto, che assistè al supplizio Lettere storiche per cura di Bressan. Firenze, Le Monnier, lettera a Savorgnan. Di Trapolin dice che era profondissimo filosofo e teneva alquanto dell'epicureo, sì che pare che non accetta con tanta riverenza, né con tanto desìo le cose sante dette da'religiosi con quanto gli altri fanno; ma taciturno, ovvero dicendo alcuna fiera parola contro i Viniziani, aspetta l'ora del fine suo. E dinanzi alle forche, voltato messer Bertucci a Trapelino disse: Ecco il legno della nostra croce. Ecco risponde egli il luogo dove la nostra innocente vita d’una ingiusta morte sarà terminata. Pare invece che Roberto e Nicolò, altri fratelli di Pietro, e il figlio di questo, Giulio, se la cavassero a buon mercato. Poiché di Nicolò ci vien narrato Papadopoli, Hist. gymnasii patav. che anda in Germania al seguito dell'Imperatore Massimiliano, da cui ebbe onori, e quindi si mise al servizio di Carlo V, prese parte all'espugnazione di Tunisi, della quale scrisse la storia; infine si riconcilia con Venezia, e potè ritornare a Padova, ove morì. Di Roberto Trapolin consta Padova, Arch. di Stato, Estimo, Polizze della Città, Polizza che si trova ad bavere 5 fioli, 4 menori, de li quali tre fiole da maridare e che egli era confinato in Venetia, dove sto egli dice um spesa, né posso veder li fatti miei et convegno pagar uno fator et ogni cosa me va in ruina. Egli era già morto poiché, Trapolin de'Trapolin suo figlio presenta a nome degl’eredi la prescritta dichiarazione all'ufficio dell'estimo. Di Giulio consta che, insieme al fratello Alessandro, ebbe procura dalla madre. Maria del fu Francesco de'RoselH, nella causa che questa intenta per l'eredità paterna. Gli stessi Giuho e Alessandro compaiono ancora insieme alla madre nel contratto di nozze della loro sorella Alba col nobile padovano Gaspare del fu Buzacarini, abitante nella contrada di S.Agnese Padova, Arch. di Stato, Sez. notar., Not. Bragadin. Ma Giulio morì l'anno stesso in cui sarebbe morto l'altro fratello, Antonio, secondo Facciolati, e fu sepolto a S. Francesco, insieme al padre, prima che la tomba di famiglia dei Trapolin divenisse proprietà dei nobili De Lazzara, figli di Marina Trapolina, che non è detto in quali relazioni di parentela è col filosofo e i suoi eredi lac. Salomonio, Urbis patav. Inscriptiones, Padova. Alessandro invece era ancora vivo, quando, insieme a M. Antonio e Pietro, nipoti del filosofo, provvide a far trasportare nella chiesa dei Carmini le ossa del padre e della madre e di altri suoi maggiori, in una tomba che avesse da accogliere lui e tutti i suoi, come si legge nelr iscrizione riportata dagli storici di Padova PapadopoU, Hist. gymnasii patav.; anzi, dalla già citata Polizza dell'Estimo risulta ancor vivo. E Francesco Trapolin, che sull'esempio paterno insegna a Padova prima la logica, indi la filosofia naturale. I documenti padovani tacciono di lui, dopo il saccheggio della sua casa. Può darsi ci sia qualcosa di vero nella notizia raccolta anche da Portenari, Della jelic. di Padova, che egli anda a legger a Firenze. G. Cesare Scaligero, De subtilitate, dist., pretende di sapere che Francesco Trapolin, precettore di Pomponazzi, che anche un'altra volta BORDONE chiama suo precettore, muore per aver mangiato un intingolo ove la domestica mette della cicuta invece di prezzemolo. Se non che precettore di Pomponazzi non fu Francesco Trapolin, ma Pietro, il padre. BORDONE, addottorato in artihus a Padova, mostra, anche per questa confusione, di riferire una voce raccolta per sentito dire. Certo è invece, per l'attestazione dell'Estimo citato Polizza , che la nobele madonna Maria Trapolina era tutrize et gubernatrice de i fioli del q. messer Francesco Trapolin, q. m. piero. A questa data dunque Francesco era morto. E forse suo figlio, se non di Alessandro o di Giulio, potrebbe essere quel Pietro Trapolin che figura come nipote nell'epigrafe sepolcrale dei Carmeni e fa denuncia dei suoi beni all'ufficio dell'Estimo Polizza. Costui è sicuramente l'autore delle lettere a Mussato nel Ms. della Biblioteca del Seminario di Padova. A questo figliuolo Pietro Trapolin aveva trasmesso, col conferimento delle insegne dottorali in filosofia, il meglio della sua arte, ed egli avrebbe dovuto custodirne l'eredità spirituale. Invece l'oblio colse il figlio anche prima del padre. Poiché se di quello resta appena il nome nelle carte sbiadite della Curia Vescovile e dell'Archivio dell'Università di Padova, di questo ci son pervenuti almeno i pochi frammenti menzionati in principio, insieme alla gloria d'essere stato ricordato dal suo grande discepolo ed amico Pomponazzi come suo precettore Prologo al De incantationihiis: Dicisque ulterius te quandam responsionem alias a Petro Therapolino patavo, nostro communi praeceptore, audivisse, quam ipse Alberto ascribebat. Queste parole sono rivolte a Panizza, cui il Peretto indirizza la sua opera; sebbene dalle stampe non appaia, è attestato però dal codice Ambrosiano di essa. Panizza, mantovano, è studente a Padova; e nel voi. più volte citato di quella Curia Vescovile, c'è anche il verbale del dottorato in artibus D. M.ri panicia Mantuani, filij D. de panici s, ov'è detto che dell'uno e dell'altro grado accademico habuit insignia a D. M.ro Petro trapolino. Fra i testimoni figura al primo posto Pomponazzi, artium doctor, ordinariam philosophiam legens. Paniza è autore di tre opere a stampa: di una Qnestio de phlebotomiis fiendis Venetiis, per Benalium, dedicata al duca Gonzaga, e di un Commentarium de venae sectione per sex egregios et praeclaros iudices diindicatum, cui si trova aggiunto dello stesso autore il Lihellus de minoratione ex visceribtts ad Herndem Gonzagam Principem iustissimum et Cardinalem amplissinitmi Venetiis. Quest'ultimo volume ha in principio un bel ritratto dell'autore e una tavola raffigurante i filosofi in atto di giudicare e approvare la sua opera. Nella Qnestio de phlebotomiis, scritta contro un chiarissimo medico del quale non è indicato il nome, accade a Panizza di ricordare il maestro che gli aveva conferite le insegne dottorali. Accennando ad Avicenna che fu il migliore seguace d'Aristotele, dal quale discorda solo in paucissimis admodum rebus, egli continua: IdeoTrapolinus, preceptor meiis, sue etatis philosophorum gloria, autoritate Girardi bolderii Veronensis hanc dicebat profitentibus arteni: Insequimini Avicennam, primo; insequimini Avicennam, secundo; insequimini Avicennam, tertio. E un po'più giù, a proposito d'un'argomentazione subtilissima et tota metaphisicalis, osserva: Ex quo non mirum si medici ista non intellexere, artifices sensitivi grossique cum sint; stat enim in abstractis a materia. Sed ex sententia perspicui speculatoris Petri trapolini, artifices huius artis res tales e suis expellere mentibus tenentur, cum medicina sit de immersis in materia et quandoque feculenta et turpi. Ma se Paniza ricorda Trapolin come insigne medico, Genua, figlio di Nicolò che del Trapolin era stato collega, continua a ricordarlo sicuramente l'aveva conosciuto da ragazzo anche come filosofo di tendenze moderatamente averroistiche, insieme a Pomponazzi, nel commento al De anima, stampato a Venezia. Altre notizie su questo maestro, amico e collega del Peretto Mantovano non sono riuscito a rintracciare, ed ho riunite quelle che ho trovato per chi, come dicevo e come mi auguro, vorrà intraprendere più ampie ricerche sullo Studio patavino nel Rinascimento. Intanto son lieto di potere annunziare che altre notizie e documenti sulla famiglia Trapolin, coinvolta nelle vicende di Padova al momento della guerra pella lega di Cambrai, il lettore potrà trovare nella A Criticai Edition of the Lettere Storiche 0/ Porto, a cura di Clough, Oxford. vili I QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS DI ACHILLINI Se a Padova il decreto episcopale, vieta di disputare quovis quaesito colore, sotto qualsiasi pretesto, della dottrina averroistica dell'intelletto, meno che per combatterla, e maestro Nicoletto da Chieti e il suo discepolo Nifo da Sessa s’affrettano a recitare la loro palinodia, e la penna a impugnare l'averroismo brandiva anche lo scotista francescano Trombetta, a Bologna, sotto la liberale signoria dei Bentivoglio, Achillini potè liberamente discutere al capitolo generale dei francescani tenuto in questa città sotto il generalato di Francesco San Dal voi. Sigieri di Brab. nel pens. del Rinasc. Ital. I II francescano Trombetta, ordinario di Metafìsica invia Scoti a Padova, aveva scritto, prima del Vernia, un Tvactatiis de humanaruiìi animarmn plurificatioiie coìitra Averroistas, che sarà poi pubblicato a Venezia, per Bonetum Locatellum, col quale scende in lizza in difesa della proibizione del vescovo Barozzi. Wadding, Scriptoves Ordinis Minornni, Roma, informa che taluni, anzi che col nome volgare di Trombeta o Trombetta, preferivano cultu quodam latino di chiamarlo con quello di Tubefa; e Tubefa è chiamato anche nell'epitaffio sepolcrale nella chiesa di S. Antonio a Padova, che Wadding riporta. Sul finire delle Questiones de pliiritate etc, Vernia scrive: Si quis vero, per resolutionem ad immediata et per divisionem ad minima, argumentationes contra Averroym, in hoc commento philosophice discipline depravatorem, videre desiderat, videat, opus contra ipsum reverendi sacre pagine magistri Antoni] Trombetta, philosophi integerrimi et theologi excellentissimi, provincie sancti Antoni] Patavini ministri meritissimi. Nam frustra visum est mihi tangere que ab eo mihi amicissimo sunt optime declarata. E Trombetta, che è il primo dei revisori dell'opera di Vernia, rende testimonianza, a sua volta, al sapere del collega e alla fede di lui, si da procacciargli l'approvazione del sospettoso Barozzi.] sone presenti forse il Nifo e Pico, i suoi Quoliheta de intelligentiis, in difesa della sua interpretazione sigieriana della dottrina averroistica, portata a Padova dal suo fìdus Achates, Bacilieri, e da lui stesso, e a Padova professata da Taiapietra e Venier, quando ormai Nifo, che n'era stato propugnatore fin dai primi anni del suo insegnamento padovano, l'aveva apertamente ripudiata. In quest'opera Achillini è sigieriano da principio alla fine, sebbene egli, secondo un costume molto diffuso, non faccia mai il nome dell'averroista brabantino né d'alcun altro, tranne si tratti di Aristotele o d'Averroè o d'altra autorità pari a queste. E, cosa notevole, le opere di Sigieri cui egli attinge, sono quelle stesse dalle quali il Nifo prende le citazioni che ho riferito nel volume su Sigieri di Brahante nel pensiero del Rinascimento Italiano: il che si presta a varie congetture. Come sappiamo, le tesi difese da Sigieri nel suo trattato De intellectu, scritto in risposta al De imitate intellectiis d’AQUINO, erano queste: r intelletto possibile è, in sé stesso, l'infima delle sostanze separate, ed è unico per tutta la specie umana; l'anima intellettiva dell'uomo risulta dall'unione dell'intelletto possibile, separato ed eterno, colla cogitativa che Achillini bononiensis de intelligentiis quolibeta in quibus quid commentator et Aristoteles senserint et in quo a veritate deviaverint continetur. in capitulo generali minorum edita et impressa Bononie impensis Benedicti Hectoris Faelli Bononiensis, illustrissimo Ioanne secundo Bentivolo reipublice Bononiensis habenas felicitar moderante. La seconda edizione, fatta presso lo stesso editore Faelli, è dedicata al conte Rangoni, che aveva udito Achillini disputare intorno agli argomenti trattati nel libro ed aveva preso attiva parte alle dispute. Intorno a Rangoni, TiRABOSCHi, Biblioteca Modenese. Per Venier, allievo del Bacilieri, è da vedere il volume di Bonet, Metaphys., naturai. Philos., Praedicam., necnon Theol. natur. Recogn.per magnif. dom. Venerium.Venetiis, Eredi di Scoto, con lettera del Bacilieri a Venier, e dedica di questo al doge Loredan. Le note marginali di Venier risentono dell'insegnamento del suo maestro bolognese. Nifo, De intellectu; De anime beatit., comm.; Sigieri ìiel pens. è la più alta delle facoltà di cui sia dotata l'anima sensitiva dei singoli; in questa unione coi singoli l'intelletto, uno in sé, acquista un'esistenza individuale e molteplice, pari al numero dei singoli; mercé questa unione, l'anima intellettiva può dirsi forma sostanziale inerente all'uomo, e non soltanto forma assistente; sì che da essa l'uomo trae il suo essere specifico di animale ragionevole; r intelletto possibile è pura potenza priva di ogni atto sostanziale; soltanto grazie all'azione dell'intelletto agente la sua potenza è gradualmente attuata; r intelletto agente è Dio; ma esso può dirsi parte della anima umana in quanto concorre all'atto dell'intendere umano e alla fine dello sviluppo intellettuale dell'uomo s'unisce all'intelletto possibile come forma r intelletto umano può arrivare a conoscere le sostanze separate e Dio per unione intenzionale colla loro essenza. Nel libello De felicitate, poi, l'averroista del Brabante aggiunge quest'altre tesi: nell'atto intellettuale col quale l'intelletto possibile intende nella sua essenza l’intelletto agente, cioè Dio, consiste formalmente la suprema felicità dell'uomo in questa vita; al pari dell'intelletto umano, anche le altre intelligenze separate conseguono la loro beatitudine nell'atto col quale intendono l'essenza divina ; NiFO, De iutell. De anima, comm. Sigieri NiFO, De intell. De aniima, comm. Sigieri NiFO, De ititeli. De anima, comm. Sigieri NiFO, De intell. De anima, collect.; Sigieri, De anima intell. Mandonnet, Sig. de Brabant et l'averr. latin, Louvain, e Qitaestiones naturales edite da Stegmùller, in Rech. de tìiéol. anc. et méd.. Sigieri Vedasi anche Giorn. Crit., NiFO, De intell. Sigieri NiFO, De intell. De anime beatit., I, comm. Sigieri NiFO, De intell.; De anime beat., comm. Sigieri NiFO, De intell.; De anime beatit., comm.; De anima, collect.; Sigieri.] o) sì per r intelletto umano, sì per le altre intelligenze separate, intellectio qua Deus intelligitur est ipse Deus. Ora tutte queste tesi son difese d’Achillini nei suoi Qtioliheta de intelligentiis; anzi la massima parte di quest'opera del maestro bolognese è dedicata alla trattazione di questi dieci punti svolti negli scritti di Sigieri, dei quali Nifo ci ha rivelato l'esistenza; il che m'ha recato, quando ho potuto rendermene conto, non poca sorpresa. La trattazione d’Achillini verte intorno a questo problema fondamentale: Utrum latitudo intellectuum sit uniformiter difformis. Per intendere l'esatto signiiìcato di questo problema, giova ricordare alcune cose. È noto che Anassagora, a spiegare l'origine del movimento fisico che separa i semi delle cose dal \ny\La. nel quale eran tutti confusi, e per dar ragione dell'ordine che s'osserva nella natura, sentì il bisogno di porre una mente ordinatrice, non mista perché dominasse. Ma parve a Platone e ad Aristotele che, pur avendo affermato un così operoso principio, Anassagora non ne traesse tutto il vantaggio che poteva e non gli attribuisse quella causalità che gli sarebbe spettata nell'ordinamento delle cose. Perciò, il primo ad ogni specie di cose nel mondo sensibile fa corrispondere una propria idea nel mondo del pensiero; ed il secondo pone tante menti separate quanti, a suo modo di vedere, sono i movimenti celesti. Anzi che un solo intelletto, abbiamo così per Aristotele una gerarchia d'intelhgenze, comprese fra due termini estremi: l'intelletto umano in basso, e la mente del primo Motore immobile, puro pensiero, al vertice. Come le idee dei generi e delle specie hanno una maggiore o minore estensione, così questi intelletti hanno una maggiore o minore capacità d'intendere, in rapporto alla funzione che ad essi è riservata come motori; poiché non va mai dimenticato che solo per mezzo del movimento Aristotele, al pari ‘Anassagora, era giunto ad affermare l'esistenza d'una prima Mente motrice dell'universo e di altre menti intermedie fra quella e il mondo della generazione, aventi l'ufficio d’adattare l’impulso che viene dal primo Motore, a particolari fini subordinati al fine supremo. Perciò la prima Mente è intelligenza al massimo grado, mentre gli altri intelletti, giù giù ARisT., De anima, di cielo in cielo, fino all'intelletto umano, possiedono una capacità d'intendere sempre più limitata. Rappresentandosi r intelligenza a guisa d'una qualità, per esempio, d'un colore, di cui s'hanno molti gradi d'intensità, da quello piìi cupo a quello più chiaro, gli scolastici solevano chiamare latitudo l'estensione compresa fra la cosa che possiede quella data qualità nel minimo grado, e la cosa che la possiede nel grado più alto e più intenso: perciò la latitudo dell'intelligenza non è altro, come dice Achillini, se non la gerarchia stessa degl'intelletti, avente il grado più basso o più dimesso nell'intelletto umano, e il grado più alto o più intenso neir intelletto divino. Chiedersi se la latitudo degl'intelletti sia uniformiter difformis, significa per lui domandarsi se le varie intelligenze differiscon fra loro per gradi uguali oppure no Ma per risolvere siffatto problema, è necessario vedere qual'è la natura propria dei singoli intelletti compresi nella Latitudo intellectuum est ipsi intellectus ordinati secundum quod ex se sunt ordinabiles. De intelligentiis, quol.in AchilLiNi, Bononiensis, philophi celeberrimi. Opera omnia in iDium collecta cum annotationibus excell. doctoris Pamphili Montij, Bononiensis, scholae Patavinae publici professoris. Venetijs, apud Hieronymum Scotum. A questa edizione mi riferisco anche nelle citazioni successive, per ragioni di comodità. In un trattatello De latitudinibus formarum, più volta stampato sotto il nome di Nicolò d'Oresme, si leggono in principio queste definizioni che giova tener presenti: Latitudo uniformis est illa que est eiusdem gradus per totum. Latitudo difformis est que non est eiusdem gradus per totum. Questa si divide come segue: Latitudo secundum se totam difformis est cuius nulla pars est uniformis; latitudo non secundum se totam difformis est illa cuius aliqua pars est uniformis. La latitudo uniformiter difformis è una sottospecie della latitudo secundum se totam difformis, ed è precisamente quella cuius est equalis excessus graduum Inter se equaliter distantium Tractatus de latidinibus formarum secundum Reverendum dodorem magistrum Nicholaum Horen, Venezia. Sull'autore di questo piccolo trattato, l'eremitano Iacopo di San Martino, detto anche Iacopo da Napoli, il quale riassunse e schematizza, non del tutto fedelmente, un più ampio trattato di Oresme, come sul sommento di PELICANI da Parma che insegna anche a Padova e Bologna, e in generale sul tentativo di costituire un metodo matematico pel calcolo dell'intensità delle qualità non solo corporee ma anche spirituah, completa luce ha fatto Maier, in An der Grenze von Scholastik iind Naturwissenschaft. Roma, Ediz. di Storia e Letter., che è uno dei più seri e documentati contributi allo studio della filosofia della natura, condotto con rara conoscenza delle fonti manoscritte, e perfetta intelligenza dei problemi trattati. latitudo di quella perfezione o qualità che dicesi intelligenza: e segnatamente se il primo e più alto intelletto sia intelligenza infinita. Nel qual caso, è evidente che la latitudo dell'intelligenza sarebbe infinita. Occorre pertanto chiedersi in primo luogo se il primo Motore, cioè Dio, muova l'universo con vigore o virtù intensivamente infinita, e sia perciò di vigore intensivamente infinito. Per intendere il significato del qual problema è necessario ricordare che l'argomento principale, col quale Aristotele era salito a Dio, è quello del moto: Dio è essenzialmente il primo Motore immobile dell'universo, è l'universo è il mosso. Ora l'universo, per Aristotele come pei Pitagorici, è una sfera di raggio finito, avente per centro assoluto la terra e per limite esterno il cielo delle stelle fisse. Finito nella mole, il mondo si muove con moto finito in velocità, e infinito soltanto in durata, poiché l'universo è eterno. Dall'intensità del moto dell'universo non si può dunque arguire ad un'infinità intensiva della virtù o vigore con cui Dio muove il mondo. Ed infatti Averroè dice espressamente in più luoghi, che v'è proporzione tra l'intensità di vigore nel movente e la velocità del mosso; sì che un'azione d'intensità infinita e d'infinito vigore non può esser ricevuta in un corpo di grandezza finita. Se il primo Motore muove il cielo con virtù intensivamente infinita, questo dove muoversi con velocità infinita in un solo istante. AQUINO crede di potersi sottrarre alla conclusione cui era giunto Averroè, concedendo che tutto ciò è vero dei motori naturali che mettono nel muovere tutta la forza di cui sono capaci; ma non è vero dei motori che agiscono con intelletto e libera volontà, qual è Dio. Il primo Motore dell'universo, per AQUINO, appunto perché dotato d'intelligenza e di libero volere, comunica al mondo quel tanto di movimento che meglio si conviene, in rapporto al fine che si propone di raggiungere e alla capacità limitata del mosso; ma questo non implica che vi sia una proporzione necessaria tra la quantità di movimento ricevuta dal mondo e la virtù del primo Motore, l'infinità della quale può dimostrarsi per altra via. AvERR., Phys., Vili, comm.; De caelo, comm.; Metaph. De substantia orbis AQUINO, Phys., Una delle proposizione delle condannate a Parigi suona così: Quod Deus est infinitae virtutis in duratione, non in actione, quia talis infinitas non est nisi in corpore finito, si esset. E di nuovo la proposizione: Quod Deus est infinitae virtutis, non quia facit aliquid de nihilo, sed quia continuat motum infinitum. La condanna di queste proposizioni è sicura prova che anche su questo punto gli averroisti parigini accettavano r interpretazione che Averroè da del pensiero d'Aristotele. Era di questo avviso anche Sigieri De ista quaestione, informa Jandun o credunt magni viri in philosophia, Philosophum et maxime Commentatorem veritati catholicae adversari. Che egli alluda ad AQUINO non è possibile, poiché AQUINO scagiona Aristotele da quest'accusa d'opporsi alla verità della fede su quest'argomento. Dove dunque trattarsi d'averroisti. Ora vir magnus in philosophia è titolo che troviamo dato a Sigieri. Pare dunque che Sigieri accetta l' interpretazione averroistica della dottrina aristotelica in proposito. Il che è confermato anche dall'ultima citazione che del brabantino abbiamo trovato nel De primi Moforis infinitate del Nifo. A quanto ci fa sapere il suessano, Sigieri e Baconthorpe petunt primum Motorem esse universi mobilis celestis formam perficientem et non constitutam e che esso è prima illius perfectio, sì da potere affermare che, almeno per accidens, si muove insieme al cielo. Siccome la quistione concerne direttamente l'onnipotenza di Dio e la sua trascendenza, s'era accesa in proposito un'appassionata e interminabile controversia, poiché troppo preme ai teologi aver dalla loro parte Aristotele. Soltanto quando si comprende che la filosofìa aristotelica non è tutta la filosofia, l'ardore della controversia comincia a venir meno Denifle e Chatelain, Chart. univ. Paris. Quaestiones super Averrois sermonem de substantia orbis Sigieri Jandun, oltre che nelle Quaestiones sul De substantia orbis, discute il problema utrum primum Principium sit infiniti vigoris Achillini, da quel buon averroista ch'egli è, ci dà del problema questa soluzione: Primum, mens Philosophi fuit deum esse finiti vigoris. Secundum, ad oppositum est veritas. Provata la prima parte della tesi, riferisce le obiezioni centra Philosophum, alle quali fa seguire la risposta d'Aristotele. Ma nel far questo, che è un procedimento generale seguito in tutti e cinque i Quolibeta, Achillini si mette al riparo da ogni accusa d'eresia con questa tipica dichiarazione, fatta una volta per sempre: Ad haec praemitto quod ubi Philosophum introducam respondentem, non teneo responsionem illam. Dopo ben cinque fitte colonne di serrate schermaglie dialettiche e di citazioni di testi, sì da darci l'impressione che egli la pensi proprio come Aristotele e il suo ottimo commentore, eccolo a dichiararci: Sed quia haec opiiiio in phiribus errat, ut patet consideranti ea in quibus introducitur Philosophus respondens, ideo, ea dimissa, pone secundum dictum principale: Deus est infiniti vigoris in essendo et operando in tempore et actione. Ex quo sequitur infinitam esse intellectuum latitudinem. E le prove di questa tesi? Nessuna, tranne quel patet, che non è affatto una prova. Seguono invece obiezioni anche nelle Quaestiones sulla Metafisica e in quelle sulla Fisica: e tutte e tre le volte con molta ampiezza. Lo stesso problema è ventilato da Scoto, Qiiodl., da Baconthorpe. In I Seni., dist., da Rimini, In I Seni., dist.e più tardi, ma anche con maggior copia, da Nifo, d’Achillini, da Vio, che nella sua subtilissima quaestio de Dei gloriosi infinitate intensiva, terminata a Pavia, credo abbia raggiunto il primato della prolissità è stampata in appendice al commento d’AQUINO della Fisica, Venezia, si da superare lo stesso Elia del Medigo, detto altresì Helias Cretensis, il quale tratta di quest'argomento nella sua interminabile De primo Motore acutissima quaestio in appendice alle Quaestiones di Jandun sulla Fisica, Venezia e nelle Annotationes in dictis Averrois super libros Physicorum Vedasi anche Zimara, Theoremata, e Piccolomini, De caelor. motoribus. Bruno, nel De l'infinito, universo e mondi in Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze, accenna all'importantissimo argomento, pel quale dice Elpino è stato ridutto Aristotele a negar la divina potenza infinita intensivamente. La soluzione che del problema affaccia Filoteo, il quale dall'infinità di Dio deduce r infinità dell'universo, consiste nel cambiarne i termini, si da mostrarlo definitivamente superato. AcHiLLiNi, De intell., ql. contro quest'asserto, alle quali il filosofo bolognese fa del suo meglio per rispondere in una mezza colonna, osservando, alla fine, che rationes philosophorum super dictis ab eis fundantur; ideo non difficile est eas solvere. Ma intanto non le risolve. A questa che è la quaestio principale del Quolibetum. tengon dietro duhia, coi quali si tende a precisar meglio il concetto aristotelico-averroistico del DIVINO e a porre in evidenza taluni postulati della soluzione data al problema principale. Il primo di questi dubbi consiste nel chiedersi utrum tantum DIVINVM DIVINVM intelhgat, cioè se il divino conosce soltanto sé stesso oppure anche le cose inferiori ad esso e segnatamente quelle del mondo sublunare. Anche su questo punto Achillini è averroista: Respondeo per duo dieta. Opinio Aristotelis est, quod sic. Illa opinio non est vera. La prima affermazione è provata con argomenti, la conclusione dei quali è la seguente: Ex his de mente Philosophi habentur. DIVINVM intelligit se et non aliud. Et si dixeris: verum est recipiendo, sed aliter non; dicam quod non potest aliquid intelligere aliud a se, nisi recipiendo; ideo non potens recipere, non potest intelligere aliud. Productio autem vilium non infert passionem in agente; ideo quamvis DIVINVM non intelligat vilia, producere tamen potest. Aliae intelligentiae in actu intelligunt se et perfectius se et nihil vilius eis. Intellectus possibilis Così appunto diceno i teologi: il divino non intende le altre cose diverse da sé, nel senso che la mente divina è attuata d’un qualche altro intelligibile diverso dalla sua stessa essenza, e dinanzi al quale esso è in potenza; il divino conosce le altre cose conoscendo se stesso, e quindi senza niente ricevere. La condanna che Tempier fa di le proposizioni averroistiche, e che è il primo sicuro documento dell'esistenza d'una corrente averroistica a Parigi, colpisce queste proposizioni: Quod divinum non cognoscit singularia e Quod divinum non cognoscit alia a se. DeNiFLE e Chatelain. Tuttavia, leggendo attentamente il commento d'Averroè, Metaph., comm., e la Desfriictio destructionum, disp. dub., nasce il sospetto che il suo pensiero non è stato ben compreso. Si veda in proposito, Baconthorpe, In Sent., dist.; Zimara, Theoremata. intelligit se viliora et nobiliora. Nullus intellectus, nisi forte possibilis, intelligit aliquid extra se. DIVINVM est simpliciter primo notum; sed primum principium complexum, de quo Metaphysicae, commento, est notissimum nobis. Ai argomenti coi quali è provata la tesi averroistica, se ne contrappongono altri; ma, mentre i primi restanoinsoluti, ai secondi è data una soluzione dal punto di vista averroistico. Dopo di che Achillini s'affretta a concludere: Sed propter multa falsa, quae sequuntur ad hanc positionem, eam cum auctoritatibus eius dimittamus. Tenemus igitur quod DIVINVM cognoscit omnia; ex quo sequitur quod non omnis intellectus intelligens aliud a se patitur ab eo. Sequitur secundo, quod non omnis intellectio, qua materialia intelliguntur, est collecta ab intellectu agente ex singularibus. Ex his duobus fundamentis solvuntur rationes philosophorum, quia super oppositis corollariorum fundantur, Il diibium concerne la causalità efficiente del primo Motore. Aristotele dice che la prima intelligenza muove le intelligenze preposte al movimento dei singoli cieli, come bene supremo da esse conosciuto e desiderato, ossia come fine ultimo cui tutte le cose tendono. Il problema che pone il maestro bolognese, utrum prima forma, quae est ultimus finis, sit primus Motor, verte non sull'attrattiva che il divino esercita sugl’esseri in quanto amor che muove il sole e le altre stelle, bensì sul movimento rotatorio della prima sfera mobile. Secondo un'interpretazione del pensiero d'Aristotele e del suo commentatore arabo, il divino muove i cieli soltanto per mezzo d'un motore appropriato, cioè d'un'intelligenza, la quale è mossa dal desiderio d’assomigliare al primo Motore. Secondo un'altra interpretazione, invece, il divino muove il primo cielo mobile immediatamente; e poiché il primo mobile rapisce col suo impeto tutti gl’altri cieli, ne ACHILLINI Metaph.. Jandun, Quaestiones sup. Metaph. Quaest. sup. Phys. ZiMARA, Quaestio de triplici cansalitate intelligentiae in appendice alle Quaestiones di Jandun sulla Metafisica, Venezia; Theoremata viene che il primo Motore esercita su tutto l'universo una vera e propria azione di causa efficiente e non soltanto di causa finale. Sigieri, a quanto sappiamo dall'ultima citazione di Nifo, ritene che il primo Motore è addirittura forma e perfezione del cielo, a tal segno che si muove per accidens insieme ad esso; nel che egli non fa se non ripetere una dottrina d'Averroè, il quale in più luoghi insiste sul concetto che il primo Principio è tale in quanto è fine, forma e motore dell'universo. Achillini risolve il dubbio, dimostrando con argomenti che il divino imprime al mondo un movimento effettivo come primo Motore di esso; né questa volta ha bisogno di distinguere tra l'opinione di Aristotele e la verità, poiché Philosophus in hoc quaesito non recedit a veritate, quanto all'asserto della causalità efficiente; ma osserva che si discosta dal vero in un particolare: sed bene in circumstantia: quia dictum est de mente eius, quod Deus est motor immediate et appropriate movens caelum, et quod nulla alia intelligentia ab ipso movet primum caelum; sed hoc non est verum etc. Ed infatti la tesi che il moto del primo cielo deriva immediatamente dal divino si basa sul concetto ch’il divino è forma del primo cielo. Ora questo concetto è schiettamente averroistico, ed è uno dei presupposti della teoria che dalla finita grandezza del moto celeste deduce il vigore finito del primo Motore. Questo necessario reciproco rapporto tra il divino e il mondo si scorge anche meglio nella discussione del dubbio, utrum DIVINVM libere moveat caelum. Nell’interpretazione averroistica del pensiero d'Aristotele, se il divino è necessario a spiegare l'esistenza del moto, e, diciamo pure, l'esistenza del mondo stesso, è altrettanto vero che, posta l'esistenza del primo Motore e della prima causa efficiente, questa e quello agiscon come natura anzi che come libera volontà creatrice. Sigieri non sembra aver concepito la possibilità d'una vera libertà creatrice, che a lui pare esclusa tanto dall'immutabilità divina quanto dalla necessità delle speci. Posto il divino come AvERR., Metaph., comm., comm.; De subst. Orbis AcHiLLiNi Steenberghen, Les oetivres et la doctrine de Siger de Brabant, Bruxelles; Sig. de Brab. d'après ses oeuvres inédites, igo.] prima causa motrice del mondo, questo ne risulta necessariamente, come la conseguenza dalle premesse d'un sillogismo. Aristotele ben ferma la sua attenzione sugl’eventi che si dicon contingenti e fortuiti; ma anzi che dedurre la contingenza di tutti gl’esseri creati dall'essenziale libertà del pensiero divino, impone allo stesso pensiero divino e all'atto creatore – GRICE GENITOR ENGINEER -- la necessità del suo astratto formalismo logico, e la contingenza e il caso limita al mondo sublunare, spiegando l'una e l'altro per mezzo del concetto delle cause impedibili e dell'indisposizione della materia che spesso è sorda a rispondere all'intenzione dell'arte. Pur trascendente o separato, il primo Motore resta così prima forma e prima perfezione dell'universo, al quale è intimamente unito non come forma constituta per subiectum, bensì come forma constituens subiectum. Per dimostrare la tesi, che secondo Aristotele il divino muove il cielo per sua natura e non liberamente, sì da poter non muoverlo o mutarne la velocità e la direzione, l'averroista bolognase argomenta così: tutto ciò che si muove per un principio essenziale che è in esso, si muove per sua natura; ma questo è il caso del cielo; dunque esso è mosso naturalmente. Se il primo Motore potesse non muovere oppure muovere in modo diverso da quel che fa, il mondo potrebbe esser diverso da quello che è, e anche non essere. Ma tutte queste conseguenze sono impossibili per Aristotele, che dall'immutabilità del primo Motore deduce la necessità e l'eternità dell'universo, come d'un effetto connaturale e inseparabile dalla sua causa. Puro atto senza alcuna potenza, il divino causa dall'eternità Louvain. Tale è il pensiero di Siglari in tutti gli scritti intestati a lui dai codici. Per attribuirgli con qualche fondamento la tesi opposta, bisogna supporre che siano sue le Quaestiones sulla Fisica edite da Delhaye Giorn. Crii.. Ma per farlo manca ogni serio indizio esterno, e le prove interne sono troppo deboli. Si veda il passo di Nifo riportato in Sigieri. Su questa distinzione ricavata da diversi luoghi d’Averroè, dello stesso Nifo il commento al De anima, già riferito in Sigieri, AcHiLLiNi, Quol. dub. Omne quod movetur per principium quod est in eo, movetur per naturam, Physicorum Intelligo in subiecto maioris: per se primo, et non secundum accidens; et tunc patet propositum ex diffinitione naturae, secundo Physicorum. Sed caelum movetur per principium etc, ut vult Commentator Aristotelem declarasse in Physicorum, etc. mondo con ordine e moto necessario. Dal che sequitur nullam esse in rebus libertatis contingentiam, ad quas non concurrit homo; poiché la ragione della contingenza dell'umano arbitrio consiste nel modo di conoscere, essenzialmente discorsivo, che è proprio dell'uomo; di guisa che la mente umana, procedendo per composizione e divisione di concetti, potest aftìrmativam vel negativam partem concludere, et consequenter ad utramque partem possibilis est assensus. Or questo non accade né nelle altre intelligenze superiori all'umana, né, tanto meno, nella prima intelligenza. Necessario a render ragione della realtà dell'universo, dei movimenti celesti e di ogni accadere, il primo Motore d'Aristotele non ha altra realtà, per l'averroista, all'infuori di questa, né altra ragione d’essere che questa: senza il mondo da esso causato e mosso, il primo Motore non sarebbe nulla. Perciò il divino e mondo formano un binomio indissolubile, come amore e cuor gentile nella canzone guinizelliana, come il sole e il suo risplendere: ch'adesso che fo il sole sì tosto lo splendore fo lucente, né fo avanti il sole. Contro questa dottrina del Filosofo, qual'è intesa ed esposta dal Commentatore arabo, Achillini riferisce argomenti, avendo però cura di farci sapere che cosa gli averroisti rispondeno. Dopo di che conclude, secondo il suo costume: His praetermissis, ad veritatem revertamur, et dicamus DIVINVM ad extra mere libere et contingenter agere. Concedanius insuper quod in divino esse et agere sunt idem, et tamen non, si necesse est divinum esse, necesse est divinum agere ad extra. Dicamus tertio quod, licet necessitas sit melior conditio essendi, non tamen est melior conditio operandi ad extra. Ncque immutabilitas divina toUit novitatem in effectu, quia ab aeterno determinavit divinum agere nunc. Ideo contra philosophos dicamus, quod ab antiqua vohmtate potest aliquid novi poni in esse, sine mutatione operantis, aut remotione impedimenti etc. Addo insuper, licet necesse sit divinum esse productivum ad extra, non tamen necesse est ipsum producere ad extra. Concedo etiam nullam rem quae est divinum esse contingentem; dimitto naturam assumptam, et tamen de Dee formabiles sunt propositiones per accidens et contingentes, propter connotationem extrinseci. Neque propter hoc quod Deus multa producibilia potest producere, quorum nullum producet, concedendum est potentiam divinam frustrari, quia reduci potest et in aliquo illius generis reducta est in actum. Con queste proteste d’attaccamento all'insegnamento teologico, ha termine il qiiolibetum che tratta dell'intelletto del primo Motore, la cui latitudo è dunque finita com'è finita la grandezza del mondo e del movimento. L'opposizione fra la tesi averroistica e quella teologica non è che un aspetto particolare fra la concezione aristotelica del mondo e l'intuizione cristiana. Per Aristotele, come l'espone Averroè, Dio è principio teleologico e causa prima efficiente della natura; la natura alla sua volta è effetto necessario ed eterno dell'attualità divina. Dio è principio in quanto dà origine a un principiato; esso è l'atto che precede logicamente ogni potenza. L'ordine cosmico riflette la necessità e l'immutabilità della sua prima causa. Dio insomma è complemento necessario della natura ed è esso stesso natura: è la stessa natura intellettualizzata, cioè considerata platonicamente sub specie aeternitatis. Neil'intuizione cristiana del mondo, invece. Dio è spirito, cioè libera volontà creatrice, infinita potenza, infinita sapienza, infinito amore. Il mondo e' è, ma potrebbe non esserci, o esser diverso; e c'è, per un atto di liberalità divina. La necessità delle leggi di natura non è assoluta, ma relativa al decreto della volontà divina che liberamente le ha stabilite e può mutarne il corso. Così la contingenza è alla radice stessa dell'ordine cosmico; il miracolo è affermazione e prova della contingenza della natura e delle leggi fisiche. Con siffatta dottrina il cristianesimo libera l'uomo dalla tirannia del fato cui dovea piegarsi la volontà dello stesso Giove. Al posto degli inesorabili decreti dell' Ananche si sostituiva la libera e onnipotente volontà di Dio, che ha dato all'uomo il potere di cooperare ai suoi eterni disegni. Libero e artefice del proprio destino, l'uomo si sente così simile a Dio. Dopo quello che Agostino e lo Pseudo Dionigi e Pier Damiani e il Cardinal Cusano avevano speculato intorno alla natura divina, mentre nel rinnovato platonismo del Rinascimento covano i germi che sarebbero esplosi nei I dialoghi De la causa e Dell’infinito, la dottrina averroistica su Dio, anzi che un progresso, dove sembrare la ricaduta in una delle più anguste forme di naturalismo già da molto tempo sorpassate. Ad un superamento definitivo occorre, per altro, eliminare quella ristretta visione cosmologica alla quale il concetto di Dio era legato, e che è merito delle nuove scoperte astronomiche aver per sempre dissipato. Il qiiolihetum tratta delle intelligenze separate, intermedie fra 1'Intelligenza divina e l'intelletto possibile, proprio della specie umana. Queste intelhgenze son sostanze separate preposte ciascuna al moto d'uno dei cieli inferiori alla prima sfera, che è mossa immediatamente dal primo Motore. Achillini comincia coll'affermare che, secondo la dottrina d'Aristotele, siffatte intelligenze non sono state prodotte, e per conseguenza sono eterne; ma che, secondo la verità della fede, è tutto il contrario. La prima parte della tesi è dimostrata con argomenti; con altrettanti la seconda; colla differenza, che gli argomenti in favore della prima parte non hanno risposta, mentre degli argomenti in contrario abbiamo la soluzione. Per quel che concerne la dottrina d'Aristotele, il lettore poco esercitato potrebbe rilevare una divergenza tra l'averroista bolognese e Sigieri su questo punto: che, mentre quello dice le intelligenze celesti non prodotte, questo al contrario le dice tutte causate immediatamente o mediatamente da Dio che dà l'essere a tutte le cose. In realtà, la divergenza è soltanto nel modo d'esprimersi e non nel pensiero. Perché le intelligenze celesti non si posson dire prodotte? Perché non sono state tratte dalla potenza all'atto, quasi che ci fosse una loro potenza ad essere, la quale precede, anche soltanto logicamente, il loro atto di essere. Esse sono natural Sigieri di Brab., Impossibilia, I ed. Mandonnet, Sig. de Brab. et l'averr. latin Partie, Louvain; De necess. et conting. caus. Mandonnet; Aletaph. ediz. a cura di Cornelio A. Graiff, Sig. de Brab. Questions sur la Metaphysiqiie. Texte inédit. Louvain, Édit. de 1'Institut Super, de Philosophie SteenBERGHEN, S. d. B. d'après ses oeuvres inédites.] mente e necessariamente, per il fatto stesso che esiste la prima Causa che le fa essere, a quel modo che l'esserci il sole fa sì che ci sia lo splendore. Esse son certamente causate dalla prima Intelligenza, ma non prodotte alla maniera delle cose che possono essere e non essere. L'atto non s'aggiunge in esse alla potenza, né l'essere sopravviene all'essenza: sono puri atti per loro natura, ed atti eterni, come eterno e necessario è l'Atto primo che le causa. Strettamente connesso con questo problema è il duhium utrum ponenda sit creatio. Anche a questo quesito il maestro bolognese risponde, essere opinione d'Aristotele che non si dà creazione; ma soggiunge che la tesi dello stagirita non è vera. Secondo la dottrina aristotelica, la causa agente ha sempre bisogno d'una materia su cui esercitare la sua azione, e dalla cui potenza trae quello che essa produce. Ora la creazione implica una produzione dal nulla, senza passaggio dalla potenza all'atto. Allo stesso modo Sigieri, parlando dell'anima intellettiva e il discorso vale per tutte le intelligenze e altresì per i corpi celesti, afferma che, sebbene essa possa dirsi fatta, nel senso che è causata e dipende, alpari delle intelligenze celesti, dal primo principio d'ogni essere, tuttavia non può dirsi che è stata fatta dal niente, ma anzi che essa de se est semper ens, ab alio tamen, poiché in eius ratione seu defìnitione est semper esse, cum careat materia. Se non che, pur essendo de se, seu de sui ratione, semper ens, non ha questo suo essere ex se effective, sed ab alio. Per questa ragione, essa è certamente causata ed essenzialmente dipendente da Dio, sed non est verum eam esse factam ex nihilo. AcHiLLiNi, Quol.: Orane agens extrahit id quod est in potentia ad actum: sed in intelligentiis non est potentia extrahibilis ad actum (intelligo de potentia distante ab actu, et de actu informativo eorum aut potentiali, ex quo et alio fiat una intelligentia: ergo in eis non est agens. Ratio tota est Commentatoris, Metaph., comm. Ex hoc sequitur quod intelligentiae non componuntur ex esse et essentia, tamquam ex doubus principiis intrinsece componentibus intelligentiam. AcHiLLiNi, Quol, dub. Sigieri, De anima iniellect., ed. Mandonnet. AcHiLLiNi Potentiale non potest esse sine actu. Est autem deus actus vitalis intelligentiarum et finis, et caeli est forma et finis, corruptibilibus autem dat esse et conservat movendo. Primo enim Metheororum: Est autem ex necessitate continuus iste superioribus I Ancor più evidente è l'influenza della dottrina di Sigieri sulla soluzione del secondo dubbio che l'Achillini si pone: Utrum intelligentiae inferiores intelHgant superiorem. L'averroista italiano formula in proposito tre tesi, il significato delle quali ci è chiarito da un luogo dei CoUectanea del Nilo sul De anima 'i'^, riferito da me altra volta. Colla prima tesi egli si oppone alla teoria di coloro che, al dire del Nifo, il quale sicuramente riassume da Sigieri citato un po'più oltre, sostenevano che Deus multiplicat lumen quod est quoddam accidens spirituale existens in mentibus intelligentiarum, per quod elevantur intellectus illi ad intelligere primum; la qual teoria Nifo nel commento al De anime beatitudine attribuisce ad AQUINO e la combatte appoggiandosi a Sigieri. La prima tesi d’Achillini, dunque, suona come segue: Primum: intelligentia inferior non intelligit superiorem per aUquod accidens, ut species, actus, vel habitus etc. Probatur primo, quia in intelligentiis non est aliquod accidens. Patet quolibeto Secando, omne compositum est novum; sed in inteUigentiis non est novitas; ergo neque compositio. Maior est Commentatoris, Metapliysicae, comm., sive sit compositura substantiale, sive accidentale, sive in intelHgentiis, sive non; ea enim probat ibi Commentator, quod intellectio non est accidens in deo; coehim autem, quia subiectum est accidenti, novitatem habet, sciUcet motum, Pliysicoriim, comm. si sic, cum secunda intelHgentia intelHgat se per essentiam, De anima, comm., perfectior esset intellectio secundae de se, quam intellectio secundae de prima, et sic secunda intelligentia esset felix cognoscendo se, et non primam; vel intelligentia duas intellectiones habens felicitaretur intellectione imperfectiori. lationibus, ut omnis eius virtus gubernetur inde. Ideo, primo remoto, omnia destruuntur; ideo Metaphysicae, textu et commento; Ex tali igitur principio caelum et natura dependet. Et primo Caeli, commento: A primo quidem ente datum est esse et vivere; bis quidem clarius, bis vero obscurius. Et in De substantia orbis: Ex quo verificatur, quod dator continuationis motus est dator esse omnibus aliis entibus. Così anche nelle Qiiestiones sulla Metaphysica, ed. CTraiff. Invece l'autore delle Quaestiones super Physicorum, edite da Delhaye come opera di Sigieri. sostiene senza alcuna esitazione la tesi quod necessarium est aliquid fieri ex nihilo, sebbene ritenga che alcuni esseri non sian prodotti da Dio immediatamente. È un altro punto sul quale il dissenso dagli scritti di sicura appartenenza a Sigieri è troppo evidente. Per attribuire queste Quaestiones al maestro brabantino occorrerebbe una qualche testimonianza sicura che non s'ha, fino ad oggi, Sigieri nel pens., Sigieri si sic, tunc scientia earuin non esset scitum; consequens est centra determinata quolibeto De anima, comm. Intellectus in formis abstractis est idem cum intellecto; et incidentaliter Physicorum, comm.: In abstractis intellectus et intellectum idem sunt. quia tunc intellectio, qua secunda intelligentia intelligeret primam, et intellectio qua secunda intelligentia intelligeret se, essent alterius generis, quia una esset substantia et alia accidens. Risulta da questa affermazione che l'atto col quale le intelligenze inferiori conoscono la prima Intelligenza, cioè Dio, è un atto sostanziale al pari di quello col quale conoscon se stesse. Anche in questo Achillini è d'accordo con Sigieri, per il quale l'intendere è perfezione essenziale dell'intelletto possibile, sì che ponere substantiam esse in actu in genere intellectualis naturae et non intelligentem in actu, est ponere contraria et impossibilia vel incompossibilia. La tesi d’Achillini consiste nel negare che le intelligenze inferiori conoscano la prima Intelligenza come loro causa, in quanto avvertono che la loro natura ha essere da quella. Così appunto pensano taluni filosofi, come riferisce il Nifo: Dixerunt quod intelligentia interior intelligit superiorem per essentiam inferioris; essentia enim inferioris est causata ab intellectu superiori, et omne causatum ducit in cognitionem cause; ergo intellectus interior per essentiam sui intelligit superiorem. Oportet enim imaginari essentiam inferiorem esse obiectum adequatum sui intellectus; et sic tanquam obiectum adequatum intelligitur solum a semet. Et quoniam illa essentia est effectus Achillini, Quol. Sigieri, Quaestiones naturales ed. Stegmùller, Nenaitfgcf. Quaestionen des Sig. v. Br., in Rech. de Théol. ancienne et médiév.; De anima intell. ed. Mandonnet Giorn. Crii. d. FU. Ital.. Un'attività accidentale dell' intelletto è invece l'intendere pel'anonimo autore delle Questiones Arist. de anima ed. Steenberghen, Sig. d. Br. d'après ses oeurres inédites; ma quanto più il chiaro editore s'affanna a dimostrare che l'autore di esse è Sigieri, tanto più evidente appare che non lo è. Si noti poi che nelle Quaestiones naturales edite da Stegmùller, il maestro brabantino insegna che l'intelletto possibile ha il suo atto primo ed essenziale pell'unione all'intelletto agente, e che questo e quello son due sostanze separate; la qual dottrina ha non poca importanza. Achillini superioris, etiam continet saltem instrumentaliter essentiam superioris; et sic intellectus ille per essentiam illius secundario intelligit superiorem. Nifo stesso riferisce quattro dei molti argomenti che Sigieri oppone a siffatta teoria. Gli stessi argomenti quasi alla lettera oppone alla stessa teoria anche Achillini: Secundum dictum: intelligentia inferior non intelligit superiorem per essentiam inferioris. Probatur primo, quia tunc scientia non esset scitum. Patet consequentia, quia tunc secunda esset scientia ipsi secundae de prima etc. nulla res distincta a perfectiori est sufficienter repraesentativa perfectioris; sed secunda non est ita perfecta sicut prima; ergo etc. Tertio, si sic, tunc non dependeret intelligentia inferior in suo intelligere a prima; et sic secunda esset actus purus, quia non esset potentialis respectu alicuius perfectivi eius formaliter. quia tunc intelligentia inferior beatiiìcaretur in se ipsa tanquam in obiecto repraesentativo omnium intelligibilium ab ea, aut felicitaretur in obiecto secundarie cognito. quia tunc aliqua cognitio dei dependeret; quia omnis intelligentia inferior dependet; et omnis intelligentia inferior esset cognitio dei per te quia tunc nulla esset compositio in intelligentiis, nisi forte ex perfectione et defectu eius; de qua non loquor nunc. quia non salvaretur efììcientia dei super motu proveniente ab inferioribus intelligentiis. Anche per quel che concerne la tesi, Achillini ripete alla lettera quello che, secondo Nifo, si legge in quodam tractatu intelligentiarum et beatitudinis di Sigieri: intelligentia inferior intelligit superiorem per essentiam superioris. Probatur primo a sufficienti divisione. quia in abstractis intellectus et intellectum sunt idem. quia intelligentiae abstractae perficiuntur per se invicem; ergo una est alterius forma, et non nisi quia una est alterius scientia vel amor. Antecedens patet, Metaph., commento: Perfectio uniuscuiusque moventium unumquemque orbium perficitur per primum motorem omnium; sed non effective, ncque materialiter, sed finali perfectione coincidente cum forma necesse est in omni intelligentia intelligente aliud esse aliquid simile formae et aliquid simile materica; et si non, non esset multitudo in formis abstractis, De anima, commento; quia, posita multitudine, una est potentialis alteri. Est autem secunda simile materiae, ideo recipiens, et prima si Nifo, De anima, Venezia, coUect. AcHiLLiNi Nifo Sigieri. mile formae, ideo recepta. in intelligentiis est compositio, et non est alia quani ex intelligente et intellecto, desiderante et desiderato; ergo etc. Maior patet, Metaph., commento Quod est minoris compositionis est nobilius in ilio genere, donec deveniatur ad simplex. Patet minor, Metaph., commento: Tantum illic est causa et causatum, secundum quod intellectum est causa intelligentis. Sed intellectum non est causa efEectiva intelligentis, ncque materialis, ncque finalis tantum, sed formalis et finalis simul, vel formalis tantum. Ideo subdit Commentator, non inconvenire unum esse causam plurium, secundum quod a pluribus intelligitur, perfectius tamen a perfectioribus, et imperfectius ab imperfectioribus. Et hoc patet Commentatore, De anima, commento: Essentia primae formae est quidditas eius; aliae autem formae diversantur in quidditate et essentia, quoquo modo. Loquitur Commentator de essentia, ut fecerat De anima, comm.: Pomum est indivisibile subiecto, et divisibile secundum essentiam diversam in eo, secundum quod habet colorem, odorem et saporem, licet in multis sit differentia etc. Ex hoc patet intelligentiarum compositio, quae cum aliis est, et earum simplicitas, quia non compositio ex aliis; ideo, De anima, comin.: Res abstractae sunt simplices, et non compositae. Ex his habetur quod, cum superiores intelligentiae sint in inferioribus, adhuc potest intelligentia interior intelligere superiorem, non intelligendo tamen aliquid extra se. Patet etiam quod, cum intelligentia superior sit intellectio inferiori, quod potest superior principiare motum productum ab inferiori, eo modo quo intellectio est principium operationis ab intelligentia productae. Achillini si domanda se una tale teoria non contradica alla verità teologica; e risponde di no, anzi dichiara di trovarla in tutto conforme a quello che la fede insegna in proposito E veramente anche AQUINO è del parere che, nell'atto della visione beatifica,l'essenza divina non è soltanto oggetto conosciuto, id quod intelligitur, ma altresì forma intelligibile per mezzo della quale la stessa essenza divina è conosciuta, forma qua intelligitur. Questa forma attua bensì l'intelletto umano reso capace per grazia, ma l'attua solo idealmente, in intelligendo, non sostanzialmente, poiché l'intelletto umano ha già un suo atto sostanziale anteriore all'unione beatifica coll'essenza divina. Non così per Achillini e per Sigieri AcHiLLiNi NiFO Sigieri ACHILLINI AQUINO, S. theol., Suppl. Questi non fanno alcuna distinzione fra l'ordine naturale e lo stato soprannaturale concesso per grazia, fra la conoscenza che compete alle intelligenze separate per loro natura e la visione beatifica di cui parlano i teologi. Inoltre, l'intendere delle intelligenze create, tanto nell'ordine naturale quanto nell'ordine soprannaturale, è, per Aquino, una operazione accidentale che s'aggiunge alla loro natura sostanziale già costituita in atto, e il loro stesso intelletto è una potenza altra dalla loro essenza. Per Achillini e per Sigieri, invece, l'essenza stessa di qualsiasi intelletto, sì di quello umano come di quelli celesti consiste in un atto sostanziale d'intendere, dovuto alla loro vmione coli'intelletto agente che, per essi, è Dio. Fra l'intelletto umano e le intelligenze celesti v'è solo questa differenza, che r intelletto agente s'unisce al primo per gradi, e completamente solo al termine del suo sviluppo; alle seconde invece è eternamente unito come forma che attua tutta insieme la loro capacità. GÌ'intelletti inferiori a Dio hanno essere soltanto in quanto intendono la prima Intelligenza, che sola è da sé e per sé. Dio così è il sole del mondo intelhgibile; le altre intelligenze ne sono lo splendore. In questo eterno raggiare dalla prima Luce intelligibile e in questo eterno rifletterla per diversi gradi, consiste l'essere delle menti inferiori alla prima Mente. Per questo nell'intelletto non v'è MEMORIA GRICE PERSONAL IDENTITY, che è ritorno del passato. Siffatto ritorno del passato non è concepibile là dove è solo un eterno presente senza mutamento. I teologi medievali, compreso AQUINO, potevano attribuire agl’ANGELI la memoria, in quanto attribuivano ad essi un conoscere puramente naturale e accidentale distinto dal conoscere in Verbo; non gl’averroisti, pei quali le intelligenze conoscono solo in quanto sono informate dall'essenza divina. Ed è sicuramente sotto r influenza di questa dottrina averroistica ch’ALIGHIERI rimprovera ai teologi d’avere attribuito la memoria agl’angel; che è un'altra delle tante tracce dell'influsso dell'avveroismo sul pensiero del nostro poeta. AQUINO, S. rheol. Si veda in proposito, N., Nel mondo di ALIGHIERI, Roma. Il Quolihetum concernente le intelligenze celesti si chiude con un duhiuni, nel quale l'averroista bolognese si chiede se le intelligenze intermedie distino dalla prima Intelligenza con certo ordine, ossia seguendo una qualche proporzione: utrum ordine quodam recedant intelligentiae mediae a prima. Il problema è risolto da lui coll'affermazione che così è per Aristotele, non però secondo verità. Anche questo è un problema tipicamente averroistico, e trae origine da quel passo del commento d'Averroè alla Metafisica, che dice: Quoniam vero ordinatio istorum moventiiuTi a primo motore oportet ut sii secundum ordinem stellarum et orbium in loco, manifestum est etiam; prioritas enim in loco eorum et in magnitudine facit eos priores in nobilitate. Qual fosse il pensiero di Sigieri su questo argomento non sappiamo. Ma conosciamo quello d'un averroista a lui abbastanza vicino e che, come il brabantino, insegna a Parigi nella scuola dell’arti; voglio dire Jandun. Questi discute il problema utrum motores corporum celestium sint ordinati secundum ordinem corporum celestium in magnitudine et in loco nelle Qiiaestiones sulla Metafisica, e lo risolve in senso affermativo. La soluzione che del problema ci dà il bolognese, è sostanzialmente identica a quella dell'averroista di Jandun: posto che v'è tra le intelligenze celesti un ordine gerarchico fondato sul differente grado di perfezione, egli stabilisce una corrispondenza fra questo e l'ordine dei cieli, in quanto essi si differenziano per grandezza e velocità: Primus est ordo secundum gradum perfectionis essentialis earum intelligentiarum sic quod, quanto una intelligentia est perfectior alia, tanto est primo propinquior, non tainen secundum proportionem geometricam; patet quolibeto. Hic autem ordo, qui rationes formales intelligentiarum consequitur, causa est aliorum ordinum qui sequuntur. Secundus est ordo caelorum secundum magnitudinem eorum, secundum quam caelum maius continet caelum minus. Perfectiore igitur intelligentia caelum maius regitur et gubernatur. Oportet enim informabile corre AcHiLLiNi, Quol. AvERR., Metaph., comm. Ianduno, Quaestìofies in Metaph. I spendere formae sic, quod altieri caelo altior intelligentia api)ropriatur. Tertius est ordo velocitatis in motu. Caelum enim maius velociori motu movetur, distinguendo inter movere et circuire. Huius sententiae fundamentum ponit Commentator, secando Caeli, commento: super semper eorum intelligentiarum intellectus est fortior et desiderium est fortius; ideo ab eis motus est velocior. Se il cielo è il soggetto informabile e l'intelligenza è la sua forma, e se le intelligenze non hanno altra funzione che quella di motori dei diversi cieli, ne segue che dal numero dei cieli e dei moti celesti si debba dedurre, come insegnato Aristotele, il numero delle intelligenze. Ora cieli in senso vero e proprio possono dirsi soltanto quelli in cui brillano una o più stelle. Perciò otto e soltanto otto sono le intelligenze motrici. La più alta di esse è Dio, che muove immediatamente il cielo delle stelle fisse, quod secum rapit alia corpora caelestian. Le altre sette muovono ciascuna uno dei cieli planetari, nell'ordine stabilito dagl’astronomi. Achillini, come respinge con Averroè la teoria degl’eccentrici ed epicicH, così sembra rifiutare il nono cielo, comunemente ammesso sull'autorità di Tolomeo: Or bis stellatus est finis corporum quae sunt intra, quoniam extra ipsum nihil est; esso è il primo e più perfetto di tutti gl’altri cieli; ideo caelum stellatum deo informatur. Se non che i moti planetari non sono, per Aristotele, m^oti semplici; sibbene la risultante di più movimenti che richiedono più sfere. Così Aristotele, a render ragione del moto di ogni pianeta, aveva dovuto, sull'esempio d’Eudosso, scindere ogni cielo planetario in un gruppo di più sfere, ciascuna delle quali aveva un diverso movimento. Dalla composizione dei loro moti risulta il moto apparente del pianeta. Una sola intelligenza, secondo l'avviso d’Achillini, presiede al moto Achillini, Quol. Il passo d'Averroè nel luogo citato suona cosi: Quod igitur magis propinquum fuerit primo orbi, habebit maius desiderium, quoniam propinquitas in loco illic est similis propinquitati essentiarum ad invicem, quae est propinquitas in scientia et in inteUectu rationali; quanto enim. magis intellectus primi moti erit fortior, tanto magis desiderium erit perfectius; et quanto magis desiderium erit perfectius, tanto motus eius erit velocior. Metaph. Achillini Achillini. di Ogni pianeta; ma ognuna delle sfere che formano quel gruppo planetario è mossa da una sua particolare anima che è causa efficiente di moto, mentre l'intelligenza che presiede al gruppo è soltanto causa finale a cui le anime celesti obbediscono. Si hanno così otto intelligenze: la prima è Dio, motore del cielo stellato e quindi di tutto l'universo: ad essa obbediscono le sette intelligenze planetarie, più o meno nobili secondoche sono più o meno vicine al primo Motore. Ciascuna delle sette intelligenze planetarie presiede a un gruppo d'anime celesti, quanti sono i moti dei quali il moto di ogni pianeta è la risultante. Tutto questo, pensa il filosofo bolognese, si rica da Aristotele e dal suo commentatore arabo: ma secondo la verità della fede, fra la prima Intelligenza, che è infinita, e le intelligenze inferiori, non può stabilirsi alcuna proporzione, poiché queste, per quanto più o meno perfette, sono tutte ugualmente distanti dall'infinità della Prima. Ciò non di meno, anche secondo la fede, esiste fra le intelligenze angeliche un ordine basato sulla loro diversa perfezione. Con questa osservazione, mentre sta per mettere il piede sulla soglia della teologia, in ianuis theologiae, Achillini pone fine al quolibeto. Ma mentre il filosofo averroista sente il dovere d’arrestarsi sul limitare della teologia, il teologo al contrario non sente ritegno di portare l'abito del ragionamento filosofico sul terreno della verità rivelata e di contaminare, come spesso avveniva, i dogmi della fede colle lucubrazioni della filosofia. Tale è il caso, fra i molti che si verificarono della speculazione teologica intorno agl’angeli. L'angelologia ebraico-cristiana era solidamente costituita nei suoi capisaldi teorici, come ne'suoi elementi rappresentativi e fantastici, assai prima del suo incontro colla filosofia aristotelica. Ma poi che, per opera dei filosofi maomettani ed ebrei l'aristotelismo prende contatto colla rivelazione, e a poco a poco alla primitiva e rozza cosmologia biblica si soprappose quella dotta dei greci anche l'angelologia subì un'uguale contaminazione. Omnes gentes quae concedunt Deum esse, ACHILLINI il molto interessante e istruttivo studio di Ricciotti, La cosmologia della Bibbia e la sua trasmissione fino a Dante, Brescia, Morcelliana conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spirituum qui vulgariter dicuntur Angeli, osserva Averroè; e come lui pensano Avicenna, Isacco Israeli e Maimonide. Il problema da risolvere, per i teologi cristiani, era quello di trovare nella gerarchia angelica, fissata dallo pseudo Dionigi Areopagita o da S. Gregorio Magno, il posto preciso ove collocare le intelligenze motrici d'Aristotele e dei suoi commentatori. Così, mentre AQUINO assegna la funzione di intelligenze motrici ad alcuni angeli dell'ordine delle Virtù, il domenicano Maestro Teodorico di Vriberg fa delle intelligenze di cui parlano i filosofi, un ordine a parte che precede l'ordine costituito dalle anime dei cieli e quello degli angeli. Per Dante, le intelligenze motrici dei cieli sono quelle stesse lequali la volgare gente chiamano angeli; ma non tutti gl’angeli, sibbene quelli che, in ciascuna gerarchia ed ordine, sono stati deputati alla vita attiva, cioè al governo del mondo, anzi che alla pura vita contemplativa. E secondo la nobiltà dei diversi cieli essi appartengono a gerarchie e ordini diversi; sì che il poeta, al pari degl’averroisti, può stabilire un rapporto tra la perfezione dei cieli e quella degli ordini angelici disposti in cerchi concentrici intorno a Dio: Li cerchi corporai sono ampi ed arti secondo il più e'1 men della virtute che si distende per tutte lor parti. Maggior bontà, vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape, s'elli ha le parti igualmente compiute. Dunque costui che tutto quanto rape l'altro universo seco, corrisponde al cerchio che più ama e che più sape. Per che, se tu alla virtù circonde la tua misura, non alla parvenza, delle sustanze che t'appaion tonde, tu vederai mirabil conseguenza di maggio a più e di minore a meno in ciascun cielo, a sua intelligenza. De caelo, comm. Baeum ker, Witelo, Beitr. z. Gesch. d. Philosophie d. Mittelalters Krebs, Meister Dietrich, in Beitr. z. Gesch. d. Philos. d. Miti., Dante, Convivio Par.] Così non ragiona certamente AQUINO; così ragionano invece Averroè e gl’averroisti, pei quali le intelligenze motrici son forma delle rispettive sfere, come forma del cielo stellato è Dio stesso. Il quolibeto tratta dell'intelletto possibile, che occupa r’inlìmo posto tra gì'intelletti e costituisce la tertia et ultima pars latitudinis intellectuum. A proposito di esso Achillini stabilisce questa tesi: Intellectus possibilis est intensissimum materialium et remississimum abstractorum, ossia è la più intensa delle forme unite alla materia e la meno attiva delle forme separate. Poiché, come vedremo, l'intelletto umano, per lui, è una sostanza separata, unica per tutta la specie umana, e, nello stesso tempo, forma sostanziale degl'individui ai quali è unito per sua natura. Intorno a questa tesi, son discussi dubia, il primo dei quali concerne la teoria d'Alessandro d'Afrodisia, esposta e combattuta da Averroè, secondo la quale l'intelletto possibile sarebbe una virtù organica tratta dalla potenza della materia. L'averroista bolognese confuta questa dottrina con argomenti tolti dagli scritti del commentatore arabo. Ma se l’intelletto possibile non è una virtus materialis, al modo delle forme che hanno essere solo pella materia a cui sono unite e dalla quale sono individuate, s’esso ha una sua propria realtà indipendente dalla materia, ne consegue che in se stesso sia unico per tutti gli uomini. Questa è appunto la tesi che Achillini sostiene d'accordo con Averroè, discutendo il dubbio utrum unum intellectum possibilem habeat omnis homo. Fra gli argomenti a sostegno della tesi averroistica vi sono questi, desunti dalla natura della conoscenza intellettuale: Si sic cioè, si intellectus possibilis esset multiplicatus ad numerum hominum, contingeret ut res intellecta apud te et apud me sit unum in specie et duo in individuo; ratio patet supra. Si sic, procederetur in infinitum in conceptibus; quia AcHiLLiNi De anima, comm., digress. AQUINO, Trattato sull'unità dell'intelletto contro gl’averroisti, Firenze, Sansoni AcHiLLiNi conceptus essent numero diversi, et ab omni per se intelligibili numeraliter multiplicato abstrahibilis est conceptus; ideo ab illis conceptibus essent alii conceptus abstrahibiles; patet supra. Unus est conceptus essentialis omnium individuorum eiusdem speciei; ergo unus est intellectus possibilis omnium hominum. Questi argomenti non sono in sostanza che uno solo, cioè quello di cui già fanno uso gl’averroisti, coi quali polemizza AQUINO nel De unitate intellectus, e a capo dei quali era Sigieri: Adhuc autem ad munimentum sui erroris aliam rationem inducunt. Quaerunt enim utriim intellectum in me et in te sit unum penitus, aut duo in numero et unum in specie. Si unum intellectum, tunc erit unus intellectus. Si duo in numero et unum in specie, sequitur quod intellecta habebunt rem intellectam: quaecumque enim sunt duo in numero et unum in specie, sunt unum intellectum, quia est una quidditas per quam intelligitur; et sic procedetur in infinitum, quod est impossibile. Ergo impossibile est quod sint duo intellecta in numero in me et in te; est ergo unum tantum, et unus intellectus numero tantum in omnibus. AQUINO, Traci, de un. intell. cantra averr.,ed. Keeler, Roma; il commento di N. alla traduzione di questo opuscolo d’AQUINO, Firenze, Sansoni. L'argomento che deriva d’Averroè De anima, comm., digress., solae quaestionis, è ampliato da COLONNA (vedasi) nel suo trattato De plur. inteìlectus possibilis, Venezia gira, ed è la sesta delle ragioni colle quali Averroè positionem suam roborat et vult ostendere quod intellectus, qui dicitur possibilis, est unus numero, in questo modo: Si potest estendi quod una et eadem species intelligibilis informat omnes intellectus, tunc sequitur quod sit unus intellectus in omnibus numero. Unde licet non sequeretur quod eadem res videretur ab oculo omnium hominum, si unus esset oculus omnium, bene tamen valeret quod, si una species informaret oculum cuiuslibet hominis, quod unus esset oculus cuiuslibet hominis. Ergo a simili: si igitur una species informat intellectum omnis hominis, omnes homines habent unum intellectum. Quod autem una species informet intellectum omnis hominis, patet; nam possibile est quod plures homines intelligant lapidem. Tunc ergo quero: aut est per imam speciem lapidis, aut per aliam et aliam. Si per unam, habeo intentum; si per aham et aliam, tunc ille due species oportet quod differant numero, et communicent in forma, cum ducant in cognitionem unius naturae. Sed quotiescunque aliqua dicunt differentiam in numero seu in specie, tunc nullum eorum habet intellectum in actu, et habet tantum intellectum comm.unem; ideo nulla illarum specierum est in intellectu in actu, sed habebunt intellectum communem. Et tunc quero de ilio intellectu comuni, cum possit intelligi, utrum intelligatur per eandem speciem vel per aliam; sed non est abire in infinitum; standum est igitur in primis, quod una species potest informare intellectum plurium hominum et pari ra[Nel corso della discussione delle obiezioni contro la tesi dell'unità, Achillini inserisce addirittura un brano di Sigieri, che noi conosciamo attraverso una citazione del Nifo e che questi dice preso dal trattato De intellectn, misso AQUINO in responsione ad illum AQUINO. Giova riportarlo, per un confronto con quanto scrive il suessano: Ad, haec supponamus quod iste terminus homo SIGNIFICAT compositum ex corpore et intellectu, et quod homo est per se unum, directe reponibile in praedicatione substantiae, sub ANIMALI, intrinsece DENOMINATUM intellectione etc. Secundo, non potest intellectus informare materiam non informante cogitativa quia non stat materia sine forma constituta in esse per eam; et non potest intellectus informare sine sua proxima dispositione et ultima, quae est cogitativa. Et sic patet cogitativam ordinari in intellectivam, quamvis cogitativa non sit forma generica. Ex quo patet quare operatio cogitativae et intellectus possibilis se comitantur, ut tangit Commentator, De anima, comm. Ncque potest cogitativa informare, non informante intellectu, quia, dato informabili ultimate disposito et informativo, ponitur informatio. Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum ad recipiendum intellectum; et sic potest una forma substantialis esse dispositio ad aliain, dummodo illa forma praeparans non sit materiae ratio recipiendi. Hucusque nihil mali dictum est. Tertio, praemittendum apud Averroim quod intelligentiae sunt haec et individuae individuatione non repugnante esse universali, quia esse earum in anima et extra animam est idem, De anima, comm. et Metaphysicae, commento: In abstractis non differt quidditas ab eo cuius est. Est autem intellectus possibilis de genere intelligentiarum, ideo non repugnat intellectum dare esse hoc, quamvis etiam sit universalis. Ideo concedo Sortem habere suum esse hoc ab intellectu. Sed a materia, divisa informabili cogitativa. tione omnium; igitur omnes homines habent unum intellectum numero. Appare evidente da questo testo di COLONNA e da quello d’AQUINO, come si sia ingannato Fiorentino, di solito attento e accurato, quando ha creduto di ravvisare nel argomento d'Achillini, qui sopra riportato, due mutazioni sostanziali dell'averroismo {Pomponazzi. Studi storici sulla scuola bolognese e padovana Firenze. Il conceptus essentialis omnium individuorum eiusdem speciei è l' intellectum, cioè il votjtÓv aristotelico, l'universale che è certamente unico per tutti gì'individui d'una stessa specie. Dall'unità dell'intellectum Averroè e, con lui, Achillini deducono l'unità dell'intellectus possibilis. Nifo, De intellectu Sigieri Questa frase che nel riassunto del Nifo manca, è evidentemente un'osservazione dell'Achihini, e mostra che questi ha un testo dinanzi a sé. I 20/ informante mediante dimensionibus, oritur possibilitas multiplicationis individuorum sub eadem specie; quae omnia, secundum Commentatorem, propter esse universale intellectus, informari possunt ilio et ab ilio sumere suum esse hoc et unum, et verius unum quam bruta a sensu, quia mediantibus dimensionibus unitur sensus materiae, sed non intellectus. Parrebbe dal confronto di questo brano con quanto ci è fatto sapere dal Nifo, che l'Achillini abbia fatto sua una pagina dello scritto di Sigieri in risposta al De unitale intellectus d’AQUINO. Come vedremo più oltre, non è questo l'unico caso da rilevare. Dopo aver sostenuta con sedici argomentazioni la tesi dell'unità dell'intelletto possibile, attribuita ad Aristotele, ed aver risolto le obiezioni contro di essa, il bolognese conclude affermando che la tesi d'Aristotele e d'Averroè è falsa, e, contro il metodo finora seguito, fa vedere che cosa si può rispondere ai argomenti a prò di essa. Indi passa a discutere un dubbio, e cioè Utrum intellactus possibilis sit pure potentialis. Il problema era stato posto almeno due volte da Sigieri di Brabante, e tutte e due le volte risolto allo stesso modo: l'intelletto possibile, prima dell'atto dell'intendere, non ha alcun atto, né può dirsi sostanza se non in potenza. Affermare, come facevano Tommaso ed altri, che esso sia una sostanza in atto in genere intellectualis naturae, prima dell'atto d'intendere, est ponere contraria et impossibilia vel incompossibilia; per questa ragione appunto Aristotele aveva detto e quod intellectus ante intelligere nullam naturam habet nisi istam quod possibilis. L' intelletto possibile diviene atto e sostanza in genere intellectualis naturae, soltanto per l'azione su di esso dell'intelletto agente, che è una sostanza separata, la quale, come ormai sappiamo, per Sigieri è Dio. Identica è la soluzione che di questo problema dà Achillini: l’intelletto possibile è sostanza puramente potenziale in genere intelligibilium, e quello che lo trae dalla potenza AcHiLLiNi Sigieri, Qiiaestiones naturales, ed. Stegmùller Sigieri, De anima intellectiva, ed. Mandonnet Giorn. Crii. d. Filos. Hai. AcHiLLiNi, Quol., dub. I l'atto è l’intelletto agente che, anche pel1'averroista italiano, come vedremo esaminando il quolibeto, è Dio: Componitur enim intellectus possibilis agenti; tali tamen compositione quod remanent dnae substantiae separatae in actu. Ideo, De anima, comm., istae substantiae sunt duae uno modo, et unum alio modo. Sunt enim duae per diversitatem actionis; et sunt unum, quia intellectus materialis perficitur per agentem. Et secundo De anima, comm., et De anima, comm., omnis actio attributa alieni propter aliqua duo existentia in eo, necesse est ut unum sit materia et aliud forma; sed nos intelligimus per intellectum agentem et possibilem, De anima, comm.; et sic aliquo modo intellectus agens est forma nobis, ut patet De anima, comm.. Se l’intelletto possibile non è un atto prima d'intendere, ma semplice potenza, ne segue che l'intellezione che attua questa potenza, sia essa l'atto sostanziale dell'intelletto, poiché la pura potenza non è mai soggetto immediato d'accidenti. Perciò l'atto d'intendere, del pari che l'abito della scienza, è perfezione essenziale dell'intelletto possibile e atto che costituisce la sua sostanza quando pensa e ragiona. Anche in questo egli è perfettamente d'accordo con Sigieri. Unico per tutta la specie umana, l'intelletto possibile è eternamente congiunto coll’intelletto agente che ne attua la potenza, e possiede, grazie a questo congiungimento, un atto di pensiero eterno in cui consiste la sua stessa natura. Di abiti e di atti accidentali si può parlare non in rapporto all'intelletto in sé, ma solo in rapporto ai fantasmi sensibili ai quali l'intelletto possibile s'unisce nei singoli individui della specie umana. Questo, s'intende, dal punto di vista averroistico, in quanto s'ammette un unico intelletto per tutti gl’uomini. Ma ciò non è più vero, se si rifiuta come falsa la tesi dell'unicità dell’intelletto possibile. L'ultimo dubbio del quolibeto verte sul problema utrum intellectus possibilis sit forma dans esse hominem. Zabarella fa le sue meraviglie perché Achillini, dopo aver sostenuto l'unità dell'intelletto, non avesse visto la contradizione che e'è ad affermare che lo stesso intelletto, unico per tutta la specie, è forma ACHILLINI Sigieri, nei luoghi cit. I informante, e non soltanto assistente, sì da costituire l'uomo nel suo essere di uomo. Ma il filosofo padovano non sa che anche in questo il bolognese segue da presso il maestro brabantino. Del quale è appunto la tesi, a quanto e' informa Nifo, che l’intelletto, pur essendo unico in sé stesso, è forma costituens hominem et hunc hominem: hominem in esse specifico, et hunc hominem in esse hoc. Anzi Nifo ci fa sapere che Sigieri, nell'opera della quale il suessano riferisce alcuni tratti che son riportati alla lettera anche d’Achillini, come abbiamo visto a proposito del secondo dubbio di questo terzo quolibeto, ritene, al pari del bolognese, dottrina conforme alla mente d'Averroè quella che afferma esser l'intelletto possibile forma sostanziale dell'uomo. Come Sigieri, anche l'averroista italiano pone nell'uomo due forme:la cogitativa tratta dalla potenza della materia, e l'intelletto. Ma la prima è ordinata al secondo, e questo è complemento e perfezione di quella; sì che la materia già informata dalla cogitativa è 1'informabile ultimate dispositum ad recipiendum intellectum, che ne è la forma ultima. Nifo ad esprimere questo intimo e sostanziale rapporto fra la cogitativa e l’intelletto possibile, s'era servito del termine di semi-anime o semi-forme. Il termine nell'Achillini non s' incontra, e non credo s' incontra nemmeno nello scritto di Sigieri al quale il suessano si riferiva: ma il concetto e' è, sì nell'uno che nell'altro. Forma sostanziale che dà all'uomo il suo specifico essere di Zabarellae, Liber de mente hiimana De rebus naturalibus, Venezia, e nei Commentarii in Arist. de anima, Venezia, dopo il commento De inteUectu; De anima, comm.; Sigieri nel pens. Anche VIO, nel suo commento al De anima, stampato a Firenze, lui vivente, nel 15 io, dopo aver detto che Averroè separa l'anima intellettiva dal corpo, osserva in margine che questo è contra achiUinum, quolibeto, et subgerium in tractatu ad AQUINO, qui volunt quod intellectus uniatur secundum esse, apud averroem, et sit unicus. ACHILLINI AcHiLLiNi In Sigieri anzi il concetto s' incontra fin nelle Quaestiones super de anima del Merton, Oxford; Giornale Crit. d. Filos. Ital. Lo stesso concetto appare anche nelle Quaestiones de anima intellettiva, ed. Mandonnet.] uomo, l’intelletto non è per altro forma constituta in esse per materiam, sì da dipendere da questa, come accade per le forme che son tratte dalla potenza della materia, poiché ha un proprio essere di forma separata al pari delle intelligenze celesti, che pur son forme dei rispettivi cieli. Ed anche in questo concetto l'accordo d’Achilhni coll'averroista belga è perfetto. Forma e perfezione del primo cielo Dio, forma e perfezione dei cieli inferiori al primo le intelligenze motrici, forma e perfezione dell'uomo l' intelletto possibile, che è l'infima delle intelligenze. Resta ora da vedere come Dio sia forma anche degl'intelletti e ragione di ogni intelligibilità. Il quolibeto è dedicato all'intelletto agente. Se l’intelletto possibile è pura potenza, l'intelletto agente è puro atto senz'ombra di potenza; perciò esso possiede, fra tutti gì'intelletti, il massimo grado d'intensità nell'intendere. Esso dunque è Dio. La identità dell'intelletto agente con Dio, che Nifo attesta essere stata sostenuta da Sigieri, è dimostrata d’Achillini con questi argomenti: Primo, omnis felicitas est deus; sed ntellectus agens est felicitas; ergo etc. Maior et minor in secundo dubio et tertio declarantur. Secundo, omnis intellectus qui est. omnia facere est deus; sed intellectus agens est intellectus qui est omnia facere, De anima, textu comm., etc. Patet maior, quia esse omnia facere est ad omnia receptibilia in intellectu possibili, ad hoc ut in eo recipiantur, effective concurrere, vel est ad omnia factibilia effective concurrere, vel omnia facere, id est purus actus; et quomodocumque intelligatur, soli deo competit. Tertio, illud cuius substantia est sua operatio omnimode, est deus; sed intellectus agentis substantia est illius operatio omnimode, De anima, comm.: Et est in sua substantia actio, id est, non est in eo potentia ad aliquid. Quarto, omne quod est primum educens formam de materia, est deus; patet ex quolibeto primo. Sed intelligentia agens est primum educens etc, De aniìna, comm. Quinto, omne quod animae nostrae infundit intellectum, est intellectus agens; sed deus animae nostrae infundit intellectum. Patet maior, quia intellectum speculativum facit intellectus Achillini, Quol. Ili, dub. Nifo, De intell. De anima, comm. Sigieri. I agens esse in intellectu possibili, faciendo de potentia intellectis actu intellecta. Minor est Aristotelis exemplum, Rhetoy'icorum: Intellectui deus lumen accendit in anima. Ex hoc patet quare Commentator, De anima, comm., dixit se differre a Themistio, in modo ponendi intellectum agentera, et convenire cum Alexandre; quia Themistius voluit intellectum agentem non esse Deum, quia animae nostrae est pars; sed Alexander voluit intellectum agentem esse deum: patet ex De anima, comm., ubi Commentator, recitando opinionem Alexandri dixit: Intellectus agens est prima causa agens intellectum materialem. Il primo di questi argomenti è preso da Sigieri. Il secondo e il terzo son ricavati dal testo aristotelico del De animai, ov'è detto che è proprio dell'intelletto agente rendere intelligibili tutte le cose, e che lo stesso intelletto agente è atto per sua natura, senza alcuna mescolanza, sì che non intende ora sì ed ora no, ma intende sempre, senz’intermissione; le quali cose son proprie soltanto di Dio. Importante poi è l'osservazione concernente la dichiarazione d’Averroè, il quale approva Alessandro d'Afrodisia, per avere identificato l'intelletto agente colla causa prima che trae dalla potenza all'atto l'intelletto possibile o hylico. Dopo di che Achillini riporta obiezioni che solevano farsi alla tesi da lui sostenuta; l'ultima delle quali è questa: Nono, sequitur deum esse partem animae nostre, quod non videtur etc, giacché Aristotele aveva detto che tanto l’intelletto agente quanto quello possibile bisogna che siano due èv t-^ ^u/y^... Sia9opaL Alla quale obiezione il bolognese risponde semplicemente così: Ad nonum, declaratum est supra quomodo deus est pars animae nostrae, et quomodo non. Ed infatti in un passo del quolibeto, dub., che abbiamo già riferito altra volta, egli aveva detto che, pur essendo l'intelletto possibile ed agente due sostanze diverse, s'uniscono nell'atto dell'intendere di guisa che in qualche modo intellectus agens est forma nobis. AcHiLLiNi, Quol., dub. NiFO, De intell., Sigieri De anima. Ma in che modo Dio s'unisca all' intelletto umano come forma, è detto più ampiamente nella discussione del secondo dubiuni del quolibeto, ove si pone lo stesso problema che s'era posto Sigieri nel Libey de felicitate, Utrum felicitas sit deus, e lo risolve allo stesso modo del brabantino. Dio è il fine supremo d’ogni intelligenza, nel cui conseguimento consiste la beatitudine, perché Dio è ciò che è simpliciter perfectum quod secundum se est eligibile semper, è optimum, pulcherrimum, delectabilissimum , è quello che nullo indiget ed è principium honorum et causa ipsorum. Soltanto Dio, dunque, est felicitas sibi aut aliis intelligentiis aut homini, quia solum ipse est perfectissimum intelligibile et appetibile propter se, e solo in lui eminenter reperitur ratio obiecti intellectus et voluntatis, Si dirà che la felicità è un atto che è in noi, mentre Dio non è in noi. Achillini risponde che, come nel quolibeto concede deum esse intellectionem intelligentiarum, nunc conceditur deum esse intellectionem intellectus possibilis et hominis. Ma s'obietta ancora: nullum obiectum operationis quae est felicitas est illa operatio quae est circa illud obiectum; patet ex differentia Inter obiectum operationis et operationem. Sed deus est obiectum operationis quae est felicitas; patet io Ethicorum, cap. io: Perfecta felicitas est operatio speculativa optimorum. Ergo etc. A questa obiezione Achillini risponde negando la maggiore: Ad tertium negatur maior, quia sufficit inter operationem et obiectum distinctio rationis. Dico igitur quod felicitas non intelligo policam quae est usus virtutis, septimo Politicorum, sed contemplativam, quae secundum Philosophum, decimo Ethicorum, est secundum nobilissimum habitum qui est sapientia, et secundum eundem, septimo Politicorum, est melior quam politica non est actus qualitativus inhaerens intellectui aut voluntati: quia si sic, tunc non tenderent intellectus et voluntas in félicitatem tamquam in ultimum finem. Secundo, quia ille actus non est perfectissimum. Quia oporteret ponere ¥> NiFO, De intell. Sigieri duas felicitates: imam formalem et intrinsecam, et aliam obiectivam et extrinsecam; et sic Aristotelem et Commentatorem indistincte processisse in aequivoco, cum dixeriint felicitatem esse ultimum fineni et operationem animae. Quia ex quolibeto non datur accidens inhaerens intellectui. Concludo igitur quod tantum una est felicitas, et quod ea omnia vere felicitabilia felicitantur; et ista est deus. Hanc sententiam ponit Commentator, Etliicoritm, capite in Deo esse felix est in speculatione sui, in nobis esse felix est in eo in quo est sibi, prout nobis est possibile. Allo stesso modo Sigieri sostene che, come Deus Deo per essentiam beatificatur, così l'intelligenza a lui più vicina essentia Dei ut forma felicitatur, et consequenter omnes residui intellectus; adeo quod intellectus hominis essentia Dei felicitatur, quemadmodum Deus essentia Dei»ioo. Sebbene distinti nella loro natura, l'intelletto causato non potrebbe intendere Dio, se Dio non lo informasse di sé, giacché, tanto per Achillini quanto per Sigieri, intellectio qua Deus intelligitur est ipse Deus; l'operazione colla quale Dio è inteso da parte dell'intelletto causato e l'oggetto inteso formano, nell'atto dell'intendere, una cosa sola. In quest'atto, Dio, informando di sé gì'intelletti inferiori, fa ad essi dono di se stesso. Ex quo patet osserva il bolognese quod felicitas est optimum deorum donum, quia non est donum excellentius quam donare seipsum, et praesertim si donatum sit perfectissimum entium. Hinc apparet quam commode potuit Aristoteles, De animalibus, substantiam hominis divinam appellare. Principio di siffatta beatitudine è, pertanto, il congiungimento della mente umana con Dio nell'atto dell'intendere. Perciò la felicità consiste formalmente in un atto d'intelligenza, poiché solo nell'atto dell'intendere avviene il congiungimento dello spirito causato coli'intelletto primo: la beatitudine è il più alto grado della vita speculativa, come con Aristotele aveva detto Averroè. A questo punto giova chiarire qual era il pensiero di Sigieri intorno ad una questione dibattura specialmente fra i , NiFo Sigieri AcHiLLiNi Arist., De part. animai., Eth. Xiconi., comm. De anima, comm. teologi. Questi solevano chiedersi se l'esser beato si fonda, come dice Dante, nell'atto che vede oppure in quel ch'ama; in altri termini, se la heatitudo risieda formalmente in un atto di conoscenza del quale è soggetto l'intelletto, ovvero in un atto d'amore che risiede nella volontà. Ed è noto che, mentre i teologi del vecchio indirizzo agostiniano e i francescani poneno la beatitudine in un atto di volontà al quale precede la conoscenza, AQUINO e la sua scuola la fanno consistere essenzialmente in un atto d'intelligenza, d'accordo in questo cogli averroisti, al quale atto d'intelligenza tien dietro l'atto d'amore da parte della volontà. Se non che l'una e l'altra teoria presuppongono una troppo netta distinzione fra l'intelhgenza e il volere. Sigieri supera il problema, negando la distinzione reale fra queste due facoltà. Ciò risulta d’un importante luogo del Nifo, che prima m'era sfuggito. Dopo aver riassunto que ex libello Subgerii excipiuntur, intorno al problema dell'identità della beatitudine con Dio, Nifo prosegue: Ut igitur positio huius philosophi intelligatur, oportet accipere quod sicut unum precise est intellectum et volitum sub diversis rationibus, intellectum quidem ut perficiens intellectum ipsum absolute, volitum ut perficiens illum sub indifferentia fuga aut consensus; ita una numero est intellectio et volitio, sed differunt quoniam intellectio est intellectum absolute, volitio est intellectum ut acceptum vel fugitum; sic unamet res est voluntas et intellectus: intellectus quidem, ut perficitur ac formatur ab intelligibili sub ratione forme absolute; voluntas autem ut perficitur ratione fuge vel prosequele, ut superius diximus. Ergo intellectus et voluntas sunt unamet res simpliciter absolute, licet sint diverse rationes; et inde videmus Aristotelem et Averroem nuUam facere differentiam inter ea, nec tractatus diversos, nec capitula diversa, ut in De anima visum est. Ex quo sequitur, quod unamet felicitas est intellectio et volitio, ac unainet essentia est intellectum et volitum; est enim in abstractis intellectio rei idem quod ipsa res, ac volitio rei idem etiam cum re volita. Ergo si Deus erit felicitas. Deus erit intellectio et volitio insimul; et etiam simul est volitio quod felicitas, et intellectio quod volitio et felicitas etc. Amplius sequitur quod ociosa est questio querens utrum fe103 Pa»'., Nifo, De intelL, Sigieri Così anche Achillini, Quol. dub. Ad primum, voluntas et intellectus sunt idem re, licet secundum esse vel rationem differant. Felicitas principalius sit intellectio quam volitio, an econtra; cum volitio et intellectio non differant nisi nomine vel ratione; nisi questio fiat sub ratione respectiva hoc modo, scilicet utrum felicitas sit Deus sub ratione qua intellectio, an Deus sub ratione qua volitio vel amor. A questa felicità, dichiara Achillini, noi tendiamo per natura, né può darsi che il desiderio naturale resti inappagato in tutta la specie. Perciò, considerato in rapporto alla specie umana che è eterna, anche l' intelletto umano, come insegna Averroè, è eternamente felice, perché eternamente congiunto con Dio e colle intelligenze separate. Ma non felici son tutti gli uomini, singolarmente presi, poiché non tutti arrivano, in questa vita, a questo segno. Giacché per Achillini, come per Sigieri, si tratta appunto della felicità alla quale è concesso all'uomo d'arrivare in questa vita, mediante l'acquisto della scienza: Felicitatem autem in alia vita, quam non potuerunt philosophi naturali ratione inquirere, theologis relinquimus considerandam. Ma può l'uomo arrivare in questa vita a conoscere le sostanze separate? Tale il problema che il nostro bolognese si pone subito dopo, col dubbio. Nella soluzione di esso egli fa uso dell'argomento di Sigieri, riferito da Nifo e Silvestri: Secundo, si impossibile esset intellectum possibilem intelligere substantias abstractas, ociose egisset natura, quia fecisset, quod est in se naturaliter intellectum, non intellectum ab aliquo. Ratio est Averrois, Metaphysucae, comm. Suppono in hac ratione, quod omnis intellectio conveniens intellectui possibili convenit homini, sic quod non est possibile quod intellectui competat, quin homini conveniant: hoc voluit Aristoteles, De anima, textu commenti, et hoc proposito negato, clauditur via Commentatori ad ostendendum caelum intelligere. Ideo, si possibile est substantias separatas intelligi ab intellectu possibili, possibile est substantias separatas intelligi ab homine. Hoc stante, arguo sic: Ouandocumque est aliqua forma non apta recipi in maxime receptivo alicuius generis, illa non est receptibilis in minus reciptivo illius generis; sed intellectus possibilis in genere intelligentiarum est maxime receptivus; patet ex quolibetoio9; 106 Nifo AcHiLLiNi AvERR., De awf/Ma, comm. ergo, si primam formam non est possibile intellectum possibilem recipere, non est possibile alium intellectum recipere primam formam; et sic iam frustrarentur intelligentiae mediae ab hoc fine, qui est deum gloriosum intelligere. Tunc ultra: quandocumque intellectus abstractus non potest intelligere interiora, ut quolibeto dictum est esse de mente Averroismo; sed nulla intelligentia media potest primam intelligere, ut ex ratione superiori sequitur; ergo nulla intelligentia potest intelligentiam mediam intelligere; sed ncque deus potest intelligentias medias intelligere, secundum Averroim, ut patet quolibeto primo; neque intellectus possibilis potest eas intelligere per te; ergo intellectum naturaliter in se non est intellectum ab aliquo. Patet consequentia de intelligentiis mediis: quia non a Deo, qui est supra; non a se ipsis, ut sequitur; neque ab intellectu possibili, qui est infra, per te intelliguntur; et non est alius intellectus ab istis. Et sic patet alia ociositas in natura et maxima; et sic patet quod, quamvis non sit homo finis intelligentiarum, tamen, si non sunt intelligibiles ab homine, frustrantur a suo fine; et sic ociose sunt intelligibiles etc. Ilaec omnia ex modis intelligendi dei, intelligentiarum et intellectus possibilis supra declaratis sunt evidentia. Passando ad esporre i fondamenti filosoiìci sui quali si basa la tesi che attribuisce all'intelletto umano il potere di elevarsi a conoscere le sostanze separate, l'averroista bolognese distingue, come aveva già fatto Jandun, la conoscenza speculativa acquisita per mezzo dello studio delle discipline filosofiche, dalla conoscenza intuitiva, qua cognoscimus substantias separatas per earum essentias proprias; e in quest'ultima fa consistere la felicità suprema dell'uomo. Sì che la beatitudine non è raggiunta coll'acquisto delle scienze speculative, ma dopo il loro apprendimento. L'acquisto per altro delle scienze è una condizione indispensabile e sufficiente a rendere la mente umana preparata e disposta al congiungimento coll’intelletto agente, che sappiamo ormai esser Dio. Ma, oltre a ciò, è necessario che alla perfetta conoscenza speculativa tenga dietro la pratica delle virtù morali: Cum igitur fuerit homo secundum virtutes morales sufficienter habituatus, sic quod cessaverit discordia inter sensitivum appetitum et intellectivum; sic quod rationi regimen tributum erit AcHiLLiNi, Quol., dub. Questo luogo, nella stampa veneziana, è evidentemente difettoso. AcHiLLiNi, Quol., dub. NiFO, De intell.; In Averroys de anime beatitudine, comm. Sigieri De anima. Metaph. sine intrinseco repugnanti; sic quod veruni erit dominium rationis super viribns sensitivis, tunc continuabitur intellectus possibilis, secundum quod est felix, homini et denominabit hominem felicem. Ex quo patet quod quia in habituatione hominis secundum virtutes et scientias magnum tempus vitae hominis labitur. Unito al corpo umano da un legame intrinseco, l'intelletto possibile trae dall'esperienza sensibile le forme immerse nella materia e rese immateriali per un processo d'astrazione. Quando, attuato da queste forme divenute intelligibili e dall'abito delle scienze filosofiche, l'intelletto umano si trova congiunto coll’intelletto agente nell'atto della beatitudine, alla stessa beatitudine parteciperanno in tal modo le cose del mondo materiale, fatte intelligibili; sì che l'uomo verrà ad essere anello di congiunzione fra il mondo superiore e il mondo inferiore, nexus superiorum cum inferioribus, ultra hoc quod forma hominis sit intelligentia. Anzi, siccome Dio nell'atto della beatitudine è forma dell'intelletto beato, e questo è forma del corpo umano, ne segue che anche la stessa materia partecipa alla beatitudine; di guisa che attraverso l'uomo la beatitudine si diffonde su tutto il mondo inferiore. Ma poiché l'intelletto agente è la suprema Intelligenza, cioè Dio, mentre l'intelletto possibile è l'infima, questo non può unirsi immediatamente alla prima Intelligenza, sibbene mediante le intelligenze intermedie. Sì che nell'atto stesso e, potremmo dire, coll'atto stesso col quale s'unisce all'uomo l’intelletto agente come forma, s'uniscono all'intelletto possibile anche le altre intelligenze ad esso superiori già informate dalla prima Intelhgenza: Cum intellectus agens sit suprema intelligentia, et intellectus possibilis sit intima, non potest naturaliter uniri intellectus agens intellectui possibili immediate, quia aliae intelligentiae naturaliter mediant. Ideo oportet quod aeque cito, sicut incipit intellectus agens esse forma et intellectio istius hominis, incipiat quaelibet alia intelligentia media informare hunc hominem. Ex hoc patebunt apud Aristotelem et Commentatorem novem gradus felicitatis, sicut novem sunt apud eos intellectus felicitabiles, quorum AcHiLLiNi Per questa teoria della beatitudine, la mistica averroistica. prinius et maximus dee convenit, nonus vero et intìmus intellectui possibili, medij vero medijs intelligenti s aptantur ordinate etc, quia intellectus cognoscens deuni per plura media remissius cognoscit et imperfectius. Ideo prima, quae est sua cognitio per essentiam, se perfectissime cognoscit. Secunda autem intelligentia recipiendo cognoscit primam, licet immediate eam recipiat. Tertia vero mediante secunda; et sic gradatim descendendo. In questo senso dice Sigieri, come ci attesta Nifo, che l’intelletto possibile dell'uomo, ut habet esse intentionale, est materia omnium intellectuum separatorum. Nell'ultimo dubbio di questo quolibeto, Achillini riassume e schematizza quanto ha detto in questo stesso quodlibeto circa il congiungimento, copulatio, continuatio, dell'uomo coll’intelletto. I congiungimenti, a dir vero, son tre, e non uno solo: il primo è quello dell'intelletto possibile col corpo umano di cui è forma; il secondo è quello dell'intelletto agente coll’intelletto possibile; il terzo è il congiungimento dell'intelletto agente coll'uomo. Il primo congiungimento è duplice. Anzi tutto, l'intelletto possibile s'unisce all'uomo secundum esse, cioè come forma sostanziale che dà all'uomo il suo essere specifico di uomo, e ciò fin dal momento in cui l'uomo comincia ad essere uomo. Indi s'unisce a lui secundum operationem, quando l'uomo comincia a far uso dell'intelligenza. Questo duplice congiungimento era già esplicitamente distinto da Sigieri, secondo la testimonianza del Nifo. Anche il congiungimento dell'intelletto agente coll’intelletto possibile è duplice: dapprima l'intelletto agente s'unisce all'intelletto possibile come causa agente dell'intendere, concorrendo all'astrazione del concetto dall'immagine o fantasma sensibile, e promovendo lo sviluppo intellettuale per mezzo delle scienze; indi, al termine dello sviluppo intellettuale, s'unisce all'intelletto possibile, acconciamente disposto e preparato, come forma che ne attua tutta la potenzialità e gli dà la beatitudine. Siffatta distinzione è d'Averroè Nifo, De intelL, Sigieri AcHiLLiNi De intelL, De anima, comm. Sigieri AcHiLLiNi AvERR., De anima, comm. Ed essa vale anche per il congiungimento dell'intelletto agente con l'uomo. Giacché dapprima l'intelletto agente, trovando l'intelletto possibile già unito secundum esse al corpo di quest'uomo particolare, per esempio, di Socrate, illumina della sua luce i fantasmi della cogitativa di lui, diversi dai fantasmi di altri uomini, e ne trae quelle specie intelligibili che sono intese in questo particolare momento da Socrate. Piìi tardi, quando l'intelletto di Socrate, convenientemente attuato dagl'intelligibili tratti dalla sua particolare cogitativa, si sarà arricchito di una sempre più varia e complessa esperienza, l'intelletto agente gli dischiuderà, se n'è degno, il mondo splendente della pura luce che emana da sé, come da sole d'ogni intelligibilità. Come in Sigieri, così anche nell'Achillini s'avverte lo sforzo per superare la difficoltà maggiore dell'averroismo, già avvertita dallo stesso arabo, consistente nel bisogno di conciliare l'universalità del conoscere e il valore della personalità o PERSONA umana individuale. La grande obiezione che AQUINO fa, dal punto di vista strettamente filosofico, alla dottrina d'Averroè, è appunto questa: posta l'unità dell'intelletto, come può esser vera la proposizione: hic homo intelligit? Alla fine del diibimn utrum felicitas sit deus, Achillini si domanda se l'uomo che in questa vita ha il privilegio d'arrivare a congiungersi coll’intelletto agente come a sua forma, può perdere volente o nolente questa sua beatitudine. La sua risposta è incerta e imbarazzata, anche perché concerne uno dei più scottanti problemi che, non molti anni dopo, solleva gran clamore di dispute, voglio dire il problema dell'immortalità PERSONALE. Già AQUINO notato che, tolta tra gli uomini ogni diversità d'intelletto, ne segue che, dopo la morte, niente rimanga della coscienza individuale. L'averroista bolognese, pur ritenendo con Sigieri che l’intelletto possibile è forma del corpo umano, e che nel suo atto d'intendere è essenzialmente legato ai fantasmi della cogitativa, pensa che all'eternità dell'intendere e della beatitudine non sia necessario un legame col singolo, bastando il la mia introduzione a AQUINO, Trattato sull'ìtniià dell'intellettoTratt. sull'unità dell'intell.] legame colla specie, la quale nella successione dei molteplici individui dura eterna: Testatur enim Aristoteles, Ethicorum, capite: u Multa enim et natura existentium scientes et operamur et patimur, quorum nulluni neque voluntariuni neque involuntarium est, puta senescere vai mori. Conditio enim suae naturae, quam scit esse mortalem, non patitur nolle, et quia mors non est finis neque bonum, Physicotum, textu et commento, ideo non vult felix mortem. Neque desiderio naturali permanentiam sempiternam appetit in individuo, sed in specie, De anima, comm., et Physicoruni, comm. Et propter hoc in Physicorum dixit Commentator, fortunitatem ultimam esse secundum fatuos vitam aeternam. Multa autem mala felicitas hominis compatitur, quae felicitati dei aut intelligentiarum repugnant. Est enim, inter veros felicitatis gradus, humanus intìmus. Ideo, Ethicorum, capite Sapientem omnes extimamus fortunas decenter terre. Felicitatem autem in alia vita, quam non potuerunt philosophi naturali ratione inquirere, theologis relinquimus considerandam. Pomponazzi, sebbene abbia dell'intelletto possibile un concetto così diverso da quello dell'Achillini, sul tema dell'immortalità personale è perfettamente d'accordo con lui: tranne che per il mantovano solo l'intelletto agente è veramente immortale per essere una sostanza separata, come volevano anche Temistio e gli averroisti. Visti quali sono i diversi gradi d'intelligenza, compresi fra la mente Prima che è puro atto e l'intelletto possibile che in sé è pura potenza, Achillini affronta il problema che s'era posto da principio, e cioè utrum latitudo intellectuum sit uniformiter difformis. Un siffatto problema era nato dal tentativo di applicare a misurare i gradi d' intensità dell'intelligenza il metodo delle calcidaiiones matematiche, che s'usa per misurare l'intensità delle quahtà materiali, come la velocità, il colore, la temperatura e via dicendo. Qualcosa di simile è stato tentato nella psicologia moderna per misurare l'intensità della sensazione; e già AcHiLLiNi, Quol. dub. Pomponazzi, De immortai. animae e Oresme aveva esteso il metodo al calcolo del dolore e del piacere. Appiglio a porsi siffatto problema nei riguardi dell'intelligenza dev'essere stato quel che si legge nel Liber de causis, che è un estratto della Elenientatio theologica di Proclo: In primis Intelligeiitiis est virtiis magna, quoniam sunt vehementioris unitatis, quam Intelligentiae secundae universales inferiores; et in Intelligentiis secundis inferiores sunt virtules debiles, quoniam sunt minoris unitatis et pluris multiplicitatis. Quod est quia Intelligentiae quae sunt propinquae Uni puro, sunt maioris quantitatis et maioris virtutis; et Intelligentiae quae sunt longinquiores ab ipso, sunt minoris quantitatis et debilioris virtutis. Et quia Intelligentiae propinquae Uni puro sunt maioris quantitatis, accidit inde ut formae quae procedunt ex Intelligentiis primis procedant processione universali unita; et nos quidem abbreviamus et dicimus, quod formae quae veniunt ex Intelligentiis primis in secundas, sunt debilioris processionis et vehementioris separationis. Allo stesso modo Alberto magno: Omnes formae ab ipsa totius universitatis natura largiuntur; quo autem magis ab ea elongantur, eo magis nobilitatibus suis et bonitatibus privantur; et quo minus recedunt eo magis nobiles sunt et plures habent bonitatum potestates et virtutes. Siffatto modo d'esprimersi sembra fatto a posta per invogliare ad applicare il metodo del calcolo matematico all' intelligenza. E Achillini, dopo essersi chiesto se la latitudo degl’intellettisia uniformiter difformis, si pone altresì il quesito utrum quarumcunque intelligentiarum perfectio attendatur penes appropinquationem summo. Esula dall'intento che ci siamo proposti in questa ricerca, il seguirlo nella critica che egli fa della pretesa di stabihre un rapporto quantitativo fra i vari gradi d'intelligenza, e perciò ci hmitiamo a segnalare la soluzione negativa che egli dà dei due problemi, a chi avesse ancora in proposito delle fìsime del genere. Maier, An der Grenze Liber de causis, prop.; Proclo, Institutio theologica l'opuscolo era stato tradotto in latino da Moerbeke col titolo di Elenientatio theologica. Alberto magno, De intellectu et intelligibili, ACHILLINI, Ouol. Dalle pagine che precedono sembra intanto potersi concludereche solo la prima Intelligenza è fonte di sapere e di luce intellettuale. AQUINO agl’averriosti che dall'universalità del conoscere avevano preteso di dedurre l'unità dell' intelletto per tutti gli uomini, obietta che, se mai, se ne dovrebbe concludere, secondo il loro modo di vedere, che debba esservi un solo intelletto non soltanto per tutti gli uomini, ma in tutto l'universo; sì che il nostro intelletto non è soltanto una qualsiasi sostanza separata, ma è Dio stesso AQUINO ha ragione. Né Sigieri e Achillini gli danno torto: che per essi Dio è l'intelletto agente che effettua sì nella mente umana sì nelle intelligenze celesti l'atto dell'intendere e s'unisce all'una e alle altre come forma, a tal segno da fare in qualche modo una sola sostanza con ciascuna di quelle. Soggetto assoluto di pensiero e sorgente d'ogni intelligibilità. Dio causa col suo intendere altri intelletti, nei quali l'atto dell'intender divino si particolarizza per gradi, fino all'intelletto della specie umana che, informando i vari corpi dotati di sensibilità, mentre comunica ad essi la sua superiore individualità spirituale, ne assume l'individualità contingente e caduca, per farla partecipe dell'atto divino del conoscere. Si rileva altresì dalle pagine precedenti che l'interpretazione sigeriana del pensiero aristotelico dove apparire ad Achillini un'interpretazione organica, sistematica in tutti i suoi particolari, e sostanzialmente diversa da quella d’AQUINO ispirata dal bisogno d’abbreviare la distanza fra la filosofia e la fede, quasi che la fede non avesse in se stessa una filosofìa che la giustifica appieno. Liberi da questa preoccupazione apologetica, gli averroisti potevano discutere in piena indipendenza di spirito e con grande spregiudicatezza intorno a quello che era il genuino pensiero d'Aristotele, s'accordasse o non s'accordasse colla fede. Giustamente dice Laurent, parlando del domenicano Spina avversario del Pomponazzi: Per lui che non ha subito l'influsso del rinnovamento che 1' Umanesimo ha introdotto nella teologia, affermare che Aristotele nega l’immortalità dell'anima, equivale ad affermare che tale AQUINO, Traci, de unit. intelL, ed. Keeler; la traduzione di N. e relative note, Firenze, Sansoni dimostrazione è filosoficamente impossibile. Basta leggere alcune pagine del suo lavoro per rendersi conto dei principi che han diretto le sue critiche. Il vecchio binomio: Aristotele = Verità, è il sottinteso IMPLICATURA sous-entendue MILL GRICE, starei per dire, d'ogni riga del suo volume. Non bisogna perciò stupirsi delle invettive che Spina rovescia sui suoi avversari: i termini più virulenti ricorrono sotto la sua penna. E la stessa osservazione Laurent ripete a proposito del sequace d’AQUINO, SILVESTRI (vedasi) da Ferrara. Trasportiamo questa osservazione all'inizio della polemica averroistico-tomitica, e sarà finalmente chiarito il significato della così detta teoria della duplice verità, della quale qualche storico della filosofia s'è scandalizzato anche più di quel che non abbian fatto nel passato gì'inquisitori dell'eretica pravità, talora, se non sempre, meno irragionevoli di certi storici della filosofia. Che l'aver rivendicato il diritto alla libertà della ricerca storica nell'interpretazione del pensiero aristotehco, prima che all'influsso dell'umanesimo, si deve all'averroismo. E anche in questo Achillini è buon discepolo di Sigieri, nel tenere cioè costantemente distinto il pensiero del Filosofo dalla verità della fede. La quale, forse, ha subito maggior danno che non vantaggio dall'impegno che taluni hanno messo a mostrarne la troppo intima aderenza ad un particolare sistema filosofico. Laurent, Le Commentaire de VIO sur le De anima, in principio a VIO Scripta Philosophica: Comment. in De anima Aristotelis, ed. Coquelle, Roma, Angeliciim Intorno al significato storico della dottrina della doppia verità, si veda quel che ne ha scritto Gilson, Études de philosophie medievale, Strasbourg; Dante et la philosophie, Paris; e N., Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, nonché 1'introduzione ad AQUINO, Trattato sull'unità dell' intelletto. Quando N. ha ad occuparsi dell'avverroista bolognese ACHILLINI (si veda), lo fa unicamente per i suoi Quoliheta de intelligentiis e per le tracce evidenti in essi di dottrine sigieriane. Ma per il momento non mi detti cura di far ricerche sul curricolo della sua vita, bastandomi la data di quando i Quoliheta furono disputati nel capitolo generale dei frati minori tenuto a Bologna e per l'occasione stampati. Successivamente ho raccolto alcuni dati biografici che crede utile far conoscere a chi voglia occuparsi a fondo di questo non comune maestro bolognese, tenuto ai suoi tempi in altissima considerazione, e degno anc'oggi d'esser ricordato sotto diversi aspetti. Secondo le notizie raccolte da Mazzetti, di solito accurato e preciso, nel suo repertorio di tutti i professori della famosa università di Bologna Achillini, figlio di Claudio che dicesi fosse oriundo di Barberino in Val d'Elsa, e coprì più volte cariche pubbliche, sarebbe nato a Bologna. Questo preso dal Tractatus astrologicus di Gaurico, non sempre bene informato, dovrebbe però essere anticipata di due anni se Dal Giorn. Crit. d. Filos. Ital. N., Sig. di Brab. nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma Bologna Carrati, Genealogie di famiglie nob. bolognesi, Bologna, Archiginnasio, Ms. condo la cifra degli anni ch'egli aveva quando venne a morte, quale si trova nell'elogio che di lui si legge nel Libro segreto del Collegio delle Arti. Ma la cifra di anni è corretta su rasura e con altro inchiostro. Inoltre il fratello d’Achillini, nel suo Viridario ci assicura che ACHILLINI, in quell'anno in cui egli sta scrivendo il poema, varca d'un lustro il mezzo camin della vita. Parrebbe dunque che Gaurico avesse ragione. Mazzetti inoltre informa che fu laureato in filosofìa, e che lo stesso anno comincia a insegnar logica a Bologna. Era stato ritratto da Francia. Insegna filosofìa; passa a medicina; ma resse entrambe le cattedre, cosa non comune, spiegabile solo col favore di cui gode presso i colleghi e presso i Bentivoglio dei quali fu sempre caldo fautore. D'un insegnamento tenuto d’Achillini a Padova, prima di questo momento, non mi pare dunque si possa parlare. Gaurico accenna anche ad un soggiorno abbastanza lungo d’Achillini a Parigi, del quale purtroppo non abbiamo altra testimonianza, e d'altra parte non si riesce a trovare un periodo della sua vita nel quale collocarlo. A Bologna ebbe sicuramente ad alunno il bolognese Bacilieri o Bazaleriis, il quale fu approvato in artibus nemine discrepante. Fra i promotori al dottorato era Achillini che dedit insignia al neo dottore. Bacilieri fu aggregato in sopranumero ai col Viridario di ACHILLINI Bolognese. Impresso in Bologna per Hieronymo di Plato Bolognese. Sotto la f. m. di N. S. Leone. Dedica al Papa che riguardano Achillini son riportati più giii II disegno di Francia è posseduto dagl’Uffizi di Firenze. Fotogr. Alinari, più volte riprodotta. Libro Segreto del Collegio delle Arti Bologna, Archivio di Stato; Dal libro dei Partiti. (Arch. di Stato), risulta che Bacilieri riscuoteva già 100 lire bolognesi annue prò stipendio lecture. 7 Ib.. f. 41 r. legi bolognesi delle arti. Ma non era passato un anno dalla sua aggregazione, che fu sospeso per un quinquennio dall'uno e dall'altro collegio, con decisione confermata, propter nonnulla demerita et facinora facta et commissa. Fra questi facinora pare fossero anche parole ignominiose e turpi nei riguardi dei suoi colleghi. La punizione fu inflitta con otto fave bianche contro una nera. Fra i votanti era anche l'Achillini. Questa la ragione perché Bacilieri proprio in quest'anno dove lasciar Bologna, e recarsi a Padova, e quindi a Pavia ove rappresenta l'averroismo della corrente sigieriana che aveva assimilato alla scuola d’Achillini. Scaduto il quinquennio della sospensione, egli fu riammesso a far parte dell'uno e dell'altro collegio per unanime consenso senza che ci fosse bisogno di porre ai voti la proposta Quolibeta de intelligentiis, preparati per la disputa, rappresentano dunque il pensiero filosofico dell'Achillini nel primo periodo del suo insegnamento della filosofia naturale prima che passa all’insegnamento della medicina teorica. In quest'opera, come ormai sappiamoci, si ritrovano, inserite negli schemi del metodo calcolatorio, divenuto di moda anche a Bologna come a Padova, tutte le tesi fondamentali dell'averroismo, concernenti Dio, le altre intelligenze separate, e in particolare l' intelletto possibile e la copulatio di questo col1'intelletto agente; tesi tutte, specialmente quelle riguardanti l'intelletto umano, desunte dai tre scritti di Sigieri, che, secondo l'attestazione di Nifo, si leggeno. Ma qui accade di doverci porre un piccolo problema. Nessun dubbio sulla data di pubblicazione dei Qnolibeta d'Achillini, che s’esibiva campione della dottrina sigieriana in una pubblica disputa alla quale erano intervenuti dotti di varie tendenze. È per caso in questa circostanza che Pico e Nifo si trovarono a far viaggio N. Sigieri Libro Segreto.; insieme, diretti a Bologna, disputando tra loro come l'unità dell'intelletto potesse conciliarsi coll'individualità e la SOPPRAVVIVENZA GRICE SURVIVAL dell'anima del singolo. Nifo ci fa apere di essere stato averroista sigieriano prima, e pretende d'aver composto il Tractatus de intellectu nel quale la dottrina sigieriana è combattuta. Ho già espresso piìi volte i miei dubbi sulla veridicità di Nifo, il quale aveva troppo interesse ad acconciare il racconto della sua vita in modo da meritarsi le grazie del vescovo di Padova, Barozz. Il piccolo problema che vorrei porre, e che non sono in grado di risolvere, è questo: chi porta a Padova o a Bologna gli scritti di Sigieri ricordati da Nifo? Fu NICOLETTI che certamente dimora a Oxford e Parigi? Fu Pico? Fu Achillini stesso, se mai fosse vero, come pretende Gaurico, che anch'egli soggiorna a Parigi? O fu Grice? Del resto, gli scambi fra le due università italiane e quella parigina sono frequenti, e, come sappiamo di galli che durante il sono venuti a studiare a Padova e Bologna, sappiamo del pari che Pietro e Lorenzo Pasqualigo, patrizi veneziani, erano stati a studio a Parigi, e il primo anzi vi aveva sostenuto, ben due mila conclusioni. Quando all'insegnamento della medicina teorica aveva riunito quello della filosofìa naturale, AchilUni fece stampare la sua seconda opera De orhihus. Qui ritroviamo tutte le grandi tesi della fisica celeste di Aristotele, nella più rigida interpretazione averroistica, fino al punto che è ritenuta assurda la teoria tolemaica degl’eccentrici ed epicicli, che aveva Nifo, In libriim Destvuctio Destructionum Averrois comment., I, dub. Hoc secundum opus in quatuor libros divido. Il che esclude l'esistenza di quel trattato De proportionibiis niotuum, che secondo Hain, sarebbe stato stampato a Bologna per Benedictum Hectoris. Questo trattato, composto più tardi, usci postumo. SÌ il grande merito di salvare le apparenze dei moti planetari assai meglio che non la teoria delle sfere concentriche, ma che mal si concilia coi principi della fisica aristotelica. Ed Achillini, come in generale tutti gli averroisti, ci teneva alla fedeltà ai testi che egli s'era assunto l'impegno di esporre. Nel secondo libro di quest'opera si parla invece delle intelligenze motrici, cioè di Dio, primo motore immobile, e quindi dei motori preposti al governo di ciascun cielo. A questo punto il maestro bolognese si chiede se, oltre alle inteUigenze separate, esistano altresì dei dèmoni. La credenza nei dèmoni e nelle loro opere prodigiose non era diffusa, soltanto nel popolino, ma anche nei ceti colti, presso i quali la demonologia cristiana era rincalzata da quella platonica. Achillini nel suo rigido averroismo non sa con esattezza ove collocare siffatte nature ibride, di spiriti imbestiati, e quale funzione propriamente assegnare ad esse. Ammessa per fede, l'esistenza dei dèmoni è relegata tra le opinioni volgari. E quanto ai fatti meravigliosi che ad essi vengono attribuiti, il bolognese è d'avviso si possano spiegare coll'arte umana o per mezzo di cause naturaH, a dir vero, non meno meravigliose, come fa più tardi Pomponazzi, e come aveva fatto molto prima SCHIAVONE. Dopo questa parentesi, egli torna a parlare dell'immutabilità di Dio, ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, non soggetto a movimento locale né a mutamento di pensiero, poiché tutto atto senza potenza. Di questa divina immutabihtà partecipano anche le altre intelligenze celesti, sebbene in queste sia qualche potenzialità, in quanto ogni intelUgenza di sotto subisce l'azione di quella di sopra, sì che questa è intelletto agente per rapporto a quella che vien dopo, e quella che vien dopo può dirsi intelletto possibile per rapporto alla precedente, come già sapevamo dai Qiioliheia de intelligentiis. Primo intelletto agente che immediatamente o mediatamente informa di sé tutte le intelligenze inferiori, è Dio. Ma le intelUgenze inferiori sono informate da quelle di sopra senza subire cangiamento nel tempo, bensì con atto eterno, che fa De orbibus, diib. secondo l'edizione degli Opera omnia, curata da Monti, Venezia, alla quale per comodità mi richiamo) . dub. Secundo principaliter, Septimum dictum Qiiol. de intell. dire talora ad Averroè che esse sono atti puri senza potenza, cioè puro intendere senza mutamento. Ultima delle intelligenze è l'intelletto umano che propriamente si disse possibile o potenziale, poiché non ha altra natura che quella di essere in potenza. Questo intelletto, unico per tutta la specie umana e forma che dà all'uomo il suo essere specifico di uomo, non passa dalla potenza all'atto del conoscere se non è coadiuvato dall'esperienza sensibile. In quanto passa dal non conoscere al conoscere le cose del mondo sensibile, che sono il suo oggetto proprio, esso è soggetto a mutamento o alterazione. Questa alterazione era intesa comunemente come modificazione dell'intelletto stesso ad opera delle specie intelligibili o rappresentazioni in esso delle cose conosciute. Achillini respinge questa teoria, appoggiandosi a un famoso testo della fisica aristotelica, che aveva già richiamato l'attenzione d'Averroè, e coglie l'occasione per ribadire un concetto già da lui affermato alla fine del Qttolib. de iìitelligentiis. Aristotele aveva detto che nella parte intellettiva dell'anima non si dà né generazione né alterazione vera e propria: l'atto conoscitivo non importa un mutamento qualitativo intrinseco all'intelletto, ma una semplice variazione del rapporto fra questo e le forme del mondo sensibile che la mente conosce in sé stesse senza bisogno che una rappresentazione o specie intelligibile, distinta dalla realtà conosciuta e dal soggetto conoscente, venga a inserirsi fra l'una e l'altro. Un mutamento qualitativo e intrinseco subiscono invece le facoltà sensitive e con esse la cogitativa, cui l'intelletto s'unisce nell'atto d'apprendere le forme del mondo sensibile. L'intelletto in sé stesso è immutabile, come i principi logici e come le forme a priori di Kant; senza di che nessun giudizio certo sarebbe possibile; il mutamento e l'alterazione sono soltanto nel contenuto del conoscere, e soltanto per denominazione estrinseca s'attribuiscono all'intelletto. Perciò Achillini distingue con Sigieri l'intelletto dall'ANIMA RAZIONALE: quello è unico in sé stesso per tutta la specie umana; questa invece, risultando dall'unione dell'intelletto colla cogitativa, è individuale al pari di quest'ultima e diversa in ogni uomo; e a questa, propriamente, e non -Diib. Hic aliquantulum morabimur. a quello, spetta la FUNZIONE RAZIOCINATIVA E DISCORSIVA, consistente appunto nell'applicazione delle immutabili forme del pensiero alla mutevole esperienza sensibile. Merito d’Achillini è appunto questo, che a lui spetta per altro in quanto ha ripreso un motivo di alcuni pensatori d'aver capito che la dottrina delle specie intelligibili finisce per offuscare la conoscenza della realtà, ricacciata al di là della rappresentazione che attua il soggetto conoscente. L'atto conoscitivo è possibile solo in quanto il reale conosciuto è presente per se stesso al soggetto che l'apprende. Vero è che, pell'Achillini, le cose del mondo fisico hanno un esse reale fuori del soggetto che le pensa, e non possono essere in questo se non per il loro esse intentionale; di guisa che lo sdoppiamento fra realtà in quanto appresa e realtà in sé risorge e rende plausibili le obiezioni che altri aristotelici e averroisti ebbero a rivolgere al filosofo bolognese. E primi fra tutti Pomponazzi e Zimara. Pomponazzi si dichiarò contra modernos pedagogos, qui tenent secundum Averroem quod intellectus possibilis nihil de novo recipit, mentre commenta a Padova il De anima. I moderni pedagoghi dai quali dissentiva erano Nifo, Achillini e il suo fido Achate, Bacilieri, che era diventato collega del mantovano nello studio patavino. Questo è confermato da una nota in margine al codice napoletano che ci ha tramandato il commento del Peretto: Nota contra socios Achillinum Tyberiumque bononienses. Più tardi, mentre commenta a Padova la stessa opera aristotelica, il maestro mantovano dedica una quaestio speciale a esporre e combattere opinionem noviter repertam quae tenet nullo pacto dari species intelligibiles. Veramente questa opinione non era proprio noviter reperta, come Vedasi N., Soggetto e oggetto – GRICE OBBLE SOBBLE -- del conoscere nella filosofia, Roma, Edizioni dell'Ateneo, Bibl. Naz. di Napoli, mss. La nota nel ms. napoletano parrebbe di mano di Surian che trascrisse il testo della riportazione, di cui forse è autore quel Marco da Otranto che è Zimara, il quale ne avrebbe fatto copia a Troiano e questi a Caravegi da Crema, dal quale l'ebbe Surian. del resto ben sa Pomponazzi; ma nuova poteva sembrare per il modo come la presentavano e per il vigore col quale la difendevano i due pedagoghi bolognesi. Ma nuova o no, il Peretto non esita a giudicarla abominevole, fatua e bestiale: Et dico primo quod opinio ista est abominabilis, fatua et bestialis et nihil boni ab ea potest capi. Ego enim nihil intelbgo de opinione ista. Isti contra se adducunt duo miUia auctoritatum et totam ecclesiam doctorum, ipsosque glosantes totaliter dilaniant et lacerant. Vide in scriptis suis. Che il mantovano non avesse presa per il suo verso e non avesse capito l'opinione d'Averroè e d’Achilhni, non è da stupire, dato l'orientamento del suo pensiero quale dove rivelarsi anche meglio in seguito. Così anche nell'esposizione della Fisica, fatta a Bologna, giunto al commento del testo sul quale si fondano gli averroisti della corrente d’Achillini, torna a ripetere: Ista est pars dignissima in qua aut ego erro aut omnes aiii maxime erraverunt; sed credo quod potius iUi decipiantur quam ego; sed in hoc constituam vos iudices. In ista ergo parte commentator ponit unum documentum, ex quo traxit Burleus, quod est de mente commentatoris, cum anima sit unica in omnibus hominibus, ipsam nihil capere {ins capit) de novo, ncque acquirere [ms aquirit) scientiam per species de novo advenientes, sed scientia est substantia animae. Et non possum non mirari de istis modernis, qui faciunt se inventores et autores huius viae, cum videant Burleum ante se de hoc iam expresse loqui. Imo, ante Burleum Henricus de Gandavo tenuit hoc idem esse de mente commentatoris; et etiam AQUINO ascribit hoc commentatori, Hcet propter aham rationem. Non meno aspro, contro l'interpretazione che Achillini sostene del pensiero d'Averroè è il giudizio di Mar Infatti nel ms. napoletano si legge: Pro quo, domini, debetis scire quod insurgit nova philosophia, immo antique; quare Burleum videatis: expresse super textu commenti 2oi septimi physicorum dicit intellectum speculativum esse eternum et non dari species intelligibiles commentatoris; hec etiam tenet augustinus sessa, Achylinus et multi alii insequentes i tos Ms. napol. In de phys. auditu, Bibl. Nation. di Parigi, ms. lat. ms. della Biblioteca del Collegio Campana di 9 Osimo] c'antonio Zimara da Otranto, in una sua quaestio Utrum ad mentem Averroys intellectus possibilis recipiat species intelligibiles subiective. Esposta e criticata la dottrina d’Achillini, della quale vorrebbe far rilevare l’'assurdità dal punto di vista aristotelico ed averroistico, egli conclude: Et in veritate opinio istius hominis adeo est erronea, ut me pudeat amplius arguere centra ipsvim. Ipse enim ignorat adhuc quomodo forma materialis generatur. Item habet fateri quod formae materiales secnndum suum esse formale accipiantur in sensibus interioribus, quia non est maior ratio quare in intellectu possibili materiales formae sint secundum esse formale, et non in ipsa cogitativa et imaginativa. Quantum autem ista sint inconvenientia, non solum sapientibus, sed etiam vulgaribus sunt novissima notissima. Unde licet mihi dicere de isto homine quod dixit commentator de Avicenna in Celi comm. quod videlicet parvitas exercitationis ipsius viri in naturalibus et bona confidentia in proprio ingenio deduxit ipsum ad maximos errores. A risolvere le obiezioni mosse alla tesi d'Achillini bisogna tener costantemente presente la distinzione fra ANIMALE RAZIONALE – RAGIONE e intelletto in sé. L'intelletto possibile, in sé considerato e in quanto unico per tutta la specie umana, non è modificato d’alcuna rappresentazione che gli venga dal mondo sensibile. Invece, in quanto unito alla cogitativa individuale di Socrate e di Calila, colla quale forma L’ANIMA RAZIONALE composta di ciascuno individuo umano, esso è certamente soggetto a mutazione e ad alterazione, non pel mutare di qualcosa in esso, ma pel mutare dell'immagine sensibile che è nella cogitativa cui è unito. Che se Achillini dice l'intelletto possibile pura e nuda potenza senz'atto di sorta, prima dell'atto d'intendere, questo va inteso per rapporto all'intelletto Zimara de sancto Petro de Galatinis Terrae Hjdrunti, artium doctoris, Quaestio qua species intelligibiles ad mentem Averrois defenduntur ad Magnificum patritium Venetum Surianum; a cura di Storella. La stessa quaestio fu pubblicata da francescano Girelli, professore di teologia nello studio di Padova, in principio del suo Tractatus adversus quaestionem Zimarae de speciebus intelligibilibus ad mentem antiqiioritm Averrois praesertim. Venetiis. Girelli, che aveva studiato a Padova, ov'era stato alunno del Pomponazzi, cita Achillini, ma si rifa specialmente a Gand e al carmelitano inglese Baconthorpe, noti avversari delle species intelligibiles. agente che è tutto atto senza potenza ed è la scienza in atto, al cui possesso tende l'intelletto possibile. Il De orhihus s'apre col dubbio an intelligentia sit forma dans esse caelo. Anche su quest'argomento Achillini si sforza di mantenersi fedele ad Averroè: ogni cielo è composto di materia e di forma; il corpo sferico di esso è la materia, l'intelligenza motrice è la sua forma. Per questa unione ciascun cielo è un ANIMALE VIVENTE, non di VITA VEGETATIVA O VITA SENSITIVA, come pretende Avicenna, ma di vita intellettuale. Le sfere celesti sono perciò quegli ANIMALI RAZIONALI IMMORTALI – GRICE IMPLICATURA DI ANIMALE – BRUTO O PIANETTA -- ed eterni di cui parlano Aristotele nei Topici e Porfirio nella sua Isagoge alle Categorie. Animali viventi di vita intellettuale, l'atto dell'intendere e del volere si predica dei cieli, di cui le intelligenze son forme sostanziali, a quel modo che si predica dell'UOMO di cui è forma sostanziale l'intelletto possibile, che è l'infima delle intelligenze separate. Sebbene i corpi celesti sono dotati di spazialità e di movimento al pari dei corpi del mondo inferiore, essi son corpi spirituali, immuni da composizione di materia e di forma, poiché il loro essere è costituito dall'unione immediata colla propria intelligenza. Questo concetto averroistico d’una corporeità spirituale e immateriale, che piacque anche a Ficino, fu oggetto di lunghe controversie fra gl’averroisti e le altre scuole aristoteliche, e fra gli averroisti stessi. Dio è la prima delle intelligenze separate; e come ognuna di queste è forma sostanziale del proprio cielo, ch'essa avviva di vita intellettuale e a cui imprime movimento, così anche Dio è forma sostanziale del primo cielo mobile al quale, insieme al primo moto, imprime la propria perfezione intellettuale. Con ciò il bolognese non fa che sviluppare un concetto già chiaro nella sua precedente opera, Quol. de intelligentiis. L'idea di Dio, quale emerge da siffatto modo di vedere, è l’idea di un Dio strettamente legato al mondo finito Arist., Top. tcov ^cóoiv xà jjièv 8-VY]Tà xà •^'à-B-àvaTa. Porfirio, Isagoge et in Arist. Categor. comni. ed. Busse, nei Commentaria in Arist. graeca, De differentia Argmn. in Platon. Theol. ad Laurent. Medicen in Opera, Basilea, Epist. De orbibìts di Aristotele, come forma e motore non mosso della prima sfera celeste, e anima del primo corpo spirituale che contiene e racchiude entro di sé le altre sfere animate e immortali, fino al CIELO LUNARE, che racchiude nella sua concavità la sphaera activorum et passivorum, ossia i quattro elementi e quelle cose che, sotto l’influenza celeste, di lor si fanno. Forma e motore di un mondo finito, è evidente che di siffatto Dio non si può dimostrare l'infinità né l'onnipotenza né la libera azione creatrice. Del resto, per ciò che concerne l'animazione dei cieli, v'erano teologi disposti ad ammetterla. Achillini lo sa bene; ma osserva che da parte dei teologi esistono difficoltà non facilmente superabili ad accogliere simile teoria. Per essi, infatti. Dio creò le intelligenze in statu merendi et demerendi; viatrices enim aliquantulum fuerunt, durante quella morula concessa loro da Dio per potere scegliere liberamente il bene o il male. Ora che cosa sarebbe accaduto se l'anima del primo cielo pecca? Il primo cielo sarebbe stato dannato. Eppure esso avrebbe dovuto accogliere i beati, a meno che Dio non avesse preparato per sé e pei santi un altro luogo più adatto, o che non vesse predestinato l'intelligenza di quel cielo alla beatitudine eterna! Ma il maestro bolognese taglia corto su questo e altri problemi sottili e imbarazzanti: per lui, secondo la verità della fede, non può ammettersi che Dio sia unito come forma ad un cielo; ciò ripugna alla sua infinità e al potere che ha di trarre le cose dal nulla. Tutto questo, per altro, riguarda i teologi E NON LA FILOSOFIA, se per filosofia s'ha d’intendere, come quasi tutti allora intendeno, il sistema aristotelico della natura, cosa che non tutti gli storici della filosofia han sempre avvertito. E problema tutto teologico è quello discusso nel dubbio intorno alla creazione dal niente e al cominciamento o novitas del mondo nel tempo. In oltre fittissime e uniformi colonne in folio, interrotte da appena due capoversi, la dottrina teologica della creazione del mondo nel tempo è sottoposta ad una serrata e minutissima critica che ne dimostra l'inconciliabilità coi Dante, Par. De orb.] principi più Certi della metafisica aristotelica, per terminare, al solito, dopo tanto sforzo, con questa dichiarazione: Tenendum est autem deum creasse mundum et non ab aeterno, et ab aeterno ipsum potuisse creare! Segue il quesito o dubbio, utrum caelum sit finitae magnitudinis in actu intorno al quale Achillini, fedele ad Aristotele ed Averroè, mostra di non tenere in alcun conto il tentativo fatto d’alcuni teologi di dedurre la possibilità d'un universo infinito dalla infinità e onnipotenza di Dio; che anzi dalla limitatezza dell'universo aristotelico egli è condotto a limitare la potenza divina. Perciò egli si contenta di osservare: Quod si theologus concedat deum posse lacere corpus infinitum, oportet ipsum dicere has difiìnitiones quantitatum non esse diffinitiones absolute, sed quantitatum finitarum, quemadmodum oportet ipsum concedere, quod acquale vel inacquale non est passio quantitatis, sed est passio propria quantitatis finitae; nel che consentono appieno il Cusano e BRUNO. Nel quesito col quale si conclude il libro, il maestro bolognese esclude la possibilità d’altri mondi fuori di quello descritto da Aristotele, che ha per centro la terra e per limite la convessità della prima sfera di cui è forma sostanziale Dio stesso. Anche troviamo ribadite le grandi tesi dell'aristotelismo averroistico intorno alla natura celeste presa nel suo complesso. Sferico è il cielo, perché corpo perfettissim.o cui non può competere se non la perfettissima delle figure geometriche, qual è appunto la sferica. Ed è formato di natura luminosa che consegue alla luce intellettuale dell'intelligenza che l'anima e lo muove, diminuendo d'intensità giù giù, di grado in grado, FINO ALLA SFERA LUNARE, la cui luminosità propria è appena percettibile nelle ecclissi di luna. Ampio sviluppo maestro Achillini dà al quesito concernente l'eternità del moto celeste, connesso con quello dell'eternità del mondo e dibattutissimo insieme a questo, nei commenti al ad quartum, stando in principiis philosophorum, rationes militant; sed negatis eorum principiis, tiinc cessai disputatio. della Fisica. Circolare ed eterno, il moto delle sfere celesti riflette l'eterna circolarità del pensiero delle intelligenze motrici: Quia igitur intellectio intelligentiae exit ab intelligente et revertitur super idem ut intellectum est, ideo intellectio est principium motus circularis, quoniam in circulo exit corpus ab a, ut a principio, et revertitur in idem a, ut in terminum, per arcum circuii. L'ultimo quesito del De orèzèiis concerne l' influenza celeste sul MONDO INFRALUNAR. In nessun'altra trattazione quanto in questa Achillini appare evidente come le dottrine astrologiche sull'influenza dei cieli avevano finito per prendere consistenza metafisica nel sistema aristotelico della natura, nel quale le sfere celesti, coi loro motori intellettuali, e il mondo elementare, contenuto nel concavo dell'ORBE LUNARE, son solidali e quasi direi complementari fra loro, legati come sono da un legame di causalità. Si caelum staret, ignis in stupam non ageret, quia Deus non esset, suona una proposizione condannata dal vescovo di Parigi. E Achillini: se il movimento celeste s'arresta, non soloil fuoco non s'apprende alla stoppa e allo zolfo, ma addirittura tunc non essent ignis, stupa aut sulfur; e ciò per la ragione quod in primo instanti quietis caeli resolverentur omnia inferiora in materiam primam, quia desineret caelum esse conservans interiora; aut in nihil omnia redirent. Ideo supra dictum est, quam repugnat naturae vacuum, aut materiam esse sine forma, tam repugnat caelum quiescere. Ideo Averroes, Mataphysicae, comm., auctoritate Aristotelis, Meìaph.: Non est timendum caelum quiescere. Meno male! Ma nel trattare della causalità che il mondo celeste esercita su tutte le cose del mondo inferiore, il bolognese è indotto a porsi il problema della libertà umana. Sigieri e Giovanni di Su questo legame fra il cielo e il mondo inferiore, cfr. Averroè, De caelo, comm.; Aristotele, Meteor. Denifle e Chatelain, Chart. Univers. Paris., Giorn. Crit. d. Filos. Ital. De orb. Steenberghen, Sig. de Brab. d'après ses oeuvres inédites, Siger dans l'hist. de l'Aristotélisme, nella collez. Les philosophes belges, Louvain Jandun se l'eran posto assai prima, e l'avevan risolto allo stesso modo. L'influenza dei corpi celesti non s'esercita in modo diretto se non sui corpi infralunari. Sull'intelletto e la volontà umana questa influenza non s'esercita se non indirettamente, nella misura che lo spirito umano è legato al corpo. Ma per se stessa quest'influenza non s'esercita sull'atto del giudicare e del volere, che può resistere ad ogni influenza indiretta. Ora la nostra libertà trae origine dal giudizio della ragione, che per sé è immune da ogni diretto influsso celeste.Al qual proposito Achillini coglie l'occasione per chiarire l'equivoco EQUIVOCO GRICE che nasce dal confondere la libertà umana colla contingenza, la quale nela lingua del LIZIO è ben altra cosa. La libertà è propria del giudizio che non è determinato dall'oggetto appreso; la contingenza deriva invece da indisposizione della materia che a risponder molte volte è sorda; la prima è propria dell'uomo; la seconda spazia in tutta la natura sublunare, ove l'impronta del suggello celeste è ostacolata dalla cera mortale. Ma anche in questo Achillini non dice niente di nuovo. Lo stesso concetto della libertà, più che svolto, è appena accennato. Poco dopo la pubblicazione del De orbibus a mezzo della stampa, il maestro bolognese prepara l'edizione di alcuni rari opuscoli pseudo aristotelici insieme ad altre cose non meno rare, fra le quali egli inserì anche un suo trattatello De universalibus, la cui composizione è probabile risalga agli anni in cui legge logica. Nacque così l'Opus septisegmentatum stampato, a spese dell'editore Phys., De orb., Ex potentiali in genere intelligibilium nascitur libertas, sed ex potentiali in genere sensibilium nascitur contingentia. Hoc voluit Philosophus, Metaph., textu comm., in translatione graeca: quare materia erit causa praeterquam ut in pluribus aliter accidentis. Quod igitur dixi in primo opere, Quolibeto de intelligeutiis primo, dub.: Sequitur secundo nullam esse in rebus contingentiam ad quas non concurrit homo, passum est ab impressura defectum, non apponendo libertatis prima di contingentiam. Ma nell'edizione, l'autore ebbe cura di correggere l'errore bolognese Benedetto d'Ettore Facili. La stampa riuniva insieme queste rarità: Pseudo Aristotele, De secretis secretorum, De regum regimine, De sanitatis conservatione, De physionomia. De signis tempestatum – GRICE DARK CLOUDS MEAN RAIN --, ventorum et aquarum, De mineralibus; poi il fragmento De intellectu di Alessandro d'Afrodisia nella traduzione medievale di Gerardo da Cremona, il De animae beatitudine di Averroè, cui tien dietro l'opuscolo De universalihus d’Achillini stesso; infine l'epistola d'Alessandro il Macedone ad Aristotele, De mirahilihus Indiae. L'anno seguente deve aver curato, presso lo stesso editore Ijolognese, l'opuscolo De primo et ultimo instanti di Burley, a spiegazione del quale egli aggiunse una breve nota: Achillini Bon. Examinatio huius quadrate figure et addictio oblunge, cui seguono le Proportiones di Alberto di Sassonia Bononie per Ben. Hectoris. La rara stampa è posseduta dalla Bibl. Nationale di Parigi, Rés. Cura altresì la stampa del libretto di Trionfo da Ancona, agostiniano. De cognitione animae et eitis itentiis, cui Achillini aggiunge una quaestio de sensihilibns noribus di Maestro Prospero da Reggio, egli pure agostiniano, excerpta et sumpta ex quaestionibus ab eo Parisius J'.putatis supra prologo primi magistri sententiarum Bologna, presso Giovanni Antonio de'Benedetti; e poco dopo quella della Destructio in arborem porphyrianam dello stesso Trionfo, presso lo stesso stampatore de' Benedetti. Nello stesso anno e presso lo stesso editore, da in luce la quaestio de subiecto physionomiae et chyromantiae, o anche De Chyromantiae principiis et physionomiae, dedicata a Coclite e premessa all'opera di questo, Chyromantiae ac physionomiae anastasis cum approbatione magistri Achillini, uscita a Bologna presso il de'Benedetti e dedicata ad Bentivoglio, figlio del signore di Bologna, Giovanni IL Due altre quaestiones, una De potestate syllogismi, l'altra De subiecto medicinae, dedicate all'alunno Porto da Modena, Achillini stampò a Bologna, presso lo stesso de' Benedetti. Questo Porto era ancora alunno d’Achillini e ne aveva raccolto le lezioni su quei due argomenti. S’addottora, e nel nuovo anno scolastico comincia a leggere medicina teorica a Bologna fino a quando passa a medicina pratica; ma venne a morte. Ecco la dedica affettuosa del maestro: Achillini Porto Mutinensi, discipulo haud penitendo, foelicitatem. Nostra quaedam fragmenta ut moris eorum est, mi amantissime, diligentem eorum collectorem adeunt. Tu enim urbanitate et virtutibus et doctrina is es, quem inter caeteros nobis dilectos elegi, apud quem aptissime reponantur; te enim semper cognovi nostri nominis studiosum. Logicalia quidem alios docebis; medicinalia vero exacte ut assoles contemplaberis: ex quibus non minus gloriae, Alexandre tuo aurigante, te iam comparaturum existimo, quam hactenus ex poeticis muneris numeris adeptus sis. Haec igitur nostris aliis, quae apud te sunt, adiungas. Vale, et libenter res nostras perlege. Presso lo stesso de'Benedetti, uscì il De elementis che si può dire formi, insieme al De intelligentiis e al De orbibiis, la terza parte d’un'opera complessiva, la quale abbraccia tutto il sistema aristotelico-averroistico della natura, ossia tutta intera la sfera cosmica, avente la terra per centro e per periferia il cielo delle stelle fisse. Consapevole dell'importanza dell'opera, Achillini dedicò il De elementis all'invittissimo principe e padre della patria, Giovanni II Bentivoglio, con una lettera che è documento importantissimo per stabilire i legami che univano il filosofo al signore di Bologna. Nell’explicit di questa e dell'opera precedente Achillini, anzi che col nome d'Alessandro, comincia a sottoscriversi il figlio di Claudio Achillini, arieggiando alla lontana la maniera degl’arabi. A rendere piìi solenne l'edizione del De elementis, Porto fa scattare il suo estro poetico e detta questo epigramma che si legge sul frontespizio, e in cui il nome di Claudio Achillini è ricordato nel momento che pella prima volta, per quanto N. sappia, al figlio viene dato l'appellativo di nuovo Aristotele: Cum modo legisset titulum natura libelli huius, Achillini est obvia facta seni, 48 Su di lui, TiRABOSCHi, Bibl. Moden. atque ait: O nimium foelix hoc pignore, Claudi, quam melius dici Nicomachus poteras. Un altro epigramma scrive pella stessa stampa Boccadiferro, che traduce il suo cognome in quello meno plebeo di Siderostomo. Anch'egii era discepolo d’Achillini, e più tardi ne continuerà l'insegnamento averroistico a BOLOGNA, ma con assai minore vigore speculativo. Il De elementis è diviso in tre libri. Si parla dei mutamenti e delle vicissitudini che accadono nel mondo sublunare – GRICE CIRCLE AND CIRCLE -- e della materia che n'è il soggetto. In diibia son discussi tutti i problemi concernenti l'esistenza della materia prima, la sua natura di soggetto indeterminato e potenziale del divenire fisico, la sua conoscibilità, i suoi rapporti colla forma, colle dimensioni, e il concetto di PRIVAZIONE – GRICE NEGAZIONE E PRIVAZIONE --. Niente di particolarmente notevole, tranne questi punti. Primo, il dubbio an Sorte non existente, Sortes non sit homo – GRICE VACUOUS NAMES – If neither Pegasus nor Bellerophon exist, what is the implicature of the second having ridden the first? --, che richiama l'attenzione sulla discussione che fa di questo problema anche Sigieri di Brabante, nella quaestio utrum haec sii vera Homo est animai, nullo homine existente; secondo, il dubbio ove si nega la tesi che attribuisce alla materia una forma sostanziale di corporeità d’essa inseparabile. Terzo, il dubbio ove si sostiene che la materia prima è ingenerabile e incorruttibile e perciò eterna, checché ne pensassero altri con Avicenna. Si tratta degl’elementi e della loro mescolanza. Al qual proposito il bolognese riprende in esame l'annoso problema se nei misti restino in atto o soltanto in potenza le forme elementari, ritorna sulla forma corporeitatis che Avicenna voleva inseparabile dalla materia, e fa un fugace accenno alla famosa colcodea dello stesso Avicenna, quae est decimus intellectus in descendendo a deo, et est formarum datrix in concavo lunae assistens ad regulandam activorum et passivorum sphaeram et ipsam conservandam. Altro De elementis, diib. , f. gava. Mandonnet, Brab. et l'averr. latin testi inediti. Nella coli. Les philos. belges, Louvain De eleni. Sull’origine e il significato di colcodea, dopo quanto ne aveva scritto Alfonso Nallino, son ritornato in Giorn. Crit. d. Filos. It., per dimostrare che essa entra in circolazione coll’edizione del conciliator di SCHIAVONE, Venezia. tema è quello, allora di grande attualità, se e come le forme sostanziali sono capaci d'accrescimento e di diminuzione, di maggiore o minore intensità. Più importante, sebbene non nuovo, è quello che egli dice della generazione degl’ORGANISMI VIVENTI – Grice cabbage and king --, e in particolare dell'uomo – GRICE MAN PARROT HUMAN PERSON --. Tutte le forme degl’esseri corporei, da quelle elementari a quelle ANIMALI, son tratte dalla potenza della materia. Ma mentre le forme elementari permangono nei misti, attenuate nelle loro proprietà, come dice Averroè, la forma mixtionis resta soltanto potenzialmente nel VEGETALE – GRICE CABBAGE --, e come l'anima vegetativa si corrompe all'apparire dell'anima sensitiva, nella quale rimane potenzialmente o virtualmente. Achillini in questo non si dilunga molto da AQUINO, sorvivvo, e SCHIAVONE, brucciato. In certi momenti, anzi, egli sembra accogliere la tipica dottrina d’AQUINO dell'unità della forma sostanziale. Con due strappi però. Uno, di minore importanza, concerne la permanenza delle forme elementari nei misti. L'altro, assai maggiore, riguarda l'unione dell'intelletto col singolo. A rammendare quest'ultimo strappo che compromette l'unità della coscienza umana, AchilHni s'adopra con ogni accorgimento dialettico, pur mantenendosi fermo sulla tesi averroistica fondamentale: l'unità dell’intelletto. È interessante seguirlo nel suo tentativo. Lo sviluppo dell'organismo umano s’inizia con una fase puramente vegetativa, come dice Aristotele. Principio delle funzioni vegetative nell'embrione è la così detta ANIMA vegetativa – Alice: Is mustard an animal? --, all'apparire della quale la precedente forma mixtionis si corrompe. Così, nella SECONDA fase dello sviluppo embrionale – GRICE: WHEN BABIES HARDLY MEAN, IF NON-NATURALLY AT ALL --, alla forma vegetativa subentra quella sensitiva – ANIMA ANIMATIVA SOUNDS CLUMSY – GRICE -- , mentre la prima si corrompe. Ma qui Achillini si domanda. Allora dovremmo dire che. prima d'essere animale, l'embrione nella prima fase è *pianta*, -- GRICE: OR IS THIS A MERE IMPLICATURE --? No, egli risponde; perché altro è ESSER PIANTA – cabbage izzing --, altro è vivere a mo'di – METIER OF -- pianta, come dice appunto Aristotele. L'anima vegetativa d'una pianta – GRICE CABBAGE -- è termine della nascita di quella pianta, ed è quindi forma determinata e PERFETTA -- perfetta nella sua specie – Tigers tigerise. La forma vegetativa nell'animale – TIGERS TIGERISE – SQUARRELS – PIROTS – PIROTOLOGY --, invece, è forma indeterminata e imperfetta – NON METIER --; più che punto d'arrivo, è preparazione e AVVIAMENTO ad un GRADO più alto di VITA – Grice PHILOSOPHY OF LIFE. Questa è in via, direbbe ALIGHIERI, quella è già a riva. In questo concetto del passaggio dall'indeterminato al determinato parrebbe dovesse cercarsi la chiave per intendere come l’intelletto, unico in sé, s'unisce all'anima sensitiva a costituire un individuo umano particolare – LIKE PAUL GRICE, PAUL GRICE. Ed è concetto aristotelico che mitiga alquanto la crudezza dell'altro concetto, essere le forme sostanziali come i numeri e come le figure della geometria, di cui non si dà aqcrescimento o diminuzione senza cambiamento di specie – GRICE ARISTOTLE LIZIO ANALOGY LIFE WITH NUMBER – ONLY UNDERSTOOD AS SERIES. Aristotele appunto, nel De generatione animalium, dice che nel processo genetico non nascono insieme l'animale e l'uomo, né l'animale e il cavallo – it’s an implicature – there is an animal in the backyarrd: my aunt – URMSON. Dal che parrebbe che l'animale, che precede l'uomo e il cavallo, dove essere NON UNA FORMA DETERMINATA e specifica, ma una forma generica e indeterminata, la quale tende là a determinarsi in cavallo, qua in uomo. – qua in TIGRE, qua in SQUARREL, qua in PIROT, qua in cat --.Venendo a parlare appunto del processo genetico umano, il maestro bolognese si chiede an in ipso homine animam intellectivam expectet sentitiva. E per risolverlo, ricorda anzitutto quali, a suo modo di vedere, ne sono i due presupposti. Unum, quod intellectus -- GRICE RATIO -- sit forma informans materiam, dans esse hominem – PERSONAM GRICE. Aliud, quod prius tempore sit anima sensitiva in materia, quam intellectus possibilis. Quorum primum in De intelligentiis declaravi, et etiam in De orbihus, quaestione de motu intellectus. Quibus addo, quod ambo illa asseruntur ab Aristotele, De genevatione animalium, dicente. Sed quamobrem talem animam prius haberi necesse sit, ex his quae De anima disservimus apertum est. Sensualem autem, qua animai est, tempore procedente, recipi et RATIONALEM, qua homo est, certum est. Quest' anima sensitiva che precede l'apparire dell'intelligenza O RAGIONE – GRICE HOLLOWAY --, è una forma generica e INDETERMINATA – Timothy -- che prepara l'avvento d’un'altra forma più determinata, pella quale l'uomo comincia già a distinguersi dal cavallo – o del CHIMP – read chimp lit. GRICE -- e dagl’altri animali; e questa è la cogitativa. La cogitativa è nell'uomo Purg. Arist., De gen. animai. De elem. quello che negl’altri animali – GRICE TIGER SQUARREL CAT -- si dice estimativa, ed è, insieme all’immaginativa, alla memorativa e al sensus communis, uno dei così detti sensi interni. Come l'estimativa negli animali – NON UMANI GRICE DISIMPLICATURA --, anche la cogitativa, che talora è chiamata essa pure ESTIMATIVA – GRICE I LIKE THAT, SINCE ONE IS AWARE OF DISIMPLICATURE -- ha la funzione di distinguere e giudicare sensibilmente le percezioni – GRICE POTCH COTCH -- particolari e quello che v'è nelle cose apprese d’utile e di dannoso – PER L’UOMO NON IL CHIMP. Per questo essa è chiamata anche ratio particularis – o PARTICOLARIGGIATA GRICE; ma è facoltà sensibile, legata all'organismo, tanto che i medici e anatomisti antichi e medievali l’assegnano come organo il ventricolo medio del cervello, mentre all'immaginativa assegnano quello ventricolo anteriore del cervello, e alla memorativa – GRICE PERSONAL IDENTITY --- quello ventricolo posteriore del cervllo. Ma oltre alla funzione ora accennata, la cogitativa umana ne ha un'altra, pella quale si distingue SOSTANZIALMENTE dall'estimativa degl’altr’animali – who cannot but potch, never cotch or MEAN, M-INTEND --: essa è ordinata a preparare quelle immagini sensibili, o fantasmi, quasi riassunto di tutto il mondo dell'esperienza sensibile, che l’intelletto o RATIO fa oggetto d’elaborazione mentale, scientifica – fa scienza, scire --, traendo fuori dalle rappresentazioni particolari il concetto universale – GENERALIZZATA. Mentre nell'animale inferiore all'uomo l'anima sensitiva, per mezzo dell'estimativa, si può dire sia giunta a riva, ed abbia raggiunta la più alta perfezione di cui è capace, non così è della cogitativa UMANA, la quale, per quest'ultima sua funzione O METIER preparatoria all'atto dell'intendere O RAGIONARE, è ordinata per sua natura RATIO ESSENDI a congiungersi coll'intelletto possibile. Questo alla sua volta, nella gerarchia dell’intelligenze separate, è quello che tiene l'infimo grado, perché, pura potenza d' intendere, è ordinato, per iniziare il suo passaggio all'atto, ossia per divenire intelletto in atto, all'apprensione intelligibile delle forme del mondo sensibile, di cui la cogitativa gli somministra le rappresentazioni particolari. Perciò non si può dire che la cogitativa sia la vera forma dell'uomo, come pure diceno molti averroisti, e che per essa l'uomo si distingue dagl’altr’animali. O se vogliamo, essa è forma, sì, ma incompleta. E questo perché la cogitativa umana Fondandosi su un famoso detto d'Averroè, De anitna, comm. Et per istum intellectum queni vocat Aristoteles passibilem, e che Averroè denomina cogitativa differt homo ab aliis animalibus. Al qual detto gli’averroisti sigieriani n’opponeno però un altro, tratto d’un commento allo stesso De aniìiia: Cum per hanc VIRTVTEM RATIONALEM difterat homo ab aliis animalibus. non è ancora giunta a riva; a riva essa giunge quando è unita all'intelletto possibile, che, alla sua volta, è ordinato per sua natura ad essere eternamente unito alla cogitativa umana, negl'infiniti individui della specie. V’è insomma tra la cogitativa umana e l'intelletto possibile un vincolo sostanziale, per cui l'una è ordinata per natura all'altro, e reciprocamente, ed entrambi si completano a vicenda. Forma completa dell'uomo, sia in universale, quanto alla specie, sia in particolare, quanto ai singoli, è dunque l'intelletto possibile unito alla cogitativa; e non solo forma assistente, ma vera forma informante che dà all'uomo L’ESSERE – GRICE IZZING HAZZING – d’uomo e ne fa il soggetto dell'intendere. A prima vista potrebbe parere, e certe espressioni potrebbero indiirci a crederlo, che l'anima cogitativa, tratta dalla potenza della materia, e l'intelletto possibile, venuto dal di fuori, fossero due nature, due quiddità diverse, due forme, anzi due anime. Ed effettivamente esse stanno nell'uomo a rappresentare due modi di conoscenza che Achillini, come a LIZIO E ACCADEMIA, son parse irriducibili. Duo igitur svint principia cognoscendi in ncibis reperta: unum universaliter, et est intellectus, et est incorporeus, inorganicus, incorruptibilis; aliud vero singulariter, et est sensus, et est virtus in corpore et organica et corruptibilis, et est anima cogitativa, Ma poiché la cogitativa è forma incompleta ed è ordinata ad unirsi all'intelletto, e questo alla sua volta è complemento di quella, possiamo ben dire che dalla loro unione risulta un'anima composta, come dice Sigieri, la quale è tutta intera forma dell'uomo. GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL – executive legislative judiciary INTENZIONE --.Tuttavia, poiché la cogitativa è forma incompleta che riceve il suo ultimo complemento dall'unione coll’intelletto, possiamo dire ugualmente che 1'intelletto termina il processo della generazione umana, e che esso ha da ritenersi forma dell'uomo a più forte ragione che non l'anima cogitativa: Quamvis in homine duae species colligentur, ibi est tantum intellectus, qui est ultima forma, qua homo est homo. Cogitativa igitur forma non est ultima, sed ordinatur in intellectum. Non tamen est homo unus per simplicem formam, sed per composi De ehm. tissimam; nullum enim est mixtiim homine compositius. Habet igitur homo duo esse: unum est esse inateriale a cogitativa; reliquum vero est esse divinum PERSONA GRICE -- ab intellectu possibili. Perciò Achillini nei QuoUbeta de intelligentns, ai quali più volte si riferisce nel De elementis, dice: Non potest intellcctus informare materiam, non informante cogitativa, quia non stat materia sine forma constituta in esse per eam. Neque potest cogitativa informare, non informante intellectu, quia, dato informabili ultimate disposito et informativo, ponitur informatio. Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum ad recipiendum inteilectum. Le quali parole, secondo la testimonianza di Nife, son tolte alla lettera dall'opera di Sigieri, De intellectu ad AQUINO. De elementis abbraccia quaestiones intorno alle proprietà degl’elementi, e cioè alla quantità e alle loro qualità, al movimento, alla gravità, alla figura e al luogo proprio di ciascuno. E poiché le teorie di Heytesbury, o Heutisbery, come lo chiamano, e quelle di Suisset, o meglio Swineshead, sono venute a scompigliare le idee dei maestri bolognesi non meno che di quelli padovani, anche Achillini s' impegna in una prolissa discussione del problema di moda, se di ogni cosa naturale si da un massimo e un minimo – GRICE MAXIMIN --, sul quale nel corso delle sue lezioni e in trattati speciali ha a soffermarsi più volte anche Pomponazzi, imprecando ai CALCULATORES FORESTIERI DI MERTON GRICE -- e nostrani. A questo problema tien dietro una non meno prolissa discus De elem. NiFO, De intellectu et daemonibus Sigieri De elem. Pomponazzi, De maxima et minimo ad Laurentium Molinum, Ms. Ambrosiano R.; In Phys., Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Arezzo, Bibl. Frat. de'Laici, ms. Pomponazzi prende di mira particolarmente il suo concittadino Pietro da Mantova (VEDASI), nonché le due opere a stampa De reactione e Tractatus penes quid intensio et re-missio formarum attendatur. sione sul quesito utrum aliquid moveat se. E sebbene l'autore dichiara di voler trattare di ogni specie di movimento, celeste o elementare, animato o inanimato, sostanziale o accidentale, corporale o spirituale – GRICE I’LL MOVE MY ARM TO SCRATCH MY ITCHING HEAD --, egli s'intrattiene più a lungo intorno al moto naturale degl’elementi e dei misti e specialmente alla gravità ROMANA di NEWTON e leggerezza, ritenute con Aristotele e Averroè forme sostanziali dei corpi, all'azione del cielo, del luogo naturale, del generante e di ciò che rimuove l’impedimento al cadere – GRICE FREE FALL -- o all'elevarsi d’un corpo. Le stesse idee averroistiche che Achillini sostene a Bologna, aveva sostenuto a Padova Pomponazzi, commentando la Fisica. Ad un certo momento il maestro bolognese accenna anche al moto violento dei proiettili. E come Pomponazzi, sostiene egli pure che il proiettile lanciato movetur a medio e combatte la tesi dell'impetus difesa dai parisienses cioè da Buridano, Oresme, Albertuccio o Alberto junior di Sassonia, per non condonderlo con Alberto Magno, e altresì da Inghen, e portata a Bologna da maestro Biagio PELACANI (vedasi) da Parma che di Sassonia era stato alunno a Parigi. Seguono altri quesiti intorno ai quattro elementi e alle loro qualità sostanziali. La soluzione di essi è quella averroistica. Ma l'ultimo ha un'importanza speciale per il tempo in cui è posto: Dubitatur utrum terra sit ubique habitabilis. Il problema se l'era già posto SCHIAVONE, in una diff. del suo Conciliator, e l'aveva discusso con ampiezza, ricordando i viaggi di Polo e la relazione di frate Giovanni cordigliere, cioè del francescano Giovanni del Pian del Car De eleni. e specialmente sulla gravità e nerezza Bibl. Naz. di Napoli, ms. Questio Magistri Petri Pomponatii de motu gravium et leviiim, quam fecit Magister Petrus dum legeret Physicoriun. Sullo stesso argomento il mantovano ritorna nel commento alla Fisica, Arezzo, Bibl. Frat. de'Laici, ms., ove combatte la solutio de impulsu que communiter tenetur a parisiensibus De elem. Secunda est opinio Parisiensium. Maier, Zwei Grundprobletne der scholastischen Naturphilosophie: das Problem der intensiven Grosse; die Impetustheorie. Roma, e per Biagio PELACANI da Parma in particolare] pine. Achillini conosce e cita il Conciliator, ma di mala voglia e senza entusiasmo: Quod autem sub aequinoctiali continue habeantur ficus, aut quod aer sit ibi temperatissimae dispositionis, aut quod aninialia ibi habitantia temperatam habeant complexionem, aut quod paradisus terrestris ibi sit: sunt res quas experientia naturalis nobis NON ostendit. Il che è ben detto pel paradiso terrestre, ma non pell’altre cose ricordate, delle quali 1'experientia naturalis di arditi viaggiatori e missionari era cominciata d’un pezzo. Il filosofo bolognese, che pur sa qualcosa di ciò che costoro narrano d’aver visto e toccato con mano, senza avere il coraggio di negarlo, si contenta di dire che è cosa che non riguarda i filosofi intenti alla ricerca del perché, bensì gli storiografi cui spetta d' indagare se un fatto è o non è: Pro malori parte veritas illarum causarum ex historia quia est dante, petenda est; ideo haec historiographis relinquantur, et praesertim de Marco Veneto POLO aut dominico indiano loquentibus. Chi sia questo Domenico Indiano N. non sa dire. Ma coloro che parlano e scriveo dell'India e delle terre australi sono più d'uno. Negli anni stessi in cui Achillini compone il De elementis, s'aggira pell’India e le terre australi Ludovico de Varthema, che pare, e non senza buon fondamento, fosse oriundo bolognes. Usce per Benedictum Hectoris Bibliopolam Bononiensem l’edizione dei Quoliheta de intelligentiis, cui l'autore premise dubia sollevati dal conte Rangoni, al quale l'edizione era dedicata, insieme con le soluzioni di essi. Questi dubia nelle edizioni successive sono stati rimandati in fine dell'opera. Tutti questi scritti hanno, in complesso, carattere stretta Che cordelarius in francese cordelier significhi francescano o cordigliere, è sfuggito a Sante Ferrari, in quel suo volumaccio, pieno di tanti spropositi, I tempi, la vita, le opere di SCHIAVONE, del quale N. parla a lungoi, e il ove cordelarius è diventato un cognome, Cordellari! De eleni. mente filosofico, se per filosofia s'intende, come s'intende allora, la teoria della natura completata dalla metafisica. Le stesse questioni De suhiecto physiononiiae et chiromantiae e De suhiecto medicinae, ben poco hanno che riguardi da vicino la medicina propriamente detta. Tuttavia dalle Anotomicae annotationes, pubblicate postume dal fratello si può ricavare che maestro ACHILLINI, il quale regge una delle cattedre di Medicina Teorica, fu condotto a discutere di anatomia e di FISIOLOGIA – theoria della natura GRICE. In queste Annotationes infatti egli accenna più volte ad osservazioni da lui fatte. Lo studio bolognese, da quando Achillini assunse l'insegnamento della Medicina Teorica ha quasi sempre tre maestri deputati ad lecturam chyrurgiae, che di solito aveva per testo fondamentale l’Anatomia del Mondino, sulla guida del quale si conducevano le dissezioni dei cadaveri o anotomie, che si facevano con speciale messa in scena, pari a quella non meno solenne pella confezione della Triaca. A queste anotomie assistevano maestri e scolari e pell'occasione si sospendevano per otto o dieci giorni le lezioni. Siccome Achillini non fu mai deputato ad lecturam chyrurgiae, è verosimile che egli, come maestro di Teorica, abbia preso parte a qualcuna delle abbastanza frequenti anotomie tenute negli anni da lui stesso indicati e in altri ancora. Fra i maestri deputati a leggere Pazzini, La scoperta della membrana timpanica, nella rivista Valsalva scrive. Achillini lesse anatomia a Bologna, ma per breve tempo. Riprende la cattedra. La notizia è inesatta per più versi. Una cattedra d'anatomia a Bologna allora non esiste. Di anatomia si occupano il professore di Teorica, quando fa lezione su un testo di anatomia, per es. su talune parti del Canon di Avicenna o su alcuni trattati di Galeno ecc., e il professore di chirurgia. Achillini fu sempre professore di Teorica. Oltre a queste anotomie pubbliche, ve n'erano del resto anche di private che i maestri facevano per proprio conto, quando ne avevano la possibilità, a scopo d'indagine scientifica. Martinotti, L' insegnamento dell'anatomia a Bologna, Studi e memorie pella Storia dell'univ. di Bologna, Bologna. Ma l'autore non dà esempi pel periodo d’Achillini né dice che fossero frequenti. Chirurgia, insieme a Domenico della Lana, che già insegnava da vari anni, e a Biagio de'Mercuri, ucciso, compare nello studio bolognese la figura di Jacopo o Berengario da Carpi, detto semplicemente il Carpo. Questo illustre maestro, che gode della protezione d'Alberto Pio, signore di Carpi, commentando il Mondino, ha a correggerlo su molti punti, e domina la chirurgia bolognese del suo tempo, cui apre nuove vie, fino alla sua partenza per Ferrara. A proposito della scoperta del martello e dell'incudine nell'orecchio medio, gli storici della medicina sono incerti s’attribuirla ad Achillini o al Carpo, e sembrano quasi insinuare che vi fosse rivalità fra i due colleghi bolognesi. Il certo è che Achillini nelle Annotationes non ne fa cenno; e d'altra parte Carpo, nei Commentaria cum amplissimis additionihus super anatomia Mundini, stampato a Bologna, per Hieronymum de Benedictis. Pridie Nonas Martii, QUANDO IL COLLEGA ERA MORTO DI QUASI NOVE ANNI, trattando nel comm. di questi due ossicini, lungi dall'attribuirsene la scoperta, e informa che sunt aliqui qui volunt quod illa ossicula moveant aerem intra stantem et panniculum praedictum. E anche nelle Isagogae breves et exactissimae in anatomiam humani corporis, lo stesso Carpo torna a parlare dei duo ossicula e delle varie opinioni per intenderne la funzione. Se se ne discute, ed altri avevano opinioni diverse da quella di maestro Jacopo, è segno che questi duo ossicula sono notati da qualche tempo. Forse in qualcuna delle anotomie tenute dallo stesso chirurgo, e alle quali un maestro di teorica, qual è Achillini, non puo rimanere estraneo Giacché è ri-saputo come nel corso appunto di queste anotomie e nelle discussioni inevitabili a cui danno occasione, sono notate discordanze, le quali ogni giorno crescevan di numero, fra l'esperienza e le trattazioni anatomiche di Galeno, di Avicenna, di MONDINO (vedasi) o di Ugo da SIENA (vedasi), e si venne rinnovando la scienza anatomica. Achillini gode dunque a Bologna della più alta considerazione COME FILOSOFO e come medico e Del resto l'attribuzione di questa scoperta ad Achillini si fa risalire a ciò che ne dicono Eustachio Rudio e Giulio Casserio piacentino. Pasquali Alidosi, I dottori bolognesi di filos., Bologna, del favore dei Bentivoglio che gareggiavano coi signori di Ferrara e Urbino e coi Medici nel proteggere gli studi, le arti e i begli ingegni, Il fratello d’Achillini porta a termine il suo enfatico e strampalato poema intitolato Viridario, stampato a Bologna per Hieronymo di Plato Bolognese, e dedicato a de Medici Cardinale, bora Leone sommo Pontifice. Il fratello d’Achillini tesse le lodi di Bologna. Prima delle donne e dei gentiluomini illustri, poi degli studi che dan fama a Felsina. Fra i dotti bolognesi due ne indica in particolare. L’uno è Campeggi, giurista di gran fama, che dopo insegnare il diritto a Pavia e Padova, s'era fermato definitivamente a Bologna, a meno che il fratello d’ACHILLINI non intenda del figlio di lui, Lorenzo, che, insieme al padre, tene la cattedra straordinaria di diritto civile, egli pure giurista di grido e futuro cardinale, cui saranno affidate importanti e delicate missioni diplomatiche. L’altro è Achillini, che il poeta, suo fratello minore, esalta con orgoglio e ammirazione: Dui lumi chiari, ciascaduii divino: lune Campeggio, l’altro ACHILLINI. Di l’una legge e l’altra quel Campeggio, si come e voce e ver, porta corona. Negl’altri studii ACHILLINI veggio, che theologia sparge in ogni zona. l’alta PHILOSOPHIA laudar non deggio, che fama, e dell’altre arti, il mondo introna. Me glorio, godo, e laudo il creatore che a questo unico son fratel minore. Chi legge e intende l’opre sue superne, dove e insudato, gli da laudi gloriose e eterne. Hor pensi le lucubration, calami e lucerne scranno al letto ed al lettor salute. D’un lustro a punto il mezzo camin varca, sei debito farà l’orrenda parca che maestro ACHILLINI è DOTTISSIMO IN FILOSOFIA e nell’altr’arti lo sapevamo; ma ch’egli s’è addentrato anche fu anche del consiglio degli Anziani. Catalogus omnium doctoriini collegiatorum in artibus liberalibus, Bologna, un campo così diverso come quello degli studi di teologia, ci sarebbe facilmente sfuggito, s’il fratello poeta non richiama l'attenzione su questo aspetto della sua cultura. A dir vero, più volte, leggendo taluni dei suoi scritti, N. s’è accaduto d' imbattersi, senza farci troppo caso, in brani che, ben considerati, attestano nell'autore buona conoscenza delle cose teologiche – INDEED EXACTLY AS IN GRICE, WHEN HE SAYS, “I surely can commit to the 39 Articles without ever having read them” --, pari certamente a quella di Bacilieri, il quale, averroista alla maniera d'Achillini, non esita a dichiararsi pronto, s’il papa l'avesse gradito, a interrompere l'esposizione d'Aristotele e, re-lieto lumine naturali, propositiones creditas magna cum facilitate et brevitate resolutissimas reddere. Achillini avrebbe dovuto essere presente come compromotore all'esame di dottorato che quel giorno doveno subire maestro Spinola da Modena, che per un biennio era già stato rettore dello studio et optime se habuerat in officio, e maestro Guido da Pesaro. Dove invece farsi rappresentare d’un collega, perché tunc temporis iverat Romam, ut interesset disputationibus fìendis in capitulo generali fratrum minorum tam observantinorum quam conventualium, grafia sui honoris, studiique nostri ac almae civitatis bononiae. N. dirà quanto basta di questa disputa avvenuta in casa e sotto la protezione di Grimani. Il patrizio veneziano Taiapietra protagonista di questa disputa, al capitolo generale dei frati minori tenuto a Roma, giostra in difesa di quell'averroismo sigieriano che Achillini difende durante un altro capitolo generale di francescani a Bologna. L' invito deve essere stato rivolto ad Achillini Nella dedicatoria a Giulio II della lectura de anima di Bacilieri, Pavia, N. Sig. d. Brab. nel pensiero ecc.. A convincerci della buona conoscenza che ad Achillini non dove mancare delle cose teologiche, oltre ai molti luoghi nei quali egli mette in rilievo, su vari argomenti, il dissenso irriducibile tra filosofi e teologi, basta ricordare i accenni alla libertà degl’angeli De orò., dub., alla grazia infusa {dub.), alla duplice natura in Cristo [De eleni., art.), al peccato originale e alla giustificazione {art.), alla transustanziazione – GRICE TRANS-SUBSTANTIATION -- e all'identità del corpo di Cristo – GRICE ALMA MATER CORPUS CHRISI -- nel sepolcro e simili. Libro segreto del collegio Mùnster, Achillini, Riv. di Storia delle Scienze Naturali] da Grimani, per desiderio di Taiapietra stesso, cui dove stare a cuore d'avere al suo fianco, nel pubblico cimento, un maestro di tanta autorità, del quale condivide il pensiero. Però fu un peccato che maestro ACHILINI è assente da Bologna quel giorno, poiché maestro Bombaxia, priore del collegio di medicina, annota di suo pugno nel Libro Segreto del Collegio stesso: Et eadem die habuimus opulentam colationem a doctoratis; usanza non del tutto infrequente, e fatta oggetto, a quanto N. consta, anche di speciali norme regolamentari. Achillini, che era priore del collegio, carica già da lui coperta altre volte, dove provvedere alla sua incolumità personale, all'appressarsi delle milizie papali: Erat enim tunc temporis universa urbs in sagis ob terorem summi pontificis, qui magnis et GALLORVM ET ITALORVM copiis ad eam approperabat, ut urbem suam liberam in liberiorem redigeret; quod sibi sviccessit fuga optimatum bentivolorum, qui tunc ei preerant, suscepta. Come fautore dei Bentiviglio, egli era fuggito a Padova, mentre nella carica di priore gli era successo maestro de'Genuli. Giulio II fa il suo ingresso in Bologna, e i maestri dello studio andano a rendergli omaggio: Beatissimus sumnius pontifex Iullius papa secundus honorificentissime ingressus est praetorium fori bononiensis, tanquam Dominus benemeritissimus; et nostra collegia iverunt obviani ei pedestres usque ad mansionem prope positam strale maioris, cum vestibus et biretis rosaceis et banale de variis, et beatitudinem suam associavimus usque ad sanctum petrum. Sic enim consue visse alios collegiatos factitare, a Domino Paris de grassis, Magistro ceremoniarum, accepimus. Fuggito da Bologna, Achillini era accolto come maestro nella seconda cattedra ordinaria di FILOSOFIA NATURALE, a Padova. Ivi appunto lo troviamo come concorrente del Pompo Libro segreto Mùnster Libro segreto nazzi che occupa la prima cattedra, come risulta dal titolo dalla reportatio del corso di lezioni che il Peretto Mantovano tenne sul De substantia orbis di Averroè: Expositio libelli de substantia orbis ex. mi ac tempestate nostra naturalis philosophiae luminis Magistri petri pomponacci Mantuani. Patavij. dum primum locum ordinariae philosophiae, ad concurentiam ex. mi ACHILLINI bononiensis, publice profìteretur. Sebbene Facciolati pretende di sapere che maestro ACHILLINI era stato professore a Padova, e che ha per antagonista – GRICE WARNOCK GRICE STRAWSON GRICE PEARS GROCE THOMSON GRICE AUSTN JOINT SEMINARS GRICE QUINTON Pomponazzi, la notizia è smentita dai rotuli bolognesi e dagl’altri documenti del COLLEGIO DELL’ARTI che danno presente a Bologna Achillini ininterrottamente. Invece è certo che il mantovano ha a concorrente, quando ritorna a Padova, l'alunno e socio – GRICE STRAWSON PUPIL COLLEAGUE COLLABORATOR – d’Achillini, Bacilieri, lino alla partenza di lui per Pavia, e, partito questo, Fracanziano. Prima dunque che con Achillini, Pomponazzi s'era scontrato col di lui fido Achate, che del suo Enea non era per altro che una pallida e sbiadita ombra. Soltanto dunque Peretto si trova ad avere per concorrente Achillini, del quale già conosce il pensiero. Ma a giudicarne dal contenuto dell' Expositio libelli de substantia orbis, i dissensi fra i due, per quanto senza dubbio notevoli, non paion tali da dover degenerare in risse. Anzi, non ostante i dissensi, vi sono nell'esposizione pomponaziana molte pagine che il bolognese avrebbe potuto sottoscrivere a piene mani. Così, per esempio, quando il mantovano combatte la teoria avicenniana della forma corporeitatis coeterna alla materia; o quando tratta della dottrina averroistica delle dimensiones interminatae anteriori ad ogni forma corporea; o quando nega con Averroè che le sfere celesti siano animate d’un'anima sensitiva, distinta dall'intelligenza motrice, come pretende ugualmente Avicenna. Anche sul Cod. Vat. Regin. lat. grosso problema An caeluni sit compositum ex materia et forma, Pomponazzi si sforza di mostrare come le varie opinioni in contrasto si possan difendere e come si possan risolvere gl’argomenti che ad ognuna s’obiettano. Il suo aristotelismo e il suo averroismo insomma non hanno la rigidità intransigente del pensiero d’Achillini. Col quale il mantovano era in sostanza d'accordo anche nel dubitare della dipendenza delle intelligenze e dei corpi celesti dalla causalità efficiente del primo motore, e altresì della infinità intensiva del vigore col quale questo muove l'universo. La vera e profonda differenza fra l'uno e l'altro maestro, trovatisi di fronte a Padova, è questa. Achillini accetta integralmente l'interpretazione averroistica d'Aristotele, anche là dove altri aveva visto discordanze fra il testo e il commento e nel pensiero stesso d'Averroè nota non poche contradizioni, onde le molte opinioni sul vero pensiero dello stagirita e le diatribe fra gli stessi averroisti, ciascuno dei quali aveva in serbo il suo modo di risolvere quelle discordanze e contradizioni. Quello del bolognese rappresenta uno dei sistemi più coerenti d'interpretazione del pensiero d'Aristotele, dal punto di vista rigidamente averroistico. Per mezzo di sapienti accorgimenti logici, suggeriti dalla più scaltrita arte dialettica, per via d’impensati ravvicinamenti di testi e di sottili distinzioni, le contradizioni spariscono, i contrasti sono conciliati, le obiezioni mosse dai dissenzienti risolte, le dubbiezze dissipate. Di guisa che il sistema aristotelico- averroistico, costruito con procedimenti deduttivi che mentre scimmiottano quelli della geometria in realtà si risolvono in una caricatura del metodo matematico, ostenta una compattezza in tutte le sue parti, sì da dare l'illusione della raggiunta certezza, in cui l'animo si quieta e non sente più l'acre puntura del dubbio. In questa superba convinzione d’essere ormai arrivato al segno che si tien gran miracol di natura, e prossimo alla copulatio coll'intelletto agente, Achillini non aspira orm.ai ad altro che ad assomigliare ad Aristotele, del quale dice con Averroè: qui divinus potius quam humanus; quoniam a M. D. annis cifra non est inventus error in eius dictis alicuius momenti; naturae enim consiliarius extitit', De phys. auditu. A Pomponazzi, al contrario, questa balda sicurezza dell'infallibilità d'Aristotele e d'Averroè era venuta meno. Egli non soltanto afferma quod Aristoteles non fuit deus et ipse non novit omnia, ed ugualmente quod Commentator erravit neque ipse est deus, ma spesso dichiara di non riuscire a intenderli, che preferirebbe esser discepolo che non maestro, talvolta anzi non esita a qualificare pazzesche, dal punto di vista della stessa ragione umana, le loro dottrine. Ma il più spesso, da quell'uomo faceto che era, più che incaponirsi a dissolvere gli argomenti dei suoi avversari, cosa non facile senza accettarne taluni presupposti, il che l'avrebbe condotto ad invischiarsi in un perpetuo circolo vizioso, senza via d'uscita, preferiva motteggiare con essi e svignarsela con qualche piacevole e magari salace barzelletta. Esempi: stava esponendo il De cado, e precisamente il commento averroistico al testo, là dove si pretende di poter dimostrare con arzigogoli sillogistici che il mondo non potuisset esse nec maior nec minor, secundum philosophos, perché esso ha d’esser proporzionato alle dimensioni dell'uomo, cum mundus sit propter hominem. Questo modo d’argomentare stuzzica LA VENA UMORISTICA ldel Peretto: Modo, si mundus esset maior, homo non posset vivere; nam si haberetis thalamum maximum, non possetis vivere, quia ibi esset nimis frigus. Unde si Sanctus Petronius esset in decuplo maior, organum, quod nunc habetur, non posset sentiri per totum. Similiter, si mundus esset maior, sol esset nimis parvus, et sic non posset calefacere, et sic corrumperetur homo. Similiter, si esset minor, nimis sol calefaceret, et ita non possent esse plures celi. Mundus ergo non potest esse maior neque minor; et est sicut dicebat illa bona mulier, quod virga bene manebat in vulva sua, et quod virga non oportebat quod fuisset nec maior nec minor, nec grossior nec subtilior, nec curtior nec longior; ita quod era, ut dicitur, a punto. Et hoc respondent fatui philosophi ad istam dubitationem. E perché, mentre il moto violento dei proietti è più intenso da principio e poi va rallentando, il moto naturale dei gravi e dei leggieri est in fine velocior? La ragione ve la dà Averroè Arezzo, Bibl. Laici Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Arezzo, ms. Parigi, ms. lat. Parigi ms. lat. Et ponit conimentator huius rationem: v. gr., grave descendens in fine velocius est quam in principio, quia confortatur ex desiderio finis et termini; ideo intenditur desiderium, et intento desiderio intenditur virtus motiva et motus. Exemplum do vobis: quando vos itis ad amicam et appropinquatis illi, antequam figatis priapum, vos mandate fuor el seme in sulle cosce. Similiter, quando aliquis est clericus, non desiderat papatum; sed quando incipit liabere sacerdotia magna, incipit desiderare episcopatum, postea cardinalatum, et tunc, quando est cardinalis, magnopere papatum desiderat, quia illi est propinquus. Et ita dicit commentator. Commenta il primo delle Meteore, e precisamente il capitolo della pioggia, della rugiada, della grandine, della neve e della brina. Seguendo passo passo il testo aristotelico e prendendo in esame le varie opinioni così poco convincenti intorno alle cause del riscaldamento e raffreddamento, della siccità e dell'umidità, esce in queste dichiarazioni: Ego multos annos consideravi ista, et ex toto mihi non satisfacio, et volo addiscere 2as dubitationes quas nescio solvere, et solutionem relinquo istis meis sociis qui cenant cum deo et omnia sciunt. Domini, ego dico vobis sicut dicebat Petrarca: Così ben io potessi con lingua exprimere quaelibet mente concipio. Domini et filij mei, dicam vobis veruni: certe quo ad nostrum saeculum, multum laudo fratres sancti Hieronymi, id est li lesuati, quoniam non student et nihil faciunt nisi dicant Pater noster et Ave Maria. Et ita contenti vivunt et sine molestia. Et quantum ad alium saeculum, magis laudo, et mallem habere conditiones Socratis, qui ad hoc devenit et dixit hoc: Unum scio quod nihil scio, quam conditiones Aristotelis, quem credo quod multa finxerat se scire, quae tamen ipse ignoraret. Dico vobis quod ista nescio solvere. Solvant qui continuo prandent cum deo qui habent intellectum adeptum. I soci che pranzano e cenan con Dio e san tutto, sono evidentemente quegl’averroisti che, come Achillini e Bacilieri, ritenevano fosse concesso al filosofo di giungere, in questa vita, al termine dello sviluppo filosofico e al congiungimento coll’inteletto agente, nel quale consiste il pieno appagamento del desiderio umano di sapere. Giovio si trovava a Padova discepolo del Peretto, quando questi ebbe per concorrente Achil Parigi, ms. lat. lini fuggito da Bologna; sì che quello che egli racconta dell'uno e dell'altro è testimonianza di quanto ebbe ad osservare. Al grande cacciatore d’aneddoti non pare vero di tramandarci qualche fugace impressione, colta a volo, intorno ai personaggi del tempo, nei quali s'era imbattuto. Egli infatti niente ci dice dell'insegnamento d’Achillini a Bologna. Ce lo rappresenta a Padova, averroista che gode fama di solido e ben digesto sapere, mentre Pomponazzi, astioso rivale, mosso d’ambizione, gli vuota la scuola. Un po'trasandato nel vestire e nel portamento, ma con fronte sempre raggiante, sicuro di sé, eccolo là al portico pretorio, nel circolo dei dotti, mentre nel rozzo gergo scolastico affronta l'avversario e cerca d' irretirlo entro le maglie dei suoi bifronti e cornuti entimemi. E talora sembra averlo abbattuto col vigore delle sue stoccate. Ma il più delle volte quello sfugge alla presa del’armi dialettiche, l'impeto dei colpi vibrati cade nel vuoto,, stornato d’una facezia o d’un motto salace, salsa dicacitate, che suscita, in chi assisteva a quelle giostre di sillogismi, le più scroscianti RISATE – GRICE IF I FEEL I NEED VALUE I HAVE VALUE --. Laughter in philosophy, not at philosophy. Negli anni del soggiorno padovano Achillini attese a riunire in un sol volume le opere che aveva stampate separatamente a Bologna e che abbiamo elencate fin qui. La prima edizione degli Opera omnia fu fatta a Venezia a spese degli eredi di Scoto. Essa comprende i Quolibeta de intelligentns, il De orbibus, il De universalibus,.il De elementis e le questioni De principiis chiromantiae et physionomiae, De potestate syìlogismi e De subiecto medicinae Capparoni, Profili bio-bibliografici di medici e naturalisti celebri italiani Roma, dice addirittura che a Padova Achillini ha a soffrire l'invidia di Pomponazzi col quale sostenne non lievi dispute, avendolo ad avversario poco cortese e corretto. Tutto questo mi pare che aggravi un po'troppo il racconto di Giovio Giovio, Elogia virorum literis illustrium. Basilea. In questa edizione dell'opera di Giovio si trova quel ritratto d’Achillini che Mlinster riproduce di seconda mano, dichiarando di non sapere donde provenga. Un ritratto del filosofo bolognese Giovio possede nel suo museo a Como. Una copia d’esso, se non proprio l'originale, si trova nel ballatoio della sala Fagnani presso la bibl. Ambrosiana di Milano, somigliante all'immagine degl’Elogia. Altro ritratto d’Achillini è posseduto dal museo dell'università di Bologna. La dedica al Bentivoglio naturalmente fu omessa. La partenza di questo insigne maestro lascia un gran vuoto nello studio bolognese, e l’autorità accademiche, che non riuscivano a colmarlo, lo sollecitarono a ritornare sulla sua cattedra, minacciandolo dell'ammenda di cinquecento ducati d'oro e di pene anche più gravi, ove non avesse ottemperato all'ordine Così egli fa ritorno in patria, ove riprese la sua attività normale di dottore del collegio dell’arti, e l’insegnamento della filosofia naturale; tanto poco il nuovo regime papale si preoccupa dell'opposizione che avrebbe potuto venirgli dalla filosofia. Al periodo del ritorno a Bologna appartiene il De distinctionibus, edito quivi, per Ioannem Antonium de Benedictis L'opera concerne i concetti trascendentali di ente – GRICE MULTIPLICITY OF BEING -- , uno, vero – GRICE TRUTH -- , buono – GRICE GOOD PROLEGOMENA, e quelli di essenza – GRICE IZZING HAZZING, di cosa, di identico – GRICE RELATIVE IDENTITY --e distinto, della distinzione reale e della distinzione concettuale, delle formalità scotistiche, della relazione e dei suoi fondamenti, dell'analogia – GRICE POMPONAZZI VIRGA IN VULVA MAGNITUTE MONDI -- e dell'uso di questi concetti; di guisa che la trattazione ci dà, di scorcio, un sommario di tutto il pensiero metafisico d’Achillini intento a salvare e a conciliare la dottrina d'Averroè con quella dei maggiori – NON MINORI GRICE BOSANQUET WOLLASTON -- maestri. Come Da una lettera dei Quaranta riformatori dello studio bolognese, pubblicata da Podestà, Di alcuni docum. ined. riguardanti Pomponazzi, Atti e Mem. della R. Deput. di Storia Patria pelle provincie di Romagna, Bologna, appare che i riformatori avevano già prima fatte le loro rimostranze, perché s'era assentato senza licenza. Achillini s'era scusato cum dire che ne fu concessa hcentia dal M. co Sr. Confaloniero d' Justitia e che senza di ciò non sarebbe mai partito. Ma i Quaranta repUcarono che la licenza non era stata né richiesta né concessa nella forma valida. Perciò s'affrettasse a far ritorno, se non voleva esser multato di 500 ducati d'oro o colpito con altre gravissime pene nelle quali incorrono li nostri doctori che partono da Bologna SENZA LICENTIA per andare a legere fora nelli externi studi. Tuttavia l'AchiUini non ritornò che un anno dopo. Nel Lib. Partitorutn (Arch. di Stato di Bologna, si trova che con 19 su 19 fave bianche I conduxerunt Ex.m Artium Doctorem, D. M.m Achilinis ad legendum in STUDIO BONONIE col salario di 900 lire bolognesi, integre e privilegiate, e alla condizione di leggere teorica ordinaria al mattino e FILOSOFIA ORDINARIA la sera. La formula conduxerunt vuol dire che si tratta di un nuovo ingaggio. maestro di teorica, commenta la prima fen del IV libro del Canon d’Avicenna. Ripreso il corso delle lezioni, egli si dette a esporre il De physico auditu di Aristotele. Ma l'esposizione è interrotta dagli eventi bellici. È noto come il grande capitano Trivulzio, al servizio del re di Francia, riprende BOLOGNA al papa e come ri-apre le porte al ritorno dei Bentivoglio. Ma Giulio II, fatta lega, non tarda a usare dei servigi delle truppe PER FAR BOMBARDARE BOLOGNA e ridurla all'obbedienza della chiesa. Sorpreso dagl’avvenimenti, il maestro continua a far lezione finché gl’alunni, per fuggire all'assedio, non disertarono lo studio. Penetrato di sorpresa in città Foix obbliga a SBLOCCARE BOLOGNA. Ma dopo la battaglia di Ravenna, PERDUTO L’APOGGIO FRANCESE, i Bentivoglio dovettero di nuovo prendere il largo. Com'era suo costume, Achillini fa volentieri a meno di pubblicare questo frammento d’esposizione del De physico auditu. Ed infatti egli non mai pubblica nessun commento a scritti d'Aristotele o d'altri, bensì trattazioni originali sebbene ispirate al pensiero d'Aristotele e d'Averroè. Perciò sorprende N. assai quello che Miinster scrive degli Opera omnia nell'edizione curata dall'autore stesso: Si tratta in gran parte d’opere d'Aristotele, d’Alessandro Afrodisiaco, d'Averroè ecc. provviste di commenti d’Achillini. Ma ch'egli, non che scorsa, non ha mai visto in faccia questa edizione, è provato dal fatto Nel cod. Latino, BOLOGNA, si trova, tra altre cose d’Achillini, una expositio supra prima Avicennae Frati, Indice dei codici latini conservati nella R. Bibl. Univers. di Boi., Firenze Fantuzzi, Notizie dei bolognesi, dice, senza per altro citare la fonte, come tenendosi una radunanza di teologi, di dottori legisti e d'altri uomini insigni, per consultare se si dovea ricevere il legato proposto a BOLOGNA dal conciliabolo di Pisa, cioè il Cardinale San Severino, fatto legato di quella radunanza e governatore di BOLOGNA, gl’aderenti a' Bentivoglio sostenevano l'affermativa, e fra essi Achillini piià d'ogni altro aringo con grande arte ed impegno per sostenerla. E se non potè ottenere l' intento, ne venne però, che fu determinato di non ricevere né questo né quello destinato allora da Giulio. Riv. di St. delle Se. Med. e Naturah che fra le opere incluse in questa edizione pone il De physico auditu, e il De niotimm proportione. Achillini, dunque, per sua esplicita dichiarazione, non pensa affatto a dar in luce una nuova esposizione dell'opera aristotelica, parendogli che bastano quelle latine che correvan pelle mani di tutti. In ciò fu imitato da Pomponazzi, che non pensa mai a dare alle stampe alcuno dei numerosi commenti ad Aristotele, lasciati inediti nelle riportazioni dei suoi alunni. Quello che decide il bolognese a desistere dal suo proposito, è quanto egli stesso scrive in principio del frammento: Fugeram olim Peripateticorum principis Aristotelis librorum interpretationes notis mandare, quoniam expositores Latini evolvere ipsos cupientibus textum AristoteUs piane aperuerunt. Difficultates autem circa sententias Aristotelis et Averrois contingentes, ex libris a me editis non difficile erat comprehendere. Sed quia varii auditores varia fragmenta philosophica, me legente, varie collegerant, et me inscio meo nomine publicaverant, non passus sum ut, quae nostra non erant, prò nostris haberentur. Ideo coactus sum haec scripta, tum apponendo tum variando tum rescindendo, diligentius repurgare, ut ipsa, manu propria elaborata, proprium auctorem recognoscerent. E alla fine dell'opera: Hucusque nos prosecuti sunt audientes. Quod si amplius durassent, noster labor longior fuisset. Et haec nostra recognoscens, fragmenta esse voluissem, sed fractionum fragmenta sunt, quoniam eis comminutiva fractio supervenit, BONOMIAM armis impetentibvis et moenia machinis deicientibus. Per giocondità del lettore N. aggiunge che nel volume della Storia dell'università di BOLOGNA di SIMEONI (vedasi), Zanichelli, Bologna, si legge che Achilhni, Achillini, Expositio primi Physicoriitn. E infine: Expli ciiint fragmentorum fractiones physicales ab Alex. ACHILINI BOLOGNA ordinariam theorice de mane publice docente. Impresse per Hieron. de Benedictis civem BOLOGNA. Questa avvertenza è stata omessa nell'edizione degli Opera omnia curata da Monti, e nell'edizione di Monti, se non scopritore, è almeno il primo descrittore degl’ossicini dell'orecchio nel suo De physico auditu. Con che Simeoni pare credere che in questa opera Achillini S’OCCUPA DELL’ANATOMIA DELL’ORECCHIO! E questa dove essere un'opinione ben radicata in SIMEONI, se anche poche pagine dopo scrive che il bolognese è celebre tanto COME DIALETTICO quanto come anatomico e medico, e che le opere che d’ACHILLINI possediano che trattano tanto De universalibus come De physico auditu, mostrano questo doppio carattere. Ora nel De physico auditu non si parla affatto di cose attinenti all'ANATOMIA – GRICE THE CAUSAL THEORY OF PERCEPTION --, bensì di quello di cui Aristotele parla in quest'opera e, fra l'altro, anche degl’universali, ma dell'organo dell'udito proprio no. Un'altra opera composta d’Achillini lasciata inedita è il De proportione motuum. L'argomento riguarda il rapporto che Aristotele nella fisica stabilisce tra la forza, la resistenza e la velocità del movimento, e il tentativo da parte di Bradwardine, Oresme ed altri calculatores – GRICE MERTON -- di tradurlo in un rapporto matematico o SIMBOLICO – AUSTIN SYMBOLO. Le dottrine di costoro, portate in Italia da PELACANI (vedasi) da Parma, Parisius doctoratus, suscitano vive controversie tra coloro che accettano la novità delle calculationes e gl’averroisti che alle nuove dottrine sono piuttosto ostili. Achillini si mostra pienamente informato dello stato della questione, allora dibattutissima anche a Padova e Bologna. Conosce e cita il commento di Campano alla geometria d’Euclide, l'arimmetica di Nemore, i trattati calcolatori di Bradwardine, Swineshead, Heytesbury, Oresme, Alberto di Sassonia, NICOLETTI, Marliani in sua quaestione subtili de proportionibus, insomma tutta la letteratura dell'argomento, che noi oggi ben conosciamo attraverso le dotte e dihgenti ricerche di Maier. Intento del maestro bolognese è quello di salvare le regole delle proporzioni formulate d’Aristotele ed Averroè nella fisica e d’accordarle colle teorie calcolatorie, a differenza di quello Die Vorlàufer BONAITUO GALILEO GALILEI Roma; An der Grenze von Scholastik u. Naturwissenschaft, Roma che pensa potesse farsi, pochi anni dopo la morte di lui, Pomponazzi. L'opera non potè essere pubblicata dal filosofo bolognese perché prevenuto dall'improvvisa morte. Hain registra quest'opera d’Achillini col titolo De distyibiitionihus ac proportione motuum, e la dà stampata a Bologna, per Benedictum Hectoris. Ma il gesamtkatalog dichiara l'esistenza di questa edizione zweifelhaft. N. la direi semphcemente INVENTATA. Per due ragioni. Primo, perché nell'opera sono citati il De orbibtis e il De elementis, sicuramente posteriori. Secondo, perché il fratello Filoteo che ne cura l'edizione postuma, la dà come inedita, nella dedica a Leone. Itaque ACHILLINI ipsius auctoris nomine quando ipse funere praeventus acerbo non potuit ea sanctitati tuae nuncupatim dico. Ma, coll'animo profondamente amareggiato per gl’avvenimenti che turbano la serenità dello Aliqui ergo ducti inani gloria voluerunt salvare Aristotelem; Inter quos fuit Marilianus, qui construxit tractatum in quo intendebat salvare Aristotelem; et aliqui fecerunt tractatum centra Marilianum. Et totus mundus apud me non salvaret Aristotelem, et Aristoteles sibimet contradicit, et videbitur aperte errasse, et una regula alteri contradicit. Fortassis enim quod decipior; sed iudicabitis vos per dieta Aristotelis, quod non potest salvari. Aristoteles etiam fuit homo et decipi potuit, sicut etiam possibile est me decipi. Pomponazzi, In ynm. Phys., ms. aretino, Bibl. de' Laici. Giunto alla fine della sua riportazione, l'alunno, che dal cod. della Kungl. Biblioteket di Stoccolma Giom. Crit. Filos. It. appare essere quel Magister Hieronymus Bonus o de Bono, da Bologna, laureato in Artibus et Medicina Libro Segreto del Collegio, annota: P ribadire la scoperta di Mondini, che l’altre pretese opere anatomiche non erano che una sola, pubblicata con titoli diversi nelle varie edizioni, e per correggere l'errore accolto anche da Renzi, pur così informato. Tuttavia, N. non ha voluto prestar fede neanche al Mondini e a Medici, e ha voluto rer. L. e, Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia Fantuzzi dersi conto de visti della curiosa vicenda. N. così constata che la prima edizione è quella che vide la luce a Bologna, a cura del figlio d’ACHILLINI, col titolo d’Anotomicae annotationes, nella stamperia di Benedetti, con dedica a Monti, che di maestro ACHILLINI era stato alunno, ed ora tene la cattedra ordinaria di medicina teorica, BONONIENSIS GYMNASII splendor immortalis, nientemeno! Questa dedica ha nel frontispizio la ben nota xilografia, sormontata dal nome ACHILLINI; sotto il ritratto d’ACHILLINI, tre distici di Camillo da Correggio, artium discipulus. La dedica pare escludere che vi fossero edizioni anteriori. La stessa opera, col titolo De humanis corporis anatomia, usce a Venezia, per Io. Ant., et fratres de Sabio, colla stessa dedica del figlio d’ACHILLINI a Monti. Terza stampa della stessa opera è quella che apparve nel FascicuUts medicinae di de Ketam, ediz. veneziana per Caesarem Arrivabenum. In questa edizione l'opera d’Achilhni forma un trattato della raccolta, subito dopo l’anatomia di Mondino, e porta questo titolo: Annotationes anathomie ACHILLINI honon.; ed anch'essa ha la dedica a Monti. Dell'edizione di Venezia, in fol. secondo Capparoni, in 4° secondo Hirsch, nessuna traccia, sebbene altri la ricordino per sentita dire. Delle edizioni posteriori N. non si occupa. Il colmo in questo pasticcio pseudo erudito è raggiunto da Miinster il quale, dopo parlare della prima e della seconda opera secondo l'ordine di Capparoni e di Hirsch, aggiunge di suo che le annotai, anatomicae pare non siano un nuovo trattato, bensì l'unione delle due precedenti! Esempio tipico N. non sa se di disinvoltura o d'improntitudine letteraria, da parte di troppi filosofi, avvezzi a copiacchiare come scolaretti e a spacciare per certo quello che hanno appreso soltanto per sentito dire. Curioso è il caso di Pazzini. Nello studio già segnalato, sebbene parla di scritti anatomici, egli con questa espressione parrebbe tuttavia intendere le sole Adnotationes anatomicae che nel Fascicuhis medicinae di Ketam sarebbero state pubblicate, dice PAZZINI (vedasi), col titolo in Mundini Anatomiam adnotationes. Invece nella storia della medicina, Soc. Editr. Libr., Milano, Queste Anotomicae annotationes che il maestro bolognese lascia tra le sue carte, non costituiscono propriamente un'opera d’anatomia umana da dare alle stampe, ma lo schema forse d'un'opera che egli anda preparando e pella quale raccoglie osservazioni che gl’era accaduto di fare nel corso di diverse dissezioni anatomiche predisposte da lui stesso o insieme ad altri colleghi. Queste dissezioni avevano lo scopo di riconoscere nell'organismo umano quello che si legge in Galeno o in Avicenna, in Mondino o in Ugo da Siena. Nel corso di queste ricognizioni accade talora ad Achillini di notare errori commessi dagl’anatomisti precedenti, e discordanze fra quello che legge negli scritti di costoro e quello che gli rivela l'esperienza. Spesso egli ha cura di descriverci il procedimento col quale egli conduce la dissezione, e di suggerire il modo più adatto per mettere a nudo, senza lederlo, quell'organo o tessuto che si ha in animo di studiare. L'opera è semphcemente abbozzata. Ma anche in questo stato, essa costituisce un notevole documento di quello che s'anda maturando nelle scuole di chirurgia. Mentre le rumorose dispute intorno al modo d'intendere i testi classici dell'anatomia recano assai scarsa luce per una esatta rappresentazione della struttura dell'organismo umano, gì'impetuosi torrenti di parole s'arrestano, le ire si placano, quando gl’occhi dell'anatomista e di coloro che gli facevan corona nell'anfiteatro, si fissano su quello che il coltello mette a nudo, e la luce dell'esperienza rivela qualcosa di nuovo e d' insospettato. Il che del resto avvenne, non solo nel campo del coltello e dell'anatomia, ma nel campo del telescopio, e del microscopio, e in tutte le ricerche concernenti la natura, e non per influsso dell'umanesimo e del platonismo dell’ACCADEMIA, ma per un processo di critica interna, quasi dirai N. di autocombustione, in seno alle scuole darivate dal LIZIO. BONAIUTI Galileo GALILEI stesso vien dall'aristotelismo e del LIZIO in via di dissoluzione. Il ri-nascimento è frutto dell'approfondirsi e dell'estendersi dell'esperienza in tutti i campi del sapere naturale. Com'è noto, Monti, mentr'era professore vedo che è ritornato all'errore di Capparoni e Hirsch. S’avesse dato un'occhiata alla memoria di Mondini e all'opera di Medici, oltre alla correzione di questo errore, v’avrebbe trovato forse qualcosa che poteva giovargli anche pell'argomento da lui trattato, riguardante la scoperta della membrana timpanica.] a Padova, raccolse in un volume gli Opera omnia d’Achillini, cioè tutte l’opere che il maestro bolognese stesso da alle stampe, più il De proportione motuuni; e il volume, edito da Scoto a Venezia, fu dedicato al patrizio veneziano e chiarissimo filosofo Foscarini. Perché ne lascia fuori l’Anotomicae a?inotationes? Non certo perché egli non le ritenesse autentiche; ma verosimilmente perché gh parvero, come sono, opera frammentaria, piii schema e materia di opera che opera completamente delineata; o forse anche perché quelle note gli parvero ormai sorpassate e di scarso valore, dati i rapidi progressi che l'anatomia in quegli anni anda facendo. Sì che agli occhi dell'alunno editore l'opera dell' Achilhni degna d'essere presa ancora in considerazione e tramandata e meditata era opera di filosofo. E questa sola egli intese tramandarci con l'edizione da lui curata. Con le Annoiationes Monti trascurò altresì gì'inediti che non dovevano mancare sia tra le carte del maestro, o dispersi in riportazioni di scolari. Se ora ci chiediamo quale è stato il giudizio complessivo degli storici sull'opera globale dell'Achillini, dobbiamo constatare, anzitutto, che troppi son coloro che ne hanno parlato per sentito dire. E questo tanto tra gh storici della filosofia quanto tra quelli della medicina. Di costoro evidentemente non è da tener conto. Come non è da tener conto di giudizi come quello di Munster, il quale da ciò che dell'Achilhni narra a modo suo Giovio, è indotto a rappresentarcelo come schizzoide! Il primo che parla dell'averroista bolognese dopo averne scorse le opere, se non tutte, almeno i Qitoliheta de intelligentiis, fu, tra gli storici della filosofia, FIORENTINO nel suo POMPONAZZI. E a quel che ne dice allora l'onesto Fiorentino si rifanno su per giù gli storici posteriori, trascurando però taluni giudizi di questo e altri esagerandone fino a renderli irriconoscibili. Che Achillini fosse un averroista, tutti a un di presso s'accorsero; ma 1^4 Tuttavia l’Anotomicae annotationes non furon mai del tutto dimenticate e il nome d’Achillini vien ricordato d’anatomisti posteriori, anche quando le sue opere filosofiche sono ormai cadute del tutto in oblio. L. e, p. se averroista di più o meno stretta osservanza pare dubbio. La tesi che l'intelletto possibile, forma immateriale e incorruttibile, infima dell’intelligenze celesti, è unica per tutta la specie umana, è certamente tesi averroistica. Ma pare a Fiorentino che il bolognese si discosta dallo schietto averroismo, perché questo ritene 1'intelletto forma assistente e non informante dell'uomo, Achillini invece ammette che l’intelletto umano, pur essendo unico per tutta la specie, è vera forma informante che dà all'uomo il suo essere d’uomo. Se non che lo storico calabrese non pare s'accorgesse che con questa seconda tesi, senza rinnegare la prima, la dottrina averroistica non era affatto parzialmente abbandonata, ma anzi approfondita; e che, grazie a questo approfondimento, venivano a cadere tutte o gran parte di quelle obiezioni che si facevano alla tesi averroistica, di spezzare l'unità del soggetto umano cui s'attribuisce l'atto d' intendere. E già prima, Sigieri e Wilton, NICOLETTI e Pico, coetaneo del bolognese, interpretano il pensiero d'Averroè alla stessa maniera; e questo non per motivi di fede, ma per eliminare dalla dottrina aristoteUco-averroistica un assurdo evidente sul quale speculano gl’avversari dell'averroismo; tanto vero che l'anima razionale che vien detta informare l'uomo, resta in sé unica per tutta la specie umana. Non è pertanto esatto l'affermare che ogni seguace d'Averroè ritene l' intelletto forma assistente dell'uomo e non forma dans esse. Fiorentino è stato colpito anche d’un passo del De eiementis, ove si parla dell'unione dell' intelletto coll'anima sensitiva dell'uomo, e dove Achillini torna ad esporre con nuovi particolari la sua dottrina sigeriana esposta nei Quolibeta de intelligentiis. Ad un certo momento si domanda: Quomodo stat opinio Aristotelis cum fide? giacché tanto l'interpretazione che dà del pensiero dello Stagirita Averroè, quanto quella che ne dà Alessandro d'Afrodisia, secondo la ragion naturale, discordan dall'insegnamento della fede. E il nostro averroista risponde: Il fatto ch’entrambe discordin dalla fede significa che tutte e due son false, e che su questo punto, come su altri non pochi, bisogna che noi credenti abbandoniamo il filosofo. Ma dovendo scegliere a lume di ragione tra quelle due interpretazioni, entrambe false, quella che ha I miglior verisimiglianza, sceglieremo quella d'Averroè, perché, sostenendo questi che l'anima è forma informante che dà all'uomo l'essere di uomo viene a dire che l'intelletto, nell'atto d’unirsi all'uomo, termina il processo della generazione umana e quindi ha in qualche modo un cominciamento nel tempo, come appunto insegna la fede. In tutto questo N. non vede né incertezza né spossatezza da parte d’Achillini. Né tanto meno che egli si senta spinto ad accettare l'averroismo dopo averlo dichiarato falso. L'opposizione tra molte tesi difese d’Aristotele e la verità cristiana è comunemente ammessa, da quando Alberto Magno proclama che theologica cum physicis principiis non conveniunt, e che al filosofo che voglia trattare delle cose naturali secondo i principi della ragion naturale non deve importare dei miracoli della fede. È vero che AQUINO, combattendo l'interpretazione averroistica del pensiero d'Aristotele, s'è adoprato ad accordar questo col pensiero cristiano. Ma questo concordismo d’AQUINO non è parso né di buon gusto né di buon augurio, non solo ad averroisti come Sigieri, discepolo in questo d'Alberto Magno, ma nemmeno ad alcuni teologi che si ribellano al tentativo de Aristotele haeretico facere omnino catholicum. E molti, non solo maestri in artibus, ma anche teologi e commentatori delle sentenze di Lombardo, ritennero perfettamente fondata sul testo aristotelico e legittima l'interpretazione averroistica, salvo quando questa discorda da quella d’altri commentatori autorevolissimi, come Alessandro, Filopono od altri specialmente greci. Ora ai tempi d’Achillini e Pomponazzi, a BOLOGNA come a Padova, è obbhgo di leggere e discutere il testo aristotelico E il commento d'Averroè. Averroisti si diceo tutti quelli che, rifiutando il concordismo d’AQUINO, d' ispirazione avicenniana, mostrano ripugnanza a miscere diversa brodia, e, per quello che concerne il pensiero aristotelico, s'attenevano al commento averroistico. Il che non implica Fiorentino Metaphys., De gen. et corr. Rivista di Storia d. Filos. affatto che essi dove accettare le dottrine d'Aristotele quali sono esposte d’Averroè come loro proprio pensiero. Gl’averroisti potevano quindi con perfetta coerenza dichiarare che la dottrina dell'eternità del mondo e dell'unità dell'intelletto è dottrina vera e necessaria nel sistema del pensiero aristotelico, ma che questa dottrina è falsa secondo la fede che s' ispira all’angelo e non ai libri d'Aristotele. Il che è perfettamente vero anche per noi, dice N. Questo non hanno ancora compreso taluni storici della filosofia. Uno dei quali, dopo aver detto che enger an dem averroistischen Aristotehsmus schloss sich ACHILLINI an aus BOLOGNA, war PROFESSOR der philosophie, zuerst in Padua (!), in Bologna, wo er starb, aggiunge: So weit Aristoteles von dem christlichen Glaubensstandpunkt z. B. hinsichtlich der Schòpfung der Welt abweicht, ist er ini Sinne der Kirchlichen Lehre zu korrigieren. Il qual giudizio vien trasportato di sana pianta nella massiccia storia della filosofia d’ABBAGNANO, U.T.E.T. In realtà la preoccupazione d’Achillini costante è quella di correggere la dottrina aristotelica nel senso dell'insegnamento ecclesiastico. Ma egli v'aggiunge qualcosa di suo, che aggrava Ueberweg-Moog, Die Philos. der Neuzeit, Berlin. E già prima Renan, Averroès et l'averr., Parigi: Tout en reconnaissant que sur ces deux points, l'unite des àmes et 1'immortalité collective, la doctrine d' Averroès est conforme à Aristote, ACHILLINI rejette expressement ces théories comme opposées à la foi. E cita Ritter, Gesch. der neneren Philos., citato anche da Fiorentino. La stretta aderenza d’Abbagnano a Moog appare anche da quel che l'uno e l'altro dicono di ZIMARA. Scrive Moog: Noch strenger hielt am Averroismus fort ZIMARA aus Neapel. In ihnen Schriften suchte auch er den Averroismus mit Kirche zu vereinen. Die Einheit des menschlichen Intellektes wird von ihm als Einheit der allgemeinen Erkenntnisprinzipien gedeutet. E ABBAGNANO SU ZIMARA: E lo stesso, di spogliare l'aristotelismo e l'averroismo dei loro caratteri originari in omaggio ad una preoccupazione dommatica, accade nelle dottrine del napoletano ZIMARA, ma s’era di S. Pietro in Galatina presso Otranto, tanto che a Padova lo chiamano l'Otranto o l'Otrantino!, anch'egli professore a Padova, il quale interpreta l'unità dell'intelletto, sostenuta dall'averroismo, come l'unità dei principii universali della conoscenza. Dello stesso avviso pare è anche SAITTA, Il pens. ital. nell'umanesimo e nel Rinasc, Bologna. Le sue Contradictiones assai l'errore dell'autore tedesco: L'aristotelismo e l'averroismo sono stati qui spogliati dei loro caratteri originari, in omaggio ad una preoccupazione dommatica. Preoccupazione che Achillini, al pari degl’altr’averroisti, non mostra mai d'avere, anche quando, constatata l'opposizione fra Aristotele e il dogma, dice esser dovere del credente che tale voglia rimanere di ripudiare Aristotele, non di correggerlo, che vorrebbe dire travisarlo. In questo i nostri vecchi sono onesti e coerenti. L'ottimo Garin ricorda la breve preghiera che si legge in principio del De elementis: Luminum clarissima lux, qua ac solutiones ex dictis Aristotelis et Averrois parlano dell'unità dell'intelletto di tutti gl’uomini come l'unità dei principii universali del conoscere. Moog ed Abbagnano non citano alcuna fonte della loro affermazione. Saitta invece cita le Contradictiones di Zimara, senza però indicare un punto preciso. Ma egli non deve averle lette. Che lo ritengo troppo intelligente, se l’avesse lette, da lasciarsi scappare simile affermazione. E allora? Allora Moog, Abbagnano e Saitta derivano, direttamente o per via indiretta, il loro giudizio da Renan, Averroès et l'averroisme, ove appunto accade di leggere. L'unite de l'intellect est adoptée dans le sens de l'unite des principes communs de l'esprit, mais ouvertement rejetée en ce sens qu'il n'y aurait qu'un seul principe substantiel de la raison humaine. E Renan cita le solutiones contradicionum, Averrois opera, dell'ediz. di Venezia, più semplice e più comodo era citare le stesse solutiones contrad. super de anima, contr. Se Moog, Abbagnano e Saitta si fossero presa la briga d’andare a vedere questo luogo di Zimara, avrebbero potuto constatare, con non poca sorpresa, che Renan quel giorno dove essere febbricitante o ubriaco o fortemente distratto, giacché l'averroista otrantino in quel luogo DICE ESATTAMENTE IL CONTRARIO. Ivi Zimara, che s'era proposto di conciliare un'apparente contradizione fra due affermazioni d'Averroè, riporta un brano del commento di Temistio al De anima, ove si legge appunto. Unde enim communes illae animi conceptiones prae-notionesque communes omnibus haberentur? Unde indigentia illa impressaque omnium mentibus primorum notitia constitisset, natura duce, nulla ratione, nulla doctrina? Unde postremo intelligere mutuo et intelligi vicissim possemus, nisi iiniis singularis intellectus fttisset, quem communem omnes homines haberemus? Platone, osserva Zimara, con un simile ragionamento dimostra l'esistenza dell’idee. Temistio ed Averroè lo usano per dimostrare l'unità dell'intelletto; se no, bisogna ammettere che la scienza nell'alunno – STRAWSON -- si genera da quella del maestro – GRICE -- a quel modo che, secondo Aristotele, il fuoco si genera dal fuoco. Hoc autem sequitur secundum ponentes pluralitatem inteUectus, ut ipse Averroès opinatur. Niente di più si legge nell'opera di Zimara, il quale non si chiede affatto se questa dottrina s'accordi o meno colla fede. A lui basta chiarire il pensiero d'Aristotele e del suo commentatore, eliminando le contradizioni. L. e. omnes aliae veritates illiistrantur, me per umbras materiae tutum ab errore per Filium hominis ducas in te ipsum. E l'accenno a una breve preghiera è anche in principio del De physico aiiditu: Deus illuminatio mea [OXFORD] sit. Dominus illuminatio mea (Latin for 'The Lord is my light') is the incipit (opening words) of Psalm 27 and is used by the University of Oxford as its motto. It has been in use there since at least the second half of the sixteenth century, and it appears in the coat of arms of the university. An article written in 2000 by the Roman Catholic priest and theologian Ivan Illich (1926–2002) may help to explain this ancient university motto, at a time when scientists were progressively replacing the concept of vision as a gaze radiating from the pupil by the concept of vision as the retinal perception of an image formed by reflected sunlight: To interpret De oculo morali, the relationship of things to God "who is light" must be understood. This is the century [i.e., the thirteenth century] suffused by the idea that the world rests in God's hands, that it is contingent on Him. This means that at every instant everything derives its existence from his continued creative act. Things radiate by virtue of their constant dependence on this creative act. They are alight by the God-derived luminescence of their truth.[1] Other uses[edit] Dominus illuminatio mea is also the motto of Loyola High School (Kolkata) in India, founded in 1961.[2] It is one of the two mottos of Robert College in Istanbul, and it has appeared in the arms of the Robert College Alumni Association since 1957, next to Veritas.[citation needed] It is also the motto of Finlandia University, founded as Suomi College in 1896.[citation needed] Additionally, it is the motto of Cair Paravel-Latin School, a private college-preparatory school in Topeka, Kansas,[citation needed] and Nazareth Academy in Rochester, New York. It is also used by St Leo's College, University of Queensland, and by Drew University in Madison, NJ.[citation needed] It is found in the coat of arms of Montessori Professional College in Quezon City. Furthermore, it is the motto of Hallfield Independent School in Birmingham, UK, and Marymount Secondary School in Hong Kong, as well as Gregorian Public School in Kerala, India.[citation needed] References[edit] ^ Ivan Illich, "Guarding the Eye in the Age of Show" (PDF). Online Book, 2001, p. 16-17. ^ "Loyola High School (Kolkata)". Loyola High School Website. Archived from the original on 9 August 2018. Portal: flag England Stub icon This article relating to the University of Oxford is a stub. You can help Wikipedia by expanding it. Stub icon This article related to Latin words and phrases is a stub. You can help Wikipedia by expanding it. Categories: Latin mottosCulture of the University of OxfordUniversity of Oxford stubsLatin words and phrases stubs. Primo dubitatur. L'uso di dar principio ad un'opera, ed anche alla lezione, nel nome di Dio, era un tempo costume di ogni buon cristiano non meno che d’ogni fedele maomettano. Perciò non pare strano di trovare che anche Pomponazzi al suo corso di lezioni sul De substantia orhis, premette una oratiuncula accomodata, della quale però il raccoglitore delle lezioni non riporta il tenore. Né si creda che questo fosse formalismo o ipocrisia. Nella maggior parte dei casi, non vi sono serie ragioni per dubitare della sincerità di chi si protesta buon cristiano, senza per questo rinunziare alla sua libertà d' interprete del pensiero aristotelico; libertà che, all’avviso di N., non che nuocere ha giovato molto alla fede, non costretta violentemente negl’artificiosi schemi d'un sistema filosofico ormai in via di dissoluzione. E così maestro Alessandro, l'averroista Achillini, poteva riposare tranquillo nella chiesa di S. Martino, a Bologna, come il Peretto mantovano in quella di S. Francesco nella sua città natale, sotto le grandi ali del perdono di Dio. Cod. Vat. Regin. lat. Di averroisti della corrente di Sigieri di Brabante nel Rinascimento italiano m'era accaduto d' incontrare, alcuni anni addietro, Pico, Achillini, Nifo, Bacilieri e Bernardi. Ma il gruppo dei sigieriani dove essere più numeroso, e ad esso parrebbe che avesse aderito, in un momento del suo sviluppo intellettuale, anche Pomponazzi, come N. dimostra. Ma fu, da parte del Peretto, l'ultimo tentativo di salvare l'esegesi averroistica d'Aristotele; dopo di che, s'orienta decisamente verso l'alessandrismo. Invece un altro convinto sigieriano è il patrizio veneziano Taiapietra o Taiapiera. Costui, figlio del quondam Quintin di Taiapietra, dopo essere stato a studiare a Padova, richiamato in famiglia per dedicarsi alla vita pubblica, come si convene ad uno del suo rango sociale, s'accosta a Grimani del titolo di S. Marco e patriarca d'Aquileia, non che munifico protettore degli studi e degli studiosi, per averne appoggio. Fu senza dubbio per suggerimento di Grimani che Taiapietra si prepara a un pubblico cimento per coronare col dottorato in filosofia la carriera di studi intrapresa a Padova e terminata colla Dal Giorn. Crit. d. Filos. Ital. Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma, Edizioni Italiane Paschini, Grimani cardinale di S. Marco, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura] licentia docendi, ossia col titolo di magister artium. L'occasione d’una pubblica disputa s'offre colla convocazione del capitolo generale dell'ordine dei frati minori, del quale Grimani era cardinal protettore. L'uso di siffatte dispute in occasione di capitoli generali dei vari ordini religiosi era una veneranda usanza, vecchia d'oltre due secoli. Sollecitato dunque da Grimani, Taiapietra si reca a Roma per dar saggio del suo sapere. La pubblica discussione ha luogo in una solenne riunione di dotti tenuta nella residenza abituale del cardinale a Roma. L'indomani mattina, domenica della Trinità, il dottorando è presentato a Giulio II perché si degna conferirgli il titolo di dottore in artibus. La cerimonia è così ricordata nei suoi diari da Grassi, maestro delle cerimonie di Giulio II. Dopo la messa cantata d’Arboreo e la creazione da parte da Giulio II d’un milite aurato, dice Grassi: Creatio doctoris in artibus per papani in capella. Cum adhuc papa sederet, superveneruiit Cardinalis de Grimanis et orator venetus qui rogarunt papam, ut dignaretur quendam dominum magistrum Taiapietra doctorem in artibus creare, qui, ut testificati sunt, bene se gessit in disputationibus cum fratribus ordinis minorum qui venerant ad capitulum generale etc. Et sic sua Sanctitas absolute, id est sine cerimoniis, ipsum genuflexum creavit doctorem hoc modo, videlicet: papa ante doctorandum genuflexum hec verba dixit, videlicet: Intelleximus a Cardinali de Grimanis et ab oratore veneto quod sis in artibus exscellens et doctus, quodque in disputationibus pridianis que apud edes suas habite fuerunt te laudabiHter exhibueris; propterea nos, tam ad predictorum relationem, quam etiam ad intuitum tue virtutis et meritum, creamus te doctorem in artibus, dantes tibi omnia privilegia que alii in quibuscumque studiis et universitatibus habere consueverunt, in nomine patris et fìlii et spiritus sancti. Quo facto ipse doctor osculato pede pape, illi gratias agens, recessit. Et Cardinalis de Grimanis et orator predicti gratias etiam pape egerunt. Il venerdì successivo la notizia del fatto era già arrivata a Venezia, poiché Sanudo la registra Fra i presenti alla disputa era Achillini. Cod. Vat. lat. Diarii, con parole che attestano la fedeltà del cronista: Item, come a dì. Taiapiera, quondam sier Quintino, tene le conclusion in casa di Grimani. Et el cardinal episcopo d’Urbin disputa contro una, dicendo l'è eretica. Grimani la mantenne, et vince. Et così a dì il papa lo dotoroe. Siccome la notizia giunta da Roma non indica il giorno esatto della discussione e quello del conferimento del titolo dottorale, l'onesto Sanudo lascia i due spazi in bianco. In compenso ci trasmette due notizie preziose. Quella dell'IOBJEZIONE che GABRIELLI, vescovo d’Urbino, ha a fare a una tesi sostenuta da Taiapietra, perché, a suo parere, l'è eretica, e quella dell'intervento DI GRIMANI in favore del suo protetto. Del resto, prima della fine del mese il dottore era già di ritorno a Venezia; poiché negli stessi diarii di Sanudo si legge Fo gran conscio. Vene uno dotor, vestito de scarlato, s’ha dotorato a Roma, Taiapiera, quondam sier Ouintin. l'o fato podestà de Verona, et niun non passa. Da questo momento egli entra nella carriera amministrativa e politica, e N. non sa se si sia più occupato di filosofìa. Nei Diarii del Sanudo il suo nome ricorre spesso, ma sempre pelle cariche ricoperte in servigio dello stato veneziano. Ciò potrebbe spiegare perché il nome di Taiapietra è sfuggito anche al diligentissimo Ferrari che l'omette sì nel suo grande onomasticon. Né in fondo avrebbe interessato molto neppur me, se il suo nome non è legato a un suo libro del quale N. ritiene valga la pena dire qualcosa. Questo libro s'intitola: Sunima divinarum ac naturalium difficilium quaestionum Romae in capitiilo generali fratrum minorum per Taiapietra, patritium Venetum, puhlice discussarum. E fu stampato a Venezia a domino Pincio Mantuano. Il libro fu pubblicato prima della discussione, che evidentemente era stata preparata per tempo dal cardinal Grimani, cui la Summa è dedicata. Recandosi a Roma, Taiapietra porta con sé il volume, come programma della pubblica discussione. Così fa Pico, pubblicando le novecento condusiones pella disputa che si tiene a Roma. Così fa anche Querini, altro patrizio veneziano, quando s'appresta a discutere, parimenti in Roma, le sue condusiones, in Ecclesia Sanctorum Apostolorum. L'opera, è dedicata dall'autore a Grimani. Nella dedica Taiapietra accenna al distacco forzato dallo studio patavino: quum mihi mine redeunduni esset ad meos, qui me in patriam ex celebratissimo gymnasio patavino, in quo octo iam perpetuis annis vitam non minus honestam quam studiosam duxi, centra propriam ferme voluntatem revocabant. A Padova dunque aveva dovuto recarsi quando v'era ancora Nifo da Sessa. Costui, alunno di Vernia, comincia a insegnare a Padova nella seconda scuola di filosofìa STRAORDINARIA, ove professa la dottrina averroistica di Sigieri di Brabante. Era stato promosso alla seconda scuola ORDINARIA come concorrente del Pomponazzi, col quale debbono essere cominciati fin d'allora i litigi. E quando il mantovano si dimise dall'insegnamento, Nifo fu chiamato a succedergli. In questi anni egli, ambiziosissimo e astuto, mentre si da da fare per schivare l'accusa d'eresia, combattendo l'averroismo prima da lui professato per non Nifo, De intellectu Longo tempore Averroy vacavi et, ut dixi, hanc opinionem di Sigieri sequebar ad mentem eius; Destr., dub. Peccatum meum longo tempore. Dalle indicazioni cronologiche fornite da Nifo stesso in quest'ultimo scritto, Disp., dub., quaestio, parrebbe che ciò vada riferito al periodo prima. Dalle quali indicazioni si dove dedurre che egli fosse nato prima, come nell’arbole de casa Nipho nel voi. ms. Historia e documenti della famiglia Nifo, posseduto da Croce) inimicarsi Barozzi, anzi per procacciarsene la benevolenza, come fa nello stesso tempo quella vecchia volpe di maestro Nicoletto, era riuscito a circuire molti membri delle più ragguardevoli famiglie patrizie veneziane che a Padova veneno per fare i loro studi e procacciarsi il titolo di dotor tenuto in gran conto dal governo della serenissima e quasi direi indispensabile pell'accesso a talune cariche dello stato. Suoi discepoli erano stati Querini, Bernardo e Giustinian, l'amicizia dei quali si compiace spesso di ricordare. A Bragadin, patrizio veneto, dice egli stesso d'aver dedicate certe sue quaesiiones de anima che non mi risulta fossero mai stampate; a Donato dedica l'edizione da lui curata del prologo d'Averroè alla fisica; a Sebastiano Tutti e tre son ricordati nei Collectanea De anima, e nel commento alla Desimciio, prol. dub, dub. Da quest'ultimo luogo si rileva che tanto Geronimo quanto il padre sono morti prima di quando il commento alla Destritctio fu stampato. Nel luogo citato dei Collectanea, oltre che ai tre patrizi veneziani ricordati, raccomanda il suo libro anche a Campesano, filosofo di Bassano che in quegli anni studia a Padova. Egli è il padre del poeta di Bassano Campesano Vergi, Notizie intorno alla vita e alle opere degli scritt. d. città di Bass., e. I, Venezia. Collect., prohemium: In questionibus meis libri de anima inscriptis domino Bragadeno patricio Veneto. Sanuuo, Diarii, ricorda una disputa avvenuta in Venezia alla presenza del patriarca intorno ad alcune tesi pericolose, e fra coloro che intervennero ad essa menziona Pisani, Dandolo, Zorzi, Michiel, Pasqualigo, dottori, Corner, Michiel, Bragadin doctissimi in philosophia. Nota invece la mancanza di Zustinian, dotor, che leze philosophia. Su Bragadin, v. Zeno, Giorn. di letter. Scrive Garin a proposito dei primi scritti del Nifo {Rinascitnento. Innanzi all'edizione dellafisica, v'è una lettera di ringraziamento a Donato. In uno degli esemplari esaminati da GARIN la dedica è sul verso di una carta che sul recto reca una lettera con cui Nifo presenta pell'approvazione il suo commento alla Destructio destritctionum. E più oltre: Ad ogni modo esce l'edizione curata da Nifo della fisica col commento d'Averroè. Dove Garin trova che questa edizione della fisica sia stata curata da Nifo, N. non sa. N. sa, invece, che la lettera del Nifo, anzi del Niffus de Suessa a Maestro Grassetto, francescano e inquisitor dell'eretica pravità (vedetelo divotamente genuflesso ai pie' della Vergine, a Padova, nella chiesa del Santo, di fronte alla tomba di Trombetta), è sicuramente posteriore alla stampa del Badoèr il De intellectu, sostanzialmente rimaneggiato e pubblicato pelle stampe quando aveva ormai detto addio a Padova e prima ancora all'averroismo; per Bernardo compone il De sensu agente, pubblicato quando Bernardo era morto, e dedicato a Spinelli, patrizio partenopeo; al Giustinian dedica il commento In Metapysicae composto assai prima su preghiera di Bernardo, il cui nome il Nifo accoppia sempre a quellodel Giustinian; a Santo Moro, altro patrizio che commenta alla Desiriictio, non solo perché si riferisce a questa, ma perché è stampata nel recto di un mezzo foglio facente parte dell'ultimo quinterno di questo volume; l'altra metà contiene due pagine della Destnictio (quinterno q,). Il verso poi del mezzo foglio, al cui recto è la lettera a Grassetto, reca il prologo d’Averroè alla fisica e la dedica di questo prologo al pretore Donato, pella ragione che gl’editori l'avevano omesso. Niente di più. Alla fine del trattato si legge: Et sic consumatus est liber de intellectu. In Patavino studio. Ora che Nifo scrive una quaestio de intellectu (la dedica del De intellectu a Badoèr) è verosimile; ed è verosimile che la scrive in senso sigieriano, tanto che gli emuli poterono accusarlo d'eresia, com'egli stesso ci fa sapere. Ma che questa quaestio sia identica col trattato, è difficile crederlo, dopo quel che egli stesso confessa a Badoèr: Placuit quedam tollere, mutare alia, addere plurima. Troppo interesse ha Nifo a voler far credere che fin dal suo primo anno d' insegnamento s'era liberato dall'averroismo inviso a Barozzi. Vuole Garin un esempio della fede che merita Nifo? Eccoghelo. Nell'edizione dei Collectanea ch'egli aveva pronta, e che vide la luce pella stampa col titolo In librum de anima Aristotelis et Averrois commentatio, a Venezia, per Petrum de Quarengiis Bergomensem. Studio et impensa domini Calcidonij, Pisaurensis, dedicando l'opera a Miliani, patrizio partenopeo, Nifo vede un segno particolare d'amicizia neU'essersi Calcidonio addossate le spese della stampa del volume: quod et noster Calcedonius, communis amicus, tui et mei amoris omni solertia sumptibusque prò his edere instituit. Ebbene, nella ristampa degli stessissimi Collectanea Suessa, Super libros de anima, Venetiis, in fine della prefazione che v’appose, questo barabba osa scrivere: Quantum igitur inique Calcidonius Collectanea nostra publicaverit quantumve venenose, ex bisce patet. Ego enim publicare illa non destinaveram, nisi nono pressis anno che e frase oraziana adattissima a imbrogliare anche meglio le carte. L'opera fu pubblicata, come codicilus al commento della Destructio. Che al momento della pubblicazione tanto Bernardo che suo padre fossero morti, risulta dalla frase dello stesso Nifo in fine del commento alla Destructio: quorum animae in perpetuum gaudeant, confermata dalla dedica del commento In Metapysicae a Giustinian. avuto alunno a Padova negli ultimi anni, dedica il commento al De beatitudine animae di Averroè, rimaneggiando un scartafaccio del periodo averroistico, di mano del suo alunno veronese Plumazioij; al cardinale Grimani dedica il commento alla Destructio destnictionum, servendosi, per insinuarsi nell'animo del cardinale, dell'amicizia d'un tal prete Prosdocimo familiare del Grimani; più tardi gli dedicherà anche il trattato De primi motoris infinitate; e nello stesso anno dedicherà a Querini il De diehus cniicis. Ma non ostante tutte queste amicizie e protezioni, non potè sottrarsi ai latrati, com'egli più volte si duole, dei suoi colleghi e avversari. Non saprei se per questa o per altra ragione s’allontanò da Padova. Facciolati per altro informa che revocatus est anno, stipendio argenteorum CXX; il che lascerebbe supporre che fra le ragioni del malcontento vi fosse anche quella dello scarso stipendio. Sappiamo di professori che correvano là dov'erano megUo pagati, e che spesso la minaccia di andarsene era un buon mezzo per farsi aumentare lo stipendio. Ma Facciolati ci fa sapere che, non ostante questo aumento, Nifo anno vertente rursus abiit, in cerca di miglior fortuna, o semplicemente per sposarsi con Angela Laudi da Sessa. A Padova non torna più, sebbene siamo informati che egli s'adopra per tornarvi. Vi torna invece, dopo la morte di Vernia, il Peretto mantovano, cioè POMPONAZZI. Anche quest'opera porta in fine la dichiarazione: Compievi Patavii. Santo Moro si addottora a Padova Sanudo, Diarii. Quando Nifo gli dedica l'opera, sa che l'antico scolaro di Padova nunc naturae mundique interpretem gravissimum evasisse. N. non conosce altre edizioni anteriori a quella scotina di Venezia. Di Bernardo dice (comm.): accepi verba haec ut iacent in codice meo, quem felix illa Bernardi memoria olim mihi misit. Vi sono non pochi rimandi al trattato De inteUectii, e non di rado nella stesura che esso ebbe dopo la revisione Fasti gymn. patav., Sanudo, Diarii. Anzi si legge: k Item, ave lettere dell'orator nostro in corte, che domino Sexa NIFO, qual è li, vengi a lezer a Padoa, et li ha dimandato. Par contento venirvi, et è facto più docto di quello era, et ha studiato in greco. dopo due anni d'assenza, per restarvi ininterrottamente fino all'assedio della città. V'erano poi maestro Trapolin, averroista moderato, che dall'insegnamento della filosofia naturale passa a medicina teorica, Trombetta francescano e Monopoli domenicano, che insegnano in concorrenza la metafisica, l'uno ad mentem Scoti, l'altro ad mentem AQUINO. Era venuto a Padova il bolognese Bacilieri, alunno e poi collega d’Achillini del quale condivide l’idee, forse a sostituire Fracanziano che in seguito ad una lite fra maestri lascia lo studio padovano e segue a Roma Corner. Ma Fracanziano torna a Padova ad occuparvi la seconda cattedra di filosofia ordinaria, in concorrenza con Pomponazzi, mentre maestro Tiberio, che dice mancargli appena quattro dita per arrivare alla piena e perfetta copulatio coll'intelletto agente, aveva accolto l’invito di recarsi a Pavia. Sotto la guida di siffatti maestri Taiapietra fa i suoi studi a Padova; e con lui c'erano negli stessi anni, su per giù, Mocenigo, figlio di Leonardo e nipote del doge Giovanni; Contarini, il futuro cardinale; Surian, nipote del patriarca di Venezia dello stesso nome; Santo Moro, e altri rampolli delle più illustri famiglie patrizie veneziane. Maestri e scolari vivevano uniti d’uno stesso spirito goliardico non scompagnato da febbrile ansia di sapere. Peretto POMPONAZZI, che marciava ormai verso la quarantina, pensa bene d’accasarsi con una gentil donna padovana figlia di Francesco Dondi dell'Orologio. Ed ecco Facciolati, Fasti, 1. e; C. Oliva, Note sull’insegnamento di Pomponazzi, Giorn. crit. d. Filos. Ital. Facciolati. Era presente ai dottorati in artibìts di Zimara e di Oleari, col titolo di extraordinarius philosophiae Arch. d. Curia Vesc. di Padova, Acta grad. Franceschetti, La famiglia dei conti Fracanzani di Verona, Vicenza ed Este con notizie dei loro antenati ecc. Bari, presso la Direz. del Giorn. Araldico Pomponazzi, In XII Metaphys. deo Tiberius iactatus solum sibi defìcere quatuor digitos ad hoc ut foelicitatem istam pertingat Arezzo, Bibl. Fraternità de'Laici, Ms.; Cod. Ambros.Mocenigo intonare pell'occasione nn epitalamio in latino, ove tra molte reminiscenze mitologiche si leggono questi due distici molto confidenziali rivolti, s'intende, allo sposo; Ista dies omnes reliquos divellit amores: paecipit haec soli perpetuoque vaces. Substulit ista dies sectari fornice tetra scorta suburbano, substulit ista dies. Ma la giocondità della vita studentesca nel rumoroso e gaio ambiente dello studio patavino non distoglie questi patrizi veneziani dallo scopo per cui erano venuti sulle rive del Bacchigliene tra le antenoree mura. E Sanudo ci fa sapere che 1', zorno di Pasqua di mazzo, da poi disnar, sier Santo Moro di sier Marin, studia a Padova, tene le conclusion ai Frari, qual è impresse. Arguì molti, videlicet domino Bragadin, leze in philosophia a Venezia, Pasqualigo dotor, cavalier, Zorzi, dotor, e altri, e poi anda a Padoa e si dotoroe. Ugualmente Sanudo annota che in questo zorno, in la chiesia di Frari, fo tenuto le conclusion per Surian, quondam Michiel, nepote del patriarcha nostro, qual studia a Padoa. Vi fu il reverendissimo patriarcha, e l'orator di Franza e molti patricii invidati e dotori»-s. Con -2 Io. Brunatius, POMPONAZZI, nella raccolta d’opuscoli scient. e filos., Venezia Diarii Di Pasqualigo riferisce Sanudo, che a Roma tiene conclusion publice et si ha facto uno honor grandissimo et hora sta dotorado nomine pontificis dal cardinal di San Zorzi. E Vene da Milan in questa terra Pasqualigo, dotor, patricio veneto, stato e si trova a Milan al tempo del capitolo general di frati minori dove tene le conclusion publiche. Vi fu el ducha con li oratori, et fu molto comendato, come si have lettere di Lupomano orator nostro nel conscio di pregadi. Questo studia a Paris, et è doctissimo. Il Degli Agostini, Not. storico-critiche intorno la vita e le opere dei veneziani, Venezia dice che Piero sostenne a Parigi due mila conclusioni. Anche il fratello Pasqualigo studia a Parigi Sanuco Sanudo, Diarii. La cronaca di questa disputatio è fatta dallo stesso Surian in una pagina del volume in cui ricopia le lezioni tenute da Pomponazzi sul De anima Ms. della Bibl. Naz. di Napoh, Vili. D. descritto da Kristeller in Revue de philosophie questa pubblica disputa anche il Surian conquista il titolo di dotor, come appare da quanto Sanudo ricorda. E sarei quasi tentato di credere che, allo scopo di conseguire il dottorato, anche Querini affronta a Roma la solenne disputa cui accennavo e alla quale assiste anche Bembo, egli pure patrizio veneziano, cavalier ma non dotor qual era invece suo padre. Quello di stampare le conclusiones pella pubblica disputa non li consta a N. che fosse un obbligo; ma si sa che Pico le stampa, Querini le stampa, impresse le ha Santo Moro, e anche Taiapietra si, ed è importante perché c'introduce nel bel mezzo dell'ambiente scolastico padovano: Que disputatio a me habita fuit Patavii per biduum. Et prima die argumentatus est dominus Portenarijs, florentinus patritius, Artistarum rector; secondo loco R. dominus Marcellus, patritius venetus, proto-notarius apostolicus; 3° magister Trombeta ordinarius metaphysice, Patavii legens; 4" Dominus magister Monopoli, ordinis AQUINO, ordinariam metaphysice legens [Quètif-Echard, Scriptores Ord. Praed.; 5° Dominus magister faventinus ordinariam theorice medicine legens; 6° Dominus magister Caballis, brixiensis, ordinariam practice medicine legens. Et disputatio hec habita fuit in aede cathedrali, in choro penes altare maius, coram R.mo domino D. Barocio, episcopo patavino, et magnificis Griti, pretore, Pisani equite, prefecto Padue, R.mo D. Barbadico primiI cerio Sancti Marci. Duravit disputatio usque ad 24 horam satis feliciter die dominico, et fuit dominica quadragesime quarta. die et fuit habita in salis magnis, primo argumentatus est Dominus magister Mauricius ordinis minorum hybernicus, preceptor, ordinariam theologie legens; 2° Dominus magister Gaspar perusinus ordinis AQUINO QuÈTiF-EcHARD, Ordinariam theologie professus et profitens; 3° Dominus magister Trapolin, patavinus,, ordinariam theorice medicine legens; 4° Dominus Petrus POMPONAZZI mantuanus,olim preceptor; 5" Dominus Fracancianus, vicentinus, ordinarius philosophie, ambo professi et profìtentes. Et disputatio fuit mane Venetiis autem, die Jovis, in aede S. Francisci minorum; et interfuit R.mus Patriarca, patruus meus, R.mus D. D. archiepiscopus spalatensis, D. Zane, R.mus Foscarenus, episcopus Emonensis cioè di Città Nova in Istria, R.mus D. D. Dominicus episcopus Chisamensis, suffraganeus R.mi D. Patriarche. Argumentatus est in primis Foscharenus, doctor, legens lecturam physice Venetiis; 2° loco R.mus D. D. Zane, archiepiscopus Spalatensis; 3° loco Dominus Mozenigo, doctor; 4" D. magister Cruce ordinis minorum, regens ibi; 5° Dominus Maurus, doctor etc. Et fuit dies felicissima. Quare Deo semper honor et gloria Sanudo. frettò a presentarle stampate. Più tardi, so di Bin, le cui conclusiones, dedicate a Michiel, Procurator di S. Marco, furon discusse a Venezia; e so pure di Ruggiero, discepolo a Padova di PASSERI Genua, che stampa le sue positiones, cioè le sue tesi, dedicandole a Gonzaga, pella disputa che dove aver luogo a Padova nella chiesa di S. Antonio; e l'esempio suo è seguito d’un altro discepolo di PASSERI, Mocenigo, nipote di Diedo patriarca di Venezia, pella disputa che ha luogo, come nel caso di Surian, a Venezia e a Padova. N. non conosce il contenuto delle tesi o conclusion sostenute da Surian e da Moro; conosce invece quello delle conclusiones di Querini e Bin, delle positiones di Ruggiero e dei Panidoxa theoremataque di Mocenigo. Querini, discepolo di Nifo quando questi già abbandona l'averroismo, si dichiara apertamente CONTRO Averroè come aveva fatto il maestro. Invece averroista è Bin; e anche Ruggiero e Mocenigo sostengono apertamente la dottrina averroistica di PASSERI combinata con quella di Simplicio. Allo stesso modo Taiapietra è un risoluto sostenitore dell'averroismo della corrente sigieriana, del quale, dopo la partenza di Nifo da Padova, era stato sostenitore Bacilieri. Ciò appare meglio dall'esame del contenuto della sua opera. Un'aperta professione d'averroismo accade d' incontrare tìn sulla soglia del libro, cioè nel proemio intitolato anch'esso a Grimani. Dopo avere accennato ad Aristotele come regula La rara stampa veneziana della Casa Tacuino, è posseduta dal British Museum. A Dionisotti N. è debitore della cortese segnalazione e del microfilm. Positiones hasce de vero et bono Rugerius ad disceptandum proposuit. In quibus si quid a religione ac summa veritate dissentire lector animadvertet, id non ex animi sententia, sed ex Aristotelis ac veterum Philosophorum placitis pronunciatum sciat. Venetiis, f. yor Finis. Disputabuntur triduo Patavij in tempio D. Antoni], nella sezione de homine quatenus intelligit et speculatur, accade d'incontrare tutte le tesi dell'averroismo Simpliciano di PASSERI, coll’idea della progressio dell'unico intelletto ad secundas vitas nei diversi corpi umani ecc. in natura secondo il noto concetto d'Averroè 3°, il filosofo veneziano continua: Post queni prinius floruit Averroes cordubensis, qui ex graecis expositoribus velut ex optimis quibusdam fontibus philosophiam non tam hausisse quam expressisse visus est. Eos enim insequi et incessere delectatus est apprime, unde is solus est qui condigne et recte apud omnes commentatoris nomen adeptus fuit; tantum enim est ex agro fertili messem tacere. Hinc est, ut qui Averroem exacte legerit, et suis quaeque locis singulatim singula contulerit, eius doctrinam facile percipiet ab optimis manasse auctoribus. Quid enim aliud est commentator Averroes quam Alexander, Themistius, Simplicius, ac demum ipsemet Aristoteles transpositus Ouamobrem et nos divino beneficio confisi, non vana similiter gloriae cupiditate impulsi, et absque ulla prorsus invidia, sed solum utilitatem aliquam studiosis afterre anhelantes, penes horum virorum sententiam quarumdam diftlcilium quaestionum summam seu compendium ordinare suscepimus: ea enim benivolentia perypatheticos prosequor omnes, et praesertim summum Aristotelem eiusque magnum commentatorem Averroem, omnium philosophantium vere duces, ut si quid ex illorum disciplinis deprompserim, quod utile, pulchrum lionestumque putem, id quippe omnibus communicatum esse velim, quo omnes literati una mecum ipsorum rapiantur amore eosque digna veneratione prosequantur et colant. Verum nos, divini Platonis De legibus imitati, ut scilicet ne cuivis liceat, quae aediderit, aut privatim ostendere, aut in usum publicum concedere, antequam super id publici et idonei constituti iudices ea viderint et probarint (quod maxime observant venerabiles illi magistri parisienses), opus hoc nostrum in studiosorum communem usum concedere ullo pacto voluimus, antequam gravssima amplissimi Venetiarum prothoflaminis censura et lima castigetur; cuius quidem titulis et laudibus (nisi defraudetur) solum ipsemet accedit religiosissimus antistes Surianus; simulque nisi prius in clarissimorum virorum conventu et corona opus hoc manutenerem et tutatus essem. E il prothoflamen di Venezia, cioè il patriarca Surian, zio di quell'altro Surian, che era stato discepolo a Padova del Pomponazzi e del Fracanziano, e che del Peretto ci ha tramandato le lezioni sul De anima, contenute nel codice della Bibl. Naz. di Napoli, studiato da Kristeller, il buon patriarca di Venezia, dicevo, dopo aver letta l'opera del Taiapietra, lungi dallo scandolezzarsi di questa aperta esaltazione d'Averroè, 3° De anima. comm. che avrebbe fatto fremere il vescovo di Padova, Barozzi, gli scrive questa candida letterina che si legge in fondo al volume: Filii diarissime, praeclarum opus tuum, in quo Aristotelis peripatheticorum principis et Averrois eius fidi et luculentissimi commentatoris sensum diligenter et ad unguem examinasti, non mediocri gaudio voluptateque lectitavi, eo quod te philosophum praestantissimum noverim, tum et ortodoxae matri ecclesiae obsequentissimum. Quo fit ut te quam maximis prosequamur laudibus, magnisque honoribus te decorandum extollendumque censeamus. Exinde enim persuaves et amenissimos tibi fructus acquires, nec modicam saeculo utilitatem, patriaeque nostrae gloriam allaturus es. Vale. Eppure l'averroismo dell'opera non concerne soltanto una o due tesi che vi siano difese quasi di passaggio, ma domina tutto intero il volume, dalla prima all'ultima pagina; salve sempre, s'intende, le solite proteste d'obbligo, chiaramente espresse o sottintese, che l'autore cioè non persegue altro intento che quello di esporre qual è il genuino pensiero d'Aristotele e del suo fedele commentatore, senz'alcun pregiudizio per la fede e per gl’insegnamenti della Chiesa. L'opera si divide in due libri: il primo concerne problemi dibattutissimi nelle scuole di filosofìa, alla soluzione dei quali son dedicati altrettanti trattati, e in ciascuno di essi un capitolo è consacrato alla esposizione della vera dottrina del Filosofo e del suo fedelissimo interprete, mentre altri son riservati a combattere più le obiezioni dei cacoaverroisti, com'egli li chiama, che non quelle degli avversari dell'averroismo. Nel primo trattato si discute il problema se unico sia il principio di tutte le cose, o possa esser molteplice; e nel quinto capitolo philosophi et commentatoris vera positio inducitur cum suis rationibus et fundamentis. Nel secondo trattato, si parla della immaterialità e semplicità divina; e nel cap. philosophi et commentatoris vera positio inducitur. Nel trattato si dimostra la tipica tesi averroistica Deum tantum seipsum, idest essentiam propriam intelligere ac intueri; e nel cap. vera positio philosophi et commentatoris in hac materia ponitur. Nel trattato si pone il quesito an primus motus, qui est diurnus, sit immediate a Deo glorioso, e si critica la tesi dell'averroista Jandun, il quale sostene che Dio non può muovere il primo mobile se non per mezzo della prima intelligenza; nel cap. poi è esposta la vera opinione del filosofo e del SUO commentatore su questo argomento. Nel trattato è presa in esame la vexata quaestio, se Dio sia causa efficiente delle cose eterne, cioè delle intelligenze e dei cieli, poiché delle cose corruttibili non v'è dubbio che esse non possono esser prodotte immediatamente da Dio. È noto che l’agostiniano Rimini ritene che, secondo Aristotele, Dio è causa finale ultima delle intelligenze e dei cieli, ma non causa efficiente del loro essere. Taiapietra, d'accordo con Sigieri, è del parere che, pur essendo coeterne a Dio, sì le intelligenze motrici che i cieli incorruttibili son tratti all'esistenza da lui per via di vera causalità efficiente, e in proposito intraprende una lunga disquisizione che dura per diversi capitoli contro l’agostiniano; giacché è bene si sappia che, per quanto riguarda l' interpretazione del pensiero d'Aristotele, vi furono teologi che si spinsero anche più in là di taluni averroisti; è esposta la vera dottrina del filosofo e del commentatore cum suis rationibus et fundamentis, che è poi la dottrina sigieriana. Nel trattato sesto, è discusso un altro problema oggetto di lunga contesa, fin dai tempi di Sigieri, se cioè Dio nel muovere il mondo si palesi di virtù intensivamente infinita ossia, come soleva dirsi, di infinito vigore. Dopo aver combattuto l’interpretazione che d'Aristotele danno AQUINO, Alberto Magno e Scoto e quella di alcuni averroisti che, a suo giudizio, falsano il pensiero d'Aristotele e d'Averroè, l'autore passa ad esporre la vera positio dell'uno e dell'altro, riaffermando la sua fiducia nel commentatore: Quum inter tot celebres philosophos, nullus adhiic posteriorum philosophantium aut priorum, praeter Aristotelem, inventus sit qui commentatori Averroi in rebus naturalibus aut divinis exponendis equipolleat, unde merito nomen magni et certe maximi commentatoris est assequutus, ideo, primae philosophiae principiis innitendo, in hoc quesito ad mentem philosophi et commen Lectura in Sent., dist. q.; Baconthorpe, In Sent., dist. q.; Jandun, Meiaphys.; Quaestiones sup. De siibst. Orbis Steenberghen, Sig. de Brab. d'après ses oeiivres inédites, Louvain] tatoris dicimus infinitum, ut proposito attinet, alias infiniti distinctiones omittendo, dupliciter intelligi posse: vel secundum tempus et durationem, vel secundum virtutem et vigorem; quorum unum vocant latini infinitum extensive, et alterum intensive. Pro quo sciendum quod si primum principium secundum primum modum infinitum intelligatur, hoc utique ad mentem philosophi et commentatoris concedendum est, quoniam primus motor motu locali uno et continuo movet per infinitum tempus; et sic etiam, secundum eos, quaelibet intelligentia est infinita; quaelibet enim intelligentia movet, secundum Aristotelem, orbem proprium motu locali circulari infinito. Potest et secundo modo intelligi primum principium esse infinitum in qualitate actionis, scilicet in vigore; et hoc pacto negat philosophus et commentator. Ma rendendosi conto che un'affermazione sì grave poteva sonare sgradita alle orecchie dei teologi, il nostro s'affretta a dichiarare: Sed quamvis isti, philosophus scilicet et commentator, sic dicant, nihilominus tamen dico secundum fidem et veritatem, quod deus, qui est primum principium, est virtutis infinitae, scilicet in qualitate actionis, ita quod quantum est de se potest velocitare motum in infinitum, immo movere in instanti, nec est limitata sua virtus ad actionem determinatam; et hoc absque omni ambiguitate verum est, non tamen potest convinci aut comprehendi ex sensatis; et ideo non est mirum si philosophus ac caeteri antiquorum naturales, sensata tantum insequentes, illud minime comprehenderunt. Quum enim deus ipse naturae sit auctor, potest utique plus facere quam possit natura vel naturaliter comprehendi, quoniam quemadmodum ipse omnia excedit in infinitum, sic etiam profecto in agendi potentia. Iccirco iuxta illud quod primo Esaias et postmodum Paulus dixerunt, propter ista et alia quae oculus non vidit nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, sacrosantae ecclesiae sanctissimis doctoribus sine aliqua haesitatione credendum est, et absque aliqua demonstratione aut sensuum experientia etc. E la stessa dichiarazione ripete, come d'uso, tutte le volte che gli accade di toccare un problema intorno al quale vi sia conflitto fra la filosofìa e la teologia. Nel trattato si chiede se il numero delle intelUgenze motrici debba dedursi dal numero dei movimenti e delle sfere celesti, oppure se ve ne siano di non addette al moto dei cieli; e nel cap. è esposta al solito l'opinione del filosofo e del commentatore, che il Taiapietra ancora una volta toglie a difendere. Inoltre, è esposta la vera opinione del filosofo e del commentatore, che la nobiltà delle intelligenze va posta in relazione con la maggiore ampiezza e altezza delle sfere da esse mosse. Nel trattato si dibatte l'annoso problema, se la materia di cui constano i cieli sia eiusdem rationis cum materia horum inferiorum; e di nuovo nel cap. viene esposta e difesa come vera la dottrina d'Averroè, la quale combacia perfettamente con quella del principe dei filosofi, e vi si dice che la materia dei cieli non è in potenza a diverse forme, ma soltanto a diverse posizioni locali. Il libro si divide in trattati. Il primo dei quali verte sulla natura dell'anima umana e precisamente sul problema utrum humana et rationalis anima sit una vel plures, dans esse homini et immortalis. Fin dal capitolo, l'autore ci palesa candidamente qual è il suo intento: anzitutto rigetterà tutte le opinioni che più s'allontanano da Aristotele e da Averroè; poi riferirà quelle che più si avvicinano al loro pensiero: Demum veram philosophi et commentatoris addemus sententiam ab ea quascunque amovendo cavillationes, ut eius veritas clarior appareat. Ed egli non meno candidamente spera che dalla sua fatica verrà non poco giovamento alla restaurazione della filosofìa, che al comune giudizio degli averroisti pare in quei tempi non poco decaduta: Unde speramus laborem hunc nostrum non modo rem peri-patheticam, id est Averroycam, adiuvaturum esse, verum etiam aucturum, quum forte scriptum hoc non tantum erit causa declarandi rem obscuram et latentem multum in philosophia, sed etiam aliis, hoc est bene dispositis, initium fiet vel occasio Iaborandiin doctrina philosophi et commentatoris, et ad communem utihtatem quamphira scitu nobilissima scribendi. Et sic forte in Italia reviviscet philosophia, quae temporibus meis, cum philosophis pessum ivit, adeo ut hac tempestate pauci vel nulli reperiantur philosophi; sunt autem in precio triviales, nebulones et sophistae; sperandum est tamen naturam ali- È un lagno che Averroè aveva fatto dei filosofi del suo tempo, nel famoso prologo alla Fisica; ed è curioso vedere come gli averroisti lo ripetano. V’insiste in particolare Pomponazzi, parafrasando sia il prologo alla Fisica sia quello al terzo Cod. lat. della Bibl. Naz. di Parigi; Arezzo, Fratern. de'Laici, ms., f. igir. Giorn. Crit. d. Filos. Ital. quando nostri misertam iri, et nobis integram redituram philosophiam et philosophos; natura namque non deficit in necessariis neque abundat in superfluis. Iccirco laborandum est prò viribus ut ad nos redeat niater nostra pliilosophia. Con questa speranza nel cuore, che la filosofia aristotelico- averroistica minacciata da un lato dal concordismo d’AQUINO che la svisa, e dall'altro dalla RETORICA UMANISTIICA CHE LA DISPREZZA e dileggia, il nostro averroista s’accinge a difendere quella che era apparsa la più ostica delle tesi averroistiche, qual'è quella dell'unità dell'intelletto. Ed anzitutto egli espone e combatte, sulla scorta d'Averroè, la dottrina di Alessandro d'Afrodisia, intorno alla quale si diffonde per ben sei lunghi capitoli. Accade d' incontrare questa allusione all'ambiente filosofico padovano: Conantur quidam alexandrei et acutissimi viri prò Alexandro ad rationes Averroys et auctoritates Aristotelis respondere. Giusto un anno prima Pomponazzi, che sta commentando a Padova il del De anima, s'era posto il problema dell'immortalità dell'anima, e pur dichiarandosi ancora propenso a ritener possibile una soluzione positiva del problema secondo la ragione, dimostra in che modo la tesi d'Alessandro avrebbe potuto sostenersi. Forse alludendo a Pomponazzi, Taiapietra nel rintuzzare le ragioni degli alessandristi osserva: Etsi Alexandrea opinio lumini tantum innitendo naturali non minus forte substentabilis sit iuxta fundamenta sua, quam et averroyca, hoc nihilominus in loco ipsum ad intentionem philosophi minime loquentem fuisse proculdubio ostendemus. Nel qual passo è quanto mai significativa la distinzione fra ciò che è sostenibile lumini tantum innitendo naturali, e ciò che è sostenibile ad intentionem philosophi. A prescindere dai francescani che di questa distinzione fanno largo uso, essa è una novità nella storia dell'aristotelismo; Aristotele non ha visto tutto quanto si può vedere col lume di ragione; la ragione umana può spaziare forse oltre i confini del mondo ari Come appunto dice Pomponazzi, commentando il De anima Kristeller, Two impubi. Questions on the Soul of Pomponazzi, Medievalia et Humanistica, quando Taiapietra era ancora studente a Padova.]stotelico: è un'idea sulla quale insiste più volte Pomponazzi e che dove ferire a morte l'autorità di cui Aristotele, maestro e duca dell'umana ragione, aveva finora goduto. Dopo la critica della tesi alessandrista, il nostro espone e confuta la dottrina di Abubacher, Averroys socius, di Avenpace, eius magister, quasi fossero due persone diverse, di Avicenna e di Alfarabi; e qui eccolo, in quo Aristotelis et Averroys vera positio ponitur in hac materia cum suis motivis, ad esporci l' interpretazione sigieriana del pensiero di questi due filosofi: Clini binas hiicusqne illustrivim peripatheticorum opiniones ostenderimus, qiias tamqnam impossibiles omnino ad, mentem philosophi reliquimus, superest videre et de tertia, quae est Averroys se unicum ad intentionem Aristotelis loqui pollicentis. Aliorum autem sapientum opiniones hoc in tractatu non indagamur. Item quia intentio nostra in praesentiarum non est de omnibus loqui, sed tantum manifestare quae fuit opinio commentatoris, et quorundam errorem refellere, qui temporibus nostris nonnulla monstra in hac materia ut finxerunt de intentione Averroys enixi sunt. Tum etiam, ut sententia est philosophi, topicorum primo, capite, quolibet proferente contraria opinionibus sapientum sollicitum esse stultum est. De anima igitur disceptantes quadrifariam circa ipsius incoeptionem loqui poterant: primo, quod quandoque producta fuit in materia, quandoque corrupta: quem modum sequutus est Alexander aphrodiseus, ut disputavimus in pracedentibus abunde satis, in quo quidem tamquam demonstratum nobis palam est, rationalem animam non a corpore incipere, neque in corpus desinerei illam quoque prò parte insequi visi sunt arabum sapientes, ut supra piane constat. Secundo, quod novum acceperit esse, quod nunquam perditura sit: et hic dicendi modus Platonis est, cui contradicit philosophus et commentator, Divinorum, tex. co.; et primo Coeli, tex. co; alioquin natura possibilis verteretur in necessariam; nullum enim novum est perpetuum. Tertio, quod nullum eius fuerit initium, sed dissipanda quandoque foret: et is quoque modus impossibilis est; omne namque aeternum a parte ante est etiam aeternum a parte post, et econtra, ut sententia est philosophi et commentatoris, ibidem, primo Coeli et mundi; nec aliquis hominum dudum id percepit, quod quum perscrutata non sit dignum, absque auctore Dante, Conv. IO A questo principio del De coelo fa appello Bessarione, In calimin. Platonis, sostendo che, per Aristotele, se l'anima è immortale ed eterna a parte post, deve esserlo anche a parte ante, con tutti gl’assurdi che dal punto di vista aristotelico ne seguirebbero, se l'anima intellettiva fosse dimissum fuit. Quarto, quod, ncque quandoque cadet, nec exordium ulluni aliquando acceperit: si igitur rationalis anima nec ncepit cum corpore, nec in corpus desinet, sed semper fuit et aniplius semper erit immortalis ac substantia semper existens simplex et immixta, humano orbi secundum esse unita, non tamen corruptibilis nec alterabilis secundum eius substantiam, opinio redditur Aristotelis scilicet et Averroys et multorum tam antiquorum quam modernorum peripatheticorum, ut Themistii, Theophrasti, Pythagorae et caeterorum eiusdem sectae. Id igitur in quo veriores scilicet peripathetici concurrunt, est rationalem animam nec incipere cum corpore, nec etiam incipere ab aliquo corporis, nec desinere in potentiam corporis, nec in corpus ipsum, sed esse semper qviid immortale divinum et impatibile. Verum id in quo discreti et differentes sunt isti viri, hoc porro loco a me perscrutandum non expectetur: tum quia prò nunc tantum philosophi et commentatoris opinionem venamur, ex qua ad caeteras quascumque discrimen colligere poterimus; tum quia praeter opinionem opus nostrum multum excresceret. Hanc sententiam comprobant Aristotelis auctoritates multae; quarimi quae adversus Alexandrum iam adductae sunt nobis sufficiant. Motiva autem philosophorum sunt multa, et primum quod ad hoc movit Averroym, fuit ratio fortis quae ex De substantia orbis piane colligitur, quoniam nulla forma inducta in materia non mediantibus interminatis dimensionibus et non per dispositiones qualitativas et quantitativas praecedentes, simul accipit esse cum toto. Sed rationalis anima hominis huiusmodi est. Ergo etc. Amplius amne quod est dominus suorum actuum est abstractum et immortale. Sed anima humana intellectiva talis est. Ergo etc. Maior utique evidens est ex se: quod enim non habet dominium suorum actuum, ad unam tantum partem determinatur; quemadmodum ad delectabile appetitus sensitivus; et talis proculdubio est materiae immersus. Minoris autem veritas inductive declaratur: nam si uni vero philosopho vel religioso offeratur inoltre moltiplicata col numero degli uomini. Si che Bessarione ne aveva concluso: Igitur alterum de his duobus dicat necesse est: aut enim unum eundemque intellectum omnibus esse, aut una cum corpore animam interire. E se egli poteva ritenere che nessuno era riuscito finora a dimostrare la falsità della tesi averroistica dell'unità dell'intelletto, secondo i principi della filosofia aristotelica, Pomponazzi, che, pur ritenendo perfettamente aristotelica questa dottrina, la considera stoltezza, fatuitas, Kristeller, il ms. napol., tronca le sue precedenti esitazioni, e prese a sostenere con risolutezza la tesi che, pur essendo quello dell'immortalità dell'anima un problema neutrum, tutti i principi formulati da Aristotele, e segnatamente quello stabilito in questo luogo del De caelo, sembrano concludere alla MORTALITÀ dell'anima. Pochi mesi dopo scrisse D’immortalitate aniniae. Ma sullo sviluppo del pensiero del Perette intorno a questo argomento, Giorn. Crit. puella, appetitus tunc tendit in fornicationem, quia delectabile; intellectus autein reicit et fugit, quia malum et propter offensionem dei proximique. Ecce igitur qualiter hominis intellectiva anima domina est suorum actuum, quia scilicet potest delectabile fugere vel persequi; non sic autem appetitus ipse. Et haec fuit ratio divini Platonis in Phaedone, ibi inter omnes efficacior, quam olim ab eo accepit platonicus Plotinus, in tractatu de immortalitate animae, quam etiam adducit divus Albertus in De origine animae. Et fuit haec ratio apud aliquos tantae effìcaciae et auctoritatis, ut palam dixerint, quod qui conatur hanc solvere rationem fatuus est. Rursum, quod intelligit omnia tam materialia quam immaterialia est iinmateriale, et per consequens immortale; haecenim se consequuntur, ut constat in intelligentiis; sed intellectiva hominis anima omnia comprehendit, tam scilicet materialia quam etiam iinmaterialia; igitur immaterialis est, et ex consequenti immortalis. Maioris primam partem innuit philosophus, De anima, tex. co., quum dixit, quod omne recipiens debet esse denudatimi a natura rei receptae. Secunda etiam pars patet; alioquin rationalis anima esset organica, et sic determinata ad unum, cuius tamen oppositum in nobis metipsis comprehendimus. Minorem vero in nobis proculdubio quottidie experimur. Quare etc. Et confirmatur, nam anima nostra intellectiva universaliter et abstracte intelligit; ergo et ipsa est abstracta et immortalis; secus ipsa esset aut aliquis quinque sensuum – URMSON THE OBJECT OF THE FIVE SENSES -- , aut sextus sensus, et sic per consequens non iniiversaliter intelligeret; quod apud perypatheticos est valde absurdum et manifeste falsum. Adhuc, si ista rationalis anima non est abstracta et immortalis, tunc aut est complexio, aut forma superaddita complexioni; sed non primum, quia tunc esset accidens, quod nullus sanae mentis fateretur; minus etiam secundum; sequeretur enim ipsam esse organicam et extensam, et sic fìeret determinata ad unum quemadmodum et caeteri sensus, cuius tamen oppositum in nobis manifeste percipimus omnia et universaliter percipientes. His ita prealibatis, inquiunt veriores perypathetici hunc intellectum materialem esse formam perpetuam ex utroque latere, loquendo praecipue ad intentionem philosophi et commentatoris, unicamque omnibus hominibus inesse, ac minime generabilem aut corruptibilem nec eductam de potentia materiae. Amplius opinantur ipsam facere per se unum cum homine constituto in esse per cogitativam; et ponunt quod intellectus ipse non potest informare materiam non informante cogitativa; non enim stat materia absque forma constituta in esse per eam; nec potest intellectus informare sine sua proxima et ultima dispositione, quae quidem est cogitativa respectu intellectus; unde, esto quod cogitativa ipsa non sit forma generica, ordinatur nihilominus in intellectum propter ipsius essentialem ordinem ad ipsum. Nec econverso potest cogitativa informare materiam et ipso quoque non informante intellectu; positis enim informabili ultimate disposito et ipso informativo, necessario et ipsa insurgit inforniatio. Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum ad humanum recipiendum intellectum; et sic potest una formia substantialis ad aliam esse dispositio, dummodo forma illa praeparans non sit materiae ratio recipiendi. Adduntque post haec hunc eumdem intellectum primo et adequate informare totum orbem humanum; secundario vero illius partes, ut scilicet sunt individua hominis. Nec intellectui humano, quamvis sit unicus et individuus, pluribus dare esse aeque primo hominibus, utputa Socrati, Platoni, CICERONI CICERONE – L’ANIMA DI CICERONE -- et sic de aliis, repugnat; in via namque philosophi et commentatoris constat intelligentias esse individua, ut Primae Pìiilosophiae et in De coelo; et illa eadem esse cum suismet quidditatibus; unde intellectus materialis, quum sententia commentatoris, secundo Physice auscultationis, infima sit intelligentiarum, erit et ipsa individuum et sua quidditas; enim Methaphysica, comm. De anima, comm., in abstractis a materia non differt quidditas ab eo cuius est. Intellectus igitur materialis individuum erit et singularis; ob id tamen nihil prohibet, licet intellectus ipse sit etiam quidditas universalis, dare esse hoc et singulare homini, ut iam dictum est. Et sic apparet quomodo esse hominis, in eo quod homo, est ultimo per hunc intellectum, et quomodo difterentia hominis, in eo quod homo, sumitur ultimate ab hoc eodem intellectu; et sic quoque individuum ipsum humanum, idest constitutum ex cogitativa tanquam ex materiali, et ex ipso intellectu tanquam ex formali, utputa Sortes vel Plato, habent esse hoc ad ipso intellectu ultimate. A materia autem divisa informabili cogitativa dimensionibus mediantibus informante, nascitur possibilitas multiplicationis individuorum sub eadem specie; quae omnia propter esse universale ipsius intellectus informari possunt ab ilio, et ab eodem sumere esse suum verum hoc et unum. Et breviter autumant intellectum ipsum primo esse formam adequatam totius suae sphaerae humanae; secundario vero partium sphaerae, ut particularium hominum, hoc scilicet pacto quod, inquantum quidditas, partiri possit per materias informatas dimensionibus et cogitativis, inquantum autem individuum, est id esse per quod individuum hominis est hoc ultimate. Dicuntque praeterea opinionem esse Averroys, ut intellectus uniatur homini non tantum ut ars et motor instrumento et organo, sed etiam secundum operationem et esse. Yocant autem aliquid alteri vmiri secundum esse, quando illud habet esse et nomen ab eo; non autem audiunt esse prò operatione, iuxta illud vivere viventibus est esse, nec prò esse educto de po Questa tesi si trova alla lettera nei quolibeta de intelligentiis d’Achillini, e NiFO, De intellectu, la dice tolta dal trattato De intellectu di Sigieri. N. Brab. nel pens. ecc. tentia niateriae; sed per esse intelligunt informationem quam corpori tribuit intellectus. Dicunt etiam quod, quando aliqua forma unitur alicui materiae, duo debemus considerare: primum, prout ipsa forma materiam constituit in esse, scilicet prout forma materiam informat eique nomen et difììnitionem concedit simul, prout ipsa forma a materia sustinetur ac ab ea dependet in esse et conservari secundum suum genus causae, ac etiam ab ea in operari dependet; secundum autem prout aliqua forma aliquod subiectum sive materiam in esse constituit, ipsa tamen per subiectum vel materiam in esse non constituitur, sicut se habet intelligentia et orbis; et huiusmodi asserunt se habere rationalem animam ad hominem, sive ad orbem humanum et suas partes. Dat ante intelligere hanc distinctionem Averroys, Physicorum primo, comm. ubi ait: Et quia coelum caret hoc subiecto, ideo caret forma quae substentetur per hoc subiectum, et fuit necesse ut forma eius sit liberata ab hoc subiecto, et non habet constitutionem per corpus codeste, sed corpus codeste constituitur per illam, ut scies alibi etc. Ex quibus apparet aliquam esse formam subiectum suum tantum constituens, non autem per illud constituta, sicut est de forma codi et de anima intellectiva in proposito nostro; alia vero est forma constituens subiectum suum in esse, ac per illud ipsa quoque in esse constituta Hoc idem dicitur in Physicae auscultationis, ex comm. Illud idem etiam et in capite De substantia orbis. Hanc eandem sententiam possumus sumere a commentatore De anima comm. et comm. non minus quam a Themistio, ibidem in paraphrasi sua de anima. Caeterum quod ista sit opinio commentatoris Averroys, ex verbis suis intdligi potest. Ait enim. Taiapietra riferisce l’obiezioni che a lui fanno gl’altri averroisti, i quali riteneno che per Averroè l’intelletto è separato dall'uomo, sì che intentio fuit commentatoris, quod intellectus possibilis, licet sit unicus in omnibus hominibus, non tamen proprie dat esse, sed operationem, eo modo quo dicunt aliqui intelligentiam uniti coelo, non dando ei perfectiones primas, sed tantum secundas, et hoc modo anima ipsa intellectiva unitur homini, secundum commentatorem, mediantibus scilicet fantasmatibus. Ed anzi tutto riferisce cinque obiezioni ricavate dalle opere dei averroisti. A queste n’aggiunge ben ventisette che gli movevanoi contemporanei, irritati dal vedere la dottrina d' Averroè interpretata in modo così diverso dal consueto: ex modernis autem inveniuntur quos adeo positio nostra in via commentatoris fastidit, quod, ut eam penitus delerent, omne quasi possibile induci contra illam attulere, Nel riferire questi argomenti, egli usa sempre il plurale dicunt, volunt etc. Ma giunto alla fine del capitolo, abbandona il plurale e addita un certo dottore contemporaneo di cui però non fa il nome: Ex his potissime vult iste doctor colligere positionem hanc contradicere fundamentis Averroys expresse. Et fortius et uberius instetit iste homo in hac materia, quam aliquis alter quem ego unquam viderim. Et iudicio meo multum laboravit hic vir, sed frustra. E nel capitolo successivo, rispondendo a queste obiezioni, torna ad accennare a costui ad vigesimum septimum: Et certe sum admiratus de isto homine qui aliquas tam frivolas rationes aduxerit. Quasi con certezza si può ritenere che questo dottore averroista che inveiva contro quello che egli ritene un travisamento del pensiero d'Averroè, fosse Zimara. Ad ogni modo è indubbio che la controversia non era tra averroisti e antiaverroisti, ma tra averroisti e averroisti, cioè tra primi cugini, se non proprio tra fratelli carnali. Ed erano maestri dello studio patavino: Sed post hos invenio aliquos qui in GYMNASIO PUBLICO patavino se magnos philosophos faciunt, voluntque per urbem digito ostendi ac ab omnibus observari; sed quo iure non video Alla spocchia di questi chacoaverroyci expositores Taiapietra oppone la sua superba Zimara, che dedica a Mocenigo, discepolo di Pomponazzi la quaestio de principio individuationis, l’Annotationes in Gandavenseni super quaestionibits metaphysicae e la quaestio de triplici causalitate intelligentiae in appendice alle quaesiiones di Jandun sulla metafisica, Venezia, era quello che meglio rappresenta l'averroista combattuto da Taiapietra. Non è tuttavia d’escludere che egli si riferisse direttamente a Pomponazzi, che, discutendo dell'immortalità dell'anima combatte la dottrina sigieriana in questi termini, Kristeller. Alia est opinio quorundam se averroistas existimantium qui dicunt quod anima ita se habet ad corpus sicut forma ad materiam. Vult autem opinio ista quod fuerit de intentione Averrois, animam intellectivam esse formam dantem esse ipsi corpori. Formarum autem dantium esse aliquae sunt constitutae in esse per subiectum et eductae de potentia subiecti et insunt ex mutua dependentia ei; aliae vero sunt quae nec sunt constitutae in esse per subiectum, nec sunt eductae de potentia subiecti, nec insunt ei ex mutua dependentia, tamen dant esse ipsi subiecto. Et talis forma praesupponit corpus organizatum actu existens, et non inducitur absque disposinone praevia, sed praesupponit omnes conditiones requisitas. Le stesse cose nel ms. napol. Giorn. Crit. Filos. Ital. certezza di essere nel vero: Et haec et tanta dixi, quia hanc viam ad mentem commentatoris caeteris subtiliorem et probabiliorem esse existimo, ac ab omni contradictione remotiorem. E più oltre: Et ista est resoluta doctrina philosophi, et panis non est tradendus canibus Nel studio di N. sulla diffusione del commento di Simplicio al De anima e sulle ripercussioni ch'esso ebbe nelle controversie, dimostra che i primi a trarne profìtto sono Pico e Nifo, e come l'uno e l'altro, ma specialmente il secondo, trovano in Simplicio una conferma del loro averroismo di marca sigieriana La quale opinione è condivisa dal nostro, che così scrive: Post haec omnia invenitur una alia opinio quae Simplicio ascribitur, qui ex intellectu et cogitativa aggregai animam rationalem, quasi ex istis compositam, quae, si recte intelligatur, ad niostram opinionem reducitur. Puto enim quod, quum ipse fuerit unus ex bonis Aristotelis expositoribus ut omnes graeci latinique philosophi de ipso testantur, voluerit cogitativam realiter distingui ab intellectu; verum quoquo modo rationalis anima ex cogitativa et intellectu componi dicitur, prò quanto cogitativa omnino habet introitum in essendo animam hominis licet non ultimate, et distinguendo ipsum, ac ipsum in specie non ultimate reponendo. Et confirmatur hoc, quia quae ad invicem quoquo modo vel vere componuntur, ad invicem et distinguuntur. Non autem credo Simplicium tenere cogitativam et intellectum esse idem realiter, secundum tamen gradus distinctos, quoniam tunc realiter essent plures intellectus generabiles et corruptibiles, sicut de cogitativis evenit. Et hanc sententiam confirmat Averroys, Methaphysicae comm. ubi ait: Et ex hoc quidem apparet bene quod Aristoteles opinatur, quod forma hominum, in eo quod sunt homines, non est nisi per continuationem eorum cum intellectu qui declaratur in libro de anima. Unde patet quod Averroys vult quod differentia hominis, inquantum homo, ultimate sit ab intellectu. Hoc idem sentit Averroys in destruc. desiruc, disp., in solutione dubii ibidem. Quare etc. Et sic etiam verificatur quod intellectus is non est actus corporis, id est non est forma educta de potentia materiae ab agente scilicet naturali, ut testatur philosophus; ob id tamen nihil prohibet quod intellectus ipse sit actus corporis, id est forma informans corpus et dans esse corpori. Et ex his habetur haec Simplicii positio in via peripatheticorum optime tirmata. Indi il maestro, dopo aver fatto vedere in che la tesi d'Averroè sull'intelletto possibile differisca dalla dottrina di Temistio e di Plotino, e dopo aver risolte l’obiezioni degl’altri averroisti e degl’avversari dell'averroismo, torna ad insistere che la sua maniera d' intendere il pensiero d'Averroè concorda in tutto e per tutto con quanto asserisce il commentatore arabo e, con lui, pensano i migliori averroisti, a capo dei quali è Sigieri: Ecce ergo qvio modo vult ipse Avwroes intellectum, inquantum quidditas, partiri per materias informatas dimensionibus et cogitativis; inquantum vero est individuum, esse id per quod individuum hominis est hoc. Intellectus ergo, ut habet esse reale, est forma suo orbi; ut autem habet esse intentionale et universale, est materia omnium intellectuum separatorum. Et ista videtur esse plana sententia Averroys in hoc quaesito, ut de mente eius tenent praeclarissimi viri et maxime inter alios Subgerius, praecipuvis averroysta. Et iste fuit discipulus Alberti et contemporaneus AQUINO, et qui, in quodam suo tractatu De intellecttt adversus AQUINO, opinatur, in via Averro^'S et philosophi, intellectum materialem esse formam perpetuam ex utroque latere. Dal modo come si parla qui di Sigieri, è evidente che Taiapietra aveva presente il trattato De intellectu del Nifo che era stato stampato a Venezia. Ma mentre questi s'era già separato dell'averroismo professato a Padova nei suoi anni d' insegnamento, il filosofo veneziano è ancora perfettamente averroista, e si direbbe che dalle opere del Nifo abbia attinto soltanto quel che gli serviva per conoscere il pensiero dell'averroista brabantino, del quale si fa difensore e propugnatore dinanzi al capitolo generale dei frati minori a Roma, contro l’argomentazioni del Nifo stesso ch'egli rintuzza. Il trattato ha per oggetto 1'ultima prosperitas et beatitudo, ossia 1' £ÙSai!J.o via aristotelica, intorno alla quale dissertarono a lungo gl’averroisti. Sigieri, a quanto riferisce Nifo, n’aveva parlato in DE FELICITATE – GRICE ON HAPPINESS ACKRILL EUDAEMONIA--, ed sostene in proposito forse le sue più ardite tesi. Per Aristotele il fine – GRICE METIER -- supremo dell'uomo, in quanto uomo, consiste nel pieno appagamento del desiderio che la 40 Nifo, De intellectu; De beatitudine animae, commento. N., Sigieri. mente ha di sapere, cioè di conoscere la realtà, non solo nelle sue manifestazioni contingenti, ma nelle sue cause e ragioni eterne. Occorre quindi che la mente risalga, al di là del mondo sensibile e di quel che nasce e muore, all'eterno e immutabile, al mondo metafisico, al cui centro è il principio di ogni intelligibilità e il fine ultimo cui le cose tutte tendono. Ma può l’intelligenza umana, legata com'è alla sfera della sensibilità, giungere a conoscere in se stessa la pura realtà ideale di Dio e dell’intelligenze motrici intorno a lui? Aristotele non dà una soluzione chiara di questo problema – GRICE: KANT DOES: COUNSELS OF PRUDENCE AS HAVING A FIXED PROTASIS: IF THOU WILLEST THAT THOU ART HAPPY --; e perciò i suoi commentatori greci, romani, ed arabi l'avevano cercata nel pensiero platonico e neoplatonico, elaborando quella tipica dottrina della copulatio della mente umana coll'intelletto agente, della quale si fa un necessario complemento dell'etica aristotelica – GRICE HARDIE ARISTOTLE’S MORALS --. Se l’intelletto umano non fosse capace d' innalzarsi a conoscere in se stesse le sostanze separate, dice Averroè nel commento alla metafisica, il desiderio umano di conoscere la verità sarebbe vano, ed inutile sarebbe l'esistenza di tali sostanze che noi non potremmo mai arrivare a conoscere nella loro vera natura – HARE L’UCCELLO DELLA FELICITA FELIX ILLE. È certo interessante veder posto il desiderio umano di conoscere a fondamento dei nostri giudizi intorno alla realtà. Ma a ciò non badarono i filosofi medievali. I quali si sforzarono piuttosto d'intendere come la conseguenza fosse dedotta dalle premesse, contro AQUINO che nega la legittimità di questa deduzione. In che modo giustificasse la legittimità della deduzione Sigieri, è fatto conoscere da Nifo, al quale s' ispira anche questa volta il patrizio veneziano nel riecheggiare che fa la dottrina sigieriana: Onod si foret hominibus omnino impossibile conoscere in se stesse le sostanze separate e Dio, tane natura ociose egisset; fecisset enim id, qnod est in se naturaliter intellectum, non comprehensum ab aliquo, et sic esset frustra, quemadmodum si fecisset solem non comprehensum ab aliquo visu. Hanc sequellam diversi diversimode deducunt; quidam enim eam sic deducere consueverant. Supposito primo quod omnis intellectio, conveniens intellectui possibili, non conveniat quin etiam homini competat, hoc expresse sensit philosophus, De anima, quicquid dicant alii; hoc quippe supposito negato, aufertur omnis via commentatori ad probandum coelum intelligere; quare AQUINO In metaphys. lect. si possibile est substantias separatas intelligi ab intellectu possibili, possibile est quoque substantias separatas intelligi ab hoc homine. Quo stante, tunc arguunt sic. Quandocumque aliqua reperitur forma apta non recipi in maximo receptivo alicuius generis, illa eadem non est receptibilis in minus receptivo eivisdem generis. Sed intellectus possibilis in genere intelligentiarum est maxime receptivus, ut constat De anima Igitur si primam formam non est possibile intellectum possibilem recipere, ncque etiam est possibile alium intellectum primam ipsam recipere formam. Unde omnes frustrarentur intelligentiae mediae ab hoc scilicet line, qui est deum gloriosum et sublimem intelligere. Verum quandocumque intellectus abstractus non potest intelligere superiora, ipse non potest intelligere inferiora; sed nulla intelligentia media potest primam intelligere; igitur nulla intelligentia media potest et intelligentiam mediam intelligere; sed neque deus potest intelligentias medias intelligere, ut Divinovum de mente Averroys concluditur. Et neque intellectus noster possibilis, ut fatentur adversarii, eas intelligere potest. Igitur intellectus possibilis, naturaliter in se intelligibilis, non est ab aliquo comprehensus; sic patet ociositas maxima in natura. Ex quo habetur quod, nisi abstracta intelligerentur a nobis, essent utique ociosa. Et haec fuit deductio Subgerii, viri in familia averroyca non obscuri Ma Taiapietra sa che non tutti gl’averroisti convengono nel modo d’argomentare di Sigieri; dal quale dissente in particolare Jandun: Alii autem, ut Gandavensis in quaestionihus suis de anima, quaestione, aliter deducunt. Et ipsi accipiunt primo quod substantiae separatae comparantur ad intellectum nostrum ut formae natae intelligi; intellectus vero noster comparatur eis ut subiectum natum recipere illas comprehensive et spiritu aliter; quod ex verbis Averro3^s multis viis probari potest. Primo, namque intellectus possibilis ultimus est abstractorum; sed semper infìmus intellectus est materia superioris, infima enim intelligentia perficitur a superiori sicut materia perficitur a forma, ut dicunt philosophi. Et confirmatur: quoniam vilius est potentia respectu nobilis, et nobile est tanquam actus respectu vilis; igitur, quemadmodum substantiae separatae sunt natae ntelligi secundum earum naturas, ita noster intellectus est natus Arist., De anima Poiché secondo Averroè, Metaphys. comm., Dio conosce soltanto se stesso e non le cose inferiori a sé. NiFO, De intell.; De beat, an., I, comm. Ma anche questa svista è in Nifo, De intell. perfici ab eis secundum suam naturam. Amplius, intellectus possibilis est materia omnium abstractorum et omnium intelligibilium; sed materia non corruptibilis ab ipsis formis est apta et potens suscipere omnes formas; intellectus igitur noster potest recipere omnia intelligibilia. Accipiatur igitur prò constanti, quod intelligentiae sint potentes intelligi ab intellectu nostro potentia quidem naturali; et similiter intellectus noster potest intelligere illas potentia naturali, sicut et ipsa materia potentia naturali potest omnes suscipere formas. Quo stante, arguit modo Ioannessic: intellectus possibilis, corpori continuus, est receptivus et passivus intellectionis abstractarum intelligentiarum; ergo habet naturalem potentiam recipiendi intellectiones earum, per earum scilicet essentias; ergo, si aliquando per cognitionem non attinget eas, tunc natura egisset ociose, quoniam fecisset illam potentiam naturalem intellectus nostri ad illas capessendas, quae tamen in actum nunquam adduceretur. Et quod haec sit Averroys ratio, declarat ibidem Ioannes exemplo eius. Et sic patet quomodo Ioannes deducit illam sequellam, exponendo totam potentiam intelligendi ex parte nostri intellectus, et non ex parte intelligentiarum, ut fecit Subgerius, qui totam intelligendi potentiam ad substantias separatas convertit. La stretta dipendenza dell'averroista veneziano dal Nifo, si rivela oltre che dai testi citati, anche d’un particolare caratteristico, là dove s'accenna a quell'esposizione del pensiero averroistico che veriores averroyci exceperunt a filio Averroys in tractatu suo De intellectu. Ma comunque interpretata, la dottrina averroistica sulla copulatio e sulla felicitas Averroistarum, di cui era solito beffarsi il Perette, è evidentemente contraria all'insegnamento teologico. Perciò Taiapietra s'affretta ad aggiungere :Verum quicquid dicatur principiis innitendo naturalibus ad mentem philosophi et commentatoris, nihilominus secundum veram theologorum sententiam dicimus nullam generi humano in hac vita contingere posse foelicitatem et beatitudinem, sed illam ei servari post mortem in alio statu. Viatori enim non potest NiFO De intell. Amplius, filius Averroys in tractatu de intellectu Declaravit has tres demonstrationes filius Averroys in tractatu de intellectu anche nei Collectanea: et hanc domonstrationem dedit Alpheeh Averroys filius in tractatu quem edidit ad instantiam patris, et eam multum laudavit; e più oltre: et si inspicies librum Alpheeh Averrois filij; e ancora più giù: Et in commentariis, quos scripsi in libro felicitatis Averroys et eius filii. inesse foelicitas nisi in patria, nec etiam abstracta ab eo cognosci possunt cognitione matutina sed tantum vespertina ut sacri nostri recte sentiunt theologi. Con siffatta dichiarazione, egli ha ottenuto il duplice scopo, di rassicurare i teologi sulle proprie intenzioni, e di poter discutere con tutta libertà intorno al vero pensiero del filosofo e del commentatore. E di questa libertà, procacciata a prezzo di quella dichiarazione, approfitta nel modo piìi ampio, attenendosi al famoso commento del De anima. Anzi tutto, coll'esporre e criticare la dottrina di Alessandro intorno al modo come l' intelletto umano giunge ad unirsi coll’intelletto agente, che per Afrodisio è Dio, e quella di Avenpace e di Temistio; poi collo spiegare e difendere la tesi che ad essi oppone Averroè, qui inter omnes philosophos post Aristotelem perfectior fuit et subtilior. Taiapietra combatte l’interpretazione che del pensiero d'Averroè da Jandun, il quale opinatus est quod foelicitas nostra consistat in actu sapientiali, et sit sapientia quae habetur Divinormn xii, a textu commenti xxix usque in finem. Come si vede la felcità – GRICE HARDIE ACKRILL AUSTIN SOME REMARKS ON HAPPINESS -- in siffatta teoria era a portata di mano: per quanto astrusa, la metafisica aristotelica non è poi inintelligibile, e sopra tutto abbastanza facile a capire è la parte che parla appunto delle sostanze separate che muovono i cieli, e della pura mente di Dio. Ma il possesso delle scienze speculative non basta alla suprema felicità dell'intelletto umano, occorre l'inerenza formale del primo vero nella mente umana, la cui potenza resti così tutta attuata. Il possesso delle scienze speculative è condizione per giungere a questa beatitudine dell'intelletto, non il fine ultimo cui aspira la mente umana, che riposa solo nel possesso del vero eterno --- citta dell’eterna verita GRICE -- fuor del qual nessun vero si spazia. Ora a questo possesso s'arriva soltanto colla copulatio o continuatio dell'intelletto possibile coll'intelletto agente, sì che la potenzialità del primo sia tutta sommersa e assorbita nell'attualità del secondo: Ipse (commentator), commento (De anima) totiens allegato, inquit quod in adeptione illa nos intelligimus omnia et sumus sicut dii, et quod ille modus intelligendi non currit cursu scientiarum cogitativarum, quae habentur per discursum, sed est per substantiam intellectus agentis, in quo omnia intuitive cognoscimus. Convincitur ergo ad intentionem commentatoris, quod ea in cognitione intuitiva nos utique foelicitamur; non autem in illa quae in metaphysica per demonstrationem habetur. Del tutto aderente all'interpretazione sigieriana del pensiero d'Averroè, quale ci è nota pell'esposizione che ne fa Nifo e che concorda con quanto pensa Achillini, è anche l'interpretazione che della vera dottrina del commentatore ci dà Taiapietra: Superest modo circa ambiguitatem hanc magni commentatoris afferre sententiam, quam omnes viri sublimes in philosophia ac in secta averroyca primarii nobiscum integre et perfecte sentiunt. Opinamur enim itaque foelicitatem esse deum. Nam assumpta foelicitatis diffinitione prò maiori, tunc si addatur haec minor, videlicet: sed deus est ultimus finis, optimus, propter se eligibilis, ad nullum aliud ordinabilis, cuius gratia omnia eliguntur, bonus et perfectus, pulcherrimus, delectabilissimus, per se sufficiens, honorabilis, principium et causa omnium bonorum; ex his ergo optime convincitur, quod deus est foelicitas. Foelicitas enim, quia rationem totius boni amplectitur, omnem quietat voluntatem; quia vero rationem totius entis continet, universum saciat intellectum. Sed in nullo nisi in deo verius reperiuntur ratio totius boni et totius entis. Ergo etc Et hoc forte, et sine forte, balbutiendo intellexerunt vetustiores; nec valet quod dicunt quidam moderniores, quod bene concluditur deum esse foelicitatem simpliciter, sed non homini propriam. Sed profecto hoc nihil est, ut piane ostendimus in superiori capite: hanc enim conclusionem habent Averroes et Aristoteles expresse, x. Nichomachiae, capite, scilicet quod deus est foelicitas sibi et aliis intelligentiis et etiam homini. Solum enim ipse est perfectissiinum intelligibile et appetibile propter se; in eo enim eminenter reperitur ratio obiecti intellectus et voluntatis, immo solum ipse est eminenter omnia bona continens. Et confirmatur, quoniam id quo foelicitantur dii omnes est suprema hominis et omnium foelicitas; sed deus est quo omnes foelicitantur; omnes enim intellectus foelicitantur intelligendo deum; sed intellectio qua ipse deus intelligitur est ipse deus; igitur omnia deo foelicitantur. Et haec ratio tota est philosophi, Nichomachiae. Quare concluditur quod deus, ipse formaliter est foelicitas. Amplius, quo foe Sigieri Alla lettera da Nifo, De intellectu Allude forse al passo àeWEtìi. Nicom.. licitatur deus, foelicitantur et alii omnes intellectus, ut expressa est sententia philosophi, Divinorum, et praecipue commentatoris, ibi, comm. Sed deus non foelicitatur nisi dee, ut inquit Politicoruni: deus foelix quidem est et beatus, propter nullum autem extrinsecorum bonorum, sed propter seipsum ipse. Deo, ergo, nedum homo, sed omnia foelicitantur. Sed nihil foelicitatur nisi foelicitate. Deus igitur ipsa est foelicitas. Et ex hiis verifìcantur omnia verba Aristotelis in toto libro Ethicoriim, ubi de foelicitate sermonem habet. Giunto alla fine trattato, il filosofo, rendendosi ben conto che siffatta felicità è irraggiungibile all'uomo in questa vita, torna ad avvertire il lettore che tutto quello che abbiamo udito da lui su questo argomento, ad altro non mira se non a chiarire qual è in proposito il vero pensiero d'Aristotele e Averroè: Hoc enim, in explanandis auctoribus, expositoris officium esse consuevit, ita quod, quid ipse velit auctor, et determinet et ad verbum interpretetur, etiam si illud falsum sit, ut auctorum integrae et non manchae, fideles et non depravatae sententiae circa quaeque apud omnes recipiantur. His autem sacri nostri Poi. ediz. Immisch. Leipzig, Teubner, Così anche Nifo nella lettera all'inquisitore Grassetto, della quale è stato fatto cenno sopra: in exponendis enim auctoribus, commentatoris officium solet esse, quid ipse auctor velit ac sentiat, etiam si id interdum minime verum sit, interpretari. Di questo che è non solo diritto ma dovere di ogni interprete onesto, si valsero tutti gl’averroisti per esporre con la massima libertà il pensiero d'Aristotele e dei suoi interpreti. Ma Nifo, per entrare nelle buone grazie dell'inquisitore, aggiunge. Itaque ut in illis quae ad philosophiam pertinebant, philosophi ac interpretis munere functi, ipsum auctorem exposuimus; ita in his quae fidei catholicae contraria erant, ultra expositoris terminos evagati quemadmodum hominem christianum decebat, ipsi auctori contradicimus eiusque OPINIONES – GRICE PREJUDICES AND PREDILECTIONS, WHICH BECOME THE LIFE AND OPINIONS OF H. P. GRICE -- ac dieta omnia theologorum nostrorum auxilio confutavimus -- quello che Taiapietra e in generale gl’averroisti non fanno. Del che l'inquisitore gli dà atto: placetque mihi quod in philosophia, christianae fidei non immemor, in plurimis philosophos redargueris, nihilque in toto opere invenerim quod castigatione dignum censeam -- in fine del volume che contiene il commento di Nifo alla Desfritctio e il De sensu agente nell'ediz. veneziana. Di questo zelo nel redarguire e confutare le dottrine dei filosofi ancora di più che nel commento alla Destriictio, Nifo fa mostra nel De intellectit, riveduto e corretto pell'edizione, ove è evidente il proposito di rifarsi una verginità filosofica anti-averroistica, adoprandosi a far credere che il suo distacco dall'averroismo risalga e preceda quello del suo maestro Vernia. Hec sunt que preceptor defendit ad mentem Platonis et Aristotelis theologi iuxta christianam nostrani religionem multa addunt, quae nos ex testimonio prophetarum credimus; et ideo ea tantum asserta esse volumus, non quaerentes ad liaec aliquam rationem, sed quantum ortodoxa ecclesia praecipit, procul dubio asseveramus. Itaque, ut philosophum decet ac peripatheticum hoc in tractatu quae ad philosophiam pertinebant, more phisici interpretis, declaravimus, ubi non parum boni fecisse arbitramur, quum multa in naturali philosophia obscura et latentia iuxta sententiam philosophi et eius magni commentatoris Averroys in lucem ediderimus et ea bene dispositis aperte propalavimus. A questo trattato ne seguono altri, concernenti argomenti di filosofia naturale fieramente controversi tra gl’aristotelici delle varie tendenze, e cioè Utrum nec ne apud philosophum plures substantiales formae ad invicem realiter distinctae in substantiali composito sint ponendae Utrum ad intentionem philosophi dementa remaneant formaliter in mixto Utrum simplex elementum alterari possit et a se De quorumcunque simplicium sive mixtorum primo ac proprie dicto elemento e su tutti questi argomenti Taiapietra difende con risolutezza ed energia la dottrina d'Averroè come quella che combacia perfettamente coll’insegnamento di quello glorioso filosofo al quale la natura più aperse li suoi segreti, come pensa ALIGHIERI. Ma di siffatti argomenti il nostro palato, che ha assaporato Hume e Kant – E KANTOTLE ARISKANT PLATHEGEL --, non ha più il gusto, che non hanno perduto invece i sequaci d’AQUINO, ai quali è giusto che queste pagine siano segnalate. Tale il programma che l'allievo dei maestri padovani prepara pella solenne disputa romana. A parte l'accenno abbastanza vago che Sanudo fa dell'obiezione di Gabrielli ad una delle tesi sostenute dal dottorando, perché l'è ereticha, non sappiamo a quali altri assalti dove tener testa l’averroista veneziano. Sappiamo soltanto che egli giostra da bravo e che il giorno appresso il papa lo dotoroe. O tempora! – IT IS A GOOD THING I NEVER TRIED TO EXPLORE QUA HAMSWORTH SCHOLAR THE 39 ARTICLES – GRICE -- in eo libello quem inscripsit De animorum pluralitate, quem confecit compluribus annis post nostrum De intellectti librum Nifo, De anima, comm. Eppure Nifo sa bene che Vernia, nella dedica dell'opera a Grimani, dichiara d’avere scritto anch'egli il suo trattato Conv., Nel volume su Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, N. ha a riunire alcune importanti testimonianze intorno a due e forse tre scritti dell'averroista brabantino, che si leggeno ancora a Bologna e a Padova. Queste testimonianze si trovano pella massima parte nel De intellectn et daemonibiis di Nifo, il quale pretende d'avere scritto quest'opera a Padova, quando già s'era distaccato dall'averroismo sigieriano cui egli aveva prima aderito. E pare che in quegli anni egli scrive davvero una quaestio de intellectu in senso sigieriano, e che in seguito, per evitare la taccia d’eresia e guai maggiori, ri-elaborasse quella quaestio, sino a farne il trattato De intellectu, dedicato a Badoèr: che d’edizioni anteriori non esistono tracce. In tal modo Nifo cerca di far credere che egli aveva preceduto il suo maestro Vernia nell'abbandono dell'averroismo. Nel De intellectu e nel commento al De animae beatitudine di Averroè, Nifo si riferiva a due opere di Sigieri o, com'egli scrive, Sugerius, Suggerius, Subgerius, vir gravis, secte Averro3stice fautor, etate Expositoris, cioè d’AQUINO, discipulus Alberti, Subgerius contemporaneus AQUINO. Queste due opere sono un tractatus de intellectu, Dal Giorh. Crit. d. Filos. Ital. tertio loco inscriptus, qui fuit missus AQUINO, prò responsione ad tractatum suum contra Averroim, e un liber de felicitate che pare identico col tractatus intelligentiarum et beatitudinis, ricordato dallo stesso Nifo nei suoi Colledanea sul De anima, nell'edizione veneziana e in quella, nelle quali Subgerius è diventato Subiegius. Ma nel suo trattatello De primi motoris infinitate, portato a termine quando aveva lasciato Padova, Nifo sembra attribuire a Sigieri un terzo trattato de motore primo et materia celi. L'espressione in tractatu suo de intellectu, tertio loco inscripto potrebbe intendersi di un volume di scritti sigieriani, ove il tractatus de intellectu si trovasse trascritto al terzo posto fra altre opere dell'averroista belga. Delle varie dottrine attribuite a questo Sugerius o Subgerius da Nifo, due giova qui ricordare: quella che tende a mettere in evidenza il procedimento deduttivo onde Averroè aveva concluso che se l'intelletto umano non potesse intendere le ostanze separate queste sarebbero inutili, ociosae; e l'altra che afferma che ogni intelligenza inferiore intelligit sviperiorem per essentiam superioris, ossia in quanto l'intelligenza superiore l'informa di sé intenzionalmente e s'unisce ad essa. Orbene: quanto alla prima di queste due tesi, sappiamo che il domenicano Silvestri da Ferrara, nel suo commento alla somma Contra gentiles, l'attribuisce a Rugerius in tractatu suo de intellectu, misso Beato AQUINO prò responsione ad tractatum suum contra averroistas. In un primo momento, N. pensa che Silvestri dipende da Nifo e che Rugerius fosse un errore di stampa per Sugerius. Però avevo aggiunto: ma può darsi che egli citi d’un manoscritto in cui il nome di Sugerus. era già stato mutato in Rtigerius. Qualche luce viene ora a gettare su questa, che non è affatto una quisquiglia, l'importante notizia nella quale mi sono imbattuto scorrendo il codice marciano Lat., che contiene le Annotationes in jo UJjro de anima, die vero iovis quae fuit ah excellentissimo ac celeberrimo domifio Mofìtedocha, unum trium sui temporis philosophoriim peritissimo, trascritte dal padovano Tedoldi, dottore nelle arti, ad laudem ei, dic'egli, et meae amicae quam maxime amo! Montesdoch studia a Bologna e nello studio bolognese insegna filosofia naturale in concorrenza con Pomponazzi, e per alcuni anni legge anche la metafisica. Ma in seguito a contrasti che N. ritiene egli ha con Pomponazzi, lascia Bologna e anda a insegnare a Roma. Da Roma appunto, per un ingaggio vantaggioso propostogli dall'ambasciatore veneto Minio, passa a insegnare filosofia naturale a Padova, iniziando il corso delle lezioni colla lettura del commento averroistico al De anima. Nella lez., egli venne a porsi appunto il dibattuto problema, come un'intelligenza inferiore conosca l’intelligenze superiori ad essa. Dopo aver riferite varie opinioni, egli accenna a quella moderna sostenuta d’Achillini, che l'intelligenza inferiore conosce quella superiore per essentiam superioris. Siffatta tesi, osserva Montesdoch, può dirsi moderna solo in quanto alcuni moderni, come Achillini, se la sono appropriata. Ma prima di loro e' è stato Ruggiero. Cosi anche nel Marciano lat. che contiene le lezioni dello stesso Montesdoch sulla Fisica, Tedoldi che le stava trascrivendo, interrompe la lez. con questa informazione autobiografica: Et sic sit finis huius lecturae nostrae prò praesenti, quae fuit die mercuri 8 mensis augusti et hora ii ad laudem dei et beatae mariae atque amicae meae quam maxime amo, quia hodie hora habui eam in brachiis meis. Le parole tra parentesi quadrate son coperte d'inchiostro e solo alcune appena leggibili. Sotto è un quadrato che dove contenere un motto o un piccolo disegno. Ma anch'esso è stato coperto d'inchiostro nero. E alla fine della lezione sul De caelo, commentato da Montesdoch, cod. marciano lat., Tedoldi, che la sta copiando, annota: Sed quia hora est nimis tarda, et quia maxime crucior amore meae amicae, ideo valde fessus cogor non amplius scribere. Tanto che, lasciata Bologna d’un pezzo, Montesdoch conserva ancora del Peretto un ricordo disgustoso. Nel commento infatti alla Fisica fa menzione di lui come nimis monstruosus, e troppo grossolani ne dichiara i ragionamenti: dicit rationes nimis grossas Alia positio et opinio est quae est opinio non moderna, dato quod moderni eam sibi tribuant. Sed ante eos fuit Rogerius; fuit magnus vir, cuius opera non habentur impressa, nec vidi ea nisi in bibliotheca sanati dominici de bononia, et ea etiam vidi romae in sanato Ioanne de viridario. Fuit etiam opinio Ioannis de RIPA; tamen Achillinus sibi eam tribuit, quomodo seconda intelligentia intelligat primam, ms. Marciano. Che questo Rogerius sia il Sugerius o Subgerius di cui parla Nifo non v'è dubbio. Ma l'importanza di questa informazione di Montesdoch consiste nell' averci egli indicato dove aveva visto l’opere di questo Rogerius sostenitore della dottrina che Achillini spaccia per sua. Queste opere non ancora stampate, bensì manoscritte, erano state viste da lui a Bologna, nella biblioteca del convento domenicano di S. Domenico, e dipoi a Padova, nella biblioteca del monastero di S. Giovanni in Verdara dei Canonici Lateranensi. Veramente nel ms. Marciano si legge: et ea etiam vidi romae in sancto Ioanne de viridario; ma è evidente che al posto di romae deve leggersi paduae supponendo che il nome di Padova fosse scritto con l'iniziale maiuscola, l'errore di lettura si spiega facilmente; a meno che non debba leggersi romae et in sancto Ioanne de viridario. Quanto al codice veduto a S. Domenico di Bologna, parrebbe trattarsi di quello usato da Silvestri che, come abbiamo visto, ne ritenne autore, anch'egli, Rogerius, che si ha ragione di ritenere identico a Sugerius. Questo codice non figura affatto nei cataloghi di S. Domenico pubblicati da Laurent Vigili et les hibliothèques de Bologne au début du xvie siede d'après le ms. Barb. latin E nella lez lo stesso Montesdoch dice. Una est opinio Ioannis de RIPA, cuius opera sunt bononiae in conventu sancti lacobi, qui est fratrum Eremitarum. Et ipse bene intellexit opinionem averrois in hoc loco, sicut aliquis alius. Omnia autem ab Ioanne de RIPA accepit Achilinus. Come risulta dall'opera di Laurent, citata più oltre, il commento alle Sentenze, cui qui si allude, era posseduto non solo dalla biblioteca del convento di S. Giacomo, ma altresì da quella di S. Domenico e da quella di S. Francesco. In questo scritto o questione non solo Giovanni da Ripatransone si dilunga in ben quattro articoli sul tema qui accennato, ma ci offre un'ampia esposizione del suo modo d' intendere la dottrina averroistica sulle intelligenze separate e sull’intelletto umano, molto vicina e spesso identica a quella di Sigieri. in Studi e Testi, Vaticano. Dove è andato a finire e come è scomparso? Siccome esso fu visto da Silvestri, che, proprio a Bologna nel convento di S. Domenico, aveva portato a termine il suo commento alla somma Contra gentiles, e da Montesdoch, si può pensare che esso sia stato fatto sparire come opera d'averroista inviso ai domenicani, che l'averroismo ritenevano una pericolosa eresia, a differenza di altri, per esempio degh eremitani e dei carmelitani, assai meno ligi ad AQUINO. Tanto più che Achillini, come ricorda Montesdoch, aveva fatte sue le dottrine dell'averroista brabantino, pur evitando di nominarlo, nella pubblica disputa tenuta al capitolo generale dei frati minori. Quanto all'esemplare che Montesdoch dichiara d'aver visto nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, a Padova, N. ha il sospetto che esso potesse essere una copia di quello di Bologna, ordinata da Marcanova, negli anni che questi insegna a Bologna, e quindi passata al monastero di Verdara insieme alla biblioteca di lui. Ma dallo studio di Sighinolfi, che della biblioteca del Marcanova ha pubblicato l’inventario nei Collectanea variae doctrinae in onore di Olschki, Monaco di Baviera, non risulta. Questo per altro non vorrebbe dir molto, perché spesso l’inventario è assai generico e contiene non pochi numeri d’opere anonime, fra le quali potevano ben trovarsi incastrate quelle di Sigieri. Al notaio premeva più d’elencare il numero dei volumi che non il loro effettivo contenuto, contentandosi d'un'ispezione molto superficiale, che spesso rende difficile riconoscere l'esatta natura d’opere appena accennate con titoli piuttosto vaghi, anche senza contare i non pochi errori di trascrizione commessi da Sighinolfi. Si potrebbe pensare, è vero, che gli scritti di Sigieri fossero entrati per altra via che non fosse quella del legato testamentario del Marcanova. Ma è sicuro che essi non figurano nell'elenco che Tomasini redasse dei manoscritti di Verdara nelle Bibliothecae Patavinae maniiscriptae puhlicae et privatae Ma potrebbe anche darsi che l'opera di Sigieri restasse sconosciuta o fosse dimenticata da Vigili, poiché il suo catalogo è lungi dall'essere completo. Udine, nemmeno in quello manoscritto della Marciana (Ital.); sì che bisogna rassegnarsi a pensare che, già prima, gli scritti di Sigieri fossero ormai spariti anche dalla biblioteca dei canonici regolari lateranensi di Padova. In questa biblioteca, ch'era assai ricca, non mancavano commenti ad Aristotele e trattazioni concepiti, queste e quelli, secondo lo spirito averroistico. V'era, fra l'altro, l'ampia esposizione del servita Urbano Averroista sul commento d'Averroè alla Fisica, che Marcano va aveva fatto copiare a sue spese a Bologna in due grossi volumi corretti e postillati di sua mano. Quando a Venezia, l'opera d'Urbano fu data alle stampe su un vecchio codice bolognese per volontà del priore generale dei Serviti, Alabanti, dietro suggerimento di Vernia, questi s'accorse e fa notare che il codice trovato d’'Alabanti contene la stessa esposizione alla Fisica, che nella copia di S. Giovanni in Verdara era attribuita a Marcanova. Ma l'osservazione di Vernia passa inosservata; e anche quando dal monastero padovano il codice passa alla Marciana, nei cataloghi di questa l'opera d' Urbano resta attribuita a Marcanova, sebbene nell’explicit sia detto (Lat., CI.) che il nome dell'autore non si conosce: cuius nomen non habetur. Ed alla stessa biblioteca di S. Giovanni in Verdara e ai Canonici regolari Lateranensi, che abitano quel monastero, era particolarmente affezionato l'averroista maestro Vernia, il quale, gravemente ammalato, fa testamento a loro favore e, qualche anno dopo, fa ad essi donazione dei suoi libri. Per quella volta la negra parca lo risparmiò, lasciandogli ancora più d'un ventennio, per il piacere dei suoi colleghi ed alunni, pelle sue filosofiche speculazioni e per diverse marachelle non precisamente filosofiche. Ma quando sentì A proposito dell'opera d' Urbano, che nel prologo dell'edizione si dice cominciata prima, giove avvertire che il p. R. M. Taucci, de' Serviti, / maestri della fac. teolog. di Bologna, in Studi stor. sull'Ord. dei Servi di Maria osservando che l'unico maestro servita di nome Urbano fiorì prima, propone di correggere la data che la morte sta ormai per ghermirlo, detta le sue ultime volontà, in Vicenza, lasciando ancora tutti i suoi libri, omnes libros graecos et latinos, ai Canonici regolari Lateranensi del monastero di S. Bartolomeo di quella città, perché fossero posti nella loro biblioteca, e chiede altresì d'esser sepolto nella loro chiesa. Nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, a Padova, pare dunque che Nifo, discepolo di Vernia, legge le tre opere da lui citate e attribuite al grande averroista Sugerius o Subgerius, ov'egli dichiara d'avere attinta la dottrina, un tempo da lui seguita, sul modo come l'intelletto possibile, unico per tutti gli uomini, s'unisce ai singoli e può dirsi vera forma dans esse homini. Lo stesso Nifo, nel commento alla Destructio destructionum, apparso pella stampa accenna ad una discussione avuta col conte della Mirandola, mentre in corbula si recavano a Bologna. Per la Pentecoste, in occasione del capitolo generale dei frati predicatori tenuto a Ferrara, c'era stata una solenne disputa pubblica alla presenza del duca Ercole, e il domenicano VIO, venuto apposta da Padova ove insegna metafisica, s'era trovato di fronte Pico, il quale gli aveva mosso niente meno che cento obiezioni. Mortier, Histoire des Maitres Généraux de l'ordre des fr. Precheurs. Pochi giorni dopo, anche i frati minori adunarono a Bologna il loro capitolo generale e, secondo il costume, diramarono inviti ai maestri e ai dotti delle città vicine che avessero desiderato partecipare alla disputa pubblica che si sarebbe tenuta, more solito, in quell'occasione. A Bologna sarebbe sceso in lizza uno dei maestri dello studio che già comincia a far parlare di sé pella sua serrata dialettica e per certa nuova maniera d'intendere l'averroismo. L' invito doveva solleticare il battagliero conte della Mirandola e Nifo, che verosimilmente era accorso da Padova alla disputa nella quale era campione un suo collega. E penso che tutti e due insieme sian partiti da Ferrara per trovarsi alla disputa che il jo giugno, seconda domenica dopo Pentecoste, Achillini avrebbe tenuto a S. Francesco in Bologna. E quale non dev'essere stata la sua sorpresa nel sentire che maestro Achillini discetta intorno alle Intelligenze, da quella del Primo Motore che è puro atto, giù giù fino air intelletto possibile umano che è pura potenza, e con grande risolutezza e abilità dialettica fa sua la dottrina averroistica di quel Sugerius, del quale anch'egli aveva letto gli scritti che a Padova si conservavano in S. Giovanni di Verdara, ove ritengo li avesse visti e letti anche il Signore della Mirandola. Questa risolutezza del collega bolognese deve averlo tanto più meravigliato, che a Padova il decreto vescovile aveva assai limitato la libertà di giostrare sull'unità dell'intelletto umano, ed egli e Vernia si vedevan costretti a dissipare i sospetti che si nutrivano su loro come averroisti. Nel trattato De intellectii, scritto da Nifo col proposito fin troppo palese di rifarsi una verginità antiaverroistica, in gara con maestro Nicoletto, si direbbe ch'egli prendesse di mira i quolibeta de inielligentiis, pur senza nominare l'autore d’essi, delle cui dottrine svela la fonte negli scritti di Sigieri, d'Achillini taciuta. Il nome di Zimara, largamente diffuso, è strettamente legato alla storia dell'aristotelismo, e in particolare di quella corrente che fu l'averroismo, anzi di uno speciale indirizzo di questo in contrasto con altri indirizzi che si reclamavano ugualmente d’Averroè, il commentatore per eccellenza d'Aristotele, l'arabo Averrois che il gran commento feo. Invece il nome del figlio di lui, Teofilo, è rimasto presso che sconosciuto, fra gli storici della filosofia italiana. Peggio: uno di questi che di recente ha dedicato al pensiero italiano del Rinascimento tre grossi volumi, Saitta, essendogli accaduto di metter la mano, senza volerlo, sul massiccio e diffuso commento di Zimara, Marci Antonii F., al De anima, ha attribuito quest'opera al padre, ignorando l'esistenza del figlio. E fin qui poco male. Ma egli s’è spinto assai più in là; che non pare si sia reso conto che, mentre Marcantonio è un averroista schietto e tutto d'un pezzo, il figlio al contrario combatte apertamente l'averroismo e propugna un platonismo cristianeggiato, che, divenuto di moda tra gli umanisti dopo Ficino, si propone di conciliare Aristotele, liberato dall'esegesi averroistica, con Platone, con Plotino, con Proclo e con Simplicio. E questo è il male peggiore che puo capitare a Teofilo, che cioè il grosso volume dedicato a Sirleto, e dal quale s'attende qualche fama, non solo gli fosse tolto, ma ne fosse travisato il pensiero, col ravvicinarlo all'averroismo. Atti del Congresso Storico Pugliese, Archivio Storico Pugliese. Sono stati apportati alcuni notevoli ritocchi. Ma anche intorno a Zimara accade di leggere nei libri di storia della filosofia grossi spropositi, che N. si propone di correggere, raccogliendo quello che di certo si sa intorno a lui e al figlio e intorno alle loro opere. Ben inteso, non si tratta di richiamare l'attenzione dello storico su due astri di prima grandezza o, come si direbbe oggi, su due figure di primo piano nel complesso panorama del nostro Rinascimento: si tratta soltanto di mettere nella giusta luce due onesti pensatori che, pur senza elevarsi gran che sulla coltura del loro tempo, meritano di non esser dimenticati, perché di quella coltura sono eminentemente rappresentativi. I. Zimara. Di lui sappiamo con certezza che sostene a Padova la discussione preliminare al dottorato in artibus, ossia fa il tentativum nella chiesa di S. Urbano, ove d’un cinquantennio sole riunirsi il sacro collegio degl’artisti; e che una settimana dopo nell'aula solita d'esami in vescovato, sostenne il privatum examen e consegue il grado di dottore in artibus. Il filosofo Trapolin gli conferì le insegne del grado a nome del sacro collegio. Tutto questo è perfettamente documentato dagl’atti del collegio stesso, nell'archivio dell'università di Padova, e dagli Ada graduum presso l'archivio di quella curia vescovile. Da notare: presenti come testimoni al giuramento e al dottorato sono Pomponazzi e Bacilieri; il primo ritornato da poco a Padova, ove insegna filosofia naturale come ordinario primo loco, il secondo venuto via da Bologna per contrasti coi colleghi, e straordinario della stessa materia. In questi atti. Marcantonio è detto figlio quondam Zimara de Sanctopetro de Galatina terre Hydrunti. Altra cosa certa è ch'egli potè fare gli studi di filosofia a Padova grazie all'aiuto dello zio Bonuso, prelato della chiesa di S. Pietro in Galatina, al quale dedica l'edizione dei Subtilissima Hervei Natalis Britonis Quodlibeta undecim cum odo ipsius profundissimis tradatibus, da lui curata pell'editore veneziano Arrivabene. Anche nella dedica della quaestio de primo cognito, Venezia, a Contarini, accenna espressamente a questo zio. Bonusio, propresuli, avunculo, qui me semper eque ac filium carum habuit fovitque, cuique non minus quam parenti mee animam hanc debere me libens profiteor. Papadia lo dice nato da povera e oscura gente: e cita in proposito un'epistola ms. di Vernaleone, che esiste a suo tempo presso i signori Caroti. Sulla scorta della quaestio de regressu Excellenfissimi Domini Marci Antonii Zimarea nell'Ambrosiana di Milano, Cod. S. Q., fui indotto, nella prima edizione di questo saggio, a supporre un primo soggiorno padovano, anteriore, perché l'autore di quella quaestio accenna più volte a discussioni avute con Maestro frate Francesco da NARDO, che insegna Metafisica a Padova in via AQUINO, mentre frate Antonio Trombeta insegna la stessa disciplina in via Scoti Erotto e Zonta, La facoltà teologica di Padova. Padova: Ad argumenta praeceptoris magistri Francisci de NARDO, dico; sed advertatis quod praeceptor meus antequam ingrederetur ad scolas ad legendum, allocutus fui eum supra hoc, et dixit mihi. Ma pili tardi, visto il codice della Nazionale di Napoli, che contiene il commento del Pomponazzi ai primi due libri del De anima e il commento dello stesso Peretto al terzo libro, m'accorsi con mia sorpresa che quella quaestio, attribuita a Zimara nel codice ambrosiano, non è affatto di questo, sibbene del suo maestro, il mantovano Pomponazzi, che più volte ricorda d'essere stato discepolo del sequace d’AQUINO Nardo. Quindi cade l' ipotesi di un soggiorno di Zimara a Padova, prima di quello indicato da Papadia, il quale dice che lo zio, Bonuso, l’inviò a Padova. Se a Padova giunge quando erano già morti Nardo e Roccabonella, vi trova tuttavia maestri provetti che godevano già di gran fama o quelli che erano sulla via di procurarsela: il faceto Vernia, Memorie storiche della città di Galatina, Napoli averroista spregiudicato, finché il vescovo di Padova, Barozzi, col decreto non l'obbligò a ravvedersi, Trapolin, anch'egli averroista, ma ben più moderato e guardingo, gli scotisti Trombeta e Ibernico, il Peretto Mantovano che rivelava una spiccata tendenza a ribellarsi all'averroismo di moda, il vicentino Fracanziano, concorrente del Pomponazzi, Bacilieri che a Padova professa l'averroismo di marca sigieriana del quale a Bologna era acerrimo propugnatore Achillini. Nifo lascia con gran disdegno lo Studio patavino, non sappiamo se malcontento dello stipendio o per dissensi coi colleghi. E Vernia muore, e la sua cattedra venne appunto coperta col richiamo del Peretto, cui fu dato a concorrente Fracanziano. Di questi maestri, Trapolin fu primo promotore del dottorato in artihus del Sanpetrinate, come Zimara ama chiamarsi; ma di lui N. non ha trovato cenno, né in bene né in male, nelle opere dell'alunno. Del Pomponazzi invece parla spesso; sebbene il rispetto pel precettore non gl’impedisca di combatterlo su varie dottrine – GRICE: UNLIKE STRAWSON, WHO’D NEVER DARE --, e di pigliarlo di mira più volte in modo assai vivace nella Tabula dihicidationum in dictis Aristotelis et Averrois, e particolarmente nella quaestio d’immortalitate animae. Del Bacilieri combatte la tesi che identifica l'intelletto agente con Dio, che egli attribuisce, come fa anche Pomponazzi, ai bononienses. A Trombeta accenna anche alla fine dell’annotiones sulla Metafìsica di Jandun: in his omnibus subtilissime repraehenditur Ioannes a praeceptore meo Magistro Trombeta nostre aetatis in metaphysicae speculationibus viro emeritissimo; nei theoremata: Trombeta excellens in scientia divina et preceptor meus venerandus; e nella quaestio an gravia et levia etc. del ms. Magliabechiano, segnalatomi dall'amico Garin: quantumcumque, ut dicebat magister meus Trombeta, Franciscus de Neritono NARDO dixerit. Che egli poi avesse a maestro anche Ibernico è attestato dal francescano Girelli sulla fine del suo trattato de speciebus intelligibilibus diretto contro Zimara: Ipse 3 Su di lui, V. sopra, il saggio autem forte erravit propter amorem magistri sui, qui fuit Hibernicus. Non sappiamo con certezza quand'egli comincia a insegnare come lettore pubblico; poiché le lezioni In primuni Posteriorum del Cod. Ambros. D. log inf., potrebbero essere state tenute privatamente o anche pubblicamente in anni precedenti al dottorato in filosofia, come mi risulta essere intervenuto a Padova per il mantovano Triaca, per Molino di Rovigo e per Trapolin. In fine d’una lezione sul primo libro degl’analitici posteriori accade di leggere questo curioso invito in versi: Scire volunt onines, niercedem solvere nemo: hoc dixit noster qui claret in orbe Zimarra. In catedra manens, dixit prò omnibus una: solvite, precor, omnes, si vultis doceri. In domino testor, magnum sumpsisse laborem; hac prò doctrina, propriam vendidisse casellam. E in margine: Quare vobis dico: si librum Posteriorum vultis ut aperiam, solvite, praecor, omnes. Ma non dovette passar molto dalla laurea, che fu assunto alla lettura straordinaria di filosofia naturale. Intanto, per procacciarsi da vivere e poter continuare gli studi, cura per gl’eredi di Scoto l'edizione delle quaestiones in duodecim II. metaphysicae di Jandum, arricchendola di citazioni e note marginali. L'edizione scotina, licenziata, oltre alle note marginali, reca in appendice alcune opere originali che possiamo considerare tra le prime del nostro. La prima è una diffusa quaestio de principio individuationis ad intentionem Averrois et Aristotelis, di ben venti colonne. Essa è dedicata Magnifico ac excellenti artium Doctori domino Mocionigo patricio veneto. Questo M.cus et doctissimus vir, D. Mocenico, Leonardi, filli olim serenissimi principis venetiarum Mocenici, era stato proclamato dottore in artihus nella cattedrale di Padova, con grande solennità, come s'addice al suo alto rango, assistentibus M.cis et Cl.mis dominis Thoma Mocenigo praetore, patruo, et Trivisano equite praefecto urbis Paduae, avunculo, et aliorum praestantissimorum doctorum, scholarium, civiiim et praelatorum corona, per Rev.um D. Episcopum il bellunese Barozzi, eius domino vicario recitante. E ciò dopo essere stato esaminato per Venerandum Collegium artium et medicinae Doctorum, e post longas lucubrationes et scholasticos labores et publicas disputationes ac varia virtutis et doctrinae suae experimenta. Primo promotore del dottorato era stato Trapolin, che anche questa volta conferì al neo dottore le insegne del grado. Nella dedica Zimara parla del nodo d' indissolubile amicizia che lo lega al Mocenigo. In realtà erano stati ambedue alunni del Trapolin e del Pomponazzi, insieme al gobeto Venier, a Surian e a Contarini, artium scholares, i quali nel verbale del dottorato del Mocenigo figurano da testimoni. Nella stessa dedica il nostro accenna al turbamento del suo animo pelle notizie che gli giungevano da S. Pietro in Galatina, saccheggiata dal ritorno delle milizie per cacciarne le galli. Pluribus profecto quam promiseram magnifìcientiam vestram speculationibus donassem, nisi iniqua fortuna PATRIAM MEAM Sanctum Petrum de Galatinis, militibus populationi dedisset. Alla quaestio de principio individuationis tengon dietro l’annotationes in Gandavensem super quaestionihus metaphysicae eleganter discussae in via LIZIO et sui magni commentatoris Averrois, anch'esse dedicate ad Mocionigum. Su molti punti Zimara riprende con semplici note marginali il modo come Jandun espone il pensiero d'Averroè. Ma su altri punti le sue riserve esigevano maggiore spazio che non fosse quello d'una breve nota; perciò aggiunse al volume questa seconda appendice, ove espone con ben maggiore ampiezza le ragioni del suo dissenso dall'averroista di Jandun, la cui interpretazione della dottrina averroistica aveva suscitato aspre critiche da parte degl’averroisti padovani e bolognesi, tanto che Pico giudica che egli, ferme in omnibus quaesitis philosophiae, doctrinam Averrois corrupit omnino et depravavit Conclus. secundum Avenroem. Intento di quest’annotationes è dunque quello di stabilire qual è il vero pensiero del commentatore arabbo. Ma nel far ciò, il filosofo di Galatina si diffonde talora sino a ri-esaminare a fondo l'argomento discusso e a scrivere un vero e proprio trattato, come fa a proposito della questione del libro, in una disquisizione di ben oltre 26 colonne. Una terza appendice è formata dalla quaestio de triplici causalitate intelligentiae, concernente la natura, la dipendenza e la finalità dell’intelligenze celesti secundum Aristotelis et sui Commentatoris Averrois sententiam, problema dibattutissimo, intorno al quale Zimara, come già Brabante, difende la causalità efficiente di Dio contro quegl’averroisti che, come l'eremitano Rimini, la negano. Una frase in principio: vidi plures tempore meo, philosophantes, parrebbe indicare che la quaestio fu scritta anteriormente. Con questo volume, che si diffuse rapidamente in tutta Europa, Zimara di San Pietro in Galatina in terra di Otranto si presenta agli studiosi di filosofia come un interprete agguerrito e acuto del pensiero d'Aristotele e del suo grande e fedele commentatore Averroè, in un momento quando il suo maestro e dipoi avversario, il mantovano Pomponazzi, non aveva ancora stampato una sola riga. Non tutti accettarono, si capisce, l'esegesi dell'Otrantino, com'era chiamato a Padova, anzi molti presero a impugnarla, su questo o quell'argomento; ma a nessuno era consentito ignorarla. Nello stesso anno in cui cura l'edizione della metafisica dell'averroista di Jandun, ne prepara altresì quella delle quaestiones super parvis naturalibus, pello stesso editore veneziano, dedicandola a Montagnana, professore di medicina nello Studio patavino e appartenente a una celebre famiglia di medici padovani. La qual dedica m' indurrebbe quasi a sospettare che egli si sta preparando al dottorato, adulando con lodi sperticate, come era d'uso, un membro del Sacro Collegio degli Artisti e Medici, che aveva il diritto di farsi promotore della grazia, del tentativo e infine dell'esame privato, nonché quello di conferire le insegne dottorali al candidato. In appendice a questo volume, Zimara stampa la quaestio de moventis identitate et moti ad intentionem LIZIO subtiliter et resolute Patavii discussa, e la dedica a Capitani, figlio del chiarissimo medico, per riconoscenza dell'appoggio che ne aveva avuto: cui denique quicquid dignitatis in patavino GYMNASIO nuper assecutus sum, uni acceptum refero. Dello stesso periodo, perché ricordata nelle solutiones Super de anima, Contr. sul comm. è anche la quaestio qua species intelligihiles ad mentem Averrois defenduntur ad magnificum patritium Venetum Anfonium Surianum, pubblicata da Storcila e incorporata nel tractatus adversus quaestionem M. Ant. Zimarae de speciehus intelligibilihus, Venezia, del francescano Girelli, alunno di Pomponazzi. Zimara prende risolutamente posizione contro Achillini, il quale nega le famose specie intelligibili, d'accordo in ciò col carmelitano Baconthorpe e Gand. D'Achillini dice anzi quel che Averroè, De caelo, comm., aveva detto d'Avicenna, quod videlicet parvitas exercitationis ipsius viri in naturalibus et bona confidentia in proprio ingenio deduxit ipsum ad maximos errores. L'argomento era stato discussoa Padova da Pomponazzi, il quale non si mostrò meno aspro contro Achillini; e proprio Surian ce ne ha tramandata la quaestio nel codice della Bibl. di Napoli. Un'altra e piu ampia riportazione si trova in altro ms. della stessa biblioteca. Dalle controversie tra i vari interpreti d'Averroè, trassero vantaggio gl’avversari dell'averroismo, per insinuare che il gran commento formicola di contradizioni, e che neppure Aristotele ne era immune. Sebbene Pomponazzi non rifuggisse dal dirsi talora averroista o commentista, nel senso che egli, seguendo una consuetudine di Padova e di Bologna, legge il testo del LIZIO e il commento d'Averroè che l’accompagna, e sulla parafrasi e discussione dell'uno e dell'altro conduce la lezione, non di meno, con tutto il rispetto pell'uno e pell'altro, non esita a mettere in evidenza le incertezze e le contradizioni del commentatore arabbo, al quale non risparmia le sue critiche e i suoi sarcasmi. Discepolo del Peretto mantovano, Zimara, che per diversi anni ne segue le lezioni, si propone di scolpare tanto Averroè quanto il LIZIO dalle contradizioni ad essi attribuite e di mostrare ch’esse potevano, con qualche sottile distinzione – GRICE IMPLICATURA --, risolversi nel modo più plausibile. Nascemp così le solutiones contradictionum in dictis Averrois che nella prima redazione uscirono, precedute dalla quaestio de primo cognito, a Venezia, con dedica al patrizio veneziano, magnifico Contareno magnifici domini Caroli filio, al quale Pomponazzi dedica il De immortalitate animae, e che era versatissimo negli studi della filosofia del LIZIO. Pochi giorni prima gh aveva dedicato i trattati logici di Aristotele col commento d'Averroè, da lui curati per gl’eredi di Scoto a Venezia. La quaestio de primo cognito si riallaccia alle lezioni di Zimara sul prologo della fisica del LIZIO. L'autore d’essa discute ampiamente e critica l’interpretazioni che del testo del LIZIO dano Burleo e Rimini, dalla parte dei nominale, poi quelle di Scoto ed AQUINO, e infine oppone ad esse quella che giudica più conforme al commento d'Averroè. Le solutiones sono opera composta a tavolino, succisivis horis ac tumultuarie. Ma che Zimara prende di mira in particolare il Peretto, del quale si tace il nome, è messo in evidenza dalla lettera, stampata del volume, coll’intestazione Sylvius Laurentius a portu caballensis clarissimo artium et medicine doctori Marco Antonio sanctipetrinati et hidruntino, ere publico in GYMNASIO PATAVINO philosophiam profitenti, la quale porta la data ex patavio. Questo ammiratore e forse discepolo dell'otrantino ricorda appunto, che Petrus mantuanus noster philosophantium nunc primi fere nominis, publico auditorio profiteri solet, hoc Averroi esse genuinum, ut, cum IMPLICITA omnibus viribus nervisque EXPLICARE contendit et adnititur, maxime IMPLICAT, eoque fertur, diffidente conscientia, quo denique ipsum impetus errabunde opinionis impellit. Del che egli pensa fossero d’incolpare gl’amanuensi e gli stampatori del commento averroistico, per incuria dei quali circola nelle scuole pieno d’errori— GRICE INDICATIVE CONDITIONALS --. Ma non soltanto a Pomponazzi intende opporsi Zimara, sì anche a Jandun, Rimini, Burleo, Achillini, e Bacilieri, che, a suo avviso, con errate interpretazioni, fanno cadere in contradizione il commentatore arabo. Pomponazzi, che non condivideva con Zimara ed Achillini la fiducia nell'infallibilità d'Averroè, scrolla le spalle ed osa negare la stessa fiducia perfino al LIZIO, pur ritenuto d’ALIGHIERI maestro e duca dell'umana ragione, e dagl’averroisti regula in natura et exemplar quod natura invenit ad demonstrandum ultimam perfectionem humanam. Le contradizioni d’Averroè hanno il loro fondamento in non poche contradizioni del testo aristotelico, che si fanno sempre più palesi colle nuove traduzioni del periodo umanistico. Perciò Zimara riprende in mano il libretto, e ne prepar un'edizione più completa, con l'aggiunta di nuove contradizioni ch'egli s'adopra a risolvere, associando nel titolo alle contradizioni del commentatore quelle del filosofo: solutiones contradictionum in dictis LIZIO et Averrois. Dalla lettera di Silvio Lorenzo da Porto appare che Zimara, dottore in artibus, professa pubblicamente filosofia naturale nello studio patavino, occupando evidentemente una delle due letture straordinarie col modico stipendio di 47 ducati d'argento, secondo Facciolati, Fasti gymn. patav., ed è naturale che aspira ad esser promosso alla lettura ORDINARIA – GRICE ORDINARY AND EXTRA-ORDINARY LANGUAGE --. Ora era rimasta vacante la lettura ORDINARIA secundo loco che aveva tenuto Achillini, richiamato sulla sua cattedra a Bologna. Se la cattedra vacante fosse stata assegnata al sanpetrinate, questi sarebbe venuto ad essere il concorrente diretto, cioè l'antagonista, di Pomponazzi, che occupa la cattedra ORDINARIA primo loco, e sebbene non è cittadino padovano, è stato aggregato al sacro collegio degl’artisti della città. Ma per riuscire ad avere il posto ambito Zimara avrebbe dovuto vincere l’ostilità che s’era creato colle polemiche ingaggiate contro il Peretto, il quale gode di grande stima nello studio patavino, e contro Achillini, del quale era ben vivo il ricordo. Provvedere a coprire la cattedra ORDINARIA rimasta vacante era compito del senato veneziano; e gl’aspiranti s'eran dati da fare per procacciarsi autorevoli appoggi fra i membri di questo, che ne discusse nella riunione. Le proposte fatte furon tre o quattro. Zorzi propone Torre, fiol dil quondam missier maistro Hironimo da Verona, qual à leto e leze in philosophia. Pixani, savio a terra ferma, mette di condur missier Marco d’Otranto, che etiam leze in philosophia extraordinarie. Emo propone Sexa che è a Napoli, o ver Carensio, padovano, ma che insegna filosofia a Ferrara, e che ritornerà in patria a ricoprire una delle cattedre. È interessante vedere che fra gl’aspiranti era anche Sexa, Nifo -- da Sessa -- il quale aveva già coperto la cattedra ORDINARIA di filosofia PRIMO loco a Padova, e n'era partito, a quanto pare, per litigi coi colleghi. Ora egli non cessa di brigare per tornarvi, ma pretende uno stipendio che il senato veneziano non era disposto a pagargli. Anselmi, console di Venezia a Napoli, informa di lì a poco, che il Sexa voj vegnir a Padova a lezer im philosophia. El qual dice voi ducati 500 e non mancho, perché dice è il primo homo dil mondo, e a Napoli leze et medica; sì che non avendo ditti danari, non voi vegnir. Sanudo. Ma appena qualche giorno dopo si dichiara disposto a venire per 400 ducati all'anno, con ferma di tre anni. Queste manovre di Nifo dovettero esser note a Pomponazzi, che nel già citato commento al De anima prende ad attaccarlo con rinnovata virulenza. Dopo Emo, parla Pisani. Vista la difficoltà d’addivenire a un accordo e di far prevalere il suo candidato, Pisani ri-piega sulla proposta d’indusiar, e così è presa l’indusia di 8 ballote. Sanudo, Diarii, e Zimara dove rassegnarsi a rimanere alla lettura straordinaria. Né mi consta che egli fosse promosso nel quinquennio immediatamente successivo. La guerra contro la lega di Cambra ebbe gravi conseguenze per lo studio padovano. Le truppe imperiali al comando di Trissino entrano in città, e lo stesso giorno viene a morte Trapolin. Per il momento, cioè per qualche mese, il turbamento dell'ordine pubblico non fu grande; si tennero ancora esami, e Pomponazzi, per esempio, figura ancora come promotore in un dottorato. Il peggio venne dopo, quando i veneziani ri-occuparono il castello, e cominciarono i saccheggi e le vendette contro coloro che di buon animo o contro voglia s'eran compromessi coi tedeschi. Una delle famiglie maggiormente colpite fu quella dei Trapolin. Alberto e Roberto, fratelli del filosofo, sono presi prigionieri nella ri-conquista del castello. Ma già due giorni prima le loro case e quella d’un altro loro fratello, Nicolò, sono saccheggiate. Ed anche la casa di Pietro, che era nella contrada di san Leonardo, non lontano dai Carmini, non fu risparmiata, I SUOI SCRITTI DISPERSI, e il figlio Giulio fatto prigioniero e spedito a Venezia con altri compagni. Il governo veneziano fu abbastanza clemente con molti di coloro che s'erano sottomessi al dominio imperiale su Padova; ma fu implacabile con quattro dei maggiori responsabili di favoreggiamento, che manda al capestro. Primo era Alberto Trapolin, fo fradello di misser Pietro dotor excellentissimo, el qual Alberto era di XVI al governo di Padoa, homo di gran inzegno, et anche suo avo fo apichato a Padoa a tempo della novità di misier Marsilio di Carrara. Il secondo era Lodovico Conte. Il terzo Bertuzi Bagaroto, dotor, qual lezeva puhlice in iure canonico. Il quarto, Jacomo da Lion, dotor, el quale fé' la oration all' imperator, quando se deteno i padoani, nella qual dice gran mal de'veneziani. Sanudo. Fu in questo periodo di rappresaglie e specialmente quando le truppe imperiali tornano ad assediare la città, che molti cittadini s’allontano da Padova e insieme ad essi molti maestri dello studio. Fra questi certamente anche Pomponazzi, il quale sulla sua cattedra di Padova non fa più ritorno. E Zimara? Si dice d’alcuni che lo studio rimane CHIUSO per anni. Ciò non è del tutto esatto. Dagl’ada graduum presso l'archivio esistente della curia vescovile di Padova, risulta, per esempio, in modo indubbio, che Tomasis, figlio del chirurgo, fa il dottorato in artibus, che fa il dottorato Marco Mantova, che Oldoini fa anch'egli il dottorato in artihus, e che s'addottora in artihus il magnifico Francesco del fu Morosini. Sappiamo ugualmente d’altri conferimenti di LAUREA in arti. Lo studio patavino, dunque, anche negl’anni successivi e ai fatti accennati, continua a funzionare; ma evidentemente in modo ridotto, e meno intensa fu la sua vita. Ciò si constata in modo palpabile esaminando gli stessi Ada gradimm, e più ancora gl’atti del sacro collegio degl’artisti, arch. dell’univ. di Padova, presso quel rettorato, ove è un salto. Di Zimara nessuna traccia in questi atti, se ha N. ben veduto. Pare, dunque, che anche lui se ne fosse andato. Dove? L'edizione dei quodliheta dell'Hervaeus che usce a Venezia, per Arrivabenum, ed è curata e postillata da Zimara, fa pensare che questi fosse a Venezia. Ma la lettera colla quale dedica la sua fatica allo zio Pietro Bonuso induce N. a dubitarne. Dice infatti in essa che già d’anni è lontano dalla patria. E aggiunge. Ego enim, postquam Patavium, bonarum artium fontem, applicui, ita impensam die noctuque philosophie studio operam navavi, ut hinc recesserim nunquam. Anno tamen elapso sarcinulas collegeram, accinxeram me itineri ad te advolaturus, quando, preter spem, accademia nostra ad dignissimam me philosophie lectionem totis cervicibus succollavit. Ora s’egli si laurea in artibus, bisogna pensare che a Padova fosse andato almeno un quattro anni prima, cioè al più tardi. La lettera dovrebbe quindi essere. E i conti infatti tornano: anno elapso, cioè egli dovette essere chiamato, preter spem, alla lettura straordinaria di filosofia naturale. Sebbene dunque l'edizione dei qiiodlibeta d’Hervaeus usce alla luce, essa era già stata preparata e consegnata all'editore veneziano. Alla guerra contro la lega di Cambrai tenne dietro quella della lega sacra, e la Lombardia, la Romagna e 1'Emilia furon corse da milizie galle, e papali. Lasciata Padova, ove aveva nutrito la speranza di farsi strada e d’accrescere lo splendore della sua famiglia, non fu facile al povero filosofo trovarsi un'altra cattedra a Ferrara o a Bologna, com'era stato facile al Peretto mantovano. Perciò egli dove decidersi a ritornare fra i suoi a S. Pietro in Galatina, ove effettivamente lo troviamo sindaco e già ammogliato con una tal Porzia, secondo le notizie raccolte d’Arcudi e Papadia, i quali prendono queste notizie dalla cronaca di S. Pietro in Galatina lasciata manoscritta dal filosofo Arcudi. Prima di ri-metter piede nella terra natale, o appena vi fu arrivato, egli dove pensare a propiziarsi Castrioto, duca di Ferrandina, sotto la cui giurisdizione si trova S. Pietro in Galatina. A quest'uopo mette insieme il curioso trattatello dei problemata e lo dedica al principe. Non consta a N. che lo fa stampare; N. ne conosce solo l'edizione che ne fu fatta a Venezia ed altre posteriori. Nella dedica appunto al duca di Ferrandina egli dice d’ammirare in lui sopratutto charitatem qua literatos amplecteris, hac tempestate qua oh bellorum importunitates pax una cum litteris inferire visa est. Siamo dunque negl’anni che tengon. E poiché Castrioto muore, il libretto è certamente anterior. Sindaco della piccola sua città natale. Marcantonio si trova a rappresentare quella comunità nella cauta ma energica difesa delle istituzioni e dei privilegi d’essa contro le soperchierie di Castrioto, successo a Giovanni. Intanto gli nasce il figlio Teofilo, del quale diremo fra poco. Arcudi parla anche d'un altro figlio avuto prima, Nicolò, il quale è dottore in leggi a Roma, ove testa. Altri due figli dovettero nascergli più tardi. Ma le cure familiari e quelle pubbliche non lo distolsero del tutto dagli studi. Usceno a Venezia, curate da lui, pegl’eredi di Scoto, le seguenti opere d’Alberto Magno in via LIZIO philosophi theologique profundissimi: naturalia ac supernaturalia, cioè la fisica, il De generatione et corruptione, il De metheoris, il De mineralihus, il DE ANIMA, il De intellectu et intelligibili – GRICE AUSTIN WARNOCK DE SENSV ET SENSIBILI – DE INTELLECTU ET INTELLIGIBILI -- e la metafisica, accompagnati da molte annotazioni marginali; i parva naturalia e gl’opuscula nella dedica a Venier del fu Cristoforo, Zimara pare Galatina letterata, Genova. dichiarare che le sue castigationes et lucubrationes si limitano al De causis, ma verosimilmente sue sono anche quelle apposte al De natura locorum; e le Due partes Summe de quatuor coèvis. Nell'edizione di quest'ultima opera, Zimara è detto philosophiam Padue publice profitentem, espressione che forse va intesa così dum philosophiam Padue publice profitebatur. Poiché sembra poco probabile che in quegli anni egli fosse tornato a Padova. Dov'è, dunque? Quasi certamente a Salerno, chiamatovi da quel principe Sanseverino che ama circondarsi di uomini dotti e da impulso al ri-fiorire degli studi nella sua città. Infatti nella dedica allo stesso Sanseverino dei theoremata compiuti e pubblicati a Napoli, egli dice. Animadverti hoc ipsum superioribus annis dum philosophiam theoricamque medicinae publice in tua Salerno profiterer. A Salerno insegna anche Nifo, dopo che lascia Padova. Zimara accenna ad un insegnamento di più anni in questa città, e ci fa sapere che, oltre alla filosofìa, vi professa anche la medicina teorica. Tuttavia il suo animo è rivolto a Padova. Dopo i fatti dei quali abbiamo fatto cenno, lo studio padovano conduce per più anni una vita stentata. Gli scolari sono molto diminuiti, non essendo attratti da maestri di grande rinomanza. La città, che dall'affluenza della popolazione scolastica traeva lustro e vantaggio, reclama a gran voce che si provvede sollecitamente al bisogno, pel ri-fiorire dell'università, perché sia ritorna il studio come è prima. Sanudo. E agl’oratori padovani che questo chiedano con insistenza è risposto dal PRINCIPE: sono contenti, e si pratichi di condur li dotori, perché nostra inten6 Però riferisce Sanudo, che Loredan, capitanio a Padova, venuto in collegio a Venezia, informa come nello studio di Padova sono a quel momento 22 dotori che leze artisti e 26 giuristi, e porta una letera per certo dotor verìa a lezer. Scrive ha fato perteghe 21 mila 800. Se per avventura questo dotor è Zimara, bisogna pensare che egli s’è sobbarcato al lungo viaggio a Venezia, sia per sorvegliare la stampa d’Alberto Magno, sia per condurre in porto le trattative pella lettura a Padova. zion è di ritornar il studio; la quale assicurazione è rinnovata. Anzi, narra Sanudo che, dovendosi comenzar il studio a Padoa, fo eletti tre doctori, quali dovessero praticar condur li doctori a lezer che fusseno excelienti. I quali doctori sono questi: sier Zorzi Pixani, sier Marin Zorzi, et sier Antonio Zustinian. Sono ballotati in collegio i rotuli dei maestri chiamati a leggere – GRICE, UNIVERSITY LECTURER -- sia nella facoltà di legge come in quella delle arti e medicina. Pare ormai che le cose si metteno bene. Pella filosofia al secondo loco, è chiamato da Ferrara PRISCIANO (vedasi) ed è promosso il veronese BAGOLINO (vedasi). Ma il duca estense sollecita Prisciano a tornare a lezer a Ferrara; se non che il maestro di lì a poco muore, ed è necessario provvedere alla sua successione. Riferisce Sanudo, fo scrito a Roma all’orator nostro, come de lì si ritrova Montesdoch, qual leze l'ordinaria di philosophia, il qual alias desidera venir a lezer a Padoa al primo loco: per tanto, avendo optima fama, vedi si'il persevera in voler venir, et concludi con più avantazo el poi etc. Questo maestro, ancor poco conosciuto, è collega d’Achillini e più tardi di Pomponazzi a Bologna, ma abbandona quella città. N. non sa dove è andato. Sanudo ora ci fa sapere ch’è andato LETTORE DI FILOSOFIA – GRICE UNIVERSITY LECTURER -- lettore di filosofia a Roma, non essendo stato accolto a Padova. Mentre si cerca d’avviar pratiche per condurre Montedosch, pare si fosse pensato anche al mantoan, cioè a POMPONAZZI ch’è a BOLOGNA; e il consigliere Minio suggerisce il nome di PORRO, che legge filosofia a Pavia, ov'era stato alunno di Bacilieri. Sanudo. Ma li studenti, nell'incertezza di’avere valenti maestri, abbandonano Padova e anche quelli che s'apparecchiano al dottorato andano a conventar altrove, in barba alla legge, quando sono sudditi della serenissima. Sicché i rettori di Padova, Zorzi, podestà, e Contarini, capitanio, scriveno il studio va in mina, per non v’esser doctori che lezano, e li scolari vanno via, e li nostri subditi, non stimando le leze, non voleno più star, non avendo doctori dai quali possano udir. L'allarme induce i savi del consiglio e terra ferma a prendere una decisione sulla proposta di condurre a lezer nil studio di Padoa domino Montesdocha, leze a Roma, alla lettura dil primo locho di philosophia, cum salario fiorini 600 all'anno. E domino Zimara, San Petrinas, di terra d’Otranto, leze a Salerno alla ordinaria di teorica overo pratica di medicina, con salario fiorini 300 all'anno. Presa la decisione, le trattative con Montesdoch sono portate sollecitamente a termine. Quelle invece con Zimara andaron pelle lunghe. Coll'andata a Padova di Montedosch, che gode di meritata fama, lo studio parve ri-fiorire. Il che fa piacere al governo veneziano, che s'affretta ad informare i due rettori di Padova come li riformatori dil studio, che sono allora Pisani, Bragadin, Justinian, par habino auto aviso domino Marco d’Otranto è per venir, però a visi li scolari. Se non che, a questo punto, debbo segnalare un'indicazione che N. trova nel già citato cod. Ambros. S. Q., e che presenta qualche difficoltà per accordarsi coll’indicazioni precedenti. In questo codice, prima della Quaestio de regressu, attribuita a Zimara, ma che invece è di Pomponazzi, come ho detto, v'è anche una quaestio d’immortalitate animae domini ZIMARA venetiis discussa corani duce et senatoribus, la quale è cosa diversa dalla quaestio sullo stesso argomento nel cod. parigino, Bibl. Nationale, ms. lat., di cui N. dice più giù. La quaestio ambrosiana è assai più succinta. In essa son ricordati il cardinale di S. Domenico, cioè il Gaetano, et praeceptor meus, che è Pomponazzi. Alla fine si legge. Gratias itaque ago dominationibus vestris quae dignatae sunt nostrae lectioni adesse. Haec dieta sufficiant de ista difficillima quaestione, et fuit punctus Pascatis domini nostri Iesu christi. finis. Orbene la Pasqua cadde non il 31 marzo, ma 1'8 aprile. Invece l'anno successivo la pasqua cadde proprio 22 l'ultimo di marzo. Dunque nel manoscritto ambrosiano che è una copia di mano di fra Zaccaria da Milano, v'è certamente un errore di trascrizione. Supponendo che pella pasqua Zimara è venuto da Salerno a Venezia, per saggiare il terreno, egli potrebbe avere avuto abboccamenti coi riformatori dello studio, onde conoscere meglio le condizioni ch’il consiglio è disposto a fargh, parendogli pochi 300 fiorini; e quindi, ri-partito per Salerno, in maggio avrebbe fatto sapere d’esser disposto ad accettarle e ad assumere l' insegnamento a Padova. Tutto questo, ben inteso, presupponendo che la quaestio veneziana d’immortalitate animae sia davvero di Zimara, Ma ormai era tardi, poiché, mentre al primo luogo legge l'ordinaria di filosofìa Montesdoch, al secondo luogo era stato chiamato da Pavia Porro. Per il momento Zimara dove rinunziare a Padova e re-starsene a Salerno. Ma lo troviamo lettore di metafisica nelle scuole pubbliche di S. Lorenzo a Napoli, Ciò appare dalla expiicit dei theoremata usciti a Napoli a questa data, con un epigramma di Gravina. Compievi hoc opus Neapoli, dum scientiam divinam publico stipendio legerem apud sanctum Laurentium, sub regimine Reverendi patris Fratris Antonini d’Antorosa de Neapoli cui ego plurimum debeo. A Napoli forse egli era già l'anno precedente, quando, secondo Arcudi e Papadia, il filosofo e il suo conterraneo, il giurista Vernaleone, sarebbero stati inviati dalla comunità di Galatina, per protestare presso il vice-re contro i soprusi di Castrioto, e per chiedere che fossero rispettati i suoi privilegi. Arcudi anzi riferisce una lettera di Zimara. Nobilibus magnificisque viris sindico et regimini universitatis S. Petri in Galatina, per esortare i suoi concittadini a mantenersi calmi ed attendere con fiducia. Ma anche da Napoli il suo pensiero dove esser rivolto a Padova; e l'occasione di tornarvi si presenta quando Montesdoch chiede al senato veneziana licenza d’andarsene, e questo glie l'accordò. Bembo in due lettere a Rannusio ci fa sapere, non senza amarezza, come le cose andarono. Montesdoch a Padova è tenuto in grande considerazione ed era riuscito a farsi un nome, secondo la testimonianza di Bembo, quale non aveva avuto prima. Ma non debbono essergli mancate accuse pella sua spregiudicatezza nell’interpretare il LIZIO, sì da parte degl’averroisti sì da parte dei teologi, se è vero quanto egli stesso ci fa sapere in una lezione sul De anima, Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Cum isti fratres vident philosophum, dicunt: haereticus est; ut mihi olim accidit, dum disputarem in capitulo generali fratrum S. Dominici; et quia eos male tractabam, dixerunt die, me esse haereticum. Non so se per queste ragioni, oppure, come insinua o IMPLICA Bembo, nella lettera a Rannusio, per ottenere l'offerta d'un aumento di stipendio, senza farne aperta richiesta, il maestro chiede licenza d'andarsene altrove. Bembo, che pure era informato dei maneggi per condurre Montesdoch a Pisa, ove poi effettivamente anda collo stipendio di 800 fiorini, spera che coll'offerta di cento ducati d'aumento lo si potesse trattenere con vantaggio dello Studio padovano, poiché dopo la morte di Pomponazzi si prevede uno spopolamento dello studio bolognese. Se Montedosch resta, questo anno averemo qui la maggior parte degl’artisti dello studio di Bologna. E già Gonzaga, fratello del Marchese, che è stato forse tre anni o più a Bologna per udire Perette, fa cercar casa qui, per venir ad udir costui. Ma le cose non andarono secondo il suggerimento e il desiderio del prelato, che arriva a cose fatte; poiché Sanudo ci fa sapere che era già stato posto, per li ditti, Savii del Conscio e Savii di terra ferma, condur a lezer in ditto Studio di Padoa in philosophia domino Marco di Otranto, qual ha lecto in molti Studi, videlicet nella lectione de philosophia, per do anni di fermo et uno de rispetto in libertà della Signoria nostra con salario di fiorini 450 all'anno. La decisione rimasta segreta dove divulgarsi alla fine opere, Venezia, e Rannusio non tarda a informarne l'amico. Il quale gli risponde da Padova esprimendogli il suo disappunto. Da questa lettera si rileva che responsabili del negato aumento a Montesdoch e della chiamata di Zimara sono i due patrizi veneziani Zorzi e Bragadin, riformatori dello studio di Padova, i quali s’avvicendano per molti anni in questo ufficio con altri patrizi che fanno gli studi a Padova e v’hanno conseguito il titolo di dotor. E il risentimento di Bembo si rivolge specialmente contro il primo dei due riformatori. Marino ha voluto guastar questo bello ed onorato studio, di cui egli è guardiano; e gli è molto ben venuto fatto il pensiero. Se le altre sue imprese così bene gli succederanno, sarà felicissimo. Non parlo di M. Francesco, percioché io intendo da ogni lato, che il voler condur qui codesto Otranto è solo invenzion di Marino, e non di lui. Il quale Otranto è già da ora tanto in odio di questi scolari tutti dall'un capo all'altro, che se ne ridono con isdegno. Perciocché dicono che ha dottrina tutta barbara e confusa, ed è semplice averroista; il quale autore a questi dì assai si lascia da parte dai buoni dottori ed attendesi alle sposizioni de' commenti Greci, ed a far progresso ne'testi. E costui pare che sia tutto barbaro e pieno di quella feccia di dottrina, che ora si fugge, come la mala ventura. Siate sicuro che questo povero studio quest'anno, quanto alle arti non avrà quattro scolari oltrequelli del nostro dominio, che ci staranno mal lor grado, e sarà l'ultimo di tutti gli studi. E più giù: Questi sono i governi e giudicii di M. Marin Giorgio, che pare appunto, che porti odio a tutti quelli, che sanno le belle e buone lettere, o che le vogliano apparare e sapere. Anche di Foscarini, che più volte coprì la carica di riformatore dello Studio padovano e dimostrò rara dottrina nello esporre a Venezia, nelle scuole di Rialto, le cose diffìcili del LIZIO e d’Averrois il gran commentatore, Bembo pronunzia, in una lettera allo stesso Rannusio, un giudizio analogo: il qual Foscarini non so come par che sempre abbia avuto in odio tutte le buone lettere in ogni facoltà. ZhNO, Giorn. de' Letterati d'Italia. Opere. Bisogna però riconoscere che, l'una e l'altra volta, Bembo scrive con l'animo irritato, pelle difficoltà che, tanto Zorzi quanto Foscarini, opponeno a due suoi raccomandati. A questo s'aggiunga ch’il patriziato veneziano è stato in gran parte EDUCATO, PER QUANTO CONCERNE LA FILOSOFIA, alla tradizione del LIZIO averroistica, e che a questa si mostra assai attaccato, come provano numerosi documenti. Bembo, invece, viene dalla scuola di retorica ed è insomma un umanista, e piuttosto che sobbarcarsi allo studio della filosofia de LIZIO averroistica, rinunzia al titolo di dottore in artihus, del quale invece s'adorna suo padre, Bernardo, dotor e cavalier. In lui l'avversione pel LIZIO e l'averroismo, ereditata da Petrarca, è, potremmo dire, congenita. Come gran parte degl’umanisti, egli non ha mai il gusto per i problemi della filosofia e della scienza che appassionano i maestri e gli scolari della facoltà dell’arti. Il suo aspro giudizio su codesto Otranto è espressione d’un conflitto più vasto, non ancora risolto, nel pensiero del ri-nascimento, che vide co-abitare tra le mura della stessa città Bembo e Zimara. Titolare della lettura ordinaria di filosofia [i.a poTrf) nxXq Seuxépac? yoù acù(jLaTOct.S£CTt ^coaig) è detta uscire fuori di sé {slq tÒ e^co Trpotcóv), con frase che curiosamente ricorda un'analoga espressione di Hegel. La mente che permane in se stessa, in un atto contemplativo che dura eterno, è identificata da Simplicio con quello che fu detto 1'intelletto agente che è atto sostanziale per sua natura e non intende ora sì ora no, come s'esprime il LIZIO; invece la mente in quanto esce fuori – GARIN (vedasi), PICO (vedasi). Vita e dottrina, R. università degli studi di Firenze, facoltà di filosofia; Firenze; N., Brabante nel pensiero del ri-nascimento italiano. Roma, Edizioni Italiane; Individualità e immortalità nell'averroismo e AQUINO, Archivio di filosofia. Organo dell' Istituto di studi filosofici, vol. dedicato al problema dell'immortalità, Roma. Brab. Simplicio. LIZIO De anima, di sé s'identifica coll'intelletto in potenza o intelletto possibile o passivo. Il conoscere umano comincia dall'esperienza sensibile, e consiste in una liberazione progressiva dalla passività e nel ritorno, àvaSpo^xv, alla pura contemplazione del mondo ideale. Questo concetto d’un intelletto che permane in se stesso, e, uscendo da sé, s'unisce al mondo della sensibilità per ritornare a sé, in un circolo eterno, seduce il signore della Mirandola, intento a risolvere il problema averroistico della copulatio, ossia del congiungimento dell'unico intelletto coll’individuo, che era stato il problema di Sigieri, anzi dello stesso Averroè. Questo problema dove essere assillante nel suo animo. Nifo narra a questo proposito l'episodio d'un incontro con lui e d’una discussione. Il Suessano, che professa filosofia a Padova, aveva avuto dal suo alunno Bernardo, di famiglia patrizia veneziana, un esemplare della Destrttctio destructionum – SPERANZA GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSCYCHOLOGY SEMINARIO -- Algazelis d’Averroè, che pochi conoscevano, e sta preparandone un commento che è stampato a Venezia. Un passo d’Algazele ferma a.lungo l'attenzione di lui. Dice il filosofo arabo. Forte aliquis diceret, quod opinio Platonis est vera, videlicet quod anima est una et antiqua, et dividitiir divisione corponim, et in corporea separatione redit ad suam radicem et unitur. Due cose sono notevoli in questo passo d'Algazele: anzitutto, che la dottrina dell'unità dell'intelletto venga attribuita a Platone; indi, che vi s'accenni alla possibilità, intravista da alcuni, di conciliare la tesi dell'unità con quella della molteplicità numerica e individuale delle anime. Ora Nifo racconta com'egli, abbattutosi nel conte della Mirandola, che insieme a lui era diretto in dihgenza alla volta di Bologna, ebbe a palesargli i suoi dubbi su quest'argomento. E il Mirandolano, che evidentemente la pensa come di Platone riferisce Algazele, cerca di far capire il suo pensiero al com Simplicio, N., Introduzione ad Aquino, trattato sull'unità dell'intelletto contro gl’averroisti. Firenze, Sansoni] pagno di viaggio con questo curioso paragone. Come per costruire una volta o un arco fa mestieri di quella impalcatura di legno che li sostenga e che dicesi centina; ma poi, quando son costruiti, la volta e l'arco si reggon da sé, senz'armatura; così una sola idea di tutte l’anime sorregge ed aiuta ognuna d’esse a venire all'esistenza, via via che per virtù di generazione si formano i loro corpi; quando poi IL CORPO VIVENTE è già formato, rimane in esso un'ombra o vestigio che dicesi anima. Alla morte del corpo, l’anime singole ritornano al loro semenzaio, che è quell'unica idea della quale, nella loro individualità particolare, sono ombra, vestigio e riflesso. Per Platone dunque, quale era inteso d’alcuni prima d'Averroè, e quale piace a Pico d' intenderlo, tutte le anime singole sono un'anima sola nella loro radice; sono invece molte, in quanto suoi germogli nei corpi, ossia in quanto l'anima che è una in sé si comunica e si propaga negl'individui della specie umana, uscendo, come dice Simplicio, fuori di sé. Anche a fare un po' di tara sui particolari' del racconto di Nifo, la sostanza del racconto sembra conforme allo spirito della filosofia pichiana, nel momento in cui il Mirandolano, senza rinnegare il suo averroismo del periodo padovano, s' industria di svolgerlo in senso platonico. Non saprei se da Pico o d’altri il Suessano ha notizia del commento di Simplicio al De anima. Certo è che egli ricorda più volte l'interpretazione simpliciana della dottrina aristotelica in opere composte a Padova. Una di queste sono i Collectanea super lihros de anima, che Nifo appronta pella pubblicazione e mandato a Miliani, patrizio partenopeo, coll’intento che n’accogliesse la dedica, e all'abate Salinatore, suo concittadino, per averne il giudizio Essi sono pubblicati, con dedica di Nifo a Mihani, dall'editore veneziano Calcidonio, mentre l'autore, se la sua asserzione merita fede, aveva Nifo, In librum Destructio destructionum Averrois commentari!, disp., dub. Collectanea sono stampati da Nifo una prima volta, e di nuovo insieme al suo commento. L'ultimo dei collectanea, assai prolisso, ma ricco d'importanti notizie, riguarda il famoso De anima, e la non meno famosa digressione d'Averroè intorno a questo testo stabilito di non darli alla luce prima che fossero trascorsi i anni oraziani dalla loro composizione; sì che si può pensare che essi siano una delle prime fatiche del suessano. Ora in principio di questi Collectanea, Nifo accenna alla questione dibattuta fra gl’espositori, cui si riferisce la seconda delle conclusiones di Pico secundum Simplicium, di quale intelletto Aristotele intenda parlare in questa parte della sua opera. Verum circa intentionem huius tertii apud expositores fuit difficultas non parva. Primi enim expositores, quos impugnare videtur lamblicus, sentire videntur intentionem huius esse de intellectu imparticipabili, qui actu est summus ac VITA essentialiter optima et per se ab ANIMA separabihs. Ad quos obiicit lamblicus et inquit. Quidnam et qualis separabilis ab ANIMA intellectus, et quod prima substantia et impartibilis et optima VITA et summus actus et idem intellegibile et intellectio et intellectus et eternitas et perfectio et quies et terminus et causa omnium, Metaphysice dictum est. Non ergo et hic de Deo pertractandum. Sed hoc lamblici argumentum pace sua nihil est. Ideo et aliter lamblicus inquit. Magis vero nunc qualis quis A NOSTRA ANIMA participatus intellectus dicendum. Sed quid velit lamblicus, SimpHcius laborat exponere. Ubi debes scire, quod duplex est intellectus: participatus et imparticipatus. Omnis enim forma, scilicet quae idea dicitur, indivisibilis est et terminus seipso; anima autem est divisibilis, ut reflexa ipsius denotat actio: erit ergo ANIMA hominis VITA secundum se partibilis ac divisibilis. Verum, prout intellectu participat, in impartibilitatem cadit ac in terminum et indivisionem. Erit ergo ANIMA hominis VITA hominis, cuius intellectus est forma. ANIMA enim ipsa in-dividua est in CORPORE, ut IL PORTICO inquiunt. Ut vero particeps est intellectus, impartibilis ac indivisibilis redditur partitione et reditione. Differt vero intellectus participatus ab imparticipato: ille enim non manet in se, sed alterius anime est forma; imparticipatus autem in se manet, ac per se separatus est et terminus. Et sic imaginatur aliud esse animam, et aliud intellectum, Iamblicus; ANIMA enim VITA est animalis humani; intellectus vero forma erit anime. Sed quoniam Iamblicus non videtur differre a Plotino, ideo, ut melius Iamblici opinio clarescat, Plotini sententiam expedit enarrare. Erit ergo ordo: deus forma est intellectus; intellectus Ciò è dichiarato da Nifo alla fine della prefazione premessa all'edizione Simplicio Simplicio, vero anime; ANIMA RATIONALIS VIVI HUMANI. Erit ergo intentio, apud Iamblicum, huius libri de intellectu participato, qui forma est anime rationalis, que homo est, platonice loquendo – ACCADEMIC WAY OF SPEAKING MANNER OF SPEECH CODE GRICE --. Alitar et post hunc Simplicius. Intentionem enim huius libri de anima rationali dicit esse. Imaginatur enim aliud esse VITAM HOMINIS, et aliud rationalem animam, et aliud animam totam ipsius. VITAM enim appellat ipse cum prioribus intentionem hominis, scilicet animalis humani, que est actus et perfectio specilìcans hominem; rationalis vero anima est actus huius anime, sicut lumen diaphani; ex quibus duobus resultat tota anima hominis. Erunt ergo anime humane partes due, scilicet rationalis anima et VITA ipsa, qxie simul totam hominis animam constituunt. Est autem apud ipsum duplex intellectus, scilicet quo ad divina copulatur anima, et hic forte agens est intellectus; alter quo ad materialia, et hic quandoque potestate et imperfectus existit, non quia in se non intelligit, sed quoniam ab alio scientiam habet, ut a primo, et respectu hominis quandoque et perfectus est et completus, et hoc quando perfecte toti homini unitur. Erit ergo intentio huius libri loqui de parte, id est de ANIMA RATIONALI, qua anima scilicet hominis intelligit et sapit; id est, de rationali anima, que PARS est anime hominis, scrutandum. In questo passo dei Collecianea, a parte l'interpretazione più o meno esatta che Nifo ci dà del pensiero di Simplicio, è certo che vi sono frasi prese alla lettera dal commento di questo. Ora, nel commento che il Suessano reca a termine, maestro a Pisa, avendo egli modificato il suo modo d'intendere, ci fa questa confessione. Animadverte, tamen in Collectaneis nos dixisse, de mente Simplicii, intentionem LIZIO hic esse de ANIMA RATIONALI que est PARS ANIME HUMANAE, cum in greco eum non viderim tunc. At postquam eum legi in proprio fonte, reperi eum opinari ut dictum est, et non ut in Collectaneis dixi. E non di meno il commento di Simplicio è ricordato e discusso parecchie volte negli stessi Collecianea, con espressioni le quali non lasciano dubbio che l'opera del commentatore greco è familiare a Nifo. Se questi pertanto non la possede in greco, vuol dire che la possede tradotta. Questa traduzione, anteriore a quella di FASOLO, l’è sconosciuta a N.. Essa 40 Nifo, De anima, Venezia, Collect. ad t. e. i. Nifo, comm. ad t. e. i. ad ogni modo dove essere molto imperfetta, sì d’accrescere l’oscurità che sono già nel testo greco. Nifo poi dove affrontare la lettura di Simplicio coll'animo di trovarvi una conferma alle proprie idee sigieriane. Egli stesso confessa d’avere per lungo tempo aderito alla dottrina d’Averroè nell'interpretazione che di questa da Sigieri nel Tractatus de intellectu scritto in risposta al tractatus de unitate intellectus d’AQUINO. I capisaldi d questa dottrina, che Nifo dichiara d'avere attinto al trattato di Sigieri, sono i seguenti. L'intelletto possibile è unico per tutta la specie umana; esso, per attuare tutta la sua potenza, ha bisogno di trovarsi unito in ogni momento a una moltitudine d'individui umani che gli forniscono le specie sensibili, senza delle quali esso niente può intendere; l'unione tra l’intelletto possibile e LA FACOLTÀ COGITATIVA, che è la più alta facoltà dell'ANIMA sensitiva, è un'unione sostanziale, e non semplicemente accidentale, come pensano altr’averroisti, sì che può dirsi che l'uno e l'altra son parti ond'è costituita L’ANIMA RAZIONALE dell'uomo; l'anima razionale, costituita dall'unione della facoltà cogitativa dell’anima sensitiva coll’intelletto, che in sé è unico, può dirsi veramente forma informante, e non soltanto assistente dell'uomo, tale cioè che dà a questo il suo essere – GRICE IZZING AND HAZZING -- di animale ragionevole, contrariamente a quanto asserivano altr’averroisti, i quali sosteneno che l'anima intellettiva è soltanto forma assistente. Questa dottrina sigieriana è presentata da Nifo come schietta farina del sacco averroistico, senza che sia fatto il nome di Sigieri né quello di Simplicio, nel commento che il suessano scrive a Padova sulla metafìsica nell'esposizione della Destructio destructionum disp. dub. quaestio. Invece nel De intellectu essa è esposta due volte è presentata come dottrina di Simplicio, e come dottrina di Sigieri tendente a trovare una via di mezzo inter latinos et averroycos. Siccome m'è già accaduto di richiamare l'attenzione sulla dottrina che Nifo attribuisce a Sigieri, non è forse inutile che con essa si raffronti questo riassunto che nella stessa opera il suessano N., Brab. I luoghi di Nifo sono riuniti nel volume di N. ora citato. ci ammannisce, ancora una volta, del pensiero di Simplicio, prima d’averne conosciuto il commento in proprio fonte. Si RATIONALES ANIMAE erunt plures et intellectus unus, sic Simplicii erit positio. Imaginatur enim Simplicius, ex intellectu et omnibus praecedentibus formis, in corpore humano praeviis, constitui rationalem animam, quae quidam est totum quoddam constituens in esse hominem. Et quoniam cogitativa seu SENSITIVA ANIMA praecedens est multiplicata, procul dubio rationalis anima est numerata per corpora. Quemadmodum enim materia est una privatione formarum in se, et tamen per formas partitur et fit altera alteraque, sicut altera atque altera est forma; sic intellectus unus potentiae fit alius atque alius, prout alteri atque alteri sensitivae unitur secundum esse; et sic fiunt plures animae rationales secundum corpora, licet intellectus sit unus. Et si dicas: Ergo rationalis anima est corruptibilis, concedunt rationalem animam esse corruptibilem totam ratione partis, quae est totum praecedens eam in corpore humano; tamen intellectus in se incorruptibilis est. Est enim una anima numero unius hominis: cuius una pars est intellectus incorruptibilis, et altera pars est totum quod praecedit, scilicet sensitiva et vegetativa, quae est unum faciens cum intellectu. Et sic totum id est corruptibile ratione praecedentis partis; intellectus autem sempiternus. Et hoc sentire videtur LIZIO. Divmornm dicens. In quibusdam enim nihil prohibet; ut si est anima tale; non omnis, idest tota, sed intellectus; omnem namque impossibile est forsan. Ecce quo pacto LIZIO dicit totam animam esse corruptibilem, sed intellectus permanet. Et si dicis: Quando corrumpitur totum, ubi remanet intellectus? dicunt quidam quod remanet in se, sicut materia: quando enim generatur homo, statim accipit intellectum tanquam partem animae suae; et quando corrumpitur, perdit animam, licet intellectus remaneat. Et apud Simplicium salvatur multitudo rationalium animarum, et quomodo rationalis anima dat esse homini, et salvatur sempiternitas intellectus liane positionem multi credunt esse mentem ACCADEMIA, quemadmodum Algazel. Inquit enim. Et forte aliquis diceret, quod opinio accademia est vera, quod anima est una et antiqua, et dividitur divisione corporum; et in corporea separatione redit ad suam radicem et unitur. Haec ille in Destructio destructionuììi, dubio octavo primae disputationis. Ubi Averroes, in solutione illius dubii, inquit. Et ideo anima Petri et anima Gui- LIZIO, Metaph. Allo stesso modo intende questo luogo del LIZIO Nifo, In duodecinmm Metaphysices LIZIO et Aver. ad Antoniiim lustinianum Patritium Venetiim Venetiis; ma la prima edizione a spese di Al. Calcidonio è). In quest'opera degl’ultimi anni del suo soggiorno padovano, Nifo è ancora s sieriano, ma non cita Simplicio. lelmi quodammodo possunt dici una et eadem, ut puta ex parte formae, et sunt multae alio modo, videlicet respectu subiectorum. Et ibidem, in solutione dubii ait. Omnes communiter opinati sunt, quod ANIMAE innovatio est relativa, scilicet quod haec innovatio est eius adiunctio cum CORPOREIS possibiliter dictam adiunctionem recipientibus, eo modo quo praeparationes et potestates speculorum recipiunt adiunctionem solis radiorum. Ergo ex mente Averrois positio haec videtur esse, et non tantum Simplicii. Idem etiam sentire videtur Averroes comm. duo-decimi divinorum. Inquit enim. Et ex hoc quidem apparet bene, quod LIZIO opinatur quod forma hominum, in eo quod sunt homines, non est nisi per continuationem eorum cum intellectu, quod declaratur in libro De anima. Ecce quo pacto piane positionem hanc Simplicii sentit Averroes, occasione horum verborum et multorum aliorum. Aliqui credunt positionem hanc esse intentione in Averrois, scilicet quod RATIONALIS ANIMA sit composita ex intellectu potentiae et toto praecedente, scilicet VEGETATIVO SENSITIVOque: ex quibus terminatur ac conficitur forma quaedam simplex, quae actu est VEGETATIVA, SENSITIVA, AC RATIONALIS; quae forma sit hominis, secundum esse multiplicata per homines ac numerata, licet intellectus sit unus in se, ut diximus. Questo Nifo scrive prima di conoscere il testo greco di Simplicio; ma anche quando ha tra mano l'esposizione simpliciana del De anima nella lingua originale, e ne trasse vantaggio per recare a termine, insegnante a Pisa, il suo commento sull'opera del LIZIO, stampato insieme ai Collectanea, corresse, sì, molti errori e inesattezze in cui era incorso nelle opere giovanili, ma per quel che si riferisce all'interpretazione della dottrina di Simplicio intorno all'unità dell'intelletto possibile e al modo di unirsi di questo coll'anima sensitiva, rimane fermo nell'opinione che la tesi del commentatore greco è sostanzialmente identica con quella d'Averroè. E sebbene fosse ormai trascorso un ventennio da che lascia lo studio padovano, il ricordo di quegli anni lontani, in cui gli pareva d'aver trovato nella dottrina di Sigieri un modo plausibile di risolvere gl’argomenti d’AQUINO, e di Sigieri discute con PICO, sembra ad un tratto ridestarsi, sebbene in modo molto confuso, nella sua mente. Simplicius arbitratus est omnium hominum intellectum unum numero esse; rationales vero animas prò hominum numero N., Sigieri di Brab. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL DE ANIMA multiplicari. Non desunt qui positionem hanc Avverei tribuant, ut Rogerius et Suggerius uterque Bacconitanus, AQUINO-que coetanei. Hi enim in eorum libellis, quos adversus AQUINO scripserunt prò defensione Averrois, non modo positionem hanc Averroi, sed omnibus graecis expositoribus attribuerunt. Questo inestricabile garbuglio di nomi e d’idee è tutto quello che Nifo, divenuto ormai sequace d’AQUINO a modo suo e conte palatino, col privilegio di fregiarsi del titolo di Medices, conferitogli da Leone ricorda del suo insegnamento a Padova. Ma è un ricordo che diventa di giorno in giorno più sbiadito e confuso nel suo spirito abbagliato dallo sfarzo dell’aule principesche e tutto preso dalla brama di procacciarsi privilegi ed onori, senza celare le tardive fiammelle che accende nel suo cuore il seducente aspetto di qualche bella cortigiana. Anche quando Nifo ne è partito, a Padova si continua per molto tempo a studiare il commento di Simplicio al De anima e ad interpretarne il pensiero in senso averroistico. CASTELLANI (vedasi) da Faenza, che a Ferrara ha per maestro il bresciano MAGGI (vedasi) o Madio, alessandrista, narra com'egli trova il commento di Simplicio oscuro ed involuto nella maniera d'esprimersi, e che anche dopo la seconda e la terza lettura gli rimanevano parecchi dubbi. Ma avendo occasione di recarsi a Padova, trova in questo studio uomini eminenti nello studio della filosofia, che gli chiarirono appieno le sue dubbiezze: e Ita sane complura Simplicii tenebricosa dieta illustrarunt claraque et apertissima reddiderunt. Quale idea CASTELLANI (vedasi) si è fatta della dottrina di Simplicio intorno all’ANIMA umana, dopo averne discusso coi dotti padovani, si può capire da questa esposizione che egli luLii Castellanii, Faventini, In libros LIZIO de humano intellectii disputationes sive lucidissimi commentarii ex doctrina christianorum auciorum ac philosophorum antiquoriim descripti. Ad Cosmum Medicem Florentinorum ac Senensiuni ducem. Venetiis, ne fa e che giova conoscere. Simplicius igitur, atque ii qui illuni praecipue sectantur et eius sententiam explicant, humanam mentem unani tantum numero esse dicunt, istamque in intelligentiarum ordinem collocant; tametsi eam longe omnium infimam et humano orbi assistere arbitrantur. Quam etiam homini nequaquam dare esse affirmant ita loquuntur philosophi, et saepe eorum verbis facilioris doctrinae gratia uti nos oportebit; sed aliud statuunt genus ANIMAE, quam COGITATIVAM [GRICE POTCH AND COTCH] vocant, a quo informatur homo. Ex ANIMA COGITATIVA enim et CORPORE organico, tanquam ex materia et forma, conflatur homo; ex mente et homine, tanquam ex nauta – GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL -- et navi, nobilius quoddam atque divinum compositum oritur, quippe quod intellectus nobilissimam ac divinam tantum homini operationem praebet. Come già Nifo, dunque, anche questi maestri padovani del tempo di CASTELLANI (vedasi), fanno risalire a Simplicio la tesi averroistica dell'unità dell'intelletto. Ma mentre il suessano attribuiva a Simplicio la tesi sigieriana, un tempo difesa da NICOLETTI e, piu tardi, d’Achillini, BACILIERI (vedasi) e TAIAPIETRA (vedasi), secondo la quale l’intelletto unico s'unisce all’ANIMA COGITATIVA in modo da formare con questa una sola anima individuale e razionale che, tutta intera, è forma dell'uomo e dà a questo il suo essere d’uomo, i padovani cui accenna il faentino riteneno, al contrario, che l'intelletto s'unisce all’ANIMA COGNITATIVA soltanto come forma assistente e non come forma informante, ossia, secondo l'espressione del LIZIO, sicut nauta -- GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL – navi. Continua poi Castellani, sviluppando concetti accennati anche in alcune delle stampata a Parigi, in Officina Christiani Wecheli, ispirandosi al Bessarione, osserva molto giustamente che coloro che hanno bisogno di confermare la loro fede coll’autorità del LIZIO non sembrano aver molta fiducia nella parola di Cristo. E un altro italiano sequace del LIZIO, ma non averroista, bensì alessandrista, Giulio CASTELLANI (vedasi) da Faenza, dice che coloro ch’esitano a prender posizione e a dichiarare il loro pensiero per ciò che riguarda i problemi dello spirito umano, per paura di trovarsi in contrasto colla fede, profecto huiusmodi homines ignorare videntur, quam christiana fìdes et charitas a philosophandi ratione distet, et quam nullius sint ponderis LIZIO inventa et argumentationes ad sanctissimae religionis nostrae decreta labefactanda. E conclude con una lingua da gran galantuomo, senza falsi pudori. Audacter igitur etiam possumus DE ANIMI nostri substantia ac perpetuitate disserere, perpendereque diligenter quid de eo discernendum voluerit LIZIO. Si quideni cum nos philosophamus, ex aliorum sententia loquimur, semperque, ut christiani, sacrarum – GRICE NON HUMANIORES -- litterarum preciosissima monumenta pie colenda et observanda supponimus. Ecco dunque a che cosa si riduce la così detta dottrina della doppia verità, della quale si sono scandalizzati gli storici della filosofìa. Non se ne scandalizzarono invece gl'inquisitori dell'eretica pravità; ai quali interessa mediocremente di sapere come la pensa LIZIO. Ad essi basta di sapere che sia gl’averroisti che gl’alessandristi non ponevano in discussione le verità rivelate, bensì la dottrina del LIZIO. Che se poi il LIZIO non s'accorda alla fede di Cristo, tanto peggio per lui; e tanto peggio per chi lasciava Cristo pel LIZIO. S'oda, per esempio, quest'avvertenza che Loredan, patrizio veneziano, rivolge al lettore nell'atto di congedare pella stampa il suo commento al De anima condotto secondo lo spirito alessandrista di POMPONAZZI, di PORZIO, e di CASTELLANI, e dedicato al serenissimo duca d'Urbino, Montefeltro. Pie lector, haec mea commentarla pie legito, et tantum mentem philosophi hic interpretari scito; et me interpretem christianum et sanctae romanae ecclesiae filium esse advertito, et prò domino nostro Iesu et ecclesia mori paratum habeto; LIZIO christianum non extitisse notato, nec ipsum christiane scripsisse nec christiane expositum observato. Fidem christi dei et dei filli tot tantisque miraculis firmatam inspicito, auctoritate LIZIO non indigeto, et si quae veritatem catholicam turbantia legeris, tamquam falsa et ab LIZIO impio prolata prò firmo et indubitato habeto tenetoque. Vale. Perciò l’autorità ecclesiastiche hanno finito per acquetarsi a siffatte dichiarazioni, e lasciarono sia agl’averroisti che agl’alessandristi la più ampia libertà di discussione e di critica. Le difficoltà che i studiosi d’ALIGHIERI trovano ad intendere come ALIGHIERI mette nel suo paradiso, a fianco d’AQUINO, un averroista qual è Brabante, e farne l'elogio ch’ALIGHIERI fa pronunciare allo stesso Aquino, derivano da due cose. Primo, dal non aver capito la particolare natura della filosofia d’ALIGHIERI. Secondo, dal non aver capito che cosa è l'averroismo. Questi commentatori d’ALIGHIERI, invece di guardare alla figurazione d’ALIGHIERI in se stessa e in rapporto alla filosofia del poeta che pone Averrois che'1 gran commento feo tra gli spiriti magni del nobile castello, si son lasciati forviare dalle raffigurazioni cui accennavo in principio, e nelle quali Averroè è prostrato nella polvere ai piedi d’AQUINO. A queste figurazioni d'ispirazione domenicana e dei sequaci d’AQUINO pare opporsi invece quella d'ispirazione agostiniana che Giusto dipinge nella cappella dei cortelieri annessa alla chiesa degl’eremitani a Padova, ove insegna RIMINI. Dalle descrizioni che ne lascia Schedel, in questo affresco di Menabuoi Averroè è dipinto a fianco di Maestro Alberto da Padova, teologo eremitano, e del beato Giovanni della LANA (vedasi) da Bologna, filosofo anch'esso eremitano. Questo affresco deve avere impressionato l’eremitano NICOLETTI che reduce anch'egli, al pari di RIMINI, dalle scuole di Oxford e Parigi, e salito sulla cattedra di filosofia nelle scuole annesse al convento agostiniano di Padova, ispira il suo insegnamento alla dottrina sigeriana, sforzandosi di dimostrare in che modo l'intelletto, unico per tutta la specie umana, riesce ad individualizzarsi nei singoli. Alla stessa dottrina sigeriana s'ispirano PICO (vedasi), ACHILLINI, NIFO (si veda), BACILIERI (vedasi) e altri. L'averroismo che ormai pare avere esaurita la sua vitalità a Parigi ed a Oxford, sopraffatto dallo scotismo e dall'occamismo, s'è ridotto ormai nelle sue due ultime fortezze di Padova e di BOLOGNA. Accade ancora di trovare qualche altro averroista altrove, come PRASSICIO (vedasi) a Napoli, che intervenne nella polemica fra Pomponazzi e Nifo. Ma nel suo rigido attaccamento al testo averroistico, egli parla una lingua che si fa di giorno in giorno più incomprensibile. Anche a Bologna, ove l'averroismo sigeriano trova in ACHILLINI un difensore ardito e destro, non ha in Boccadiferro un successore degno di tanto maestro. A Padova invece l'averroismo prende a rinnovarsi, sotto la spinta dell’accademia. E uscita a Treviso la traduzione che BARBARO fa delle parafrasi di Temistio. A questo interprete bizantino e a Teofrasto, Averroè stesso fa risalire la dottrina dell'unità dell'intelletto. Non fa quindi meraviglia che gli averroisti si poneno a studiare con particolare interesse la parafrasi temistiana del De anima, nella traduzione di Barbaro, visto che la traduzione medievale di Moerbeke è diventata estremamente rara, e del resto è oltremodo ostica all'orecchio degl’umanisti. Ma assai più della parafrasi di Temistio, contribuisce al rinnovamento dell'averroismo padovano la conoscenza del commento di Simplicio al De anima, rimasto sconosciuto ai medievali. Il primo che, a mio parere, conosce ed usa il commento di Simplicio al De anima è PICO, il quale n’estrasse ben nove tesi delle 900 preparate pella disputa da tenere a Roma, che poi non ha luogo. Il commento di Simplicio dove attirare l'attenzione di Pico, perché pare contenere un elemento che puo essere prezioso a risolvere il problema centrale dell'averroismo e che è il problema centrale di tutta la filosofia, e cioè: in che modo l’intelletto che è un principio di conoscenza universale e che nella sua natura trascende l'individuo, si comunica a questo, puntualizzandosi nello spazio e nel tempo. Come N. dimostra più volte, il significato storico ed il valore filosofico dell'averroismo consiste appunto nello sforzo di risolvere questo problema, che, posto dai medievali in termini, se vogliamo, contingenti e per noi inconsueti, è il problema eterno della filosofia. Il trattato di Brabante, De intellectu, scritto in risposta al trattato d’AQUINO contro gl’averroisti, questo trattato di Sigieri che si legge ancora a Padova, suggerisce al signore della Mirandola, studente a Padova ed averroista, una soluzione della quale s’ha l'accenno in due delle conclusiones secundum Averroem. D’un lato, L’ANIMA INTELLETTIVA è una sola in ogni uomo. Dall'altro, sembra possibile a Pico, d’un punto di vista strettamente averroistico, che la MIA anima, così particolarmente MIA da distinguersi dall'anima d’ogni ALTRO uomo, possa conservare la sua individualità -- anche dopo la morte. L'elemento prezioso che il commento di Simplicio fornisce a Pico, consiste nell'idea, derivata da Proclo e Giambhco, d’un intelletto che, uno in sé, è capace di parteciparsi, uscendo fuori di sé, in una discesa progressiva verso le seconde VITE, cioè LA VITA VEGETALE e quella ANIMALE o SENSITIVA, per poi ri-tornare in sé, in un circolo eterno che ricorda, anche nella curiosa coincidenza dell'espressione verbale, il processo di HEGEL dell'idea in sé che, uscita fuori di sé, ritorna a sé come spirito. Non è il caso d'indugiarmi piu oltre; ma N. non puo non ricordare la curiosa immagine che Pico suggerisce a Nifo, professore a Padova, durante il viaggio che insieme hanno a fare diretti entrambi a BOLOGNA. L'unità dell'intelletto umano non è altro che l'unità dell'idea platonica che si comunica ai singoli rimanendo, in se stessa, una, indivisibile e immoltiplicabile. Ma, nel comunicarsi ai singoli, essa lascia in questi un'impronta e un vestigio che permane e costituisce l’individualità dei singoli. E, per rendere il suo concetto, il mirandolano ricorre a questo paragone. Come per costruire un arco o una volta è necessaria quell'impalcatura che chiamano centina. Ma quando l'arco o la volta sono costruiti, si reggono da sé, senza bisogno di sostegno. Così L’ANIMA individuale è una partecipazione dell'anima universale, la quale nel CORPO d’ogni individuo umano lascia un'impronta in cui consiste l'individualità d’ogni uomo. In tal modo il mirandolano non ripudia affatto il suo averroismo del periodo padovano; ma anzi l'approfondisce e lo giustifica con un concetto accademico, sì che il problema, nel quale si dibatteno senza via d'uscita gl’averroisti, pare avviato alla soluzione. NIFO (vedasi), professore a Padova, uomo di vasta erudizione, ma confusionario e pretenzioso, crede in un primo momento d’aver trovato nel commento di Simplicio la piena conferma alla tesi sigeriana che egli c’attesta d’aver accolto e poi con molta disinvoltura abbandonato. La vivacità chiassosa ed arrogante che Nifo mette nel difendere le proprie idee e nel combattere l’altrui, contribuisce ad attirare l'attenzione sul commento di Simplicio, del quale frattanto è preparata l'edizione in greco che usce a Venezia presso i Manuzio. Colui che pur senza condividere l’idee di Nifo, anzi combattendole apertamente, si da con ardore a studiare il commento di Simplicio al De anima, è PASSERI, professore di filosofia nello studio di Padova. Di costui ci resta un importante commento al De anima, pubblicato a Venezia, ad opera di fedeli alievi che si giovano dei manoscritti lasciati dal maestro. Altre due redazioni dello stesso corso, tenuto in anni diversi, ci restano manoscritte nella vaticana. Averroista, PASSERI ritene di poter proclamare il pieno accordo fr’Averroè e il divino Simplicio, sia sulla tesi dell'unità dell'intelletto, sia su quella che vuole, contro la corrente sigeriana di Nifo, L’ANIMA RAZIONALE forma assistente e non inerente o informante del CORPO umano. Inoltre, egli constata l'accordo tra il commentatore greco e quello arabo anche su altri punti, segnatamente sulla conoscenza. Nel far ciò, egli s’adoperava a sviluppare alcuni motivi accademici che realmente sono latenti nel pensiero averroistico. Naturalmente PASSERI è uno dei più risoluti avversari dell'alessandrismo, e riprende per proprio conto, come altr’averroisti, la polemica contro POMPONAZZI (si veda) e PORZIO (si veda), i quali, al pari di MAGGI, di LANDÒ e di CASTELLANI, si sono dichiarati per Alessandro d'Afrodisia. L'avvicinamento d’Averroè a Simplicio, mentre fornisce nuove armi agl’averroisti, sembra per un momento smussare l'antagonismo tra la filosofìa del LIZIO e quella dell’ACCADEMIA, la quale ha in Ficino un sagace rinnovatore. La scuola di PASSERI pare anzi aver trovato nel platonismo la soluzione di quelle difficoltà, che sono lo scoglio contro il quale l'averroismo dove naufragare. L'entusiasmo dei discepoli incoraggia ed asseconda l'opera del maestro. Fra questi merita d’essere segnalato FASOLO (vedasi), professore di lettere umane nello studio padovano. È allievo di Genua e ben tre volte aveva udito il maestro esporre il De anima, quando conduce a termine la traduzione in latino del commento di Simplicio sul trattato del LIZIO, stampata a Venezia. Nella lettera indirizzata agl’alunni di Genua, e premessa alla traduzione di Simplicio, FASOLO (vedasi), dopo aver loro ricordato, come il maestro sole a tutti gl’altri commentatori del LIZIO anteporre Averroè e Simplicio, afferma che tutto quanto v'è di buono nell'arabo questi 1'ha appreso dal commentatore greco. E sebbene egli riconosca, che, su alcuni punti, non s'arriva a capire il LIZIO senza il commento averroistico, tuttavia ne mette in rilievo lo stile, più che disadorno, irto, oscuro, barbarico, mentre l'esposizione di Simplicio è piana, senza ambiguità, ed elegante. Forte di questa constatazione, e più ancora dell'esempio del maestro, che non si stanca di lodare la divina esposizione dell'interprete greco, FASOLO (vedasi) rivolge una calda esortazione ai suoi condiscepoli, perché vogliano, ora che il commento di Simplicio è reso facilmente accessibile a tutti, cessare di logorarsi il cervello sulle pagine scabrose d’Averroè, e s'affidino invece all'espositore greco. Si buttino pur via tutti gl’altri commenti, quelli d'Alberto Magno, di COLONNA, di Burleo, di Suessano e d'altri insieme a quello d'Averroè, e si studi invece di giorno e di notte soltanto Simphcio: alios negligite; Simplicium unum vobis die noctuque versandum proponite w. Questo vivace appello rivolto dall'umanista padovano a cacciar dalle scuole Averroè, è fatto, a dir vero, più in nome dell'eleganza e del buon gusto letterario, che non nel nome della filosofìa; e pochi l'accolsero. Sicché Averroè continu ad essere stampato, letto e discusso in utramque partem nelle scuole di filosofia. Ma quell'appello, ad ogni modo, è significativo del disgusto che comincia così apertamente a manifestarsi pell'averroismo ormai prossimo al tramonto. Chi crede che a questo tramonto abbiano contribuito lo spirito della contro-riforma e i divieti ecclesiastici, s' inganna. Chiarito ormai quello che è il significato dell'averroismo come sistema interpretativo del pensiero del LIZIO, è riconosciuta tanto agl’averroisti quanto agl’alessandristi la più spregiudicata libertà di discussione delle loro dottrine filosofiche. Se qualche tentativo è fatto, da parte di qualche zelante, di limitare siffatta libertà, si tratta di zelo eccessivo e d’eccezioni sporadiche. L'averroismo volse al tramonto, perché al tramonto volgeva ormai il LIZIO, del quale l'averroismo pretende d'essere la più fedele interpretazione. Il LIZIO a sua volta finiva per interna dissoluzione, sotto i colpi della critica occamistica, la quale, svalutando la conoscenza astrattiva, mette in evidenza lo pseudo matematismo dei procedimenti gnoseologici che sono alla base del sistema del LIZIO della natura, e addita nella conoscenza intuitiva lo strumento della ricerca scientifica. La stessa opposizione tra ciò che è vero per fede e quello che è da pensare secondo la filosofia, se pur in qualche modo giova a rivendicare la libertà della critica entro i confini della filosofia aristotehca, finì per rendere sempre più estraneo al cristianesimo l’aristotelismo averroistico, il quale si rivela incapace di sistemare l'esperienza religiosa che trae impulso dal vangelo. L’ACCADEMIA invece era parso a Ficino una specie di propedeutica al cristianesimo, sì che sembra agevole sviluppare in senso cristiano i motivi religiosi che racchiudeva. S'aggiunga a questo l'asperità d’una lingua che lacera l’orecchie abituate dall'umanesimo all'armonia e al numero della retorica classica. Ma quello che determina il crollo definitivo dell'aristoterlismo e dell'averroismo, fu il nascere d’una nuova filosofia della natura, fondata su un nuovo metodo di ricerca scientifica: la logica dell'esperienza. Mentre i precursori di Copernico, d’Oresme in poi, avevano rimesso in discussione l'antica ipotesi pitagorica del moto della terra, l'averroista bolognese ACHILLINI (vedasi) combatte perfino, come troppo ardita, la dottrina tolemaica degl’eccentrici e degl’epicicli, per ritornare a quella aristotelica delle sfere concentriche alla terra, considerata il centro immobile dell'universo. E mentre alcuni scolastici avevano dimostrato la possibilità d’un universo infinito creato da Dio, ed avevano preparato la via al Cusano e a BRUNO (si veda), gl’averroisti continuano ancora a sostenere che il mondo non s’estende al di là dell'ottava sfera o, tutt'al più, del primo mobile, che Dio stesso, nella sua onnipotenza, non puo creare altri mondi diversi da questo, e che il moto del primo mobile è un movimento assoluto, come punti di riferimento assoluti sono, per loro, il centro della terra e la convessità della prima sfera. Questa angusta concezione dell'universo fisico crolla come un castello di carte, il giorno in cui, col dialogo della cena delle ceneri e con quello Dell'universo infinito e mondi, il concetto dell'infinito fa irruzione nella filosofia della natura e conduce alla scoperta della relatività di tutte le determinazioni spaziali e temporali. L'averroismo fu sepolto sotto le rovine della fisica aristotelica. Ed anche il tentativo di PICO (vedasi) e di Genua di svolgere taluni motivi del pensiero averroistico in senso platonico, coll'aiuto del commento di Temistio e di Simplicio e sopratutto col sussidio di Plotino, non valse a salvare 1'averroismo come sistema. Per ciò che si riferisce al commento di Simplicio, nel quale avevano riposto le loro speranze Genua ed i suoi padovani, non passarono molti anni che PICCOLOMINI (si veda), il quale dopo la morte di Genua ne occupa la cattedra fino al suo ritiro, potè dimostrare, con un accurato esame dell'opera del commentatore greco, che la dottrina di Simplicio, al pari di quella di Proclo, di Giamblico e di Prisciano Lido, non s'accorda affatto, come avevano preteso il Genua e Nifo, colla teoria averroistica dell'unità dell'intelletto. E se nell'averroismo v'erano effettivamente quei motivi platonici che ne svolse Pico, ciò che dell'averroismo sopravisse e, mettiamo pure, sopravive alla dissoluzione del sistema, ha finito per fondersi col pensiero platonico successivo. Lo stesso problema del rapporto dell'intelletto coll’individuo, ossia del valore universale dell'intendere e dell'individualità dell'atto che intende, che è il problema centrale dell'avveroismo medievale e del rinascimento, s'è rivelato mal posto, pei termini nei quali era enunciato, e conveniva mutare i termini per trovarne la soluzione. Bruno Nardi. Nardi. Keywords: dantesco, Alighieri, animo, Pomponazzi, Virgilio, Enea, inferno, il concetto d’animo, la filosofia romana nel secolo d’augusto – il secolo d’oro della filosofia romana – il secolo augusteo, pico, abano. Refs.: H. P. Grice, “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate,” The Swimming-Pool Library. – Luigi Speranza, “Grice e Nardi: il paradiso filosofico” --.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nasta: la ragione conversazionale e la setta di Caulonia -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia, Reggio Calabria, Calabri. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide, “Vita di Pitagora.” Grice: “Cicerone argues: Nasta spoke Greek; therefore, he was no Roman!” – Nasta.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Natoli: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo tragico – origini dell’antropologia romana -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Patti). Abstract. Grice: “Oddly, while my metaphysical constructions involve indeed the metaphysical transubstantiantion of the Homo sapiens sapiens into a person, I hardly use ‘anthropology.’ In scholastic circles, that is the keyword: ontologia specialis: cosmologia, anthropologia. The issue poses a problem for Aristotle: if ‘soul’ is univocal, its ‘significance’ is best understood in terms of recursive unification: the soul of a plant, the soul of an animal (brute), the soul of man. Therefore, whereas I am quite happy with the use of the early modern monicker of the ‘psychologia rationalis,’ I don’t think ‘anthropologia’ fares so smoothly. In my John Locke lectures I made fun of ‘ichthyological necessity.’ But what about ‘anthropological necessity’?!”. Filosofo italiano. Patti, Messina, Sicilia. Grice: “I like Natoli. He philosophises on the ‘uomo tragico’ at the source of western civilisation, and also the experience of ‘pain’ at the source of it.” Si laurea a Milano, dove ha trascorso gli anni nel Collegio Augustinianum. Insegna a Venezia e Filosofia della politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano.  Attualmente è Professore di Filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca.  Attività accademica In particolare, Salvatore Natoli è il propugnatore di un'etica neopagana che, riprendendo elementi del pensiero greco (in particolare, il senso del tragico), riesca a fondare una felicità terrena, nella consapevolezza dei limiti dell'uomo e del suo essere necessariamente un ente finito, in contrapposizione con la tradizione cristiana.  Filosofia del dolore Una particolare e approfondita analisi sul tema del dolore è stata condotta da Natoli in diverse sue opere.  Il dolore è parte essenziale della vita e per gli antichi filosofi greci era l'altra faccia della felicità:  «I greci si sentono parte e momento della più grande e generale natura, crudele e insieme divina, si sentono momento di quest'eterno e irrefrenabile fluire, ove non vi è differenza tra bene e male allo stesso modo in cui il dolore si volge nella gioia e la gioia nel dolore»  La natura infatti dava la vita e nello stesso tempo crudelmente la toglieva. Il dolore in realtà fa parte della vita ma non la nega: il dolore può essere vissuto e reso sopportabile se chi soffre percepisce non la pietà dell'altro ma che la sua sofferenza è importante per chi entra in rapporto con lui e con la sua sofferenza. Se chi soffre si sente importante per qualcuno, anche se soffre ha motivo di vivere. Se non è importante per nessuno può lasciarsi prendere dalla morte.  Secondo Natoli l'esperienza del dolore ha due aspetti: uno oggettivo, il danno («Nel momento in cui la sofferenza è motivata attraverso la colpa, colui che soffre non solo patisce il danno, ma ne diviene anche il responsabile»); e uno soggettivo, cioè come viene vissuta e motivata la sofferenza. La stessa sofferenza è interpretata in modo differente da diverse culture: per alcune il dolore fa parte della contingenza del mondo fenomenico, dell'apparenza per altre invece, è vissuto intensamente come ad esempio nel cristianesimo dove al dolore viene associata la redenzione. Vi è una circolarità tra il dolore e il senso che fa sì che, pur essendo il dolore universale, ad ognuno appartenga un dolore diverso.  Vi è dunque un senso del dolore e un non senso che il dolore causa. Il dolore infatti contraddice la ragione che non sa darsi spiegazione del perché il dolore abbia colpito proprio quell'individuo e per quali colpe quello abbia commesso e, infine, perché il dolore travagli il mondo. Il tentativo di rispondere a queste fondamentali domande fa sì che l'individuo scopra nuove forze in lui che generino un vittorioso uomo nuovo che, partendo dall'esperienza del dolore, s'interroghi sul senso dell'esistere, tenendo sempre presente però, che il dolore può segnare anche una definitiva sconfitta.  Nel dolore l'uomo può scoprire le sue possibilità di crescita ma questo non vuol dire disprezzare il piacere, sostenendo che questo, invece, ottunde gli animi. Il piacere invece affina la sensibilità come accade per chi ascolta frequentemente una buona musica. Il piacere invece è negativo quando diventa «monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la fossilizza in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo distrugge l'organo.» A differenza del piacere, dell'amore che è dialogo tra due, che è espansivo e affabulatorio anche quando è silenzioso, l'esperienza del dolore chiude il singolo nella sua individualità e incomunicabilità, poiché «il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità.»  Sebbene il dolore sia "insensato" si cerca di spiegarlo con le parole spesso inutili ed allora si cerca dapprima la parola "efficace" che offre la tecnica o la parola "efficace" della preghiera, della fede, che non annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L'efficace uso della parola per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune sofferenza, in quella universalità del dolore dove però ognuno rimane nella sua singolarità di senso. La parola efficace della tecnica per un verso ha alleviato il dolore ma per un altro può creare delle condizioni di vita tali per cui la stessa tecnica controlla il dolore senza togliere la malattia, creando così un'esistenza prolungata senza futuro sotto la continua incombenza della morte:  «A partire dal Settecento, ma ancor più nel corso dell’Ottocento, la tecnica è stata sempre di più associata alle filosofie del progresso: infatti ha emancipato gli uomini dai vincoli naturali, ha ridotto il peso della fatica, ha attenuato il dolore, ha accresciuto il benessere, ha conteso lo spazio alla morte differendola sempre di più… ma la tecnica, oggi, è nelle condizioni di interferire in modo profondo nei processi naturali modificandone i cicli…»  Una soluzione all'inevitabilità del dolore può essere l'adesione a un nuovo paganesimo secondo l'antica visione greca dell'accettazione dell'esistenza del finito e della morte dell'uomo.  «Il cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole che ci sia.»  Anche il cristianesimo infatti teorizza l'uomo finito, ma non essere naturale destinato alla morte, ma come creatura di Dio. Per il cristiano la vita finita condotta secondo il dovere porta all'accettazione della morte come passaggio a Dio. Per il neopaganesimo la vita finita è degna di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos, che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole dell'universale fragilità umana.  Saggi: “Soggetto e fondamento” -- studi su Aristotele e Cartesio (Padova, Antenore); “La critica del linguaggio” (Venezia, Marsilio); “Ermeneutica e genealogia -- filosofia e metodo” (Milano, Feltrinelli); “L'esperienza del dolore -- le forme del patire” (Milano, Feltrinelli); “Gentile” (Torino, Boringhieri); “Vita buona vita felice -- scritti di etica e politica” (Milano, Feltrinelli); “Teatro filosofico -- gli scenari del sapere tra linguaggio e storia” (Milano, Feltrinelli); “L'incessante meraviglia -- filosofia, espressione, verità” (Milano, Lanfranchi); “La felicità -- saggio di teoria degli affetti” (Milano, Feltrinelli); “I nuovi pagani” (Milano, Saggiatore); “Dizionario dei vizi e delle virtù” (Milano, Feltrinelli); “La politica e il dolore” (Roma, EL); “Soggetto e fondamento. Il sapere dell'origine e la scientificità della filosofia” (Milano, Mondadori); “Delle cose ultime e penultime” (Milano, Mondadori); “Natura, poesia, filosofia” (Milano, Mondadori); “Progresso e catastrophe -- dinamiche della modernità” (Milano, Marinotti); “Dio e il divino” (Brescia, Morcelliana); “La politica e la virtù” (Roma, Lavoro); “La felicità di questa vita -- esperienza del mondo e stagioni dell'esistenza” (Milano, Mondadori); “L'attimo fuggente o della felicità” (Roma, Edup); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Il cristianesimo di un non credente” (Magnano, Qiqajon); “Libertà e destino nella tragedia” (Brescia, Morcelliana); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Parole della filosofia o dell’arte di meditare” (Milano, Feltrinelli); “La verità in gioco” (Milano, Feltrinelli); “Guida alla formazione del carattere” (Brescia, Morcelliana); “Sul male assoluto -- nichilismo e idoli nel Novecento” (Brescia, Morcelliana); “I dilemmi della speranza” (Molfetta, La Meridiana); “La salvezza senza fede” (Milano, Feltrinelli); “La mia filosofia -- forme del mondo e saggezza del vivere” (Pisa, Ets); “L'attimo fuggente e la stabilità del bene – la Lettera a Meneceo sulla felicità di Epicuro (Roma, Edup); “Edipo e Giobbe -- contraddizione e paradosso” (Brescia, Morcelliana); “Dialogo sui novissimi” (Troina, Città Aperta); “Il crollo del mondo -- apocalisse ed escatologia” (Brescia, Morcelliana); “L'edificazione di sé -- istruzioni sulla vita interiore” (Roma-Bari, Laterza); “Il buon uso del mondo -- agire nell'età del rischio” (Milano, Mondadori); “Figure d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger (Milano, AlboVersorio); “Eros e philia” (Milano, AlboVersorio); “Nietzsche e il teatro della filosofia” (Milano, Feltrinelli); “Le parole ultime -- dialogo sui problemi del fine vita” (Bari, Dedalo); “I comandamenti: non ti farai idolo né imagine” (Bologna, Mulino); “Le verità del corpo” (Milano, AlboVersorio) – IL CORPO -- Sperare oggi (Trento, Margine); “Le virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa -- la salvezza senza fede” (Feltrinelli); “Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche. Il senso del dolore.  In L'esperienza del dolore.  L'esperienza del dolore nell'età della tecnica. Siamo finiti. E anche la tecnica lo è, da Europa,  I Nuovi pagani, Saggiatore, Milano, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Intervista per Il Rasoio di Occam, Video intervista su Asia, su asia. Dov'è la vittoria? “l'Italia civile che resta minoranza” intervista di, Il Fatto Quotidiano. Salvatore Natoli. Natoli. Keywords: uomo tragico, origini dell’antropologia romana, Gentile, corpo. Chora di Platone, antropologia degl’italiani, filosofia siciliana, Gentile filosofo italiano --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Natoli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nausito: la ragione conversazionale della scuola di Firenze, pre-romana -- Roma – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. A Pythagorean – cited by Giamblico, “Vita di Pitagora.” N. rescues Eubulo di Messina, another Pythagorean, from pirates. Grice: “Cicerone argues: Nausito speaks Greek; he is, therefore, no Roman!” – Nausito.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nearco: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean, N. plays host to CATONE (si veda) Maggiore when Catone recaptures Taranto from the Carthaginians. Grice: “When in Athens, and although he knew some basic Greek, Catone refused to speak it – and demanded an interpreter. I assume he demanded an interpreter when he was asking for his breakfast at Nearco’s!” --. Nearco.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Negri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercato). Abstract: “At Oxford, idealists – like Bradley – are called bigheads – which is better than the monicker metaphysical sceptics receive: ‘beheads’!” Filosofo italiano. Mercato, Napoli, Campania. Allievo di ALIOTTA (si veda), con il quale si laurea a Napoli, sempre considera come suo maestro GENTILE (vedasi), di cui tuttavia non è stato direttamente un discepolo. L'intensità con cui N. approfondiscd la filosofia di Gentile si concretizzato dapprima nello studio dell'allontanamento di SCIACCA (si veda) dall'attualismo poi in sagi quali: “Gentile,” “L'estetica di Gentile,” e “Gentile educatore.” Molti sono i saggi dedicati all'IDEALISMO, tra cui i saggi “La presenza di Hegel,” “Ricerche e meditazioni hegeliane,” e “Hegel” e le traduzioni di saggi hegeliane come “La vita di Gesù” e “Le orbite dei pianeti.” A queste traduzioni si aggiungono anche quelle di grandi classici del pensiero filosofico, economico e sociologico. Riceve il premio San Gerolamo.  A N. si deve anche la valorizzazione di alcune grandi personalità della cultura italiana, come quelle di EMO-CAPODILISTA (vedasi), MICHELSTAEDTER (vedasi), ed EVOLA (vedasi). La sua carriera lo ha visto professore di storia della filosofia in alcune delle più importanti università italiane: Bari, Perugia e Roma, dove lavora presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata fino alla fine del suo incarico universitario. Nel corso della sua esperienza intellettuale è stato impegnato in un'intensa attività saggistica e pubblicistica, scrivendo sulle più importanti riviste culturali italiane e straniere, tra le quali: il Giornale critico della filosofia italiana», il Giornale di metafisica», «I Problemi della Pedagogia», «Rinascita della Scuola», «Dix-Huitième Siècle», «L'Enseignement Philosophique», «Studia Estetyczne», «Idealistic Studies». Collabora con molti dei maggiori quotidiani nazionali: «Il giornale d'Italia», l'«Avanti», «Il Messaggero», «Il Sole 24 Ore», «Il Tempo» e «il Giornale».  Inoltre, ha diretto varie collane di testi filosofici per la Marzorati («Ricerche filosofiche», «Testi e interpretazioni»), la Seam («Filosofi italiani», «Sentieri del giorno e della notte») e la Pellicani («La storia e le Idee») e riviste come gli «Studi di storia dell'Educazione» della Armando Editore. Gli è stato assegnato, a Palermo, dall'Associazione internazionale di studi e ricerche Nietzsche fondata da FALLICA (vedasi), il «Premio Nietzsche».  Saggista sempre molto prolifico, continua a pubblicare opere originali non solo nella scelta degli argomenti ma anche dei contenuti: il Discorso sopra lo stato presente degli italiani, il De persona. L'indomabilità dell'individuo e Problema Europa: Unità politiche e molteplicità culturali. N. Sciacca: dall'attualismo alla filosofia dell'integralità, Ethica, Forlì.  Collegamenti esterni  N., la voce in Enciclopedie, Treccani L'Enciclopedia italiana. Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Spaventa filosofo italiano Sciacca filosofo italiano Idealismo italiano Corrente filosofica predominante in Italia. NOME COMPIUTO: Antimo Negri – not to be confused with Antonio Negri. Parole chiave: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Negri,” The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Negri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Padova -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Padova). Abstract. Grice” “In my Philosophical Eschatology and Plato’s republic,’ I venture into political philosophy. Negri ventured into it his whole life – and beyond!” Filosofo Padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice: “Only in Italy a philosopher philosophises on Pinocchio!” -- Grice: “I like his idea of a new ‘grammar of politics,’ even if he uses the extravagant metaphor, delightful though, ‘fabbrica di porcellana’. He has a gift for metaphor, sure!” – Grice: “’la lenta ginestra’ to qualify Leopardi’s ontology is genial!” -- Grice: “Negri reminds me of ‘pinko Oxford’!” Tra gli anni sessanta e gli anni settanta, fu uno dei maggiori teorici del marxismo operaista. Dagli anni ottanta in poi, si dedicò invece allo studio del pensiero politico di Baruch Spinoza, contribuendo, insieme a Louis Althusser e Gilles Deleuze, alla sua riscoperta teorica. In collaborazione poi con Michael Hardt, ha scritto libri molto influenti nella Teoria politica contemporanea.  Accanto alla sua attività teorica, ha svolto una intensa attività di militanza politica, come co-fondatore e teorico militante delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. A causa della sua attività politica è stato incarcerato e processato, all'interno del processo 7 aprile, con l'accusa di aver partecipato ad atti terroristici e d'insurrezione armata. Venne, tuttavia, assolto da queste imputazioni, per poi venire condannato a XII anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale nella rapina di Argelato. Saggi: “Stato e diritto -- la genesi illuministica della filosofia giuridica e politica” (Padova, Milani); “Lo storicismo” (Milano, Feltrinelli); “Forma giuridica” (Padova, Milani); “Flosofia del diritto” (Bari, Laterza); “Il concetto di partito politico” (Padova, Moderna); “Lo stato piano e il comune” (Milano, Feltrinelli); “Il concetto d’integrazione nella storia di Italia” (Milano, Giuffrè); “Il concetto di stato” (Milano);  “Il capitale e lo stato”, “Della ragionevole ideologia” (Milano, Feltrinelli); “Incidenza di Hegel. Napoli, Morano, Enciclopedia Feltrinelli Fischer); Scienze politiche, (Stato e politica), Milano, Feltrinelli); L’organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); Partito operaio contro il lavoro, in S. Bologna, P. Carpignano, N., “Crisi e organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); “I proletariato” Proletari e Stato. L’autonomia operaia e compromesso storico, Milano, Feltrinelli); “La fabbrica della strategia” Padova, “Cooperativa libraria editrice degli studenti di Padova, Collettivo editoriale librirossi, La forma Stato, per la critica dell'economia politica della Costituzione italiana” (Milano, Feltrinelli); “Il problema dello stato e sul rapporto fra demo-crazia e sociali-smo” Milano, Unicopli-Cuem, “Il dominio e il sabotaggio: sul metodo marxista della trasformazione sociale,” Milano, Feltrinelli,  “Manifattura, società borghese, ideologia: Una polemica sulla struttura e la sovra-struttura,” Roma, Savelli, Marx oltre Marx [Grice, “Grice oltre Grice”]. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, “ Dall'operaio massa all'operaio sociale. sull'operaismo, Milano, Multhipla, “Comunismo e guerra,” Milano, Feltrinelli, Politica di classe: il motore e la forma. Le cinque campagne oggi. Milano, Machina Libri, “Otto Dix,” Milano, Studio d'arte Grafica, “L'anomalia selvaggia: potere e potenza in Spinoza” (Milano, Feltrinelli);“Macchina tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione,” Milano, Feltrinelli, Pipe-line. Lettere da Rebibbia, Torino, Einaudi,  Boutang, Diario di un'evasione, Cremona, Pizzoni, Le verità nomadi: lo spazio di libertà” (Roma, Pellicani); “Fabbriche del soggetto: profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo ontologico, in "XXI secolo. Bimestrale di politica e cultura", “Lenta ginestra: l'ontologia di Leopardi, Milano, Sugar, “Fine secolo. Un manifesto per l'operaio sociale. Milano, Sugar,” “Arte e multitude” (Milano, Politi, “Il lavoro di Giobbe. Il famoso testo biblico come parabola del lavoro umano, Milano, Sugar); “Il potere costituente. Ssulle alternative del moderno, Carnago, Sugar, Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali” (Roma, Pellicani, “Dioniso, o lo stato postmoderno” (Roma, Manifestolibri);  L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione negata” (Roma, Castelvecchi); “I libri del rogo, Roma, Castelvecchi); Partito operaio contro il lavoro; Proletari e Stato; Per la critica della costituzione materiale; La costituzione del tempo. Prolegomeni. Orologi del capitale e liberazione comunista” (Roma, Manifestolibri); Spinoza (Roma, DeriveApprodi, Contiene: S Democrazia ed eternità in Spinoza); “Sogni Incubi”, L’incubo, Visioni. Politica e conflitti nella crisi della società del lavoro” (Milano, Lineacoop, La sovversione” (Roma, Liberal, Kairòs, alma venus, multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso” (Roma, Manifestolibri, Desiderio del mostro. Dal circo al laboratorio alla politica, a cura di e con Fadini e Wolfe, Roma, Il manifesto, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, con Hardt, Milano, Rizzoli,  Europa politica. [Ragioni di una necessità], a cura di e con Friese e Wagner, Roma, Manifestolibri, Luciano Ferrari); “Bravo ritratto di un cattivo maestro. Con alcuni cenni sulla sua epoca” (Roma, Manifestolibri); “L'Europa e l'impero. Riflessioni su un processo costituente, Roma, Manifestolibri); “Moltitudine e impero, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il ritorno. Quasi un'autobiografia” (Milano, Rizzoli, Guide); “Impero e dintorni” (Milano, Cortina); “Moltitudine. Guerra e democrazia nell’ordine imperiale” (Milano, Rizzoli); “La differenza italiana” (Roma, Nottetempo); Movimenti nell'impero. Passaggi e paesaggi, Milano, Cortina, Global. Biopotere e lotte” Roma, Manifestolibri, Goodbye Mr Socialism, Milano, Feltrinelli, Settanta (Roma, Derive); Approdi, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Milano, Feltrinelli, Dalla fabbrica alla metropoli” (Roma, Datanews,  Il lavoro nella Costituzione” (Verona, Ombre Corte, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti della governance” (Verona, Ombre Corte,  Comune. Oltre il privato ed il pubblico, (Grice: “Cf. Grice on ‘common language’ and ‘private language’”) Milano, Rizzoli,  Inventare il comune, Roma, Derive Approdi, Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte (Verona, Ombre Corte); “Questo non è un Manifesto” (Milano, Feltrinelli); “Spinoza e noi, Milano-Udine, Mimesis); “Fabbriche del soggetto. Archivio (Verona, Ombre corte); Arte e multitudo (Roma, DeriveApprodi); “Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Assemblea, Milano, Ponte alle Grazie, Da Genova a domani. Storia di un comunista, Milano, Ponte alle Grazie.  Che l'Europa politica sia necessaria, è chiaro per le ragioni stesse che ne hanno determinato l'attuale processo costitutivo: la ricerca della pace fra le nazioni che la compongono, lo spazio economico comu-ne, la comune determinazione culturale, ecc. Ma che l'Europa sia necessaria sembra evidenziarsi con molta forza anche da altre ragioni, non più semplicemente statiche ma dinamiche, non più solo storiche ma politiche ed attuali. La necessità dell'Europa nasce dal confronto con la messa in forma del mercato globale, cioè dal confronto con il processo di costituzione imperiale che sta realizzandosi.  Nell'impero, essendo impensabile una democrazia assoluta (un uomo uguale un voto); essendo del pari assai dubbia, quando non si tratti di pura mistificazione o illusione, l'immagine di una società civile globale, sarà infatti necessario delimitare uno spazio che consenta l'espressione e la decisione democratiche della molti-tudine, nonché la sua organizzazione politica.  Ora, lo spazio politico europeo (costituito su una continuità culturale lunga e singolare e una dinamica costituzionale specifica)  sembra corrispondere a quella necessaria delimitazione. lo non so se in questo spazio sia possibile pensare un soggetto politico adeguato alle dimensioni dell'impero. Quel che è certo è che fuori da questo spazio, e senza un soggetto adeguato, non c'è più democrazia per l'Europa.  Se queste sono le condizioni nelle quali dobbiamo muoverci,  interroghiamoci qui di seguito.  È possibile costruire questo spazio? E possibile costruire, in questo spazio, un soggetto politico che si confronti agli altri nell'impe-ro? O, meglio, che si confronti con gli altri a proposito dell egemonia imperiale? E possibile una unione politica che ne valza la pena?  A noi non sembra che si possa dare risposta positiva a questi interrogativi se si consente alle posizioni che oggi sono prevalenti nella discussione politica europea. Alcune di queste posizioni appartengono al dibattito comunitario (1), altre partecipano del dibattito politico sull'Unione (2).Ora le pesizioni che attengono al dibattito comunitario, si pongono fra gli estremi di questa alternativa:  1,1 La Comunità curopes come pura area di mercato e regolazione di questa:  12 la Cawumira euroyea cme Confederazione ti Stati-nazio-  È chiaro che in eninambi questi casi la Comunità europea è disgonata come una subornizzazione imperiale, ovvero come una delle enganizazioni deventrate nella piramide imperiale. In questo caso l'unione politica non produce né democrazia né una nuova sagrettività all'interno dell'Impero.  Si obierta tuttavis, da qualche voce, che assumendo la determinante mititares come pil importante di quelia cconomica si  potrebbe sovrarre l'Europa alla funzione subaltema cui l'Impero la  destina Cio surebbe tuttavia vero salo alla condizione, manifesta-  mente tale, che l'Europa potare immectatamente presentarsi, nel sua insieme, come potenza militare. Ma enca non si presenta casi: amalmente la determinazione militare è separata, gestita dai singoli  Sti-narione. Di conseguenza proprio quando ci si riterisce alla deter-  munante militure, si finisoe per escludere / Euroga da ogri collocario  ne o ruelo decisivi nell'ambito imperiale. So poi l'insistenza sulla determinante mitare forse semplicemente un trucco per rattermare la centralità dello Stato-nazione nella realtà europea ed internaziona-le, allora l'efficacia dell'obiezione verrebbe del tutto meno.  Un'altra altemativa si disegna quando si considerino le posizioni che partecipano del dibattito politico sull'Unione: L'Unione politica europea è da un lato, in questa prospet-tiva, considerata come un Super Stato giuridico-amministrativo  (msomna, un Impera nell Impero);  22 in altra foma l'Unione europea può anche enere immaginata  (come spesso avviene nel diburtito arruale) come una Costituzione senza Stato, ovvero come una struttura statale caratterizzata da numerosi  Iivelli di organizzazione piuttosto che promona da un centro sovrano.  Si tratta, in entrambi i casi, di una figura costituzionale sparia  orvero chi una macchina sebole del potere costituente. Sono, queste  ultime figure, entrambe canuterizzate da un deficit democratico pesantissimo. In 2.1 lUnione curopea sembra essere affidata ad una magistratura buroeritica che produce le istituzioni come con-  seguenza di una dinamica fonzionalista. In 22 | Unione curopea e  consenata a macchinazioni pelitico-giuridiche piuttosto similt a  quelle che reggevano l'amministrazione del Sacro Romano ImperoGermanico e riconducibili alla combinazione di una architettura puffendorfiana e dell'immaginazione reazionaria del romanticismo.  Secondo alcuni giuristi, tuttavia, si dovrebbe riporre fiducia nei dispositivi giuridici dell'Unione Europea esistenti. Una volta messi in moto, essi potrebbero funzionare come «potere costituente» di una nuova sovranità europea. Questo potere costituente «spurio» può essere, a parere dei giuristi, prodotto sia da un'attività istituzionale intera (le Corti europee) sia dall'effettività del combinato sussidiario delle istituzioni europee e degli Stati confederati. Le burocrazie interne alla comunità divengono cosi il «deus ex machina» che non solo supplisce al deficit costituzionale ma ne prepara il superamento. Queste ipotesi non sembrano credibili. Esse infatti prevedono una sorta di governance costituente, difficilmente ipotizzabile in una situazione caratterizzata, a) oltre che dal deficit democratico di base, b) da conflitti certi fra le élites europee, e) da pressioni contrarie, e/o distruttive, esercitate dalle élites imperiali, americane, russe, ecc.  In ogni caso, qualora la discussione politica e costituente continuasse in questi termini, forse avremo un'Unione Europea... Ma non ne varrà la pena, perché essa sarà, dal lato dei governanti, completamente subordinata al comando imperiale; dal lato dei governa-ti, bloccata, chiusa in una passività che potrà trovare solo vacue vie di fuga, di rivolta o di repressione.  A quali altre condizioni è dunque possibile un Europa politica che ne valga la pena?  Essa è possibile solo se il progetto dell'Unione e quello di una mobilitazione democratica della moltitudine europea sono concomitanti ed agiscono con forza dirompente a livello e nelle dimensioni dell'impero tutto intero. Voglio dire che un'Europa politica (che ne valga la pena) è possibile solo se la moltitudine europea è sollecitata alla costituzione dell'unione politica attraverso la mobilitazione di strati sociali potenti (sia nella produzione di merci che nella espressione di valori), di strati sociali che vogliono dunque con l'Europa, più libertà qui e nel mondo.  Vale forse dunque la pena qui di sottolineare che quel che dovrebbe interessare coloro che vogliono un'Europa politica, non è tanto la costituzione di un demos quanto la produzione di un soggetto politico. Ma far uscire un soggetto politico dalla moltitudine, dunque costruire un'Europa politica che ne valga la pena, non sarà possibile se non vi saranno divisione, lotta, decisione di valori di libertà.  Ci sia permessa una breve parentesi. L'Europa era stanca quando, dopo un secolo di guerre fratricide, a metà del secolo ven-tesimo l'antica utopia cosmopolita venne riproposta e riformulata nel progetto politico dell'Europa unita. Il paradosso di questa decisione fu di essere animata piuttosto da necessità strategiche nella lotta contro il comunismo sovietico che da una effettiva ricerca di unità politi-ca, di solidarietà economica e di ricomposizione costituzionale. I federalisti europei si batterono a lungo contro queste insufficienze, ma furono sempre prigionieri del quadro strategico precostituito. In particolare, esso escludeva la sinistra e le masse proletarie dal progetto europeo. Una divisione di classe sovradetermina dunque il progetto europeo e preesiste alla sua attualità. Un demos europeo non sarà dunque possibile costruirlo se non si scava dentro questa preistoria e, al limite, se non si riattivano realisticamente quelle profonde divisioni, al fine - laddove sia possibile - di superarle. In ogni caso, si tratta di prendere in considerazione i conflitti (passati ed attuali) perché solo questa considerazione potrà permettere di articolare, nel presente, eventuali convergenze politiche. La fine della Guerra Fredda, di per sé, non risolve nulla, a meno di pensare che nel conflitto internazionale di allora non fosse in qualche modo incluso il conflitto di classe. Di contro, lo sviluppo negli anni '90 delle tendenze imperiali rischia di accentuare (come si è cominciato a vedere) alterative molto caratterizzate alla costruzione dell'unità europea da parte degli Stati-nazio-ne. Il Regno Unito gioca pesantemente come arma euroscettica il proprio ruolo di alleato privilegiato, nella politica finanziaria e militare, degli Usa. Le altre potenze europee guardano con sospetto la supremazia continentale della Rft unificata. Ecc., ecc. Se si vuole superare questa situazione, il dibattito sull'Europa, ed il riconoscimento del suo farsi da parte dei popoli che la costituiscono, dovrà attraversare nuove fasi di confronto e di espressione alternativa di valori, di opzioni, di tendenze. Senza bagnarsi in queste scadenze di vita e di sangue, sarà difficile procedere nel dibattito europeo...  Chi ha dunque interesse all'Europa politica unita? Chi è il soggetto europeo? Sono quelle popolazioni e quegli strati sociali che vogliono costruire una democrazia assoluta a livello di impero. Che si propongono come contro-Impero.  Insomma, si tratta di quegli strati produttivi (più o meno pro-letari) che necessariamente (per ragioni dettate dalla natura della loro forza produttiva) chiedono:  uno statuto di cittadinanza sempre più universale, ovvero la più ampia mobilità per sé e per gli altri; reddito garantito, ovvero la possibilità materiale, per le moltitudini, di essere flessibili nella produzione di ricchezza e nellariproduzione della vita; c) la proprietà comune dei mezzi di produzione: s'intende, dei nuovi mezzi di produzione. Se infatti il lavoratore intellettuale non ha la proprietà del proprio utensile di lavoro, cioè del cervello, allora non è più nemmeno un proletario ma uno schiavo. Si vuole dunque la libertà.  C'è un nuovo proletariato che è stato creato dal nuovo modo di produzione capitalistico. E una moltitudine che, nella postmodemità, si aggrega e ricompone nei più diversi luoghi produttivi - infatti, ogni attività è diventata un luogo da quando la localizzazione capitalista della produzione è diventata un non-luogo, da quando la fabbrica for-dista si è dissolta nella società postfordista. E un esodo permanente ed alternativo, dove un proletariato immateriale e precario si dispiega e si scontra, dentro il quadro della globalizzazione, con l'Impero. Sarà possibile affidare a questo proletariato europeo, come linea di esodo, il progetto Europa? Insomma, porlo contro tutti i tentativi di fare dell'Europa una grande potenza sovrana, un super-potere capitalisti-co, un blocco di forze conservatrici (verdi o gialle, nere o rosse che sia-no)? Insomma qui si chiede un Europa di gente intelligente e povera, divertente e mobile, che sconquassa ogni assetto di potere costituito.  Può cominciare attraverso l'Europa una marcia zapatista della forza-lavoro intellettuale? Europa delle regioni, Europa delle Nazioni, Europa provincia imperiale, ecc., ecc.: e se, di contro, cominciassimo a parlare dell'Europa come non-iuogo rivoluzionano nell Impero?  Vale la pena di sottolineare che le condizioni qui poste rap presentano un diagramma nella costituzione non solo politica ma biopolitica dell'Europa unita. Dico «biopolitica», perché oggi le condizioni giuridiche universali (della citradinanza, del reddito, della proprietà comune) costituiscono la precondizione, ovvero il substrato ontologico, dell'esercizio stesso della libertà. La politica ha investito la vita cosi come la vita ha investito il politico: nella costituzione dell'Europa unita questo rapporto non può che essere ritenuto fondamentale ed irreversibile.  Per concludere provvisoriamente, mi sembra dunque che si debba dire:  un soggetto europeo (e con esso un'Unione europea che valga la pena) potrà essere formato solo da una nuova sinistra europea. La questione della costruzione dell'unità europea e quella della formazione di una nuova sinistra sono sincroniche.  Il nuovo soggetto europeo non rifiuta dunque la globalizza-zione, anzi, costruisce l'Europa politica come luogo dal quale parla-re contro la globalizzazione, nella globalizzazione, qualificandosi (a partire dallo spazio europeo) come contropotere rispetto all'egemo-  nia capitalistica nell'Impero.  Per ravvivare la discussione è forse qui utile proporre una reminiscenza del «potere costituente», e di come esso potrebbe agire, se immaginassimo l'Europa come «anello debole» nella catena del dominio imperiale, e quindi la costituzione unitaria dell'Europa come prodotto di una vera e propria «guerra civile» all'interno dell'Impero.  Al fine di dare realistica base a queste ipotesi, è necessario assumere che il comando imperiale non è per nessuna ragione disponibile ad ammettere un'Europa unita (ed unita a partire dalle nuove forze sociali antagoniste) come «contropotere» nella globalizzazione. Questo rifiuto è organizzato e rappresentato da frazioni importanti del capitale globale e trova la sua base nel conservatorismo della destra americana e nel pensiero unico del liberalismo mondiale. L«unilateralismo» americano non è solo «americano» ma capitalista, conservatore e reazionario. La grande metamorfosi imperiale ha sconvolto i parametri tradizionali della scienza politica e del diritto pubblico, e ha spinto importanti frazioni del capitale collettivo (globale) verso un accanito conservatorismo. L'«unilateralismo» è un tentativo di bloccare ogni movimento delle moltitudini e di fissare su condizioni immutabili il dominio del grande capitale sull'Impero. Da questo punto di vista, la proposta di un'Europa unita, che sappia (perché altrimenti non potrebbe trovarsi unita) dare spazio alle nuove forze sociali che la rivoluzione del modo di produrre ha creato - bene, questo, i padroni dell'Impero, i governi della destra e il capitale collettivo non lo voglio-  no. Bisogna dunque che si apra una lotta dura su queste alternative e che ci si impegni attorno ad essa su un programma di trasformazioni radicali. Solo in questo caso l'Europa potri diventare reale: e, diventando reale, presentarsi come «anello debole» della costituzione imperiale e quindi possibilità di nuova libertà per le moltitudini.  Ma ritorniamo al centro politico del nostro dibattito e discutiamo altre obiezioni. All'obiezione che l'iniziativa capitalista (neoliberale) nel costruire un Europa sub-imperiale è già troppo avanzata perché, a questa anticipazione, possa darsi qualsiasi risposta (dunque l'unica possibilità è la difesa degli Stati-nazione),  si deve rispondere: la resistenza nazionale non è più possi-bile, lo Stato-nazione (anche confederato) è già del tutto assorbito nelle dinamiche imperiali... Quindi c'è possibilità solo di rilanciare la lotta nell'Impero. La rivendicazione di «realismo» non consistenella propaganda della ritirata alla Kutusov, né nelle pratiche dell' «curoscetticismo», bensi nell'insistenza (anche in situazioni di ritardo, di sconfitta...) sulla costruzione di alternative globali che possono dar luogo ad eventi di rottura.  Noi dunque diciamo: puntiamo sulla costruzione di una sinistra (nuova) a livello europeo, piuttosto che su ogni altro obiettivo.  Sulla via della costruzione di questa (e dell'Europa) noi possiamo/dobbiamo investire il non-luogo imperiale, in maniera sov-versiva.  All'obiezione che l'Europa è povera, che non ha materie prime né petrolio, che ha una finanza ed una moneta completamente subordinate al mercato mondiale, che non ha la bomba né la capacità di decidere della guerra, ecc..  si deve rispondere che l'Europa è ricca di forza-invenzione e di forme di vita. Nella depossessione di materie prime, nella debolezza finanziaria e monetaria, nella estrema impotenza militare, non è la reinvenzione del «demos» o una solidarietà antica (demotica) che pre-miano, ma piuttosto una nuova immaginazione biopolitica che, nel rapporto con la mobilità tellurica dei lavoratori e dei poveri e la mobilitazione delle nuove intelligenze, si faccia esodo dalla miseria delle forme economiche e politiche della modernità. Ciò detto, è necessario sottolineare il fatto che ogni qual vol-ta, dall'inizio degli anni 70, l'Europa ha cercato di operare un passaggio istituzionale decisivo, sempre si sono tempestivamente determinate acute situazioni di crisi. Esse hanno avuto origine nel ventre molle dell'Impero, in quel Medio Oriente dove si forma il prezzo di uno dei beni essenziali dell'Europa, il petrolio, e dove dominano i governi più reazionari del pianeta. Questa coincidenza non può non essere presa in considerazione da una sinistra europeista. Essa deve aver coscienza che costruire l'Europa significa lottare, ad un tempo, contro coloro che fanno il prezzo del petrolio e contro i governi reazionari del  Medio Oriente, contro i Talebani del dollaro e quelli del petrolio. Per approfondire l'intera argomentazione fin qui condotta e rafforzare le conclusioni (l'Europa politica unita non dovrà essere tanto una nuova figura della sovranità quanto una «macchina da guerra» per l'estensione dei nuovi diritti fondamentali ai soggetti dell'Impero) vale la pena di aggiungere qualche riflessione sulmodello europeo di solidarietà sociale ovvero sul rapporto che si stende, nella tradizione e nell'avvenire, tra il diritto del lavoro e la costituzione europea.  Per trattare di questo tema penso che dovremo, prima di tutto, ricordare quanto sia ambiguo il riferimento ad un modello europeo di solidarietà sociale: un modello che, avendo trovato le sue origini nell'Obrigkeitstaat bismarckiano o nel rozzo sociologismo della III Republique, si è sempre caratterizzato (dal punto di vista giuridico) nella forma della subordinazione, (dal punto di vista economico) nel calcolo del costo di riproduzione della forma lavoro (del salario diffe-rito), (dal punto di vista politico) in funzione della pace sociale e del consolidamento dell'autorità statale - ed è stato spesso tradotto in solidarietà imperialista o bellica... Gli Istituti Nazionali per la Previdenza Sociale hanno linanziato gran parte delle guerre del X.X seco-lo. In esse s'è esaltata la disciplina biopolitica dello Stato-nazione, quella che ben si conclude nel nazional socialismo.  Ciò detto, resta tuttavia da aggiungere che il modello europeo di Welfare ed il diritto del lavoro che gli si incastonava dentro, sono venuti man mano registrando i movimenti antagonisti della forza lavo-  TO.  È sulla base delle lotte dei lavoratori che Welfare e diritto del lavoro si sono man mano, in Europa, emancipati dalle determinazioni corporative, populiste, colonialiste, imperialiste che li avevano percorsi.  È così che siamo arrivati ad un momento, fra i '60 e i '70, nel quale ci siamo illusi che il modello europeo si fosse liberato dalle sue iniziali condizioni, che dunque Sinzheimer avesse vinto e che l'ambiguità del modello europeo di solidarietà potesse definitivamente fondarsi su - e nutrire - la democrazia.  Non è stato così...  A partire dagli anni 70, le conquiste democratiche del Welfare europeo sono state scontrate dal neoliberismo ed i loro effetti spesso neutralizzati. I metodi della repressione hanno annullato forze altrimenti irresistibili e le hanno piegate alla sovradeterminazione del mercato globale, politicamente riconosciuto come potenza autonoma:  D'altra parte l'attività del diritto del lavoro «all'europea» è stata assai disturbata, quando non sia stata colpita nei suoi stessi presupposti. Ché infatti, se il suo progresso era conflittuale, legato alle lotte di un soggetto forza-lavoro (che aveva ottenuto riconoscimento costituzionale), ora questo soggetto (il sindacato) non era stato solo attaccato nella sua figura istituzionale, rappresentativa,ma gli erano state sottratte le condizioni di esistenza, Chiamiamo: postfordismo la situazione nella quale il sostrato ontologico (classe operaia) e la figura politica (sindacato) del conflitto industriale non esistono più come attore centrale.  Che cosa significa più, nel postfordismo, parlare di un modello (di una tradizione) europeo di solidarietà sociale quando (senza insistere sulle differenze ma supponendo omogeneità) le condizioni stesse della continuità non sembrano più darsi?  Che cosa significa, in assenza di un soggetto conflittuale forte, in condizioni ormai definitivamente stabilizzate di flessibilità e di mobilità della forza lavoro produttiva, riattualizzare o reinventare un diritto del lavoro su scala continentale?  E nella globalizzazione dei mercati, che cosa significa accostare Labour Law e European Constitution? Talora ho l'impressione che si dovrebbe fare come Roosevelt all'inizio del New Deal: imporre per decreto un nuovo soggetto sindacale per permettere la messa in forma di un nuovo Welfare: ma come è immaginabile oggi un tale disegno?  Ad accrescere le difficoltà di dar risposta a questi quesiti insorge un altro tema/problema: quello dell'immigrazione.  Nelle condizioni di globalità dei mercati, questo problema (è bene precisarlo) non si «aggiunge» a quello della regolazione (giuri-dica o politica) della forza lavoro indigena: gli è, al contrario, con-sustanziale  sia dal punto di vista dell'economia industriale (disponibi-  lità indefinita e costo limite zero del lavoro)  - sia dal punto di vista delle politiche budgetarie (pensioni-stiche, assistenziali, scolastiche e formative, sociali in genere...)  Sarebbe interessante qui riferirsi a, ed insieme forzare, quella categoria «frontiera» che Balibar - nei suoi ultimissimi scritti - considera ormai più ampia di «Stato-nazione». E comunque sparare a zero sull'attuale concetto di cittadinanza immobilizzato su spazi ormai derisori per la vita di un uomo qualunque e del suo bisogno di lavorare...  Di qui altre due questioni, alle quali siamo introdotti dal problema dell'immigrazione, ma che non hanno rilevanza semplicemente in questa prospettiva. La prima è: come viene configurandosi il controllo biopolitico sulla forza lavoro postfordista, mobile e flessibile, indigena o nomade?  E poi: come potrà un diritto del lavoro (su scala europea)  determinare un'eccezione (su scala globale) contro il controllo bio-  politico e la gerarchizzazione imperiale della forza lavoro? Antonio Negri. Keywords: implicature, potere-potenza, l’incubo, la differenza italiana, grammatica politica, assemblea. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Negri," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Neri: l’implicatura conversazionale dell’aporia della realizazione – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Abstract. Grice: “Philosophers, not the ordinary chap, use ‘realise’ a lot – and not in the sense, ‘I hadn’t realise’ – but as a verb from the Latin root ‘res’ – In fact, I have myself engaged in such talk when I introduced my ontological marxism and my explorations on ‘Aristotle on the multiplicity of being’ which was once planned to appear in my ‘Way of Words.’ The keyword here is ‘entia realissima’ – or ‘ens realissium’ in the singular. The Roman language allows for the superlative in ways that the English language doesn’t – since ‘most real’ can have vulgar usages that do not quite correspond with ‘realissimum.’ In ‘Aristotle on the multiplicity of being’ I propose a chain of being towards that ens realissimum. The primary substance thus – Socrates – qualifies as ens realissium. His wisdom is less real, and his love of wisdom is three-stages removed from reality. When Kant introduced the ‘ding an sich’ he really did not know what he was talking about. And some English philosophers – including myself – have used ‘obble’ (or object) as more or less equivalent to ‘ding’ if not ‘in sich.’ But Cicero would say that ‘thing’is a barbarism, when we have ‘res’ to replace it with!” “Any first in greats knows that!” Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “Neri is an interesting philosopher – he speaks of the aporia of the realization, which is intriguing, and considers that ‘objectivism’ started with Galileo, which is realistic!” Professore a Verona. Allievo di Banfi e Paci, rappresenta una delle ultime sintesi della Scuola di Milano, di cui riprende alcuni dei temi portanti: ricerca fenomenologica, analisi storico-politica, studi estetici. Rispetto ai suoi maestri, del cui pensiero è stato uno dei maggiori interpreti, sviluppa un percorso di ricerca originale, caratterizzato da una critica delle ideologie del Novecento e dei loro fallimenti, e da una lettura non dogmatica della storia contemporanea, volta a metterne in luce discontinuità e aporie. Forte di un'indole scettica e fedele al principio dell'epoché fenomenologica, Neri ha ripercorso le vicende della dialettica marxista, focalizzando in particolare la sua attenzione sull'Europa centro-orientale, e sulle varie forme di controcondotta e dissenso che, a partire dagli anni sessanta, sono andati germinando in quel contesto storico. I suoi autori di riferimento Husserl e Merleau-Ponty, Bloch e Lukács, Kosík e Kołakowskirivelano la tensione intellettuale tra ricerca teoretica e storica che ha caratterizzato il lavoro di Neri, dalle principali monografie, ai saggi su aut aut e Il filo rosso, fino al materiale inedito conservato presso l'Archivio N., da pochi anni istituito presso l'Università degli Studi di Milano.  Durante gli anni universitari, trascorsi tra Pavia e Milano, Neri ha l'occasione di frequentare gli ultimi corsi di Banfi, ormai lontano dalla fenomenologia e intento a perfezionare (e radicalizzare) il suo umanesimo di stampo marxista, e dell'ancor giovane Enzo Paci che, in quegli stessi anni di dopoguerra, intraprende un confronto innovativo con gli esiti della ricerca husserliana, e in particolare con i contenuti della Crisi delle scienze europee, oggetto di numerosi corsi. Proprio questo "apprendistato fenomenologico", secondo l'espressione di Fausti, ha consentito a N. di acquisire un metodo di ricerca che lo ha accompagnato, non solo nei suoi studi delle opere di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka (dei quali traduce e cura varie pubblicazioni), ma, più in generale, nell'analisi del pensiero storico e politico novecentesco. A questi interessi va ad aggiungersi quello per l'arte e l'estetica, decisivo in questi primi anni, e dovuto in particolare agli insegnamenti di Formaggio, con cui N. si laureò. Neri continuerà a interessarsi a questi temi anche negli anni successivi, dedicando diversi scritti a Panofsky (della cui Prospettiva come forma simbolica cura nell'edizione) e a Caravaggio, e interrogandosi sul rapporto tra fenomenologia ed estetica.  Agli anni di studio, segue una fase di ricerca che lo porterà nei primi anni sessanta a Praga, ospite dell'Accademia delle Scienze della Cecoslovacchia e, in seguito, negli Stati Uniti d'America, dove è visiting scholar a Pennsylvania. A Praga, Neri entra in contatto con la giovane generazione di intellettuali cechi che, in questi anni cruciali, portano avanti l'idea di riformare il socialismo dal suo interno, a partire da una profonda reinterpretazione del materialismo e della prassi marxiana. È grazie a N. che in Italia si diffondono le opere di Kosík e di Patočka che, pur così profondamente diversi, condividono con Neri l'interesse per la fenomenologia e la politica. Durante la sua esperienza americana, N. dedica a Marx una serie di lezioni e conferenze, i cui testi inediti, facenti parte del Fondo N., sono conservati presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Analizzando il pensiero di Marx, N. si rifà in particolar modo, oltre che all'insegnamento di Kosík, agli scritti di Petrović e alla scuola jugoslava legata alla rivista Praxis. Tornato in Italia, inizia un lungo periodo di insegnamento a Verona, durante il quale incentra i suoi corsi sulla fenomenologia post-husserliana, su Bloch, sull'idea filosofica di Europa e la sua eredità, a seguito del fallimento dei principali progetti politici novecenteschi. Escono in questi anni le sue opere più note: “Aporie della realizzazione”, sulla filosofia e l'ideologia dei paesi del socialismo realizzato, e “Crisi e costruzione della storia”, dedicato, ancora una volta, al maestro Banfi.  In più occasioni, manifesta il suo debito nei confronti dei suoi maestri milanesi, per averlo iniziato allo studio della fenomenologia. In tal senso, il passaggio dall'insegnamento di Banfi a quello di Paci è decisivo. «Al centro non era piùscrive Neri poco prima di morire, ricordando quegli anniil "disperato razionalismo" del fondatore della fenomenologia: il fuoco della rilettura era diventato il "mondo della vita" e la critica dell'obbiettivismo moderno». Un pensiero che ben si presta a una generazione di giovani studiosi che, durante gli anni sessanta, si raccolgono intorno a Paci, desiderosi di affinare un pensiero che consenta di riguadagnare un sguardo disincantato, ma non indifferente, sulla realtà sociale e culturale circostante, contro «l'asfissiante razionalismo» di Banfi e, più in generale, contro l'impronta culturale del PCI.  Neri rientra in questa nuova leva di studiosi e in questi termini si possono interpretare anche i suoi studi fenomenologici. «Con il tema del mondo della vitaribadisce N., in un altro tra i suoi scritti più tardila fenomenologia mostrava di saper affrontare i problemi posti dalle scienze storiche e sociali, dall'antropologia culturale e infine anche dal pensiero marxista». L'esempio di Paci, tuttavia, che cercò a tutti gli effetti di coniugare metodo fenomenologico e dialettica marxista, è seguito dall'allievo solo parzialmente, lasciando la sua impronta più visibile nel volume Prassi e conoscenza, una cui parte è dedicata ai critici marxisti della fenomenologia. Col passare del tempo, tuttavia, Neri adotta una posizione di sempre più evidente rottura, prediligendo a qualsiasi tentativo conciliatorio una critica fenomenologica del socialismo realizzato e delle sue distorsioni. A tal proposito, il confronto con Kosík e il dissenso, all'interno del socialismo reale, giocano un ruolo di primo piano.  Come si evince dalla sua “Aporie della realizzazione,” distingue due fasi e due generazioni di filosofi, all'interno della complessa crisi del socialismo in costruzione. Da una parte, la prima generazione è rappresentata da Lukács e da Ernst Bloch. Proprio al pensiero di quest'ultimo, alle sue concezioni di storia e di utopia e ai suoi numerosi ripensamenti, Neri dedica una lunga analisi, che tornerà periodicamente anche negli anni successivi, come testimoniano i programmi dei suoi corsi universitari. A Bloch è ispirato, d'altronde, il titolo del libro, che N. ricava da una pagina di Principio speranza. È all'interno della dialettica tra realtà e realizzazione, tra condizione presente e speranza futura, che N. individua l'andatura del socialismo reale, della sua filosofia e della sua ideologia. Solo con la seconda generazione di filosofi, tuttavia, le aporie della realizzazione socialista vengono veramente al pettine; la malinconia di Bloch cede infatti il passo allo sguardo scettico di Kołakowski e al tentativo di Kosík di rileggere la dialettica marxista in termini concreti, al di là di ogni deriva ideologica. Dello stesso tenore è anche il libro su Banfi, Crisi e costruzione della storia, di pochi anni successivo, in cui N. si confronta con lo stesso tema della realizzazione, inteso stavolta nei termini del tentativo banfiano di costruire un percorso storico su basi razionali, oltre la crisi della civiltà moderna, verso una nuova prospettiva umanistica. Alla luce del ritratto offertoci da Neri, che si concentra in particolare sugli anni trenta, intesi come momento cruciale per lo sviluppo della teoria banfiana, emerge un'immagine di Banfi particolarmente complessa, nella quale la svolta ideologica e l'adesione al comunismo non offuscano il perdurare di uno spirito critico e di una prospettiva europea, che si sviluppa al di là dei particolarismi delle filosofie nazionali.  L'Archivio N. -- è stato creato presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano l'Archivio N. In tale archivio è raccolta un'imponente quantità di materiali inediti, che comprendono riflessioni, appunti per corsi e seminari, annotazioni di viaggio, corrispondenze. Sono considerati di particolare rilievo, in vista di futuri studi sul pensiero filosofico di N., i 149 quaderni, contenenti le riflessioni del filosofo, dalla metà degli anni cinquanta, fino alla sua morte. Attraverso la lettura di questi scritti, ora completamente consultabili e in corso di digitalizzazione, è possibile chiarire il rapporto e gli scambi di Neri con altri rappresentanti della filosofia milanese: da Banfi a Paci, da Dal Pra a Preti. Grande importanza rivestono anche i commenti in presa diretta su alcuni tra i più rilevanti avvenimenti storici del Novecento: dall'invasione sovietica dell'Ungheria, alla Primavera di Praga, fino al crollo del socialismo reale. A ciò si aggiungono le riflessioni sul ruolo della filosofia nella società, sul modo e l'opportunità di insegnarla, e sulla sua tenuta, di fronte alle scosse della storia.  Saggi: : “La fenomenologia della prassi  (Milano, Feltrinelli); “Il partito socialista italiano” (Milano, Feltrinelli); “Crisi e costruzione della storia” (Napoli, Bibliopolis); “Il sensibile, la storia, l'arte” (Verona, Ombre Corte, F. Tava, su Open Commons of Phenomenology. G. Scaramuzza, Presentazione, in Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente, Milano, Materiali di Estetica, Archivi. su sba.unimi. degli scritti di in aut aut, n. Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente, Milano, in Materiali di Estetica, Quando tra noi  Ricordo, amici, colleghi e studenti, Pizzighettone, Viciguerra, L. Fausti, Tra scepsi e storia. Un percorso filosofico, Milano, UNICOPLI,. L.Frigerio e E.  Mazzolani, Iin Sistema Università,  A. Vigorelli, Fenomenologia e storia. A partire da Patocka: itinerario filosofico, in Leussein,  F.  Tava, Open Commons of Phenomenology. sba.unimi. Fondo librario. Grice: Mussolini used to say that Garibadi spoke of the ‘popolo’ while he speaks of the ‘nazione’ – and a nazione has a plusvalue over popolo. Il popolo e l’asino, l’asino e il popolo utile paziente e bastonato. Grice: “Neri made a great contribution or the spreading of Husserl’s interpretation of their own Galileo n Italy. Who is this Jew to tell us anything about our glorious Pisan? Husserl saw Gailei as a Platonist. Neri made a translation of Husserl’s essay on Galileo and included in a saggio with the title GALILEO in it – in this way, he gathered the attention of every Italian philosophical Galileian!” Grice: “Perhaps the best introduction to Italian socialist politics are the commentaries Neri made to the cartoons in the asino, which he entitled, bitingly, the bite of the ass!” Grice: “Oddly, bite is an attribute of ass – when a retrospective of the cartoons was held, the cliché journalese when ‘satira morente’ -- -- estetica di Diderot, senso e sensibile, il sensibile, la sensazione, il Galileo di Husserl. Guido Davide Neri, su sba.unimi. Neri. Keywords: aporia della realizzazione, il mordo dell’asino, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Neri” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nerone: il melodramma di Boito -- Roma – la scuola d’Anzio -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Anzio). Abstract. Grice: “Nerone’s performance as Roma burnt is possibly apt for meta-analysis: he performed a pavane – this is what he explicitly conveyed by his action, if not ‘meant’ – what he implicitly conveyed, and thereby *meant* is that he could not care less!” -- Filosofo italiano. Anzio, Roma, Lazio. Filosofo epicureo e imperatore romano. Demetrio Lacon dedicated a philosophical essay to Nerone, making it extremely like that Nerone was himself a follower of the doctrines of The Garden. ao ss TN Bo ZA SI gia SE er ES 7 VIS \ Rai COSI Sega pr e da ansa Mi, pe sud o, e RICORDI MILANO 1( @ISERI (mpradigeile) POS \ DI Li ‘A DG DI 8 li 7 LALA Ss INI (EL fn ra SI ; CS ‘ pi” x "n ': lr” t DS Ù Ì N ? Ò FINE Nine {UMBERTO PIZZI BULOGNA Via Zamboni Imprimé en Italie BOITO TRAGEDIA IN IV ATTI AUMENTO COMPRESO LE PERSONE DELLA TRAGEDIA: NERONE SIMON MAGO FANUÈL ASTERIA RUBRIA TIGELLINO GOBRIAS DOSITÈO PERSIDE CERINTO IL TEMPIERE TERPNOS PRIMO VIANDANTE SECONDO VIANDANTE LO SCHIAVO AMMONITORE I VARII AGGRUPPAMENTI DEL CORO: Ambubaje - Fanciulle Gaditane - Acclamatori - Cavalieri Augustani - Liberti - Fautori di parte frasina - Fautori di parte azzurra Popolo Schiavi Plebe Senatori Una compagnia di Artisti Dionisiaci, Tre decurie di Guardie Germane Eneatori Sacerdoti del Tempio di Simon Mago - Matrone - Classarii - Pretoriani - Cristiani Aurighi della fazione verde - Aurighi della fazione azzurra. PANTOMIMI, DANZATRICI, APPARITORI: Una puella Gaditana L’ Arcigallo Un venditore d’idoli Un venditore di tavole votive - Un mercante orientale Un flamine - L’auriga vincitore L’ auriga vinto Un lanista Due Mercurii Due Caronti Alcuni Etiopi Viandanti - Lettigarii - Clienti Servi Danzatrici Gaditane Corrieri Mauritani I due Consoli - Littori Preconi Due Tribuni della plebe Legionarii - Galli - Greci Rheti Indiani, Armeni, Egiziani, Fanciulli patrizii, Fanciulli cristiani, Fanciulli Asiatici, Cavalieri, Phaiangarii, Matrone, Marinai, Citaredi, Sistrati, Auledi, Ieroduli, Flabelliferi, Tre Tempieri, Alcuni Decurioni, Alcuni Centurioni, Guardie Germane, Gladiatori, Alcuni bestiarii, Istrioni, Sagittarii. Tai % VA Il bh NI E fighe: Ri di ST Mr Acenta) MAN CI 1a SOR MN LIERE T #1"Ri N. TIRA GGEDRARENCF OUATTPEROSTASITI PAROLE E MUSICA DI BOITO RicoRDI PRIMA MILANO, TEATRO ALLA SCALA PERSONAGGI N. Pertile; SIMON MAGO, Journet E e Galeffi MORERTA SC del 5 Raisa MERA e, » Bertana ME UCINO n e e Pinza BIRBRIAST: Nessi O i a BERSIDE N. . Sig Mita Vasari MINT ne, » BERLEMPIERENS e, i Venturini PRIMO VIANDANTE.Tedeschi SECONDO VIANDANTE Menni LO SCHIAVO AMMONITORE Baracchi MIS SOL INLLÎNI MAESTRO DIRETTORE E CONCERTATORE TOSCANINI Maestri sostituti: CALUSIO – CLAUSETTI FORNARINI FRIGERIO - RAGNI - ROSSI - RUFFO VOTTO Maestro del Coro: VENEZIANI Maestro della Banda: MORRONE Maestri suggeritori: PETRUCCI e DELEIDE Coreografo : PRATESI - Prima ballerina: FORNAROLI Direttore della messa in scena: FORZANO Direttore dell’allestimento scenico: CARAMBA Scene, costumi ed attrezzi su bozzetti di POGLIAGHI Scenografo: MARCHIORO colla collaborazione di MAGNONI Primo Violino di spalla: Giro MNastrucci Primo dei secondi Violini: Odoardo Peretti Prima Viola: Koch Primo Violoncello: Valisi - Primo Contrabbasso: Zfalo Caimi Primo Flauto; Tassinari Ottavino: ATrevisan Primo Oboe: Trapani Corno Inglese: Ghignatti - Primo Clarinetto: Cancellieri Clarone: Capredoni - Primo Fagotto: Mazzini Paltrinieri Sarrussofono: Giuseppe Regarbagnati - Primo Corno: Michele Allegri Prima Tromba: Edriondo Botti Primo Trombone; UVsberto Montanari Basso Tuba: Saverio Scorza - Prima Arpa: Giuseppina Sormani Organo e Pianoforte: Antonino Votto - Celesta: Eduardo Fornarini Xilofono, Sistro e Batteria: Augusto Bergami Gran Cassa e Piatti: Arancesco Veronesi Timpani: Barilli ispettori del Palcoscenico: Duma e Cellini Vice ispettore: Rocchi Direttori del macchinario: Giovanni e Pericle Ansaldo Costumi della Sartoria Teatrale Chiappa Attrezzi della Ditta Aancazi et C. di Sormani Tragella et C. Gioielleria della Ditta Angelo Corbella Parrucchieri: Biffi e Sartorio Piume e Fiori della Ditta Virginia Ranzini Istrumenti musicali della Ditta Strumenti Musicali Bottali La è fa 9.41 TNT Hi PI n RARI T IR d wa È Lal AVALETCAUIT ATE PAIA RO i. È un campo situato (per chi va da Roma ad Albano) lungo il lato destro dell'Appia, alla sesta pietra milliaria. La via segue una linea obliqua fra questo e gli altri campi che si estendono dall’altro lato. La notte è nuvolosa. La luna pènetra a stento le dense nubi che la nascondono. Sull’Appia e sulle sue tombe l’oscurità è appena diradata da un barlume cinereo che non projetta ombre ; il campo nereggia più cupo. Sul lato destro della via, dalla parte di Roma, s’innalza un grande sepolcro che si prolunga nell’erba; gli si allinea d’accanto, progredendo verso Albano, una tomba recente su cui sta per estinguersi una lampa funeraria. Tra questa tomba e il milliario lo spazio è libero; poi segue una pietra sepolcrale quadrata e, poco discosto da questa, un vasto tumulo erboso che porta sul suo vertice le vestigia d’un’ara. Altre tombe si schierano sulla fronte sinistra della via. Molti rottami d’antichi monumenti sono sparsi intorno al grande sepolcro ed ingombrano anche il breve spa- zio che lo divide dalla tomba recente. Fra questi ruderi un uomo, nelle tenebre, sta scavando una fossa. È Simon Mago. Sul margine della via un altro uomo guarda, immobile come in vedetta, nella direzione d’Albano ; egli porta il cappuccio della lacerna sul capo. È Tigellino. La notte è piena di canti che giungono dalla vasta campagna, dalle lontananze dell'Appia; frammenti di canzoni portati dal vento, dispersi dal vento.VOCI LONTANE E SULLA VIA Canto d’amore Vola col vento, a SIMON MAGO Torna col vento... i? E lui: Passa un viandante che va verso Roma TIGELLINO con una bisaccia a spalle ed un bastone.No. LA GUARDIA DEGL’ACQUEDOTTI SIMON MAGO lontanissima Forse lo atterrì quel grido. Terza vigilia...TIGELLINO Odilo ancor, là... verso via Latina. SIMON MAGO Pur ch’ei non l’oda! TIGELLINO È profonda la fossa? | SIMON MAGO Profonda. Ma dalla parte d’Albano s'è udito un urlo di spavento: Tigellino sbalza sul- la via e incontra Nerone fuggente, ravvolto in una toga funebre e che porta un'urna cineraria fra le braccia. TIGELLINO ‘ accorrendo al grido Mio Signor N. ansando di terrore ed accennando dietro di sè: L'Enanidzlatt. TIGELLINO dopo aver osservato È il tuo delirio. N. No. La vidi...surse. Cinta di serpi... squassava una face... Poi la ingojò la terra. TIGELLINO lo sorregge, lo fa sedere sulla pietra sepolcrale che sta fra il milliario ed il tumulo. Qui ti posa. TIGELLINO Dove lasciasti il corteggio? N. A Boville. VOCE FERALE NEL LONTANO N.-Oreste il matricida Ancor più nel lontano risuona il canto di "prima : Canto d’amore Vola col vento, Torna col vento. Ricominciano le canzoni della notte. Volano per l’aria le parole d’una stro- fa amatoria di Petronio Dolce ridente Lalage. Giunge sull’Appia da Roma un’allegra comitiva al lume d’una torcia. Vanno a passo vivo verso Albano. Risuona una voce con questo epigramma Citarizzando scorda l'Impero... TIGELLINO sottovoce, come parlando Balza il vento e ne porta le canzoni Or dai monti, or dall’Urbe. N. trasalendo ed alzandosi Ancor quel grido! TIGELLINO È la canzon d’un ebbro; porgi. Fa per prendere l’urna che N. stringe fra le braccia. N. No. lo l’urna porterò sino alla méta. N. entra nel campo coll’urna fra le braccia. Tigellino al suo fianco lo guiderà fra le tenebre, lentamente. Giunti alla fossa si arrestano. N. Simon. Mago dov'è? Nerone depone l’urna sul suolo, presso la fossa. SIMON MAGO che non s’è mosso dal campo Qui supplicante I Mani d’Agrippina. VOCI LONTANE trasfondeva col bacio il iabro al [labro... l’anima errante progenie nova dal ciel... . ave, anima. Una voce lugubre si sparge nella not- te; s'odono queste parole: Voce dall'Oriente! Voce dall’Occidente! seguite dal popolarissimo verso d’una atellana: Torna Onesimo dai campi... e dal grido ferale: N.-Oreste il matricida N. subitamente, atterrito AN! tu mi salva! Lava il mio matricidio! Orrenda vita Vivo, pe’ gioghi di Campania in fuga, Meco traendo il delirio, le Eumenidi Flagellatrici e lo spettro materno! SIMON MAGO Dagli insepolti corpi emanan larve. Pronta è l’inferie. TIGELLINO Finchè il rito dura, Vigilerò. i Poi s’avvicina a Simon Mago e con accento concitato, staccandolo da Nerone, sommessamente gli dice : Spingilo a Roma, incìta L’audacia in lui; s’ei teme siam perduti. Ritorna sulla via Appia e s’apposta presso la colonna milliaria. N. prono sulla fossa ed immobile, incomincia come chi proferisce parole preparate con arte: Queste ad un lido fatal insepolte ceneri tolsi, Qui le trassi dove stende Roma sue tombe; Sacro sempre fu ridonare agli estinti la patria. S’inginocchia. Ecco, mi prostro, m’atterro, m’accuso. Se dei defunti lo spirto penètri Nell’alme nostre, il mio contempla, madre, Interno orror. quasi senza suono, inorridito e coprendosi il volto colle mani lo son l’ultimo vivo Di tua tragica stirpe, in me il Destino Tutte aduna sue forze e le consuma. M’invade il Nume antico! È l’opra mia L’opra del Fato! ergendosi fieramente E ben dicea quel grido: Io sono Oreste! PSA 0) Ho. d, PRI SIMON MAGO E tua Tauride. N. intuendo con gioja il pensiero di Simon Mago ..è Roma! Passa una famiglia di gladiatori; la precede il lanista, riconoscibile alla lunga ferula che impugna; gli sta a fianco uno schiavo con una lanterna. TIGELLINO Vanno silenziosi verso Roma. dall’Appia, sommessamente ma energico Zitti! Vien gente. sottovoce, ma concitato Presto. N. a Simon Mago, con ansia T'affretta. Si sotterri l’urna. SIMON MAGO A te. N. esita ad afferrare l’urna. Paventi? N. No. SIMON MAGO Presto. N. angoscioso M’ajuta. Simon Mago lo ajuta a calar l’ urna nella fossa. grescreazbiapiz indenni DO SIMON MAGO N. Più profondo. Più profondo ancora. Simon Mago comprime l’urna nella buca; poi, con la vanga la copre di terra finchè la fossa è ricolma. N. a Simon Mago È fatto? SIMON MAGO È fatto. N. Nascondi la vanga. Simon Mago va a nascondere la vanga fra i ruderi, poi ritorna, prende dal- l’acerra alcuni grani d’incenso, li spar- ge sull’ara thuraria, immerge l’aspersorio nell’idria, raccoglie da terra il velo nero, lo distende. SIMON MAGO copre la testa e il viso di N. col velo, insino al petto. Ti copra l’atro vel. N. Ajuta! Ajuta L’anima mia! SIMON MAGO tracciando con l’aspersorio dei segni arcani nell’aria Redimo te! Ti prostra. Amen rispondi. N. tutto prosteso, toccando con la fronte la terra, ripete: Amen. Dalla via Latina giungono col vento gli antichi anapesti d’Ibycos: Eros vibra da l’umide ciglia lo stral che riapre l’antica ferita d’amor. Passano sull’Appia due giovani viandanti; quello che canta poggia il braccio sulle spalle dell’aliro. Vanno verso Roma. Ancora dalla via Latina s’odono gli anapesti: ...ed io fremo siccome l’ardente corsier che ritorna alle gare del Circo. ì H ì s dI ì i i fl È I ANI IOTTZION LE SIMON MAGO Ti rialza. Lo ajuta a sollevare il capo e îl petto, malo mantiene ancora genuflesso. Spargi i libami. La luna si fa più torbîda. Simon Mago s’affretta a porgere a Nerone la tazza libatoria. N. h I E sangue? SIMON MAGO È sangue; innaffiane la fossa, E nel versar torci il volto. N. Ho paura. La luna s’è rannuvolata. Nerone piglia la tazza, ma esita a versare il sangue sulla fossa. SIMON MAGO Versa. Coraggio N. inclina la tazza, gira il capo e, attraverso il velo che lo copre, scorge dietro di sè, fra il gran sepolcro e la tomba, una figura spettrale sorta da sotterra, che innalza una face ardente ed ha il collo avviluppato da serpi come un’Erinni. A quella vista egli balza în piedi inorridito e corre a ripararsi dietro il tumulo, gettando un grido: Orror! SIMON MAGO (NANO Dopo un attimo di sorpresa va a prosternarsi ai piedi dell'apparizione. TIGELLINO che ha udito le grida, vede quella sembianza d’Erinni ed esclama: D’onde uscì ? UN VIANDANTE Qual grido? UN ALTRO VIANDANTE Olà! chi grida? TIG ELLINO Via di qua! IL PRIMO VIANDANTE Chi è costui ? IL SECONDO VIANDANTE Chi è costui? IL PRIMO VIANDANTE È Tigellino. N. come attratto da un fascino verso quella figura ferale che lo guarda: A sè m'attira. TIGELLINO afferra Nerone al braccio sinistro e lo sforza a seguirlo al di là del tumulo. Vieni Il velo, che copre il capo di N., cade. Appena il volto di N.. si scopre, L’ ERINNI drizza il braccio verso di lui e con un grido irruente lo nomina: N. N. fugge con Tigellino dalla parte di Albano. L’Erinni fa un passo per inseguirlo, ma il corpo di Simon Mago, prosternatole davanti fra le tombe e î ruderi, le preclude ogni via ed essa rimane come im- pietrita, col braccio teso, atrocemente pallida e cogli occhi sbarrati e fissi sul tuinulo da dove è scomparso N.. La campagna è ancora immersa nelle tenebre; solo la face dell’Erinni sparge un circuito di luce. SIMON MAGO sempre genuflesso, a capo chino, osserva celatamente, girando in basso gli sguardi, se il campo e la via sono rimasti deserti; accerta-tosene, si rialza, afferra ai braccio quella figura atteggiata a stupore catalettico e le dice, calmo: Sei colta. ARA fo L’ ERINNI (ASTERIA) senza scuotersi, con voce incolore, come irasognata Chi ama la morte Toccar mi può. SIMON MAGO abbandonando il braccio d’Asteria, ma badando sempre ad impedirle la via Non sperar ch’io paventi. L’idre al tuo collo attorte O son morte o morenti. ASTERIA appoggia la face al sepolcro, appressa le mani al suo collare di serpi e con gesto lento di minaccia risponde: Sperder potrei la malìa che le assonna E avventartele. Simon Mago prende la face e la solleva per rischiarare la persona d’Asteria. Asteria veste una specie di kalasiris egizia, a tinte fosche; ha le braccia nude, i capelli nerissimi sparsi in molte trecce sottiti SIMON MAGO Donna Strana ed audace, avernalmente bella, Tu sembri al raggio di questa facella Medusa, Ecate, Sfinge, Fumenide o dimòne. Chi sei? Chi cerchi? Qual forza ti spinge ? Perchè insegui N.? ASTERIA È il mio Nume e lo adoro! A notte cupa, Quando negli antri del funereo suolo Vagolo al pari di piagata lupa Ululando il mio duolo, lo lo invoco! Egli è l'Angelo crudel Che popola di spettri le tenèbre, Che scuote sulle plebi infami ed ebre Il sublime flagel. il mio Nume e lo adoro. Sotto un vel ora apparve a me davante. Poi sparve là. Con un impulso subitaneo si slancia sulle tracce di Nerone, ma SIMON MAGO trattenendola a forza, l’arresta di colpo. Ferma! o il tuo Dio ti sfugge. ASTERIA dibattendosi dolorosamente fra le mani di Simon Mago Vo’ seguirlo.... pietà! L’orror m’attira Come un amante.... e nell’estasi vivo De’ violenti sogni.... ebbra di pianto. E son dell’idre incanto E il colùbro m’allaccia e il sen mi cinge E il petto mi rinserra E stringe.... e lambe.... bduerra.ra E nell’amplesso della viva spira Sento ancora quel Dio che mi martira SIMON MAGO Dove ancor lo scontrasti? ASTERIA Sulle rive D’Anxur, tre notti son. SIMON MAGO Ed ei nel viso [ha&scorta”? ASTERIA Oh! come mi guardava fiso ! Ma il suo corsier impaurito il trasse Lontan, fuggendo, al lume della luna. Rimane ancora un poco assorta in ciò che descrisse. Ma tu chi sei che dell’anime lasse Tenti il facil segreto e il facil pianto? SIMON MAGO Son tal che rialzar può il volo infranto Del sogno tuo. ASTERIA Tu SIMON MAGO Sì. Nessun mai sappia Chi sei, nè ciò ch'io dissi. ASTERIA Mai. SIMON MAGO raccoglie l’acerra. S’ asconda Quest’ acerra. ASTERIA indica a Simon Mago il posto da dov’essa è apparsa: Qui. SIMON MAGO Dove? Asteria prende la face e conduce Simon Mago fra le due tombe ove i rottami nascondono un forame del suolo da cui si discende in una cripta. ASTERIA Qui, sotterra, E un antro oscuro d’ avelli cristiani Che si riapre dietro a quei delùbri. Dicendo queste ultime parole accenna ad una località oltre il tumulo, verso Albano. Simon Mago depone l’acerra presso l'apertura della cripta, poi va a raccogliere l’ara thuraria, il velo nero e l’idria in cui pone la tazza c l’aspersorio e ritorna là ove discende; lascia cadere gli oggetti nel forame della cripta, salvo l’acerra e il velo. SIMON MAGO Dammi la face. Asteria porge la face a Simon Mago che sta per discendere nel sot- terraneo. SIMON MAGO Qui sarai domani Col sol morente. Scende due gradini e s’arresta. Ascondi quei colùbri. Così dicendo porge il velo nero ad Asteria che lo prende e lo bacia e se ne avvolge il collo e il petto. Simon Mago, coll'acerra e la face, è sceso nella cripta fino alla cintola. S’arresta ancora una volta per dire ad Asteria: Ma pensa al fato che invochi su te. Bada! il tuo Nume ha carezze omicide. ASTERIA. Amor che non uccide Amor non è! E s’abbandona sulla tomba che le sta dietro; quivi, giacente, rimane. Simon Mago scende tre gradini della ‘cripta con la face in pugno e scompare sotterra. Incominciano a diffondersi le prime trasparenze dell’alba. Il cielo si rasserena. La profonda quiete dell’ora s’estende su tutta la campagna romana. Una donna in bianca stola, Rubria, viene dalla parte di Roma, s’arre- sta davanti alla tomba recente, estrae un’ampolla e la vuota nella lampa funeraria; il lumignolo si ravviva e riarde. La donna s’inginocchia, inclina il capo sulla tomba, congiunge le mani e, nell’alto \ silenzio che la circonda, prega così: RUBRIA Padre nostro che sei ne’ cieli, sia Benedetto il tuo nome. Venga il tuo Regno alla tua gente pia, Sia fatto il tuo voler in terra, come Nell’ Empiro immortale. li nostro pane cotidian ne dona, Come noi perdoniam tu ne perdona. Fa ch'io riveda quel che m’abbandona. Liberaci dal male. ASTERIA che giace sulla stessa tomba dove l’altra ha pregato, con voce fievole come un sospiro O soave preghiera! RUBRIA si alza, guarda dalla parte d’onde viene il sospiro e dice: Anima che sospiri, sorgi e spera. ASTERIA lentamente sorgendo O divine parole! RUBRIA appressandosi ad Asteria colle mani sporte e offrendole fiori Spargiam insiem le rose e le viole Sulla terra dei Santi. mani ZO SIT ASTERIA Il dono pio Porgi. E prende, con movenze estatiche da sogno, i fiori e ne cosparge la tontba, insieme a Rubria, e le zolle d’intorno; ma, giunta all’ultimo fiore, esita, s’arresta, lotta un istante contro un impulso interno, poi dice: No.... no.... stuggir devo gl'incanti Del tuo pregar. Io cerco un altro Iddio ! E fugge impetuosamente verso Albano. Rubria ritorna davanti alla tomba a pregare. Un viandante, Fanuèl, passa sull’Appia, d’accosto a Rubria, la vede, s’arresta, la guarda assorta nella sua preghiera. RUBRIA solleva il capo, volge il viso, lo vede e lo nomina: ‘ Fanuél! FANUÈEL Non t’alzar. Il nostro addio Sia questa prece che sale al Signore Fra i bagliori dell’alba. Rubria ricomincia a pregare con intenso fervore. Fanuèl continua a guardarla fissamente. RUBRIA levando gli occhi pieni di lagrime al cielo In te sperai! FANUEL con voce commossa Piangi ? Perchè ? RUBRIA Ho un peccato nel core. FANUEL Lust? RUBRIA Fanuèl. Non ti vedrem, più? mai? FANUÈL Seguo mia stella verso ignoti porti. guardandola fiso negli occhi Confessa il tuo peccato. RUBRIA Perdonar mi saprai se tutta dico La mia colpa? Mentre Funuèl sta per rispondere, s’avvede che l'apertura del sot- terraneo si rischiara e che un uomo, con una face in mano, viene salendo lentamente dalla cripta. FANUÈL sottovoce, a Rubria, indicando il posto Un agguato! V’è un uom fra i nostri morti. Fa qualche passo nel campo per ravvisario. (E Simon di Sebàste. RUBRIA tutta sgomenta e a bassa voce Il gran Nemico! FANUÈL Corri dai nostri, va, narra gli avelli Spiati. x RUBRIA guardandolo con ansia btu ‘ FANUEL Poichè un periglio incombe lo resto coi fratelli.) Rubria si vela il viso e s’avvia rapidamente dalla parte di Roma. La luce, mite ancora e senza raggi, a grado a grado discopre le cose remote, gli edifici sparsi qua e là nel fondo della campagna, gli archi del doppio acquedotto dell’aqua tepula e Marcia, qualche fastigio dei monumenti sepolcrali della via Latina. Molto lontano, forse dall’ottavo milliario, s’odono squillare, nel puro silenzio dell’alba, alcuni appelli di trombe. Simon Mago, senza accorgersi d’essere osservato, s'è messo in ascolto, si dirige verso il tumulo, lo sale insino alla cima e guarda attenta- mente dal lato donde giungono gli squilli. FANUÈL che ha seguîto collo sguardo ogni passo di Simon Mago, s’inoltra nel campo e lo chiama: Simon. SIMON MAGO dal tumulo, volgendosi Tu! Qui?! Gloria al tuo Dio dall’ alto Di queste tombe! Vieni e vedi. Fanuèl. esita sorpreso, poi sale anch’ esso sul tumulo ov’ è Simon Mago. Le trombe continuano a squillare. SIMON MAGO S' avanza una gran nube Di turbe. Echeggian trionfali tube. È il matricida, ei vien col suo corteo D' istrioni e d’ Eumenidi all’ assalto Del mondo reo, Poi, con un gesto largo che abbraccia tutto l’orizzonte : Pensa: i Reami, i popoli, le. Glorie, Le corone, gli scettri, le Vittorie, Tutti i raggi di Roma e di Nerone Non son che luci moribonde e torbe D’ innanzi al sogno mio, d’innanzi a te: Sui sette colli un Tempio (o Visione !), Un Tempio eterno che soggioghi l Orbe, MinESSO l’altare ‘tu, Profeta. e’ Re. . Tutto l'incenso che 1’ etere assorbe Vapora, immensa nuvola, al tuo piè! Guarda quaggiù. Pel sangue che l’inonda L’arca d’oro di Cesare sprofonda, Furibonda ruìna e precipizio. Plebi nefande confuse nel vizio Plaudono a Roma che canta e che crolla. Tremano tutti: Cesare, la folla, Le coorti. Fischiò dagli angiporti Già il greculo rubel. Cadono i morti Nel Circo e cadon nel triclinio i vivi E i Numi in ciel! Ma tu su quei captivi Del fango e della porpora distendi Le tue mani, la tua virtù mi vendi; Due Sovraumani vedrà il mondo allor! Vendi il miracolo, t’ offro dell’ or. FANUÈL scende dal tumulo e terribilmente esclama: Anàtema .su te! Maledizione! L’oro tuo piombi teco in perdizione! saran to” di è ide SIMON MAGO L’ira tua scagli invan contro il mio scherno, Povero nunziator d’ un Regno eterno Senz’ oro e senza eserciti. FANUÈL La condanna orrenda e forte Or su te confermi il ciel: colla massima veemenza lo t'estirpo da Israel! SIMON MAGO Fra noi due c’è guerra a morte! Si sfidano collo sguardo come due fieri nemici prendendo due vie opposte. Fanuèl ritorna sull’Appia e se ne va verso Roma. Simon Mago scende dal tumulo e s’allontana dalla parte di Albano. N. e Tigellino ritornano ‘da un sentiero dei campi e s’arrestano al tumulo. La toga di Nerone, tutta scomposta, lascia vedere una mi- rabile tunica oloserica tinta di porpora jacintina e sparsa di palme d’oro. N. porta al braccio sinistro un’armilla di pelle di serpe chiusa da una borchia di gemme. Ha, come Tigellino, un focale di seta annodato intorno al collo, sul petto una collana d’ambra mista a molti amuleti: dalla cintola gli pende un largo smeraldo ovale attac- i cato ad una catenella di perle. N. Nessun ci segue? TIGELLINO osserva il sentiero donde sono venuti. No. Sosta il corteo Lungo i campi di Persio. N. guarda paurosamente il sepolcro dove sorgeva Asteria. TIGELLINO Ebbene ? Sparve. N. sempre cogli occhi rivolti al sepolcro, cupamente S’ergea fra Roma e me! TIGELLINO Andiam. Che guardi ? A. Oli ren N. volge gli sguardi inquieti sul posto dove ha sotterrato l’urna ed È esclama atterrito: Si scorge il labbro della fossa! Tigellino va a calpestare quelle zolle per disperdere le tracce del seppellimento. Nerone lo ha seguìto. S'odono dalla parte di Roma dei clamori lontani. TIGELLINO prendendo per mano Nerone Andiamo. N. staccandosi da Tigellino e con grande agitazione TIGELLINO Fuggir? Dove? N. Non so. Dove migra il cantor trova una patria E sola gloria è 1° Arte! TIGELLINO E di che temi? Crede il Senato al tuo messaggio, crede Colta Agrippina ordendo la tua morte, Poi da sè stessa uccisa. N. Alla menzogna Fingon dar fede. TIGELLINO E lor viltà ti giova. N. Se rivarco le mura a chi mi volgo? Al Senato? alla plebe? TIGELLINO che da qualche istante porge l'orecchio alle grida che s’avvicinano, corre sul tumulo, guarda verso Roma e risponde: E luna e l’altro Per te dall’ Urbe accorrono. N. atterrito e con sùbita ira Qual folgore Sparse a Roma il clamor del mio [ritorno? TIGELLINO arditamente dal tumulo lo. N. con maggior ira e minaccia Tu, ribaldo? Violenza porti Sui dubbii miei? TIGELLINO Si. Per salvarti. Mira! Si slega dal collo îl focale di seta rossa e, mentre l’agita nell’aria, soggiunge: A questo cenno il corteo s’ incammina. Mentre Tigellino sventola ancora îl focale, s’ode squillare non lontano una chiamata di bùccine come per un esercito in marcia. Dalla via di Roma i clamori aumentano. TIGELLINO scendendo dal tumulo Ecco i corrieri Mauritani. Mira! N. Da ogni parte m’assalgono! TIGELLINO T'appressa. VOCI INDISTINTE che si appressano da sinistra Ei s’appressa, esso è là, s'ode il [clamor, ALTRE VOCI Ecco i Numidici corsieri.. Gioja! Il Popolo irrompe in scena, restando pur sempre sull’Appia e correndo verso Albano. ALTRE ANCORA Ei viene! ei viene! egli è là! egli [è salvo! Corri! s'ode il clamor! ei viene! è là! Tre Precursori Mori, a cavallo, passano di galoppo sull’ Appia, risplendenti . d’armille e di falère. Ser IOGE N. invaso da terrore si rannicchia fra il gran sepolcro e i ruderi. Chi mi scorge m’uccide. TIGELLINO avvicinandosi a N erone Ecco le schiere. con grande concitazione Se indugi sei perduto. N. rimanendo nascosto fra le tombe Ah! dove fuggirò? Chi mi nasconde? Tigellino abbassa il cappuccio della lacerna sugli occhi e s’avvicina alla via, ripartendo la sua vigilanza ora sul corteo, ora su N. POPOLO È salvo! Gioja!mALTRE VOCI Corri! Corri! Ei vien! PRETORIANI Largo, la via sgombrate POPOLO Avanti, olà! ALTRI Corri! là! Corri! là! Vengono gli Eneatori colle loro squillanti bùccine di bronzo. AUGUSTANI Udite! Udite! Segue un vasto carro tratto da cavalli, pomposamente ornato, dove stanno ag- gruppate, gittando fiori e cantando, le Ambubaje cinte il capo di mitre siriache. Le fanciulle Gaditane seguono la teoria del corteo danzando e gettando fiori. Portano incensieri, cetre e lire. AMBUBAJE Apollo torna. Nubi di fior volino ai zeffiri, |’ lri [baleni nell’ etere. Apollo torna, e con esso Tutto un esercito in danza. Il corteo s’arresta fra fluttuazioni cou- trarie. POPOLO Avanti! Avanti, olà! Apollo torna. Avanti! GOBRIAS Torna Onesimo dai campi. POPOLO Largo alle schiere, largo! Gioja! Gioja! TIGELLINO L’exaforo s’appressa, ivi ti crede Il popolo clamante. Odi le grida, scuotiti. PRETORIANI Largo! Largo! Sgombrate ! Si ristabilisce l’ordine di marcia del corteo. AMBUBAJE AI colle! al collel AI colle! La marcia nuovamente impedita s’arresta. POPOLO Fermi, olà! ALTRI Avanti! Avanti! VOCI DIVERSE Largo Largo al corteo ! Olà! L’amazzone Greca s'avanza. Largo agli Augustani! Giunge l’exaforo. La via sgombrate! ll corteo si rimette în marcia. Preceduto dalle fanciulle Gaditane, passa un gruppo di Phalangarii. Poriano sulle spalle un fèrcolo su cui si innalza una statua di rame, rappresentante una Amazzone. TUTTI Apollo GOBRIAS L’orco già da’ piè mi tira. Le fila del corteo si spezzano ancora. PLEBE Eilwieny E giunto là! Avanti! Gioja! nia e N. Mi lascia. TIGELLINO L’eneator t'annuncia. N. Ecco, rinasco Libero e forte. Andiam! DOSITÈO É là! B là! S’appressa! Fendiam la calca! Ei vien! GOBRIAS Fi torna, è salvo il Dio del Circo! PLEBE È 1a! È salvo il Dio dell’Odeo! Qui si ristabilisce ancora una volta l’ordine di marcia del corieo. Passa una turba confusa d’ Armeni, d’Etiodi, d’Indiani, di Greci, d’Egiziani. Passa- no alcune schiere di soldati ausiliarii coi braconi alla barbara e passano dei Rheti e dei Galli. GOBRIAS Roscio risorto Novello Turpione! DOSITÈO Tu snidi il Nilo, fendi l’Istmo, instauri La terra e il mar. GOBRIAS Trionfator d’ Armenia! POPOLO Trionfator Eccelso Bello Forte Silenzio! È sacro il coro. Passano Ambubaje e Augustani. AMBUBAJE E AUGUSTANI Ave, Nerone, voce di Ciel, Beata Roma che t’ode! Canta, Apollo, Canta l’ode d’amor non prima udita [dal mondo! TUTTI Ave, N.! Canta lode d’amor! TIGELLINO Corri al trionfo! Affàcciati alla plebe! N. Ascolta. TIGELLINO Or su. N. fa per avviarsi ardito verso l’Appia, s’accorge di passare sulle zolle dov'è sepolta l’urna e indietreggia. Ah! dove passo TIGELLINO Corri dritto alla mèta. N. Cantano i versi miei. Passano tre decurie di Guardie Germaniche.Fra le file dei soldati circolano parecchie Ambubaje 0 camminano appajate ai soldati giojosamente. Frattanto si avanza un carro, tirato a mano da quattro schiavi, dove sono accatastati degli attrezzi teatrali. Dietro al carro e d’intorno camminano gli i Artisti Dionisiaci che indossano le loro vesti teatrali. DIONISIACI L’ebra Mimàllone già diè fiato alla [Bacchica tromba, Doma un giogo di fior la lince, le [Mènadi ardenti Evion gridano ed Evion Peco [remota ripete. TUTH Evion! Evion! Evion! Evion! Entra l’exaforo che s’avanza lentamente. I littori che lo precedono, coi fasci laureati, respingono la folla. L’exaforo è portato da sei schiavi Etiopi, una corona di giovinetti asiatici lo circonda e una torma di Pretoriani a cavallo lo segue. AUGUSTANI E DIONISIACI Ave, N., tua lieta stella splende. TIGELLINO spinge N. verso la folla plaudente, poi corre sull’Appia e comanda ai littori: V’arrestate. VOCI Chi è là? CATE BELEN e) ANTI GOBRIAS Apri il velario.ALCUNE VOCI Chi è là? ALTRE VOCI Apri il velario. ALTRE ANCORA È Tigellino. LO SCHIAVO AMMONITORE Fortuna a tergo! N. în tunica di jacinto e d’oro irradiato dai primi raggi del sole No! Fortuna in fronte ! Un grido di gioja irrompe dalla folla. TUTTI Evion! Evion! Ah! Gioja! Gioja! Almo Sol! Alma Roma! Ave, N.! i giovinetti Asiatici schiudono le cortine della lettiga, mentre d’intorno a N. piovono fiori e nastri e fronde di palma e ghirlande, fra le grida e gli squilli del trionfo. Tutta la scena è irradiata dal sole. REA REATO VIRA IRIDATA PEIZI TI DIE III DI IAT VET DOTI III IDA LT ANIRI DRE IRR SNNTI RIIATI o BIT ELI MED PRI ITLAI EN EDITE TEA TIRIZETI AI AT MIO DLE MITI INTEL DINT TTI ANTI TAL on: tre n ct I AT i PUT e i 1 dr ale ì } # 4 4 x È Metz 1 A TT) 4 # à Meri LE: a =» iL i IR ii Si Mie f i rr 1 i ZA i è I i, Pal p # Ti \ G / 7 La : PR” 4 Tr 9 PORGILOR i fi È y "I i È i \ L'A Ma LA Mc ter DAS 4 DI în Las a sani 1 LA: ai ea RARA 4 Pi i | ta ’ La È { 9 a } E) i ì » = ERO hd ‘ LEGIONE i un v î : i P ; i ue veti al METIS PORTEREMO ORE GIORIO RO TORO E O, mV» Pag ì È e PI ba ‘ I bia”, F Papi A vr. meri Ce 4 A Ù ui di E ll ; dirà a È ; veli 4 k RL Fo A Het. #3) IT è VO, DA i va i | PESSOA VT LA i Me TI ant i A | è el b<) - ; a” YA ada Pi,, î # = . ue. ; i PI 4 bi} TA ee Dart: AR e i; i : i POT Si . Ca I Ci i Cva PR Dia, e x : I c ci phi ì ù Ba Pi % i (0 hi 59 ‘9 4 Mr, i MRI né: ME n vt di: ì Ù PI pad Pa LE Ù I Ti h ì Cp I AP OI Uri e SR (ia i PRON È n *A#C ‘ cia NIIA tia UA E 3 À i Mt Da ° N pio 14' TC + ’ di Dr4 al a; e dti Da f Di mat ; | SERVO LE AR AM e hg IAT Pia y ra #74 RI : n) î ( i j INT di hi ; ; | È ; sd AAT Pan asa Det TA IR USE Me dea PI i PO 4 x nà OI TIRO RT ETERO VA OE RTOTATO RO 18-00 i ì POINT i e fi A » 24 é ] LE i î - i ' U s [ A e \ i P È i 4 pay: Ù ;, dA me vi us d abi rn a Lé, EN q di A NOM Ds er: PR el Lia ni Must e LI Ù ì 1° Ni x CAT ì Vi Li Ti : i, ri ri Ù Ì ì N ) x L) Ve, \ TREIA ì 4 ì È Î t] F) % VIQUOE MI; a î Fi ju : ) 0 i) 1} il VESTE PI } (N ” ì ;Î u) P) \l ) i i bei È, ? TARA, i Gi i | i 4 e’» "A Eri aa ei Fa: i I TORO OOO è DI A CA ix eu 7g de te PNRA, D MENTA: 2. LI Pe, OA \ RI j at [on, ; là Pai ar RE ; sla; LE NUORA Ei ] a, MAS su PARA 2 1° ti A va RAI AK Dpr) Li {VI SI BRIT ATTI ABELE LE SAC NENTTALI I TIVI GI BPIREA TATA TIA ILE VE IDZ ANIA POI E III IE PERE SOTTO PDT E PATATE ALI LE BI 17 INC MERITA DL VITARA FIA TIAL IATA MANI ATOIO DE IABISIETMA MIE MRI NIC DOO II VR TAIRIDI EI VETTO ZITTI PODICTI ESTATE PREIS IC IAA ALSEZIONE CPI VT VALE Gio) | PI i ESITA TL II RATA, OLA DARNE CARINZIA TAV] TRISEA NT PRI D arde IERLELIEVI SRI RIITTOTINE AMRITA TA ; sea? ° di VT N}, ì, È | A “i Ì “n e db ANI \ PG K SI d ra Ce Beta» i ia Ì : NA ri f, \ Ù parta Ùi SAVE, "a a L a a COVE ON TT Y PR = MANI Sa date ae ka | p' Ln è ) % di Pd Ul VA i Tee conse E) arr un È Mirri, erre Dan E $$ de alt Il bat” è i vas: i fai Rea PETE condi d; tI VP Ù ci SESIZ: Dre rana “ o repo nes ton oe erirzomee ERA <A Mirra 7 d SARI CIRIE PI DAPIIA PEN ERI IENA EIBTATE DATRONEI ILVTI SVSTE GITE DELITTI RITI: sviene ETTER SPINTE AREACIRI EL BIEIIVTICA VARI vi È nica È un tempio sotterraneo; visto nel senso longitudinale appare diviso in due parti. Un'ampia cortina, tesa fra due pilastri addossati alle spalle d’un arco trasversale, separa il sacrario, riservato ai sacerdoti ed ai loro misteri, dalla ce//a ove pregano i fedeli. La cella è affollata da gente d’ogni classe e d’ogni paese: Matrone adorne di ric- chissime vesti, portanti in capo una preziosa ?24%24/ od altre acconciature sfarzose; schiavi in rozza tunica, e, fra questi, alcuni colla fronte segnata dallo stigma dei fuggitivarii; qualche liberto in pomposa lacerna dissimula, sotto dei nèi artificiali, gli sfregi del volto; eleganti cavalieri ed aurighi d’ogni fazione. Di fianco all’ ingresso un mercante d’idoli ed un venditore di tavole votive spacciano la loro merce. Un tempiere sta presso al vassojo delle offerte. DITE DNTAZI EVA MIR TE DONIZETTI EA TOI IA ano D’un tratto la cortina si spalanca e si scopre agli occhi dei fedeli il sacrario. Tutti coloro che stanno nella cella s'inginocchiano. Simon Mago, in manto e tiara d’argento, col petto scintillante di gemme, sta sulla gradinata dell’altare e fra le mani, coperte d’un drappo prezioso, tiene alto levato un calice d’oro. Un raggio fulgidissimo scende dalla volta del tempio e illumina tutta la persona del Taumaturgo. Due sacerdoti situati più basso sostengono, sotto il calice, un bacino d’oro. Altri otto sacerdoti sono scaglionati sugli altri gradini fra le statue policrome, e la loro immobilità è tale che si confondono con queste. Quattro fiabelliferi ergono dietro il Mago i loro flabelli di piume bianche; due 4ierodulîi reggono, colle braccia alzate al disopra del capo, due urne d’oro da cui vaporano degli aromati fumanti. Un altro innalza un vaso di bronzo su cui arde una fiammella turchina, un altro tiene aperto davanti al petto un dittico dove sono tracciati dei simboli. Ai piedi della gradinata stanno schierati alcuni giovanetti con delle grandi arpe e delle cetre e dei sistri. Presso i pilastri dell'arco sono appostati due tempieri, e nel centro dell’arcata Gobrias. (giovane discepolo di Simon Mago) e Dositèo, vecchio sacerdote, stanno rivolti verso la folla. Nella cella i devoti guardano, in atto d’ansiosa aspettazione, il calice raggiante. D’un tratto un largo fiotto di sangue trabocca spumeggiando dal calice e cade nel bacino sottoposto. Nello stesso momento sorge dal braciere ardente una densa colonna di fumo che invade il sacrario e nasconde Simon Mago alla vista dei credenti. La cortina si chiude; Dositèo e Gobrias sono rimasti al di là della cortina, sul limitare della cella. SIINO ZARA SENTE DITTE AI SPIRI TREIA FIIOZIIUSAI DIRPTI SAOIITT RI ERENIITIA È ielialieo e en i PARTA IATA FINTA AADHRED ERO GMAT IMITA TOMICA VENTI LITI ZIZAIE DAL LEDA NI LATERIZI PE TARGA ZE RAISI ALITO ANA A TMNTRS IA A PIVA CELIO DRITTO TETI PIT AA ID LS ae 17 PrO {EDILI IDRICA IEEE I SORIA II TIA DITA terreni: 0 IRR DIGO IE III NILE DD DS TRE T TTI IRPI MATRICE NCAA LA! SIATE ITS AA TRLAEE EMILIA (NEL SACRARIO) SIMON MAGO a Gobrias, mentre î fedeli continuano a cantare il loro salmo. Odi il fedel gregge mugghiar L’incomprensibil càbbala al ciel. GOBRIAS colla tazza în mano e con piglio ilare appressandosi a Sîimon Mago Vedi il festin sacro brillar! Sul lettisternio profuso è il vin! Tempra il falernio succo la neve; Voglio al divin scifo libar. Corre al desco ove coglie una tazza già piena e poi ritorna nel gruppo. Dositèo lo segue e lo imita. PFA AA ARTCRI PRITAL A, DI IALIA IICIAICI MI TA I ALZO LI I MIINTPE CLIMA ORATORI FU FRI TI ALI ALTI EMPATIA TT R IRE VAT PITRITTN AAT ZIALE LOSZAE PON TTT PAL RI SEA RA EDI TINTA I IZ IEZE DINI DI IONIO AITIIIIII VCO TATO ORICA TMT RITA TA MATTI (NELLA CELLA) | I FEDELI inginocchiati Stupor Portento GOBRIAS e DOSITÈO | È compiuto il Mister. I FEDELI alzandosi disordinatamente Miracolo Simon al ciel volò GOBRIAS i Preci ed offerte. Iltempiere girafra i fedeli con un piat- ! to per raccogliere le offerte. ALCUNI FEDELI Proùrche, Bythos, Sigeh, Logos, [ Anthropos, Zoè Noùs Ecclesia, Eccelsa Og-[doade; Gobrias entra nel sacrario seguito da Dositèo. TUTTI Noi t’adoriamo. ALCUNI FEDELI Profondo Abisso, imperscrutata [origine i Degli Enti primi e immenso mar [degli Esseri; TUTTII Noi t'adoriamo. 2a reo anti lar FIORIRE TAN LETI IONI TP INTO MATTI PATO: E DMN AT SCA TETI i FIOPETEERA SP RARI ZENO SII IERI LIDIA STASI INDIZI IE ETA TMTIRET RSI Ma pria dal vergine labro si deve un Dio propizio la prima asper- [gine con comica ipocrisia Pio sacrifizio che il suolo irrora Inclina leggermente il labro della taz- za verso terra în atto di burlesca devozione e sparge qualche poi ripiglia con Dositèo e Cerinto: occia di vino, Ma poi ch'è greve il nappo ancora, L’àugure beve dietro l’altar. Tracanna tutto il vino d’un fiato. SIMON MAGO Zitto! GOBRIAS Siam ilari, si. beva! Ribeve, DOSITÈO e CERINTO Zitto SIMON MAGO Zitto GOBRIAS S'esilari l’alma! Si beva! SIMON MAGO S'ode ancor l’inno. cortina. Gobrias è corso a spiare aitraverso la |SIMON MAGO a Gobrias Che tenti? GOBRIAS RATORI MOIS NET ZITTA TEA O Esploro, II ALTI GADGET TILT ELLA IVI su se ALCUNI FEDELI Per te preghiam, per te che gemi [e sanguini Nell’ombra eterna, agitabonda [Prunikos ALCUNI FEDELI In te speriam, in te, Divin Paràklito, Disceso in terra col celeste Pneuma. TUTTI In te speriamo. ALCUNI FEDELI In te crediam, nel tuo Mister, nel [calice Cruento che in tua man fervendo [imporpora. TUTTI In te crediamo. FAI ISIONA TA LITRI MOTI DI IEEE TI ISLA NI NITTI RIA III ER i LATI ATINTATZ TA DEDICATI VA DIL TRITATI RATES ATI APREA TIVA DCI IPER LIDIA TAL ITOT DATATI ELI ORI DIARI STORIE NETTI rrà GOBRIAS | Alcuni fedeli, nella cella, appendono ; degli ex-voto alle ginocchia dell’idolo, SME FRANE altri depongono delle monete nel piat- to delle offerte che sarà portato in giro dal tempiere. Un vecchio col capo co- perto da un palliolum che gli ripara anche le spalle, e sorretto dauno schiavo, sale sul basamento dell’idolo. Guarda! Essi appendono votive [tavole. S’ode un tintinno d’argento e d’oro. SIMON MAGO Favole attendono, vendiam lor favole. GOBRIAS Presso la statua, sul plinto sacro Del Nume un vecchio parla. I RIZZI METTI TIE IENA ATRIA TITLES NADIA PMT A SNO GILLIAM LISTINI MESIA TI SIMON MAGO IL TEMPIERE Che chiede ? | Date le offerte. rase nes Miane i SRD GOBRIAS Parla all'orecchio del simulacro. SIMON MAGO ALCUNI FEDELI Oh! quant'è fatua dell’uom la fede! Dell’effigiato Nume il bronzo o l’è- Paura e speme e il Tempio impera. [bure Per te cammina, profetizza e palpita. GOBRIAS e CERINTO Cingiam la chioma coll’eliocriso. SIMON MAGO Nostro è chi teme, nostro è chi spera. | DEI i Tutti al miracolo che li conquide Noi t'adoriamo i. Drizzano i volti, l’animo e il canto. | Pregate, stolti! Pregate! Intanto L’àugure ride dietro l’altar. SIR TRN SEG ME ASI LZ BEL DITE MAS IERER IT MERITI PMI DEI ELIAA Gobrias beve presso il lettisternio. GOBRIAS e DOSITÈO alternatamente No, senza riso non posson gli àuguri Guardarsi in viso. Gobrias tracanna, poi corre al desco e s’incorona comicamente brillo con una ghirlanda di fiori gialli. CERINTO a Gobrias Ah! Ah! AN! Bevi SIMON MAGO ALCUNI FEDELI No, no, non ber! Pazzo cervel i Noi t’adoriamo! Pronto a celiar. ! GOBRIAS Vo’ ber! Mio dritto quest'è Vo’ ber! interrompendosi CERINTO No, non déi ber! I SACERDOTI Zitto laggiù! Zitto! Lo scempio cessiam! GOBRIAS Mio dritto Quest’ è. ALCUNI FEDELI Mo MAGO i Proàrche, Bythos, Sigeh, Logos, Nel tempio ci ascoltan. I [ Anthropos, Zoè, Noùs, Ecclesia, eccelsa Og- [doade: SIMON MAGO I SACERDOTI Zitto Un gruppo di sacerdoti circonda Go- | TUTTI i brias, tentando strappargli la tazza di mano; egli colle braccia alteladifende. Noi t'adoriamo Cerinto, Simon Mago e Dositèo non | È | fanno parte del gruppo che assedia\ Il salmo nella cella è cessato; ritorna Gobrias. la calma anche nel sacrario. | AUF IESE CARS MSA IMI DS LNLOIAABRI0R SO ER (000 INTO RAZOR RIO IAS PINZA F AVA RAO E PINI A ITA TINTE TT SSN ZLATE ITA CRI To ce een eee Li e ee ene ai arri) VIII SALZA È PO i LITTA NI ALTEA SIENA! I) OZZANO INTATTI ZIA AIIEIIZZ IA LEDA TIA EEA ADONE ZIE REALTA TOA N AOL AE eg SIMON MAGO a Gobrias Non cantan più. Tu scaccia quelle genti Pria che giunga N.. Gobrias corre allegramente verso la cortina che divide la cella. A Dosîtèo Spegni le faci. Arda il sulfureo cero. A Cerinto, indicando il manto e la tiara Riponi quella spoglia. GOBRIAS sul limitare della cella, rivolto alla folla Ite, credenti, e nel varcar la soglia Inchinatevi al Genio dell’Impero. I fedeli si alzano, s’inchinano davanti la statua di N., alcuni vanno a baciare i piedi dell’idolo, altri abbassano il capo davanti la co- lonna del serpente di bronzo e tutti escono dalla porta a sinistra. Intanto Dositèo eseguisce gli ordini di Simon Mago: spegne i lumi, accende un cero che sparge una luce verdastra e lo colloca ai piedi della gradinata. SIMON MAGO a Dositèo Dositèo, Precedimi nell’antro ond’io riempio D’oracoli la cella. Sovra l’altare, iridescente stella, Scintilli il prisma. Gobrias, rimasto immobile sul plinto, corre a spiare dalla porta del fondo. Ai citaredi ed ai sistrati E voi dall’ipogeo Suscitate gli arcani echi del Tempio. Dositèo e tutti costoro escono dalla porta bassa dell’antrum. GOBRIAS accorrendo nel sacrario Giunge N. Simon Mago sale l’altare mentre Gobrias vuota un simpulum di vino. Gobrias ripone il simpulum nel recipiente del vino e sale a salti la gradinata. RI INERTI LI III TOI E RIOT DTD E TRIED DTA LINZ MIE € RATE, SID RITI SIMON MAGO Tu qua ti nascondi. Apre l’uscio segreto e indica a Gobrias il nascondiglio dietro l’altare. Se il tuon del bronzo romba Smuovi quel fulcro e tutto si sprofondi L’altar nella sua tomba. Gobrias penetra nel nascondiglio. Simon Mago chiude l’uscio segreto su Gobrias, poi ridiscende ed esce dalla porta dell’antrum. Ritorna subito dopo tenendo Asteria per mano. La porta laterale della cella si spalanca e discopre un'ala sontuosa ove si scorgono N., Tigellino, Terpnos, e dietro d’essi alcuni Pretoriani e una decuria di Guardie Germane. N. e Terpnos entrano nella cella, la cui porta subito si richiude. SIMON MAGO ad Asteria Su quell’altar tu déi salir. ASTERIA Travolta Son ne’ misteri tuoi, ti seguo e tremo. SIMON MAGO N. qui t'adorerà. Lo ascolta. ASTERIA Oh, sogno mio supremo! Oh, so- NERONE [gno mio! accompagnato sulla cetra da Terpnos, i canta: Un supplicante attende e prega SIMON MAGO Che il sacro vel per lui si schiuda. Lo ascolta! Ei già t'implora. ASTERIA Ma sull’altar perchè Tu aderger vuoi queste membra [mortali? SIMON MAGO salendo la gradinata e conducendo a forza Asteria riluttante insino all’altare Non indagar. Sali al tuo sogno! Sali! ASTERIA Pietà SIMON MAGO Sali con me! Sali con me! ASTERIA Fi m’ha nomata! SIMON MAGO sottovoce Egli la Dea ti crede Che sulla notte e sui terrori ha [ regno. Bada a te! Se ti sfugge solo un [segno Di tua mortalità, se scosti il piede Da quest’ara e dal raggio che t’indìa, Tutto crolla. PRAIA II ATEI RTRT NATIA LIE TODI LONTANE TEA III BISTLIO LEI ZZATINA TIMO TITANIO MITI N. Placata alfin Ramnusia, in terra, i Indulga; arrida Asteria in ciel. N., con un gesto appena accen- i nato, congeda Terpnos che esce tosto ‘dalla porta d’onde è entrato. N. rimane ginocchioni ad aspettare a capo chino, toccando amuleti appesi al petto e applicandoli alla fronte. ASTERIA Mi danni alla tortura ! SIMON MAGO dopo aver cercato con un gesto di far tacere Asteria, le chiude colla palma la bocca. Nell’antro ov’ io m’ascondo Tutto vedrò ed udrò. Tu, schiava mia, Ravviva in lui la speme o la paura E tuo schiavo sarà chi ha schiavo il mondo. Simon Mago scende. Asteria è rimasta sull’altare, soggiogata dalle parole di Simon Mago, appoggiata all’ara, immobile. I} î ge frenate rs È DIPANA N DIZIA IE INIT ATA R TIRI I SILE NI LIDI MEDE RATE PERITI NETTI SITAFINIDI DI UTO RATIO ATER II TO LIMO TNTIZI ATER IRITRN IR DI LITI DIRI LATITANTE TL 2 Simon Mago schiude un poco la cortina e passa nella cella. Non ri- mane altra luce che quella del cero e del braciere ardente; anche la fiamma dell’ara è spenta. SIMON MAGO a N., dopo socchiusa la cortina T'è concesso varcar l’occulta soglia. N. s’incammina, arriva sino al limite del sacrario e fa per entrare, ma Simon Mago lo arresta. SIMON MAGO affrettatamente Erri. Col destro pie’ N. s’arresta sgomento e corregge il passo, ma non varca ancora la soglia. T'inchina. N. s’inchina. Passa. N. varca la soglia. SIMON MAGO Gli sguardi abbassa. Il tetro ammanto spoglia. N., a capo chino, eseguisce tutti i comandi di Simon Mago. Simon Mago lo conduce, tenendolo per mano, davanti allo specchio magîco. La fioca luce del sacrario non arriva a illuminare Asteria. SIMON MAGO Ecco il magico specchio in cui rifrange Sua luce astrale l’infinito Abisso. Solo uno sguardo intensamente fisso Giunge a discerner la spirtal falange. Qui la vedrai, se tieni gli occhi intenti, In quel baglior di porpora e d’elettro. Poscia, indicando lo scudo appeso accanto allo specchio e la mazza di ferro, soggiunge: E se uno spettro appar che ti spaventi, Batti quel bronzo e sparirà lo spettro. Abbandona Nerone, solo, davanti allo specchio magico ed esce dalla porta dell’antrum. ZEN } Un raggio iridescente scende dalla volta del Tempio e illumina Aste- ria la cui immagine si riflette nello specchio. A N. Ah! sparisci! Atterrito impugna il maglio di ferro e sta già per colpire lo scudo, ma subito s’arresta. No No. Sei del miraglio L’illusion. i Avvicina lo smeraldo all'occhio. Ma ben ti raffiguro. Strano mister. Par specchiato sembiante. S’avvicina, con intensa curiosità, allo specchio e lo tocca; abbandona i lo smeraldo. Ah! qual pallor sul suo volto.... e sul mio! Vediam. Si volge e vede Asteria sull’altare. Ahimè ! Inorridito fugge verso l'angolo opposto a quello dello specchio e si copre gli occhi colle mani. Non m’accecar! Porta la mano destra alle labbra in segno d’adorazione e, senza osare d’alzare gli sguardi, si avvicina ai piedi della scalea e bacia il primo gradino. Tremenda Protettrice dei morti! Un giorno in Tauri Tu promettesti pace a un matricida. La stessa grazia imploro; inginocchiato su d’un ginocchio solo al par d’Oreste Io non senza cagion la madre uccisi. Dal suo spettro mi salva ! Ripiomba col volto sulla gradinata dell’altare.ASTERIA sempre immota, fissandolo, con un accento languido di sogno Sorgi e spera. N. sollevando la testa e gli occhi a poco a poco insino ad Asteria Oh! come viene a errar presso il mio core La voce tua! Al par d’un bronzo echèo Risponde il core. Sorge lentamente e, guardando Asteria, si toglie dal collo il monile di smeraldi; mentr'egli compie quest’atto, Asteria con eguale lentezza: e cogli occhi fissi su Nerone si toglie dal collo le serpi avvolte e le lascia cadere nella cista mystica che le sta d’accanto. PON ET NETTA MOVE IPO A REI RL! REATI PILATO E BILI VITTI RO ESITA EZIA NITTI TTI DAD e IN I TANARRE DETTATI ATTI AES INIT ALII STI DIRITTI TIA PALI AIRIS PIL REA ISIS I TIRA IN DIETE USE NTI DET MA NTATZI MASO METZ LETTA EI MNT REIT PATRIA N. Tu dal sen disnodi La vivente lorica, io surgo e getto L’offerta ai piedi tuoi. Getta la collana di smeraldi sul tripode dell’altare, alla portato deîla iano d’Asteria. Poi, seguendo con lo sguardo le movenze d’Asteria. prosegue: Ecco; la Dea si china. Coglie il monil e il sen s'’ingemma. Bella Fra i lividi smeraldi Scendi Scendi Sul sognator de’ prodigiosi imeni Come sciolta dal ciel cade una stella Scendi vèér me, Selène! Ecate! Asteria |! Vago Eòne lunar! Magica Iddia Dai mille nomi, scendi! Ognun di quelli Sarà un nome d’amor ! Ma immota resti, Dea degli alti silenzi, al par dell’astro D’onde tu migri nell’ore incantate. No... nel tuo cor sangue umano non pulsa Ma il freddo icore de’ Celesti. Guarda lo... rapito dal senso, amor spirante, T'imploro S'è gettato sui gradini dell’altare sempre cogli occhi fissi in Asteria e colle braccia tese verso di lei. Essa rimane immobile presso all’ara, colla testa arrovesciata; come irrigidita dall’estasi. Oh! duolo! Una Immortal tu sei ! Donna ti voglio e anelante nei fremiti Fieri del bacio! Ah! ch’io. non maledica La tua Divinità! Già il sacrilegio Portai su Vesta, allor che a forza avvinsi Rubria, vergine sacra, a pie’ dell’ara Asteria si lascia sfuggire un breve grido. Nerone s'è rialzato € prosegue: Ma delitto più nuovo e assai più forte Consumerò Si slancia, salendo tre 0 quattro gradini, per afferrare Asteria. Scoppia un fragore spaventoso come di bronzo terribilmente percosso e s'ode dalla bocca spalancata del mostro che sorge dalla pareie dell’antru, FISICI: LA VOCE DELL’ORACOLO N.-Oreste! N. Asteria ! È Nello stesso tempo s'è spento il raggio che illuminava Asteria. Il sa; crario ripiomba nell'oscurità. N. ricade come fulminato sulla gradinata. Asteria, lentament$ scende qualche gradino, s’avvicina a N., chinandosi a poco a poco, gli si rannicchia d’accosto, mezzo prostrata, mezzo seduta; î due corpi si toccano. I loro volti riverberano, fra le tenebre, la livida luce del cero e il riflesso della bragia. ASTERIA | N.. i come sognando | lentamente fra le parole di Asteria i Passa una bieca ora di febbre... un Cieca la salma nell’orror ripiomba... | [sogno... ) ? L’alma sull'alta vetta erra Tek Lo) | Sento..nell’aura cieca..in fondo i i SI [all’ebbre a le larve SA non | Parvenze il lento incubo nero. orbe....m’invade il ciel... | [Oscilla: Al par delle spiranti anime il cero.i Lungo l’altar bagliori erranti volano. LA VOCE DELL’ORACOLO N., fuggi ! N. Mugola un tetro suono entro il sacrario. L’aura s'annugola ed ulula il tuono. Ma tu il nefario orror distruggi, Asteria; Fida guardia tu se LA VOCE DELL’ORACOLO N., fuggi N. senza sgomento, ad Asteria, con lentezza estatica L’oracol grida invan su me, non temo. sorridendo sicuro Vedi, riverso giacio agonizzando Sotto i tuoi piedi... Ah! dammi il bacio... il bacio Blando... lento... che muor col sogno e bea L’alma e dissonna il senso O Amore BEI BRASIOA ZI FILI RINO RITA DIANE AZIO VOLI TRI TRE TITTI DUI RARI PARTI IM I RATEALE DORIA TORI TSEI SC ATRCIOZIA IT FATICA EACIAITIOC ANIA IGO INCI MELI TN VLAN TTT VIALI AI TEGIOIGI DI UTI AAICLIIICT I NETTO TI DIS TRTT VSLTAE TATTO ETICI CINZIA TN TITTI LATINO ENI ASTERIA Oh! Amor! Si baciano. LA VOCE DELL’ ORACOLO sempre più tuonante TIP EISUTENTO iP PR ESSERE Fuggi, N.! N. balzando in piedi, ad Asteria, terribilmente Sciagura a te! Sei Donna!! Asteria sviene sui gradini dell’altare. POF DI DITTA LA VOCE DELL’ ORACOLO ENTETANZA ASIA TATA Fuggi, N.! N., in agguato, guarda attentamente dalla parte dell’antrum ONORI ITA Prcietruee N. sottovoce, origliando Spiato son, là. LA VOCE DELL’ ORACOLO Fuggi, N.! N. scendendo dalla gradinata, rivolto verso l’antrum Ruggi, Simon |! Afferra il cero e corre a cacciarlo violentemente, dalla parte della fiamma, nella bocca dell’Oracolo. DOSITEO Aìta! i: N. ridendo È colto! Dietro la parete, attraverso una grande lastra di fengite, che si con- fondeva cogli altri marmi, traspare un grande chiarore. PIMOPI LAICO YIIEV A NSTIE IE DIA ATEI NATZIONE II LPPMLIVI LITIO III TP TITO TI OLA ERETTA SOZITINZAP RN SIDENTE STIPI. \SVISTIA TESA ZIE DATO PEDARA GRIP RARE GRATTTRT EP TETI TOA ATTI TI MALR SFENLI RIVILTDEL N. par la vampa! Il chiostro insidioso Crolli! Impugna la mazza di ferro e con un colpo violento spezza la lastra di fengite che cade in frantumi. Attraverso lo squarcio della parete si scorge Dositèo, svenuto sul pavimento dell’antrum, colla barba e le / i vesti în fiamme. Ah! An! An! È Dositèo che arde! Accorrono sacerdoti a spegnere le fiamme sul corpo di Dositèo e con grande agitazione lo trasportano in parte non vista del sacrario, a destra. N. corre mella cella, ne spalanca la porta centrale, chiamando: Pretoriani! Entrano tosto Tigellino, i Pretoriani, la decuria della Guardia Ger- mana, Terpnos e i servi colle faci. N. strappando le cortine del sacrario e gridando, invaso da un gajo furore; Accorrete! Ecco! Mirate! Squarcia il velo del sacrario. Squarciato è il vel del Tempio! Ah! AN! si rida! Non vi sfugga Simon, ei là s’asconde. Indica l’antrum. Tutti vi si precipitano, chi dall’uscio e chì dallo squarcio del muro. Terpnos ha deposta una face accanto allo specchio. N. resta solo nel sacrario e colla mazza che gli è rimasta in mano continua allegramente l’opera di distruzione. Si scaglia per primo contro l’idolo-automa. N. Guerra agli Dei! S'allegra il gioco! Vediam che n’esce! Vediam, vediam! E con un colpo di maglio io decapita e lo atterra. L’idolo cadendo agita le braccia dinoccolate, si rompe e n’escono i congegni interni. Nodi, rotelle! Macchine da scena!Intanto Gobrias è uscito dal suo nascondiglio e, mezzo assonnato e barcollante, contempla con grande stupefazione, dall’alto della gradinata d’ond’è sbucato, la ruina del sacrario, mentre Nerone atterra un’altra statua. GOBRIAS Eh! son briachi (incespica) i Numi! N. D’onde sbuca costui? d ; sa wcmerra sana ce iran» — rst Le o RPBNISIBBIOERAT PODERE GA INVSSIO ERESSE I VELI SC LIE SEIERISPOBERI ODIO IOPPI ARR CIRONDAPO) RENI I MARI CES ESSO RE RIESI n fl s / SIIT TTI ILI IIE O MTERI VITE TL FI rare FIA DERE MA RE BIDET SR: SAT £ RICE TIT I RR ZI LIME TOA IA At ARTI ee | TIRA ZIO ICRTEE IO GIÙ TAIL LARIO TI GOBRIAS Da quest’altare, Come il sorcio ridicolo del monte. NERONE Ebbrioso compar, tu assai mi piaci; T'ascrivo al mio Teatro. Gobrias s’inchina e scende incespicando. GRIDA DALL’ANTRUM AI fiume! Al fiume! Rientrano tumultuosamente Tigellino, i Pretoriani, Terpnos, le Guar- die Germane col loro Decurione, conducendo Simon Mago colle braccia legate. N. a Simon Mago, deridendolo O Gran Verbo di Dio! al Decurione Libero ei sia; Costor dai ceppi han gloria. a Simon Mago O Paracleto! Già udii narrar di te che t'ergi a volo Nell’aria. (ride) Ebben, ah! ah! tu volerai Nel Circo il dì delle Lucarie. SIMON MAGO sciolto dai ceppi SÌ. Purchè il sangue Cristian scorra in quel giorno. N. Tutto, purchè tu voli. al Decurione, indicando Asteria che s’è riavuta: Decurione! Questa, degli angui amor, falsarda Erinni, Incubo dei sepolcri, a morte! A morte Nel vivario dei serpi! Il Decurione e due Guardie afferrano Asteria.ASTERIA dibattendosi angosciosamente Invan mi danni E mentre la trascinano fuori dal Tempio ripete con accento disperato: Non morirò. Ma deh! per grazia, uccidimi! lo non son che una povera errabonda Sposa di serpi; alla mia razza il tosco Non è letal, mi cerca un’altra morte. Liberati da me, perchè, se vivo, Ti seguirò così, sempre, rapita Dal volo del tuo turbine, travolta Dal gurge tuo, perchè il mio Dio tu sei, Perchè t’adoro N. Vedremo Al vivario Asteria è trascinata dai Pretoriani e dalle Guardie Germane fuori dal Tempio. Il coro la insegue minaccioso. CORO AI vivario! al vivario! a morte! a morte! N. piglia la cetra dalle mani di Terpnos, sale sull’altare ed esclama: Or che 1 Numi son vinti, a me la cetra, A me laltar! Gobrias prende dalla mensa una corona d’alloro e gliela porge. N. s’incorona. Gobrias, Tigellino, Terpnos, i Pretoriani si schierano davanti all’altare. lo canto. S'atteggia come l’Apollo Musagete e incomincia a preludiare. PEA RA TTT ALT ERRO FIGATA PIENA ZITTI ANTISTANTE VIN SENI TII TTD AA ANTO ARAZZI CITATO AAT TDI LV ATTIENE PILA RENT TIVI TO STANCA CENACOLO AMT ZITTI TRAVE Le DATE IE SITA RT iL LOZINI LATDLET AITITIIRE AIN A DI E RARE, e A REC TTD ina 2 TINTI RIE SOSIO SR API RL PI STRA ET LIS MIETTA TRAZIONE I a " È n i | ; Ta) Neri SIGEAN bi pine È "O PRA VA bd Risp sr O pr) NAME "i Lia "IO, o, = dI i Ù i si x *A/K ft | NUIT MToMe n L x } a SAL) Ù hi î I, fi A i ru iù DIVI { il DA ti, ' et à LI 4 p À h Ò NZ ( NUCS br AT, i ing AL AA RIMINI, ' si x po da % 9 n DEGLI) Ù SIIRITIEONE UA; ori pi i { RISOTTO Do NAVI i | MUNSTER E TTAGC La VITRO A hi si E NALI p Ni; VETRI Nu È i MED? Mi toa) Pa F ‘ À \ RA . Ù a n = lo } V n a Pag 14 Ti vr : hi \ ci n i LO Ù i È tI | l K Y Î Li Li ; î 3 E Lù - vida Wa) quivi Mx 3) A LA Y - Ù E À Li Lis ni o 19 M bi "i Di) x Vo oa DA VU : ì i RT TIRO RT TA nn, ARI V et Li % È n ir”, i aa Ir ay ) % } ‘ i da fa o “i Ni hi l'aa th la LA | griji £ LC } : î PA, PrO Pa RO UO; AI i CA LT t P Wii: î x î N FCI : [CNIT 4 71 Fogar É f| o 1 È nt INCA x i FIRE RSO, L'ARIA Coe i 4 :) = L.A al È i db: (x ad IR \ 4 = 3 i LINATE, ? i Ul 4 Un Pip USD - at 53 pi bi CoA Mure È si LA Beba A di CUR De) 4 i | À 41 J LI È Ù LA) } y LI F bei ti È f x ) } | INA spit Ù LA ti ì ai Vide) LA) PRATO A) . dj x È a L) » 4 LI ® fi co fi \ 1800 / Dt 4 ì ì Hei) È i ' é VITO, pil A AI di RATE 1, - x LI ki 4 o n 4 #0 po € . i i i i LE 00 } n ‘ “i x iu % x j ie è pi A È * î à 3 X ì | 4 bo) © ì od \ ' hi L) N P 1a Il 1) A . \ n ; L: ai } U Ì 5 } I? ) 5 i <#° [| 3 PRani bf MaI R i a Sy ) Le - iv 3 DES, idoli bi ” il È bi, i Ù PA 1) 1 "ri pa o a. Li l Ù P] > " n 5 (i i } i t n ni AR hi | / o x \ Ù ML) T # È BO sh Ì di sil "VOR ; N "a | \ A è 4 PUN Y di +" n 7 " ? 3a î n à fi "RADO agito La i è n ) ; > x i LI 4 4 alt d { RITA YO o LAI GAIA pia vi re |\ RALE, ù 9) Ì i, pl P, LI LAP x t pr A Si ) DIM hi e » (daga î + A È i i Miu { WI Y î, ‘ È Ù mi A PI vi I i ® do Lei È A è MO * " Ne gii Tute ; VA Lì Ù 1) Di Ù) ESESA 4 4 IRTONINNIOA i i : È VA ni \ È. t1 x De \ dI Mi x “ va a Ù at), ti hi Fi L) 1) è TA LI È i RE ì hi PIT, N si $ Ti PI pà ti É ne: AO PT î ' DIFF AMeTT,) i \ snn ; Mg” i l 3 A di i) AI) Fo ni PRA E, | i Si Hb RUTTO Sarai ey ronernt pala nre, rat ai rt: pi 1g SI ' LA y, - té Pi Ca SILA ) o na i RA: ALI i 44 Ò (4 LAN ( IRSA PIL] GRITTI i i i ig Hut [eLt 1% f U PARA | y i I i A, » = vec saio cen L’orto dove s’adunano i Cristiani, nel suburbio di Roma, è illuminato dagli ultimi riflessi del tramonto. A sinistra v'è un casolare con un vasto pergolato sostenuto da quattro colonne. A destra v’è una fonte rustica sul cui margine di pietra è deposta una ciotola e un’idria. Poco discosto v’è un sedile di rozzo legno. Dietro alla fonte, e d’intorno, le zolle fiorite formano una leggera prominenza. Nel fondo s'estende un uliveto. Sotto la pergola vi sono due tavole; una di queste ha la forma d’un sigma lunare e porta i resti d’una cena frugale, l’altra è di quelle che servono ai coronari per intessere ghirlande ed è piena di fiori e di fronde. Intorno I a questa tavola stanno sedute parecchie donne ed alcuni fanciulli. Dall'altro lato alcuni Cristiani circondano Fanuèl il quale è appoggiato al margine del fonte. Un’aura di soave pace è diffusa su questa umile gente e sull’ orto. Un’immensa attesa riempie le anime. FANUÈL în atto di chi continua una narrazione udir pronte E vedendo le turbe ad Salì sul monte, Le benedisse E disse: Beati i mansueti, Perchè saranno della terra i Re. LE DONNE CRISTIANE ripetono sommessamente: Beati i mansueti. FANUÈL Beati quei che piangono, perchè Saranno lieti. LE DONNE Beati quei che piangono. FANUÈL Beati quei che vivono in desìo, Perchè li udrà il Signore. GL’UOMINI Beati FANUÈL Beati quelli che hanno puro il cuore, perchè vedran la gloria del Signore. PWOASCI Beati FANUÈEL E beati, fra Vanime fedeli, Tutti gli afflitti, 1 poveri, gli oppressi, Perchè per essi È il Reame de’ Cieli. TUTE Beati! Rubriîa esce dal casolare con una lampa in mano; è seguita da Perside e da fanciulle che portano in grembo dei fiori sciolti e lì depongono sulla tavola insieme agli altri. Tutte le donne si radunano intorno ai fiori. Alcuni uomini vanno accanto alle donne, altri entrano nel caso- lare, altri si disperdono nell'orto. Fanuèl, appoggiato ad una colonna della vite, guarda Rubria. Incominciano a spargersi le prime ombre della notte. RUBRIA Vigiliamo. È la sera. Arde la face. D’intorno ad essa ci aduniamo in pace. Viene il Signore ma nessun sa quando; Beati quei che troverà vegliando. Si mette fra le donne ed i fanciulli ad intrecciare ghirlande ed a cantare con essi una canzone. RUBRIA, PERSIDE, LE DONNE alternatamente A me i ligustri, A te l’allor. Tuffiam le industri Mani nei fior. A me il ciclame E l’asfodel, L'’aulente stame E il tenue stel. Avrem corimbi D’edera inserti, Corone e nimbi, Ghirlande e serti. A me il viburno E l’amaranto. Rigira il canto Mutando turno. Sua gioja espanda La cantilena Viva e serena Come ghirlanda. OR! date a piene Mani le rose Vigili spose, Lo sposo viene. Spogliate i clivi, Le valli e gli orti! Fiori sui vivi Fiori sui morti Fiori silvani Gialli e vermigli OR! date gigli A piene mani! Casto segreto D’amor ci leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi Lieto è chi muore Nel Dio verace. Amore! CISA Fede Amore! Amore! i Speranza! ci pritaza erica nr srendiina VIRNA STELLARI IRINA AZ IALIA TIZIA TRE LIV NE PISA POR TINI ESTATI NOIA negro ETRE LIETI) POS FRITTI ETTI LETT IIS CLI IE AMET Li VITI en = PN LATITTE FRS, IAC IONI CREA PIATTO TODARO LAZ) IT AETE TA ADEN IMEBIIREI LIE Ra STAI TANTI NLITTE PORA ONT Te ppie LL SIIT FIIEAIOI MIEI OASI METZIZIO EIA DNASIORISI E STIRIA TIZIO EE DO DIE I ITA MISSILI RITA PICCHI TE LISI IIZ SISSI RIENZO IAT IIIZORTTII DIE RIE PL ASTERIA] ! } | fievole, dal fondo Pace. ALCUNI CRISTIANI sommessamente cTsrEATI e en Risponde il ciel ! (IbEEINDI chinandosi e giungendo le mani Adoriamo! Fra gli alberi dell’uliveto si scorge una figura nera che s’avvicina lentamente. È Asteria. ALCUNE DONNE Un fantasima E fuggono tutti, tranne Fanuèl e Rubria. Asteria s’avanza come persona esausta e dolorosa. Giunta sul limite dell’uliveto s’appoggia al tronco d’un albero, guardando il casolare. Le sue vesti sono lacere, non porta più le serbi intorno al collo; mormora, gemendo, parole interrotte. ASTERIA Di pace una dolente a lor favella Crudeli ed essi fuggono. RUBRIA ode i fievoli lamenti, accorre ad Asteria, la sorregge pietosamente e la conduce a sedere presso la fonte dicendo: Sorella, Che hai? tu gemil. Dimmi la tua pena. Oh! come tremi! ASTERIA vede il volto di Rubria rischiarato dalla lampa. Dolce Nazzarena SÌ tu se’ quella che il mio duol lenivi Sull’Appia, orando, un dì, nella quiete Dell’alba T'ho cercata tanto Ho sete. Rubria fa cenno a Fanubl, il quale s’affretta a riempire la ciotola coll’acqua del fonte e gliela porge. A ORTO Co ee vee te en e ee e ea ASTERIA sorridendo a Rubria ed estraendo un fiore dal seno Quest'è un tuo fiore. RUBRIA Bevi. Avvicina la tazza alle labbra dell’assetata. Asteria beve avidamente. Arsa languivi. Mentre Asteria alza le mani per sorreggere la tazza, si vedono le sue braccia ferite e sanguinanti. Tu spargi sangue ASTERIA dopo un lungo sorso, senza por mente all’osservazione di Rubria Oh, il fresco umor dei rivi! sorridendo languidamente a Rubria e poi a Fanuèl; a Rubria: Ma tu non seai. Vengo da dove non s’esce mai vivi Per salvarti. Per te mi svincolai Dall’amplesso dell’idre. mostrando le cicatrici Ecco i lor baci. Rubria fa per bendare la ferita di Asteria. Non m’ajutar. con parola sempre più concitata e ravvivandosi rapidamente Questi attimi fugaci Serba per te, te stessa ajuta, fuggi! alzandosi Fuggite tutti! sulla vostra traccia Vien Simon Mago. RUBRIA Spavento |! cari ARR SA SMR a ZII PETIZIONI ATI ETENT ATTI MALIGNA VAIO NT IISIRTARI PIGRI FICA EI TIGRI MM TOTI TITANI MILANI ABITI TA ITA! III TA LA PVASVDAT: OSCENI sN TT DA TTT TL LT e rene toe O EIA. x a serest PR LATTA x nti creni SIOE ZIONI DANTE RITA AZ TI DI TATTICA OZ TTEELATIAA CEI ITA IZ RISO PIATTA IRAN NETTE AITINA IDATA EVO TOCI IL AE RR TANINTIZAZ CPTATZI CIOTTI IZZO TIZIA INIZIATI SEP AIA I Ù s |ASTERIA i I I var tenanionIE Distruggi Ogni altra speme che non sia la fuga. Tremendo egli è ! Bene udii la minaccia: Ei vuol sangue cristiano. RUBRIA a Fanubl, atterrita Il tuo Asteria si è già allontanata dalla parte dell’uliveto. RUBRIA ad Asteria T'arresta ! ASTERIA con subita veemenza e come spinta da un impeto invincibile Il riacceso mio dimon mi fuga Scompare tra gli alberi del fondo. RUBRIA s’avvicina a Fanuèl che è rimasto presso al fonte e la guarda, immobile; dopo un momento d’ansioso silenzio Fanuèl Fanuèl Parla ti desta. ” Salvati, per pietà! Tu indugi ancora? Vien! Fuggiam ! Fenda il mar l’agile prora E dia le vele al vento! L’infinita Via del vol s'apre a noi, corri alla vita Vieni! mi suscita un Dio quest’alato FANUÈL fissandola, immoto Confessa il tuo peccato. dopo un silenzio Non parli più? L’alato impeto muore AI solo rammentarne? Un dì m°hai detto: Ho un peccato nel cuore. SIRIO IEZZO IRIS IIRAIAIII REISER LTT. RUBRIA interrompendolo Ed or te ne rammenti FANUÈEL A tutte l’ore M’è quel tribolo fitto entro la carne Confessa. RUBRIA No. Pria fuggiam poi dirò Come potresti or tu quest’affannata Anima interrogar sì che risponda Sàtana è là nel tenebrore, Vuol la tua morte FANUÈL Tutto ignoro di te, tutto, anche il nome. Quando t’accolsi nella fe’ novella Non te lo chiesi, ti chiamai : Sorella. M’odi ; ogni sera, mentre oriam, furtiva Tu ne abbandoni; l’orma fuggitiva Ove ten porti? ove? e perchè celarla? Forse allor corri al tuo peccato ? Parla ! Parla! Consenti alfin (ti pregai tanto) L’alto abbandon del lagrimato errore ! E un’estasi soave in fondo al pianto GOBRIAS con voce artefatta, nasale, dal timbro bieco dal folto dell’uliveto Pietà d’un cieco che la Grazia implora Del charisma Cristian ! RUBRIA inorridita Sàtana è qui! Corre disperatamente alla tavola dove arde il lume. S'’arresta, guarda intorno, spegne il lume. Poi fra le tenebre ritorna verso Fanubl. L'orto è immerso in una densa penombra. S’intravvedono nel fondo Simon Mago e Gobrias poveramentie vestiti. Simon Mago ha il capo coperto da una calàutica î cui lembi sciolti gli mascherano tutto il viso. S'arrestano là dove finiscono gli alberi. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias Va guardingo, attento esplora; guidami per mano. GOBRIAS prende la mano di Sìmon Mago e risponde sottovoce Nessun m’ode, è tarda l’ora. Qui s’attende invano. SIMON MAGO Ricomincia il tuo lamento GOBRIAS Ah! Pietà d’un cieco! RUBRIA SIMON MAGO sommessamente e con grande ansia a sempre sottovoce Fanuèl che non si scuote Non l’ascoltar; quel cieco vaga- (Or t’inoltra lento, lento, cammi- [bondo Mi fa rabbrividir. Non l’ascoltar DI st avvicinanando meco. GOBRIAS con Simon Mago al casolare e gira intorno gli sguardi. Dilaniata strappo dal profondo Scerno due figure umane chiuse Cuore il mio grido e non ti vuoi Odo un suon di voci arcane, di sin- [salvar !) SIMON MAGO {in bruno ammanto. SIMON MAGO [gulti e pianto.) rapidamente a Gobrias e sottovoce Sigi mi raffigura, S'ei mi s'oppone, ad un mio cenno è colto. Tu corri allor nel Tempio a dar novella Ed agitar, coi nostri, la congiura Dell’incendio. Se ajuto qui m'è tolto, L’ultima audacia disperata è quella.) ETZZZZ TANA RIA ME PSI RITA TETI FOTI TO RL TAN RNA RIO + OR PREDICA ETA RIPARI NEI COPI DIO ZII TITO RATA LD AT VE UE EIUS LAI RI MD RUBRIA disperatamente, ma convocesommessa Mi guardi e taci? Che pensi? FANUÈL I amaramente SIMON MAGO Che penso Va quando vedi ch’io mi scopro È peccato d’amor il volto. RUBRIA D’amore immenso FANUÈL Questa fu l’ora della grande angoscia S’avvicina, calmo, a Simon Mago, Rubria rimane presso la fonte. FANUÉL ad alta voce Che vuole il cieco SIMON MAGO a Gobrias Parla tu. GOBRIAS a Fanuèl La luce del charisma Cristian. FANUÈL terribilmente Così non sia! Mago Simon, cieco e de’ ciechi Duce! dj È Ù \ONTSZE TIIPO LI OPZIONI IONA MUTI ET ATTIMI EDIZ) MSN LINA PIA III NI DTT Me OI III TOO EA TE DALIA DI TITOLI CPT ART DT î SSN (AS TEAM EEDE TAI EAZIANTZNGLTT POSTI NI FAZI PORTIERE ITINERE TIE E AITINA NEI AR NZIMECII AI ATI E PETTO BIO I ZI UT AMI SIDE BIZ SEDI VITE da TTI O SOG a 3 ITA LIETALITETE CESTRIIITI ME TECA IENA RETTA EPOCA LA Ende SERA ILE STATUE AL SIMON MAGO atterrito si scopre il volto e si getta ai piedi di Fanuèl. Attèrrati a’ suoi pie’, anima mia. Gobrias s’è allontanato dall’orto. Rubria entra nel casolare e poco dopo n’esce con alcuni Cristiani. Fra gli alberi del fondo si vede un Centurione. SIMON MAGO sempre ai piedi di Fanuèl continua Furar tentai ciò che negasti, or prego. La colpa mia rinnego, Tu sol mi puoi salvar, morte m’attende. Un’opra ch’ogni uman segno trascende N. m’impone, Non si sfugge a N.! Dove ch’io mova un Centurion mi spia. Ma tu, Profeta del novello Eòne, Tu, coi portenti della tua magìa, Tu sol mi puoi salvar. FANUÈL Così non sia! Si vedono comparire dall’uliveto due decurie di Guardie Germane colloro Decurione ed alcuni Pretoriani accompagnati da portatori di fiaccole. SIMON MAGO rialzandosi di colpo e indicando Fanuèl ai Pretoriani A voi l’uom. I CRISTIANI si slanciano contro Simon Mago, gridando Morte SIMON MAGO chiedendo ajuto alle guardie Olà I CRISTIANI mentre lo afferrano Morte a Simone ! PERE e De FANUÈL interponendosi, con un gesto pacato, libera Simon Mago dall’assalto; poi dice ai Cristiani: Non resistete al malvagio. L’esempio Ne diè il Signore. Il Signor sia con voi. Nessun chieda ragione Se piace a Dio di far possente un empio Per infrangerlo poi.Simon Mago s’allontana. Fanuèl ripiglia dolcemente Vivete in pace, e in concento soave D'amore, mani aperte alla carezza. Sia sulle vostre labbra il bacio e l’Ave E l’allegrezza. La giornata è compìta Pel fratel vostro e il suo carco depone. Voi camminate in novità di vita Ed in pienezza di Benedizione. Oscurandosi Quando torna la sera, col mesto incanto delle rimembranze, Unite anche il mio nome alla preghiera, Unite anche il mio nome alle speranze. trattenendo la commozione V’amai dal dì che il cuor vostro ho raccolto, Non so quale m’attenda ora crudel Ma so che più non vedrete il mio volto. I CRISTIANI donne e uomini, gemendo Fanuèl Fanuèl FANUÈL s’appressa al margine del fonte, poi soggiunge: Ed or, fratelli, io tocco questa pietra Come un altar, benedicendo a voi. I CRISTIANI inginocchiandosi sotto îl gesto di Fanuèl Amen RETTA IAN TENZA I TAMA LETI PILA DITO TINA E SRI IATA ITA TATA ATO AZZ DETRITI ATI ZZZ AAA III STRA ZZZ I I FANUÈL entra în mezzo alla schiera dei Cristiani. V’abbraccio con un bacio santo. Bacia alcuni uomini ed alcune donne. Seguitemi cantando un lieto canto. Si avvia lentamente verso il fondo per darsi in mano alle guardie. RUBRIA mettendosi davanti a, Fanuèl, mansueta e piangente Così tu lasci sulla mia pupilla La lagrima cocente dell’addio FANUÈL Donna, ho le labbra di mortale argilla. Passa senza baciarla. Poi, vedendo che Rubria rimane in disparte, lungi dalla schiera che lo segue, soggiunge: Qui sola resti? RUBRIA subito, con voce appena sensibile SÌ. FANUÈL rivolto ai Cristiani che lo accompagnano Cantate a Dio! Le donne hanno raccolti tutti i fiori e li spargono davanti i passi di Fanuèl, cantando e allontanandosi fra gli alberi dell’uliveto. RUBRIA con impeto e con tutto il fervore dell'anima, spargendo fiori davanti i passi di Fanuèl Oh date a piene Mani le rose interrompendosi con un singulto di dolore I CRISTIANI Vigili spose ANSA DITTA IRE FUSTI ZIBIDO LIT n RIOT DEE IE OELIERLI E SITI POTTE DEI SLERSSORIIA ANIA I6 SDONSSIOIZG N ISIEZO III ì cinrii ALTARE ERI AZIONA IATA nr SIONI ASTANTI TIA II TIZIA AMI NL TERA IV ZII II DO RATTAZZI TLT RA RDATAI IZATFNTAI I VORII DTEIA TT AAF Ln ara e ST GPTDT ELICA VOTATI LN DDT RIT ATI TSI ITINERE o e A È CREARTI IE IEIRRIA MALARRIIRO E ARTT PONE A MRO II SOI EI CREO ERIC AREE ITA TELIT AIR TIAGO ASTE IE E RETE I RT MENA TITO EU RIETI TTI DIREI Ln TT TAM ma ter ie a. PERSIDE Spogliate i clivi, Le valli e gli orti! Fiori sui vivi! I CRISTIANI allontanandosi Fiori sui morti! Fiori silvani A piene mani Casto segreto d’amor ci leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi. Lieto è chi muore Nel Dio verace. Amore Fede Amore LA CANZONE LONTANA Rubria è rimasta sola nell'orto. Il canto s’affievolisce allontanandosi. RUBRIA dopo aver seguito collo sguardo il i cammino dì Fanuèl Sì, per salvarti. Ma il mio sogno [è infranto. S’accosta al margine del fonte e bacia il posto della pietra toccato da lui. Si rialza. Tende l’orecchio verso la canzone cristiana che si sperde sempre più nella lontananza. Un sogno santo un dolce sogno fu Laggiù, lontan, nella canzon che [muore, L’odo ancor. RUBRIA L’odo ancor e canta: [amore ! Amore. sforzandosi d’afferrare gli ultimi suoni L’odo ancor. dopo un lungo silenzio, angosciosamente Non l’odo più E cade ginocchioni. Ma RIM AA NI VAIO QAVTI MALLINMA VO: IT RICA OS NT e tane carl ieri ian ] a MITA LIETI } Ì i tino. 19 a 0; dI iaia DS x LESLIE TENTA NA LIZ È STATO LANE SAI LZ ATI Si vede l'interno dell’oppidum fra i suoi grand’archi centrali, quello di destra che sbocca nell’arena e quello della f0r/a dompae, a sinistra, che s’apre verso il foro boario. In questo grande atrio ha sua foce un criptoportico che si prolunga nel fondo seguendo la lieve curva della fronte del circo; è chiuso, alla diritta di chi guarda, dal muro delle carceri, e la sua parete a mano manca è popolata di botteghe e di taverne. Nella stessa parete, leggermente concava, si scorgono i primi gradini d’una scala interna che ascende alle precinzioni più alte. Presso all’arco che sbocca nel circo si vede internarsi nel muro, di prospetto, il primo ramo d’una scala che sale al podin. Un’ ampia nicchia, fiantheggiante la forfa pompae, accoglie la famosa scultura Rodiana che rappresenta Zeto ed Anfione in atto d’avvincere Dirce alle corna d’un toro inferocito. La viva luce diurna entra dall’arco esterno nell’oppidurm. Ai pilastri degli archi è affisso l’editto dei giuochi. Vortici di folla irrompono da ogni lato. La maggior calca ferve intorno ad una quadriga; quivi le fazioni del Circo si affrontano levando grida di trionfo e d’ira, i agitando toghe e cappelli e pezzuole verdi ed azzurre. Parecchi brandiscono degli stili, altri minacciano colle pugna gli avversarii. L’auriga, che ritorna vittorioso dalla gara, porta i colori di parte prasiza, ha le redini attorte dietro la schiena e i cavalli rivolti nella direzione del criptoportico, impugna un coltello per difendersi de CARE I AZZ RP LIRE DI TI O MAIOTZI DEDITI RZ DI n I prerreni FELICIA vano cavia nta PO TAZTI ARE TATE dagl’assalitori. I VERDI Gloria Vittoria GL’AZZURRI Morte Morte Infamia I VERDI . Scorpus! Gloria del Circo! A te la palma! GL’AZZURRI Furasti con perfida frode, Furasti con perfida gara La palma cruenta! I VERDI Vittoria Vittoria La folla vociferando segue la quadriga e s’interna nel criptoportico. Simon Mago, seguìto a distanza dal suo Centurione, incontra Gobrias che viene dall’arena. GOBRIAS a Simon Mago, scherzosamente, coll’inflessione particolare di chi parla ridendo I Verdi han vinto, è salva Roma. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias Ebben GOBRIAS sottovoce, dopo essersi appressato a Simon Mago, e rapidamente Siam pronti. La fune incendiaria acoppierà verso il celio. SIMON MAGO sottovoce E chi la scaglia? GOBRIAS Asteria, SIMON MAGO con accento di grandz sorpresa Asteria? GOBRIAS Sì. Viva la trassi Dal baratro de’ serpi ed or ti giova. SIMON MAGO M’odia, mi tradirà. TT RICIPIIA SLEALE TESTI TI A e e tnt ri I i nevi ia ceca mann ast romiiomito nea ra re ORTO PATIRE RR RI II LIONE DINI ONTE IIN i $ i GOBRIAS con accento di chi rassicura Ama i Cristiani, Vorrà salvarli e te salva con essi. SIMON MAGO dopo un momento di riflessione Sai l’ordine de’ giuochi? GOBRIAS indicando l’editto affisso ai pilastri della porta pompae ed avviandosi a leggerlo È là, si legge. Dal fondo del portico sopraggiungono alcuni gladiatori armati per combattere e disposti în ordine di parata; divisi per coppie, preceduti da quattro Eneatori con trombe, da un porta-insegne, dal Lanista e da un servo, entrano nel circo. GOBRIAS 1 gladiatori di Preneste - Passano. Il supplizio di Dirce, pantomima Coi tori e i veitri e colla morte vera Di femmine Chrestiane. SIMON MAGO interrompendo A mesi deve. GOBRIAS continuando la lettura Laurèolo in croce sbranato dagli orsi. SIMON MAGO È Fanuèl. Continua. GOBRIAS ferminando la lettura Il volo d’Icaro con un gesto d’addio canzonatorio a Simon Mago Buon ti sia Se ne va correndo e scompare nella curva del criptoportico. Dal circo giungono grida di Euoè Euoè Euge Euge Macte Macte mentre un’ondata di folla entra correndo dall’esterno nell’Oppidum. Entra dalla porta d’ingresso una lettiga pomposissima portata da quattro lettigarii. Una puella Gaditana esce dalla taverna con alcuni suoi corteggiatori e si mette a danzare in mezzo al crocchio, sotto il criptoportico, una sua danzetta mite e lieve, al suono di un corno, del tîmpano e di crotali, mentre un giovanetto, colla doppia tibia alle labbra, l’accompagna. N. e Tigellino scendono la scala del podio e s’arrestano presso all’arco del circo. N. Che vuoi dir? TIGELLINO sommessamente Una congiura. N. Contro me? TIGELLINO Contro Roma. I Sacerdoti Di Simon Mago, per sottrarlo a morte, pria che la torre ei salga ond’ei dovrìa slanciarsi a volo, incendieranno l’Urbe. La puella Gaditana col tibicino e coi liberti, continuando la danza, si eclissano nella curva del criptoportico. N. attento ai clamori del circo ed interrompendo Tigellino Taci. Le grida del circo giungono nell’oppidum da varie altezze e distanze, seguite da risate e da urli, frammiste a squilli di buccine. GRIDA DAL CIRCO Non vuol morir! Pollice verso Ot, So E ibiza ea resin det m m m &m et VNDERITE ATTI TERZA RIAITZI SLI MET III NNT PRIA UNE RATE EEN ALTRE VOCI Basta! Vogliam le Dirci! MOLTE GRIDA Uccidi A morte Segue un momento di tregua Tigellino se ne vale per ripigliare il racconto. TIGELLINO Seguo lor traccia. N. imperiosamente, interrompendo Tigellino Taci. Ricomincia il tumulto del circo; s’odono a diverse distanze le grida: Age jam Evax Ahè Ahè Euge Eho Eho Vogliam le Dirci TIGELLINO I Pretoriani chiedono un cenno mio per afferrarli. N. ascoltando le grida del circo ACK VOCI DEL CIRCO No no no Basta TIGELLINO risolutamente a Nerone, mentre continuano le grida lo salvo Roma. Da ogni parte del Circo si odono le grida di Basta Le Dirci La Tragedia Basta N. in uno scoppio di collera Taci! Non odi la plebe che rugge Voglion le Dirci S’aggira concitato verso il criptoportico. Sono entrati dalla taverna Gobrias, Terpnos e Alitùro. Scorgendo Alitùro esclama: Olà Presto Alitùro S'affretti la tragedia, Alitùro esce correndo. A Ì “ c s; i er 5 mero az sn OR E = REIT FE DIET TREIA EDITO ISCRITTE DARI SA TRTE CETAA COEN EMILIA BOI DST AT ONTO ET CR ITA AE PIEVE LEI OPA LI RITZ NE TIA STRA TIZI NANI enna Dal fondo del criptoportico accorrono moltissimi pantomimi colle maschere sul viso, portando grosse funi. Ad alcune guardie che sopraggiungono: E voi scacciate Quei gladiatori. Allo spoliario i morti! Date le Dirci al popolo Affaccendato come un ordinatore di spettacoli, chiede a Gobrias ed a Terpnos con grande concitazione Son pronti i tori e le funi e le rocce del Citerone e i veltri e i sagittarii chiamando com forte voce I personaggi d’Anfione e Zeto I due personaggi si presentano Zeto porta una clava e delle funi, Anfione una cetra. Ecco l’effige del supplizio. Guarda Tebe una Dirce ed io ne uccido cento. Cento aspetti ha la scena In scena ISTRIONI In scena Tutti s'ingolfano nel criptoportico e scompajono. N. conduce da parte Tigellino e gli dice sommessamente, con calma ironica: Astuto agrigentino, e non t’avvedi ch’'io già tutto sapea? Guai se all’incendio che m’offre il ciel t'opponi.Ciò ch’io struggo Risorge. Il mondo è mio! Pria di N. nessun sapea quant’osar può chi regna. Dal fondo del portico s’avvicina lentamente un corteo strano ed atroce. Le donne cristiane, precedute da Fanuèl, vestite come la dirce del marmo rodiano, inghirlandate di verbene, colle mani legate e fra le mani un tirso od altri emblemi bacchici, camminano fra due file di truci bestiarii che le percuotono a colpi di flagelli se quelle s’arrestano. Seguono alcuni Sagittarii in completo assetto di caccia con archi, faretre e saette. Una frotta di pantomimi colia maschera muta sul viso chiude il corteo. Simon Mago ed ‘è suoi sacerdoti s’accaniscono contro Fanuèl e lo insultano mentre egli passa. Frattanto la più sordida plebe del circo s'è riversata nell’oppidum. N., presso la. porta pompae, attende cupidamente il passaggio delle vittime. i TIRI ADATTA MISTI TI ICI FITUIZO TE LOVE TIRI I DT II PIE BROZZI BILIA RSI NA IRINA PREIS ZII SZ VI SIONI TIE ISORIZ VINILE DIZION SRIZZIA GIONE LEE: n: IAA III NANI MPIN ID RS ZI ZITTA LIE CIZ ANTI MOMAL TIIA PIACE ELP DZ MERZIA LA DIRTI TRADITA N TDI II ZI EN DEISAIIOP TRI E SEIT III TAG TOTI I SIIT AEATAS RISTAIC II AE SAMI SE SAT IZII LAT PM MELI DATI AREA) E DE Li LA PLEBE Morte Morte SIMON MAGO mostrando Fanuèl alla Plebe Ecco il capo delia torma Le Dirci hanno varcato il portico e sono spinte dai bestiarii verso l’arena. SIMONIACI Latra i tuoi salmi Abbaja Abbaja LA PLEBE $ | i ! TOGATI Raca SIMON MAGO Raca Il suo vino è sangue. LA PLEBE Abbaja A morte FANUÈL con voce alta e serena Credo in un dio solo ed eterno.I cristiani e le cristiane ripetono fervorosamentie le parole di Fanuèl. SIMONIACI E PLEBE Abbaja Abbaja Latra Latra Sulla scala del podio è comparsa una Vestale. Ha il capo coperto dall’insula e il viso nascosto da un velo; ogni suo vestimento è bianco. Un littore co’ fasci abbassati la precede, un flàmine la segue. Giunta all’ultimo gradino della discesa s’arresta, tende il braccio e la mano verso Fanuèl. La folla, sorpresa, indietreggia. LA PLEBE Una Vestale ALCUNE VOCI FRA LA FOLLA Sien salvi Sien salvi SENI EE Mat de te I Lerma TT 1—Ih È* È*ÉÈI* O*èZIè @-@èEQIà Nei ste Lean e MST ALP TAI RO TI SEZ ATTRATTI PIREO REMI II NEO LE ice APRITE RL EZIO TLOZ E ZU ML ARTI RANA TIPI TANA SORIA TTD MADAME DE I LI PETER AT SIETE PAD IOE SIT IO APZIOT NTTSIT IA DAR TASTI AE ACE ONT NET SERENA RE NR DLE MAT TT DATA TERE CE e terribile e nelle prime parole un po’ ansimante per ira Chi là dov’'io mi son osò parlar di clemenza? LA VESTALE sempre colla mano tesa verso Fanuèl e immobile Stende Vesta con me la man che riscatta le vite. N. lentamente, studiando ogni parola, mentre guarda a Vestale velata collo smeraldo Ave, 0 Vergine sacra, scopri il volto, poi giura (Legge è di Numa) che in questi rei non qui ad arte [t'imbatti. LA VESTALE con voce di persona atterrita Una Vestale a giurar non s’astringe. N. comuno scoppio di collera Per Giove! Chi le strappa quel vel? SIMON MAGO Io. Il littore tenta d’interporsi co’ fasci, ma Simon Mago s’è già slanciato sulla Vestale e le strappa il velo. ALCUNI Sacrilegio ! FANUÈL la riconosce, accorre ad essa, discaccia Simon Mago ed esclama: Sorella! RUBRIA Fanuè! Sviene fra le braccia di Fanuèl. SIMON MAGO È una cristiana. Re I ATI OA PRIA RI, de Pa LA PLEBE È una cristiana, N. ravvisandola, la nomina Rubria irridendo Ben tu svieni. SIMON MAGO Morte LA PLEBE A Porta Collina! Muoja! N. Freneticamente Muoja Nel branco delle Dirci! LA PLEBE Sì. NERONE con un rapido cenno impone silenzio. Dopo una brevissima sospensio- ne riprende solenne e tranquillo Dal capo L’insula sacra il flàmine le svelga Il Flàmine strappa dal capo di Rubria l’infula e la gitta. Cadan le vesti a brani. FANUÈL Io la difendo. I bestiarii si avventano su Rubria svenuta, le lacerano le vesti. Fanuèl è circondato dai sagittarii. La plebe s’accalca intorno, mentre due bdbestiarii sollevano Rubria sulle teste della folla ruggente e la trasportano nell’arena dove è spinto anche Fanuèl insieme alle Dirci e ai Cristiani che cantano con voce alta e serena. CRISTIANI e CRISTIANE Credo in un Dio solo ed eterno. SE = PRA DE RR ATTRA DI RI PEN TL ILAGIA SITA I TIPO EP ART è ATI DET AT SEA, ILS IN I VIIITUE RI TANTE SIRREIO BAITA LINEA MODI IT de TIVA DE STLTIIIAI ER LA PLEBE A morte Abbaja abbaja Raca Raca Morte N. con esaltazione Mano alle funi, alle belve, alle donne Tutte un Eroe denudator le abbranchi, Le avvinca nude in groppa al furiale Nembo de tauri, ebbre d’orror, fugate Dai veltri in caccia, irte di dardi, esangui, Belle, riverse, i grembi al sol, nel raggio del concavo smeraldo agonizzanti. N. si avvia al podio. Tutti i pantomimi sono entrati nel circo. Scorgendo Simon Mago o E tu non voli? Ah! AN! La plebe sghignazza. N. indicando Simon Mago a Tigellino e ridendo Dalla torre dell’Oppido sia tosto Slanciato in ciel. Non voli? Ascendi all’etere, Agli astri, al sole! Icaro, vola! sino alla scaia di legname che sta a sinistra del criptoportico. GOBRIAS, TIGELLINO, LA PLEBE I ridendo, a Simon Mago, e beffandolo Vola, La guardia germana, afferrato Simon Mago, lo trascina rapidamente I Se sai volar Icaro, vola! I SIMON MAGO si difende con tutte le sue forze; vede Gobrias e lo chiama in soccorso: Gobrias! GOBRIAS Va! non temer! prolunga la difesa. mo Correndo e ridendo s’allontana e scompare nel fondo del portico. DELIO NEVA PETRI SEEM ONE O LIMONI ENELA VD PIET A IOIZIETTIIA STET ZA DIE IMI TRITATA SLIDE SVITARE PILOT RIE DINI INIZIA DEVIATO TIENITI SIMON MAGO implorando ajuto da Tigellino Mi salva TIGELLINO rigidamente, ai Pretoriani Sguainate l’armi SIMON MAGO al colmo dello spavento Tregua La guardia germanica colle armi in pugno caccia Simon Mago, pungendolo e minacciandolo, sui gradini della torre dell’oppidum. N. Icaro, vola! Vola! Vola al sol! N. ridendo sempre più eccitato, entra nel circo. Nel circo non cessano i clamori: si odono le grida feroci A morte le Dirci, Vogliamo la Tragedia, Non vuol morir! Pollice verso Ad un tratto s’odono degli urli di spavento che vengono dal fondo del criptoportico e dalle parti più alte dell’edificio dove s’incomincia a scorgere qualche cirro di fumo. Le grida di terrore aumentano e s’avvicinano. Il fumo penetra nell’oppidum e s’ode Gobrias che grida: L’incendio è nelle fornici Altre voci gridano Soccorso! Il circo divampa Salvate le donne Fuggi! Fuggi Di qua No Fermi Ajuto Attraverso le nubi dell’incendio si scorge la gente che fugge, che s’urta, che cade. - Una fiumana di popolo irruente invade il cripto-portico, spinta verso lo sbocco della porta pompae. L’Oppidum non è più che una voragine di fumo. PA LED AZ SEPARATI ZA LIM NITAL TU TOA OL SETS CRA Matte NOLI ARTDIR ATTI AE IO VITERTE NZIRISTI IL MATTEO II SAINT (ARIA E LEIREIREN LI IT ERI IRE TI GIONI NEREE DIREI ISEE ARI LIO NSAIIA N VT IERI TAI ZA SI PAR IENE ALT MT TRON ITA TRLNGTLAE FASI RZAZII RODA Pe agnaiì NATE fi MARTI Dich * n o iu 09°) La CAPA | VEL \ Ti (i SOTA IO ARAN CAIANO Riga Mt COMBAT OO‘ hi si Lui OL i ge I pot ia Mati. n r L\ ai pig nt AIR pa‘ICHARRTTA dA Pa VV fi, / A Li bea mi o We, Reit oi ja catia \ varo i é È ); ld 4 N î dI EIU MELA RI (A \ Mii 4 Dite a LAND. ui s i La 5 q } Li i dl } WOOD N NAM MARS di VA ai to Ò 4 \ x A A LI 1S t « are A, tb, d % La SITA (RORI \ ‘ Rf A RA | i \ 4 È 4 Wie I Li pedi \ o ATI fe YALTA ti } PALI ì Na ti FOA Md NEO aputtato N } f i PR, A AMOTITARE (RR ARES 4 I 1) ne o DAT | e { : \ LUMI, TIAMIZAN A 1, CS NOIA \ s l È .) LI $ D b OT 1) TÀ (RI } iù Mi LI a ia up È, Pn ’ Î: Î ti NT [A Pi Pal AREA; Si; ti vAViba ? \ A a s 1 POTRÀ TA] Di] i î Li TINTO gf” SIORIT MISOLI E GPIZIEIE BITTE PEZZO DL LO ITA EAT NL A CETONA TOT UIL LT petedimenasa stai nn IZ: III È un sotterraneo del circo dove si depongono i morti. La luce riflessa d’una torcia che s’avvicina dirada a poco a poco le tenebre, rischiarando a destra il vano d’una porta e la rampa d’una scala erta ed angusta. Un rombo lugùbre giunge dall’alto e ad intervalli uno scroscio come di cataste o di mura che ruinino. Asteria, con una fiaccola in mano, discende la scala; giunta alla soglia del sotterraneo s’arresta per illuminare chi la segue, ASTERIA Scendi. Fanuèl la raggiunge. Entrano insieme. Cerchiam fra i morti. FANUÈL Orror di tomba Emana lo spoliario. S'ode ancor da quest’antro funerario La gran vampa che romba. ASTERIA Cerchiam. Incomincia ad aggirarsi lentamente guardando a terra lungo la parete centrale. Al lume della torcia che tiene in mano s’intravvede, là dove passa, la struttura irregolare del sotterraneo. Fanuèl va frugando a sua volta nell'ombra lungo la parete di destra. Si parlano a distanza. DCO LI RESI SII PTTASTINTENITI IC AREE SITA SOLITA ‘i pe FANUÈL Cadde la prima, ASTERIA vivamente Allor qui giace. Tardi per lei scoppiò da questa face Il folgore incendiario! Fanuèl s'imbatte in un corpo, si china, lo tocca, riconosce al tatto le fasce crurali d’un auriga. Va oltre. Ecco là dei cadaveri. Indica un gruppo di morti stesi a terra nell’angolo della parete sini- stra. Fanuèl accorre e li guarda. FANUÈL Un reziario, due sanniti, un trace. ASTERIA atterrita Simon Mago! FANUÈL Ove? ASTERIA indicando con ribrezzo, senza accostarsi, iv cadavere di Simon Mago gittato un po’ più lontano, in un’insenatura del muro Là. FANUÈL dopo averlo guardato fissamente Da Dio fu infranto. Abbominato sia. S'avvia verso il centro del sotterraneo. Il suolo è ingombro d'armi gladiatorie. ASTERIA Cerchiam. Fanuèl scorge, sopra un letto funebre, giacente come una morta, una donna în veste bianca. FANUÈL chiamando con voce agitata Accorri. i BZ IiMRANZIAR TINA TIE I A d ASTERIA accorre colia face. È lei? FANUÈL cade in ginocchio, posando la testa e le braccia sul corpo di Rubria. Martire mia! Gieltz, Respira, Vivrà Asteria appoggia la face ad una pietra vicina, poi corre dal lato sinistro del corpo di Rubria per ajutarila. Squarciale i panni Salvala Asteria, mentre Fanuèl parla, lacera la veste di Rubria sul fianco. È svenuta. Cerca le sue ferite, Io l’ho veduta Sanguinar nuda nel nembo infernale Salvala Cerca cerca sotto il core Là sotto il core la ferì lo strale D'un sagittario. aspettando ansiosamente Ebben? ASTERIA guardando la ferita di Rubria attraverso lo squarcio delle vesti Spavento Muore. FANUÈL Muore Non muoja qui non nell’orrore Di quest’antro Fa per sollevarla e portarla altrove. ASTERIA opponendosi con impeto La getti nella strage divampa il celio, arde il velabro, è l’odio d’un dio su Roma. Il circo è un mar di brage. Se la tocchi l’uccidi scoppia un fragore terribile sulla volta del sotterraneo. Crolla il podio Asteria ha visto qualche riflesso dell'incendio sulla scala d’onde scese e la risale correndo e scompare mentre Rubria apre gli occhi. ALI RUBRIA Ah! FANUÈL tutto chino ‘presso di lei Non temer, son con te. RUBRIA trasognata Fanuèl. Dove son? dove fui? Tu salvo Io viva L’anima mia fuggiva M’offusca un vel Colta da una reminiscenza d’orrore, getta un grido, si sforza di sollevare il capo. FANUÈL con grande dolcezza No. Una mano pia ti ricoperse con la bianca stola. Riposa. Oblia. RUBRIA Chinar dovrei le mie ginocchia a terra d’innanzi a te. Tenta di sollevarsi, ricade. Son ferita non posso. FANUÈL Rubria RUBRIA Pietà l’orror mi riafferra Il Mostro il turbin rosso. Viscere e carni Ascondimi M’ajuta! FANUÈL inorridito Fu il mio grido d’amor che t'ha perduta! (o [4 sd RL STT IRENE RIME ID TI III DI LTTE INT I RIINA TOR ILE TI i i Ì i Ki | Ì i 4 i i | RUBRIA D’amor io t'amo tanto dopo una breve pausa Fanuèl morirò? FANUÈL seduto accosto a lei sullo stesso letto e posandote dolcemente la mano sulla testa e accarezzandole i capelli e la fronte PISTE STE SIT ATI RIETI PATITI LIO III O I TAI sc Vivrai. RUBRIA dolcemente SI SI Oh com'è buona e calda la carezza della tua man Bacia la mano di Fanuètl. PRANZI LETI TIT LIA pu PSI IL Più accanto a me più accanto. Così COSÌ.Tu m’insegnasti questa gran dolcezza Di sorrider nel pianto. M’odi la morte A ogni attimo mi strugge Non pianger, Fanuèl, stringimi forte, Finchè mi stringi, l’anima non sfugge. $r O ALLE TA I Dopo un lungo riposo ed un silenzio di raccoglimento, soggiunge: Servivo un falso altar. Tutte le sere Venìa' coll’ idria del mio tempio... al fonte Dell’orto santo e dopo le preghiere tornavo all’atrio antico, a piè del monte tentai confonder nella stessa vampa l’ara ardente di Vesta e la pia lampa della vergine saggia. Ecco il peccata. Or tutto è confessato, attendo il tuo perdono. Tutta or mi sai, sorridimi. Monda e beata or sono. ERMETICA A FANUÈL alzandosi e ponendole le mani sulla fronte e baciandola, con soavissimo fervore, Benedizion d’ immenso amore accensa sul capo tuo col mio bacio si posa. I iituitiolititiiceste netti rie ss n ur si n PRETI LTL DATI IE VIII RUBRIA sottovoce Fanuèl! Fanuèl! Estasi immensa! Fanuèl torna a sederlesi a lato. Rubria posa la testa sul petto di Fanubl. FANUÈL Tu sei la sposa, l’egra mia sposa che sul cor mi giace. RUBRIA Dimmi, ove siamo? FANUÈL In un asil di pace. Dormi quieta. RUBRIA con voce sempre più fievole Sento che ascende l’ombra d’un vespero strano. Dammi. Fa degli sforzi per continuare a parlare; non può. FANUÈL Che vuoi? RUBRIA con istento La mano. Fanuèl s’affretta a darle la mano. Narrami ancora, mentre m’addormento, del mar di Tiberiade, tranquilla onda che varca in Galilea. FANUÈL quasi cullandola Laggiù, fra i giunchi di Genèsareth, oscilla ancor la barca ove pregò Gesù. Raccoglie Rubria sul suo petto. Quella cadenza languida di cuna invita a stormi i bimbi sulla prora. Dormi tranquilla, dormi. Meo: AIUTO SRL ZE MEIER DAI RUBRIA con un fil di voce Ancòra ancòra. FANUÈL. Lenta salìia dal Libano la luna, era quell’ora in cui sorgon gl’incanti. RUBRIA come un soffio, spegnendosi Ancòra ancòra. FANUÈL colle mani giunte e gl’occhi rivolti al cielo Escian le turbe oranti per la lunare aurora. Sente Rubria inerte fra le sue braccia, la chiama: Rubria. Asteria ritorna scendendo velocemente la ripida scala. Fanuèl continua a ricercare la vita sul cadavere di Rubria. ASTERIA L’ incendio ne avvolge, ogni scampo di là n'è tolto. Divampan le torri, crollano gli archi. Vede un uscio sprangato nella parete sinistra. Un lampo di speranza! Si slancia affannosa attraverso gli ingombri del suolo verso la porta d’uscita, leva la spranga, apre. Sei salvo. Ecco una porta. Esce un istante per esplorare; rientra. Libero è il passo sulla soglia d’onde è entrata Accorri, accorri! FANUÈL sul cadavere di Rubria Morta. Asteria scuote Fanuèl e lo trascina insino all'uscita. VELA EDARISCAI RED RR MR ARIE rat tn IRSISILI E I FTT ITANI EN AZZIONDANT TI FIATI DE e AR TANI PINNA DIR RE ENIT NIE ST Va CNMI TE FANUÈL dalla soglia, con un ultimo sguardo Rubria, addio. Scompare dalla porta d’onde entrò Asteria. Asteria udendo quel nome ritorna vicino alla morta. ASTERIA con esirema violenza Rubria? Tu? Quella che il mio truce iddio ghermì sull’ara, tu, rispondi, tace. Lo spoliarium incomincia ad essere invaso dal fumo. Dimmi Pardor del suo bacio vorace verso cui tende spasimando il mio, poi, d’un tratto, con immensa pietà martire santa. S'inginocchia, estrae dol seno il fiore della via Appia e lo lascia cadere sulla morta dicendo: Pace, pace, pace. Si sprofonda una parte della volta. Asteria si salva fuggendo da dove è uscito Fanubl. DEAR er a i Ù detiia Told e ID i DITER) II RIETI EA ia AI PA a I HU LA n PRI ARENA QUARERAA LOGO ATSIRONT NO Id vi NABLAPOTNO DO MUPh il ti : UA NI N i, DA IRRCUn). i N MLM sti ci Mg AV [RRIDIV UR UTA dl Mino, VA patria Ir Uli Nati x MI Mu iva! VIBO TIVI HA |î sit MATICOPO ANASROT TAMARA IMGRNNLI “n I s Tua Ld r ti RS N f Ii DA 10 LR ITRIONT IR A IRIOVRARI Va; |ang ; \ DON NT] D) A ONIRI Ù IUSR (VERSA » Dieta Îl i i aloni RUBA N INIT i fi gue Al< Ù {UTI: D) dati. DA) y LI î ANITA AMARARA ha] in |glio ti w Mi ii dt Tu hi) anni LIMIULAA Ti Lava NANI GUAI CORVI IOLANTÀ IR00 ba DI i LE "RIA N IRA 4 IA » Hu) 4 RO i MEU xi s/ OAV VR Dal O A Mi TIC I LITRI APIÙ Ù% Ù “INA SANT) HU SEI Le SAR N UE STE } vi DI a IT Ri MA ERCANE Uli a SRI, DISLI. NNT Monni LI) i i Si WATAG LL f Ti î) dI SITI RO Th T ti CR TITO Mo k 1 LU ) È hl MIGRUAIZZO Vi Word: ti "ili Do toi È dl 0A] NI MAgLNIOd; Da PUO ERA LA] TAAZAMIT Mot 4 pl De î MOCCENTUCIV I dle i ate PTT, K He VARI LIRE) ;) 7107 000! LATO: AI ATC (4 #0 viti ; mg: pi PUMP AA BOITO: “NERONE” IL MELODRAMMA. Lucio Domizio Enobarbo. Sepolto a Colle Pincio presso la tomba di famiglia dei Domizii Ahenobarbi Nerone.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nesi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – adulescentuli oratiuncula – Sono dalle celeste sphere Venere: perche  amore inspiro: dagl’elementi fuoco: perché  d’amore accendo da uoi con vocabul greco CHARITÀ chiamata: perché col mio ardore della GRAZIA della salute viso degni – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice: “It all reminds me of my principle of conversational candour!” -- Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I once had a fight with Nowell-Smith; he was saying that a philosopher should not be a moralist; I told him that by that token Nesi wasn’t one!” – “De moribus” Figlio di Francesco di Giovanni e di Nera di Giovanni Spinelli, si dedica interamente agli studi filosofici. Strinsge stretti rapporti con i principali umanisti fiorentini dell'epoca, tra cui ACCIAIUOLI e FICINO (si veda). Influenzato dall'operato di Savonarola, ricopre anche diverse cariche politiche. Altri saggi: “Adulescentuli oratiuncula”; “Orazione del corpo di Cristo”; “Orazione de Eucharestia” “ Orazione sull'umiltà” “Sulla carità”; “De moribus”; “De charitate”; “Oraculum de novo saeculo, Canzoniere, Poema. Treccan Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Obviously, Nesi is not having Davidson in mind. But Nesi is wrong in identifying GRAZIA with CHARITA, ‘greco vocabull” – this is an etymological blunder. The charities were indeed three – Eglea, Eufrosina, e Talia – and they danced mainly to eroticse Mars, or more frequently Giove and Mars together --. Of course the expression ‘gratia’ is not cognate! – For Davidson, charity is what the Italians refer to ‘carità’, formed out of ‘carus’ – the spelling with ‘ch’ is a French corruption! So to be charitable, in Davidson’s interpretation, is to be kind, caro. Not graceful! --. Grice: “If Davidson doesn’t know his Greek mythology, that’s not my fault --. Instead of his singular principle of charities, I will take the liberty to sub-divide it into three maxims – The first maxim refers to the first charity, Aglae: splendour; thes second maxim refers to the second charity, Eufrosina, mirth; the third maxim refers to the third charity, Talia, cheer. In Kantian format, these counsels of prudence become: be splendorous – or try to make your conversational move one that is splendorous; be merry – or try to make your conversational move one that will carry mirth to your co-conversationalist; and ‘be cheerful’, try to make your conversational move one as if it was spawned by Thalia!” -- Giovanni Nesi. Nesi. Keywords: adulescentuli oratiuncula, principle of charity, Davidson on charity on Grice. Who was the first Englishman to use ‘charity’ as a hermeneutic principle? Butler. Grice speaks of self-love and benevolence. Benevolence – and charity? Grice is not so much concerned with Beneficenza or Malificenza, but with Benevolenza, and Malevolenza – where does charity fit? What was Ciceronian for charity. What is pre-Christian about charity? Charisma, charitas, folk etymological confusion here – caritativo – carita – caro, “le tre carità in armónico conubio” “tre carità”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nesi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nicolao: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma –filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Among his pupils are the two half-Egyptian sons that Marc’Antonio has with Cleopatra. N.e writes a biography of OTTAVIANO (vedasi), and the two became friends. Grice: “It must be said that this was an INCOMPLETE biography!”. Nicolao. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nicolao.”

 

 Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nicoletti: la ragione conversazionale -- quadratura ed implicatura conversazionale – la scuola d’Udine -- filosofia friulana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Abstract. Grice: “At Oxford, Wykeham is slightly below both White (slightly below) and Waynflete (that reigns supreme). Filosofo friulano – filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia Giulia. – Grice: “His diagramme for ‘arbor porphyriana’ is also brilliant – ending with “Plato,” “Socrates.”” -- Grice: “I especially like his squaring the square of opposition!” -- Grice: “A veritable genius, this Nicoletti.” -- Not under ‘Venezia’! -- paolo di venezia: philosopher, the son of Andrea Nicola, of Venice He was born in Fliuli Venezia Giulia, a hermit of Saint Augustine O.E.S.A., he spent three years as a student at St. John’s, where the order of St. Augustine had a ‘studium generale,’ at Oxford and taught at Padova, where he became a doctor of arts. Paolo also held appointments at the universities of Parma, Siena, and Bologna. Paolo is active in the administration of his order, holding various high offices. He composed ommentaries on several logical, ethical, and physical works of Aristotle. His name is connected especially with his best-selling “Logica parva.” Over 150 manuscripts survive, and more than forty printed editions of it were made, His huge sequel, “Logica magna,” is a flop. These Oxford-influenced tracts contributed to the favourable climate enjoyed by Oxonian semantics in northern Italian universities. Grice: “My favourite of Paul’s tracts is his “Sophismata aurea”how peaceful for a philosopher to die while commentingon Aristotle’s “De anima.”!” His nom de plum is “Paulus Venetus.”— Nicoletti and Grice: Dissolving the Insolubilia ̶ The Dictum, the Implicatum, and the Significatum vis-à-vis the Emissum and the Consecutum By S. R. Read and J. L. Speranza Abstract In ‘Consequence, Signification, and Insolubles in Fourtheenth-Century Logic,’ in Logica Universalis, Read expands on a Danish logician’s claims against this externalist semantic idea that consequence may be defined or analysed in terms of containment –more specifically in terms of ‘signifying on what is actual.’ The insights by Dummett on meaning transparency are assessed, plus a few contributions by H. P. Grice seriously re-considered, as pertaining to the topic. Hoping it not to be yet another case of obscurus per obscurius, the issues of privileged access and incorrigibility, and what lies beyond m-intention are discussed, as they apply to a possible dissolution of some of the trickiest sides to the insolubles Keywords: Nicoletti, H. P. Grice, signification, significatum, imposition, philosophical psychology 1. What Nicoletti meant In ‘Consequence, Signification, and Insolubles in Fourteenth-Century Logic,’ Read makes, if we may say so, a majestic use of a rather majestic adverb: ‘anachronistically.’ We offer these notes as an exploration in the genre! The anachronism is NOT, however, about what Grice would have learned as the Merton Scholar he was, had he spent more time at the Bodleian reading Dumbleton on de Nicoletto – or Nicoletti, as Venetian Paul’s surname went -- rather than playing cricket. In the Dizionario friuliano, one reads of Nicoletti’s ouvre: “la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo,” going on to add: “Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia” -- and we follow suit! Our anachronism lies, rather, in an echo of Malcolm Bradbury – Eating people is wrong -- , on the very influence of H. P. Grice on the oeuvre of Paul of Veneto – his Merton scholar predecessor, we hope! What did Nicoletti mean? Or was it his words that mean it? In what he felt like titling ‘Prejudices and predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice,’ H. P. Grice reminsices: “In my own case, a further impetus towards a demand of the provision of a visible theory underlying ordinary discourse came from my work on the idea of Conversational Implicature, which emphasised the radical importance of distinguishing (to speak loosely) what OUR WORDS say or imply from what WE in uttering them IMPLY: a distinction seemingly denied by Wittgenstein, and all too frequently ignored by Austin.” Grice in Grandy/Warner, PGRICE, p. 59. First instance of obscurus per obscurius? “Seeminly denied by Wittgenstein, and all too frequently ignored by Austin.” And we feel like adding: Never mind Nicoletti – a. k. a. Paolo Veneto -- only that Nicoletti, being from the Friuli, would hardly have used ‘say’, ‘imply’ or ‘MEAN,’ which hides behind Grice’s remark. 2.Nicoletti on signification So, if you feel like two oxymora for the price of one, it would be like what Grice would have done with ‘signification,’ seeing that he rather hated the word, and what Nicoletti would have done had he had recourse to Grice’s views on meaning. Admittedly, Nicoletti wasn’t Anglo-Saxon enough to use it – but Grice’s mean (German meinen) has a few cognates in Nicoletti’s vernacular – notably: ‘mentire’ and ‘mentare’. So why did he choose ‘significatio’ and ‘significare’ instead? This is a serious question. A good thing, and a bit of a breath of a fresh air, about Nicoletti – that won’t necessarily feel fresh to Grice --, is that Nicoletti indeed uses ‘significatio’ -- not ‘meaning,’ on which Grice based his career – and procures a whole theory about it. As an Anglo-Saxon, especially when delivering his informal talk to the Oxford Philosophical Society, Grice felt in good terrain with just plain ‘mean.’ (“Those spots mean measles, to the doctor; to me, they were meaningless.”) Grice would hardly have used ‘teach,’ which, after all, is a bit of a stricter equivalent to ‘significare’ (cf. Italian ‘insegnare’), and a verb derived from the Anglo-Saxon for ‘sign,’ the ‘token’. A token is, after all, a sign. But ‘making a token’ doesn’t quite do as a rendition of what Nicoletti means by ‘signi-ficare,’ with his little obsession -- against Rimini, the only author Nicoletti refers to by name in his opus maior -- and along Mantova, with ‘imponere’. (As Read notes, Peter of Mantua: “Logica,” cited in Pozzi 1978:281 – “A consecution indicated by ‘if’ or ‘therefore’ cannot stand with the first without NEW IMPOSITION [of meaning] or can be convertible with one such without new IMPOSITION.”) Grice, unlike Nicoletti, but like, say, Boethius, or Hobbes, as we shall see, was obsessed with natural meaning, but so was Freud. While Read does wonder if it should be from the shrewd logician that we learn about what we mean, it may well be your psycho-analyst who reveals what you mean by either your insoluble or your slip of the tongue – especially if Occam and D. F. Pears (Motivated irrationality) are both right, and it is what you NATURALLY mean that matters! Read has edited Nicoletti’s oeuvre. As did Conti, in Nicoletti’s native Italy. In most passages, it is clear that Nicoletti would hardly carry, or care about, a ‘Griceian’ approach to meaning. (Our spelling of ‘Griceian’ incidentally follows Katz, and it’s not a typo – Gricean sounds so much brusquer. It’s all about the grammar. Significare is not ‘signare,’ so we shouldn’t worry too much about the Roman-scholastic tradition on the taxonomy of _signs_ (Naturalia or Arbitraria, etc.). Significare seems to ‘involve’ signs, but in a subtler manner. It seems to be a matter of grammar in that a philosopher such as Nicoletti seems to be interested not so much in who or what does the signifying, but on what is it that is signified – the ‘significate,’ as Read puts it – or, not for short, the significatum. When it comes to the who or the what – the ‘vehicle’, it is the UTTERER that bears all the primacy for Grice. While medieval logicians do speak of the audience – auditor -- , or addressee – and even about his or her ‘soul’ or animus -- but they never seem to be too clear about the utterer, or his or her intentions in so doing ad significandum this or that, to use Hobbes’s phrase in his own Computatio. Indeed Nicoletti: “Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus” deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca Jüfferentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris, quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta.” Logica. Why is the question of primacy crucial? One thing is to say that the utterer’s signification (or meaning) is pivotal or primary – and Read refers to what we may signify or fail to do when uttering an insoluble. Another thing is to DEFINE any further specifications (what an uttererance means, what the part of an utterance means, what a ‘word’ or ‘terminus’ means when we call it, as Nicoletti does, significativus) in terms of utterer’s meaning. Grice proposes a few such definitions in WoW, where ‘p’ – the significatum – is a dummy on both sides of the equivalence: ‘For utterer U, expression S means “p” =df U has a resultant procedure for S, namely to utter S if, some some Auditor A, U wants A to psi – generate in his soul the psychological attitude with content) that p. Or: ‘S1 in v(S1S2) means p’ – for a terminus significativus which is part of an oratio significativa =df U means by vSS that q and U intends A to recognise that U meant by vS that q at least partly on the basis of A’s thought that U has a resultant procedure for S, namely (for suitable auditor A’) to utter S2 if U wants A to psi – generate in his soul the psychological attitude, that p) (WoW:129). 3.Nicoletti on meaning But meaning is a noun, not a verb. Of course, Nicoletti would hardly need to be providing the necessary and sufficient conditions for his use of ‘significare’ as a verb. And most likely, had Aristotle NOT used ‘semeion’ in Peri Hermeneias, Nicoletti would hardly be speaking of signs either (As it happens Grice gave public seminars jointly with Austin on De interpretation at Oxford, that Acrkill, for one attended.). Aristotle – as Maietti notes in his Teoria del segno nell’antichità classica – provides the theoretical framework for all this. A vocal emission – or, as Grice would have it, a whole utterance or an utterance part – SIGNIFIES – because it is a sign, and a vocal sign at that. An utterer does not signify because it is a sign, but because he (or she, or it, S/H/It) makes this or that sign. (Mainetti goes on to note, with Eco, that there were two paradigms for the sign, one that treated it as an EQUIVALENCE (cf. Containment below). Another, which regarded it as a mere ‘consequence.’ Quotation below. This is Aristotle’s semantic triangle. A SIGN, when vocal, is a sign of the PHANTASMATA, which in turn refer to the things out there. de Saussure found it very natural to translate this as the signifier and the signified. But unlike the Greek language, which has the simpler non-composite, ‘semein,’ and while Latin could just stay with SIGNARE, they – Cicero included – had to add the -ficare. So it’s SIGNI-ficare. And the rest is history and Nicoletti. But the grammar of ‘signify’ is odd, perhaps more odd than Grice found ‘mean’ to be. Bennett once spoke of Grice’s meaning-NOMINALISM (in Synthese) because his way is to start what an individual one off utterer means by an individual one off utterance. Never mind your generalised implicatures. Read draws various schemes with ‘signify’ – which Read abbreviates as the function ‘Sign’ -- p and q, and various connections. Of course, in the end, Nicoletti and Grice seem interested in what, for logical purposes, we should see as ‘signify’ (or ‘mean’) only as being followed by what Austin has as the ‘that’-clause (OED for ‘that’-clause): the SIGNIFICATUM. For example, that Socrates uttered a falsehood. Consider this case brought up by Grice, which bears on the question of how much of what one utters is signified. But this leads as to aequivocation and the issue of the privileged access – or what Read has as Dummett on the transparency of meaning. Grice’s tutor, Hardie, tells Grice: “I want you to bring me a paper tomorrow.” Let’s suppose that this being Grice’s first tutorial – as a pupil – and trying his best, and having thought that this is what Hardie meant (signified) when he said/uttered what he uttered – brings a copy of THE TIMES and not a piece of written word, in ‘significatum’ terms we would have. Hardie, was wrongly thought to have SIGNIFIED (significatum) _that_ Grice was to bring a copy of a newspaper. Grice uses the example in an early paper on G. E. Moore and Philosopher’s Paradoxes – a bit like the insoluble -- to justify the ascription of privileged access and incorrigibility to one’s judgements about one’s one meaning – hardly Nicoletti’s focus, who’d rather focus on his auditor’s such judgements. Imposition! Read quotes Mantova as using IMPOSITION, and this is a rather interesting point, as it shows that philosophers should not STICK with this or that idiom (significare, meaning): a natural language usually provides you with quite a gamut of synonyms. When talking ‘impositio,’ Mantova seems to be thinking of THESEI, as opposed to PHYSEI. After all, a sign means what it does, either by nature, or by convention, er, imposition. And if you mean something other than what you do by ‘if’ or ‘therefore’ you better invoke a different imposition for either! Similarly, Grice had to his avail MANY various forms to express this idea of ‘conveying meaning’: to mean, to suggest, to imply, to insinuate. At the EXPLICIT level, there is “to say” that – the DICTUM. And oddly, Grice kept using Hare’s paraphrasis of this in terms of ‘dictive content.’ (In his Oxford dissertation, Hare had used ‘dictor’ for who or what does the saying, and dictum for the ‘that’-clause that follows an ascription of a saying. So Nicoletti must know, we hope, that there is a way to express what Socrates SAID when he said that he was uttering something false, as opposed to what he was MEANING – significando – or what he was merely implying – IMPLICANDO, never mind what he thought the consequence – or CONSEQUTM – was behind his EMISSUM! Of course, this meaning/signification talk all compares with Hobbes, and earlier, Ockham -- alphabetically under ‘de’, as Read has it. For Occam, however, it’s a bit of complication. A circulus outside a tavern MEANS (naturaliter significat) that wine is being sold. Or is it non-naturally? The convention may not be universal, even if iconic. Hobbes will have a bunch of grapes hanging out as meaning ARBITRARILY that such is the case. But on the other hand, while for Hobbes ‘voces’ arbitrarily signify if they are the consequents of the motions of our sould, for Occam, a short outburst of laughter (risus) will naturally signify (naturaliter significat) the joy brimming in one’s soul (laetitam animae), while a furtive tear will equally doe (naturaliter significat), in this case, dolorem. But Occam seems to have gotten all things wrong when he came to wonder about the ‘sermo’ mentalis – is this the natural belief that Dumbleton has in mind when criticizing Bradwardine – that, for Occam, signifies naturaliter -- all across mankind, never mind his English nation. Significat non-naturaliter is hardly used by Occam, which is a shame. Since he would rather not multiply significationes beyond necessity, one hope the regressus has at one point to stop. V. Cummings, Meaning and representation, on the homunculuar view taken by some Griceians, for which you have an utterer meaning that p, and that same p now meaning again that q. Cf. Read on citing the refutations to the containment claim: ‘what is signified by your uttering of your sentence, Socrates, is not the sentence that you are uttering a falsehood, but that you are uttering a falsehood, simpliciter. It would still be hardly of any historical interest to rephrase every collocation by Nicoletti of ‘significatio’ and its cognates by a Griceian collocation of ‘meaning.’ Some readers of Grice’s Meaning – or some of his auditors at the Oxford Philosophical Society, where it was first delivered -- may find his claim that ‘Words are not signs’ rather obtuse or crass, but he liked to provoke! For one, words are not signs – or ‘signes’ – for Hobbes either. “Voces” ARE. But ‘Words are not signs’ is one of the TWO reasons Grice gives to choose ‘meaning’ over ‘signification’. The other being that some things that may mean are not conventional. But they are not conventional either for Hobbes: they are ARBITRARY. Rephrasing from Grice: Don’t expect me to use the natural-sign/conventional-sign distinction, but trust me that meaningN and meaningNN does better. For one, not everything that means is a sign. Words are not. For another, there’s non-conventional meaning. It is interesting to note that while he lectured at length on Peirce – he was University Lecturer as well as Tutorial Fellow -- Grice’s paper on ‘Meaning’ only quotes Stevenson by name, and the essay by Stevenson that Grice quotes (Ethics and language, then a bit of novelty) does have ‘mean,’ but in scare quotes (!) for those cases like Grice’s epigrammatic ‘Those spots ‘mean’ measles.’ Stevenson would be associated with anything -- BUT animism! When Andreas Kemmerling was writing his doctoral dissertation at Bielefeld on Grice on meaning he ended up asking: Was Grice mit meinen meint – for Kemmerling couldn’t sympathise with all the trials and tribulations Grice undergoes with a peculiar piece of Germanic lexicology. The Latin language, as it happens, does use the ‘mean’ root, as it distinguishes between MENTIRE (to lie) and MENTARE (to mean), but neither Grice nor Nicoletti ever spent much time on this, and besides Kemmerling, few would see why they should! The idea of using the root for ‘mind’, i. e. meaing, is prone to inviting not just accusations of animism, but naturalism! Spots ‘mean’ measles, because Nature, i. e. God, ultimately -- means measles by the spots. SIGNIFICATIO does not fare any better, and, as Grice saw it back in 1948, it had become a bit of scholastic jargon – or techno-crypticism as Grice prefers --. Proof of its status of jargon is that while Italian developed the Latin SIGnum into SEGno, it still preserves ‘SIGnificatio’ as a doublet. And while de Saussure might disagree, anyone speaking a Romance language would find it VERY intimidating to be challenged with one ‘What do you SIGNIFY by that?’ when, in most contexts, the admittedly arid and rather silly ‘vollere dire’ seems to provide a more vernacular replacement. But a few other, more theoretical, insights by Grice on meaning do trade on Nicoletti’s points, as we sail through the insoluble. Let’s try and number some of them. 4.Privileged access and incorrigibility. Suppose we would like to expand a bit deeper on that conversation between Grice and his former tutor at Corpus Christi. On wanting to fulfil his tutor’s desire, and after his very first tutorial, Grice hands Hardie a copy of THE TIMES with the remark, ‘Here is what you asked for. Q. E. D.’ Grice will later elaborate on this merely exchanging roles, and having himself in the part of the straight man and his own pupil, Strawson, as the challenger to the philosopher’s paradox or insollube He is now the tutor of P. F. Strawson, for his Logic Paper in the P. P. E. programme, and utters, “I want you to bring me a paper tomorrow.” Grice goes on to expand on the very absurdity of Strawson’s very idea that HE (Strawson) KNOWS what Grice MEANS more than Grice does! Grice enjoyed the final section of this early paper on “G. E. Moore and Philosopher’s Paradoxes” (c. 1953-1958) and used the occasion of the publication of the William James lectures by Harvard University Press to add it to the compilation, in Part II of what he rather pretentiously calls ‘Semantics and Metaphysics’: I suspect that some philosophers have assumed or believed that ‘mean’ means ‘mean’ (that what what a man says he means is paramount in determining what he does mean) because they have thought of ‘meaning so and so’ as being the name of an introspectable experience. They have thought a person’s statements about what he means have just the same kind of incorrigible status as a person’s statements about his current sensations, or about the colour that something seems to him to have at the moment. It seems to me that there are certainly occasions when what a speaker says he means is treated as specially authoritative. Consider the following possible conversation between myself and a pupil. Myself: I want you to bring me a paper tomorrow. Pupil: Do you mean that you want a newspaper or that you want a piece of written work? Myself: I mean a piece of written work. Grice goes on to comment. It would be ABSURD at this point for the puil to say, ‘Perhaps you only THINK, mistakenly, that you mean ‘a piece of written work,’ whereas really you mean ‘a newspaper.’ And this absurdity seems like the absurdity of suggesting to someone who says he has a pain in his arm that perhaps he is mistaken (unless the suggestion is to be taken as saying that perhaps there is nothing physically wrong with him, however his arm feels). It is important to notice that although there is this point of analogy between meaning and having a pain, there are striking differences. A pain may star and stop at specifiable times; equally something may begin to look red to one at 2:00 P. M. and cease to look red to one at 2:05 P. M. But it would be ABSURD for my pupil (in the preceeding example) to say to me, ‘When did you being to mean that?’ or ‘Have you stopped meaning it yet?’ Again there is no LOGICAL objection to a pain arising in any set of concomitant circumstances; but it is surely absurd to suppose that I might find myself meaning that it is raining when I say’I want a paper’; indeed, it is is ODD to speak at all of my finding myself meaning so and so, though it is not odd to speak of my finding myself suffering from a pain. At best, only VERY SPECIAL circumstances (if any) could enable me to say ‘I want a paper,’ meaning thereby that it is raining. In view of these differences, we may perhaps prefer to label such statements as ‘I mean a piece of written work’ (in the conversation with my pupil) as ‘declarations’ rather than as ‘introspection reports.’ Such statements as these are perhaps like declarations of intention, which also have an authoritative status in some ways like and in some ways unlike that of a statement about one’s own current pains. Grice goes on. But the immediate relevant point with regard to such statements about meaning as the one I have just been discussing is that, insofar as they have the authoritative status which they SEEM to have, they are not statements which the speaker could have come to accept as the result of an investigation of a train of arguments. To revert to the conversation with my pupil, when I say ‘I mean a piece of written work,’ it would be quite INAPPROPRIATE for my pupil to say ‘How did you discover that you mean that?’ or ‘Who or what convinced you what you mean that?’ And I think we can see why a ‘meaning’ statement cannot be both especially authoritative and also the conclusion of an argument. If a statement is accepted on the strength of an argument or an investigation, it always makes sense (though it may be foolish) to suggest that the argument is unsound or that the investigation has been improperly conducted; and if this is conceivable, then the statement maker MAY be mistaken, in which case, of course, his statement has not got the authoritative character which I have mentioned. Grice continues. But the paradox-propounder who relies on the type of argumentation I have been considering requires BOTH that a speaker’s statement about what he means should be especially authoritative AND that it should be established by argumentation. But this combination is impossible. A further difficulty for the paradox-propounder is one which is linked to the previous point. There is, I hope, a fairly obvious distinction (though also a connection) between (a) what a given expression means (in general), or what a particular person means IN GENERAL by a given expression and (b) what a particular speaker means, or meant, by that expression in a particular occasion; (a) and (b) may clearly diverge. I shall give two examples of the ways in which such divergence may occur. (1) The sentence ‘I have run out of fuel’ means in general (roughly) that the speaker has no material left with which to proper some vehicle which is in his charge; but a particular speaker on a particular occasion (given a suitable context) may be speaking figuratively and may mean by this sentence that he can think of nothing more to say. (2) ‘Jones is a fine fellow’ means in general that Jones has a number of excellences (either without qualification or perhaps with respect to some contextually indicated region of conduct or performance); but a particular speaker, speaking ironically, may mean by this sentence that Jones is a scoundrel. In neither of these examples would the particular speaker be giving any UNUSUAL SENSE [cf. Dummett] to any of those words OR SENTENCES; he would rather be using each sentence in a special way, and a proper understanding of what he says involves KNOWING the STANDARD use of the sentence in question. (3) A speaker might mean, on a particular occasion, by the sentence ‘It is hailing’ what would standardly be expressed by the sentence ‘It is snowing’ EITHER if he had MISLEARNED the use of the word ‘hailing’ OR if he thought (rightly or wrongly) that his addressee (perhaps because of some family joke) was accustomed to giving a private SIGNIFICANCE [Nicoletti signification – S. R. Read, Sign -- to the word ‘hailing.’ In either of these cases, of course, the speaker will be using some particular word in a special nonstandard sense.” (‘G. E. Moore and Philosopher’s Pardoxes’ c. 1953-1958), in WOW – way of words, pp. 166ff – paper from p. 154 to 170). Grice goes on with two further paragraphs on this, till the end of the paper, that trade on the attempt to use utterer-based meaning against philosopher’s paradoxes or insolubles. The issue of incorrigibility and privileged access as it sort of obsessed Grice when dealing with paradoxes and insolubles, attests in two other pieces. In his own autobiography, Bruce Aune recalls that, upon arriving at Oxford, quite a few years after Austin’s demise, and joining Grice’s Play Group on Saturday mornings, Aune was nicely surprised by the fact that Grice showed a some sincere interest in Aune’s view on avowals, as presented in an early paper. The other source explains Grice’s possible motivation for this. In his “Method in philosophical philosophy: from the banal to the bizarre” – American Philosophical Association Presidential Lecture -- Grice makes a point about a transcendental justification, alla Kant, for the incorrigibility and privileged access of some – not all -- of our propositional (or psychological, as he prefers) attitudes. Meaning may be one of those. 5. Above board. Read makes a passing but insightful note about M. A. E. Dummett on the transparency of meaning. As a matter of fact, Grice ends up making this a necessary condition for his analysis of utterer’s meaning. When writing his Retrospective Epilogue for Harvard University, he wondered to what point something that is being merely insinuated in a rather obscure way may count as meaning so and so. What have I communicated? In his step-by-step reductive (but not reductionist) analysis of utterer’s meaning he comes up with what he calls the anti-sneak clause to avoid Searle’s example of the American soldier who, caught by the Italian troops during the second World War, utters the insoluble Kenst du das land wo die Kitronen bluhen to mean that he is a German soldier. Just as, to use Grice’s own example, a knick-knack seller in Port Said may mean that the British sailor is so welcomed by uttering Arabic for ‘You pig of an Englishman’. In a sort of self-referential way, Grice would end up analysing “U means that p” iff, among other things, there is no inference element E such that U intends that U has been using yet NOT to be recognised by his addressee. Davidson made a point about this, as Humpty Dumpty had done before. Humpty Dumpty cannot mean that Alice and he should change the topic’ by uttering ‘impenetrability’ because as he allows, ‘of course you don’t know that until I tell you.’ 6. Beyond m-intention. In 1948, for the Oxford Philosophical Society, then, as Grice expanded what was then a pretty revolutionary view of meaning, in one paragraph that bears on Nicoletti, Grice wonders. What if utterer U means that p, and an effect on his auditor’s addressee A’s frame of mind (auditoris animus) is that A comes to believe that q, on his own terms. The wording in ‘Meaning’ is causalistic, and if consequence is meant, it is consequence as effect: One point before passing to an objection or two. I think it follows that from what I have said about the connection between meaningNN and recognition of intention that (insofar as I am right) ONLY WHAT I may call the PRIMARY intention of an utterer is RELEVANT to the MEANINGnn of an UTTERANCE. For if I utter x, intending (with the aid of the recognition of this intention) to induce an effect E, and intend this effect E to lead to a further effect F, insofar as the occurrence of F is thought of NOT to be depend solely on E, I cannot regard F as IN THE LEAST dependent on recognition of my intention to induce E. That is, if (say) I intend to get a man to do something by giving him some information, it cannot be regardd as relevant to the meaningNN of MY UTTERANCE to describe what I intend him to do. Interestingly, Patton uses this as an argument against Kripke to the effect that it’s all about Speaker’s Meaning (Philosophical Review) – uttering ‘the cops are around the corner’ to mean that the other thief should leave he booty and run. Grice elaborates on that in his William James Lectures. He lists as an alleged counterexample directed towards showing the three-prong analysis of utterer’s ‘signification’ too strong” (p. 107): Conclusion of argument: p, q; therefore r (from already stated premises). While U intends that A should think that r, he does not expect (and so intend) A to reach a belief that r on the basis of U’s intention that he should reach it. The premises, not trust in U, are supposed to do the work. (p. 107). He goes on to propose a possible remedy (involving the important notion of activated belief – cfr. Dumbleton on Bradwardine and Nicoletti and the insoluble) and reaches out a re-definition of ‘signification’ to exclude precisely such a case as one of ‘signification.’ Like Nicoletti, Grice cared about reason, and ‘reasoning’ – a value-oriented notion if ever there was one (like ‘sentence’, or ‘cabbage’). In his Kant lectures on reasoning at Stanford – redelivered at Oxford as the Locke lectures – he missed a few points which he re-addressed in his PGRICE contribution, which, as we noted, he originally felt like entitling, “Prejudices and predilections; which become, the life and opinions of H. P. Grice.” (He never went by Paul Grice at Oxford – always H. P. Grice, in the proper way). They first very properly refer to my discussion of ‘incomplete’ reasoning in my John Locket lectures, and discover there some suggestions which, whether or not they supply NECESSARY conditions for the presence of FORMALLY incomplete or IMPLICIT reasoning, cannot plausibly be considered as JOINTLY providng a SUFFICIENT condition; the suggested conditions are that (a) the implicit reasoner INTENDS that there should be some VALID Supplementation of the explitly present material which would justifu the ‘conclusion’ of the incomplete reason, together perhaps with (b) a further DESIRE or INTENTION that the first INTENTION should be causally efficacious in the generation of the reasoner’s BELIF in the aforementioned conclusion. So it seems that, like with Nicoletti, for Grice, meaning and signification were ultimately a matter of philosophical psychology, as they should be. 7. The consequtum While Read is concerned with consequence more than he is with signification, it is interesting to note that like Hobbes had done in his COMPUTATIO, when it comes to signs – for Hobbes – or meaning, for Grice – CONSEQUENTIA seems to be at the root of both ‘natural’ and ‘non-natural’ (or artificial) sign. We doubt, as we say, that Nicoletti would have use ‘signify’ in vernacular conversation, being as it is much of a piece of scholastic jargon. If I make signs, I would be treated as not quite as the Oxonian Nicoletti otherwise would. The relevant passage in Grice is in his “Meaning” revisited, where he argued that in both ‘Smoke means fire’ and ‘I mean I love you,’ the shared element is that p is a consequence of q. On general grounds of economy, I am inclined o think that if one can avoid saying that the word so-and-so has this sense, that sense, and the other sense, or this meaning and another meaning, if one can allow them to be VARIANTS under one single principle, that is the desirable thing to do. Don’t multiply senses beyond necessity. And it occurs to me that the ROOT IDEA in the notion of meaning [[ or Nicoletti SEGNUM ]], which in one form or adaptation of another would apply to both these cases [Black clouds mean rain, My words mean so-and so’] is that IF X MEANS THAT Y, this is equivalent to, or AT LEAST CONTAINS as a part of what it means, the claim that Y IS A CONSEQUENCE OF X. That is, what the cases of natural and nonnatural meanin have in common is that, on some interpretation of the notion of consequence, Y’s being the case is a consequence of X. Read refers to Dummett, on meaning transparency, and, as it happens, seas of language, and all, Grice has a few nice things to say about Dummett. For one, apparently Austin never wanted Dummett in the Saturday mornings. Wrigley, who was a student of Grice, approached him once with ‘Have you read Frege philosophy of language? For that is what I intend to base my doctoral dissertation on’ ‘I haven’t,’ Grice responded – ‘and I hope I won’t.’ 8. Implicatum, Significatum, Dictum – plus the Emissum: where the Consequtum fits in While Grice had a thing or two about meaning, it is notable that when providing a taxonomy of the ‘total’ SIGNIFICATION [sic] – cf. Read on Nicoletti – of a remark he goes on to divide it between the DICTUM – ‘what is said,’ – “in in favoured use of this expression” – and what is IMPLICATUM. So where does the SIGNIFICATUM fit it? Consider Read’s variations on the insoluble. It may well be the case that, if someone utters ‘Socrates uttered the false,’ one might claim that WHAT WAS SAID – dictum – has no meaning – no SIGNIFICATUM. This is not precisely Grice’s view, who holds a ‘favoured’ yet pretty broad conception of ‘dictum’. He famously said in the second William James lecture that if reference is known to both parties in the conversation, an utterer says either ‘The Prime Minister is a good man’ and or ‘Harold Wilson is a good man,’ we may grant that in either occasion he has said the same thing as he otherwise would! In introducting IMPLICATURE, Grice takes special care to consider the Latinate IMPLICATUM as the past-participle form; it’s a concoction – although used by Sidonius, Latin Dictionary -- said to do duty for not just ‘imply,’ ‘suggest,’ or ‘insinuate,’ but plain ‘mean’. (You should say what you mean – the March Hare). It may all boil down, again, to this past-participle, passive-voice ‘by’ construction. SIGNIFICATUM, But significatum by who or what? IMPLICATUM. But implicatum by whom or what? DICTUM, but by whom or what? Cf. Read on Sign. It is not wonder that the mediaeval logicians were writing puzzles on what is meant by ‘Socrates said something false,’ as not SIGNIFYING the proposition or sentence that Socrates said something false, but merely as signifying, simpliciter, that Socrates said something false. Seeing that Read adopts “Sign” as a function – for ‘signification’ – to explore the logical form, as it were of the various claims related to Nicoletti, it may do to revise what Grice meant by trying to analysemeaning or Nicoletti may have meant by signification. When challenged by Mrs. Jacks that he was offering a reductive theory of meaning, Grice played on the fact that he’d be at most offering an ‘analysis,’ never a theory! For Grice, ‘p’ – what is SIGNIFICTUM, DICTUM, IMPLICATUM -- is then a dummy, and he proposes an analysis of meaning in terms of its necessary and sufficient conditions. This is why in his example of the conclusion of an argument, one would hardly say that one means that r, in a conclusion of an argument, that has p and q, as premises. Grice has to restrict the analysans in terms of activated belief. And this yields in turn to a re-definition that leaves that problematic case as not falling under a case of something which is SIGNIFICATUM by the utterer. When Nicoletti speaks of the ‘animus’ of the ‘auditor’ – one feels he must be having something Griceian in mind, and not telling! It is interesting however to dwell a little on the ‘auditor,’ because, like Grice, Nicoletti does not wish to lose sight of the PHYSICAL side to the phenomenon under consideration. When de Saussure, the alleged Swiss father of modern linguistics, approached this, he had the Latin language to his disposal, so it’s all about the SIGNIFIE and the SIGNIFIANT. It’s all, too, about the vocal channel. To the SIGNIFICATUM, the DICTUM, and the IMPLICATUM, we should add what, after Austin, we may call the EMISSUM. Grice explicitly uses ‘utter’ to cover not just the vocal channel, since a hand-wave may signify just as well. If Nicoletti is talking about the ears of his auditor – Grice prefers recipient or addressee – he seesms to be following Aristotle strictly in narrowing the analysis of that angle of the semantic triangle to the ‘phone,’ the vox. Grice liked to play on this. We’ve seen in his treatment of ‘incorrigibility and privileged access’ that one may have MIS-learned the meaning (or ‘sense’, to honour Dummett’s Frege) of ‘hail,’ and use it to mean ‘snow.’ Another example he gives, this time again in response to Searle, has Grice witnessing a little girl thinking that some French utterance MEANS ‘Feel free to hand yourself a piece of cake’ – “whereas in fact the sentence means quite a different thing.” Grice wants to allow for the EMISSUM being a meaningful utterance in language L, but still being used by some odd utterer as a vehicle for the SIGNIFICATUM of something else. Like the knick-knack seller at Port Said, in this case, again Grice feels entitled and happy to say and allow that when he utters this French sentence or utterance – which does NOT mean, in French, ‘Feel free to hand yourself a piece of cake’ – given the appropriate circumstances – notably that he KNOWS the little girl thinks the utterance means just that – he DOES mean that the little girl is to hand herself of piece of cake. Or take the extreme example by Zipf, of the professor who utters a sentence in Hopi, phi-phi-phi-phi intending to induce in the soul of his auditor, as Nicoletti would have it, the belief that he, the utterer is mad, and cares nothing about stuff, whereas, as it happens, the Hopi sentence happens to mean quite a sensical and different thing (Zipf). This relates to Dumbleton. He finds Bradwardine – and Nicoletti’s – externalist conception of meaning as too Putnamian (‘meanings ain’t in the head’). But de Occam has a point when he notes that, for all its imposition, imposing ‘homo’ and imposing ‘anthropos’ is NOT enough to INVALIDATE the fact that by uttering these EMISSA what the utterer intends to procure in his or her recipient’s ‘animus’ is the same ‘nota’ – which, for de Occam NATURALLY, means man. Nicoletti’s emphasis on the ANIMUS of the auditor seems not gratuitious, either. And seeing that, as Nardi recalls us, Nicoletti spent more than a term or two trying to teach those Paduans about what ‘the soul’ – anima – means, he seems to have keenly agree with Grice that it’s PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY that counts! Grice 1986:81. It is instructive to see that Grice would never have thought of delivering the John Locke lectures on REASONING, had he not been invited two years earlier to deliver the Immanuel Kant lectures at Stanford on aspects of reason and reasoning! 9. Containment and analyticity. Read makes an excellent point about Martin having made an excellent point by having ‘contaiment’ as a keyword. What is MEANT by the conclusion is already CONTAINED in the premises. The conclusion may mean JUST THE SAME, or more, than what the premises mean. Interestingly, when Quine was playing with empiricism being dogmatic, and happening to find himself at Oxford at the time, he also found that Grice and his former pupil Strawson, were thinking of diverting the visitor with some ‘defense of a dogma.’ Quine infamously disliked the Oxonian debate format of this joint seminar by Grice and Strawson where Quine was not even allowed to ‘utter.’ Auditors they call them. Grice and Strawson came up with utterances like ‘My neighbour’s three-year old is an adult’ as a contradiction in terms, or, strictly an analytically false utterance – which Quine had thought was an empty class. The idea being that in an analytically TRUE sentence, what is contained by the subject (not a three year old, but older than 21) is contained in the predicate (‘adult’). It is the same idea that seems to be in the air when it is alleged that a valid consecutum or consequentia is one where the associated conditional having the premises as apodosis and the consequence as protasis is itself analytic, i. e. a tautology. So perhaps to the EMISSUM and the SIGNIFICATUM, and to the DICTUM and the IMPLICATUM, we should add the CONSECUTUM? p. 202 WOW. Which is back to Hobbes in Computatio. For Hobbes had written in Latin, and then Englished: Now those things we call SIGNES are the Antecedents of their Consequent, and the Consequent of their Antecedents, as often as we observe them to go before or follow after in the same manner. For example, a thick Cloud is a Signe of Rain to follow; and Rain a SIGNE, that a Cloud has gone before. … And of Signes some are Naturall, wereof I have already given an example; toerhs are arbitrary, namely , those e make choice of at our own pleasure; as a bui hung up, signifies that Wine is to be sold there; and Words so and so connected, signifie the Cogitations and Motions of our Minde. p. 11 of his works. The Latin being closer to Nicoletti! For Hobbes says Signa autem vocari solent antecedentia CONSEQUENTIUM, et CONSEQUENTIA antecedentium, quoties plerumque ea simili modo praecedere et CONSEQUI experti sumus. Exempli gratia, nubes densa SIGNUM est CONSEQVTVRAE pluviae, et pluvia SIGNVM antecedentis nubis, ob eam causam, quod raro nubem densam sine SEQUENTE pluvia, pluviam autem sine antecedente nube numquam experti sumus. Signorum autem alia NATURALIA sunt quorum exemplum est quod modo dixeramus; alia ARBITRARIA, nimirum quae nostra VOLUNTATE [Mantova IMPOSITIO] adhibentur; qualia sunt, suspensa hedera AD SIGNIFICANDUM VINVM VENALE; lapis, AD SIGNIFICANDUM agri terminum; ET VOCES humanae [[not bruti]] CERTO MODO CONNEXAE, AD SIGNFICANDAS ANIMI cogitationes et motus. P 13 of the Latin version. As Eco has pointed out, though, the ‘consequence’ approach to the sign is just one of the two possible stands. The other is the EQUIVALENCE relation. As Mainetti puts it in the synopsis of these two views in Augustine RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa¬ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al¬ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo¬ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen¬ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e¬ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet¬ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi¬ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet¬ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im¬ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag¬ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es¬ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe¬ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela¬ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio¬ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti¬ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte¬ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri¬ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag¬ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin¬ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta¬ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin¬ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra¬ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale: onIE=>c m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic¬ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u¬ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al¬ tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet¬ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co¬ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro¬ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in¬ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma¬ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili¬ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun¬ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui¬ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec¬ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per¬ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri¬ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia¬ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto¬ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce¬ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di¬ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co¬ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen¬ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag¬ gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co¬ se che significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemo¬rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con¬ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in¬ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca¬ si: il primo caso è quello in cui il locutore produce un se¬ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri¬ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife¬ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono¬ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co¬ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co¬ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es¬ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual¬ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi¬ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive¬ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga¬ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi¬ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte¬ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani¬ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). It seems we are on safe ground when he hold Nicoletti to share with Grice and Hobbes the sign-as-consequence approach. 6. The Griceian lesson While it would be excellet to pun on Paul of Venice and Paul of Harborne, it happens to be the case that Paul of Venice was not from Venice, and not even a Venetian, but a Friulian. PAULUS HARBORNENSIS sounds fine for Grice who hailed from Harborne in Staffordshire (present Warwickshire, more present West Midlands). Some prefer Paul GRICEUS. The right alphabetical ordering of Nicoletti, however, should be under “N”! REFERENCES CONTI on NICOLETTI. FREUD SYMPTOM GRANDY, R. E. and R. O. WARNER (1986). Philosophical grounds of rationality: intentions, categories, ends. Oxford: Clarendon. GRICE, H. P. Method in philosophical psychology: from the banal to the bizarre. Presidential Address. Proceedings of the American Philosophical Association. Reprinted in The conception of value, Oxford, Clarendon. Studies in the way of words. London and Cambridge, Mass.: Harvard University Press. (2001). Aspects of reason. Oxford: Clarendon. HOBBES, T. Computation, sive Logica.  Logique in Elements of Philosophy, written in Latine by Thomas Hobbes, and now translated into English. London, Crooke. MDCCXXXIX Thomae Hobbes malmersburiensis opera philosophic aquae latine scripsit omnia in unum corpus nunc primum collecta. Londini apud Joannem Bohn, Covent Garden. KEMMERLING, Andreas (1986). Utterer’s meaning revisited, in Grandy/Warner. LEWIS and SHORT, A Latin dictionary. Significo. MANTOVA – Imposition. Cited by Read. NICOLETTI – see Read. Oxford English Dictionary – ‘signify’. RIMINI. G. The only other philosopher Nicoletti cares to quote in his Logica. READ – on NICOLETTI SMITH, Dizionario etimologico. ‘significare’ SPERANZA, J. L. This and that – for the Grice Club, or H. P. Grice’s Play-Group. STEVENSON, C. L. Ethics and Language. London and New Haven, Conn.: Yale University Press. ZIPF. Grice on meaning. Analysis. Affiliations S. Read. Corresponding author. J. L. Speranza, The Grice Club. APPENDIX GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nicoletti: la ragione conversazionale -- quadratura ed implicatura conversazionale – la scuola d’Udine -- filosofia friulana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – (Udine). Filosofo friulano. Filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia Giulia. What Grice would say – obligatory Griceian comment: “Nicoletti’s diagramme for ‘arbor porphyriana’ is brilliant – ending with “Plato,” “Socrates.” I especially like his squaring the square of opposition! A veritable genius, this Nicoletti.” -- Not under ‘Venezia’! Also known as ‘Paolo di Venezia,’ philosopher, the son of Andrea Nicola, of Venice He was born in Fliuli-Venezia Giulia, a hermit of Saint Augustine O. E. S. A., Nicoletti spent three years as a student at St. John’s – or some other Oxonian college -- , where the order of St. Augustine had a ‘studium generale’ at Oxford, and taught at Padova, where he become a doctor of arts. Nicoletti also holds appointments at the universities of Parma, Siena, and Bologna. He is active in the administration of his order, holding various high offices. He composes commentaries on several logical, ethical, and physical works of Aristotle, or the Lycaeum. His name is especially connected especially with his best-selling “Logica parva.” Over 150 manuscripts survive, and more than forty printed editions of it were made. His huge sequel, “Logica magna”, by contrast, was a flop. These Oxford-influenced tracts contributed to the favourable climate enjoyed by Oxonian semantics in especially northern Italian universities. Obligatory Griceian comment: “My favourite of Paul’s tracts is his “Sophismata aurea”.” How peaceful for a philosopher to die while commenting on Aristotle’s “De anima.”!” His nom de plum is “Paulus Venetus,” but not for the Dizionario friulano, that has him under the N of Nicoletti. Paolo da Venezia. Wikipedia has a Nota disambigua.svg Disambiguazione"Paolo Veneto" rimanda qui. Se stai cercando lo scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi Paolino Minorita. Wikipedia goes on to reproduce: Paolo da Venezia in una stampa Professore Paolo da Venezia, o Paolo Veneto, vero nome N. (Udine). Filosofo. Eremitano, studente a Oxford, e docente a Padova, ove ha tra gl’allievi Paolo Della Pergola. Divenne ambasciatore veneto presso la corte polacca. Per le sue idee teologiche e esiliato a Ravenna ma, dopo, gli è consentito di tornare a Padova. Seguace di Occam e Brabante e autore di vari trattati, tra cui alcuni commenti al Lizio or Lycaeum. Il suo trattato “Logica magna” e utilizzato come testo di insegnamento della logica a Padova e può essere considerato la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo. Opere: “Logica,” “Commenti alle opere di Aristotele,” “Expositio in libros Posteriorum Aristotelis,” “Expositio super VIII libros Physicorum necnon super Commento Averrois,” “Expositio super libros De generatione et corruptione,” “Lectura super librum De Anima,” “Conclusiones Ethicorum” “Conclusiones Politicorum,” “Expositio super Praedicabilia et Praedicamenta.” “Scritti sulla logica: Logica Parva or Tractatus Summularum, “Logica Magna”; “Quadratura”; “Sophismata Aurea. Altre opere: “Super Primum Sententiarum Johannis de Ripa Lecturae Abbreviatio,” “Summa philosophiæ naturalis,” “De compositione mundi. Quaestiones adversus Judaeos. Sermones. N. in Dizionario di Filosofia Treccani, riferimenti in. Vedi Pergola, Dizionario di Filosofia Treccani. Garin, Storia della filosofia italiana, Edizione CDE su licenza della Giulio Einaudi editore, Milano, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario di Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto Storico Italiano per il medio evo, Roma, Nuovi studi storici, Perreiah: ‘A Biographical Introduction to N,’ Augustiniana. N. Logica, Venetiis, Imperatore, Imperatore, Gori, Filosofico, Conti, Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Filosofia. DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI PAOLO DI NICOLETTO PAOLO DI NICOLETTO (? - 1429) AGOSTINIANO, TEOLOGO, FILOSOFO Informazioni. Udine † 15 giugno 1429, Padova. Forma alternativa: Paolo Veneto. Attività agostiniano, teologo, filosofo. Luoghi di attività: Venezia, Oxford, Padova, Buda, Ulma, Cracovia, Kosice, Siena, Bologna, Perugia. Immagine del soggetto: Paolo di Nicoletto in cattedra, Venezia, Biblioteca nazionale marciana, ms. Lat. VI, 123 2464, f. 162v. Come per la maggior parte dei protagonisti della vita intellettuale nell’epoca di mezzo, anche per l’udinese P. di N., più noto come Paolo Veneto, disponiamo di poche informazioni sicure relative alle sue origini. Nasce certamente a Udine, negli anni intorno al 1370, da Nicoletto del fu Antonio di Venezia, stabilitosi nel capoluogo del Friuli per lo meno dal 1352, quando fa richiesta della cittadinanza, ottenuta il 21 marzo 1361. Il nome della madre, Elena, privo peraltro di ulteriori informazioni, ci perviene da un’indicazione di Antonio Joppi, a tutt’oggi comunque non suffragata da prove documentarie. Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia, che deriverebbe da un Nicoletto la cui sepoltura, nel chiostro domenicano di S. Pietro Martire, risalente al tempo del patriarca Antonio Caetani, era ornata di un’iscrizione con le insegne nobiliari. Antonio Joppi identifica quest’iscrizione, in seguito andata perduta, con quella descritta in una nota manoscritta in calce ad un’edizione latina di Platone, relativa ad un «Nicolettus de Broio auctor de Venetiis». Secondo questa linea di eruditi, dunque, P. sarebbe membro della nobile famiglia dei Nicoletti di Udine, poi di Cividale, le cui vicende furono ricostruite da Francesco di Manzano nel 1894. Probabilmente negli anni intorno al 1383 P. fu accolto nell’ordine degli Eremiti di S. Agostino, presso il convento di S. Stefano a Venezia. Qui egli compì il suo noviziato e la prima formazione culturale sino al 9 dicembre 1387, quando il priore generale dell’ordine Bartolomeo da Venezia lo assegnò come studente al convento dei Ss. Filippo e Giacomo di Padova, sede dello “studium generale” della provincia della Marca Trevigiana. Di lì a pochi anni, il 31 agosto 1390, il priore generale destinò P., insieme con il cugino più anziano Paolo Francesco da Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese della provincia, e non dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per intraprendere il percorso di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in teologia. In quegli anni lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per gli studenti italiani il compimento degli studi superiori presso l’università di Parigi, di obbedienza avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da Venezia aveva in effetti precluso formalmente questa possibilità agli studenti agostiniani. Durante il triennio di permanenza ad Oxford P. ebbe la possibilità di conoscere ed approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati dell’insegnamento filosofico e di quello logico in particolare. Tornato a Padova, sempre insieme al cugino, mise a frutto questa esperienza nel corso del suo insegnamento come “cursor”, probabilmente dal 1393 al 1396, e poi come “lector”, sino al 1401. Risale a questi anni la composizione delle sue opere logiche più fortunate, la Logica parva e la Logica magna. La prima, diffusa ancor oggi in oltre 80 codici e in 25 edizioni a stampa, è un manuale sintetico, ma molto aggiornato, composto sul modello dei manuali inglesi contemporanei, che arrivò negli anni a contendere il primato nel settore alle duecentesche Summulae logicales di Pietro Ispano e fu persino reso obbligatorio nel curriculum universitario padovano dal Senato di Venezia nel 1496. La seconda, molto più estesa, conobbe invece una diffusione assai più limitata, anche perché, rivolgendosi agli specialisti, forniva un panorama approfondito e molto dettagliato di tutte le più recenti dottrine logiche. Testimonianza in quegli stessi anni (1396-1397) dell’interesse immediato che le novità importate da P. seppero suscitare si riscontra nel carteggio di Pietro Tomasi, studente a Padova e poi “magister” di filosofia a Pavia, che si rivolse al suocero Gian Ludovico Lambertazzi, professore di diritto presso lo studio padovano, e allo stesso Paolo Francesco di Venezia per ottenere copie delle due opere ancora in corso di redazione. Fu con tutta probabilità a Padova che P. trascorse i primi anni del XV secolo, impegnato a completare il suo curriculum accademico con un’intensa attività didattica e di studio. Frutto del suo lavoro di baccelliere in teologia fu la Super primum Sententiarum Iohannis de Ripae lecturae abbreviatio, terminata prima del 1402, mentre al suo insegnamento in arti e in filosofia (anch’esso parte dei doveri di un baccelliere in teologia) si debbono ricondurre varie opere di carattere esegetico, come le Conclusiones Ethicorum, le Conclusiones Politicorum, le Conclusiones Posteriorum Analyticorum e probabilmente anche due opere logiche come la Quadratura e i Sophismata. Il suo primo grande commento aristotelico, la Lectura super libros Posteriorum Analyticorum, fu compiuto nel 1406, quando già P. aveva ottenuto il grado di “magister artium et theologiae”. A quest’opera logica fecero seguito, rispettivamente nel 1408 e nel 1409, due opere di filosofia naturale: la Summa philosophiae naturalis e l’Expositio superPhysicam Aristotelis. A partire dal 1408 troviamo il teologo agostiniano tra i promotori dello studio padovano, quindi l’inizio del suo insegnamento universitario deve essere collocato prima di questa data (in precedenza la sua attività didattica si era svolta all’interno dello studio agostiniano di Padova). Nel periodo che va dal 1408 al 1420 egli compare regolarmente, sempre nel ruolo di promotore, nei registri delle lauree padovane, con le sole eccezioni degli anni 1409, 1412 e 1419. Tra coloro, oltre una trentina, che ottennero i gradi sotto il suo magistero si annoverano i patrizi veneti Nicolò Contarini, Pietro Giustiniani e Marco Lippomano, il benedettino Giovanni Michiel, l’umanista e scienziato Giovanni Fontana. Suoi studenti furono inoltre il medico Michele Savonarola, il giurista Ludovico Foscarini e Giovanni Antonio da Imola, che gli succederà sulla cattedra padovana. Oltre a dedicarsi ad un’intensa attività accademica, in questi anni P. assunse anche responsabilità all’interno della sua congregazione ecclesiastica, cominciando da quella più elevata: il primo di maggio 1409, poco più di un mese prima di essere deposto dal concilio di Pisa, il pontefice Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, lo nominò vicario generale dell’ordine agostiniano. Nulla si sa della sua attività da lui svolta in questa carica e neppure se nei mesi successivi egli fosse al seguito del papa al concilio di Cividale. È noto invece che pochi mesi dopo, nel febbraio 1410, forse in conseguenza del declino politico di Gregorio XII, rassegnò il suo incarico. Nel medesimo periodo, tuttavia, P. fu anche priore provinciale della Marca Trevigiana e come tale, per ordine del Consiglio dei Dieci di Venezia, comminò il 28 agosto 1409 la pena del carcere al confratello Simone da Ancona, reo di aver continuato a sostenere il pontefice deposto a Pisa. In breve tempo le relazioni di P. con il governo della Serenissima si fecero ancora più strette: verso la fine del 1409 fu inviato come “orator” a Buda presso il re d’Ungheria e re dei Romani Sigismondo del Lussemburgo, allora diviso da un’aspra contesa con la Repubblica Veneta per il dominio della Dalmazia, con l’incarico di preparare il terreno per un’ambasceria ufficiale che doveva tentare un accordo. Il suo soggiorno presso la capitale ungherese ebbe termine nel gennaio 1410, ma nel luglio dello stesso anno il governo veneto utilizzò nuovamente i suoi servizi come ambasciatore a Ulma in Germania e presso Federico duca d’Austria e conte del Tirolo. In seguito a questi incarichi la Serenissima compensò P. con la somma di cento ducati e con il sostegno nel conseguimento della cattedra padovana retta in quel momento da Biagio Pelacani da Parma. L’anno successivo quest’ultimo lasciò in effetti lo studio padovano per quello parmense e l’agostiniano fu nominato al suo posto. Ancor più importante la missione che fu affidata a P. il 23 gennaio 1412: in un momento assai critico per la Repubblica Veneta, con le truppe imperiali di Sigismondo che occupavano il Friuli, egli fu inviato presso la corte di Ladislao Iagellone, re di Polonia, con l’incarico di fare il possibile per stabilire con la Polonia un’alleanza in funzione anti-ungherese, così da stringere Sigismondo da sud e da nord e forzarlo ad abbandonare la sua impresa italiana. Le istruzioni diplomatiche contenevano anche la raccomandazione di manifestare al re polacco la piena disponibilità di Venezia a sostenerlo, nel caso questi volesse lanciarsi a sua volta nell’avventura imperiale. P. giunse a Cracoviaprobabilmente a fine febbraio o inizio marzo 1412, poi a fine marzo si trasferì a Kosice, in Slovacchia, dove si trovavano re Iagellone e re Sigismondo, che avevano già firmato un accordo. Il risultato di questa prima fase dell’ambasceria fu di ottenere l’offerta da parte del re polacco di fungere da mediatore tra Venezia e Sigismondo per dirimere la questione della Dalmazia. P. rientrò a Veneziaprima del 10 maggio, ma fu subito rimandato dal re polacco, in quel momento a Buda alla corte di Sigismondo, visto il credito che era riuscito a guadagnarsi presso di lui. L’agostiniano si unì quindi agli ambasciatori Tommaso Mocenigo e Antonio Contarini, che dovevano trattare la pace con Sigismondo, ma nonostante l’appoggio di re Iagellone l’iniziativa diplomatica non poté che constatare l’impossibilità di trovare uno spazio di mediazione tra i due contendenti e a fine giugno 1412 l’ambasceria fu di ritorno a Venezia. P. appariva ormai aver raggiunto in questi anni notevoli traguardi: titolare di una cattedra prestigiosa nell’ateneo padovano, ben noto negli ambienti accademici per la sua dottrina e le sue opere, autorevole rappresentante del proprio ordine, poteva per di più vantare una notevole esperienza diplomatica ed importanti relazioni a Venezia e nelle corti dell’Europa centro-orientale. La sua attività di commentatore aristotelico proseguiva inoltre alacremente: sono da ascrivere probabilmente a questo periodo, vale a dire tra il 1410 e il 1420, uno Scriptum superlibros De anima, una Expositio super De generatione et corruptione e la monumentale Lectura super libros Metaphysicorum. Ma improvvisamente nel 1415 la sua fortuna accademica e politica cominciò a subire qualche contraccolpo: il 6 giugno il senato veneziano votò una censura che colpiva P., insieme con il medico Antonio Cermisone, per essersi assentato da Padova e dai propri doveri accademici senza permesso; tre mesi dopo il Consiglio dei Dieci lo invitò a discolparsi da accuse (non meglio precisate) e gli proibì di lasciare Padova senza una licenza espressa del consiglio stesso; ancora, un anno dopo, nel maggio 1416 la richiesta di P. di ottenere la licenza fu respinta e solo nel giugno dello stesso anno fu concessa, in considerazione dei doveri concernenti la sua carica di priore provinciale, ma con la condizione che non si recasse a Costanza o in altro luogo dove si fosse celebrato il concilio. Le circostanze di questi provvedimenti disciplinari non sono ulteriormente note, ma forniscono l’informazione che P. era nuovamente divenuto priore provinciale della Marca Trevigiana (lo era già dagli ultimi mesi del 1414) e soprattutto che non godeva più della fiducia di Venezia, che non lo voleva presente al concilio. Peraltro l’anno successivo il senato veneziano, con un atto certamente onorifico, gli concesse il privilegio di indossare il berretto nero dei patrizi, privilegio poi esteso, alla sua morte, a tutti i membri del convento di S. Stefano. Di lì a qualche anno, tuttavia, i rapporti di P. con il governo della repubblica veneta si guastarono irrimediabilmente. Per motivi che permangono tuttora ignoti il teologo agostiniano, nuovamente eletto priore provinciale dal capitolo dell’ordine tenuto a Ferrara nel maggio 1420, venne sottoposto ad un procedimento disciplinare da parte del Consiglio dei Dieci che si concluse in settembre con il suo bando quinquennale a Ravenna, da estendere a dieci anni qualora avesse infranto il divieto di riattraversare anzitempo i confini del dominio veneto. P. chiese ed ottenne una proroga di un mese, allo scopo di rimettere nelle mani del priore generale Agostino Favaroni le questioni connesse con la sua carica di provinciale, poi nell’ottobre 1420 fu assegnato dal generale al convento di Siena e gli fu concessa la licenza di insegnare nello studio di quella città. Da quel momento P. non rimise più piede in territorio veneziano fino ad un anno prima di morire. A Siena rimase per quattro anni; in questo periodo i suoi biografi, e per primo Cristoforo Barzizza che tenne la sua orazione funebre presso lo studio patavino, collocano un episodio in cui P. avrebbe agito come un inquisitore, sfidando e sconfiggendo in una disputa l’eretico Francesco Porcario, forse un fraticello, che finì per questo sul rogo. Il Barzizza parla a questo proposito anche di uno scritto antiereticale di P., di cui sinora tuttavia non sono state rinvenute tracce. Venne designato reggente dello studio agostiniano di Siena; redasse per la prima volta un testamento, in cui lasciava al convento padovano i suoi libri e titoli veneziani («de camera imprestitorum comunis Venetiarum»), che egli deteneva su licenza del priore generale, per il valore di mille ducati d’oro, come forma di risarcimento per i gravami e le spese che detto convento aveva dovuto sopportare per la sua lunga permanenza, nonostante il suo convento nativo fosse quello veneziano di S. Stefano. P. venne assegnato al convento di Bologna, con licenza di insegnare nello studio cittadino in qualsiasi materia. Durante il soggiorno felsineo si ricorda una sua disputa con il maestro Nicolò Fava, valente filosofo e dialettico di inclinazioni dottrinali opposte a quelle di P. La sua permanenza a Bologna tuttavia non durò a lungo, poiché già nell’ottobre 1424 fu assegnato al convento di Perugia, nuovamente con licenza di insegnare presso lo studio cittadino. Gli anni successivi, a Perugia, videro P. impegnato in attività didattiche (gli fu concesso ad esempio di esaminare alcuni studenti agostiniani per il conferimento del titolo di “lector”) e nella stesura del suo ultimo commento aristotelico, l’Expositio super Universalia Porphyrii et super Praedicamenta Aristotelis. I registri dell’ordine agostiniano informano inoltre che P. redasse una seconda versione del suo testamento, in cui furono aggiunti come beneficiari la sorella Lucia e il confratello e assistente Nicola da Treviso, e che il primo di agosto dello stesso anno gli fu concessa licenza di recarsi a Roma ogni volta che i suoi lavori lo rendessero necessario. In occasione delle dimissioni del priore di Perugia, gli fu conferito l’incarico di reggere il convento durante la vacanza e di scegliere il nuovo priore ed inoltre a lui toccò di svolgere la funzione di visitatore presso lo stesso convento e quello di Todi. Infine, nel giugno 1428, in seguito ad una supplica fatta pervenire insieme con la raccomandazione del cardinale di S. Croce, il Consiglio dei Dieci di Venezia revocò finalmente il bando comminato otto anni prima e P. poté far ritorno a Padova e riprendere il suo insegnamento, anche se soltanto per pochi mesi, giacché il 15 giugno 1429, mentre teneva il corso sul De anima di Aristotele, morì. Oltre alle opere sopra ricordate, rilevanti soprattutto la sua attività di commentatore aristotelico e di maestro di teologia, P. lasciò anche una raccolta di Sermones quadragesimales, uno scritto antigiudaico, le Quaestiones XXII de messia adversus Judaeos, un’opera mariologica, il De conceptione Beatissimae Virginis Mariae, una versione latina della Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo e diverse orazioni. Secondo il giudizio di Alessandro Conti, il più recente studioso del suo pensiero, P. fu «il più importante pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed interessanti logici del medioevo». La sua fama e le sue opere contribuirono a fare dello studio patavino un centro intellettuale di rinomanza europea; le sue dottrine, improntate al realismo degli universali in ambito ontologico e ad una linea vicina a quella dell’aristotelismo moderato di Alberto Magno e d’Aquino nel campo della filosofia naturale, innescarono in Italia un dibattito scientifico i cui sviluppi condussero nel corso del XV secolo ad un rinnovamento dell’orizzonte culturale europeo. CHIUDIAndrea Tabarroni Bibliografia M. NICOLETTI, Vita dei tre Paoli, ms BCU, Joppi. F. MOMIGLIANO, Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del suo tempo (Contributo alla Storia della filosofia del secolo XV), Udine, Tipografia G.B. Doretti estratto dagli «Atti dell’Accademia di Udine CESSI, Alcune notizie su N., «Bollettino del Museo civico di Padova GENTILE, Intorno alla biografia di N., in Studi sul Rinascimento, Firenze, Sansoni, BOTTIN, Logica e filosofia naturale nelle opere di Paolo Veneto, in Scienza e filosofia all’Università di Padova nel Quattrocento, a cura di A. POPPI, Trieste, LintPERREIAH, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green (Ohio), Bowling Green State Universiy; S. DE FANTI, La missione diplomatica di Paolo Veneto al re di Polonia: il decisivo contributo polacco allaconoscenza della biografia del Nicoletti, in Memor fui dierum antiquorum. Studi in memoria di Luigi De Biasio, a cura di P.C. IOLY ZORATTINI - A.M. CAPRONI, con la collab. di A. STEFANUTTI, Udine, Campanotto; A.D. CONTI, Essenza e verità. Forme e strutture del reale in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo medioevo, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 1996; C. FROVA - R. NIGRI, Un’orazione universitaria di Paolo Veneto, «Annali di storia delle università italiane; N., Super primum sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio. Liber 1, ed. crit. parz. F. RUELLO, Firenze, Edizioni del Galluzzo; N., Logica Parva. First Critical Edition from the Manuscripts with Introduction andCommentary, ed. A.R. PERREIAH, Leiden-Boston-Köln, Brill LOGICA PAVLI rectam atgemendatam. Additis quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon Tabulao figuris. VENETI HABES INHOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira quad a brevitatem atos facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab eximioætatis suæ magistro Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti Heremita Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in animo studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re est annexa doctrina. Ideo volens cap.s. et medium retinere utriusg sapiensnam 5.ethic, turam extremt, compendium utile construxi iuveni t.co.6. ВB bus pluribus diui sum tractatibus, Quorum primus summularum tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit, solutionem ad dens responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait t-C.4 . PHILOSOPHUS in prohemio phylic. sumic exordsum, ideo Dislot tractatus primus terminum sic diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et eius divisione quide. i. II suppositionum declarat mareriam. III consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir probativam. V ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar artem et viam. VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio. c. TERMINUS EST SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars propinquae iusdem, ut: “homo”, lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur propinqua quia oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di 2. ecin. i Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo. Terminum quidam est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et remotas, propinquatop.c. 2 cius vide SIGNIFICATIVUS est ile qui per se sumptus nihil representat --: ut s. “me,” “te,” “omnis”, “nullus,” “quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles. Terminorum quidam si secunda significant naturaliter et quidam AD PLACITUM.Termi divisio p nus naturaliter si significans est ille qui apud omnes eius qua vide de m efd RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in primor mente. Terminus AD PLACITUM significans est ille qui ye.c.i.et NON apud OMNES eiusdem est re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui apud nosft. B Paul. sin significat ‘hominem’, sed apud alias nationes nihil significant, ut sunt greci (“anthropos,” “aner”). Reefo.Terminorum quidam est categorematicus, et quida3 S.colū. SYNcategorematicus.Terminus categorematicus est pri. diui. ticularia particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu. Aduerbiauerbum, et coniunctiones ha minum.i.rem quæ non est terminus datoque effet,ficut TRACTATVS Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle signi Voety fancarious est ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã tasuely “homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam cum alio habet proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siueen imponatur in oratio divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”, “nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et præpositiones (“to”), et adverbial et coniuctiones. Signa namqz distributiua habent officium, fal.3.quia determinant distributive, universalia yłr, et par bent coniungere terminus vel orationes. Terminorum quidam est prime intentio Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis. Terminus primæ ma, sol. intentionis est terminus mentalis significans non ter D“homo, significat sor. et pla. quorum nullus potest esse terminus. Terminus autem secunde intentionis est terminus mentalis significans solum modo terminum A vel propositionem, ut ili termini mentales, nomen, verbum, participium, propositio, oratio et huius modi. Nis est terminus vocalis vel scriptus significans solum B modo terminum vel propositionem utili termini vocales vel scripti, nomen, verbum participium, athuius modi. Terminorum quidam funcin complexi, et quidam complexi. Terminus in 6.diui complexus vocatur dictio – ut: lylapis,ly lignum. Sed fioVide terminus complexus est oratio – ut: “homo [est] albus”, lor. et Paul.in placo, deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter considerat: ideo de his restat deffnitiones assignare. NOMEN est terminus significativus lo.ma.f. SINE TEMPORE cuius nulla pars aliquid significat separa dissintta – ut: “homo”. In ifta definitione ponitur terminus lotionoie cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua verso: dicitur significatiuus, quia termini non significativi depri non funt nomina apud logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”, et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad differentiam verbi et participia, quæ significant *cum* tempore. Ponitur: ‘cuius D nula pars aliquid significant separata’ -- ad diferentiam orationis, cuius partes significant separate mo pyo er.c.c Terminorum quidam eat s.diuifio prime impositionis, quidam secundæ.Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi Boe.in ficans non terminum -- ut “homo”, et “animal” in voce vel in scripto.Terminus autem secundam impositio. In princ. L3 Via de nominee et uerbo ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus principa . Defini. V uuset extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid significar separata, ut “curre” c vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo, temporaliter significativus, ad eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum apposito sicut verbum. ceterg autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione nominis. Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus” deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca Jüfferentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris, quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta. Oratio perfecta est ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio imperfecta est ila quæ imperfectum sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d tres sunt species orationis perfectæ quia orationum perfectarum. Alia INDICATIVA – ut: “Homo currit” . Alia est oratio imperativa – ut: “doceioannem.” Alia ed incelreligie ineis oratio optative – ut: “Utinam essem bonus logicus”. fint ap te nate. VERBUM est terminus temporaliter significati differentiam nominis quod significat sine tempore. Secundo dicitur, et extremorum uniciuus: ad differentia participium quod significar cum tempore, sed non unitfup 0 -3 gñare fectū sen bus vide ilo, ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua verum vel falsum significans – ut: “Homo currit” -- ponitur oratio lo non e converso. Secundo dicitur indicativa. quia Cola indicari va est propositio, non autem imperativa nec optativa.Vicimoannectitur: verum vel falsum significans: propcer tales orationes. Cortes potest, plato in PS pro qui alia categorica alia hypothetica. Propositio ca divisio. Categorica est ila quæ habet subiectum prædicatum et Vide in copulam tanquam principales partes fui – ut: “Homo est animal.” l o,m a . f o animal. Subiectum est ly “homo”, prædicatum uero,101.col, ly “animal”. Copula illud verbum “est”: quia coniungit tum. Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum. vide licet,ły “currens” quod patet in resolvendo illud uerbum “currit.” -- in: sum currens, es currens, est currens, et suum participium. Subiectum est de quo aliquid dicitur – ut: “homo”. Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut: “animal.” Sed copula Quid (u bicctuz semper est verbum substantivum: “sum currens”, “es currens vel hom”, “est homo et currens.” De quidp. propositione hypothetica posterius dicetur ad cuius tum et C differentiam point urilla particula: principales partes quid co . D sint indicatiue. Quia non significant verum nec falsum. Diffini cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub propositione contentas sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum predicato. B rir est propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si dicatur “homo cur . Dubo . fui.quia principales partes hypotheticæ non sunt pula, subiectum et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia affirmativa, alia negativa. Propositio categorica affirmatiua est ila in ligiex.i. qua verbum principale affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio categorica negativa est illa in qua er: Tertia bum principale negatur – ut: “Homo NON currit” S. Propositionum categori:Diffusi carumalia vera, alia falsa. Propositio categorica ue us&hac ra est ila cuius primarium et adequatum signifi-materia carð est verum – ut: “Tu es homo.” Hæc enim est uera. “Tu es vide in homo.” quiate esse hominem est verum.Voco filoma. divisio A tio. i. gi her. C. 5. . a4 1 mo. Cetera autem significate, utte esse animal, teelic substantiam, et huius modi, sunt significate secundaria, et pones illa non dicitur propositio vera nec falsa. Propositio categorica falsa est illa cuius primariam et adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es asinus.” ria, alia contingens. Propositio necessaria est ila, cuius primarium et adequatum significatum est necessarium – ut: “Deus est.” Propositio contingens est illa cuius significatum primarium et adequatum est contigens – ut: “Tu es homo”. Et voco significatum contingens ilud C quod in differenter potesse se verum vel falsum. Propositionum categoricarum alia alicuius uide.i. quantitatis, alia nullius. Propofitio categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est universalis, particularis, .in pri, indefinita, vel singularis. Propositio universalis est illa in qua subởcitur terminus communis signo universali determinatus – ut: “Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti nomen appellativum et pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt ista: “omnis,” “nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet, quantusliber, et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur terminus comunis igno 4. diui afol.significatum primarium et adequatum propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi infinitive vel coniunctiue il 267.secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es homo.”, diciturfiA dępris. Significatum primarium et adequatum illius, “Tu es homo.” Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis. Propofitio categorica por ilo.ma.fibilis eft illa cuius primarium et adequatum significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et adequatūfi. usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est impossibile – ut: “Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne cella larem, nomen proprium aut pronomen demonstravi Suum singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. Ex quibus fe B quitur iam quæ est caregorica nullius quantitatis. Et dicitur quod illa quæ non est universalis, nec particularis, nec indefinita, nec singularis -- ut exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet, “Tantum homo currit, omnis homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue laf, u. Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad interrogationem de propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel hypothetica. Secunda autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis? Respondetur affirmatiua vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad interrogationem factam g Quan tarmñdcatur, universalis, particularis indefinita, ucl singularis, et hoc fm exigentiam propositionis propositę. De duabus alijs pposition am divisionibus. Ræterfu pradictas diuisiones dugalią declaran- Prima cur. Propositionum categorica divisio – ut: “Homo currit.” Propositio categorica modalis est illa in qua ponitur aliquis modus -- ut possibile est sor, cur particulari determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.” Si Idem in gna particularia sunt ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7. tract. A quus, et huiusmodi. Propositio indefinita est illa in huius in qua subijcicur terminus communis SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est animal.” Propositio singularis est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus discretus, vel terminus comiscum . col. pronomine demonstratiuo singularis numeri. Exem :4. plumprimi. sor.currit. Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.” Voco autem terminum discretum vel singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste versus. Querca, uel ră alia dein efle, alia modalis. Propositio catego Dricadein efic est illa in qua non ponitur aliquis modus 1: Figura de in effe. r e r e .Modi autem sunt sex . c possibile, impossibile ne Seconda. necessarium, contingens verum et falsum. Propositionum modalium: quædam est in sensu diviso et quædam in sensu composito. Propositio modalis in sensu diviso est ila in qua modus mediat inter accusativum casum et verbum infinitivi modi – ut: “Fortem possibile est currere.” Propofitio modalis in sensu composito est illa in qua modus totaliter præcedit, vel finaliter sub sequitur – ut: “Deum esse est necessarium.” Impossibile est hominem esse asinum. Ex his divisionibus originantur tres figuræ. Quarum prima dicitur de in effe. Secunda modalis de sensu diviso fchabés admodum primæ. Tertia modalis de sensu composito: leda cæteris disperata. Quartum declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet ho currit. adaz hó ñ currit, Nurbo de currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne, subalterne Figura: demesse Gulltra gda3 ha cuifit, subcontrarie reasu diuisio Contrarie Nullum hoie3 possibile est! curtcit . Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de sensu dictorie Lörra mine polee curitie . Modalis de sensu diviso. sub-contraric Modalis de sensu composito. Nec currere est los. Impose est currere for sub-alterne Contra sub-alterne dictorie Aliquem, ho Contrarie de sensu composito: Fig. Loncra . dictonic Contingens et por, non currere Figura Que libet ho minepole? currere . Pole for currtre, A liquê home minē ñ pole est currere, sub-contraric Secunda præcise proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut: “Quilibet homo currit,” “Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et particularis negativa de consimilibus subiectis prædicatis et copulis, supponentibus precise proeodemuel pro eisdem sunt sub-contrariæ in figura – ut: “Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo non currit. Universalis affirmativa et particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus. precisepro eodem vel pro cisdem, fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi. De figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ PERSONALITER De propositione hy. De ampliationibus po. disiuncti. 15 De praedicabilibus Tractatus tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione norum quando fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib De converfionetibus supponis et de diuisio De suppositione per de natur appõnuz sonali tractatus divisa De nomine tionum De duabus alös diui De supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen cinens C fionibus propõnuzs teriali et de diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem prædica, consequentősconti. de resolubi de propositionibus Tractatus quintus est tionc obligationis et De obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc consequentiæ et De hypo. descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus consequentiæ for De gradu pofitiuocô malis De regulis con. for. q De gradu comparati De regulis poenespropositiones quáras Delydiffert positions non quan De exceptivis De ly necessario et contingenter parabiliter sõpto poncs superius, atq De gradu superlati -minos pertinentes et De ly incipit et defi : impertinentes nir nens. De officialibus pro De defini libus. po. de reg. eius. inferius De regulis poncs pro De exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas Dedecem lis alñsregu De ly totus positioncs hypotheticas De ab æterno De infinitum de probationibus ter obligatory artis: De reduplicativis De regulis poencster De immediate De semper De regu.pancs pro tinens minorum continens. De deffic go cioc insolubilib? et di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia Obiectiones contradi milibus propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs .hui? De exclusivis insolu De insolubili difiun- ulti. ca.contra modos mi. De insolubili particu huiuspri De insolubilibus no é de obic Obiectiones contra Obiectiones addicta est de obiectionibus contra De obiectionibus factis contra re propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et diffig Obiectiones contra pr De deposition ibuster Obiectiones contra re minorum Tractatus Sextus De insolubili uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo et gulas huiuspri de insolubilibus Obiectiones contra dif habens. .huius uifioncciusdem. Gulas huiuspri lari vel indefinito mitra. de predicabili. De insolubili copula. trac.in maceria syllogismorum n a contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus factis con car . las.huius terti las. huius terti tracta. Venetijs ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară, tracta. tëtracta. Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij las. huiusterto tracta Antonñ Iunte Florentini Registrum illaiquaiferi predicaturde terrogatoez factapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť totaratio quafuperi pzedicaturdein quareficpdicaturde illiseq? feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini dictiévľoriadealiquod illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin vniuoc'pze iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere fpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo Eréplüpzimi:vtbóèrifibil dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimueltpredicarsitu lub bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl'me teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė mi? coup” subcocpozecosp? praedicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato a dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat ioautaccica est piedi afinuszlbiftisfua idiuidua carioterminox diuersoz pze foztesz plato. bzunellus fa dicamentorum vt homo é ale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tu est pdicamentu quátitutis liquúdicitureffeillequicon Lui generalisfimúeftquäti. tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aial respectuisti terminihó alterna ärnulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz? di bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi generisiftefür feriozad reliquú dicitur effe fpetieslinea superficiescoz illequi continent urabeo. nnó pustempus locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini bomo. hiclocus. Secundigeneris Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties. f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuzestforma nozuFmsubzlupza. Etdiui, vetcircaaliquidpitasfigura us trinarius quaterna rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali Lozpus insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eft naturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogi cazrhetorica dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz cozrupere equáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uidua funt fic generareboiez cum. quarú idiuidua suntheç fic corruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris spessuntau. bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis species sut tum. quozumindiuiduafffic circulus triangulus quadra auger eilögumficdiminuer gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua funt. biccirculus.bicfunt cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuidua funtficcalefa Quartii predicamétü Ċpdi cerefic frigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris species funtmouct fur ralissimú eft relatio vel ada. Súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera( diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita, zsup2 ficmoueredeorfum. Sertus Primum est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz cuduzé fuppofitio. Lertiuzė paffioniscu generatiffimu supposition primigenerisfpe estp dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actum ca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifiones ponitifte vt foztempoffibileé currere versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu nevelaf. vquanta. parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitp ad i taliter pcedirvei finaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozica vel ipothetica. Se effe asinum. Erbis diuifio cudaaur asseritquodaditer nibus origináturtresfigure rogationé factamoqualisre quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne damodalisofenfudiuisore gatiua. seditertiadenotat habens ad moduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofito fiacefisdispata qua particularis indefinita vel fin ruideclaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. Uifiones duealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer. Contradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalis affirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup bomocurrit. qztermininifup ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp proeisdéfuntatrarieifigu, eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa. Quilibzboè tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla eftpoffibileduofubcötraria vniuersalis affirmatiazpti effefimulfalsa. fedbenefim culari saffirmatia. Etviuer, vera. Patet pars prima ifin salis negatiuaa particularis gulis discurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probaturquoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera. Aliquishomocal se peodez velpeisdezftit 16 bus. Aliquis bono n eft alby alternein figura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó currit. Dar aliquod animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia regulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimulveravelfimulfalf. L madiuifio eftiftaterminori vocaturlravelfyllaba. Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral definitio, sebutcomienicu damagnitudiez caritus eft ilequi permitesperjeigranasoatione. Tedium cóftitué aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya tezinajoftudentiuznecno terminiple fignificatius Pericarione perforsales aliornimia; breuitatez.gbɔ eft ilequi perfe sumptusni, beit perqúemymim nulla fereeftanera doctrina. Bil representatproisnulluseftpermainang Ideo volensmediuftinere 7files. Secundadiuifio eft, vtriusq zsapiésnäzertremi. iftatermiogquidazsignifi, ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla nibɔplurib, diuisuztractati, citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu gnificansestile quiapooés traditnotitia. Secud suppo . eiusdeestrepsentatiuusficut firionú declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit doctrina. Po AD PLACITVM significansé il Quartus terminoqviistruit lequinóapudoéseiusdez é pbatiua. Quint’ligidiregu, representatiu'ficurilletermi lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto isolubiliafoluendidarartem apud nos significatboiem. via. Septimus atraprimú apoaliquascertasnatoer obijcitfolutione zaddensre, nibil significat vt f untgreci: fpófiuaz. Dct aubotertium bebrei. Zertia diffinito é ifta fodificarpróem argunitati, Q termino kquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun, gozematiczgdáfincathego acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio physicozum füiteros, maticuseftillegtampiezz duuideo tractatuspzim’ter/ cialiob3 ppziùfignificatum mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft tibölianimalinte. Lermi? Gential uit diferenmis. ut box Florin simp prout firepmimusi Cedex gramaticaj. Lorical minátdistributiver particu! complerus eftozó vthomo laria particulariter Õpofitio alborozes platodeuzeffe nesdeterminatfbcertocâu 2buiusmodiic. Aduerbia verbúzcõiúctóes Uia noier verbo er biitcõiungere terminosvel quibus ozatio compoi ozóes quarta diuifio est ia tur ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz eftpziei paliter cófiderar. Jdeo'dbil tentiois.7 quidábeitencois reftat diffinitiones ad-signare Terminus pe intentónis eft Homéest terminus signift terminus mentalis significaf catiu? Fineté pozecuiusnulla nonterminu. i. réānonéter parsaliquidfignificatseper minusdatoq effetficutlibó ratavthomo. In iadiffinite significatsoz tem z platoné. å poif terminus locogencris. Ruinulluspot effe terminus. q2oc nomen est terminus.e Lerminusaütbe itentóisé nóego. diciturfignificatinis terminus mentalis significát quia termininó significatui solimo terminil ppofitone non sunt noia apud logicilicz ptilitermini mentalesnon bi apud gramaticivtomis verbti participiúppofio nullus similia. Tertio di, zbuiusmodi.Qüitadiuifio citurfie tempore addiffere, est istag terminoz quidãcst tiñverbia participüa SIGNIS pe IMPOSITIONIS quidife. ter ficant cum tempore. Duar minus pe impositois estteri toponit cuiusnullaparsali nus voca vel scriptusfigni quidfignificata ddifferentia ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni, liaialivoceveliscripto.ter ficät. (Uerbúeftterminato min’autem se impositionis eft požaliter figificatiu?zertre terminus vocalis vel script? monvnitiuuscuiusnullap8 significas solúī modoterminu aliquid significat separatave vel propositione vtilitermi currit vel disputato icifpria nirocales vel scriptinomen mo temporaliter significati, verbti participitizhuium ói uusad differentiam nominis Serta diuifio eft ifta. Termi quod significat fine tempore non quidifuntincópleri 29 Secundo dicitur ertremo damcompleri. Terminusin rumvnitiuusaddifferentia complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií lilapislilignum. Izterminus tempože. sed non vnitfuppo fituscum appofitoficurvero quenonfuntppofitionesno · bum. cetereatparticťepo obftáteqa fintindicatie q?i nuiturficur toenois. Significant verum nec falsum . P Ropofitioeftoratioi dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito catbegozicaet prodicaria, madevenirate Alia iperfecta . Diario pfec bignier parte dignins e.me,ose ista quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila queperfectu fenfi catu copula generat animo auditous. partes tanös pzincipaler, peplicireutimplicie. vtbomocurrit. sui.vthomo eltaial. i), Etfidicarurbomo currite Horá dumotres funtspe propofitio catbegozicaznon Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte catiu? Cuius aliqua pars ali quidfignificat. Vt boalb?de uz effe. Ulria particula poni turaddifferentia nominis? Propofitionu zaliacaibego verbi. grumpartesnonfigni rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes tubomo predica Diario imperfectaestilla tum verolianimal.7 copula aiperfectuzfenly;generari illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal fbiectum cumpzedicato. busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur nuerare Pria eft ifta 5 cies orationis perfecte Drationuzperfectar. alia indicatiuavthomo currit babz predicatum dicitur qa babz implicicum predicatuz v z li currens quod patzinreroí alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum eseltasuum participiu uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus Subiectuz estoe& aliquidad fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô animal. Sed copula fempererspularerreigitpilianca. currit. poniturozatolocoge verbuzfbftátiuü. l.luzeselt veteteaiomm neris.q:oisppofitioestoza De propofitione yporbeti-inwirtelde eius. tioetnoneguerro. Secundo capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola diferentiam cuius ponitur il la catiuaeitppofitio.nonátim particulaprincipalespartes peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz Secunda oiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuz cabegozi, tiones foztespór. platoicipit car. Alia affirmatiua aliane facit, egineris, matiua eft ilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane kleinesitimplicies apaleaffirmat öcbócurrit. ceffariaaliacontingens,ppo diferencia Presidurijgezo pzopo çatbegozica negatifitione cefariae ftilacuius artean = uaeftillai qobiipricipalene primarium zadequarumfigi gáf. Vt: “Homo currit.” Tertia ficatum est neceffariumvtoe divisio est iappofitouzcatheus est.popofitiocontingens goricaralia veraalia falsa. Eftilacuiu sfignificatumpzi, Propocatbegozicaveraéila mariumza dequatumeftcó tui? pzimariuzadeqtuligni tingensvttues bomo. Etvo ficaruié verúztuesbobecco fignificatumcontingensil n. Eltperatues hóq2reeffe lud quodindifferenterpotest boiezcftveru.Uocosignifi esseverumvelfalsum.Sex catu primaritiza deq tuppo tadiuifiopropofitionumca! fitionisqó eftfimileorationi thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie illius. vn ' titatis alia nullius. P2opo ca deteeffeboiem velqotues 'thegozicaalicuiusquantitati bódicitfignificatu;primari estillaque évniuersalispar uza de quatúilliustuesbó ticularis indefinita vel singu ceteraåt significata vt teeffe laris. Flop. vniuersalise aialteefe Tbstantia7huiul, ilainqua fubijciturerminosnasdistri mõisunt significata secuidaria comunis figno vniuersalides gacia.Prop cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil 7penesillai diciep povera terminatus vtomnisbócursliepy. necfalla. Propocathegorica rit. Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7 inprentinomenappellatiuuz adequatü significatum estfal fumvttuesarinus pionomen pluralis numeri Signa vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali vterq; neuter qualislibzquá aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi poffibiliseftilacui'paimari tioparticularis eftillainqua uz?adeqrufignificatúépor iubijcitur terminuscóisfigno fibile vt tu curris particulari determinatus vt Propofitio cathegoricai, aliquisbo difputat. Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama ticularia funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus terreliqu’rbui?mór.pzopo eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie feprobatio: ctfromloco Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi gno:ytbomo estanimal. Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti lainquafubijciturterminus onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino coniunif realiamodalis. Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica deielleèillaiä fingularis numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut Toutescurrit. ermfiillebo vtbỏcurrit. Diopofitioca disputar. Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num discretumpelfingularé ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo fibileefoxtemcurrer. Modiy Scromodi ftratiuú singularis numeri vt autem suntf erscilicet porsi, ifteiftaistud. Erquib? fequi biler impossibileneceflariu turiamqueécatbegozicanĽ contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil Secundadiuifio p:opositi laanoé vniuersalis necpar onum modaliumquedamcst ticularisneci definitanecfin infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep sucomposito Propositio motiue vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumz verbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte vtfoztempo ffibileécurrere versus. Quecavelip. qualif Propofitio modatisisenfu* nevelaf. vquanta.parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i taliterpcedirveifinaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumefTeé necessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozicavel ipothetica. Se effeafinum. Erbisdiuifio cudaaurasseritquodaditer nibusorigináturtresfigure rogationéfactamoqualisre quanpriaordeieffe.Seci, fpondetur affirmatiuavľne da modalis ofenfu diuisore gatiua. Sed itertiadenotat habens admoduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata qua particularis indefinitavelfin rui declaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. visiones duealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer C Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibileeft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecundefigurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé dictorie. Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida b?fubiectis7 predicatisfup bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét ponuntprecisepzoeodevĽp proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru. Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularis negatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib? pcirepeodévelp alijsregulisipfarum cogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu natura.quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia regľaviuě duoztraria effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa. Primapars negatia velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè tib pcirepeodezvelpejsó albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt iafimiliter Dmneanimaleft quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo curritP. ull'bócurrit?qui Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit. Quartaregla eft poffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa.fedbenefim cularis affirmatia. Etviuer, vera. Patetparsprima ifin salis negatiuaa particularis gulisdiscurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probatur quoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal sepeodezvelpeisdezftit16 bus. Aliquis bononeftalby alterneinfigura. vt glibzbó Aliquodanimalefthomo.Et currit2gdambócurrit. Dar aliquod animalnonefthomo lusbomocurrit. 2gdazbol Tertiaregulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimul veravelfimulfalfa poffibileouo contradictoria patetifta reguladifcurrédo alter. Hecranonfoludefuit Pfingťaptradironia. Quar primevelfecüdefigureimo taregulaeft14. Sivniuerfaľ tertie.Etvocoibinegatio eft vera fuapticularis velin ne prepofitaquandocolligit definitafibifubalternaeftde modofuemod?pzecedarfi ralnego. Unfib effetvera uesequatur.7 postpofitaqui gizboestalb?6fikreffzver coniungiturverboinfinitiui raaligshoestalbosznóez modi. eréplüpzimi.nópofsi. q:iadefactobe veraaliquis bileésoz.curreredelsoz.cur hoéalbɔ.znóiaquilzboeft rerenóé poffibileereplúfi albɔ.Eteodémódicodenei possibileésoz. nócurrerevel funtregule. quorpria reequiuale tiftiptingenscft eftia. Hegpäepofitafacitz foz. nócurrergpumă regula quipollerefuocótradictozio EthneceffeeTo2. Non currer viinoquil; bocurritequalet equiualetiftiimpossibileest isti.Aligshónócurrit.Etnó soz. Currerr recundam regur nullus homo currit equiualz isti lam zifta non nece f l e e soz . ni aliquishomo currit. Eurrer cquiual; huic possibi Secundaraeftistanegató leésoz.currergtertiamrei poftpofitafacitegpoller fuo gulamzita dicaturdecete contrariopbaf. näiftaquils risquibuscunq3 quare7c. bomo noncurritequipollet SDnuerfioeitcranspofi ufti nullus homo currit. 2nul tiosubiectiinpzedicar lushomononcurritequipol rum7 econuerfo:vtbomoé ictifti quilibet homo currit. Animal animal é homo. Etlý Lertiaregulaeftistanega diuiditur in conversione fimi rio prepofitaz postpositatai plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem. Lonuerfiofim no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta nonnul: Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol vtnulluanimalcurritnulluz letifti aliquis homo non cur curr ése animal. Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra, acadésetranspofitiosubiec dic. Post contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca gatiuisquare 7c. roz. nó currere èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz. curre demqlitarefzmutataquanti uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó estaialaliqd Håbé per aaliqrolanoné aialébo. Lóuerfiopptrapo fbftárianullarojaernte7ti fitioneeträf posiectiipdica befalsaaliqui fubstätianon tiire converso manéteeadem énonrosaq2 suutradictori qualitaterquitirate. kmura uzé vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisi terminosi tia ;estrora. finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano currensnóénon pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis ranullusbõémuliē.zbecē puerhonib? puertatponun falfa nulla mulieré bóigif, furistiosus, Feci simpliciter Secuido becéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon cusvid; ens:7becefalfanul traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc. ponúťquattuorlrevocales Lertio ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar éibbiezljéfatfanullusbó firmatiaz. 2vlemnegatiuaz éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf, giftanó suapuertens.fzia firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz velidefinitanegatiua. Luš effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i. plisnega teripuersa.Ad63picogi tiua7 pticularis affirmatiua fitde sbiecto pdicatu.qziicft puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis negariazplis ens. ióficpuertiéšnullüvi affirmatiua puertufp accñs densensécecii.Ad tertium Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens zpticularisvelidefinitane ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?. vľiainullobõieédom? Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco plures cathcgoricar ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla. vtbeaialchó.2pueri nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer velalicuiistarumequiualen fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal uerfo.lzñéita i puersione p accideiis velpatraponez:ná р Ropofitioypothe, ticaeftillaģb abet Iresigitfuntfpesypotheti Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica, litate neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero vt localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi poffibilis. Hulla atitestque tioaditionalisèillaiäjiun fitcótigens.iftereguledicte gun et plures catbegoziceper suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi. tuesaial. Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic Dpulatiua eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego 5nórepared afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest. Londitionalis cemcõitictas. vttuesboiz negatiua estillaiquanotacó ditionisnegatur vtnonfitu eshotuesafinus 7brempp batper affirmatiua. Adveri ratezcóditional affirmatiue requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumalia affirmatiuaa lianegatiua. Affirmatiuae illainquanota copulationis affirmatur eremplumpofitu eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE pritisrepugnetåtecedentivt fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi vera eft quista repugnanttu nus. csbomo tunoessial. An Et semper negariua proba tecedés vocatillappoqim turper affirmatiuam. mediate sequiturnotãcóditi Åd veritatem copulatiue onis: cófeques veroeftalta. Afirmatiuer equiriturquam f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu tuesaialest consequens.Ad eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf alfitatem copulati, matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam "sistemahor oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues behurinefrom cumancedente vifituesbó atucurris. tu sedes. Hec aut ftant fimul Bd possibilitatem copula tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiritur qualibetpar itaconditionaliseft falsa. técepossibiléznll'ä altériiz tatomagis welalijs Jhiunctiuaeftillaique Deus évelfoztesmouef. Ere coñitigüturplescathe pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica. gozicepnotazdi functionis; adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin? Ritur qualibet partemeffeco Propositionúdifuciuarú tingentezznulla alteri repu alia affirmatiuaalia negatia gnarenecét contradictoria il; disunctiva affirmativa éil, laqvtantirpseftalbɔl'ipfe a inqua affirmatur notadi currit. Ponitur tertiapartir litctóisvtpatuit. negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai quanota difiuctó ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés. lzboc firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam difiunctionis. tropugnante poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus. Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi, eilisre quiritur qualspartem possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alterii copoisibilez. eremplu Md posibilitatem difüctie figutcomke partesplenepost primivttu curris. 7tuésafi, affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes. Ad neceffitatez. copla eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed ad impoffibilitate eius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif qualibet partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem vt homoeftafialiudfornogri. husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft. tezelleptingentez.alteraatt Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez nec eidéicópofi affirmative fufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó temeffeneceffaria;veliuicé pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt de partibɔcontradictozijser} Ad Veritate zoifiuctiueaf, fe impoffibile z. Etadcontin Röme ftiguduozycótrario afirmatiuefuficitvnazparte gentiamcopulatiuafacta siune imposfibilealiud effeveram. pttu.cshomop gtib oppofitisfitcótiges, metafarim #coco scadcon coinout:fed quo hoc eftueru, cuno filin ilascopilgrimur, fatke porousopofiris,codicarilkidekie Erionisdifnightutplan qnoradiinch omnis,Admiños vilpropofiriones, congle:fed l Frelsabond murgiipropa Mit Saint Erine et filace prolaindao importinisdefinitiva entrare difusique significatia sseéincóueniensa Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens unum idiom conigat et difiurgatriper Sadcuila copulatiua falton Iparibusopofieasofusdeles in diversors Et iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaé estimat arhdheof magister bisin coligititommdig ogdifinitivaerit Drinsers. viétime quod propria fueimpropriauide itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props liéefetwimmign ruenhomo neltuesani bec.n.éneceffariatunocur iusmodi, ris. vel tu moueris . q becco Lermin e quoc e termin ? pulatia éipoffibiťtucurrif fimplerplura fignificarFzdi tunomoueris.Etbecéptin uerfasrationes ficutlicanis géstucurrisvľtunomoue ghignificatcanelatrabilefi ris.q2 beccopulatiuaéptin, duscelestez piscémarinuz. Genstunócurris tumoue zbocdiuerfisrationibus. risfecúduregulasdatasde Paedicabile fecúdomó fti copulatiuis. mifvideliczcóiterzp ergoétermin?vnwoc?pze. prie Predicabilecóiterfup túiterminoaptus. natusde aliquopdicari. zfictātermi nuscõis finglaristacói dicabilisingddeplerib?ori tibus(pe. ptaialpredicatur deboiezdeafinogorritfpe ineoqdquidqzaditerroga plerusqizplerusdiciepze tionezfacta; perquideftbo dicabile. Sippziesicfumen velafin? rndeturqeltaial. do difinit. Paedicabilee ter Ben'oiuiditur. naquodda minouiuoc'apt nat deplu estgenus gnälifsimu. zquod rib?pzedicari. ficnull?ieri damgenussbalternum nusfingularisnec tráfcedes Benus generaliffimúéter autpofit? Dicitur pzedicabiming ficégen?qd nopot lefeuvniuersaleqóidéė.q2 essespecies. ytfubftátia. Be null’ralisestterin vniuoclis nus subalternúeftterminus Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe termin? fimpler plura signifi species vtaial.eeniz genus cásfm vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde boqo significatfoztezplato rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác Spesestterminusvniuo/ rationeať raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil qodiciturterminus fimpler ercluduttermini3 pofiti. sed significans pla ercluditter minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez. videlzensaligdzbu iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő Spéfoiuiditur q2qdazeft specialissimazadå Malterna Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen? speciediffe"Redicabiledupťrfu rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina cutlialbuqapredicatur. de cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale vtanimal. qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri lisehódlafin?pótpuenien nusqcum fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt bóvel aliter conuertibiliter. Quia nó con Spės spalissimaétermin? uertiturlialbuaialiq°illoz, vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe plurib'orñtıb nuerofolum turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai piedicabile effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter termin?vniuoc? predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero quale. Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti, làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe přib?orritib? nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri. veliqualeacclitaleno qzaditërogatóemfactaper puertibiťr.2 illud éaccñs.er qualisest fortes respondetur predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ idirecta er Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica Þdicabilisdeplib’ieoquod tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut dicaturdefuoiferiozi. Debo rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé platbeieoqdqualeqzadin illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť.7 totaratio quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq? Feriozi velecóuersofz quod éppziapafsio illius termini dictiév ľoriadeali q°illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin’vniuoc'pze iqua ppuúvelaccñspzedir. dicabilisdeplib”ieoquod caturde generefpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuo idiuiduo autepuerfo Eréplüpzimi: vtbóèrifibil dirurin decepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimuelt predicarsitu lub bileéhoalbueaial. Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl me teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatio efriaťė mi? coup”.subcocpozecosp pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať dicamenti vtbóestaial. pze, aiali fpess pecialissimahoľ dicatioautaccicať eft piedi afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminox diuerfoz pze foztesz plato. bzunellusfa dicamentorum vt homo éale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tú eft pdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui' generalis fimúeftquäti. tinerillúzne converso sicut li tasfubý funt duo genera aial respectuisti terminihó alternaär nulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz?di bocaliquid vltra. Lermin’in scretu. Primi generis iftefür feriozadreliquú dicitur effe fpeties linea superficiescoz illequi cótineturabeo. nnó pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftius termini bomo. hiclocus. Secundi generis Lozpozea Jnco: pozea infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumelt passio vel passibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuz est forma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca aliquid pitas figura us trinarius quaternarizë Animatum Jnanimatuz individua vero funt hicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu iusgeneraliffimum estquali Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale. tasfubquofuntquattuo:ge Animal rationale nera subalterna non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eftnaturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies. boc cozpusboc rempus Primi generis spetiesfune Quintum predicamétoem grāmatica logicaz rhetorica dica métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå rasubaltez nafuntfer. quozu matica logicab rbetorica. Nulluė superius ad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspés sunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz ?cozrupereequáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez cum. quarú idiuidua sunt heç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal quarti generis (pessuntau. Bumhocnigp buiusmodi. gereinlongudiminuereila Quartigeneris fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulus triangulus quadra augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua funt. biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuiduafuntficcalefa Quarti i predicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada. súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttria genera( dividua sunt ficmo uerefurfu altera ilebita, 16zsupa fic movere deorfum. Sertus Primum estcaparatio. Se predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu’generatiffimu fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene tiessuntvicinusequale?li, rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt. zsupaav; generari corrupia hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo fimile dñszmagister. qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi tuboiezgenerariftueqmco Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis fuus discipľ? quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic gúdiminuiilatu quani diui. piscipulus. dua funt ficaugeriilogu fic cumouči. primi7figeneris, Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi generis spėssunt v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua diminuerealterare. cfmlo, funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener -- b Logica Parva: Critical Edition from the Manuscripts with Introduction and Commentary, Perreiah, Leiden: Brill; Logica magna, Venezia: Albertinus Vercellensis, Octavianus Scotus; Logica magna: Tractatus de suppositionibus, Perreiah, St. Bonaventure, NY: The Franciscan Institute; Logica magna: Part I, Fascicule 1: Tractatus de terminis, Kretzmann, Oxford; Logica magna: Part I, Fascicule 8: Tractatus de necessitate et contingentia futurorum, Williams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 3: Tractatus de hypotheticis, Broadie; Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 4: Capitula de conditionali et de rationali, Hughes Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 6: Tractatus de veritate et falsistate propositionis et tractatus de significato propositionis, Punta, Adams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 8: Tractatus de obligationibus, Ashworth, Oxford; Sophismata aurea, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Super I Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Ruello, Firenze, Olschki; Expositio in duodecim libros Metaphisice Aristotelis, Liber VII, in Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden, Brill; Expositio in libros Posteriorum Aristotelis, Venezia, Hildesheim: Olms, Summa Philosophiæ Naturalis, Venezia; Expositio super octo libros Physicorum necnon super commento Averrois, Venezia; Expositio super libros De generatione et corruptione, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Scriptum super libros De anima, Venezia; Quaestio de universalibus, extant in nine mss. There is a partial transcription from ms. Paris, BN 6433B in Conti, Sharpe: Quaestio super universalia, Firenze, Olschki; Lectura super libros Metaphysicorum, extant in two mss. (The ms. used here for the quotations is Pavia, Biblioteca Universitaria, fondo Aldini; Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis, Venezia. Amerini, AQUINO (si veda), Alexander of Alexandria and N. on the Nature of Essence, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Alessandro di Alessandria come fonte di N.. Il caso degli accidenti eucaristici,”Picenum Seraphicum, N. on the nature of the Possible Intellect, Musco; Ashworth, A Note on N. and the Oxford Logica” Medioevo; Bertagna, N.’s commentary on the Posterior Analytics, Musco; Bochenski, A History of Formal Logic, Thomas (trans.), Notre Dame, IN: University of Notre Dame; Bottin, Proposizioni condizionali, consequentiae e PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE [cf. Grice, Strawson] in N.” Medioevo; La scienza degl’occamisti: La scienza tardo medievale dalle origini del paradigma nominalista alla rivoluzione scientifica, Rimini: Maggioli; N. e il problema degl’universali, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padua: Antenore; Logica e filosofia naturale nelle opere di N., Scienza e filosofia a Padova nel Quattrocento, Padova: Antenore; Conti, A. Note sulla Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis di N.: Analogie e differenze con i corrispondenti commenti di Burley,” Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Universali e analisi della predicazione in N., Teoria; Il problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di N.,” Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano; Il sofisma di N.: Sortes in quantum homo est animal, Read, Sophisms in Medieval Logic and Grammar, Dordrecht: Kluwer; Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, Rome: Edizioni dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; N. on Individuation”, Recherches de Théologie et Philosophie médiévales; N.’s Theory of Divine Ideas and its Sources”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Complexe significabile and Truth in RIMINI (si veda) and N.”, Maierù/Valente, Medieval Theories on Assertive and non-Assertive Language, Firenze, Olschki; Opinion on Universals and Predication in Late Middle Ages: Sharpe’s and N.s Theories Compared”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; N.’s Commentary on the Metaphysics”, Amerini-Galluzzo, A Companion to the Latin Medieval Commentaries on Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Materia prima e rationes seminales negli scritti di metafisica di N., Medioevo; Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Garin, Storia della filosofia italiana, Torino: Einaudi; Gili, L., N. on the Definition of Accidents,” Rivista di Filosofia Neo-Scolastica; Karger, La supposition materielle comme suppositions significative: N., PERGOLA (si veda), Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Kretzmann, Medieval logicians on the Meaning of the Proposition”, The Journal of Philosophy; Kuksewicz, N. e la sua teoria dell’anima, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padova: Antenore; Loisi, L’immaginazione nel commento al De anima di N.,” Schola Salernitana, Mugnai, La expositio reduplicativarum chez Burleigh et N., Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Musco, Compagno, Agostino, Musotto, Universality of Reason, Plurality of Philosophies in the Middle Ages, Palermo: Officina di Studi Medievali; Nardi, N. e l’averroismo padovano, Saggi sull’averroismo padovano dal secolo XIV al XVI, Florence: Sansoni; Nuchelmans, Theories of the Proposition: Ancient and Medieval Conceptions of the Bearers of Truth and Falsity, Amsterdam: North-Holland; Medieval Problems concerning Substitutivity (N., Logica Magna, Abrusci, Casari, Mugnai, Storia della Logica: San Gimignano, Bologna: CLUEB; Pagallo, Nota sulla Logica di N.: la critica alla dottrina del complexe significabile di RIMINI (si veda), Congresso di Filosofia, Florence: Sansoni; Paladini, Why Errors of the Senses Cannot Occur: N.’s Direct Realism”, Studi sull’Aristotelismo Medievale; Perreiah, Insolubilia in the Logica parva of N.,” Medioevo, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green, Ohio: Philosophy Documentation Center. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, 4 vols., Leipzig: S. Hirzel, Graz: Akademische Druck- und Verlaganstalt; Ruello, N. thélogien ‘averroiste’?,” Jolivet (ed.), Multiple Averroès, Paris: Vrin; Introduction,” Ruello, Super I Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Firenze, Olschki; Strobino, N. and MANTOVA (si veda) on Obligations,” in Musco; Van Der Lecq, N. on Composite and Divided Sense, Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis, Wallace, Causality and Scientific Explanation, Ann Arbor: University of Michigan. NICOLETTI (si veda), noto come Paolo Veneto, studia, fra l’altro, a Oxford e insegna in varie università italiane e soprattutto a Padova; citeremo 168v-173v; Tractatus appellationum, ivi, ff. 175v-179v; Textus de statu, f. 180; Tractatus restrictionum, ivi, ff. 181v-182r; Tractatus alienationum, ivi, f. 182v; Prima Consequentiarum pars, ivi, ff. 184r-193r; Secunda Consequentiarum pars, ivi, ff. 194v-208v. Al titolo Textus dialectices seguirà solo l'indicazione dei ff. 103 Cfr. MacistRI PetrI DE ArLLvAco Tractatus exponibilium, Parisius Impressus a Guidone Mercatore. In campo gaillardi. Id. Octobris, s. pp. (ma l'esemplare consultato ha la paginazione a mano). Petrus MANTUANUS, Logica. Tractatus de instanti, Padova, Johann Herbort; l’ordine dei trattati è diverso dai mss. alle stampe; l’ed. utilizzata è s. pp., ma l'esemplare che ho consultato ha una paginazione a mano; la segnatura della Bibl. Vat. è Ross. 1769; cfr. la bibliografia in Lo Speculum puerorum ..., cit.,299 n. 16. La più completa trattazione d’insieme del pensiero di NICOLETTI è ancora quella di F. MomicLiano, NICOLETTI e le correnti del pensiero filosofico del suo tempo, Torino; pet il soggiorno ad Oxford, cfr. B. NarpI, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, in La civiltà veneziana del Quattrocento, Firenze, dove si afferma che NICOLETTI rimane a Oxford almeno 3 anni, e si le sue opere: Logica parva, Logica magna, Quadratura. Paolo da PERGOLE (si veda) e discepolo di NICOLETTI a Padova e resse la scuola di Rialto a Venezia; la sua Logica segue da vicino la Logica parva del suo maestro; il trattato De sensu corpositio et diviso dipende dall'omonimo trattato di Heytesbury !°; i Dubiz sono legati ai temi delle Consequentiae di Strode. Altro discepolo di NICOLETTI e il vicentino Gaetano da THIENE (si veda), professore a Padova, che ha legato il suo nome soprattutto al commento delle opere di Heytesbury (Regulae e Sophismata). Si ricorda di lui l’Expositio delle Consequentiae di Strode. Il domenicano Battista da FABRIANO (si veda) riporta il seguente documento. Die 31 Augusti 1390: Fecimus studentem fratrem Paulum de Venetiis in nostro studio Oxoniensi de nostra gratia speciali cum omnibus gratiis quibus gaudent ibidem studentes intranei. Item eidem concessimus quod tempore vacationum Lundonis possit libere morati. Cfr. ora A.R. PerreraH, A Biograpbical Introduction to NICOLETTI, Augustiniana. Pauri VENETI Logica, [Venezia, Cristoforo Arnaldo], s. pp. AI titolo Logica parva seguirà solo l’indicazione del trattato. Pauri Veneti Logica magna. Impressum Venetiis per diligentissimum virum Albertinum Vercellensem Expensis domini Octaviani Scoti ac eius fratrum opus feliciter explicit Anno D. 1499 Die 24 octobris. Macistri Pauri VenETI Quadratura. Impressum Venetiis per Bonetum Locatellum Bergomensem iussu et expensis Nobilis viri Octaviani Scoti civis Modoetiensis. Anno ut supra. Cfr. B. NARDI, op. cit., pp. 111-118. Cfr. Pau or PercuLA, Logica and Tractatus de sensu composito et diviso, ed. Brown, St. Bonaventure N.Y.-Louvain-Paderborn 1961. Si tenga presente anche I. Bon, Paul of Pergula on Suppositions and Consequences, Franciscan Studies , XXV (1965), pp. 30-89. Cfr. per l’ed. dei Dubia, n. 90. Cfr. su Gaetano da Thiene: P. Silvestro DA VaLsanziBIo, Vita e dottrina di Gaetano da Thiene, Padova 1949; per l’ed. dell’Expositio (che citeremo col titolo Super Consequentias Strodi), cfr. n. 90. professore di filosofia e teologia a Padova, Siena, Firenze e Ferrara, cominciò la sua carriera accademica un decennio dopo Gaetano da Thiene; compose, fra l’altro, una Expositio del De sensu compositio et diviso di Heytesbury. Il senese SERMONETA (si veda), magister artium et medicinae , figlio del medico Giovanni, insegnò a Perugia, poi a Pisa (per quattro anni) e finì la sua carriera a Padova; ricorderemo i suoi due scritti di logica: Super Consequentias Strodi!5 e Expositio in tractatum de sensu composito et diviso Hentisberi!*, Un’Expositio dello stesso trattato De sensu composito et diviso scrisse anche il carmelitano senese Bernardino di LANDUCCI (si veda)), che divenne generale del suo ordine.Cfr. J. Quérrr-J. Ecuarp, Scriptores Ordinis Praedicatorum, I, Lutetiae Parisiorum 1719,847; G. Brorto-G. ZonTA, La facoltà teologica di Padova, Padova. Cosenza, Biographical and Bibliographical Dictionary of Italian Humanists and of the World of Classical Scholarship in Italy, Boston, ad L’ed. dell’Expositio è in Tractatus de sensu composito et diviso magistri GuLieLMI HENTISBERI cum expositione infrascriptorum, videlicet: Magistri ALEXANDRI SERMONETE (impressum Venetiis per Jacobum Pentium de Leuco, a. d. 1501, die XVII julii), Magistri BERNARDINI PETRI DE LANDUCHES, Magistri PauLi PercuLENSIS et Magistri Bapriste DE FABRIANO. Si veda ora L. GARcan, Lo studio teologico e la biblioteca dei Domenicani a Padova nel Tre e Quattrocento, Padova, Battista da Fabriano. Cfr. J. FaccioLATI, Fasti Gymnasii Patavini, I, Patavii; A. FagroNI, Historiae Academiae Pisanae, Pisis; Ermini, Storia dell’università di Perugia, Bologna 1947,501. Cfr. l’ed. cit. inn. 90. Cfr. l’ed. cit. in n. 113. Cfr. l’ed. del testo in n. 116; si vedano per le notizie biografiche: J. TritHEMIUS, Carmelitana Bibliotheca sive illustrium aliquot Carmelitanae religionis scriptorum et eorum operum catalogus magna ex parte auctus auctore P. Petro Lucio BeLGA, Florentiae apud Georgium Marescottum Contemporaneo del Landucci dovette essere il lodigiano POLITI, artium doctor: alunno di MARLIANI (si veda), insegna calculationes a Pavia! e compose vati trattati di logica: un De sensu composito et diviso, una declaratio della Logica parva di NICOLETTI e una Quaestio de modalibus, che sarà qui utilizzata, scritta al tempo di BORGIA (si veda). da Bernardino di LANDUCCI (si veda)è la più sistematica tra quelle finora esaminate: essa utilizza e discute i trattati di logica dei maestri più rinomati IN ITALIA al suo tempo, ed accenna almeno due volte alle opinioni di SERMONETA (si veda), che designa come quidam doctor, di modo che può essere considerata come il punto di arrivo di una tradizione di interpreti della dottrina del senso composto e del senso diviso. Secondo Landucci, il trattato fa parte degli Elenchi sofistici e perciò esso non è da porre dopo i Primi analitici, come vuole il Sermoneta *”, Inoltre, l’autore fa sua la tesi secondo la quale non è possibile dare una descrizione univoca di ‘senso composto’ e di ‘senso diviso’, giacché di volta in volta diverse sono le raziones che presiedono alla individuazione dei vari modi ®%. 305 Lanpucci, Expositio..., cit.: autori espressamente ricordati, oltre ad Aristotele, Averroè e Heytesbury, sono Strode, Pietro di MANTOVA (si veda), NICOLETTI, e Paolo da PERGOLA (si veda). Si legga il seguente passo relativo alla discussione circa la capacità di omnis di distribuire tutto il disiuzcium o il copulatum’ a parte subiecti: Ad hoc dubium inventi sunt plures modi respondendi. Primus est Petri Mantuani, qui tenet quod totum disiunctum et totum copulatum sit subiectum. Secundus est Pauli Veneti, cuius opinio in diversis operibus est diversificata: nam Sophismate nono tenet quod prima pars solum sit subiectum, et in Quadratura tertio dubio secundi principalis, et in Logica magna et etiam in Parva tenet quod totum disiunctum vel copulatum sit subiectum, attamen solum prima pats est distributa, et illa appellatur ab eo subiectum distributionis. Tertius modus est Hentisberi, Sophismate septimo, qui dicit quod talis propositio est distinguenda eo quod subiectum potest esse totum disiunctum aut una pars tantum, quapropter utramque partem sustentando respondetur ad argumenta probantia quod non distribuatur totum . 306 Cfr. ivi, f. 2rb (posizione del trattato della suzzzza della logica) e f. 3vb (per la verificatio instantanea ): cfr. nn. 307 e 325. 307 Ivi, f. 2rb: Circa secundum dicit quidam doctor quod iste libellus est pars libri Priorum et quod immediate postponendus est ad illum librum, quod quidem, salvo meliori iudicio, non puto esse verum . Ideo puto aliter esse dicendum, videlicet quod iste libellus sit pars libri Elenchorum . 308 Ivi, f. 2vb. 580 Alfonso Maierù L’esame degli otto modi segue uno schema costante: in una prima parte si descrivono il senso composto e il senso diviso e se ne mostrano le differenze, in una seconda vengono poste le regole dell’inferenza dall’uno all’altro senso, in una terza vengono poste obiezioni (con le relative risposte) a ciò che è detto nelle prime due parti. In questa sede noi trascureremo quanto Landucci afferma circa i modi terzo ®”, quarto *°, quinto ®!, sesto ®!° e ottavo (con appellatio temporis soltanto) ?: in essi infatti l’autore non prospetta nulla di nuovo rispetto a quanto già sappiamo dai commenti precedenti. Diverso è il caso dei modi primo, secondo e settimo, che sono simili tra loro, e nei quali si propone un discorso unitario che mira a fissare per ciascuno di essi caratteristiche tali che lo distinguano dagli altri due. Il primo modo ha luogo con i termini modali. Ora, il termine modale è così descritto da Landucci: Terminus modalis est terminus determinativus alicuius dicti et connotativus alicuius passionis propositionis, non habens vim faciendi tale dictum appellare formam *!*. I modi sono i quattro classici, più veruzz e falsum: Landucci non accetta la definizione di Occam secondo cui qualsiasi termine che possa predicarsi di un dictum è da considerare modus?*5; egli ritiene invece che solo quei modi che determinino una proposizione connotandone una qualche caratteristica siano termini modali. Termini come scitum, dubium, intellectum, cognitum non sono modali perché, oltre ad avere ciò che è proprio dei modali, fanno sì che il dictum appellet for309 Ivi, ff. 9vb-12vb. 310 Ivi, ff. 12vb-15rb. 311 Ivi, ff. 15rb-17vb. 312 Ivi, ff. 17vb-20rb. 313 Ivi, f. 23vb-24vb. 314 Ivi, f. 3ra. 315 Cfr. cap. V, $ 6. Terminologia logica della tarda scolastica 581 mam 355: essi rientrano propriamente nel settimo modo, come vedremo. Senso composto e senso diviso così sono caratterizzati: Ideo sensus compositus in primo modo causatur quando terminus modalis totaliter praecedit aut finaliter subsequitur totum dictum totius propositionis in qua ponitur, aut finaliter subsequitur (!); sensus vero divisus causatur quando terminus modalis mediat inter partes propinquas totius dicti; unde partes propinquas dicti appello totum quod regitur a parte ante et a parte post respectu verbi illius dicti, id est a verbo orationis infinitivae vel coniunctivae 317. Ili Se SCHIAVONE non è un avverroista nel senso vero e proprio della parola, avveroista è invece l'eremitano Nicoletti, il quale professa a Padova un tipo d'avveroismo guardingo, che forse «gli vi portò da Parigi, se pure non v'era già arrivato da BOLOGNA, e che risente della lettura dell'opera di Sigieri di Brabante, De intellectu ad jratrem AQUINO, oppure degli scritti di Wilton impugnati a BOLOGNA Bologna, dal francescano Alnwick. NICOLETTI è andato a studiare a Oxford, insieme a un suo fratello germano, anch'egli eremitano, e v'era Dal voi. Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano. Roma, Edizioni Italiane, salvo una modificazione fino al quinto capoverso. Sigieri di Brab. ecc. Che l'averroismo a PADOVA ha origini in BOLOGNA è ipotesi verosimile; ma non si può escludere un'origine oltre-montana. Che poi Averroè è tenuto in gran conto a Padova assai prima di NICOLETTI, è provato dagl’affreschi di Menabuoi nella cappella Cortelieri nella chiesa degl’eremitani, anteriori, e dei quali ci resta la descrizione di Schedel di Norimberga che è studente a Padova. Giunto raffigura Averroè insieme agl’eremitani maestro ALBERTO DA PADOVA e al beato GIOVANNI DA BOLOGNA. Schlosser, Giusto's Fresken in Padua n. die Vorlàufern der Stanza della Segnatura, Jahrbuch der Kunsthistor. Sammel. des allerhòch. Kaiserhauses, Wien, Bettini, Giusto S. M. e l'arte. Padova, P n? NICOLETTI dove ben conoscere quegli affreschi. 2 Maier, Alnwicks BOLOGNA Quaestionen gegen Averroismus, Gregorianum rimasto almeno un triennio. Il soggiorno di NICOLETTI a OXFORD non era rimasto ignoto a CITTADINI (vedasi) da Faenza, che a Ferrara detta un commento polemico dei Logica minora dell'eremitano, in principio del quale si legge: Ferunt autem quidam non auctoritate indigni, hunc libellum in BRITANNIA, ubi olim et dialecticae et PHILOSOPHIAE studia floruerunt, in antiquissimis litteris compertum esse, ut ex illis constaret, prius opusculum hoc extructum fuisse quam NICOLETTI natus esset. Quod eo magis a non nulhs creditur, quod certuni est NICOLETTI apud Britanos visendorum GYMNASIORUM gratia aliquando commoratum esse, ac postea in Italiani revertentem multos libros secum detulisse, quorum auctores Italis penitus erant incogniti. Più tardi soggiorna anche in tlorentissima universitate Parisina, ove NICOLETTI espone gli ante-praedicamenta di Aristotele. Egli è lettore nella facoltà dell’arti a Padova, e quivi compone quella Summa naturalium nella quale è esposta la dottrina del libri fisici e della Metafisica d'Aristotele, con sobrie discussioni dei problemi agitati nelle scuole. Notevole in questa summa il trattato concernente il De anima, perché in esso ritroviamo le tesi fondamentali del De intellectu di Sigieri. Ma di questo scritto aristotelico NICOLETTI ci lascia un'assai più ampia esposizione redatta non di molto posteriore alla Summa naturalium Reg. Re. mi Barth. Veneti, nell'Archivio della Curia generalizia degl’eremitani in Roma Dd. il studio di N. sulla Letteratura e cultura veneziana, La civiltà veneziana. Firenze, Sansoni Cod. Urb. lat. Ghiotta notizia, segnalatami da Pagallo, in una annotazione al Cod. della Bodleniana di Oxford Catal. di H.O. CoxE, P. Ili, Oxford La data di composizione della Summa naturalium è fissata dal codice marciano che ne contiene solo tre parti. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Veneiiarum, Venezia, Lat. Come non molto posteriore è 1'Expositio super libros Physieorum Aristotelis necnon super comento Averois cum dubiis eiusdem Duhem, Le niouvement absolu et le mouvement relatif. Revue de philosophie. Montligeon (Orne) Le stesse variazioni che Duhem riAnche in questa seconda opera l'influsso esercitato sull'eremitano dal trattato dell'averroista belga contro AQUINO, è decisivo, come possiamo convincerci dalla lettura dei seguenti brani che per comodità del lettore riferiamo. Nell'esposizione del testo del De anima, Nicoletti si pone, ad maiorem dictorum evidentiam, alcuni dubia, il secondo dei quali verte sul problema utrum in eodem animali plures possint esse anime totales, che egli risolve nel modo che segue, non senza aver prima confutate altre soluzioni: Circa liane materiam, siint plures modi dicendi. Primus modus est, quod piante non habent nisi unam animam totalem, scilicet vegetativam; bruta duas, scilicet vegetativam et sensitivain; homines vero tres, videlicet vegetativam, sensitivam et intellectivam; non tamen simul generantur, sed successive per tempus, ita quod primo generatur vegetativa, deinde sensitiva, tertio leva – GRICE PIROTOLOGICAL PROGRESSION -- tra quest'opera e la Summa naturalium, si posson notare anche fra quest'ultimo scritto e il commento Super libros Aristotelis de anima, che senza dubbio rivela una maggiore complessità e maturità di pensiero. Nel commento, a proposito del quesito se gli universali sint in rerum natura, NCOLETTI dichiara d'averne trattato quanto basta in alio opere et in prologo physicorum. È probabile che, dopo l'esposizione sommaria delle dottrine fìsiche e metafìsiche dello Stagirita, Nicoletti si sia accinto a commentare le singole opere aristoteliche alle quali si riferiva la Summa, cominciando, come sappiamo, dagli libri della Fisica e proseguendo poi col De caelo, col De generatione et coruptione, coi libri Meteorologici, col De anima e colla Metafisica. Una vera biografìa filosofica di NICOLETTI non è concepibile senza aver tolto in esame tutte queste opere che da parte di Momigliano sono state piuttosto ricordate che vedute e lette. Tornato a Padova, dopo le peripezie che lo avevano costretto a lasciare questa città o forse l'eremitano s'accinse a commentare di nuovo il De anima, come ci attesta Ripalta, piacentino, allora studente nello studio padovano. Questi si procura una copia dell'esposizione completa dell'opera aristotelica, poiché il maestro che con tanto grido era tornato a leggerla non anda oltre il capitolo de gustabili, essendo stato colto dalla morte. Valentinelli NICOLETTI, In libros de anima explanatio cimi textu incluso singulis locis, maxima qiiidem diligentia a vitijs mendis atque erroribus quibus hacteniis ex ignavia impressorum scatebat purgata ac pristine integritati restituta etc. E nel colophon: Scriptum super librimi de anima ex proprio originali diligenter emendatum per clarissimum. artium doctorem. D. magistrum Hieronymum Surianum, filium prestantissimi quondam artium doctoris, Domini magistri lacobi. de Surianis de Arimino Venezia, Eredi di Scoto, comm. post completarti organizationem membrorum generatur intellectiva Hic modus dicendi est superfluiis. Secundus modus dicendi est, quod in quolibet vivente est solum una anima totalis; et quod est ordo in productione animarum, quia FETVS PRIMO VIVIT VITA PIANTE, deinde vita animalis; tamen tales anime simul non manent in eodem, sicut nec due figure, sed in adventu secunde corrumpitur prima, et in adventu tertie corrumpitur secunda. Iste modus est impossibilis, quia tunc aliqua forma per se ageret ad corruptionem sui ipsius. Tertius modus dicendi est, quod in nullo nisi in homine sunt plures forme substantiales seu anime totales, scilicet sensitiva et intellectiva, quarum prima educitur de potentia materie per agens naturale, secunda autem creatur a deo, non obstante quod ita bene inhereat sicut prima, adducendo illud philosophi, de animalibus: intellectus venit deforis. Sed hec opinio includit contradictionem, quia si anima intellectiva inheret materie, ergo educitur de potentia materie et generatur ad generationera corporis animati et corrumpitur ad corruptionem eiusdem. Item hec opinio non est naturalis, quia ponit intellectum creari; et Aristoteles una cum commentatore ponit ipsum perpetuum et eternum. Deinde, si anima intellectiva inheret materie, ergo intellectio et volitio sunt subiective in materia; quod est centra philosophum et commentatorem ponentes potentias rationales esse abstractas a corpore, et consequenter actus illarum. Quartus modus, quem solum puto rationalem, est iste, quod pianta habet solum unam animam totalem, scilicet vegetativam, compositam ex partibus diversarum rationum; et consequenter animai imperfectum simpliciter, quod non habet aliquem sensum exteriorem nisi sensum tactus, nec aliquem motuin ad locum, sed solum motum dilatationis et constrictionis, habet etiam solum unam animam, scilicet sensitivam, que propter sui imperfectionem supplet vices anime vegetative, ita quod in ostrea vel spongia marina eadem anima est sensitiva et vegetativa. Animai autem perfectum habet duplicem animam, scilicet partialem vegetativam, in carne vel osse vel in aliquo proportionali, et Questa teoria è la seconda delle opinioni da N. elencate in Giorn. Crii, della Filos. Ital., ed è ricordata d’ALIGHIERI, Purg., come quello error che crede ch'un 'anima sovr 'altra in noi s'accenda. Questa dottrina, già accolta dal francescano RocheUe, fu difesa, com' è noto, d’AQUINO. lo stesso Giorn. Crii., opinione. Questo tertius modus, che è una teoria intermedia fra quella d’AQUINO e quella schiettamente averroistica, non è altro che la opinione da N. elencate, professata da Alberto Magno, Peckam ed ALIGHIERI. Giorn. Crii.; come pure il voi. Di N., ALIGHIERI e la cultura medievale, Bari, Laterza Questa è anche la tesi di Bate; Sigieri, nel pens. nnam sensitivam totaleni, ut equus vel asinus. HOMO autem, preter partiales animas, habet duas totales: cogitativam sensitivam, generabilem et corruptibilem, inherentem et informantem, et intellectivam perpetuam et eternam, informantem et non inherentem. Da siffatta teoria risultano alcune conseguenze a mò di corollari Tertio sequitur quod HOMO non est homo precise per animam cogitativam, nec precise per animam intellectivam, sed per ambas simili. Cogitativa enim denominat hominem esse animai, et intellectiva denominat hominem esse RATIONALEM. Sed HOMO est diffinitive et convertibiliter ANIMAL RATIONALE – corpi celesti ANIMAL RATIONALE AETERNVM --. Ergo ambe anime concurrimt ad constitutionem hominis. Quo dato, oportet concedere quod, sicut genus est prius differentia et potentiale ad illam, sicut universaliter minus perfectum ad maius perfectum, ita cogitativa est prior intellectiva in homine et potentialis Nella Summa philosophie natura! is o naturalium Venezia. Eredi di Scoto, De anima: conclusio: Necesse est in homine esse plures animas totales. Probatur: nam sol et homo generant hominem, physicorum; ergo homo generatur; sed terminus generationis est forma accipiens novum esse, ut colligitur ex sententia philosophi, phisicorum; ergo aliqua forma hominis generatur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva generatur. Item, philosophus, coeli: omme genitum aliquando corrumpetur; ergo homo aliquando corrumpetur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva. Et ita necesse est ponere in homine duas animas: unam intellectivam, ingenerabilem et incorruptibilem, secundum philosophum, et aliam sensitivam, generabilem et corruptibilem, quam Commentator vocat, de anima, cognitivam cogitativam. Conclusio: Impossibile est in aliquo vivente non intellectivo esse plures animas totales. Patet, quoniam si in plantis vel in brutis ponerentur plures anime totales, una necessario superflueret, quoniam illa que est maioris perfectionis totum actuaret, sicut illa que est minoris perfectionis, et omnes operationes eius exerceret, ex quo in ea fundantur omnes potentie inferioris anime. Dicatur ergo quod in plantis est solum una anima totalis, que est tota in toto et pars in parte, et hec est vegetativa. In animalibus autem imperfectis est solum una anima totalis, et illa est sensitiva, supplens vicem anime, que etiam extenditur ad extensionem subiecti; et in animalibus perfectis sunt plures vegetative partiales et una sensitiva totaUs, multiplicata ad omnem partem heterogeneam. Sed IN HOMINIBVS, praeter formas partiales vegetativas, sunt due totales, scilicet sensitiva multiplicata ad partes heterogeneas, et intellectiva non multiplicata ad aliquam partem illius individui, sed bene ad omnia individua speciei humane, eo quod intellectus est unus in omnibus hominibus, iuxta intentionem Aristotelis et determinationem Commentatoris, de anima. illam sequitur quod idem individuum est diversarum specierum essentialium. Patet, quia HOMO per animam cogitativam sensitivam est alicuius speciei generis animalium, immo supreme speciei, quia, secluso intellectu, PER COGITATIVAM HOMO HABET DISCVRSVM QUODAMMODO RATIONALEM – GRICE PRINCIPLE OF RATIONAL DISCOURSE --, ratione reminiscentie reperte in eo et non in aho; licet enim memoria reperiatur in liis animalibus, non tamen reminiscentia; neque reminiscentia competit homini ratione intellectus, sed ratione cogitative virtutis, quia reminiscentia est passio anime sensitive, secundum Aristotelem, in de meìnoria – GRICE PERSONAL IDENTITY -- et reminiscentia H. Item, quia intellectus humanus est pura potentia in genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio huius, et per consequens est primus gradus illius generis, ideo per intellectum constituit primam speciem intellectivoruni, sicut per cogitativam constituit ultimam speciem generis animalium. Nec est inconveniens duos gradus specificos esse immediatos, quia species sunt sicut numeri, inetaphysice. Et si concluditur ex eodem fundamento, quodlibet mixtum esse diversarum specierum essentialiter, ratione forme mixti et forme elementi, negetur consequentia, quia forma elementi non se habet respectu forme mixti nisi materialiter et potentialiter per modum dispositionis prefinientis in materia formam mixti; ideo non dat mixto nomen specificum nec diffinitionem essentialem. Sed anima cogitativa non se habet tanquam dispositio prefiniens animam intellectivam, cum eque simul inducantur in corpore, nec una potest naturaliter esse sine alia. Cogitativa tamen dicitur esse prior intellectiva et potentialis ad illam propter suam imperfectionem. Come è facile vedere, già in questo luogo dell'esposizione del libro secondo del De anima, la tesi caratteristica di Sigieri, Anche Sigieri, come sappiamo, afferma che la cogitativa è ordinata in intellectivam, talché nec potest intellectus informare materiam non informante cogitativa, nec potest cogitativa informare materiam non informante intellectu; Sigieri nel pens. Quella parte dove sta memora chiama l'anima sensitiva anche Cavalcanti, nella canzone Donna mi prega, tutta pervasa di dottrina averroistica; il mio voi. Dante e la cult, medievale Gli averroisti negano si la memoria che la reminiscenza all'intelletto; il mio voi. Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura Altra tipica tesi di Sigieri che NICOLETTI sviluppa. Allo stesso modo anche nella Summa naturalium Ad secundum dicitur, quod anima intellectiva non advenit enti in actu substantiali, quia eque primo adveniunt corpori sensitiva et intellectiva. Item, dato quod sensitiva precederet tempore intellectivam, adhuc advenit enti in potentia, quia forma sensitiva hominis dicitur potentialis ad ulteriorem actum; non autem anima intellectiva. Hec ergo est differentia inter formam substantialem et accidentalem, quia forma accidentalis advenit enti in actu ultimato, forma autem substantialis advenit enti in potentia, licet non in pura potentia. Ol che r intelletto, pur essendo in sé una sostanza separata unica per tutta la specie umana, s'unisce ai singoli con un vincolo sostanziale, sì da potersi dire forma, atto e perfezione dell'uomo, è accennata in modo esplicito. Ma 1'influsso del brabantino sull'udinese è ancora più evidente nell'esposizione del libro, del pari che nei capitoU della quinta parte della Summa naturalium. In quest'ultimo scritto, NICOLETTI tratta anzitutto della passività o passibilità dell'intelletto umano, formando conclusioni: Quarum prima est ista: Intellectus humanus nullam habet de se in actu speciem intelligibilem, sed ad quamlibet talem est penitus in potentia. Intellectus non est aliqua una natura sed solum habet possibilitatem recipiendi omnes formas materiales. Intellectus possibilis humanus ante intellectionem nullatenus est actu. Intellectus humanus est immaterialis et incorporeus et immixtus. Tutte e quattro queste conclusioni ritornano, con una leggera variazione nel loro ordine, in principio dell'esposizione del De anima; ma qui alla conclusione che corrisponde alla seconda della Summa, il maestro padovano ricollega il problema dell'unità dell'intelletto che nella Summa è discusso. Tanto nella Summa naturalium conclusio, quanto nell'esposizione del De anima combatte la tesi sostenuta un tempo a Oxford da Kilwardby e Wilton, e accolta anche da Jandum, che in aliquo vivente possit esse multitudo formarum iuxta pluralitatem predicatorum essentialium Della qual tesi nell'esposizione del De anima egli dà questo riassunto: Tenentes pluralitatem formarum in eodem iuxta multitudinem predicatorum quiditativorum, dicunt quod prima forma Sortis est illa qua ipse est substantia, et secunda qua est corpus, et tertia qua est corpus animatum, et quarta qua est animai, et quinta qua est HOMO, et sexta qua est Sortes; et ita de individuis aliarum specierum; et imaginantur isti quod, quantum ad animam sensitivam, omnia animalia sunt eiusdem rationis substantialis, a qua sumitur hoc genus animai; et secundum formas ulteriores specifìcas, sunt homines, equi et canes diversarum rationum substantialium; concedentes omnes tales formas realiter distingui et fundari in materia inhesive, ordine essentiali, secundum quod taha predicata invicem essentiahter ordinantur. Ista opinio est impossibilis. Summa naturai., In libros de anima col. Sul modo di concepire la passività dell'intelletto possibile e il concorso dell'intelletto agente e del fantasma ll'atto dell'intendere, l'eremitano riferisce opinioni, l'ultima delle quali è quella d'Averroè: Opinio est Averroys intellectui possibili nihil nisi passibilitates assignantis, fantasmati vero activitatem tanquam particulari agenti, et intellectui agenti tanquam agenti universali; ita quod ad primas intellectiones et species intelligibiles concurrit fantasma tanquam agens particulare, et intellectus agens tanquam agens vniiversale; ad omnes autem conseguentes se habet intellectus agens sicut causa particularis, fantasma autem sicut causa sine qua non, intellectus autem possibilis solum recipit et nunquam agit. Da questa opinione NICOLETTI dichiara di dissentire, non per quel che concerne le prime intellezioni, nelle quali l'intelletto possibile è totalmente in potenza, e quindi del tutto passivo, sibbene per quel che concerne le intellezioni successive, alle quali, essendo già attuato dalle prime, è in grado di concorrere attivamente, semper tamen virtute intellectus agentis. Di qui la conclusione formulata piti oltre, che cioè: Intellectus ante actuationem speciei intelligibilis aliter est in potentia quam post actuationem eius. Dopo aver affermato l'essenziale passività dell'intelletto possibile, NICOLETTI si pone nella Summa naUiralmni il quesito del rapporto da stabihre tra questo intelletto e il corpo umano, intorno al quale tam Inter veteres quam modernos multa discrepantia fuit. E prima di tutto ricorda quod Plato posuit intellectum uniri corpori, non ut formam materie, sed ut motorem mobili, eo modo quo nauta unitur navi et intelligentia orbi, non per modum informationis, sed per contactum virtutis alium a contactu corporeo. Il problema fu a lungo discusso fra le varie scuole nella scolastica della decadenza, senza che ci si rende ben conto della sua gravità, poiché è problema che investe tutta la filosofia fino a Kant: come salvare l'immanenza dell'atto del conoscere, se esso ha bisogno d'una causa esterna che la produca nel soggetto conoscente Summa naturai Quanto ad Averroè, il nostro eremitano ne espone il pensiero in questi termini: Secundo notandum ex intentione commentatoris, ij de anima comm, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam, et non cedit ei organum fantasticum seu imaginative virtutis, cum sit quid corporale, intellectus autem quid spirituale; organum predictum non cedit intellectui, et per consequens illa eadem intentio que informat virtutem imaginativam, informat intellectum materialem; et hoc dico quia intellectus copulatur nobis per formam suam. Copulatur enim nobis per intentiones imaginatas, que sunt eedem cum intentionibus existentibus in intellectu possibili; et ita unitur homini per fantasmata intellecta in actu. Intentiones enim imaginative, per commentatorem, ut informant virtutem imaginativam, plurificantur, quia sunt ibi cum conditionibus materie; sed ut informant intellectum possibilem fiunt una intentio in ipso, quia non recipit cum conditionibus materie. Et ideo inquit Commentator, quod copulatur nobis intellectus per continuationem intentionis intellecte, quia eadem est intentio informans intellectum et virtutem imaginativam. Siffatta interpretazione del pensiero del commentatore arabo anzi che da Sigieri è suggerita invece da COLONNA, al quale il confratello veneto s'appella esplicitamente nel commento al De anima: Opinio fuit Averoys dicentis quod intellectus humanus non unitur corpori ut forma, sed per fantasmata intellecta in actu. Ad quod declarandum, est notandum primo secundum eum in hoc tertio, iuxta expositionem COLONNA, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam etc. All'opinione d'Averroè, NICOLETTI aggiunge quella di Jandun che, al parere di N., egH non ha ben compreso. Ecco ad ogni modo com'egli la riassume: Opinio fuit ianduno dicentis quod intellectus, secundum commentatorem, unitur corpori humano, non ut forma dans esse, sed ut motor mobili dans operari, eo modo quo unitur intelligentia orbi et nauta navi; concedens consequenter quod datur duplex homo: unus qui componitur ex corpore et anima cogitativa; et alius qui componitur ex intellectu et toto residuo In libros de anima COLONNA, Do intell. pass, contra Averr., Venezia quibus proportionaliter respondet duplex intelligere, scilicet universale et particulare; homo sumptus primo modo, solum particularia intelligit; et sumptus secundo modo intelligit solum universalia. A queste opinioni egli oppone la tesi d'Aristotele, secondo il quale l'intelletto è vera forma sostanziale dell'uomo, cui dà essere ed operare. Ma com'egli intenda il pensiero dello Stagirita su questo punto, c'è detto nella Summa naturalium. Anima intellectiva non unitur corpori humano per inherentiam. Patet tripliciter: primo quia ipsa est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima; modo nulla forma inheret materie per transmutationem, scilicet materie que non generatur et corrumpitur, ut colligitur a philosopho, de genevatione, et a Commentore, in de substantia orbis. quia intellectus est impassibilis et intransmutabilis, de anima; sed nulla forma inheret materie nisi per transmutationem et passionem. quia anima intellectiva est indivisibilis et impartibilis per carentiam partium integralium; nam quelibet forma inherens materie suscipit conditiones intrinsecas materie secundum quas inheret; cum ergo conditio materie, secundum quam forma inheret, sit habere partes integrales, licet non partem extra partem, quia hec est conditio quantitatis, etc. Anima intellectiva unitur homini substantialiter per informationem, ita quod est forma substantialis corhumani, non solum dans operari, sicut intelligentia orbi, sed etiam esse specificum et essentiale. Probatur: differentia specifica constituens aliquam speciem sumitur a forma illius speciei, sicut apparet ex intentione philosophi, metaphysice, dicentis quod contraria consequentia materiam non faciunt differentiam in specie, sed contraria consequentia formam; modo differentia propria hominis est rationale; ergo sumitur a forma humana; sed rationale sumitur ab eo quod est intellectivum; ergo intellectus vel anima intellectiva est forma corporis humani. Item, rationale ponitur in diffinitione eius non tanquam additamentum, sed tanquam differentia eius, ut ponit Porphyrius et Aristoteles; ergo rationale est de essentia hominis; sed nihil est per se rationale nisi per aniinam intellecti Sigieri Opinio fuit Aristotelis dicentis intellectum esse veram formam substantialem hominis. Ideo est dicendum cum Aristotele et alijs perypateticis veris, quod intellectus est iorma substantialis hominis, dans sibi esse et operari..vam; ergo etc. Unde ex diffinitione anime data a phylosopho, de anima, convincitur hanc conclusionem esse de intentione sua. Arguitur enim sic: Anima intellectiva secundum ipsum est anima; ergo est actus primus corporis; patet consequentia a dififinito ad diffinitionem; ergo est forma substantialis; patet consequentia secundum phylosophum, de anima, eo quod actus primus est forma substantialis corporis; et nonnisi corporis humani; ergo etc. Deinde anima intellectiva est illud quo primo intelligimus; ergo est forma substantialis hominis; patet consequentia, quia non est alia ratio ad probandum animam vegetativam esse formam substantialem corporis vegetantis, et animam sensitivam esse formam corporis sensitivi; ergo etc. L'anima intellettiva dunque è, sì, forma dell'uomo, in quanto gli dà l'essere e l'operare di uomo, ma non perché sia inerente al suo corpo alla stessa maniera delle altre forme naturali. Su questa differenza NICOLETTI ritorna anche nel commento al De anima: Intelligenda est differentia inter informare et inherere: quoniam informare est dare alteri esse actuale et hoc dicit perfectionem in forma, imperfectionem in materia, quia dare dicit perfectionem; sed inherere est ab alio sustantificari, et hoc dicit perfectionem in materia et imperfectionem in forma, quoniam sustantificare dicit perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam a subiecto – GRICE SUBSTANTIATION --. Ex isto notabili, sequitur quod anima intellectiva, licet informet corpus humanum, non tamen nheret illi, quia non dependet ab eo; quocumque enim tali corpore dato, ante illud fuit et post illud erit anima intellectiva, cum illud generetur et corrumpatur, anima autem intellectiva sit eterna. Ouatuor rationibus arguitur animam intellectivam non inherere materie; quarum prima est ista: anima intellectiva non educitur de potentia materie; ergo sibi non inheret. Secunda ratio: anima intellectiva est prior materia; ergo non inheret illi. Tertia ratio: anima intellectiva est impassibilis et intransmutabilis; ergo non inheret materie. Quarta ratio: anima intellectiva est indivisibilis et inpartibilis per carentiam partium integralium, secundum philosophum et commentatorem, in hoc tertio; ergo non inheret materie. Anima sensitiva o cogitativa ed anima intellettiva son dunque, per il maestro padovano, due forme totali che costituiscono l'uomo nella sua natura di animale ragionevole. Ma pur essendo due forme distinte, sono unite da un intimo In libros de anima legame talmente stretto, che l'una è fatta per l'altra e l'una completa l'altra. Per questa ragione Nifo, più che due anime le dice due semi-anime costituenti, pella loro sostanziale unione, una sola anima umana; -- GRICE UN TERTIUM ANIMAE -- che è anche il pensiero d’ALIGHIERI, il quale ad esprimerlo si serve della immagine del calor del sole che si fa vino, giunto all'omor che dalla vite cola. La tesi di NICOLETTI è dunque identica in sostanza alla tesi professata da Sigieri nel trattato in risposta a quello d’AQUINO contro gli averroisti; ma d'accordo col brabantino il maestro padovano non è nella pretesa d'attribuire questa tesi al commentatore arabo; anzi egli riconosce che è vero il contrario: Cominentator tamen diceret intellectum per se subsistere, et ipsum non uniri materie ut formam; sed non sui ipsius{sic, leggi: sum ipsius) opinionis. Ma se il nostro eremitano dissente da Sigieri su questo particolare, non dissente affatto da lui nel ritenere che, pur essendo forma dell'uomo, l'intelletto possibile è unico per tutti gli uomini. E nella Summa naturalium ritiene sia questo il pensiero non soltanto d'Averroè, bensì quello d'Aristotele: Unde secundum philosophum, primo et tertio de anima, natura nihil facit frustra et non abundat in superfluis, nec deficit in necessariis; cum igitur natura alicui speciei non dederit nisi unum individuum, et alteri plura, hoc est ideo, quia una species in uno individuo potest se perpetuo preservare, et non alia; ut species angelica que perpetuo preservatur in una intelligentia, et non species humana; sed ita est quod species anime intellective potest se preservare perpetuo in uno individuo, quia anima intellectiva est perpetua et eterna sicut aliqua intelligentia celestis, ergo frustra et preter intentionem nature ponuntur plures anime intellectuales solo numero differentes. tem, intellectus venit de foris, secundum philosophum, libro de animalibus: aut ergo per creationem, iuxta opinionem fidei; aut per motum a corporibus celestibus, iuxta opinionem Platonis; aut per introitum unius corporis, aliud relinquendo, iuxta opinionem Pictagore; aut per novam actuationem unius corporis humani, aliud non relinquendo: nullus trium priorum modorum potest assignari, quia intuenti libros Aristotelis notum est ipsum oppositum Sigieri nel pens.Purg. In libros de anima opinari; ergo est dare quartum modum; et cum in eodem corpore non possint esse plures anime intellective simul, secundum omnes opiniones, sequitur quod unicus est intellectus in omnibus hominibus secundum intentionem Aristotelis. E più oltre: Quarta conclusio: Intellectus non numeratur numeratione individuorum, sed est unicus in omnibus hominibus. Probatur: pluralitas individuorum in eadem specie non est nisi per materiam, per philosophum, celi, et metaphysice, ubi probat quod non possunt esse plures intelligentie separate solo numero differentes, per hoc medium: quecunque conveniunt in eadem specie et differunt numero, habent materiam; sed anima intellectivam non habet materiam scilicet ex qua, nec in qua per inherentiam; ergo etc. Unde arguitur sic: anima intellectiva est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima, et non contingit dare multitudinem infinitam, celi et physicorum, et species sunt eterne, posteriorum et physicorum; ergo unica est anima intellectiva omnium. Patet consequentia, quia, si anima intellectiva mutatur mutatione individuorum speciei humane, aut ergo per generationem et corruptionem, ut posuit Alexander, et hoc non, quia repugnat prime parti antecedentis; aut per multiplicationem finitam animarum recedentium et advenientium, ut posuit Plato vel Pictagoras, et hoc iterum non, quia omnes sciunt oppositum scripsisse Aristotelem; aut per generationem vel creationem et incorruptibilitatem, ut ponit fides, et hoc iterum non, quia repugnat secunde et tertie parti antecedentis; ergo oportet dare unicum intellectum in omnibus hominibus, secundum opinionem et intentionem Aristotelis. La stessa tesi NICOLETTI sostiene anche nell'esposizione del De animaci, ma con una piccola variazione: nella Summa, la teoria dell'unico intelletto in tutti gli uomini è detta sen In libros de anima: Secundo notandum, secundum Commentatorem, eodem commento, quod Illa natura intellectus non est hoc aliquid, nec corpus nec virtus in corpore, quoniam, si ita esset, tunc reciperet formas secundum quod sunt diverse et individuales; et si ita esset, tunc forme existentes in illa essent intellecte in potentia, et sic non distingueret naturam formarum secundum quod sunt forme, sicut est dispositio in formis individualibus, sive in spiritualibus sive in corporalibus. Intentio commentatoris est, quod intellectus humanus non sit aliquid singulare vel individuum, ex quo non est corpus nec virtus in corpore; quoniam materia est ratio individuationis, a qua separatur intellectus humanus sicut et quelibet intelligentia celi. Tria ergo inconvenientia adducit, concesso quod intellectus sit hoc aliquid. Primum inconveniens est, quod intellectus z'altro rispondere al pensiero d'Aristotele iuxta impositionem Commentatoris; nel commento invece è presentata semplicemente come intentio e opinio Commentatoris: segno che sul vero pensiero d'Aristotele s'era forse affacciato qualche dubbio alla mente del maestro padovano. Un'altra tesi tipica di Sigieri consiste, come sappiamo, nel ritenere che l' intelletto agente, tanto per Aristotele quanto per il suo commentatore arabo, sia Dio. Nella Summa naturalium, NICOLETTI ritiene: quod intellectus agens et possibilis non separantur ab anima intellectiva, sed sunt differentie illius non substantiales, sed accidentales. Intellectus agens est coniunctus anime intellective per inherentiam et fantasmatibvis per presentiam et indistantiam. Per altro nella risposta Ad primum argumentum egli accenna anche alla tesi di Sigieri, ma senza aderire ad essa: Commentator autem vult intellectum possibilem esse essentiam anime intellective, et intellectum agentem esse primam cavisam, vitaliter immutantem ipsum intellectum possibilem; sed hanc opinionem non teneo ad presens. Invece, quando scrive l'esposizione al De anima, egli era ormai convinto che la tesi di Sigieri fosse la sola vera, non soltanto dal punto di vista della filosofia aristotelica, ma altresì da quello teologico: Dubitatur, si intellectus agens et possibilis differunt tam inter se quam ab assentia anime, utrum sint substantie vel accidentia. In hac materia fuerunt quatuor opiniones. Prima fuit Avicenne et Algacelis, dicentium intellectum agentem et possibilem esse substantias invicem separatas loco et subiecto, ita quod secundum eum sic intellectus possibilis est forma hominis, et intellectus agens est decima intelligentia appropriata decime spere, a qua nostra felicitas dependet; sicut ergo iste unus sol non reciperet nisi formas individuales et secundum quod sunt diverse. Secundum inconveniens: quod species intelligibiles essent intentiones intellecte in potentia et non in actu; quod est falsum, cum sint universales et depurate a conditionibus materialibus. Tertium inconveniens: quod intellectus non poneret differentiam inter formas universales et singulares, sive ille forme corporales sive spirituales. E dopo aver riferite obiezioni contra commentatorem, comincia la sua risposta con queste sintomatiche parole: Responsurus prò opinione Averroys, dico totum universum illuminat, per cuius illuminationem possunt omnes oculi videre, sic, dicebant illi, est aliqua una substantia separata irradians super fantasmata omnium hominum, per cuius irradiationem possunt omnes homines intelligere. Hec opinio est in parte defectuosa, quia postquam intellectus factus est in actu nos intelligimus quandocumque volumus, secundum quod posuit supra Commentator et habetur ad experientiam; sed talis substantia separata non videtur irradiare supra fantasmata quandocunque volumus, sicut nec sol illuminat oculum quandocunque volumus; cum ergo non intelligamus absque intellectu agente, ergo intellectus agens non est talis intelligentia separata. Siffatta critica della tesi d'Avicenna, ci fa presentire come la pensi NICOLETTI su quest'argomento: se invece di identificare r intelletto agente colla decima intelligenza celeste, che è r infima delle intelligenze separate, Avicenna l'avesse identificato con Dio, questo certamente irradia della sua luce i fantasmi quandocumque volumus. Il difetto insomma di questa teoria consiste nell'avere identificato l'intelletto agente con un intelletto particolare, anzi che con un intelletto veramente universale. Dopo di che, NICOLETTI espone e critica come seconda opinione quella di COLONNA, AQUINO, e di tutti quegli antichi scolastici che ritenevano l'intelletto possibile ed agente facoltà accidentali dell'anima. La terza opinione, da lui riferita parimente rifiutata, è quella di Giovanni Eucliph, ossia WycHf, il cui ricordo dove essere ancora ben vivo a Oxford, quando vi giunge il nostro eremitano. Indi prosegue: In libros de anima La opinione è così riassunta: opinio fuit Eucliph dicentis intellectum possibilem et intellectum agentem esse potentias anime inteUective, non tamen esse substantias nec accidentia; sicut enim dicunt theologi quod pater, filius et spiritus sanctus sunt tres persone realiter distincte, non tamen tres substantie nec tria accidentia, sed una substantia que est deus, ita intellectus agens et intellectus possibilis et voluntas sunt tres potentie realiter distincte, non tamen tres substantie, nec tria accidentia, sed una substantia que est anima intellectiva; et sicut pater non est filius, nec spiritus sanctus, et tamen est ille idem deus qui est filius et spiritus sanctus, ita intellectus agens non est intellectus possibilis nec voluntas, et tamen est intellectus agens illa eadem anima intellectiva numero, que est voluntas et intellectus possibilis. Opinio ista non est tenenda phylosophice nec theologice etc. Quarta opinio, que tenenda est, fuit Aristotelis ponentis intellectum agentem et possibilem esse virtutes et potentias anime non subtantiales nec accidentales, sed intellectum possibilem esse accidens proprium et inseparabile anime intellective, quo recipit omnes formas speculativas, sicut materia prima per suam accidentalem potentiam recipit omnes forinas naturales. Intellectuin vero agentem voluit esse substantiam primam, coniunctam intellectui possibili non per modum forme informantis nec inherentis, sed per modum forme et habitus presentis et indistantis; nec aliqua intelligentia, preter primam que deus est, potuit esse intellectus agens, quia, sicut potentialitati prime materie respondet actus purissimus in quo sunt active omnes forme naturales que sunt in prima materia passive, ita potentialitati anime intellective competere correspondere agens primum, in quo sunt effective omnes forme speculative, que passive sunt in anima intellectiva, mediante intellectu possibili. Si enim aliqua intelligentia dependens esset intellectus agens, per istam non posset intellectus possibilis intelligere primam causam, quia intellectus agens abstrahit intellecta et agit ea, secundum Commentatorem; modo nulla intelligentia inferior potest abstrahere causam primam nec in illam aliquo modo agere, ratione independentie suedependentie et imperfectionis. Et hec opinio non solum est physica, sed etiam a theologis tenetur. Nel commento al De anima, dunque, ogni riserva è sciolta, e NICOLETTI giudica la dottrina che identifica l'intelletto agente colla causa prima, cioè con Dio, non soltanto conforme al pensiero d'Aristotele e d'Averroè, ma senz'altro vera in se stessa e tenuta dai filosofi, non meno che da non pochi teologi. La tesi di Sigieri, intorno alla quale aveva avuto dei dubbi, aveva finito per prendere il sopravevnto nel suo animo. Altrettanto non possiamo dire d'un'altra tesi del brabantino, strettamente connessa con quella che concerne l'intelletto agente, la teoria cioè della beatitudine per mezzo del congiungimento della mente umana coli'intelletto divino. Su questo punto Sigieri aveva fatta sua l'interpretazione che il Commentatore arabo, nella celebre digressione inserita nel commento del De anima, dava del Allo stesso modo per Dante, Conv. l'anima in vita tratta per virtù celestiale dalla potenza del seme, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima intelligenza è. Sul qual passo, N. Dante e la cultura medievale e Giorn. Crit. filos. Hai.. QI pensiero d'Aristotele. Anche l'eremitano sa bene come la pensa Averroè: Commentator autem dicit de annna, quod, cum intellectus possibilis fuerit intellectus adeptus, id est actuatus omnium specierum materialium, intelligit intellectum agentem per essentiam propriam Ma neppur questa volta egli è dell'avviso dell'arabo; e postosi il quesito Qualiter intellectus noster intelligit substantias separatas, lo risolve affermando che l'intelletto umano conosce le sostanze immateriali non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Così nella Summa naturalium. Ma nell'esposizione del De anima è anche più esplicito, se fosse possibile. Postosi di nuovo il problema Utrum intellectus possit intelligentias separatas cognoscere, fa questa osservazione che è presa alla lettera dal commento d’AQUINO: Istam questionem non solvit hic philosophus, dicens se determinaturum alibi, scilicet in libro metaphysice; hec questio tamen non invenitur soluta per ipsum, quia complementum illius scientie nondum ad nos pervenit, vai quia nondum est totus liber translatus, vel forte morte preoccupatus librum non complevit. Ciò non di meno egli espone qual fosse il pensiero d'Averroè e in che differisse da quello degli altri interpreti della dottrina d'Aristotele. Ma giunto alla fine della discussione, egli ci fa sapere quod hec opinio iam non tenetur a theologis vel philosophis, e ripete quod intelligentie separate cognoscuntur ab intellectu possibili non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Da quanto precede, mi pare risulti in modo da non lasciar dubbio, che Nicoletti, quando insegna a Padova, aveva od aveva avuto tra mano per lo meno lo scritto di Sigieri in risposta al trattato d’AQUINO. De unitale intellechis. Questa e verosimilmente altre opere del brabantino circolavano già fra i maestri dello studio padovano, o fu il Summa naturai In libros de anima AQUINO, De anima. nostro eremitano a portarvele, forse da Oxford o da Parigi? Non saprei che dire, perché tanto l'una che l'altra supposizione, in mancanza di dati sicuri, è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche nella letteratura manoscritta concernente i maestri che professarono a Padova e Bologna potranno gettare qualche luce sulle correnti d'idee che fervevano in quei due centri d'intensa vita intellettuale. Per il momento, a noi basti di ricordare quel maestro Taddeo da Parma, il quale insegna a Bologna, e che nel suo commento al De anima accoglie la tesi difesa da Sigieri nelle Quaestiones de anima intellectiva. Ma Taddeo, più che l'opera del brabantino sembra aver letto le Quaestiones di Jandun, le quali ebbero in Italia la più larga diffusione e furono trascritte e stampate in parecchie edizioni, discusse con vivacità e qualche volta fraintese. Fraintesa in particolare sembra essere stata da NICOLETTI, e da altri la dottrina intorno al modo come l'anima intellettiva è forma del corpo, la quale, come già sappiamo è in sostanza quella di Sigieri, cui espHcitamente accenna. Il bisogno di togliere alla dottrina averroistica quello che essa aveva d'eretico, dopo che il concilio di Vienne aveva definito esser l'intelletto forma del corpo umano, dove invogliare gl’averroisti italiani a procurarsi quegli scritti nei quali Sigieri s'era difeso contro le obiezioni d’AQUINO, e nei quali, senza rinunziare alla tesi dell'unico intelletto avea tentato di dimostrare com'esso s'unisse all'uomo con tale intimo e sostanziale legame, da potersi dire forma dell'individuo umano cui s'attribuisce l'atto dell'intendere. L'insegnamento di Nicoletti a Padova è una inequivocabile testimonianza che gli scritti di Sigieri non erano ignoti. Un'altra cosa questo insegnamento ci attesta: che la dottrina averroistica poteva esser liberamente discussa ed esposta a Padova, senza che chi se ne fa sostenitore incorresse nella taccia d'eretico; tanto vero che NICOLETTI non sente neppure il bisogno di Vanni Rovighi, Le Quaestiones de anima di Taddeo da Parma. Testo e introduzione. Milano, Soc. Ed. Vita e pensiero ripetere la solita formale protesta, che altri averroisti avevano cura di non omettere, cioè che essi trattavano dallo spinoso argomento come filosofi e non come teologi. E forse perché gli averroisti padovani usano senza parsimonia di questa libertà, il vescovo Barozzi d'accordo coli' inquisitore locale proibì quovis quaesito colore le dispute intorno all'unità dell'intelletto. Ma il divieto riguarda la DIOCESI di Padova, e non, per esempio, Bologna e Pavia, ove si continua a disputare con grande spregiudicatezza. Non mi stancherò mai dal ripetere, per coloro che han l'animo sgombro da pregiudizi, che una vera e propria dottrina della doppia verità nel medio evo e nel Rinascimento non fu mai sostenuta da alcuno. Molti invece furon quelli che, contro il concordismo d’AQUINO, posero in rilievo l'opposizione di fatto fra la teologia e la filosofia, intendendo per filosofia la dottrina della natura congegnata in sistema da Aristotele, detto perciò il filosofo per eccellenza, e sviluppata dai suoi commentatori. Il primo a rendersi conto, in modo chiaro ed esphcito, di questa opposizione, fu Alberto. Il quale, non solo dichiara apertamente che theologica cum physicis principiis non conveniunt, ma giungeva fino a sostenere, non doversi far caso dei miracoli che Dio opera oltre il potere della natura, quando si tratta di conoscere quello che è il corso degli eventi naturali. Perciò, egli che s'era proposto totam Aristotelis scientiam prò viribus explanare, dichiarava di rifuggire dall'interpretazione che del pensiero aristotelico danno i dottori latini: quoniam in istarum quaestionum determinatione omnino Giorn. Crit. di Filos. Ital., e in Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, nonché quanto ne ha scritto Gilson, Etudes de philos. médiév., Strasbourg; id., Dante et la philosophie, Paris A. Magno, Metaphys. A. Magno, De gener. et corrupt., la mia nota La posizione di Alberto di fronte all'averroismo, Riv. di Storia d. Filos. abhorremus doctorum latinorum verba; fra i quali è sicuramente il suo confratello italiano, Aquino. Luigi Speranza -- Grice e Giavelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- semantica del segnare -- segnante e segnato – filosofia fortinese – la scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (S. Giorgio di Canavese). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Grice: “I love Javelli – he is, like me, an Aristotelian; being a northern Italian, he is a Thomstic Aristotelian, which I’m not sure I am!” Grice: “One good thing about Javelli is that he commented on MOST works by Aristotle!” -- Essential Italian philosopher. Studia a Bologna. Fu esegeta. Argomenta contro Lutero. Opera omnia” (Lione, Giunta). Partecipa al dibattito sul Tractatus de immortalitate animae di Pomponazzi, di cui scrisse, su richiesta di Pomponazzi stesso una confutazione. Partecipa al dibattito sul divorzio di Enrico VIII, esponendosi a favore della scelta del sovrano. M. Tavuzzi, in "Angelicum", DBI.Casale Monferrato. Crisostomo Javelli was born in 1470 c., presumably in Piedmont, joins the Dominicans. On G. see GILSON, Autour de Pomponazzi: problématique de l'immortalité de l'âme en Italie, Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age; TAVUZZI, G. OP A Biobibliographical Essay: Biography, Angelicum, G. A Biobibliographical Essay: Bibliography », Angelicum. G. is the author of a Compendium Logicæ. The structure of G.’s work mirrors Ockham's Summa logicae in many respects, but also NICOLETTI (si veda)’s Logica Parva (unlike NICOLETTI (si veda), however, G. does not deal with obligations and insolubles. The Compendium deals with the following topics: Introductory remarks, which include a short history of logic; terms (this part corresponds to the doctrine dealt with by Aristotle in De Interpretatione); propositions; the five praedicabilia (this section corresponds to Porphyry's Isagoge); the antepraedicamenta, the doctrine of the categories (praedicamenta), and the postpraedicamenta (this treatise, as is clear, corresponds to Aristotle's Categories); syllogism; supposition theory; ampliatio and appellatio, i.e. changes in the supposition of a term and changes in the tenses of verbs; theory of consequentiae; de probatione terminorum (this treatise deals with the ways in which it is possible to show the truth, or the probability of a proposition); demonstrative syllogism (this part aims at expounding what Aristotle says in his Posterior Analytics). The treatise is published in in Venice. The Compendium is rather successful, and goes through many editions. G. has many teaching positions within the dominican order and, most probably, he writes his Compendium logicæ for didactic purposes. The tendency to systematize the new logic of the late medieval authors and to present it as consistent with Aristotle's logic is even more evident than in SAVONAROLA (si veda)’s Compendium. G. is also influenced by the humanists, inasmuch as his treatises draw attention to the linguistic, and historical context in which ancient logic arose. If VALLA (si veda) criticizes NICOLETTI (si veda) for the latter's unfamiliarity with the Greek language, G. dwells on the etymology of many key terms of logic, and shows a certain familiarity with both Greek and Latin. . Prima di lui c'erano stati NICOLETTI e Thiene, di cui il recanatese era stato discepolo. Nicoletum, et petere quod diete littere revocentur, tanquam impetrate et concesse contra formam statutorum dicti collegi, ipso collegio et iuribus suis inauditis. Et super hoc factis multis sermonibus et arengationibus, prefatus dominus prior posuit ad partitum, quod quibus placet quod acceptetur in collegio d. M. Nicolectus iuxta tenorem literarum Serenissimi domini, ponat suffragia sua in pisside rubea; quibus vero placuerit quod defensentur iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum per expertos dicti collegi, ponat balotam suam in pisside viridi. Et facto scrutinio cum bussolis et balotis, in vente fuerunt balote quinque in pisside rubea, in favorem dicti M. Nicoleti, et balote xv in pisside viride, quod defensentur iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum. Cinque contro sedici costituisce un bello scacco per ser Nicoletto. Tuttavia è notevole che cinque membri del Collegio si mostrassero disposti, fin dal primo momento, a incassare il colpo, non ostante l'affronto al corpo. Lo facevano per simpatia verso il filosofo chietino, o perché eran persuasi anch'essi che durum est contra stimulum calcitrare? Si trattava ora di eleggere coloro che dovevano assumersi la difesa dei diritti del collegio al cospetto dei rettori della città e del governo della Serenissima. Deinde posuit prior ad partitum, de consensu dominorum consiliariorum, quod quibus placet quod elligantur d. M. Nicolaus de Sancta Sophia, d. M. Ioannes Michael de Bredepal In Tysberum DE SENSV composito ac diviso cum eiusdem collectaneis in suppositiones NICOLETTI. Nec non Tractatus Alexandri Sermonete, Bernardini Petri de Landìtciis, Pauli Pergulensis et Baptiste da Fabriano in eundeni Tysberum. Item qiiestiones Frachanciani Vicentini in consecittiones etc. Venetiis, impensa heredum q. Oct. Scoti, e dedicate a Sermoneta. Esse appartengo Cremona (Vedi Francesco Arisi, Cremona literata, Parma e Tiraboschi, Storia della Letteratura italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo; ebbe fama grandissima e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima del Pomponazzi a Carte che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et Apollinaris ejus discipulus ». E difensore della filosofia cristiana contro l'Averroismo; insegna a Piacenza evi e aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al “De Anima” del LIZIO esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso e stampato più volte. La prima edizione è di Milano (Vedi il Tiraboschi e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato a Venezia, esistente nella Biblioteca Alessandrina di Roma, da Locatell, si trovano la Logica di Pietro da Mantova; il trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo instante”) citato da Pomponazzi nel suo “De Anima”; un trattato responsivo di O. Apollinare da Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; un commento di Menghi alla Logica di maestro Paolo Veneto. NICOLETTI. Le due opere del Mantovano portano questi titoli: Viiri præclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter. Incipil sublilissimus tractatus ejusdem deinslanli. Il trattato d’O. ha per titolo “Illustris philosophi et medici O. Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del Mantovano che Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani) de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se el quam libel sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl, -sul “De Anima” un corso che non puo finire. Forse ad esso si riferiva il Nicoletti. Keywords. Refs.: H. P. Grice, “Paolo da Harborne, and Paolo da Venezia,” lecture for the Club Griceiano Anglo-Italiano, Bordighera. Luigi Speranza, “Grice e Nicoletti: quadratura ed implicatura” – The Swimming-Pool Library.Paolo da Venezia Nota disambigua.svg Disambiguazione"Paolo Veneto" rimanda qui. Se stai cercando lo scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi Paolino Minorita. Paolo da Venezia in una stampa Professore Paolo da Venezia, o Paolo Veneto, vero nome N. (Udine), filosofo. Eremitano, studente all'Oxford e docente a Padova ove ebbe tra gli allievi Paolo Della Pergola. Divenne ambasciatore veneto presso la corte polacca. Per le sue idee teologiche e esiliato a Ravenna ma, dopo, gli fu consentito di tornare a Padova. Seguace di Occam e Brabante e autore di vari trattati, tra cui alcuni commenti al Lizio. Il suo trattato “Logica magna” e utilizzato come testo di insegnamento della logica a Padova e può essere considerato la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo. Opere: “Logica,” “Commenti alle opere di Aristotele” “Expositio in libros Posteriorum Aristotelis,” “Expositio super VIII libros Physicorum necnon super Commento Averrois,” “Expositio super libros De generatione et corruptione” “Lectura super librum De Anima” “Conclusiones Ethicorum” “Conclusiones Politicorum” “Expositio super Praedicabilia et Praedicamenta.” “Scritti sulla logica: Logica Parva or Tractatus Summularum, “Logica Magna”; “Quadratura”; “Sophismata Aurea. Altre opere: “Super Primum Sententiarum Johannis de Ripa Lecturae Abbreviatio,” “Summa philosophiæ naturalis,” “De compositione mundi. Quaestiones adversus Judaeos. Sermones. N Dizionario di Filosofia Treccani, riferimenti in. Vedi Pergola, Dizionario di Filosofia Treccani. Garin, Storia della filosofia italiana, Edizione CDE su licenza della Giulio Einaudi editore, Milano, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario di Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, Nuovi studi storici, Perreiah: "A Biographical Introduction to N, Augustiniana. N. Logica, Venetiis, Imperatore, Imperatore, Gori, Filosofico, Conti, Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Filosofia. Nicoletti and ‘Significare’ By S. R. Read and J. L. Speranza Abstract In ‘Consequence, Signification, and Insolubles in Fourtheenth-Century Logic,’ Read has expanded on a Danish logician’s claims against this externalist semantic idea that consequence may be defined or analysed in terms of containment –more specifically in terms of ‘signifying on what is actual.’ The insights by Dummett on meaning transparency are assessed, and the contributions of H. P. Grice seriously re-considered. Keywords: Nicoletti, H. P. Grice, signification 1. Introduction In what he felt like titling ‘Prejudices and predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice’ Grice reminsices: “In my own case, a further impetus towards a demand of the privision of a visible theory underlying ordinary discourse came from my work on the idea of Conversational Implicature, which emphasized the radical importance of distinguishing (to speak loosely) what OUR WORDS say or imply from what WE in uttering them IMPLY: a distinction seemingly denied by Wittgenstein, and all too frequently ignored by Austin.” Grice in Grandy/Warner, PGRICE, p. 59. Or Nicoletti, he could have added – only that Nicoletti, being from the Friuli, would hardly have used ‘imply’ or ‘MEAN,’ which hides behind the remark by Grice. 2. Nicoletti on signification A good thing, and a breath of a fresh air, by Nicoletti, is that he uses ‘significatio,’ not ‘meaning,’ on which Grice based his career. Read has edited Nicoletti. As did Conti. In most passages, it is clear that Nicoletti hardly carries a ‘Griceian’ approach to meaning. Our spelling of ‘Griceian’ follows Katz – Gricean sounds more brusque. 3. Nicoletti on meaning It would hardly be of historical interest to rephrase every collocation by Nicoletti on ‘significatio’ by ‘meaning.’ Some readers of Grice’s Meaning may find his obtuse claim ‘Words are not signs’ are crass. But that is one of the TWO reasons Grice claims he bases his reasoning for choosing ‘meaning’ over ‘signification’. For one, not everything that means is a sign. Words are not. For another, there’s non-conventional meaning. It is interesting to note that while he lectured on Peirce, Grice’s paper only quotes Stevenson by name, and the essay by Stevenson Grice uses does have ‘mean’ in scare quotes for cases like ‘Those spots mean measles.’ The Latin language distinguished between MENTIRE (to lie) and MENTARE (to mean), but neither Grice nor Nicoletti ever spent much time on this. The idea of using the root for ‘mind’ in this may have invited accusations of animisms. Spots ‘mean’ measles, because Nature, i. e. God, means measles by the spots. SIGNIFICATIO has become a scholastic jargon in that Italian and most of the romance languages still preserve this as a doublet. ‘Signum’ has become ‘SEgno’ in Italian, while ‘significare’ is still used as a piece of jargon mostly replaced in other context by the rather arid and silly ‘vollere dire.’ But a few insights by Grice on meaning do trade on Nicoletti’s points. Let’s number them. 3.1. Privileged access and incorrigibility. We would like to imagine a conversation between Grice and his former tutor at Corpus Christi. On wanting to fulfil his tutor’s desire, Grice after his first tutorial hands him a copy of THE TIMES with the remark, ‘Here is what you asked for.’ Grice will later elaborate on this exchanging roles. He is now the tutor of Strawson, and utters, “I want a paper for next week.” Grice goes on to expand on the absurdity of Strawson’s idea that what Grice MEANS is that he is brought a copy of A NEWSPAPER, rather than that of a written work by Strawson. Grice liked this paper quite a bit, which is proved by the fact that he kept a copy of the draft, and cared to publish it in the Part II on Semantics and Metaphysics in Studies in the Way of Words. I suspect that some philosophers have assumed or believed that ‘mean’ means ‘mean’ 9what what a man says he means is paramount in determining what he does mean) because they have thought of ‘meaning so and so’ as being the name of an introspectable experience. They have thought a person’s statements about what he means have just the same kind of incorrigible status as a person’s statements about his current sensations, or about the colour that something seems to him to have at the moment. It seems to me that there are certainly occasions when what a speaker says he means is treated as specially authoritative. Consider the following possible conversation between myself and a pupil. Myself: I want you to bring me a paper tomorrow. Pupil: Do you mean that you want a newspaper or that you want a piece of written work? Myself: I mean a piece of written work. Grice goes on to comment. It would be ABSURD at this point for the puil to say, ‘Perhaps you only THINK, mistakenly, that you mean ‘a piece of written work,’ whereas really you mean ‘a newspaper.’ And this absurdity seems like the absurdity of suggesting to someone who says he has a pian in his arm that perhaps he is mistaken (unless the suggestion is to be taken as saying that perhaps there is nothing physically wrong with him, however his arm feels). It is important to noce that although there is this point of analogy between meaning and having a pain, there are striking differences. A pain may star and stop at specifiable times; equally something may begin to look red to one at 2:00 P. M. and cease to look red to one at 2:05 P. M. But it would be ABSURD for my pupil (in the proceeding example) to say to me, ‘When did you being to mean that?’ or ‘Have you stopped meaning it yet?’ Again there is no LOGICAL objection to a pain arising in any set of concomitant circumstances; but it is surely absurd to suppose that I might find myself meaning that it is raining when I say’I want a paper’; inedeed, is is ODD to speak at all of my finding myself meaning so and so, though it is not odd to speak of my finding myself suffering from a pain. At best, only VERY SPECIAL circumstances (if any) could enable me to say ‘I want a paper,’ meaning thereby that it is raining. In view of these differences, we may perhaps prefer to label such statements as ‘I mean a piece of written work’ (in the conversation with my pupil) as ‘declarations’ rather than as ‘introspection reports.’ Such statements as these are perhaps like declarations of intention, which also have an authoritative status in some ways like and in some ways unlike that of a statement about one’s own current pains. Grice goes on. But the immediate relevant point with regard to such statements about meaning as the only I have just been discussing is that, insofar as they have the authoritative status which they SEEM to have, they are not statements which the speaker could have come to accept as the result of an investigation of a train of arguments. To revert to the conversation with my pupil, when I say ‘I mean a piece of written work,’ it would be quite INAPPROPRIATE for my pupil to say ‘How did you discover that you mean that?’ or ‘Who or what convinced you what you mean that?’ And I think we can see why a ‘meaning’ statement cannot be both especially authoritative and also the conclusion of an argument. If a statement is accepted on the strength of an argument or an investigation, it always makes sense (though it may be foolish) to suggest that the argument is unsound or that the investigation has been improperly conducted; and if this is conceivable, then the statement maker MAY be mistaken, in which case, of course, his statement has not got the authoritative character which I have mentioned. Grice continues. But the paradox-propounder who relies on the type of argumentation I have been considering requires BOTH that a speaker’s statement about what he means should be especially authoritative AND that it should be established by argumentation. But this combination is impossible. A further difficulty for the paradox-propounder is one which is linked to the previous point. There is, I hope, a fairly obvious distinction (though also a connection) between (a) what a given expression means (in general), or what a particular person means IN GENERAL by a given expression and (b) what a particular speaker means, or meant, by that expression in a particular occasion; (a) and (b) may clearly diverge. I shall give two examples of the ways in which such divergence may occur. (1) The sentence ‘I have run out of fuel’ means in general (roughly) that the speaker has no material left with which to proper some vehicle which is in his charge; but a particular speaker on a particular occasio (given a suitable context) may be speaking figuratively and may mean by this sentence that he can think of nothing more to say. (2) ‘Jones is a fine fellow’means in general that Jones has a number of excellences (either without qualification or perhaps with respect to some contecxtually indicated region of conduct or performance); but a particular speaker, speaking ironically, may mean by this sentence that Jones is a scoundrel. In neither of these examples would the particular speaker be giving any UNUSUAL SENSE [cf. Dummett] to any of those words OR SENTENCES; he would rather be using each sentence in a special way, and a proper understanding of what he says involves KNOWING the STANDARD use of the sentence in question. (3) A speaker might mean, on a particular occasion, by the sentence ‘It is hailing’ wat would standardly be expressed by the sentence ‘It is snowing’ EITHER if he had MISLEARNED the use of the word ‘hailing’ OR if he thought (rightly or wrongly) that his addressee (perhaps because of some family joke) was accustomed to giving a private SIGNIFICANCE to the word ‘hailing.’ In either of these cases, of course, the speaker will be using some particular word in a special nonstandard sense.” (‘G. E. Moore and Philosopher’s Pardoxes’ c. 1953-1958), in WOW – way of words, pp. 166ff – paper from p. 154 to 170). Grice continues two further paragraphs on this, till the end of the paper. The issue of incorrigibility and privileged access attests in two other pieces. In his autobiography, Bruce Aune recalls that upon arriving at Oxford, after Austin’s demise, and joining Grice’s Play Group on Saturday mornings, Aune was nicely surprised by the fact that Grice showed a great interest on Aune’s view on avowals. The other source is more serious. In his “Method in philosophical philosophy,” Grice makes a point about the transcendental justification of the incorrigibility and privileged access of some of our propositional (or psychological, as he prefers) attitudes. 3.2. Beyond m-intention. In 1948, for the Oxford Philosophical Society, Grice had expanded on meaning, and one paragraph bears on Nicoletti. If Utterer U means that p, and an effect on his addressee A’s frame of wind is that A comes to believe that q, on his own terms, we would hardly say that the utterer has meant that q; only p. “One point before passing to an objection or two. I think it follows that from what I have said about the connection between meaningNN and recognition of intention that (insofar as I am right) ONLY WHAT I may call the PRIMARY intention of an utterer is RELEVANT to the MEANINGnn of an UTTERANCE. For if I utter x, intending (with the aid of the recognition of this intention) to induce an effect E, and intend this effect E to lead to a further effect F, then insofar as the occurrence of F is thought of NOT to be depend solely on E, I cannot regard F as IN THE LEAST dependent on recognition of my intention to induce E. That is, if (say) I intend to get a man to do something by giving him some information, it cannot be regardd as relevant to the meaningNN of MY UTTERANCE to describe what I intend him to do. (Interestingly, Patton has used this as an argument against Kripke – the cops are around the corner – leave he booty and run). Like Nicoletti, Grice cared about reason. In his Kant lectures on reasoning at Stanford – redelivered at Oxford as the Locke lectures – he missed a few points which he re-addressed in his PGRICE contribution, which he originally felt like entitling, “Prejudices and predilections; which become, the life and opinions of H. P. Grice.” (He never went by Paul Grice at Oxford – always H. P. Grice, in the proper way). While Read is concerned with consequence more than signification, it is interesting to note that like Hobbes had done in his COMPUTATIO, when it comes to signs – for Hobbes – or meaning, for Grice – CONSEQUENTIA seems to be at the root of both ‘natural’ and ‘non-natural’ (or artificial) sign. We doubt Nicoletti would have use ‘signify’ in vernacular conversation. It is much of a piece of scholastic jargon. If I make signs, I would be treated as not quite Oxonian as I otherwise should. The relevant passage in Grice is in his “Meaning” revisited, where he argued that in both ‘Smoke means fire’ and ‘I mean I love you,’ the shared element is that p is a consequence of q. Read refers to Dummett, and Grice has a few nice things to say about Dummett. For one, apparently Austin never wanted him in the Saturday mornings. Wrigley, who was a student of Grice, approached him once with ‘Have you read Frege philosophy of language?’ ‘I haven’t, and I hope I won’t.’ 4. The Griceian lesson While it would be excellet to pun on Paul of Venice and Paul of Harborne, it happens to be the case that Paul of Venice was not from Venice, and not even a Venetian, but a Friulian. PAULUS HARBORNENSIS sounds fine for Grice who hailed from Harborne in Staffordshire (present Warwickshire, more present West Midlands). Some prefer Paul GRICEUS. The right alphabetical ordering of Nicoletti, however, should be under “N”! REFERENCES CONTI on NICOLETTI. GRICE 1975 Method in philosophical psychology reprinted in The conception of value, Oxford, Clarendon. GRICE 1989 Studies in the way of words. READ – on NICOLETTI SPERANZA, J. L. This and that – for the Grice Club, or H. P. Grice’s Play-Group. Affiliations S. Read. Corresponding editor. J. L. Speranza, The Grice Club. DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI PAOLO DI NICOLETTO PAOLO DI NICOLETTO (? - 1429) AGOSTINIANO, TEOLOGO, FILOSOFO Informazioni Udine † 15 giugno 1429, Padova Forma alternativa Paolo Veneto Attività agostiniano, teologo, filosofo Luoghi di attivi tà Venezia, Oxford, Padova, Buda, Ulma, Cracovia, Kosice, Siena, Bologna, Perugia Immagine del soggetto Paolo di Nicoletto in cattedra (Venezia, Biblioteca nazionale marciana, ms. Lat. VI, 123 [2464], f. 162v). Come per la maggior parte dei protagonisti della vita intellettuale nell’epoca di mezzo, anche per l’udinese P. di N., più noto come Paolo Veneto, disponiamo di poche informazioni sicure relative alle sue origini. Nacque certamente a Udine, negli anni intorno al 1370, da Nicoletto del fu Antonio di Venezia, stabilitosi nel capoluogo del Friuli per lo meno dal 1352, quando fece richiesta della cittadinanza, ottenuta il 21 marzo 1361. Il nome della madre, Elena, privo peraltro di ulteriori informazioni, ci perviene da un’indicazione di Antonio Joppi, a tutt’oggi comunque non suffragata da prove documentarie. Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia, che deriverebbe da un Nicoletto la cui sepoltura, nel chiostro domenicano di S. Pietro Martire, risalente al tempo del patriarca Antonio Caetani, era ornata di un’iscrizione con le insegne nobiliari. Antonio Joppi identifica quest’iscrizione, in seguito andata perduta, con quella descritta in una nota manoscritta in calce ad un’edizione latina di Platone, relativa ad un «Nicolettus de Broio auctor de Venetiis». Secondo questa linea di eruditi, dunque, P. sarebbe membro della nobile famiglia dei Nicoletti di Udine, poi di Cividale, le cui vicende furono ricostruite da Francesco di Manzano nel 1894. Probabilmente negli anni intorno al 1383 P. fu accolto nell’ordine degli Eremiti di S. Agostino, presso il convento di S. Stefano a Venezia. Qui egli compì il suo noviziato e la prima formazione culturale sino al 9 dicembre 1387, quando il priore generale dell’ordine Bartolomeo da Venezia lo assegnò come studente al convento dei Ss. Filippo e Giacomo di Padova, sede dello “studium generale” della provincia della Marca Trevigiana. Di lì a pochi anni, il 31 agosto 1390, il priore generale destinò P., insieme con il cugino più anziano Paolo Francesco da Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese della provincia, e non dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per intraprendere il percorso di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in teologia. In quegli anni lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per gli studenti italiani il compimento degli studi superiori presso l’università di Parigi, di obbedienza avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da Venezia aveva in effetti precluso formalmente questa possibilità agli studenti agostiniani. Durante il triennio di permanenza ad Oxford P. ebbe la possibilità di conoscere ed approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati dell’insegnamento filosofico e di quello logico in particolare. Tornato a Padova, sempre insieme al cugino, mise a frutto questa esperienza nel corso del suo insegnamento come “cursor”, probabilmente dal 1393 al 1396, e poi come “lector”, sino al 1401. Risale a questi anni la composizione delle sue opere logiche più fortunate, la Logica parva e la Logica magna. La prima, diffusa ancor oggi in oltre 80 codici e in 25 edizioni a stampa, è un manuale sintetico, ma molto aggiornato, composto sul modello dei manuali inglesi contemporanei, che arrivò negli anni a contendere il primato nel settore alle duecentesche Summulae logicales di Pietro Ispano e fu persino reso obbligatorio nel curriculum universitario padovano dal Senato di Venezia nel 1496. La seconda, molto più estesa, conobbe invece una diffusione assai più limitata, anche perché, rivolgendosi agli specialisti, forniva un panorama approfondito e molto dettagliato di tutte le più recenti dottrine logiche. Testimonianza in quegli stessi anni (1396-1397) dell’interesse immediato che le novità importate da P. seppero suscitare si riscontra nel carteggio di Pietro Tomasi, studente a Padova e poi “magister” di filosofia a Pavia, che si rivolse al suocero Gian Ludovico Lambertazzi, professore di diritto presso lo studio padovano, e allo stesso Paolo Francesco di Venezia per ottenere copie delle due opere ancora in corso di redazione. Fu con tutta probabilità a Padova che P. trascorse i primi anni del XV secolo, impegnato a completare il suo curriculum accademico con un’intensa attività didattica e di studio. Frutto del suo lavoro di baccelliere in teologia fu la Super primum Sententiarum Iohannis de Ripae lecturae abbreviatio, terminata prima del 1402, mentre al suo insegnamento in arti e in filosofia (anch’esso parte dei doveri di un baccelliere in teologia) si debbono ricondurre varie opere di carattere esegetico, come le Conclusiones Ethicorum, le Conclusiones Politicorum, le Conclusiones Posteriorum Analyticorum e probabilmente anche due opere logiche come la Quadratura e i Sophismata. Il suo primo grande commento aristotelico, la Lectura super libros Posteriorum Analyticorum, fu compiuto nel 1406, quando già P. aveva ottenuto il grado di “magister artium et theologiae”. A quest’opera logica fecero seguito, rispettivamente nel 1408 e nel 1409, due opere di filosofia naturale: la Summa philosophiae naturalis e l’Expositio superPhysicam Aristotelis. A partire dal 1408 troviamo il teologo agostiniano tra i promotori dello studio padovano, quindi l’inizio del suo insegnamento universitario deve essere collocato prima di questa data (in precedenza la sua attività didattica si era svolta all’interno dello studio agostiniano di Padova). Nel periodo che va dal 1408 al 1420 egli compare regolarmente, sempre nel ruolo di promotore, nei registri delle lauree padovane, con le sole eccezioni degli anni 1409, 1412 e 1419. Tra coloro, oltre una trentina, che ottennero i gradi sotto il suo magistero si annoverano i patrizi veneti Nicolò Contarini, Pietro Giustiniani e Marco Lippomano, il benedettino Giovanni Michiel, l’umanista e scienziato Giovanni Fontana. Suoi studenti furono inoltre il medico Michele Savonarola, il giurista Ludovico Foscarini e Giovanni Antonio da Imola, che gli succederà sulla cattedra padovana. Oltre a dedicarsi ad un’intensa attività accademica, in questi anni P. assunse anche responsabilità all’interno della sua congregazione ecclesiastica, cominciando da quella più elevata: il primo di maggio 1409, poco più di un mese prima di essere deposto dal concilio di Pisa, il pontefice Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, lo nominò vicario generale dell’ordine agostiniano. Nulla si sa della sua attività da lui svolta in questa carica e neppure se nei mesi successivi egli fosse al seguito del papa al concilio di Cividale. È noto invece che pochi mesi dopo, nel febbraio 1410, forse in conseguenza del declino politico di Gregorio XII, rassegnò il suo incarico. Nel medesimo periodo, tuttavia, P. fu anche priore provinciale della Marca Trevigiana e come tale, per ordine del Consiglio dei Dieci di Venezia, comminò il 28 agosto 1409 la pena del carcere al confratello Simone da Ancona, reo di aver continuato a sostenere il pontefice deposto a Pisa. In breve tempo le relazioni di P. con il governo della Serenissima si fecero ancora più strette: verso la fine del 1409 fu inviato come “orator” a Buda presso il re d’Ungheria e re dei Romani Sigismondo del Lussemburgo, allora diviso da un’aspra contesa con la Repubblica Veneta per il dominio della Dalmazia, con l’incarico di preparare il terreno per un’ambasceria ufficiale che doveva tentare un accordo. Il suo soggiorno presso la capitale ungherese ebbe termine nel gennaio 1410, ma nel luglio dello stesso anno il governo veneto utilizzò nuovamente i suoi servizi come ambasciatore a Ulma in Germania e presso Federico duca d’Austria e conte del Tirolo. In seguito a questi incarichi la Serenissima compensò P. con la somma di cento ducati e con il sostegno nel conseguimento della cattedra padovana retta in quel momento da Biagio Pelacani da Parma. L’anno successivo quest’ultimo lasciò in effetti lo studio padovano per quello parmense e l’agostiniano fu nominato al suo posto. Ancor più importante la missione che fu affidata a P. il 23 gennaio 1412: in un momento assai critico per la Repubblica Veneta, con le truppe imperiali di Sigismondo che occupavano il Friuli, egli fu inviato presso la corte di Ladislao Iagellone, re di Polonia, con l’incarico di fare il possibile per stabilire con la Polonia un’alleanza in funzione anti-ungherese, così da stringere Sigismondo da sud e da nord e forzarlo ad abbandonare la sua impresa italiana. Le istruzioni diplomatiche contenevano anche la raccomandazione di manifestare al re polacco la piena disponibilità di Venezia a sostenerlo, nel caso questi volesse lanciarsi a sua volta nell’avventura imperiale. P. giunse a Cracoviaprobabilmente a fine febbraio o inizio marzo 1412, poi a fine marzo si trasferì a Kosice, in Slovacchia, dove si trovavano re Iagellone e re Sigismondo, che avevano già firmato un accordo. Il risultato di questa prima fase dell’ambasceria fu di ottenere l’offerta da parte del re polacco di fungere da mediatore tra Venezia e Sigismondo per dirimere la questione della Dalmazia. P. rientrò a Veneziaprima del 10 maggio, ma fu subito rimandato dal re polacco, in quel momento a Buda alla corte di Sigismondo, visto il credito che era riuscito a guadagnarsi presso di lui. L’agostiniano si unì quindi agli ambasciatori Tommaso Mocenigo e Antonio Contarini, che dovevano trattare la pace con Sigismondo, ma nonostante l’appoggio di re Iagellone l’iniziativa diplomatica non poté che constatare l’impossibilità di trovare uno spazio di mediazione tra i due contendenti e a fine giugno 1412 l’ambasceria fu di ritorno a Venezia. P. appariva ormai aver raggiunto in questi anni notevoli traguardi: titolare di una cattedra prestigiosa nell’ateneo padovano, ben noto negli ambienti accademici per la sua dottrina e le sue opere, autorevole rappresentante del proprio ordine, poteva per di più vantare una notevole esperienza diplomatica ed importanti relazioni a Venezia e nelle corti dell’Europa centro-orientale. La sua attività di commentatore aristotelico proseguiva inoltre alacremente: sono da ascrivere probabilmente a questo periodo, vale a dire tra il 1410 e il 1420, uno Scriptum superlibros De anima, una Expositio super De generatione et corruptione e la monumentale Lectura super libros Metaphysicorum. Ma improvvisamente nel 1415 la sua fortuna accademica e politica cominciò a subire qualche contraccolpo: il 6 giugno il senato veneziano votò una censura che colpiva P., insieme con il medico Antonio Cermisone, per essersi assentato da Padova e dai propri doveri accademici senza permesso; tre mesi dopo il Consiglio dei Dieci lo invitò a discolparsi da accuse (non meglio precisate) e gli proibì di lasciare Padova senza una licenza espressa del consiglio stesso; ancora, un anno dopo, nel maggio 1416 la richiesta di P. di ottenere la licenza fu respinta e solo nel giugno dello stesso anno fu concessa, in considerazione dei doveri concernenti la sua carica di priore provinciale, ma con la condizione che non si recasse a Costanza o in altro luogo dove si fosse celebrato il concilio. Le circostanze di questi provvedimenti disciplinari non sono ulteriormente note, ma forniscono l’informazione che P. era nuovamente divenuto priore provinciale della Marca Trevigiana (lo era già dagli ultimi mesi del 1414) e soprattutto che non godeva più della fiducia di Venezia, che non lo voleva presente al concilio. Peraltro l’anno successivo il senato veneziano, con un atto certamente onorifico, gli concesse il privilegio di indossare il berretto nero dei patrizi, privilegio poi esteso, alla sua morte, a tutti i membri del convento di S. Stefano. Di lì a qualche anno, tuttavia, i rapporti di P. con il governo della repubblica veneta si guastarono irrimediabilmente. Per motivi che permangono tuttora ignoti il teologo agostiniano, nuovamente eletto priore provinciale dal capitolo dell’ordine tenuto a Ferrara nel maggio 1420, venne sottoposto ad un procedimento disciplinare da parte del Consiglio dei Dieci che si concluse in settembre con il suo bando quinquennale a Ravenna, da estendere a dieci anni qualora avesse infranto il divieto di riattraversare anzitempo i confini del dominio veneto. P. chiese ed ottenne una proroga di un mese, allo scopo di rimettere nelle mani del priore generale Agostino Favaroni le questioni connesse con la sua carica di provinciale, poi nell’ottobre 1420 fu assegnato dal generale al convento di Siena e gli fu concessa la licenza di insegnare nello studio di quella città. Da quel momento P. non rimise più piede in territorio veneziano fino ad un anno prima di morire. A Siena rimase per quattro anni; in questo periodo i suoi biografi, e per primo Cristoforo Barzizza che tenne la sua orazione funebre presso lo studio patavino, collocano un episodio in cui P. avrebbe agito come un inquisitore, sfidando e sconfiggendo in una disputa l’eretico Francesco Porcario, forse un fraticello, che finì per questo sul rogo. Il Barzizza parla a questo proposito anche di uno scritto antiereticale di P., di cui sinora tuttavia non sono state rinvenute tracce. Venne designato reggente dello studio agostiniano di Siena; redasse per la prima volta un testamento, in cui lasciava al convento padovano i suoi libri e titoli veneziani («de camera imprestitorum comunis Venetiarum»), che egli deteneva su licenza del priore generale, per il valore di mille ducati d’oro, come forma di risarcimento per i gravami e le spese che detto convento aveva dovuto sopportare per la sua lunga permanenza, nonostante il suo convento nativo fosse quello veneziano di S. Stefano. P. venne assegnato al convento di Bologna, con licenza di insegnare nello studio cittadino in qualsiasi materia. Durante il soggiorno felsineo si ricorda una sua disputa con il maestro Nicolò Fava, valente filosofo e dialettico di inclinazioni dottrinali opposte a quelle di P. La sua permanenza a Bologna tuttavia non durò a lungo, poiché già nell’ottobre 1424 fu assegnato al convento di Perugia, nuovamente con licenza di insegnare presso lo studio cittadino. Gli anni successivi, a Perugia, videro P. impegnato in attività didattiche (gli fu concesso ad esempio di esaminare alcuni studenti agostiniani per il conferimento del titolo di “lector”) e nella stesura del suo ultimo commento aristotelico, l’Expositio super Universalia Porphyrii et super Praedicamenta Aristotelis. I registri dell’ordine agostiniano informano inoltre che P. redasse una seconda versione del suo testamento, in cui furono aggiunti come beneficiari la sorella Lucia e il confratello e assistente Nicola da Treviso, e che il primo di agosto dello stesso anno gli fu concessa licenza di recarsi a Roma ogni volta che i suoi lavori lo rendessero necessario. In occasione delle dimissioni del priore di Perugia, gli fu conferito l’incarico di reggere il convento durante la vacanza e di scegliere il nuovo priore ed inoltre a lui toccò di svolgere la funzione di visitatore presso lo stesso convento e quello di Todi. Infine, nel giugno 1428, in seguito ad una supplica fatta pervenire insieme con la raccomandazione del cardinale di S. Croce, il Consiglio dei Dieci di Venezia revocò finalmente il bando comminato otto anni prima e P. poté far ritorno a Padova e riprendere il suo insegnamento, anche se soltanto per pochi mesi, giacché il 15 giugno 1429, mentre teneva il corso sul De anima di Aristotele, morì. Oltre alle opere sopra ricordate, rilevanti soprattutto la sua attività di commentatore aristotelico e di maestro di teologia, P. lasciò anche una raccolta di Sermones quadragesimales, uno scritto antigiudaico, le Quaestiones XXII de messia adversus Judaeos, un’opera mariologica, il De conceptione Beatissimae Virginis Mariae, una versione latina della Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo e diverse orazioni. Secondo il giudizio di Alessandro Conti, il più recente studioso del suo pensiero, P. fu «il più importante pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed interessanti logici del medioevo». La sua fama e le sue opere contribuirono a fare dello studio patavino un centro intellettuale di rinomanza europea; le sue dottrine, improntate al realismo degli universali in ambito ontologico e ad una linea vicina a quella dell’aristotelismo moderato di Alberto Magno e d’Aquino nel campo della filosofia naturale, innescarono in Italia un dibattito scientifico i cui sviluppi condussero nel corso del XV secolo ad un rinnovamento dell’orizzonte culturale europeo. CHIUDIAndrea Tabarroni Bibliografia M. NICOLETTI, Vita dei tre Paoli, ms BCU, Joppi. F. MOMIGLIANO, Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del suo tempo (Contributo alla Storia della filosofia del secolo XV), Udine, Tipografia G.B. Doretti estratto dagli «Atti dell’Accademia di Udine CESSI, Alcune notizie su N., «Bollettino del Museo civico di Padova GENTILE, Intorno alla biografia di N., in Studi sul Rinascimento, Firenze, Sansoni, BOTTIN, Logica e filosofia naturale nelle opere di Paolo Veneto, in Scienza e filosofia all’Università di Padova nel Quattrocento, a cura di A. POPPI, Trieste, LintPERREIAH, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green (Ohio), Bowling Green State Universiy; S. DE FANTI, La missione diplomatica di Paolo Veneto al re di Polonia: il decisivo contributo polacco allaconoscenza della biografia del Nicoletti, in Memor fui dierum antiquorum. Studi in memoria di Luigi De Biasio, a cura di P.C. IOLY ZORATTINI - A.M. CAPRONI, con la collab. di A. STEFANUTTI, Udine, Campanotto; A.D. CONTI, Essenza e verità. Forme e strutture del reale in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo medioevo, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 1996; C. FROVA - R. NIGRI, Un’orazione universitaria di Paolo Veneto, «Annali di storia delle università italiane; N., Super primum sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio. Liber 1, ed. crit. parz. F. RUELLO, Firenze, Edizioni del Galluzzo; N., Logica Parva. First Critical Edition from the Manuscripts with Introduction andCommentary, ed. A.R. PERREIAH, Leiden-Boston-Köln, Brill LOGICA PAVLI rectam atgemendatam. Additis quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon Tabulao figuris. VENETI HABES INHOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira quad a brevitatem atos facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab eximioætatis suæ magistro Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti Heremita Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in animo studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re est annexa doctrina. Ideo volens cap.s. et medium retinere utriusg sapiensnam 5.ethic, turam extremt, compendium utile construxi iuveni t.co.6. ВB bus pluribus diui sum tractatibus, Quorum primus summularum tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit, solutionem ad dens responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait t-C.4 . PHILOSOPHUS in prohemio phylic. sumic exordsum, ideo Dislot tractatus primus terminum sic diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et eius divisione quide. i. II suppositionum declarat mareriam. III consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir probativam. V ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar artem et viam. VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio. c. TERMINUS EST SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars propinquae iusdem, ut: “homo”,lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur propinqua quia oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di 2. ecin. i Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo. Terminum quidam est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et remotas, propinquatop.c. 2 cius vide SIGNIFICATIVUS est ile qui per se sumptus nihil representat --: ut s. “me,” “te,” “omnis”, “nullus,” “quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles. Terminorum quidam si secunda significant naturaliter et quidam AD PLACITUM.Termi divisio p nus naturaliter si significans est ille qui apud omnes eius qua vide de m efd RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in primor mente. Terminus AD PLACITUM significans est ille qui ye.c.i.et NON apud OMNES eiusdem est re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui apud nosft. B Paul. sin significat ‘hominem’, sed apud alias nationes nihil significant, ut sunt greci (“anthropos,” “aner”). Reefo.Terminorum quidam est categorematicus, et quida3 S.colū. SYNcategorematicus.Terminus categorematicus est pri. diui. ticularia particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu. Aduerbiauerbum, et coniunctiones ha minum.i.rem quæ non est terminus datoque effet,ficut TRACTATVS Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle signi Voety fancarious est ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã tasuely “homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam cum alio habet proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siueen imponatur in oratio divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”, “nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et præpositiones (“to”), et adverbial et coniuctiones. Signa namqz distributiua habent officium, fal.3.quia determinant distributive, universalia yłr, et par bent coniungere terminus vel orationes. Terminorum quidam est prime intentio Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis. Terminus primæ ma, sol. intentionis est terminus mentalis significans non ter D“homo, significat sor. et pla. quorum nullus potest esse terminus. Terminus autem secunde intentionis est terminus mentalis significans solum modo terminum A vel propositionem, ut ili termini mentales, nomen, verbum, participium, propositio, oratio et huius modi. Nis est terminus vocalis vel scriptus significans solum B modo terminum vel propositionem utili termini vocales vel scripti, nomen, verbum participium, athuius modi. Terminorum quidam funcin complexi, et quidam complexi. Terminus in 6.diui complexus vocatur dictio – ut: lylapis,ly lignum. Sed fioVide terminus complexus est oratio – ut: “homo [est] albus”, lor. et Paul.in placo, deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter considerat: ideo de his restat deffnitiones assignare. NOMEN est terminus significativus lo.ma.f. SINE TEMPORE cuius nulla pars aliquid significat separa dissintta – ut: “homo”. In ifta definitione ponitur terminus lotionoie cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua verso: dicitur significatiuus, quia termini non significativi depri non funt nomina apud logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”, et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad differentiam verbi et participia, quæ significant *cum* tempore. Ponitur: ‘cuius D nula pars aliquid significant separata’ -- ad diferentiam orationis, cuius partes significant separate mo pyo er.c.c Terminorum quidam eat s.diuifio prime impositionis, quidam secundæ.Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi Boe.in ficans non terminum -- ut “homo”, et “animal” in voce vel in scripto.Terminus autem secundam impositio. In princ. L3 Via de nominee et uerbo ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus principa . Defini. V uuset extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid significar separata, ut “curre” c vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo, temporaliter significativus, ad eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum apposito sicut verbum. ceterg autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione nominis. Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus” deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca Jüfferentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris, quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta. Oratio perfecta est ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio imperfecta est ila quæ imperfectum sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d tres sunt species orationis perfectæ quia orationum perfectarum. Alia INDICATIVA – ut: “Homo currit” . Alia est oratio imperativa – ut: “doceioannem.” Alia ed incelreligie ineis oratio optative – ut: “Utinam essem bonus logicus”. fint ap te nate. VERBUM est terminus temporaliter significati differentiam nominis quod significat sine tempore. Secundo dicitur, et extremorum uniciuus: ad differentia participium quod significar cum tempore, sed non unitfup 0 -3 gñare fectū sen bus vide ilo, ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua verum vel falsum significans – ut: “Homo currit” -- ponitur oratio lo non e converso. Secundo dicitur indicativa. quia Cola indicari va est propositio, non autem imperativa nec optativa.Vicimoannectitur: verum vel falsum significans: propcer tales orationes. Cortes potest, plato in PS pro qui alia categorica alia hypothetica. Propositio ca divisio. Categorica est ila quæ habet subiectum prædicatum et Vide in copulam tanquam principales partes fui – ut: “Homo est animal.” l o,m a . f o animal. Subiectum est ly “homo”, prædicatum uero,101.col, ly “animal”. Copula illud verbum “est”: quia coniungit tum. Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum. vide licet,ły “currens” quod patet in resolvendo illud uerbum “currit.” -- in: sum currens, es currens, est currens, et suum participium. Subiectum est de quo aliquid dicitur – ut: “homo”. Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut: “animal.” Sed copula Quid (u bicctuz semper est verbum substantivum: “sum currens”, “es currens vel hom”, “est homo et currens.” De quidp. propositione hypothetica posterius dicetur ad cuius tum et C differentiam point urilla particula: principales partes quid co . D sint indicatiue. Quia non significant verum nec falsum. Diffini cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub propositione contentas sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum predicato. B rir est propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si dicatur “homo cur . Dubo . fui.quia principales partes hypotheticæ non sunt pula, subiectum et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia affirmativa, alia negativa. Propositio categorica affirmatiua est ila in ligiex.i. qua verbum principale affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio categorica negativa est illa in qua er: Tertia bum principale negatur – ut: “Homo NON currit” S. Propositionum categori:Diffusi carumalia vera, alia falsa. Propositio categorica ue us&hac ra est ila cuius primarium et adequatum signifi-materia carð est verum – ut: “Tu es homo.” Hæc enim est uera. “Tu es vide in homo.” quiate esse hominem est verum.Voco filoma. divisio A tio. i. gi her. C. 5. . a4 1 mo. Cetera autem significate, utte esse animal, teelic substantiam, et huius modi, sunt significate secundaria, et pones illa non dicitur propositio vera nec falsa. Propositio categorica falsa est illa cuius primariam et adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es asinus.” ria, alia contingens. Propositio necessaria est ila, cuius primarium et adequatum significatum est necessarium – ut: “Deus est.” Propositio contingens est illa cuius significatum primarium et adequatum est contigens – ut: “Tu es homo”. Et voco significatum contingens ilud C quod in differenter potesse se verum vel falsum. Propositionum categoricarum alia alicuius uide.i. quantitatis, alia nullius. Propofitio categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est universalis, particularis, .in pri, indefinita, vel singularis. Propositio universalis est illa in qua subởcitur terminus communis signo universali determinatus – ut: “Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti nomen appellativum et pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt ista: “omnis,” “nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet, quantusliber, et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur terminus comunis igno 4. diui afol.significatum primarium et adequatum propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi infinitive vel coniunctiue il 267.secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es homo.”, diciturfiA dępris. Significatum primarium et adequatum illius, “Tu es homo.” Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis. Propofitio categorica por ilo.ma.fibilis eft illa cuius primarium et adequatum significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et adequatūfi. usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est impossibile – ut: “Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne cella larem, nomen proprium aut pronomen demonstravi Suum singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. Ex quibus fe B quitur iam quæ est caregorica nullius quantitatis. Et dicitur quod illa quæ non est universalis, nec particularis, nec indefinita, nec singularis -- ut exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet, “Tantum homo currit, omnis homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue laf, u. Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad interrogationem de propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel hypothetica. Secunda autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis? Respondetur affirmatiua vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad interrogationem factam g Quan tarmñdcatur, universalis, particularis indefinita, ucl singularis, et hoc fm exigentiam propositionis propositę. De duabus alijs pposition am divisionibus. Ræterfu pradictas diuisiones dugalią declaran- Prima cur. Propositionum categorica divisio – ut: “Homo currit.” Propositio categorica modalis est illa in qua ponitur aliquis modus -- ut possibile est sor, cur particulari determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.” Si Idem in gna particularia sunt ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7. tract. A quus, et huiusmodi. Propositio indefinita est illa in huius in qua subijcicur terminus communis SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est animal.” Propositio singularis est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus discretus, vel terminus comiscum . col. pronomine demonstratiuo singularis numeri. Exem :4. plumprimi. sor.currit. Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.” Voco autem terminum discretum vel singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste versus. Querca, uel ră alia dein efle, alia modalis. Propositio catego Dricadein efic est illa in qua non ponitur aliquis modus 1: Figura de in effe. r e r e .Modi autem sunt sex . c possibile, impossibile ne Seconda. necessarium, contingens verum et falsum. Propositionum modalium: quædam est in sensu diviso et quædam in sensu composito. Propositio modalis in sensu diviso est ila in qua modus mediat inter accusativum casum et verbum infinitivi modi – ut: “Fortem possibile est currere.” Propofitio modalis in sensu composito est illa in qua modus totaliter præcedit, vel finaliter sub sequitur – ut: “Deum esse est necessarium.” Impossibile est hominem esse asinum. Ex his divisionibus originantur tres figuræ. Quarum prima dicitur de in effe. Secunda modalis de sensu diviso fchabés admodum primæ. Tertia modalis de sensu composito: leda cæteris disperata. Quartum declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet ho currit. adaz hó ñ currit, Nurbo de currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne, subalterne Figura: demesse Gulltra gda3 ha cuifit, subcontrarie reasu diuisio Contrarie Nullum hoie3 possibile est! curtcit . Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de sensu dictorie Lörra mine polee curitie . Modalis de sensu diviso. sub-contraric Modalis de sensu composito. Nec currere est los. Impose est currere for sub-alterne Contra sub-alterne dictorie Aliquem, ho Contrarie de sensu composito: Fig. Loncra . dictonic Contingens et por, non currere Figura Que libet ho minepole? currere . Pole for currtre, A liquê home minē ñ pole est currere, sub-contraric Secunda præcise proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut: “Quilibet homo currit,” “Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et particularis negativa de consimilibus subiectis prædicatis et copulis, supponentibus precise proeodemuel pro eisdem sunt sub-contrariæ in figura – ut: “Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo non currit. Universalis affirmativa et particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus. precisepro eodem vel pro cisdem, fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi. De figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ PERSONALITER De propositione hy. De ampliationibus po. disiuncti. 15 De praedicabilibus Tractatus tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione norum quando fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib De converfionetibus supponis et de diuisio De suppositione per de natur appõnuz sonali tractatus divisa De nomine tionum De duabus alös diui De supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen cinens C fionibus propõnuzs teriali et de diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem prædica, consequentősconti. de resolubi de propositionibus Tractatus quintus est tionc obligationis et De obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc consequentiæ et De hypo. descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus consequentiæ for De gradu pofitiuocô malis De regulis con. for. q De gradu comparati De regulis poenespropositiones quáras Delydiffert positions non quan De exceptivis De ly necessario et contingenter parabiliter sõpto poncs superius, atq De gradu superlati -minos pertinentes et De ly incipit et defi : impertinentes nir nens. De officialibus pro De defini libus. po. de reg. eius. inferius De regulis poncs pro De exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas Dedecem lis alñsregu De ly totus positioncs hypotheticas De ab æterno De infinitum de probationibus ter obligatory artis: De reduplicativis De regulis poencster De immediate De semper De regu.pancs pro tinens minorum continens. De deffic go cioc insolubilib? et di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia Obiectiones contradi milibus propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs .hui? De exclusivis insolu De insolubili difiun- ulti. ca.contra modos mi. De insolubili particu huiuspri De insolubilibus no é de obic Obiectiones contra Obiectiones addicta est de obiectionibus contra De obiectionibus factis contra re propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et diffig Obiectiones contra pr De deposition ibuster Obiectiones contra re minorum Tractatus Sextus De insolubili uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo et gulas huiuspri de insolubilibus Obiectiones contra dif habens. .huius uifioncciusdem. Gulas huiuspri lari vel indefinito mitra. de predicabili. De insolubili copula. trac.in maceria syllogismorum n a contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus factis con car . las.huius terti las. huius terti tracta. Venetijs ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară, tracta. tëtracta. Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij las. huiusterto tracta Antonñ Iunte Florentini Registrum illaiquaiferi predicaturde terrogatoez factapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť totaratio quafuperi pzedicaturdein quareficpdicaturde illiseq? feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini dictiévľoriadealiquod illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin vniuoc'pze iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere fpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo Eréplüpzimi:vtbóèrifibil dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimueltpredicarsitu lub bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl'me teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė mi? coup” subcocpozecosp? praedicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato a dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat ioautaccica est piedi afinuszlbiftisfua idiuidua carioterminox diuersoz pze foztesz plato. bzunellus fa dicamentorum vt homo é ale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tu est pdicamentu quátitutis liquúdicitureffeillequicon Lui generalisfimúeftquäti. tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aial respectuisti terminihó alterna ärnulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz? di bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi generisiftefür feriozad reliquú dicitur effe fpetieslinea superficiescoz illequi continent urabeo. nnó pustempus locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini bomo. hiclocus. Secundigeneris Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties. f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuzestforma nozuFmsubzlupza. Etdiui, vetcircaaliquidpitasfigura us trinarius quaterna rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali Lozpus insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eft naturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogi cazrhetorica dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz cozrupere equáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uidua funt fic generareboiez cum. quarú idiuidua suntheç fic corruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris spessuntau. bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis species sut tum. quozumindiuiduafffic circulus triangulus quadra auger eilögumficdiminuer gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua funt. biccirculus.bicfunt cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuidua funtficcalefa Quartii predicamétü Ċpdi cerefic frigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris species funtmouct fur ralissimú eft relatio vel ada. Súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera( diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita, zsup2 ficmoueredeorfum. Sertus Primum est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz cuduzé fuppofitio. Lertiuzė paffioniscu generatiffimu supposition primigenerisfpe estp dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actum ca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifiones ponitifte vt foztempoffibileé currere versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu nevelaf. vquanta. parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitp ad i taliter pcedirvei finaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozica vel ipothetica. Se effe asinum. Erbis diuifio cudaaur asseritquodaditer nibus origináturtresfigure rogationé factamoqualisre quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne damodalisofenfudiuisore gatiua. seditertiadenotat habens ad moduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofito fiacefisdispata qua particularis indefinita vel fin ruideclaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. Uifiones duealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer. Contradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalis affirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup bomocurrit. qztermininifup ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp proeisdéfuntatrarieifigu, eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa. Quilibzboè tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla eftpoffibileduofubcötraria vniuersalis affirmatiazpti effefimulfalsa. fedbenefim culari saffirmatia. Etviuer, vera. Patet pars prima ifin salis negatiuaa particularis gulis discurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probaturquoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal se peodez velpeisdezftit 16 bus. Aliquis bono n eft alby alternein figura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó currit. Dar aliquod animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia regulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimulveravelfimulfalf. L madiuifio eftiftaterminori vocaturlravelfyllaba. Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral definitio, sebutcomienicu damagnitudiez caritus eft ilequi permitesperjeigranasoatione. Tedium cóftitué aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya tezinajoftudentiuznecno terminiple fignificatius Pericarione perforsales aliornimia; breuitatez.gbɔ eft ilequi perfe sumptusni, beit perqúemymim nulla fereeftanera doctrina. Bil representatproisnulluseftpermainang Ideo volensmediuftinere 7files. Secundadiuifio eft, vtriusq zsapiésnäzertremi. iftatermiogquidazsignifi, ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla nibɔplurib, diuisuztractati, citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu gnificansestile quiapooés traditnotitia. Secud fuppo . eiusdeestrepsentatiuusficut firionú declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit doctrina. Po AD PLACITVM significansé il Quartus terminoqviistruit lequinóapudoéseiusdez é pbatiua. Quint’ligidiregu, representatiu'ficurilletermi lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto isolubiliafoluendidarartem apud nos significatboiem. via. Septimus atraprimú apoaliquascertasnatoer obijcitfolutione zaddensre, nibil significat vt f untgreci: fpófiuaz. Dct aubotertium bebrei. Zertia diffinito é ifta fodificarpróem argunitati, Q termino kquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun, gozematiczgdáfincathego acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio physicozum füiteros, maticuseftillegtampiezz duuideo tractatuspzim’ter/ cialiob3 ppziùfignificatum mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft tibölianimalinte. Lermi? Gential uit diferenmis. ut box Florin simp prout firepmimusi Cedex gramaticaj. Lorical minátdistributiver particu! complerus eftozó vthomo laria particulariter Õpofitio alborozes platodeuzeffe nesdeterminatfbcertocâu 2buiusmodiic. Aduerbia verbúzcõiúctóes Uia noier verbo er biitcõiungere terminosvel quibus ozatio compoi ozóes quarta diuifio est ia tur ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz eftpziei paliter cófiderar. Jdeo'dbil tentiois.7 quidábeitencois reftat diffinitiones ad-signare Terminus pe intentónis eft Homéest terminus signift terminus mentalis significaf catiu? Fineté pozecuiusnulla nonterminu. i. réānonéter parsaliquidfignificatseper minusdatoq effetficutlibó ratavthomo. In iadiffinite significatsoz tem z platoné. å poif terminus locogencris. Ruinulluspot effe terminus. q2oc nomen est terminus.e Lerminusaütbe itentóisé nóego. diciturfignificatinis terminus mentalis significát quia termininó significatui solimo terminil ppofitone non sunt noia apud logicilicz ptilitermini mentalesnon bi apud gramaticivtomis verbti participiúppofio nullus similia. Tertio di, zbuiusmodi.Qüitadiuifio citurfie tempore addiffere, est istag terminoz quidãcst tiñverbia participüa SIGNIS pe IMPOSITIONIS quidife. ter ficant cum tempore. Duar minus pe impositois estteri toponit cuiusnullaparsali nus voca vel scriptusfigni quidfignificata ddifferentia ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni, liaialivoceveliscripto.ter ficät. (Uerbúeftterminato min’autem se impositionis eft požaliter figificatiu?zertre terminus vocalis vel script? monvnitiuuscuiusnullap8 significas solúī modoterminu aliquid significat separatave vel propositione vtilitermi currit vel disputato icifpria nirocales vel scriptinomen mo temporaliter significati, verbti participitizhuium ói uusad differentiam nominis Serta diuifio eft ifta. Termi quod significat fine tempore non quidifuntincópleri 29 Secundo dicitur ertremo damcompleri. Terminusin rumvnitiuusaddifferentia complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií lilapislilignum. Izterminus tempože. sed non vnitfuppo fituscum appofitoficurvero quenonfuntppofitionesno · bum. cetereatparticťepo obftáteqa fintindicatie q?i nuiturficur toenois. Significant verum nec falsum . P Ropofitioeftoratioi dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito catbegozicaet prodicaria, madevenirate Alia iperfecta . Diario pfec bignier parte dignins e.me,ose ista quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila queperfectu fenfi catu copula generat animo auditous. partes tanös pzincipaler, peplicireutimplicie. vtbomocurrit. sui.vthomo eltaial. i), Etfidicarurbomo currite Horá dumotres funtspe propofitio catbegozicaznon Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte catiu? Cuius aliqua pars ali quidfignificat. Vt boalb?de uz effe. Ulria particula poni turaddifferentia nominis? Propofitionu zaliacaibego verbi. grumpartesnonfigni rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes tubomo predica Diario imperfectaestilla tum verolianimal.7 copula aiperfectuzfenly;generari illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal fbiectum cumpzedicato. busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur nuerare Pria eft ifta 5 cies orationis perfecte Drationuzperfectar. alia indicatiuavthomo currit babz predicatum dicitur qa babz implicicum predicatuz v z li currens quod patzinreroí alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum eseltasuum participiu uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus Subiectuz estoe& aliquidad fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô animal. Sed copula fempererspularerreigitpilianca. currit. poniturozatolocoge verbuzfbftátiuü. l.luzeselt veteteaiomm neris.q:oisppofitioestoza De propofitione yporbeti-inwirtelde eius. tioetnoneguerro. Secundo capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola diferentiam cuius ponitur il la catiuaeitppofitio.nonátim particulaprincipalespartes peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz Secunda oiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuz cabegozi, tiones foztespór. platoicipit car. Alia affirmatiua aliane facit, egineris, matiua eft ilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane kleinesitimplicies apaleaffirmat öcbócurrit. ceffariaaliacontingens,ppo diferencia Presidurijgezo pzopo çatbegozica negatifitione cefariae ftilacuius artean = uaeftillai qobiipricipalene primarium zadequarumfigi gáf. Vt: “Homo currit.” Tertia ficatum est neceffariumvtoe divisio est iappofitouzcatheus est.popofitiocontingens goricaralia veraalia falsa. Eftilacuiu sfignificatumpzi, Propocatbegozicaveraéila mariumza dequatumeftcó tui? pzimariuzadeqtuligni tingensvttues bomo. Etvo ficaruié verúztuesbobecco fignificatumcontingensil n. Eltperatues hóq2reeffe lud quodindifferenterpotest boiezcftveru.Uocosignifi esseverumvelfalsum.Sex catu primaritiza deq tuppo tadiuifiopropofitionumca! fitionisqó eftfimileorationi thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie illius. vn ' titatis alia nullius. P2opo ca deteeffeboiem velqotues 'thegozicaalicuiusquantitati bódicitfignificatu;primari estillaque évniuersalispar uza de quatúilliustuesbó ticularis indefinita vel singu ceteraåt significata vt teeffe laris. Flop. vniuersalise aialteefe Tbstantia7huiul, ilainqua fubijciturerminosnasdistri mõisunt significata secuidaria comunis figno vniuersalides gacia.Prop cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil 7penesillai diciep povera terminatus vtomnisbócursliepy. necfalla. Propocathegorica rit. Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7 inprentinomenappellatiuuz adequatü significatum estfal fumvttuesarinus pionomen pluralis numeri Signa vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali vterq; neuter qualislibzquá aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi poffibiliseftilacui'paimari tioparticularis eftillainqua uz?adeqrufignificatúépor iubijcitur terminuscóisfigno fibile vt tu curris particulari determinatus vt Propofitio cathegoricai, aliquisbo difputat. Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama ticularia funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus terreliqu’rbui?mór.pzopo eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie feprobatio: ctfromloco Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi gno:ytbomo estanimal. Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti lainquafubijciturterminus onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino coniunif realiamodalis. Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica deielleèillaiä fingularis numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut Toutescurrit. ermfiillebo vtbỏcurrit. Diopofitioca disputar. Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num discretumpelfingularé ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo fibileefoxtemcurrer. Modiy Scromodi ftratiuú singularis numeri vt autem suntf erscilicet porsi, ifteiftaistud. Erquib? fequi biler impossibileneceflariu turiamqueécatbegozicanĽ contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil Secundadiuifio p:opositi laanoé vniuersalis necpar onum modaliumquedamcst ticularisneci definitanecfin infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep sucomposito Propositio motiue vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumz verbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte vtfoztempo ffibileécurrere versus. Quecavelip. qualif Propofitio modatisisenfu* nevelaf. vquanta.parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i taliterpcedirveifinaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumefTeé necessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozicavel ipothetica. Se effeafinum. Erbisdiuifio cudaaurasseritquodaditer nibusorigináturtresfigure rogationéfactamoqualisre quanpriaordeieffe.Seci, fpondetur affirmatiuavľne da modalis ofenfu diuisore gatiua. Sed itertiadenotat habens admoduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata qua particularis indefinitavelfin rui declaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. visiones duealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer C Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibileeft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecundefigurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé dictorie. Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida b?fubiectis7 predicatisfup bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét ponuntprecisepzoeodevĽp proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru. Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularis negatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib? pcirepeodévelp alijsregulisipfarum cogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu natura.quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia regľaviuě duoztraria effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa. Primapars negatia velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè tib pcirepeodezvelpejsó albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt iafimiliter Dmneanimaleft quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo curritP. ull'bócurrit?qui Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit. Quartaregla eft poffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa.fedbenefim cularis affirmatia. Etviuer, vera. Patetparsprima ifin salis negatiuaa particularis gulisdiscurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probatur quoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal sepeodezvelpeisdezftit16 bus. Aliquis bononeftalby alterneinfigura. vt glibzbó Aliquodanimalefthomo.Et currit2gdambócurrit. Dar aliquod animalnonefthomo lusbomocurrit. 2gdazbol Tertiaregulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimul veravelfimulfalfa poffibileouo contradictoria patetifta reguladifcurrédo alter. Hecranonfoludefuit Pfingťaptradironia. Quar primevelfecüdefigureimo taregulaeft14. Sivniuerfaľ tertie.Etvocoibinegatio eft vera fuapticularis velin ne prepofitaquandocolligit definitafibifubalternaeftde modofuemod?pzecedarfi ralnego. Unfib effetvera uesequatur.7 postpofitaqui gizboestalb?6fikreffzver coniungiturverboinfinitiui raaligshoestalbosznóez modi. eréplüpzimi.nópofsi. q:iadefactobe veraaliquis bileésoz.curreredelsoz.cur hoéalbɔ.znóiaquilzboeft rerenóé poffibileereplúfi albɔ.Eteodémódicodenei possibileésoz. nócurrerevel funtregule. quorpria reequiuale tiftiptingenscft eftia. Hegpäepofitafacitz foz. nócurrergpumă regula quipollerefuocótradictozio EthneceffeeTo2. Non currer viinoquil; bocurritequalet equiualetiftiimpossibileest isti.Aligshónócurrit.Etnó soz. Currerr recundam regur nullus homo currit equiualz isti lam zifta non nece f l e e soz . ni aliquishomo currit. Eurrer cquiual; huic possibi Secundaraeftistanegató leésoz.currergtertiamrei poftpofitafacitegpoller fuo gulamzita dicaturdecete contrariopbaf. näiftaquils risquibuscunq3 quare7c. bomo noncurritequipollet SDnuerfioeitcranspofi ufti nullus homo currit. 2nul tiosubiectiinpzedicar lushomononcurritequipol rum7 econuerfo:vtbomoé ictifti quilibet homo currit. Animal animal é homo. Etlý Lertiaregulaeftistanega diuiditur in conversione fimi rio prepofitaz postpositatai plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem. Lonuerfiofim no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta nonnul: Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol vtnulluanimalcurritnulluz letifti aliquis homo non cur curr ése animal. Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra, acadésetranspofitiosubiec dic. Post contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca gatiuisquare 7c. roz. nó currere èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz. curre demqlitarefzmutataquanti uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó estaialaliqd Håbé per aaliqrolanoné aialébo. Lóuerfiopptrapo fbftárianullarojaernte7ti fitioneeträf posiectiipdica befalsaaliqui fubstätianon tiire converso manéteeadem énonrosaq2 suutradictori qualitaterquitirate. kmura uzé vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisi terminosi tia ;estrora. finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano currensnóénon pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis ranullusbõémuliē.zbecē puerhonib? puertatponun falfa nulla mulieré bóigif, furistiosus, Feci simpliciter Secuido becéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon cusvid; ens:7becefalfanul traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc. ponúťquattuorlrevocales Lertio ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar éibbiezljéfatfanullusbó firmatiaz. 2vlemnegatiuaz éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf, giftanó suapuertens.fzia firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz velidefinitanegatiua. Luš effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i. plisnega teripuersa.Ad63picogi tiua7 pticularis affirmatiua fitde sbiecto pdicatu.qziicft puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis negariazplis ens. ióficpuertiéšnullüvi affirmatiua puertufp accñs densensécecii.Ad tertium Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens zpticularisvelidefinitane ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?. vľiainullobõieédom? Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco plures cathcgoricar ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla. vtbeaialchó.2pueri nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer velalicuiistarumequiualen fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal uerfo.lzñéita i puersione p accideiis velpatraponez:ná р Ropofitioypothe, ticaeftillaģb abet Iresigitfuntfpesypotheti Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica, litate neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero vt localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi poffibilis. Hulla atitestque tioaditionalisèillaiäjiun fitcótigens.iftereguledicte gun et plures catbegoziceper suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi. tuesaial. Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic Dpulatiua eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego 5nórepared afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest. Londitionalis cemcõitictas. vttuesboiz negatiua estillaiquanotacó ditionisnegatur vtnonfitu eshotuesafinus 7brempp batper affirmatiua. Adveri ratezcóditional affirmatiue requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumalia affirmatiuaa lianegatiua. Affirmatiuae illainquanota copulationis affirmatur eremplumpofitu eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE pritisrepugnetåtecedentivt fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi vera eft quista repugnanttu nus. csbomo tunoessial. An Et semper negariua proba tecedés vocatillappoqim turper affirmatiuam. mediate sequiturnotãcóditi Åd veritatem copulatiue onis: cófeques veroeftalta. Afirmatiuer equiriturquam f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu tuesaialest consequens.Ad eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf alfitatem copulati, matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam "sistemahor oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues behurinefrom cumancedente vifituesbó atucurris. tu sedes. Hec aut ftant fimul Bd possibilitatem copula tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiritur qualibetpar itaconditionaliseft falsa. técepossibiléznll'ä altériiz tatomagis welalijs Jhiunctiuaeftillaique Deus évelfoztesmouef. Ere coñitigüturplescathe pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica. gozicepnotazdi functionis; adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin? Ritur qualibet partemeffeco Propositionúdifuciuarú tingentezznulla alteri repu alia affirmatiuaalia negatia gnarenecét contradictoria il; disunctiva affirmativa éil, laqvtantirpseftalbɔl'ipfe a inqua affirmatur notadi currit. Ponitur tertiapartir litctóisvtpatuit. negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai quanota difiuctó ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés. lzboc firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam difiunctionis. tropugnante poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus. Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi, eilisre quiritur qualspartem possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alterii copoisibilez. eremplu Md posibilitatem difüctie figutcomke partesplenepost primivttu curris. 7tuésafi, affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes. Ad neceffitatez. copla eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed ad impoffibilitate eius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif qualibet partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem vt homoeftafialiudfornogri. husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft. tezelleptingentez.alteraatt Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez nec eidéicópofi affirmative fufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó temeffeneceffaria;veliuicé pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt de partibɔcontradictozijser} Ad Veritate zoifiuctiueaf, fe impoffibile z. Etadcontin Röme ftiguduozycótrario afirmatiuefuficitvnazparte gentiamcopulatiuafacta siune imposfibilealiud effeveram. pttu.cshomop gtib oppofitisfitcótiges, metafarim #coco scadcon coinout:fed quo hoc eftueru, cuno filin ilascopilgrimur, fatke porousopofiris,codicarilkidekie Erionisdifnightutplan qnoradiinch omnis,Admiños vilpropofiriones, congle:fed l Frelsabond murgiipropa Mit Saint Erine et filace prolaindao importinisdefinitiva entrare difusique significatia sseéincóueniensa Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens unum idiom conigat et difiurgatriper Sadcuila copulatiua falton Iparibusopofieasofusdeles in diversors Et iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaé estimat arhdheof magister bisin coligititommdig ogdifinitivaerit Drinsers. viétime quod propria fueimpropriauide itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props liéefetwimmign ruenhomo neltuesani bec.n.éneceffariatunocur iusmodi, ris. vel tu moueris . q becco Lermin e quoc e termin ? pulatia éipoffibiťtucurrif fimplerplura fignificarFzdi tunomoueris.Etbecéptin uerfasrationes ficutlicanis géstucurrisvľtunomoue ghignificatcanelatrabilefi ris.q2 beccopulatiuaéptin, duscelestez piscémarinuz. Genstunócurris tumoue zbocdiuerfisrationibus. risfecúduregulasdatasde Paedicabile fecúdomó fti copulatiuis. mifvideliczcóiterzp ergoétermin?vnwoc?pze. prie Predicabilecóiterfup túiterminoaptus. natusde aliquopdicari. zfictātermi nuscõis finglaristacói dicabilisingddeplerib?ori tibus(pe. ptaialpredicatur deboiezdeafinogorritfpe ineoqdquidqzaditerroga plerusqizplerusdiciepze tionezfacta; perquideftbo dicabile. Sippziesicfumen velafin? rndeturqeltaial. do difinit. Paedicabilee ter Ben'oiuiditur. naquodda minouiuoc'apt nat deplu estgenus gnälifsimu. zquod rib?pzedicari. ficnull?ieri damgenussbalternum nusfingularisnec tráfcedes Benus generaliffimúéter autpofit? Dicitur pzedicabiming ficégen?qd nopot lefeuvniuersaleqóidéė.q2 essespecies. ytfubftátia. Be null’ralisestterin vniuoclis nus subalternúeftterminus Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe termin? fimpler plura signifi species vtaial.eeniz genus cásfm vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde boqo significatfoztezplato rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác Spesestterminusvniuo/ rationeať raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil qodiciturterminus fimpler ercluduttermini3 pofiti. sed significans pla ercluditter minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez. videlzensaligdzbu iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő Spéfoiuiditur q2qdazeft specialissimazadå Malterna Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen? speciediffe"Redicabiledupťrfu rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina cutlialbuqapredicatur. de cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale vtanimal. qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri lisehódlafin?pótpuenien nusqcum fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt bóvel aliter conuertibiliter. Quia nó con Spės spalissimaétermin? uertiturlialbuaialiq°illoz, vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe plurib'orñtıb nuerofolum turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai piedicabile effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter termin?vniuoc? predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero quale. Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti, làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe přib?orritib? nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri. veliqualeacclitaleno qzaditërogatóemfactaper puertibiťr.2 illud éaccñs.er qualisest fortes respondetur predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ idirecta er Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica Þdicabilisdeplib’ieoquod tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut dicaturdefuoiferiozi. Debo rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé platbeieoqdqualeqzadin illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť.7 totaratio quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq? Feriozi velecóuersofz quod éppziapafsio illius termini dictiév ľoriadeali q°illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin’vniuoc'pze iqua ppuúvelaccñspzedir. dicabilisdeplib”ieoquod caturde generefpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuo idiuiduo autepuerfo Eréplüpzimi: vtbóèrifibil dirurin decepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimuelt predicarsitu lub bileéhoalbueaial. Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl me teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatio efriaťė mi? coup”.subcocpozecosp pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať dicamenti vtbóestaial. pze, aiali fpess pecialissimahoľ dicatioautaccicať eft piedi afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminox diuerfoz pze foztesz plato. bzunellusfa dicamentorum vt homo éale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tú eft pdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui' generalis fimúeftquäti. tinerillúzne converso sicut li tasfubý funt duo genera aial respectuisti terminihó alternaär nulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz?di bocaliquid vltra. Lermin’in scretu. Primi generis iftefür feriozadreliquú dicitur effe fpeties linea superficiescoz illequi cótineturabeo. nnó pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftius termini bomo. hiclocus. Secundi generis Lozpozea Jnco: pozea infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumelt passio vel passibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuz est forma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca aliquid pitas figura us trinarius quaternarizë Animatum Jnanimatuz individua vero funt hicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu iusgeneraliffimum estquali Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale. tasfubquofuntquattuo:ge Animal rationale nera subalterna non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eftnaturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies. boc cozpusboc rempus Primi generis spetiesfune Quintum predicamétoem grāmatica logicaz rhetorica dica métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå rasubaltez nafuntfer. quozu matica logicab rbetorica. Nulluė superius ad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspés sunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz ?cozrupereequáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez cum. quarú idiuidua sunt heç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal quarti generis (pessuntau. Bumhocnigp buiusmodi. gereinlongudiminuereila Quartigeneris fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulus triangulus quadra augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua funt. biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuiduafuntficcalefa Quarti i predicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada. súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttria genera( dividua sunt ficmo uerefurfu altera ilebita, 16zsupa fic movere deorfum. Sertus Primum estcaparatio. Se predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu’generatiffimu fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene tiessuntvicinusequale?li, rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt. zsupaav; generari corrupia hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo fimile dñszmagister. qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi tuboiezgenerariftueqmco Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis fuus discipľ? quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic gúdiminuiilatu quani diui. piscipulus. dua funt ficaugeriilogu fic cumouči. primi7figeneris, Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi generis spėssunt v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua diminuerealterare. cfmlo, funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener -- b Logica Parva: Critical Edition from the Manuscripts with Introduction and Commentary, Perreiah, Leiden: Brill; Logica magna, Venezia: Albertinus Vercellensis, Octavianus Scotus; Logica magna: Tractatus de suppositionibus, Perreiah, St. Bonaventure, NY: The Franciscan Institute; Logica magna: Part I, Fascicule 1: Tractatus de terminis, Kretzmann, Oxford; Logica magna: Part I, Fascicule 8: Tractatus de necessitate et contingentia futurorum, Williams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 3: Tractatus de hypotheticis, Broadie; Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 4: Capitula de conditionali et de rationali, Hughes Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 6: Tractatus de veritate et falsistate propositionis et tractatus de significato propositionis, Punta, Adams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 8: Tractatus de obligationibus, Ashworth, Oxford; Sophismata aurea, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Super I Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Ruello, Firenze, Olschki; Expositio in duodecim libros Metaphisice Aristotelis, Liber VII, in Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden, Brill; Expositio in libros Posteriorum Aristotelis, Venezia, Hildesheim: Olms, Summa Philosophiæ Naturalis, Venezia; Expositio super octo libros Physicorum necnon super commento Averrois, Venezia; Expositio super libros De generatione et corruptione, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Scriptum super libros De anima, Venezia; Quaestio de universalibus, extant in nine mss. There is a partial transcription from ms. Paris, BN 6433B in Conti, Sharpe: Quaestio super universalia, Firenze, Olschki; Lectura super libros Metaphysicorum, extant in two mss. (The ms. used here for the quotations is Pavia, Biblioteca Universitaria, fondo Aldini; Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis, Venezia. Amerini, AQUINO (si veda), Alexander of Alexandria and N. on the Nature of Essence, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Alessandro di Alessandria come fonte di N.. Il caso degli accidenti eucaristici,”Picenum Seraphicum, N. on the nature of the Possible Intellect, Musco; Ashworth, A Note on N. and the Oxford Logica” Medioevo; Bertagna, N.’s commentary on the Posterior Analytics, Musco; Bochenski, A History of Formal Logic, Thomas (trans.), Notre Dame, IN: University of Notre Dame; Bottin, Proposizioni condizionali, consequentiae e PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE [cf. Grice, Strawson] in N.” Medioevo; La scienza degl’occamisti: La scienza tardo medievale dalle origini del paradigma nominalista alla rivoluzione scientifica, Rimini: Maggioli; N. e il problema degl’universali, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padua: Antenore; Logica e filosofia naturale nelle opere di N., Scienza e filosofia a Padova nel Quattrocento, Padova: Antenore; Conti, A. Note sulla Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis di N.: Analogie e differenze con i corrispondenti commenti di Burley,” Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Universali e analisi della predicazione in N., Teoria; Il problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di N.,” Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano; Il sofisma di N.: Sortes in quantum homo est animal, Read, Sophisms in Medieval Logic and Grammar, Dordrecht: Kluwer; Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, Rome: Edizioni dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; N. on Individuation”, Recherches de Théologie et Philosophie médiévales; N.’s Theory of Divine Ideas and its Sources”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Complexe significabile and Truth in RIMINI (si veda) and N.”, Maierù/Valente, Medieval Theories on Assertive and non-Assertive Language, Firenze, Olschki; Opinion on Universals and Predication in Late Middle Ages: Sharpe’s and N.s Theories Compared”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; N.’s Commentary on the Metaphysics”, Amerini-Galluzzo, A Companion to the Latin Medieval Commentaries on Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Materia prima e rationes seminales negli scritti di metafisica di N., Medioevo; Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Garin, Storia della filosofia italiana, Torino: Einaudi; Gili, L., N. on the Definition of Accidents,” Rivista di Filosofia Neo-Scolastica; Karger, La supposition materielle comme suppositions significative: N., PERGOLA (si veda), Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Kretzmann, Medieval logicians on the Meaning of the Proposition”, The Journal of Philosophy; Kuksewicz, N. e la sua teoria dell’anima, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padova: Antenore; Loisi, L’immaginazione nel commento al De anima di N.,” Schola Salernitana, Mugnai, La expositio reduplicativarum chez Burleigh et N., Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Musco, Compagno, Agostino, Musotto, Universality of Reason, Plurality of Philosophies in the Middle Ages, Palermo: Officina di Studi Medievali; Nardi, N. e l’averroismo padovano, Saggi sull’averroismo padovano dal secolo XIV al XVI, Florence: Sansoni; Nuchelmans, Theories of the Proposition: Ancient and Medieval Conceptions of the Bearers of Truth and Falsity, Amsterdam: North-Holland; Medieval Problems concerning Substitutivity (N., Logica Magna, Abrusci, Casari, Mugnai, Storia della Logica: San Gimignano, Bologna: CLUEB; Pagallo, Nota sulla Logica di N.: la critica alla dottrina del complexe significabile di RIMINI (si veda), Congresso di Filosofia, Florence: Sansoni; Paladini, Why Errors of the Senses Cannot Occur: N.’s Direct Realism”, Studi sull’Aristotelismo Medievale; Perreiah, Insolubilia in the Logica parva of N.,” Medioevo, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green, Ohio: Philosophy Documentation Center. 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Keywords: Nicoletti, H. P. Grice, signification, significatum, imposition, philosophical psychology, significatio ut nunc, denotatio ut nunc Introduction Why should ‘significatio’ be part of the philosophical lexicon, rather than the more parochial ‘meaning’? Here are some reasons. Take for example, at random, ‘Consequence, signification, and insolubles in fourtheenth-century logic,’ in Logica Universalis. Read is expanding on a Danish logician’s claims against some externalist semantic theory that would have consequence as defined, or analysed, in terms of containment – and, more specifically, in terms of what Read has ‘signifying [significando – but also designando] on what is actual,’ ‘signifying-as-things-are’ (p. 4), or ‘signification given how things are *now*’ (p. 16) – translating ‘significat vel denotat ut nunc,’ which may well be in the way to become a keyword in the history of logic. The insights by Oxford philosophers M. A. E. Dummett on meaning transparency are referred to by Read,. But a few contributions by H. P. Grice as pertaining to the topic re-considered rather seriously. Hoping it not to be yet another case of obscurus per obscurius, in separate sections the issues of privileged access and incorrigibility, what lies beyond m-intention, and a taxonomy of the significatum and the emissum are discussed, as they apply to a possible dissolution of some of the trickiest sides to the insoluble. When Grice coined ‘philosophical eschatology,’ he wasn’t thinking about Nicoletti, but he should. Philosophical eschatology deals with trans-categorial ascriptions: keeping his primacy of utterer’s meaning at heart, he would go on to think that if ‘smoke’ means ‘smoked salmon,’ it does so only figuratively. And figuratively, too, do we say that while an utterance is surely not a ‘sign,’ or a ‘sign that,’ that should not deprive us from, figuratively, stating that an utterance may ‘signify,’ even ‘signify that.’ A case study: what Nicoletti meant In ‘Consequence, Signification, and Insolubles in Fourteenth-Century Logic,’ Read makes, if we may say so, a majestic use of a rather majestic adverb: ‘anachronistically.’ We offer these notes as an exploration in the genre! Our anachronism is not, however, about what Grice would have learned as the Merton Scholar he was – specifically Harmsworth Scholar upon obtaining his B. A. Lit. Hum. as a pupil of Corpus –, had he spent more time at the Merton library, or the Bodleian, reading Dumbleton on de Nicoletto – or Nicoletti, as Venetian Paul’s surname went –, rather than playing cricket. For, was Nicoletti from the Veneto? In the Dizionario biografico dei friuliani, one finds Nicoletti’s ouvre being described as “la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo,” going on to add, more to the Friulian point: “Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia” -- and we follow suit, as does Nardi, who points out that Paolo Nicoletti he was even if ‘comunemente’ referred otherwise. It is not every day that one can assign a proper surname to some of these figures: it never happened to Ockham! But in this case, we may safely say that what lies behind this all – as things signified now are – is a veritable ‘scuola di Udine’ – (for trust the Italians to refer to him as the “Udinese”) -- Nicoletti’s actual birth-place. Udin in friulano, latinised as Utinum. Secondo questa linea di eruditi, dunque, P. sarebbe membro della nobile famiglia dei Nicoletti di Udine, poi di Cividale, le cui vicende furono ricostruite da Francesco di Manzano nel 1894. Oxord – or Britannia – probably not being his first choice, but Augustinians were banned at Paris: il priore generale destinò P., insieme con il cugino più anziano Paolo Francesco da Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese della provincia, e non dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per intraprendere il percorso di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in teologia. In quegli anni lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per gli studenti italiani il compimento degli studi superiori presso l’università di Parigi, di obbedienza avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da Venezia aveva in effetti precluso formalmente questa possibilità agli studenti agostiniani. Durante il triennio di permanenza ad Oxford P. ebbe la possibilità di conoscere ed approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati dell’insegnamento filosofico e di quello logico in particolare. Marcantonio Nicoletti’s idea of embracing Paolo as one of his own is not much of a stretch – when we have Nardi, correcting the reader of his history of the university of Padua, who is thinking he is going to read about ‘Paolo di Veneto’ when ‘più correttamente’ it is Paolo de Nicoletto or plain Paolo Nicoletti (as Nardi has it) we are talking about! The Dizionario biografico dei friuliani is careful about the ‘de’ – cf. Read ‘de Occam’ – for Padoa’s Nicoletto was rather Vernia – so called ‘Nicoletto’ because of his rather meagre stature. Thus Nardi, opens the third chapter of his compilation of studies on Padoa: “Se Pietro d’Abano non fu un avverroista nel senso vero e proprio della parola, avveroista [sic] fu invece l’eremitano Paolo Nicoletti da Udine, detto comunemente Paolo Veneto.” (Nardi 75). And later: “Nell’esposizione del testo 23 del II libro De anima, frate Paolo Nicoletti si pone, “ad maiorum dictorum evidentiam” alcuni “dubia” (p. 77). Interestingly, Nardi goes on to quote from Cittadini who implicates – cf. Grice: Where does C live? B: Somewhere in the South of France) – when he refers to Oxford as ‘Britannia’. “Ferrunt autem quidam non auctoritate inigni, hunc libellum in Britannia, ubi olim et dialeticae et philosophia studia floruerunt, in antiquissimis litteris compertum esse, ut ex illis constaret, prius opusculum hoc extructum fuise quam Paulus Venetus natus esset. Quod eo magis a non nullis creditor, quod certum est Paulum aput Britanos [sic] visendorum ymnasiorum gratia aliquando commoratum esse, ac postea in Italiam reverentem multos libros secum detulisse, quorem auctores Italis penius errant incogniti” (Cited by Nardi p. 76). And where, Malcolm Bradbury would have added, anachronistically: ‘Britannia, where Nicoletti certainly read Grice’! Problem with online-only publications is that we don’t know if Tabarroni, who authored the entry on ‘Paolo de Nicoletto’ for the Dizionario biografico dei friuliani, or the Dizionario’s editors, meant the entry to be ordered under “N,” as we would, or under “D,” or even under “P” (dizionariobibliograficodeifriuliani.it/paolo-di-nicoletto). But, as a good friend, Tabarroni would rather abuse the principle of non-contradiction and to please both authors answer: “Both.” Our current anachronism lies, rather, in an echo of Malcolm Bradbury – Eating people is wrong -- , on the very influence of H. P. Grice on the oeuvre of Paul of Veneto – his Merton scholar predecessor, we hope! (Boy, didn’t they calculate!) . And what did Nicoletti mean, anyway? For surely, it would be figurative only to inquire as to what what he wrote meant! Surely, Or his words never meant a thing – but ‘meant’ at most! As to our second Mertonian scholar, in what he felt like titling ‘Prejudices and predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice,’ H. P. Grice reminsices: “In my own case, a further impetus towards a demand of the provision of a visible theory underlying ordinary discourse came from my work on the idea of Conversational Implicature, which emphasised the radical importance of distinguishing (to speak loosely) what OUR WORDS say or imply from what WE in uttering them IMPLY: a distinction seemingly denied by Wittgenstein, and all too frequently ignored by Austin.” Grice in Grandy/Warner, P. G. R. I. C. E., p. 59. (Clarendon would have none of that publicity killer of having H. Paul Grice in the title of his festschrift, so the editors had to think of one acronym or other – P(hilosophical) G(rounds) of R(ationality): I(ntentions), C(ategories), E(nds). First instance of obscurus per obscurius? “Seemingly denied by Wittgenstein, and all too frequently ignored by Austin.” And we feel like adding: Never mind Nicoletti – a. k. a. Paolo Veneto -- only that Nicoletti, being from the Friuli, would hardly have used ‘say’, ‘imply’ or although, in his vernacular, he might have meant ‘MEAN,’ which hides behind Grice’s remark. (If Udine is so called after Wotan, the lord of heavens, Nicoletti may have have been familiar with the idiom – This is what Bosworth and Toller say on mænan (p. 659): p. de To mean (Helpful, right?). More specifically: I. of persons (a) to intend to convey a certain sense: -- Gif hē of wege ænigne gebrohte .. ðæt ic mæne gif hē man on synne bespeóne if he had brought any man out of the way …., what I mean is, if he have lured any man to sin. L. Pen. 16; Th. Ii. 284, 12. And we may suppose Bosworth is using ‘sense’ in much the same sense as Dummett does! – Not be confused with ‘synne’ (Frege Sinn) which Bosworth has as ‘sin,’ rather! Interestingly, Murray’s O. E. D. ‘mean’ – entry – while it cares to give the cognates and etymology – well covering Frisian and lower Germanic dialects, but not as far as Romance mentire – provides an even earlier quote, from Alfred’s Boethius! Tha ongan he sprecan swidhe fiorran ymbuttan, swilce he na dha praece ne MAENDE, & tiohhode hit dheah thiderweaides – dated v 888. – under the ‘original’ ‘Sinn’ of mean as ‘trans. To have in mind as a purpose or intention’. It is rather fascinating that Grice’s Oxford-Philosophical-Society lecture on meaning opens with this rather didascalian account of two senses of ‘meaning’ (Spots mean measles but your remark is meaningless) only to find out that this leaves out King Alfred, as it were and HIS mean. For Grice classifies ‘to mean TO’ as falling under the ‘natural’ ‘sense’: I propose, for convenience, also to include under the head of natural senses of ‘mean’ SUCH SENSES of mean as may be exemplified in sentences of the pattern ‘A means (meant) to do so-and-so (by x),’ where A is a human agent – like Boethius. By contrast, as the previous examples show, I include under the head of nonnatural senses of ‘mean’ any senses of mean found in stences of the patterns ‘A means (meant) something by x’ or ‘A means (meant) by x that …’ This is overrigid; but it will serve as an indication WoW 215 Nicoletti on signification Enough of an anachronism! So, if you feel like two oxymora for the price of one, it would be, like: (a) what would Grice have done with ‘signification,’ seeing that he rather hated the word – an Oxford man of his generation! --, and (b) what would Nicoletti have done, had he had recourse to Grice’s views on, er, meaning. Admittedly, Nicoletti was not Anglo-Saxon enough to use it (just a Friulian who might have overheard maenan once or twice) – but Grice’s mean (German meinen -- as in “What do your words opine?”) has a few cognates in Nicoletti’s vernacular – notably: ‘mentire’ and ‘mentare’. Friulian: mintî – as in ‘fake’ (a smile, etc.) The ‘sense’ of ‘lie’ from a semantic shift from ‘fake’ as in having double thoughts about something. Mentior being the denomial verb – proto Italic mentjor – ‘to be inventive, have second thoughts’ – cf. comminiscor. French. Mensonge. It. Menzogna – Fr. Menterie , menteur from Latin mentitor -- and mentir. From Latin mentiri -- – Lewis/Short mentior. Original meaning: to invent. 1. mentĭens , entis, m. subst., a fallacy, sophism: quomodo mentientem, quem ψευδόμενον vocant, dissolvas, Cic. Div. 2, 4, 11. — Cf. dictionary of untranslatables. Barbara Cassin, Intraduisibles. And Maieru significatio – conceptual intellectual lexicon. Already in Boccaccio: First quote in CRUSCA: “Se le vostre parole non mentono. ‘Non dire il vero’. A cui il legnaiuolo disse: essi mentono, periocche mai io non la vendei loro. Petrarca: Ma piu, quand’io diro senza mentire. ALIGHIERI: Di parecchi anni mi menti lo scritto. – This semantic shift is surely what lies behind Umberto Eco’s rather apt idea that, in the consequence conception of ‘sign’ – a ‘sign’ is any vehicle for a lie! So why did he choose the Ciceronian ‘significatio’ and ‘significare’ instead? Was he trying to impress the School of Arts at Oxford? This is a serious question, and not only because “Socrates utters a falsehood” is usually ascribed to Epemenides, who uttered it not far from The Orthodox Academy, where Read first presented his ideas on signification, consequence, and the liar! A good thing, and a bit of a breath of a fresh air, about Nicoletti – that won’t necessarily feel that fresh to Grice --, is that Nicoletti indeed, and as a matter of fact, uses ‘significatio’ -- not ‘meaning,’ on which Grice based his career – and procures a whole theory about it. Just as a proof that we are not obsessed with words as Grice’s way of words was, is that Read cares to provide a disjunction here when introducing the notion of ‘significatio ut nunc’: it is ‘significatio vel denotatio ut nunc’ – His quote from Spade (p. 4 – Paul Spade if you must -- our third Paul this far!). As a proper Anglo-Saxon, on the other hand, and with that proper Anglo-Saxon attitude (echoes f Bradbury again) -- especially when delivering his informal talk to The (prestigious) Oxford Philosophical Society, Grice felt like he was in good, and safe terrain with just plain ‘mean.’ (“Those spots ‘mean’ measles, to the doctor; to me, they were rather meaningless. And see what happened to Dahl’s daughter.”) Fresh from a seminar on Pierce on significs, Grice would hardly have used ‘teach’ – that was his professional duty! -- which, after all, is a bit of a stricter equivalent to ‘signi-ficare’ (cf. Italian ‘in-segnare’ – but cf. A-segnare and more relevantly, Read’s significant vel deSIGNant), and a verb derived from the Anglo-Saxon for ‘sign,’ the ‘token’ – as Bosworth well knew: tacn, taken, es; n. A token, sign. Tacne dicimenta, Wrt. Voc. ii. 106, 53: 25, 57l Tacn indicia, 44, 68. I. a sign, SIGNIFICANT form: -- Heofoncyninges tacen, the cross, Elen. Kmbl. 341; El. 171. A token is, after all, well, a sign. But ‘making a token’ doesn’t quite do as a rendition of what Nicoletti means by ‘signi-ficare,’ with his little obsession -- against Rimini, the only author Nicoletti refers to by name in his opus maior -- and along Mantova, with ‘imponere’. (As Read notes p. 5, Peter of Mantua: “Logica,” cited in Pozzi 1978:281 – “A consecution indicated by ‘if’ or ‘therefore’ cannot stand with the first without NEW IMPOSITION [of meaning] or can be convertible with one such without new IMPOSITION.”). For Cicero could use ‘signare’ instead of ‘signi-ficare,’ avoiding the clumsy reference to the -ficare. While it may be sensible to say that Humpty Dumpty is making signs (signi-fying) not nothing, but that Alice and he should change the topic when he uses ‘Impenetrability,’ it would be more of a stretch to say that his WORD is making anything! On the other hand, Grice, unlike Nicoletti, but like, say, Boethius, or Hobbes, as we shall see, was obsessed with natural meaning, but so was Freud. Whereas Read does wonder if Dumbleton is indeed suggesting that it should be up to the shrewd logician to teach us what we may learn about what we mean, it may well ultimately be your psycho-analyst who reveals what you mean by either your insoluble or your slip of the tongue – especially if Occam and, Grice’s colleague and collaborator, D. F. Pears (Motivated irrationality), of Christ Church, like Dodgson, are both right, and it is what you NATURALLY mean that matters! Read has edited Nicoletti’s oeuvre. As did Conti, in Nicoletti’s native Italy. In most passages, it is clear that Nicoletti would hardly carry, or care about, a ‘Griceian’ approach to meaning. (Our spelling of ‘Griceian’ incidentally follows Katz, and it’s not a typo – ‘Gricean’ sounds so much brusquer in comparison! It seems all to be about the grammar, as Oxonians of Grice’s generation would say – the logical grammar, if you must! It’s all very well for Read to use Sign in bald types to mean a function as to what a premise or a conclusion may mean – but if we are talking analogically and figuratively, in the sense that strictly, it is an utterer who signifies, and if he relies on the general significatio of a sentence, he is relying on a construction OUT of what the utterer signifies. Significare, as we say, is not the plainer ‘signare,’ so we shouldn’t worry too much about the Roman-scholastic tradition on the taxonomy of _signs_: naturalia or arbitraria? etc. Significare seems to ‘involve’ signs, but in a rather subtler manner. It seems to be a matter of logical grammar in that a philosopher such as Nicoletti would (we hope) seem more interested, not so much in who -- or what – ‘does’ the signifying, but on what is it that is signified – the ‘significate,’ as Read puts it – or, not for short, the significatum. To go back to Anglo-Saxon attitude example: Gif hē of wege ænigne gebrohte .. ðæt ic mæne gif hē man on synne bespeóne if he had brought any man out of the way …., what I mean is, if he have lured any man to sin. Or, strictlier: what I mean is that THE BIG QUESTION is he he did what he did AND brought any man out of the way! (The sin of Sinn, as he ‘conveys a certain sense,’ in Bosworth’s rather verbose paraphrase!) When it comes to the who – for if it is an IMPOSITION, o an ARBITRATIO (Hobbes) it is so because there is a WILL behind it -- or the what – the ‘vehicle’, and if we trust Bosworth, it is the UTTERER that bears all the primacy for Grice and the Griceians. (Superficially, he just felt like Peirce, the ‘American logician,’ was just too obsessed with kryptotechnicisms like ‘sign’, and ‘lexi-sign,’ and the rest!While ‘medieval’ logicians – like Nicoletti or Occam, or Dumbleton and Bradwardine and Spade and Mantova -- do speak of the audience – auditor -- , or addressee – and even about his or her ‘soul’ or animus – for the utterer ‘intends to convey a certain sense,’ as Bosworth puts it – to some addressee or other, he hope! -- they never seem to be too clear about the utterer, or his or her intentions in so doing ad significandum this or that, to use Hobbes’s phrase in his own Computatio – the Logic section to his Elementa Philosophiae – which seems to follow the set design of such a course, where a disquisition about what a sign is and how it ‘signifies’ was the rule!Indeed Nicoletti:“Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia hewide oratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus” deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca differentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris, quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta.” Logica. “The Middle-Ages’s major opus in the topic,” as the Dizionario friuliano proudly puts it. But why is the question of conceptual primacy crucial? The question may be doubly interpreted. One thing is to say or cliam that the utterer’s signification (or meaning) is pivotal or primary – and Read refers to what we may signify or fail to do when uttering an insoluble. Another thing is to DEFINE any further specifications (what an uttererance means, what the part of an utterance means, what a ‘word’ or ‘terminus’ means when we call it, as Nicoletti does, significativus) in terms of utterer’s meaning. Grice indeed proposes a few such definitions in his Oxford Philosophical Society talk – for none of his fellow philosophers would have cared a hoot otherwise if they thought he was just exploring a vaguer concept of ‘communication’ – as Grice’s wicked pupil, Strawson, put it in his own criticism to the tutor – “Grice’s analysis of his concept is fairly complex. But I think a little reflection shows that it is not quite complex enough for his purpose. Grice’s analysis is undoubtedy offered as an analysis of a situation in which one person is trying, in the sense of the word ‘communicate’ fundamental in any theory of meaning, to communicate with another” (p. 446. ‘Intention and convention in speech acts,’ repr. in Logico-Linguistic Papers. Thus Grice in ‘Meaning’ after his ‘enough with Stevenson’, as he turns to ‘a different and I hope, more promising, line’: ‘If we can elucidate the meaning of ‘U meant something by x on a particular occasion’ this might reasonably be expected to help us with ‘U meant (timeless) by x that so-and-so’, and with the explication of ‘means the same as,’ ‘understands,’ ‘entails,’ and so on”! And proving that Moore’s conception of entailment is overrated, coming from the other place! In WoW, short for Way of Words – or Studies in the Way of Words – published posthumously by Harvard for Grice -- where ‘p’ – the significatum – is a dummy [cf. Kirwan!] on both sides of the equivalence. Grice loved to play the formalist, and this becomes relevant to a commentary by Read. Grice played to be the formalist, and did his best to impress Putnam when delivering the William James lectures at Harvard. ‘If I ever stopped being a formalist that might well have been because it was Putnam (of all people) who said I was too formal!’ – slightly rephrased from the same ‘Prejudices and predilections’! Back to the gap sign or dummy use of ‘p’in both sides of the equivalence: ‘For utterer U, expression S means “p” =df U has a resultant procedure for S, namely to utter S if, some some Auditor A, U wants A to psi or ψ– generate in his soul or animus the psychological attitude with content ) that p. Or: ‘S1 in v(S1S2) means p’ – for a terminus significativus which is part of an oratio significativa =df U means by vSS that q and U intends A to recognise that U meant by vS that q at least partly on the basis of A’s thought that U has a resultant procedure for S, namely (for suitable auditor A’) to utter S2 if U wants A to psi – generate in his soul the psychological attitude, that p. (WoW:129). Nicoletti on meaning But ‘meaning’ – German MeinUNG -- is a noun, not a verb. Of course, Nicoletti would hardly need to be providing the necessary and sufficient conditions for his use of ‘significare’ as a verb. And most likely, had Aristotle NOT used ‘semeion’ in Peri Hermeneias, Nicoletti would hardly be speaking of signs in the first place (As it happens Grice gave public seminars jointly with Austin on De interpretation at Oxford, that Acrkill, for one attended – but it pained Grice that the whole point was to accustom Ackrill to the sound of the Hellenistic language, NOT to be trying to find perfect contemporary English renderings for the expressions – and they, Austin and Grice, would NEVER rely on ANY translation of the Sacred Scriptures, which was not Ross’s, but the Aristotle’s Oxford monolingual edition! Aristotle – as Maietti, following Eco, of Europe’s oldest university, Bologna! -- notes in his Teoria del segno nell’antichità classica – provides the theoretical framework for all this. A vocal emission – or, as Grice would have it, a whole utterance or an utterance part – SIGNIFIES – because it is a sign, and a vocal sign at that. An utterer, on the other hand, does not signify because he or she is a sign –recall Mantova’s WILL behind his IMPOSITIO --, but because he (or she, or it, S/H/It) makes this or that sign. Mainetti goes on to note, with Eco, that there were two paradigms for the sign, one that treated it as an EQUIVALENCE (cf. containment-view of consequence as ‘signifying as how things are now’ below). The other, a weaker one, -- and more Roman than Greek -- which regarded it as a mere ‘consequence,’ as Cicero obsessed himself in his disquisition of what makes a sign a NECESSARY one! Quotation from Mainetti below. What both Nicoletti and Grice have in mind, then, is Aristotle’s semantic triangle. A SIGN, when vocal, is a sign of the PHANTASMATA, which, in turn, refer to the things out there. de Saussure found it very natural to translate this as the signifier (signifiant) and the signified (signifié). For it was French that had it. The OED has under ‘signify’. “[ad F. signifier (12th c., Prov. Signifier, -ficar, Sp. And Pg. significar, It. significare), ad L. significare, f. signum SIGN sb.]” and renders as: “trans. To be a sign … of.’ Their first citation being 1250. Thet Gold thet is bricht. . signefieth the gode beleave thet is brichtine the gode cristnemannes herte – the source being ‘c 1250 Kent. Serm. In O E. Misc 27. As a rendition of ‘to make known, intimate, announce, declare (Murray was no Griceian) the quote is not much older: 1297: Me cluped him Vter pendragon .. & that was to singnefie that merlin him clupede dragon in is prophecye. The source now being: 1297 R. GLOUC. (Ross) 3233. We can see Grice’s point that while it may be natural to REFUSE the idea that a gesture (or even word) is a sign, or even a sign that; we may still want to that the gesture SIGNIFIES or signifies that. Surely if as Read has it, utterers signify that, say, p, we don’t want to add the OED rendition ‘to signify =df. To be a sign of, and go on to conclude that an utterer is a sign. So ‘signifying’ quite does NOT do, as Grice realised, as ‘meaning.’ It is interesting that next to the almost analytic definition provided by the OED for ‘signify,’ i. e. to be a sign of – what about the ‘make’? – the OED goes on to provide yet another less analytic gloss: to ‘mean,’ and surely we do feel comfortable with saying that an utterer means – Grice built his whole career on that! The distinction meaning/signification allows Grice to say that animals (non-human) cannot, due to their inferior intelligence, mean anything like in Schiffer’s convoluted sense of the word. But they, animals (not human that is) can still SIGNIFY! (He was keen on cats and one can imagine Grice wondering a cat wondering: ‘what part of ‘meaow’ you don’t understand?’ – or is ‘understand’ too Wittgensteinian? Vide Bruce Aune below. Note that for that matter philosophers like Nicoletti hardly spend much time on the -ficare either. Thus Nicoletti does grant that a non-natural sign signifies AD PLACITVM – i. e. impositio, as Mantova prefers – and then turn without much of a thought to the use of the verb ‘significare’ in itself or derivations – significatum, significativvm, terminus vocalis significat – without exploring why the -ficare is left behind. For what is a dark cloud DOING (-ficare) when it signifies that it will rain? Cicero, and also the English language, has the option between SIGNIFICO and SIGNO (both entries in Lewis and Short), and OED indeed has ‘to sign’ – which disallows us from any inconvenience we may feel with strong words like ‘-ficare,’ more ‘making’ than ‘doing’ – SIGNIFICO: to make signs – Lewis and Short rendition. Quite a casanova of word, we are dealing with here, to echo Nowell-Smith. Oddly, Grice cared less than Austin as to what the dictionary says. ‘I don’t give a hoot what it says, matter of fact,’ he once said ‘with provocative intent’ to Austin – only to get the repartee: ‘And that’s where you make your big mistake.’ But Grice’s provocations reminds one of Ewing, whose meaninglessness – I shall endeavour to explore in this paper what is that makes a sentence meaningless --. Grice recalls Austin asking during one of his Saturday mornings for a meaningless, unintelligible sentence. Nowell Smith coming with a verse by Donne. It’s perfectly clear what it means, Austin replied – to Grice’s anfd Warnock’s laughter. No wonder Nowell-Smith would soon leave Oxford for Leicester and eventually Canterbury. ILLATVM. When it comes to Nicoletti’s auditor animus it seems more natural: it’s the utens who makes the signs when he means AD PLACITVM by some ‘vox’ which happens to be a ‘significativum’ terminus vocalis, that, say, ‘homo est albus.’ Bennett had a harder time: when commenting on Locke’s reference to the inalienable freedom an utterer has to impose on his words ‘any idea’ he pleases, Bennett goes on to add: this is Griceian all the way down. For Locke must mean that, and that there is a further intention on the part of the utterer to have his inalienable freedom recognised by his utterance – on the risk of NOT having communicated ANYTHING otherwise!But unlike the Greek language, which has the simpler non-composite, ‘semein,’ and while Latin could just stay with SIGNARE, they – Cicero included – had to add that trick of the verbal suffix, the -ficare. So it’s SIGNI-ficare. And the rest is history and Nicoletti. Our third Paul (Spade) is perhaps cleverer: because he provides a disjunction: feel free to use the inapposite jargon of ‘significat’ – but feel free to use ‘denotat’ instead (A nota was for Boethius Aristotle’s sign, the semeion). But the logical grammar of ‘signify’ is odd, perhaps odder than Grice found ‘mean’ to be. Bennett once spoke of Grice’s meaning-NOMINALISM (in Foundations of Language – an obscure journal edited by Grice’s colleague Staal that also published Grice’s views on expression meaning: ‘The Meaning-Nominalist Strategy,’ vol. 10) because Grice’s way is to start what an individual one-off utterer means by an individual one-off utterance. Never mind what an expression ‘means’. Never mind your generalised implicatures. At this point, and playing with Sign, Read draws various schemes with ‘signify’ – which Read abbreviates, as we say as the function ‘Sign’ -- p and q, and various connections. It is one thing to say one thing, and another thing to say another thing, and Read beautifully warns the reader that he is ‘abusing’ stuff here: one thing is to say that the significate of the premise is contained in the significate of the conclusion; quite another to say that what the significate significates makes sense! Read’s footnote is worth quoting in full: Note 26, on p. 12: “(Please) [N]ote that there an abuse of notation here. In p -> q, ‘->’ is an operator or connective connecting what is signified by sentences (propositions), whereas in A1  A2 ‘->’ is a relation between those sentences,’ and suggest that the reader sees Anderson and Belnap ‘on the harmless need to move back and forth between these two grammatical forms.’ In fact, if we follow Eco and Mainetti, we would have different diagrammes here. Let Read’s -> stand for consequence, and <-> for equivalence. In Read’s first diagramme, each reference to “Sign” should be understood as short for yet a sub-consequence relation – yielding ‘p1  p2 -> q1 -> q2. If the equivalence approach is chosen, the diagrammes yielde would be: p1 <-> p2 <-> q1 <-> q2. Of course, in the end, Nicoletti and Grice seem to have been interested, as we say, in what, for logical purposes, we should see as ‘signify’ (or ‘mean’) only as being followed by what Austin has as the ‘that’-clause – The OED2 quotation for ‘that’-clause is Austin in How to do things with words!): the SIGNIFICATUM. For example, that Socrates uttered a falsehood. Don’t ask Quine if he saw it! He mistrusts abstract entities and even redeems them of existence! Consider this case brought up by Grice, which bears on the question of how much of what one utters is after all signified. But this leads as to aequivocation and the issue of the privileged access – or what Read has as Dummett on the transparency of meaning. Grice’s tutor, Hardie, tells Grice: “I want you to bring me a paper tomorrow.” Let’s suppose that this, being Grice’s first tutorial – as a pupil – and trying his best, and having thought that this is what Hardie meant (signified) when he said/uttered what he uttered – brings a copy of THE TIMES and not a piece of written word. In ‘significatum’ terms we would have. Hardie, was wrongly thought, by uttering what he uttered – at the very end of the tutorial, too, almost as an after-thought -- to have SIGNIFIED (significatum) _that_ Grice was to bring a copy of a (any) newspaper. Grice uses this particular (painful, we imagine, to Grice) example in an early paper on G. E. Moore and Philosopher’s Paradoxes. If you wonder what Philosopher’s (sic) paradox is, it is a bit like your insoluble, but with a grain of salt -- to justify the ascription of privileged access and incorrigibility to one’s judgements about one’s one meaning – hardly Nicoletti’s focus, who’d rather focus on his auditor’s such judgements. He was a kind man – an eremita, to boot – who cared about his addressee’s animus! Imposition! As we’ve seen Read quotes an Italian logician who quotes Mantova as having used, not significatio or denotatio, but IMPOSITION. But then he was a Peter, like Strawson, but a Paul. Talk of robbing Peter to pay Paul! But Mantova’s impositio makes rather an interesting point, as it shows that philosophers should not STICK with this or that idiom (significare, meaning).If anything else, a natural language provides one – ‘if you have learned it correctly’ – cf. Grice below on misuses of ‘hailing’ and other malapropts -- with quite a gamut of synonyms. When talking ‘impositio,’ Mantova seems to be thinking of THESEI, as opposed to PHYSEI – adding the prefix in- for effect! After all, a sign means what it does, either by nature, or by convention, er, imposition -- long for ‘positio’. And, Mantova warns us, if you happen to be meaning something other than what you would normally do by stuff like ‘if’ or ‘therefore,’ you better invoke a different imposition for either! Imposition – ‘of meaning’, Read warns us. Strictly, the point is that ‘if’ or ‘therefore’ may ‘mean’ (or ‘signify’) by imposition I1, this, but by imposition I2, that. In an analogous fashion with Mantova, now, Grice had to his avail MANY various other forms to express this idea of ‘conveying meaning’, or ‘intending to convey a certain sense,’ to use Bosworth. There’s ‘to mean,’ but there’s also ‘to suggest,’, and there’s ‘to imply,’ to insinuate, to allude, and to go by sous-entendue (OED2 quote citing Mill). And of course for those into ‘significatio’ ad nunc, it used to be the disjunction: ‘significant vel denotant. Cf. designant. Sadly, for Grice, ‘designate’ carries a narrower implication. As he introduces his theory of truth in the third William James lecture: Let me assume that there can be a method of introducing a form of expression: it is true that … and linking it with the notion ‘factually satisfactory,’ a consequence of which will be that to say ‘It is true that Smith is happy’ will be equivalent to saying that any utterance of class which DESIGNATES Smith and INDICATES the class of happy people is factually satisfactory. WoW 56 He’s even more careful with ‘denotant’. Indeed, he offers a full shaggy-dog story about it! In his analysis of ‘Fido is shaggy,’ meaning the Peter’s dog is hairy-coated, ‘shaggy’ and hairy-coatedness hold a relation of ‘denotation’ or D-correlation, to distinguish it from the R-correlation (merely referential) that holds between Peter’s dog and Fido. Suppose we, for a moment, take for granted two species of correlation, R-correlation (referential) and D-correlation (DENOTATIONAL). We want to be able to speak of some particular object [obble] as an R-correlate of ALPHA (nominal), and of each member of some class as being a D-correlate of Beta (adjectival). p. 133which brings him to problems for we don’t want to say that ‘shaggy’ means what U THINKS is hairy coated, or less, alla Nicoletti, that U HOPES it will be in the AUDITOR’s ANIMVS to think the referent of the nominal phrase is hairy-coated: only that it is hairy-coated. The definies suggested for explicit correlation is, I think, insufficient as it stands. I would not wish to say that if A deliberately detaches B from a party, he has thereby correlated himself with B, nor that a lecturer who ensures that just one blackboard is visible to each member of his audience (and to no one else) has thereby EXPLICITLY correlate the blackbord with each member of the audience, even though in each case the analogue of the suggested definiesn is satisfied. To have EXPLICITLY correlated X with each member of a set K, not only must I have INTENTIONALLY effected that a PARTICULAR relation R holds between X and all those (and only those) items which belong to X, but also MY PURPOSE OR END in setting up this relationship must have been to perform an act as a result of which THERE WILL BE SOME RELATION OR OTHER wich holds between X and all those (and only those) things which belong to K. To the definiens, then, we should add, within the scope of the initial quantifier, the following clause: “& U’s PURPOSE in effecting that Ex (…) is that (ER’) (Ez) (R’ shaggy’ z iff z BELONGS y (y is hairy-coated).” WoW 133n1 A more ‘Aristotelian’ oriented, that would perhaps please Nicoletti slightly more is found in the section on ‘Universals and meaning’ in Grice’s ‘Aristotle on the multiplicity of being,’ where indeed he explores the idea that his views may well be regarded as an outshoot of the old realist-conceptualist-nominalist polemic in the Middle Ages – you know: the old days when Occam was revolutionizing philosophy in Britannia and bringing the heresies to good old Bologna! Grice would never go to through the dictionary the way Austin advised him to do – and would rather use ‘IMPLICATE’ as short for this, and EXPLICATE as long for that. (But Holdcroft brilliantly elaborates on all this in his ‘Some forms of indirect communication’ in the rather obscure Journal of Rhetoric. At the EXPLICIT level, there is, of course, “to say” that – the DICTUM. Note Bosworth’s paraphrase of tacn, as earlier quoted, as both dicimentum, and indicium, both from the same root for Latin for ‘say.’ (As in a horse says neigh – or you say it with flowers.) And oddly enough, for a rather non-parsimonious man as he was, Grice kept using Hare’s paraphrasis of this in terms of ‘dictive content.’ (In his Oxford dissertation, Hare had used ‘dictor’ for who or what does the saying, and dictum for the ‘that’-clause that follows an ascription of a saying. And Hare and Grice shared many a Saturday morning in what Pears wickedly called Austin’s kindergartens at Oxford! Whereas when lecturing at Harvard Grice would speak – to appease Putnam – of the ‘what is said’ “in my rather favoured sense of ‘say’ – in his Oxord seminars on ‘Saying and Meaning’ it was always the dictum! So Nicoletti must know, we hope, that there is a way to express what Socrates SAID when he said that he did when was uttering something false, as opposed to what he was MEANING – significando – provided we allow for this trick of an Anglo-Saxon word to have a progressive tense – cf. Grice below: for how long have you been meaning that? ABSURD! – Similarly, Nicoletti must have known what he was merely implying – IMPLICANDO, never mind what he thought the consequence – or CONSEQUTM – was behind his EMISSUM! (Surely the implicature cannot be a cancellable one, as some think that ‘inform’ carries as a factive meaning that p is true! This meaning/signification talk, Oxonian as it is, naturally compares with Hobbes, and earlier, Ockham -- alphabetically under ‘de’, as Read has it. For Occam, however, it is a bit of complication. An iron circulus placed outside a tavern MEANS (naturaliter significat) that wine is being sold. Or is it non-naturally? It is surely arbitrary for Hobbes! But there is an iconic association – and iconicity lies at the heart of natural meaning (Cp. Grice on ‘association modes’ in his definition of utterer’s meaning: iconic, non-iconic, etc. The ‘convention’ or arbitration, or imposition, of placing an iron circulus – as of a barrell – outside a house -- may not be universal, even if iconic. But one hopes that one sees the sign, and one reaches the conclusion that wine is being sold. As when one looks up at th sky, and the ‘signe’ (sic) of the dark cloud may well fit the job of a premise with ‘It’ll rain’ as a conclusion. Thus Hobbes will have – the first of his examples of an arbitrary sign in his Logic section or Computatio -- a bunch of grapes hanging out as meaning ARBITRARILY that such is the case, that wine is on sale – ut nunc. As things are now. But, on the other hand, while for Hobbes ‘voces’ arbitrarily signify this or that (this p or that q, that is – one should always mind one’s ps and qs as Lakoff reminds us, when dealing with Griceian matters -- if those ‘voces’ are the NATURAL consequents or effects of the motions of our soul or animus, for Occam, a short outburst of laughter (risus) will naturally signify (naturaliter significat) that joy is brimming in one’s soul (laetitam animae), while a furtive tear will equally naturally signify (naturaliter significat), in this case, rather, dolorem. But Occam seems to have gotten all things wrong – as did Geach, alas -- when he comes to wonder about the ‘sermo’ mentalis – ‘I’m feeling joy; therefore, I smile; ‘I’m feeling a pain; therefore, I shed a tear. Maybe, however, this is the natural, or spontaneous, belief that Dumbleton has in mind when, in criticising Bradwardine about how obscure one’s reasonings can go -- that, for Occam, would raher signify, yes, but naturaliter -- all across mankind, never mind his English nation. Significat non-naturaliter is hardly used by Occam, which is a shame. Since he would rather not multiply significationes beyond necessity. And one hopes that the regressus has at one point to stop. V. Cummings, Meaning and representation, on the homunculuar view taken by some Griceians, for which you have an utterer meaning that p, and that same p now meaning again that q – totally misunderstanding Grice’s attempt at a ‘conceptual loop,’ as Schiffer puts it in his D. Phil Oxon on meaning under Strawson’s advise – to define semantics in psychological terms, JUST to avoid to have to define psychological terms in terms of semantics! This relates to Read on citing the refutations to the containment claim, slightly paraphrased: ‘What is signified by your uttering of your sentence, dear Socrates, is not, believe me, the sentence that you are uttering a falsehood. What is signified is, simpliciter, that you are uttering a falsehood. ‘Aha.’ It would still be hardly of any historical interest to rephrase every collocation by Nicoletti of ‘significatio’ (and its cognates) by a Griceian collocation of ‘meaning.’ Some readers of Grice’s ‘Meaning’ – or some of his auditors at the Oxford Philosophical Society, where it was first delivered – (for it was Strawson who had his wife typing the draft and send it unawares to Grice to The Philosophical Review where it was published ten years later!) -- may find his claim, a bit ou of the blue, that ‘Words are not signs’ rather obtuse or crass, but then Grice liked to provoke! Cf. however the collocations by Grice using ‘significatn’ as identified by Bellucci, of Bologna: ‘any (significant) sentence,’ one requirement to be fulfilled by signs have been suggested eg that they must be more obvious or accessible than their SIGNIFICATA” , that they must be in spatial or temporal proximity to their SIGNIFICATA” A gesture. Neither of them do we naturally speak of the items as ‘signs,’ although we MAY speak of tehm as ‘signifying’ or ‘signifying THAT.’ Contrary to owhat one might expect, the terms of the sign relation are NOT sign (S), object SIGNIFIED (O) and a third organism, … but sign, object, and interpretant. Grice quoting Gallie, the Scots philosopher he had referred to also in ‘Personal identity’: “Any appropriate response to a sign is, in virtue of its very appropriateness, capable of itself serving as a sign of the object originally SIFNIFIED (Gallie 1952:120): ‘the way in which what the sign signifies depends on the occurrence of an appropriate response: such a response being necessary both to show what the sign SIGNIFIES and indeed to show THAT it sifnies anything at all.” “For the proper SIGNIFICATE outcome of a sign, I propose the name the interpretant of the sign” (Peirce). :This turns out to be a ‘habit’ – and also a ‘significate ffect of sign’). ‘The interpretants, or proper SIGNIFICATE effects, of signs” “Such an event being SIGNIFICANT only as occurring when and where it does” “Such event or thing being SIGNIFICANT only as occurring just when and where it does” “An indefinite SIGNIFICANT character such as the tone of voice” “to explain how words can fit (SIGNIFICANTLY) in setential contexts. “the act of assertion is not a pure act of SIGNIFICATION” “first they have no SIGNIFICANT resemblance to their objects” “would possess character which renders it SIGNIFICANT” any utterany which SIGNIFIES what it does by virtue of being understood to have that SIGNIFICATION.” (Peirce) . Utterance CANNOT SIGNIFY (to someone) without being understood to SIGNIFY it” The emotional interpreant it is the only proper SIGNIFICATE effect that the sign produces. If a sign produces any further proper SIGNIFICATE effect” Interpretants as SIGNIFICATE effect. “the proper SIGNIFICATE outcome of the sign” the proper significate effect”. For one, words are not signs – or ‘signes’ – not just for Grice, but for Hobbes either. It’s “voces” which ARE – especially in compositio, or syntactically arranged, as in Nicoletti’s ‘homo est albus.’ But ‘Words are not signs’ bears a weightier reason for Grice. The claim is one of the TWO reasons Grice gives to have chosen ‘meaning’ over ‘signification,’ or another cognate of ‘sign’ -- the other being that some things that may mean are not conventional – hence trying to dismantle the natural-sign/conventioal-sign distinction – which seems to be “what people are getting at” when reflecting on these issues, Grice warns his audience. But those things (or signs) are not conventional for Hobbes, either. As if predating Lewis for centuries – who doctored at Harvard on arbitrations under Grice – some ‘signes’ [sic] are ARBITRARY, rathe – which is back to Mantova’s ‘imposition.’ Grice took ‘convention’ more seriously than even Cicero. The whole thing means that you ‘come together’ (cum-venire) – nothing more nor less. Rephrasing from Grice: Don’t expect me to use the natural-sign/conventional-sign distinction, and trust me that meaningN and meaningNN does better. For one, then not everything that means is a sign. Words are not. Utterers are not. For another, there’s non-conventional, arbitrary, meaning, like my hand-wave. It is interesting to note that while he lectured (or tortured his pupils) at length on Peirce – he was University Lecturer as well as Tutorial Fellow for St. John’s – in his paper on ‘Meaning’ Grice only cares to quote Stevenson by name, and the essay by Stevenson that Grice quotes (Ethics and language, then a bit of novelty, published by this eccentric Yale University Press) does have ‘mean,’ but in scare quotes (!) for precisely those cases like Grice’s epigrammatic ‘Those spots ‘mean’ measles.’ Stevenson would be associated with anything -- BUT animism! This may explain why, when Andreas Kemmerling was writing his doctoral dissertation at Bielefeld on Grice on meaning he ended up asking: But what the hell, Was Grice mit >>meinen << meint – Forschungsberichten des Instituts fuer Phonetik und sprachlike Kommunikation der Universitatet Munchen – for Kemmerling could not, as best as he tried, sympathise with all the trials and tribulations Grice undergoes with a peculiar piece of Germanic lexicology that merely means ‘to opine’ in Kemmerling’s German. Having written a memoir for Grice in Erkenntnis, Kemmerling goes on to express that he has learned that some of his remarks ‘tend to be understood as if I took [Grice’s analysis to be an analysis of the English word. The assumption underlying the remark is that the ENGLISH word ‘meaning’ seems to point more naturally to the phenomenon of human interaction wich Grice’s analysis is about than its German counterpart does’ (Kemmerling in PGRICE, p. 139 – and a whole book may be written about each language to which Grice is translated – cf. Leonardi on the Italian Grice, and someone else on Cicero as the Roman Grice! – or what the French (Parisians) were doing when gathering under the Groupe pour la Recherche de la Inference e la comprehension elementaire (P. G. R. I. C. E.). If Kemmerling is right that English ‘mean’ seems to typify communication more than ‘its German counterpart’ (as Kemmerling puts it – meaning meinen) does, it’s quite a shift to the Romance languages where all the derivatives of mentiri, and mentiri itself – quite range over the OPPOSITE of what Grice sees as the anti-sneakiness of meaning. Mentiri and its cognates, by this semantic shift of ‘inventing a double thought’ seems to be ALL about lying and deception… The Latin language, as it happens, as we’ve explored the cognates of Bosworth’s menan, MENTARE and MENTIRE -- does use the ‘mean’ root – also present in ‘mind’ --, as it distinguishes, indeed, between MENTIRE (to lie) and MENTARE (to mean). But, unlike the compilers of the Vocabulario della Crusca, neither Grice nor Nicoletti ever spent much time on this, and besides Kemmerling, few would see why they should! The idea of using the very root for ‘mind’, i. e. meaning, is prone to invite not just an accusation of animism – or indeed mentalism, however undangerous – vide Myro --, but plain unfettered naturalism, too boot! And Grice always regarded full-blown Naturalism as one of the betes noires on his way to the City of Eternal Truth. Spots happen to ‘mean’ measles (to some qualified doctor – not a political appointee -- , because it is Nature, i. e. God, ultimately -- means measles by the spots. A Russian philosopher like Martinich could similarly wonder why Grice thought of ‘the recent budget ‘means’ that we shall have a hard year’ (WoW) as NATURAL – when it’s all about the Administration! (In distinguishing the alleged two ‘senses’ of the verb ‘mean,’ Grice was initially fascinated by the fact that one is factive – the ‘natural’ ‘sense,’ while the other is not: and surely he would hardly say that The present budget means that we shall have a hard year but we won’t. This sort of subtlety charmed Hart. Facione, who wrote on this, even went on to give primacy to Hart rather than Grice on this. The locus being Hart’s review of Holloway’s “Language and Intelligence” in the Scotish Philosophical Quarterly. There, Hart acknowledges Grice in a footnote for having made him realise that one cannot mean that those dark clouds mean rain, and go on to cancel, as if it were a mere implicature, ‘but of course it won’t!’ SIGNIFICATIO does not fare any better than ‘meaning,’ alas – from what we can gather from the few (usually philosophers) who have uttered this noun. As Grice saw it back in 1948, ‘significatio’ had become a bit of scholastic jargon – or techno-crypticism as Grice prefers --. (Recall Grice’s recollection on Austin forbidding the use of Volition, Causation, and the like – Prejudices and predilections. Proof of the status of jargon of ‘significatio’ is that while Italian naturally – without the aid of philosophers of language, that is -- developed the Latin SIGnum into SEGno, it still preserves ‘SIGnificatio’ but as a doublet, to mark its bastard origin, as it were. And while de Saussure might disagree, anyone speaking a Romance language would find it VERY intimidating to be challenged with one ‘And what do you SIGNIFY by that?’ when, in most contexts, the admittedly arid and rather silly ‘vollere dire’ seems to provide a more vernacular replacement. (‘In fact, I do not signify anything – or are you seeing me making a sign, or what?’). But a few other, more theoretical, insights by Grice on meaning do seem to trade on Nicoletti’s points, as we sail through the insoluble. Let’s try and number some of them. Meaning and signification: privileged access and incorrigibility. Suppose we would like to expand a bit deeper on that conversation between Grice and his former tutor at Corpus Christi, the very prestigious Scot Aristotelian scholar, Hardie – of the Harie Golf Awards fame. On wanting to fulfil his tutor’s desire, and after his very first tutorial, Grice hands Hardie a copy of THE TIMES with the remark, ‘Here is what you asked for. Q. E. D.’ So far so good – knowing Hardie. Grice will later elaborate on this, but exchanging roles, somewhat, and having himself in the role of the straight man, and his own pupil, Strawson, as the joker, and challenger to the philosopher’s paradox or insoluble. Grice is now a Full tutorial fellow at St. John’s – which surprised, of all people Scot economist Richardson – seeing that ‘he never returned library books’—Richardson, ‘Grice’, St. College Records -- , and the assigned co-tutor of P. F. Strawson – the other one was Scot philosopher Mabbott who recollects on both Grice and Strawson in his Oxford memories, published by Thornton --, for one term, for Strawson’s Logic Paper in the P. P. E. programme.Grice utters (again, as Hardie had done). “I want you to bring me a paper tomorrow.” But Grice now goes on to expand on the very absurdity of Strawson’s very idea that HE (Strawson) KNOWS what Grice MEANS more than Grice does! Grice enjoyed the final section of this early paper on “G. E. Moore and Philosopher’s Paradoxes” (c. 1953-1958) so much that, not only did he keep it – in illegible handwriting – but gave it to Harvard University Press to be added to the compilation upon the occasion of the publication of the William James lectures by Harvard University Press to add it to the compilation, in Part II of what he rather pretentiously calls ‘Semantics and Metaphysics’ – The proof reader did his/her best, but failed to read Grice’s ‘circumstance’ which becomes ‘sentence’ – in quote below. So Grice appends to his criticisms of Malcolm on Moore: I suspect that some philosophers have assumed or believed that ‘mean’ means ‘mean’ (that what what a man says he means is paramount in determining what he does mean) because they have thought of ‘meaning so and so’ as being the name of an introspectable experience. They have thought a person’s statements about what he means have just the same kind of incorrigible status as a person’s statements about his current sensations, or about the colour that something seems to him to have at the moment. It seems to me that there are certainly occasions when what a speaker says he means is treated as specially authoritative. Consider the following possible conversation between myself and a pupil. Myself: I want you to bring me a paper tomorrow. Pupil: Do you mean that you want a newspaper or that you want a piece of written work? Myself: I mean a piece of written work. Grice goes on to comment, now adding ‘absurdity’ to the bargain – ‘inappropriateness’ will come later: It would be ABSURD at this point for the puil to say, ‘Perhaps you only THINK, mistakenly, that you mean ‘a piece of written work,’ whereas really you mean ‘a newspaper.’ And this absurdity seems like the absurdity of suggesting to someone who says he has a pain in his arm that perhaps he is mistaken (unless the suggestion is to be taken as saying that perhaps there is nothing physically wrong with him, however his arm feels). It is important to notice that although there is this point of analogy between meaning and having a pain, there are striking differences. A pain may star and stop at specifiable times; equally something may begin to look red to one at 2:00 P. M. and cease to look red to one at 2:05 P. M. But it would be ABSURD for my pupil (in the preceeding example) to say to me, ‘When did you being to mean that?’ or ‘Have you stopped meaning it yet?’ Again there is no LOGICAL objection to a pain arising in any set of concomitant circumstances; but it is surely absurd to suppose that I might find myself meaning that it is raining when I say’I want a paper’; indeed, it is is ODD to speak at all of my finding myself meaning so and so, though it is not odd to speak of my finding myself suffering from a pain. At best, only VERY SPECIAL circumstances (if any) could enable me to say ‘I want a paper,’ meaning thereby that it is raining. In view of these differences, we may perhaps prefer to label such statements as ‘I mean a piece of written work’ (in the conversation with my pupil) as ‘declarations’ rather than as ‘introspection reports.’ Such statements as these are perhaps like declarations of intention, which also have an authoritative status in some ways like and in some ways unlike that of a statement about one’s own current pains. Grice goes on, now accusing Strawson of INAPPROPRIATE behaviour: But the immediate relevant point with regard to such statements about meaning as the one I have just been discussing is that, insofar as they have the authoritative status which they SEEM to have, they are not statements which the speaker could have come to accept as the result of an investigation of a train of arguments. To revert to the conversation with my pupil, when I say ‘I mean a piece of written work,’ it would be quite INAPPROPRIATE for my pupil to say ‘How did you discover that you mean that?’ or ‘Who or what convinced you what you mean that?’ And I think we can see why a ‘meaning’ statement cannot be both especially authoritative and also the conclusion of an argument. If a statement is accepted on the strength of an argument or an investigation, it always makes sense (though it may be foolish) to suggest that the argument is unsound or that the investigation has been improperly conducted; and if this is conceivable, then the statement maker MAY be mistaken, in which case, of course, his statement has not got the authoritative character which I have mentioned. Grice goes on to conclude the section: But the paradox-propounder who relies on the type of argumentation I have been considering requires BOTH that a speaker’s statement about what he means should be especially authoritative AND that it should be established by argumentation. But this combination is impossible. A further difficulty for the paradox-propounder is one which is linked to the previous point. There is, I hope, a fairly obvious distinction (though also a connection) between (a) what a given expression means (in general), or what a particular person means IN GENERAL by a given expression and (b) what a particular speaker means, or meant, by that expression in a particular occasion; (a) and (b) may clearly diverge. I shall give two examples of the ways in which such divergence may occur. (1) The sentence ‘I have run out of fuel’ means in general (roughly) that the speaker has no material left with which to proper some vehicle which is in his charge; but a particular speaker on a particular occasion (given a suitable context) may be speaking figuratively and may mean by this sentence that he can think of nothing more to say. (2) ‘Jones is a fine fellow’ means in general that Jones has a number of excellences (either without qualification or perhaps with respect to some contextually indicated region of conduct or performance); but a particular speaker, speaking ironically, may mean by this sentence that Jones is a scoundrel. In neither of these examples would the particular speaker be giving any UNUSUAL SENSE [cf. Dummett] to any of those words OR SENTENCES; he would rather be using each sentence in a special way, and a proper understanding of what he says involves KNOWING the STANDARD use of the sentence in question. (3) A speaker might mean, on a particular occasion, by the sentence ‘It is hailing’ what would standardly be expressed by the sentence ‘It is snowing’ EITHER if he had MISLEARNED the use of the word ‘hailing’ OR if he thought (rightly or wrongly) that his addressee (perhaps because of some family joke) was accustomed to giving a private SIGNIFICANCE [Nicoletti signification – S. R. Read, Sign -- to the word ‘hailing.’ In either of these cases, of course, the speaker will be using some particular word in a special nonstandard sense.” (‘G. E. Moore and Philosopher’s Pardoxes’ c. 1953-1958), in WOW – way of words, pp. 166ff – paper from p. 154 to 170). Grice goes on with two further paragraphs on this, till the very end, and abrupt too, of the paper, as he trades on the attempt to use utterer-based meaning against philosopher’s paradoxes or insolubles. The issue of incorrigibility and privileged access sort of obsessed Grice when dealing with paradoxes and insolubles, as is attested in two other pieces. In his own autobiography, the Norwegian-American philosopher Bruce Aune, in his obligatory sojourn in the varisty of stone walls, recalls that, upon arriving at Oxford, quite a few years after Austin’s demise, he joined, upon invitation only, of course, Grice’s Play Group on Saturday mornings. As it happened, Aune was nicely surprised by this fact, and the following gesture of Grice showing some sincere interest in a rather primitive view of avowals attempted by Aune in an early paper. “It seems Grice had a thing about an avowal, as I called those things.” Aune's affectionate remembrance of Grice by to the Grice Club. From Aune's engaging Autobiography in Bayne's "History of analytic philosophy". Aune writes: "I eventually sent [my paper on Avowals] to Black, of Cornell, who had solicited papers from American philosophers for a volume Routledge would publish as Philosophy in America. Black chose fourteen papers from the ones submitted, and Aune’s essay, ‘On the complexity of avowals,’ was one of the essays Black selected. The target of that essay by Aune was a group of arguments by ‘Witters’ and Malcolm that were widely discussed at the time. They concerned the supposed ‘criteria’ for being in pain, for understanding talk about pain, and for using the word ‘pain’ correctly in first- and other-person uses. In the course of developing his criticism of some of these arguments Aune draws a distinction between what a statement implies and what this or that person might imply in making that statement. This distinction was similar to one that Grice was then making in his work on what he called conversational implicatures, “and perhaps because of this, Grice was quite pleased by my talk.” “At any rate, after my talk, or shortly after it, Grice invited Aune to take part in his “Saturday mornings,” the discussions he then held on Saturday mornings at Corpus. The Saturday discussions that Grice led when Aune was there were a continuation of the Saturday morning discussions previously led by Austin. The meetings Aune attended generally had five or six discussants. “I can no longer remember all the people who attended." Hare was nearly always there, but he never, as I recall, “addressed a single word to [Aune].” He was not superior or rude. I think he was simply reticent or shy." "I think Urmson sometimes attended." "He was then a don at Corpus." "And Nozick, the other American visitor, was always there." "Nozick had just finished his Ph.D. at Princeton. Nozick’s sponsor at Oxford, as it were, was Grice. Nozick was attached to St. John’s College as Aune was attached to Corpus. Aune continues: "I was greatly impressed by Grice’s ideas, his intelligence, and his critical ability." "But I gradually came to the conclusion that his way of doing philosophy was not mine." "After a couple months, I gradually stopped attending the meetings." "There were really two reasons for this." (A) REASON A -- Aune's dropping from the Play Group. "One was that Grice’s procedure in the meetings left me seriously dissatisfied." "We generally discussed recent journal articles (one was Rawls’ “Justice as Fairness”)." ---- Rawls ended up quoting from Grice's earliest "Personal identity" (1941) in "Philosophy and public affairs." "But the room lacked a blackboard." "And, instead of attempting to formulate clear and definite assertions about the arguments used, we discussed numerous examples in what seemed to me an indefinite and inconclusive way." "We seemed, in fact, to make very generous use of the case-by-case method that Wisdom employed in the seminar Aune describes elsewhere. "I found it dissatisfying." "I had no justifiable philosophical objection to the procedure." "I could not reasonably claim that it would not or could not bring solutions to significant problems or result in a greater understanding of significant issues." "But I didn’t find the procedure satisfying." "I didn’t enjoy it." (B) REASON B: Aune dropping from the Play Group. "The other reason was that I wanted to be working at my own task." "I wanted to be writing." "At that time of my philosophical life, I worked out my ideas on my typewriter, not in talk." "Grice’s rambling, leisurely, and seemingly inclusive discussions took too much time away from the work I wanted to be doing myself." "Philosophy is a highly personal pursuit, at least for me, and admirable as I thought he was, Grice pursued philosophical issues in a way I simply did not find congenial." So "I eventually dropped out of Grice’s discussion group." ---- What an excellent remembrance! The other source explains Grice’s possible motivation for this. It is what he calls pirotology – as in pirots karulise elastically. Why would a pirot care to potch (perceive) that an obble has feature F, and communicate this to another pirot so that the other pirot gets to know (cotch) that this is the case? What is the pirot’s authority, in the first place?In his “Method in philosophical philosophy: from the banal to the bizarre” – American Philosophical Association Presidential Lecture – which incidentally Bennett says in his review of PGRICE for the Times Literary Supplement that it should be learned by heart by any philosopher of mind -- Grice makes a point about a transcendental justification, alla Kant, for the incorrigibility and privileged access of some – not all -- of our propositional (or psychological, as he prefers) attitudes. Meaning may be one of those. “I shall now try to bring the idea of higher-order states to bear on Problem C (how to accommodate privileged access and, maybe, incorrigibility). I shall set out in stages a possible solution along these lines, which will also illustrate the application of the genitorial programme. “Grice goes on to proceed by stages. There’s Stage 0: Stage 0. We start with pirots equipped to satisfy unnested judgings and willings (i. e. those contents do not involve judging or willing). Then there’s Stage 1, which relates to Nicoletti’s concern for his conversationalist’s animus: Stage 1. It would be advantageous to pirots if they could have judgins and willings which relate to the judgings and willings of OTHER pirots; for example, if pirots are sufficiently developed to be able to will their own behaviour in advance (form intentions for future action), it could be advantageous to one pirot to anticipate the behaviour of another by judging that the second pirot WILLS to do A (in the future). So we construct a higher type of pirot with this capacity, without however the capacity for REFLEXIVE states. This stage is followed by Stage 2, where control and regulation make their way in: Stage 2. It would be advantageous to construct a yet higher type of pirot, with judgings and willings which relate to his OWN judgings and willings. Such pirots could be equippd to CONTROL or REGULATE their own judgings and willings; they will presumably be already constituted so as to conform to the law that ceteris paribus if they will that p and judge that not-p, then if they can, they make it the cas that p. To give them some control over the judgings and willings, we need only to extend the application of this law to their judgings and willings; we equip them so that ceteris paribus if they will that they do not will that p and judge that they do will that p, then (if they can) they make it the case that they do NOT want will that p (and we somehow ensure that sometimes they CAN do this). [It may be that the installation of this kind of control would go han in hand with installation of the capacity for evaluation; but I need not concern myself with this now.] To this, Stage 3, which involves manifestational behaviour which may be beyond Nicoletti’s conversationalist’s animus! Stage 3. We shall not want these pirots to depend, in reaching their second-order judgments about themselves, on the observation of manifestational behaviour; indeed, if self-control which involves suppressing the willing that p is what the genitor is aiming at, behaviour which manifests a irot’s judging that it wills that p may be part of what he hopes to prevent. So the genitor makes these pirots subject to the law that ceteris paribus if a pirot judges (wills) that p, then it juges that it judges (wills) that p. To build in this feature is to build in privileged access to judgings and willings. To minimise the waste of effort which would be involved in trying to suppress a willing which a pirot mistakenly judges itself to have, the genitor may also build in conformity to the converse law, that ceteris paribus if a piot judges that it judges (wills) that p, then it judges (wills) tha p. Both of these laws however are only ceteris paribus laws; and there will be room for counter-examples; in self-deception, for example, either law ma not hold (we may get a judgement that wills that p without the willing that one p, and we may get willing that p without judging that one wills that p – indeed, with judging that one does NOT will that p. Reaching Stage 4 seems like a relief, in comparison! Stage 4. Let me abbreviate ‘x judges that x judges that p’ by ‘x judges-2 that p,’ and ‘x judges that x judges that x judges that p’ by ‘x judges-3 that p.’ Let us suppose that we make the not implausible assumption that there will be no way of finding NON-LINGUISTIC manifestational behaviour which DISTINGUISHES judging-3 that p from judging-2 that p. There will now be two options: we may suppose that ‘judge-3 that p’ is an inadmissible locution, which one has no basis for applying; or we may suppose that ‘x judges-3 that p’ and ‘x judges-2 that p’ are manifestationally equivalent, justbecause there can be no DISTINGUISHING behavioural manifestation. The second option is preferable, if (a) we want to allow for the construction of a (possibly later) type, a TALKING pirot [not parrot, like Locke] which can express that it judges-2 that p; and (b) to maintain as a general (though probably derivative) law that ceteris paribus if x expresses that phi then x judges that phi. The substitution of ‘x judges-3 that p’ for ‘phi’ will force the admissibility of ‘x judges-3 that p.’ So we shall have to adopt as a law that x juddges-3 that p iff x judges-2 that p. Exactly parallel reasoning will force the adoption of the law that x judges-4 that p if x judges-2 that p. Grice concludes by introducing the justified notions of incorrigibility for some judgings, and willings, and privileged access for yet another set of them. “If we now define ‘x BELIEVES that p’ as ‘x judges-2 that p,’ we get the result that x believes that p iff x believes that x believes that p. WE GET THE RESULT, that is to say, that BELIEFS are (in this sense) *incorrigible*, whereas first-order JUDGINGS are _only_ matters for privileged access.” P. 155-156 in The Conception of Value. Clarendon. Meaning and signification: Above-board-ness Read makes a passing but insightful note about M. A. E. Dummett on the transparency of meaning. As a matter of fact, Grice ends up making this a necessary condition for his analysis of utterer’s meaning. When writing his Retrospective Epilogue for Harvard University (p.368), Grice wonders to what point something that is being merely insinuated in a rather obscure way may count as meaning so and so. What have I communicated? “Suggesting seems to me to be related to, though in certain respects different from, hinting. In what seems to me to be standard cases of hinting one makes, explicitly, a statement which does, or might, justify the idea that there is a case for supposing that so-and-so; but what there might be a case for supposing, namely that so-and-so, is not explicitly mentioned but IS LEFT TO THE AUDIENCE to identify. Obviously, the more DEVIOUS the hinting, the GREATER is the chance that the speaker will FAIL to make contact with the audience, and so will escape without having commitsed himself to anything! More formally (in spite of Putnam), in his step-by-step reductive (but not reductionist) analysis of utterer’s meaning, Grice indeed comes up with what he calls the anti-sneak clause to avoid Searle’s example of the American soldier who, caught by the Italian troops during the second World War, utters the insoluble Kenst du das land wo die Kitronen bluhen to mean that he is a German soldier. Just as, to use Grice’s own example, a knick-knack seller in Port Said may mean that the British sailor is so welcomed by uttering Arabic for ‘You pig of an Englishman’. In a sort of self-referential way, Grice would end up analysing “U means that p” iff, among other things, there is no inference element E such that U intends that U has been using yet NOT to be recognised by his addressee (WoW, p. 114) U meant by uttering x that *psi p’ is true iff […] III. It is not the case that, for some inference-element E, U intends x to be such that everyone who has Phi will both (1’) rely on E in coming to psi+ that p, and (2’) thnk that (Ephi’): U intends x to be such that anyone who has phi’ will come to psi+ that p WIHOUT relying on E. where psi+ is to be read as ‘psi’ if clause II Exhibitiveness-Protreptic is operative and as ‘think that U psi-s if clause II is nonoperative. We need to use both phi and phi’, since we do not wish to require that U should intend his possible audience to think of U’s possible audience under THE SAME DESCRIPTION as U does himself. When in Sussex, vacationing almost, Grice felt for some slang, hence the anti-sneak: There is this question of how this relates to the regresses which people have actually found: regresses, or prolongations of the set of conditions, which actually exist. Certain ingenious people, wuch as Strawson and Dennis Stampe, and ending up with Schiffer, who moves so fast and intricately that one can hardly keep up with him, have produced counterexamples to my original interpretant in an analysis of meaning, counterexamples which are supposed to show that my conditions, or any expansion of them, are insufficient to provide an account of speaker meaning. The alleged counterexample is ALWAYS such that it satisfies the conditions on speaker meaning as set forward so far, but that the speaker is nevertheless SUPPOSED TO HAVE what I might call A SNEAKY INTENTION. HOW sneaky? That is, in the first and most obvious case, his intention is that the hearer should in fact accept p on such and such grounds, but should THINK that he is supposed to accept p NOT on THOSE grounds, but on some OTHER grounds. Translate to “Socrates said something false.” Grice goes on: That is, the hearer is represented, at some level or other of embedding, as having, or being intended to have, or being intended to think himself intended to have (or …), a MISAPPPREHENSION with regard to WHAT is expected of him. He thinks he is supposed to proceed in one way, where really he is supposed to proceed in another. Grice’s answer? “I would THEN want to say that the EFFECT of the *very* appearance of a SNEAKY INTENTION, the function that such a sneaky intention would have in my scheme I am suggesting, woul SIMPLY be to CANCEL the license to *deem* what the speaker is doing to be a case of meaning on this particular occasion: that is, to cancel the idea that this is to be allowe to count as a SUBLUNARY performance, so to speak, of the infinite set of intentions which is only celestially realisable.” A celestial reference that would undoubtedly have pleased Nicoletti as he tried to turn Averroes into a Christian! Grice concludes his ‘Meaning Revisited’ with an alert: “In a way, what THIS suggestion does – to treat meaning as a value-oriented notion in terms of optimality, or would if it it were otherwise acceptable, is to confer A RATIONALE upon a proposal which I actually did make in an earlier paper, to the effect that what was really required in a fully account of speaker meaning was the ABSENCE of a certain kind of intention. This my very well be right, but the deficiency in that proposal was it gave no explanation of WHY this was a reasonable condition to put into an account of speaker meaning. I think, if we accepted the framework I have just outlined – meaning as Pareto optimality – this arbitrariness, or ad hocness, would be removed, or at least mitigated.” Davidson made a point about this – in his contribution to PGRICE fittingly entitled, “A nice derangement of epitaphs”, as Humpty Dumpty had done before. Davidson’s point being that Humpty Dumpty cannot mean that Alice and he should change the topic’ by uttering ‘impenetrability’ because as he allows, ‘of course you don’t know that until I tell you.’ Meaning and signification: Beyond m-intention. We imagine ourselves then to be, in that memorable 1948, among the members for The Oxford Philosophical Society, and seeing as Grice expands on what was surely then a pretty revolutionary view of meaning. And in one paragraph Grice bears on Nicoletti, as Grice wonders. What if utterer U means that p, and an effect on his auditor’s addressee A’s frame of mind (auditoris animus, to mock Nicoletti) is that A comes to believe that q, on his own terms! The wording in ‘Meaning’ is causalistic – so it’s anti-Humean cause and anti-Humean effect that count --, and if a consequence is meant, it is consequence qua effect: One point before passing to an objection or two. I think it follows that from what I have said about the connection between meaningNN and recognition of intention that (insofar as I am right) ONLY WHAT I may call the PRIMARY intention of an utterer is RELEVANT to the MEANINGnn of an UTTERANCE. For if I utter x, intending (with the aid of the recognition of this intention) to induce an effect E, and intend this effect E to lead to a further effect F, insofar as the occurrence of F is thought of NOT to be depend solely on E, I cannot regard F as IN THE LEAST dependent on recognition of my intention to induce E. That is, if (say) I intend to get a man to do something by giving him some information, it cannot be regardd as relevant to the meaningNN of MY UTTERANCE to describe what I intend him to do. Interestingly, Patton uses this same an argument against Kripke’s misguided claim (in Philosophical Review – Speaker’s meaning and reference) that Implicature Happens, that it’s all about Speaker’s Meaning –, and that a thief uttering ‘The cops are around the corner’ to the other thief the first thief cannot mean that they should leave he booty and run. (Grice had acknowleged Patton’s collaborator, Stampe, in WoW). Grice duly elaborates on that in, in the formal fashion that irritated Putnam – ‘of all people’ – in his William James Lectures.Grice is listing now his own conceived counterexamples – as say, Stampe’s counterexample in the ‘sufficiency’ section of the lecture -- directed towards showing the three-prong analysis of utterer’s ‘signification’ too strong” (p. 107): Conclusion of argument: p, q; therefore r (from already stated premises). While U intends that A should think that r, he does not expect (and so intend) A to reach a belief that r on the basis of U’s intention that he should reach it. The premises, not trust in U, are supposed to do the work. (p. 107). Grice is hardly but intimated by such a piece of cake. Instead of leaving the room, Grice goes on to propose a ‘very apt’ remedy, involving the important notion of activated belief – cfr. Dumbleton on Bradwardine and Nicoletti and the insoluble) and reaches out a re-definition of ‘signification’ to exclude precisely such a case as one of ‘signification.’ And when Dumbleton is involved, it’s best to expand, so this is the ‘apt remedy’. “[This example raises] two related difficulties.” So what’s the first? There is some difficulty in supposing that the indicative form is CONVENTIONALLY tied to indicating that the speaker is M-intending to induce a certain belief in his audience, if there are quite normal occurrences of the indicative mood for which the speaker’s intentions are different, in which is is NOT M-intending (nor would be taken to be M-intending) to induce a belief. Yet it seems difficult to suppose that the function of the indicatie mood has NOTHING to do with the inducement of belief. The indication of the speaker’s intention that his audience should acct (or form an intention to act) is plausibly, if not unavoidably, to be regarded as by ‘convention’ the function of the imperative mood; surely the function of the indicative mood ought to be analogous. What is the alternative to the suggested connection with an intention to induce a belief? Grice expands on this first difficulty: The difficulty here might be mt by distinguishing questions about what an indicative sentence means and questions about what a SPEAKER means. One might suggest that a full specification of sentence meaning (for indicative sentences) involves reference to the fact that the indicative form ‘conventionally’ SIGNIFIES an intention on the part of the utterer to induce a belief; but it may well be the case that the SPEAKER’s meaning does NOT *coincide* with the meaning of the sentence he utters. It may be clear that, though he uses a device which ‘conventionally’ indicates an intention on his part to induce a belief, IN THIS CASE he has not this but some other intention. This is perhaps reinforceable by pointing out that ANY device, the primary (standard) function of which is to indicate the speaker’s intention to induce a belief that p, COULD in appropriate circumstances be EASILY and intelligibly employed for related purposes. The problem then would be to exhibit the example as a NATURAL ADAPTATION of a device or form PRIMARILY connected with the indication of an intention to induce a belief. WoW 108. How does he introduce the second problem that bears more on Dumbleton? I think we want, if possible, to avoid treating the [suspect] examples as EXTENDED uses of the indicative form and to find a more generally applicable function of that form. And here is the second difficulty. In any case, the second difficulty is more serious. For this is how he formulates it (2) Even if we can preserve the idea that the indicative form is tied by convention to the indication of a speaker’s intention to induce a belief, we should have to allow that the speaker’s meaning will be different for different occurrences of the same indicative sentence – indeed, this is required by the suggested solution for difficulty (1). We shall have to allow this if differences in intended response involve differences in speaker’s meankng. … And how does he treat this difficulty? We might attempt to deal with [the example] by supposing the standard M-intended effect to be not just a BELIEF but an ACTIVATED BELIEF (That A should be in a state of believing that p and having in mind that p). This brings alas, some further difficulty One may fall short of this in three ways: one may (1) neither believe that p nor have it in mind that p; (2) believe that p, but not have in mind that p; (3) not believe that p, but have it in mind that p. But this, even for the example for which it seems promising, runs into a new difficulty. The solution, then? “This suggests dropping the requirement (for speaker’s meaning) that U should intend A’s production of response to be BASED on A’s recognition of U’s itentnion that A should produce the response; it suggests the retention merely of conditions (1) and (2). But this will not do. There are examples which require this condition – Herod, showing Salome the head of St. John the Baptist, cannot, I think, be said to have MEANT that St. John the Baptist was dead. The third condition seems to be required in order to protect us from counterintuitive results in these cases.” Faced with such double difficulty, Grice proposes two ‘possible remedies’: -(i) We might RETAIN the idea that the intended effect or response (for cases of meaning that it is the case that p – idnicatve type) is ACTIVATED BELIEF, retaining in view the distinction between reaching this state (1) from ASSURANCE-DEFICIENCY and (2) from ATTENTION-deficiency, and stipulate that the third condition (that U intends the response to be elivited on the cases of recognition of his intention to elicit that response) is OPERATIVE ONLY when U intends to elicit ACTIVATED BELIEF by eliminating ASSURANCE-DEFICIENCY, NOT when he intends to do by eliminating assurance-deficiency. What’s wrong with that? Indeed it is generalizable: This idea might be extended to apply to imperative types of cases, too, provided that we can find cases of reminding someone to do something (restring him to ACTIVATED INTENTION) in which U’s intention that A should reach the state [animus]is similary otiose, in which case it is not to be expected that A’s reaching the activated intention will be dependent on his recognition that U intends him to reach it. So the definition might read as follows – where *psi is a mood marker, an auxiliary correlated with the propositional attitude psi from a given range of propositional attitudes: U means by uttering x that *psi p = U utters x intending (1) that A should ACTIVELY psi that p. (2) that A should recognize that U intends (1) and (unless U intends the utterance of x merely to remedy ATTENTION-deficiency) and (3) that the fuflfilment of (1) should be based on the fulfilment of (2). Since this remedy does not cope with all the suspect examples, a second remedy is proposed -(ii) Since, when U does intend, by uttering x, to promote in A te belief that p, it is standardly requisite that A should (and should be intended to) think that U thinks that p (otherwise A will not think that p), why not make the DIRECT intended effect not that A should think that p, but that A should think that U THINKS that p? In many but not in all cases, U will intend A to PASS, from thinking U thinks that p, to thinking that p himself (‘Informing’ cases). But such an effect is thought of as indirect (even though often of prime interest). And, without the notion of the activation of belief: We can now retain the third condition, since even in reminding cases A may be expected to think U’s intention that A sould think that U thinks that p to be RELEVANT to the question whether A is to think that U thinks that p. WoW111 Grice finally reaches an analysans that satisfies HIM, if not Dumbleton! By uttering x U meant that *psi p is’ is true iff (EA) (Ef) (Ec) U uttered x intending (1)-7 as in the third redefinition, version A, with psi-ing that p substituted for ‘r’ AND in some cases ‘8 A on the basis of the fulfilment of (6) himself to psi that p. What is meant, what is signified -- and the enthymematic If somebody knows how to use ‘enthymematic,’ that’s Grice, and Read acknowledges this – not that Grice uses if – but that it is an adjective we have to bear in mind when dealing with Dumbleton. Grice recalls that during his first tutorial with Hardie, another pupil – ‘whose name I forget, but I do remember it was that of an English county, so I shall call him ‘Shropshire’ – proposed an argument to the effect that the soul is immortal on the basis of the fact that if you cut a chicken in two, the body ambulates. Grice goes on to provide what’s behind Shropshire’s enythmematic piece of reasoning: 1. If the soul is ot dependent on the body, it is immortal. 2 If the soul is dependent on the body, it is dependent on that part of the body in which it is located. 3. If the soul is located in the body, it is located in the head. 4. If the chicken’s soul were located in its head, the chicken’s soul would be destroyed if the head were rendered inoperative by removal from the body. 5. The chicken runs round the yard after head-removal. 6. It could do this only if animated, and controlled by its soul. 7. So the chicken’s soul is not located in, and not dependent on, the chicken’s head. 8. So the chicken’s soul is not dependent on the chicken’s body. 9. So the chicken’s soul is immortal. 10. If the chicken’s soul is immortal, A FORTIORI the human soul is immortal. 11. So the soul is immortal. Nicoletti would have cast serious doubts on that, but then he was an Averroist, and the Padoans almost placed him in the rake for that (v. Nardi). Like Nicoletti, then, and the rest of them – notably Dumbleton -- Grice cared about reason, and ‘reasoning’ – a value-oriented notion if ever there was one (like ‘sentence’, or ‘cabbage’ – as in ‘cabbages and kings’). In his Kant lectures on reasoning at Stanford – re-delivered (with a different premium) at Oxford as the Locke lectures (where he has his revenge with Locke’s soul: You refused me your scholarship twice, so here are my lectures!– he missed a few points which he still managed to re-address in his P. G. R. I. C. E. contribution, which, as we noted, he originally felt like entitling, “Prejudices and predilections; which become, the life and opinions of H. P. Grice.” (He never went by Paul Grice at Oxford – always H. P. Grice, in the proper way). They first very properly refer to my discussion of ‘incomplete’ reasoning in my John Locket lectures, and discover there some suggestions which, whether or not they supply NECESSARY conditions for the presence of FORMALLY incomplete or IMPLICIT reasoning, cannot plausibly be considered as JOINTLY providng a SUFFICIENT condition; the suggested conditions are that (a) the implicit reasoner INTENDS that there should be some VALID Supplementation of the explitly present material which would justifu the ‘conclusion’ of the incomplete reason, together perhaps with (b) a further DESIRE or INTENTION that the first INTENTION should be causally efficacious in the generation of the reasoner’s BELIF in the aforementioned conclusion. So it seems that, like with Nicoletti, for Grice, meaning and signification were ultimately a matter of philosophical psychology, as they should be. Like Wolff, it not perhaps Nicoletti who was happy enough with saying he was reading on ‘De anima,’ Grice thought that it’s always psycho-LOGICAL, never psychic, what we have in mind. Indeed, a full theory of the soul – along, unsurprisingly, Aristotelian lines – cf. Nicoletti on the alleged three souls, the vegetative, the sensitive, and the intellective – and Grice on the ‘power structure of the soul’ with the intellective as the C. E. O., the sensitive as the legislative, and the vegetative as the masses! The significatum and the consequtum Reaching the consequtuum, the non-non-sequitur, seems to be all that matters. While Read is concerned with consequence more than he is with signification, it is interesting to note that, as Hobbes had attempted in his COMPUTATIO, -- and in Latin, too -- when it comes to signs – for Hobbes – or meaning, as we’ll see, for Grice – CONSEQUENTIA seems to be at the ‘root’ (Grice’s term) of both ‘natural’ and ‘non-natural’ (or artificial) sign. If Cicero is right, and it’s the consequence-approach to the sign that matters, it doesn’t matter if you are challenged by some spots (which mean measles) or by a remark (‘He can’t get on without his trouble and strife’ which means that the utterer finds his wife indispensable WoW). You have to REASON in either case. We doubt, as we’ve said, that Nicoletti would have use ‘signify’ in vernacular conversation – we are not sure the present Pope will -- , being as it is much of a piece of scholastic jargon. If I make signs my ordinary routine, I will be treated not as quite the Oxonian Nicoletti otherwise would. The relevant passage in Grice is in his “Meaning” revisited – “Meaning, revisited” was Grice’s contribution at the conference at Brighton organized by N. V. Smith on Mutual knowledge – now in WoW -- , where he argued that, far from being two ‘senses’ of ‘mean,’ as he challenged the Oxford-Philosophical-Society members, in both ‘Smoke means fire’ and ‘I mean I love you,’ the shared element is that p is a consequence of q: same sense! On general grounds of economy, I am inclined to think that if one can avoid saying that the word so-and-so has this sense, that sense, and the other sense, or this meaning and another meaning, if one can allow them to be VARIANTS under one single principle, that is the desirable thing to do. Don’t multiply senses beyond necessity. And it occurs to me that the ROOT IDEA in the notion of meaning [[ or Nicoletti SEGNUM ]], which in one form or adaptation of another would apply to both these cases [Black clouds mean rain, My words mean so-and so’] is that IF X MEANS THAT Y, this is equivalent to, or AT LEAST CONTAINS as a part of what it means, the claim that Y IS A CONSEQUENCE OF X. That is, what the cases of natural and nonnatural meanin have in common is that, on some interpretation of the notion of consequence, Y’s being the case is a consequence of X. Read refers to Dummett, on meaning transparency, and, as it happens, seas of language, and all, Grice has a few nice things to say about Dummett, too. For one, apparently Austin never wanted Dummett in the Saturday mornings. For another, Wrigley, who was a student of Grice, approached him once with ‘Have you read Frege philosophy of language? For that is what I intend to base my doctoral dissertation on’ ‘I haven’t,’ Grice responded – ‘and I hope I won’t.’Interestingly, Hobbes essayed the same solution way back then: Signa autem vocari solent antecedentia CONSEQUENTIUM, et CONSEQUENTIA antecedentium, quoties plerumque ea simili modo praecedere et CONSEQUI experti sumus. Exempli gratia, nubes densa SIGNUM est CONSEQVTVRAE pluviae, et pluvia SIGNVM antecedentis nubis, ob eam causam, quod raro nubem densam sine SEQUENTE pluvia, pluviam autem sine antecedente nube numquam experti sumus. Signorum autem alia NATURALIA sunt quorum exemplum est quod modo dixeramus; alia ARBITRARIA, nimirum quae nostra VOLUNTATE [Mantova IMPOSITIO] adhibentur; qualia sunt, suspensa hedera AD SIGNIFICANDUM VINVM VENALE; lapis, AD SIGNIFICANDUM agri terminum; ET VOCES humanae [[not bruti]] CERTO MODO CONNEXAE, AD SIGNFICANDAS ANIMI cogitationes et motus. The significatum: between the dictum and the implicatum – plus the emissum: where the consequtum fits in While Grice had a thing or two to say about meaning, it is somewhat that when providing a taxonomy of the ‘total’ SIGNIFICATION [sic] – cf. Read on Nicoletti – of a remark, he goes on to divide it between the DICTUM – ‘what is said,’ – “in in favoured use of this expression” – and what is IMPLICATUM. So where does the SIGNIFICATUM fit it? Consider Read’s variations on the insoluble. This is indeed from that passage in that obscure FOUNDATIONS OF LANGUAGE journal. My wider programme arises out of a distinction, which, for purposes wich I need not here specify, I wish to make WITHIN THE TOTAL SIGNIFICATION of a REMARK: a distinction between what the speaker has SAID (in a certain favoured, and maybe in some degree ARTIFICIAL, sense of ‘said’) and what he has IMPLICATED (e. g. implied, indicated, suggested), taking into account the fact that what he has implicated may be either conventionally implicated (implicated by virtue of the meaning of some word or phrase which e has used) or nonconventionally implicated (in which case the specification of the implicature falls outside the specification of the conventional meaning of the words used). WoW 118 And cf. Levinson, Pragmatics, for the setting of this into a scheme allowing also for NATURAL meaning – what is naturally meant – cf. Green on Grice’s Frown. It may well be the case that, if someone does utter ‘Socrates uttered the false,’ one might claim that WHAT WAS SAID – dictum – has no meaning – no SIGNIFICATUM. This is not precisely Grice’s view, who holds a ‘favoured’ yet pretty broad conception of ‘dictum’. He famously said in the second William James lecture that if reference is known to both parties in the conversation, an utterer says either ‘The Prime Minister is a good man’ and or ‘Harold Wilson is a good man,’ we may grant that in either occasion he has said the same thing as he otherwise would! In this ‘sense,’ “He was caught in the grip of a vice” differs from “Harold Wilson was a great man.” Which one is more ut nunc? In the sesnse in which I am using the word ‘say,’ I intend what someone as said to be closely related to the conventional meanin of the words (the sentence) he has uttered. Suppose someone to have uttered the sentence ‘He is in the grip of a vice’. Given a knowledge of the English language, but no knowledge of the circumstances of the utterance, one would know something about what the speaker has SAID, on the assumption that he was speaking standard English, and speaking literally. One would know that he had SAID, about some particular male person or animal x, that at the time of the utterance [UT NUNC] (whatever that was), either (1) x was unable to rid himself of a certain kind of bad character trait or (2) some part of x’s person [or body in case of animal] was caught in a certain kind of tool or instrument (approximate account, of course). Is this enough? We don’t know about Dumbleton, but it doesn’t seem enough for Grice: But for a full identification of what what the speaker has said, one would need to know (a) the identity of x, (b) the time of utterance [READ, UT NUNC], and (c) the meaning, on the particular occasion of utterance, of the phrase ‘in the grip of a vice [a decision between (1) and (2) above]. And here comes that great man that Harold Wilson was: This brief indication [he just delivering at Harvard] of my use of ‘say’ [his lectures at Oxford were a different matter – ‘Saying and Meaning’] leaves it open whether a man who says (today – nunc 1967 – Harold Wilson is a great man and another who says (also today – NUNC --) The British Prime Minister is a great man would, if each knew that the two singular terms had the same reference, have SAID THE SAME THING. Does this matter? Course not! Implicature happens! But whatever decision is made about this question, the apparatus that I am about to provide will be capable of accounting for any IMPLICATURES that might depend on the presence of one RATHER THAN ANOTHER of these singular terms in the sentence uttered. Such implicatures would merely be related to different conversational maxims! WoW 25 In introducting IMPLICATURE, Grice takes special care to consider the Latinate IMPLICATUM as the past-participle form; it’s a concoction – although used by Sidonius, Latin Dictionary -- said to do duty for not just ‘imply,’ ‘suggest,’ or ‘insinuate,’ but plain ‘mean’. (You should say what you mean – the March Hare). It may all boil down, again, to this past-participle, passive-voice ‘by’ construction. SIGNIFICATUM, But significatum by who or what? IMPLICATUM. But implicatum by whom or what? DICTUM, but by whom or what? Cf. Read on Sign. It is no wonder, at this stage we will assume, that the reader should wonder why all those mediaeval logicians were writing puzzles on what is meant by ‘Socrates said something false,’ as not SIGNIFYING the proposition or sentence that Socrates said something false, but merely as signifying, simpliciter, that Socrates said something false. They were just following Grice’s footsteps, or writing footnotes to it (Recall Whitehead, about whose quote the same can be said about pragmatics: “Metaphysics has largely been just a bunch of footnotes on Plato.”) Seeing that Read adopts “Sign” – in full bold type -- as a function – for ‘signification’ – to explore the logical form, as it were of the various claims related to Nicoletti, it may do to revise what Grice meant by trying to analyse meaning or Nicoletti may have meant by signification. This all evokes that occasion when, challenged by Mrs. Jack – nee Rowntree, a Tutorial Fellow at Somerville -- that Grice was offering a reductive theory of meaning, Grice played on the fact that he’d be at most offering an ‘analysis,’ never a theory!And Grice’s answer bears on Dumbleton. Meaning is a matter of INTUITION, not theory: Mrs Jack professes herself in favour of ‘a broadly ‘Griceian’ enterprise’ but wishes to discard various salient elements in my account – we might call these ‘narrowly Griceian theses’). What, precisely, is ‘braod Griceianism? And Later on (WoW, It remains to inquire whether there is any reasonable alternative programme for the problem of meaning other than the provision of areductive analysis of the concepts of meaning. The only alternative wich I can think of would be that of of treating ‘meaning’ as a THEORETICAL concept which, together, perpahs with other theoretical concepts, wlud provide for the primitive PREDICATES involved in ta semantic system, an array whose job it would be to provide the LAWS and HYPOTHESES in terms of which the phenomena of MEANING are to be EXPLAINED. Was this Dumbleton’s objection to Bradwardine? If this direction is taken, the MEANING of particular expressions will be a MATTER OF HYPOTHESIS and CONJECTURE rather than of INTUITION, since the application of theoretical concepts is NOT generally thought [perhaps praeter Dumbleton?] as REACHABLE by *intuition* or observation. But some of those like Mrs. Jack who object to the reductive analysis of meaning are also ANXIOUS that meanings should be INTUITIVELY RECOGNISABLE. How this result is to be achieved I do not know. Perhaps he would had he spent longer hours at the Bodleian! For Grice, ‘p’ – what is SIGNIFICTUM, DICTUM, IMPLICATUM -- is then a dummy, and he proposes an analysis of meaning in terms of its necessary and sufficient conditions. This is why in his example of the conclusion of an argument, one would hardly say that one means that r, in a conclusion of an argument, that has p and q, as premises. Grice has to restrict the analysans in terms of activated belief. And this yields in turn to a re-definition that leaves that problematic case as not falling under a case of something which is SIGNIFICATUM by the utterer. When Nicoletti speaks of the ‘animus’ of the ‘auditor’ – one feels he must be having something Griceian in mind, and not telling! It is interesting however to dwell a little on the ‘auditor,’ because, like Grice, Nicoletti does not wish to lose sight of the PHYSICAL side to the phenomenon under consideration.When de Saussure, the alleged Swiss father of modern linguistics, approached this, he had the Latin language to his disposal, so it’s all about the SIGNIFIE and the SIGNIFIANT. It’s all, too, about the vocal channel. The vehicle of meaning and signification: Enter the Emissum To the SIGNIFICATUM, the DICTUM, and the IMPLICATUM, we should add what, after Austin, we may call the EMISSUM. Grice explicitly uses ‘utter’ to cover not just the vocal channel, since a hand-wave may signify just as well. If Nicoletti is talking about the ears of his auditor – Grice prefers recipient or addressee – he seesms to be following Aristotle strictly in narrowing the analysis of that angle of the semantic triangle to the ‘phone,’ the vox. The clearest adherence by Grice to the iconic triangle is in “Meaning Revisited” where he explores the transcendental need for a correlation of a three-fold kind: psycho-linguistic, psycho-physical, and linguistico-physical – this may all relate to Nicoletti, and others who used ‘significant vel denotant’ rather freely. In the closing paragraph of the section on ‘Language, Thought, and Reality’ in ‘Meaning, revisited’ Grice explores this: It looks then, as if in order to achieve a characterization of the first [OUT OF THREE – one for each three angles of the triangle] kind of correspondence, between BELIEFS and THE WORLD, one has to make use of a PARALLEL kind of correspondence between UTTERANCES [and Read does speak of truth-conditions] OR SENTENCES and THE WORLD. Hence these latter correspondences may be not only possible but NEEDED if one is to be able to state, in a general way – as lecturers on logic like Nicoletti do – that CORRESPONDENCES of the psycho-physical kind actually obtain. However, though they may be required for expository purposes, it might still be the case that in order to SHOW that correspondences between SENTENCES and THE WORLD were desirable, not just for purposes of THEORETICAL exposition but FROM THE POINT OF VIEW of creatures who operate with such utterances or utterance-types, one still has to BRING IN the psychological states in specifying the conditions of suitability, desirability [AUDITOR’S ANIMVS], or whatever. That is, it might be that one can certainly formulate or characterise some notion of DIRECT CORRESPONDENCE between UTTERANCES and the WORLD, and this might have a certain LIMITED TELEOLOGICAL justification because it is needed to provide a general way of expressing the conditions for OTHER types of correspondence, but if one wants to provide a MORE GENERAL TELEOLOGICAL justification, one would need to make reference to BELIEFS and OTHER PSYCHOLOGICAL STATES [even in one’s audience – or one’s audience’s soul – AUDITOR’S ANIMVS in Nicoletti]. In other words, for a more general justification of the idea of TRUTH in application to sentences – ‘or indeed ‘bonus’ in application to arguments – one might have to bring in ALL THREE CORNERS [of the Peripatetic Triangle], including the missing one. Wow 290 Grice liked to play on this. We’ve seen in his treatment of ‘incorrigibility and privileged access’ that one may have MIS-learned the meaning (or ‘sense’, to honour Dummett’s Frege) of ‘hail,’ and use it to mean ‘snow.’ Another example Grice gives illustrates the point. This time again in response to Searle, has Grice witnessing a little girl thinking that some French utterance MEANS ‘Feel free to hand yourself a piece of cake’ – “whereas in fact the sentence means quite a different thing.” Grice wants to allow for the EMISSUM being a meaningful utterance in language L, but still being used by some odd utterer as a vehicle for the SIGNIFICATUM of something else. Like the knick-knack seller at Port Said, in this case, again Grice feels entitled and happy to say and allow that when he utters this French sentence or utterance – which does NOT mean, in French, ‘Feel free to hand yourself a piece of cake’ – given the appropriate circumstances – notably that he KNOWS the little girl thinks the utterance means just that – he DOES mean that the little girl is to hand herself of piece of cake. Or take the extreme example by Zipf, of the professor who utters a sentence in Hopi, phi-phi-phi-phi intending to induce in the soul of his auditor, as Nicoletti would have it, the belief that he, the utterer is mad, and cares nothing about stuff, whereas, as it happens, the Hopi sentence happens to mean quite a sensical and different thing (Zipf). This all relates to Dumbleton, of course. For, at Oxford, and Mertonm, he had found Bradwardine – and Nicoletti’s – externalist conception of meaning as too Putnamian (‘meanings ain’t in the head’). But de Occam has a point when he notes that, for all its imposition, imposing ‘homo’ and imposing ‘anthropos’ is NOT enough to INVALIDATE the fact that by uttering these EMISSA what the utterer intends to procure in his or her recipient’s ‘animus’ is the same ‘nota’ – which, for de Occam NATURALLY, means man. Nicoletti’s emphasis on the ANIMUS of the auditor seems not gratuitious, either. And seeing that, as Nardi recalls us, Nicoletti spent more than a term or two trying to teach those Paduans about what ‘the soul’ – anima – means, he seems to have keenly agree with Grice that it’s PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY that counts! Grice 1986:81. It is instructive to see that Grice would never have thought of delivering the John Locke lectures on REASONING, had he not been invited two years earlier to deliver the Immanuel Kant lectures at Stanford on aspects of reason and reasoning! It is interesting that of ALL words he could have chosen Pietro di Mantova, as cited by Read, chose, not ‘homo’ or ‘albus,’ but ‘if’ and ‘therefore.’ Grice once argued that he found it funny to be discussing the sense of ‘or’ – such a nondescriptive word, as if asking about the sense of ‘to.’ But also interestingly, Grice dedicated a few thoughts to both ‘if’ of course AND ‘therefore.’ Re the former, he criticised Strawson’s elitism to the blue-collar practitioners of calculus – as he calls them in WoW p. – for disregarding the Philonian ‘if’ in preference to the Diodoran. The strong theorist about conditionals is not infrequently a traditionalist who is offended by the invasion of the tranquil Elysium of logic by not always wholly gentlemanly and perhaps even occasionally blue-collared practitioners of mathematics and the sciences. Perhaps for this reason or perhaps for some other reason many strong theorists seem to me to have been a little overanxious to differentiate the concepts of their logic from the concepts espoused by the interlopers. I am inclined to assign the main guilt in this matter to the traditionalists, though considerable provocation may have been provided by the other side. WoW 62. When it comes to the ‘sign’ of ‘consequentia’, Mantova’s ‘therefore,’ Grice’s view annoyed Strawson. Why would Grice want to say that the implicature associated with ‘therefore,’ but not with ‘if,’ is CONVENTIONAL. The parallels had been traced with Frege’s idea of ‘colouring.’ For Grice notes: In some cases the conventional meaning [SIGNIFICATIO] of the words used will determine what is implicatetd, besides helping to determine what is SAID [DICTVM]. If I say (smugly), ‘He is an Englishman; he is, therefore, brave,’ I have CERTAINLY committed myself, by virtue of the MEANING [SIGNIFICATIO] of my words, to its being the case that his being brave is A CONSEQUENCE or (FOLLOWS from – is yielded – Kleene] his being an Englishman. So far so good. Grice continues: But while I have SAID that he is an Englishman, and said THAT he is brave, I do not WANT TO SAY that I have *said* -- emphasis Grice’s – (in the favoured sense) THAT it FOLLOWS from his being an Englishman that he is brave, though I have certainly INDICATED, and so IMPLICATED, that this is so. So what kind of implicature? I do not want to say that my utterance of the this sentence would be, STRICTLY SPEAKING [emphasis Grice’s], FALSE should the consequence in question fail to hold. So SOME [emphasis Grice’s] implicatures are ‘conventional,’ unlike the one one with which I introduced this discussion of implicature [He hasn’t been to prison yet  he is potentially dishonest]. WoW 25 Proposition, meaning, universals: containment and analyticity. Read makes an excellent point about Martin having made an excellent point by having ‘contaiment’ as a keyword. What is MEANT by the conclusion is already CONTAINED in the premises. The conclusion may mean JUST THE SAME, or more, than what the premises mean. Interestingly, when Quine was playing with empiricism being dogmatic, and happening to find himself at Oxford at the time, he also found that Grice and his former pupil Strawson, were thinking of diverting the visitor with some ‘defense of a dogma.’ Quine infamously disliked the Oxonian debate format of this joint seminar by Grice and Strawson where Quine was not even allowed to ‘utter.’ Auditors they call them. Grice and Strawson came up with utterances like ‘My neighbour’s three-year old is an adult’ as a contradiction in terms, or, strictly an analytically false utterance – which Quine had thought was an empty class. The idea being that in an analytically TRUE sentence, what is contained by the subject (not a three year old, but older than 21) is contained in the predicate (‘adult’). Interestingly, Bennett, disregarding the fact that Grice’s Meaning was from 1948, and his joint paper with Strawson was written in 1956, goes on in Linguistic Behaviour to suppose a link. One of those who came to the defence of analyticity was Grice (Gric and Strawson 1956), and soon after that his ‘Meaning’ paper appeared. Could it help against Quine? One might think so. For Quine’s question was: How can one distinguish analytic from synthetic before one has distinguished what is meant from what is contingently implied? It is NATURAL to see Grice’s paper as a response to this – an explanation of ‘meaning’ in terms which do not use ‘analytic’ or ‘proposition’ or any of those other. But really it is not. Bennett 255. Ah well, well worth the try. It may be worth suspecting that Strawson DID think it was – and the reason why he asked his wife Ann to type Grice’s ‘Meaning’ – and send it to the editos of The Philosophical Review without telling Grice – until the paper had been accepted for publication! (Interestingly, in the Preface to WoW Grice refers to Bennett’s proposal that all Grice’s papers should NOT be ordered CHRONOLOGICALLY, but in terms of ideas – ‘Good idea, but not one that I followed.’ It is the same idea that seems to be in the air when it is alleged that a valid consecutum or consequentia is one where the associated conditional having the premises as apodosis and the consequence as protasis is itself analytic, i. e. a tautology. So perhaps to the EMISSUM and the SIGNIFICATUM, and to the DICTUM and the IMPLICATUM, we should add the CONSECUTUM? p. 202 WOW. Which is back to Hobbes in Computatio. For Hobbes had written in Latin, and then Englished: Now those things we call SIGNES are the Antecedents of their Consequent, and the Consequent of their Antecedents, as often as we observe them to go before or follow after in the same manner. For example, a thick Cloud is a Signe of Rain to follow; and Rain a SIGNE, that a Cloud has gone before. … And of Signes some are Naturall, wereof I have already given an example; toerhs are arbitrary, namely , those e make choice of at our own pleasure; as a bui hung up, signifies that Wine is to be sold there; and Words so and so connected, signifie the Cogitations and Motions of our Minde. p. 11 of his works. The Latin being closer to Nicoletti! For Hobbes says in the Latin quotation above. P 13 of the Latin version. Containment is a bit like ‘content’ – and ‘content’ features in Nicoletti’s account of what a PROPOSITIO (an indicative sentence in his use) means – vide DE SIGNIFICATO PROPOSITIONIBUS, for the British Academy. Grice was never so sure. He ended up thinking that a theory of content alla Peacocke was the right thing to develop, and that a propositional CONTENT – if not a proposition – may well be what we need to make sense of WHAT we believe or signify. But he was usually annoyed when confronted with the idea that his theory was COMMITTED to the abstract entity of a proposition – his ‘Reply to Richards’, in P. G. R. I .C. E. As Eco has pointed out, though, the ‘consequence’ approach to the sign is just one of the two possible stands. The other is the EQUIVALENCE relation. As Mainetti puts it in the synopsis of these two views in Augustine. So we end the study with a long quote from Mainetti, just for the sake of Bologna – Italy’s and indeed Europe’s (the world’s?) oldest varsity! RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa¬ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al¬ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo¬ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen¬ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e¬ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet¬ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi¬ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet¬ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im¬ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag¬ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es¬ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe¬ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela¬ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio¬ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti¬ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte¬ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri¬ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag¬ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin¬ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta¬ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin¬ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra¬ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale: onIE=>c m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic¬ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u¬ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al¬ tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet¬ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co¬ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro¬ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in¬ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma¬ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili¬ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun¬ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui¬ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec¬ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per¬ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri¬ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia¬ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto¬ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce¬ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di¬ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co¬ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen¬ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag¬ gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co¬ se che significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemo¬rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con¬ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in¬ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca¬ si: il primo caso è quello in cui il locutore produce un se¬ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri¬ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife¬ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono¬ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co¬ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co¬ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es¬ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual¬ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi¬ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive¬ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga¬ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi¬ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte¬ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani¬ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). It seems we are on safe ground when he hold Nicoletti to share with Grice and Hobbes the sign-as-consequence approach. If Dummett thought that Frege’s Sinn was transparent, perhaps we shouldn’t be criticised if we add the SENSATVM to the whole thing. After all, mediaeval logicians – and some theologians (Aquinas), lectured on DE SENSATO, and one wonders what one means. The sententia, or oratio, is meant to reflect this sensorial side to it. But from SENSATVM to SENSVM there is more than perhaps Aquinas would have sensed! The SENSATVM features largely in Nicoletti who made part of his career in criticizing what Gregorio da Rimini had been saying about ‘sensvm simplex’ versus ‘sensvm compositvm’! The Griceian lesson While it would be excellet to pun on Paul of Venice and Paul of Harborne, it happens to be the case that Paul of Venice was not from Venice, and not even a Venetian, but a Friulian. PAULUS HARBORNENSIS sounds fine for Grice who hailed from Harborne in Staffordshire (present Warwickshire, more present West Midlands). Some prefer Paul GRICEUS. The right alphabetical ordering of Nicoletti, however, should be under “N”! Gif hē of wege ænigne gebrohte .. Bosworth read in L. Pen. 16, and again in Th. Ii. 284, 12. And he paused. It went on: ðæt ic mæne gif hē man on synne bespeóne. That was all very well, as Grice would say, but he (Bosworth, not Grice) had now to self-refer: he was about to convey a particular sense to what he just read. And we may well say that his rendition was impeccable: if he had brought any man out of the way …., what I mean is, if he have lured any man to sin. Now, THAT would have been a bad thing – because, well, it’s not all about knowing your meaning from your moaning! And, to echo Putnam’s quip, it ain’t the case that every moaning ain’t in the head! REFERENCES ANDERSON, A. and N. BELNAP. (1975). Entailment: the logic of relevance and necessity. Princeton: Princeton University Press. Cited by Read as allowing abuse of ‘Sign. ARISTOTLE, Categoriae et Liber De Interpretatione. Oxford monolingual edition. See MINIO-PALUELLO. AUNE, Bruce. (1964). On the complexity of avowals, in Philosophy in America, Routledge. – as enjoyed by Grice. AUNE, Bruce. Recollections of Saturday mornings at Corpus, for The Grice Club. AUSTIN, J. L. Philosophical Papers. AUSTIN, J. L. How to do things with words. Edited by J. O. Urmson and Marina Sbisa. Oxford, Clarendon. For OED citation on ‘that’-clause. ABBAGNANO, ‘Significazione’, in Dizionario di filosofia. BELLUCCI, F. On Grice on significatio. And Bologna. BENNETT, J. F. The meaning nominalist strategy. 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What Grice would say – obligatory Griceian comment: “Nicoletti’s diagramme for ‘arbor porphyriana’ is brilliant – ending with “Plato,” “Socrates.” A latinist, and there some back then, would end with Catone and Cicerone! I especially like his squaring the square of opposition! – one of Grice’s most perdurable problems (WoW, Strand Six). A veritable genius, this Nicoletti.” -- Not under ‘Venezia’! Also known as ‘Paolo di Venezia,’ philosopher, the son of Andrea Nicola, of Venice He was born in Fliuli-Venezia Giulia, a hermit of Saint Augustine O. E. S. A., Nicoletti spends three years as a student at St. John’s – or some other Oxonian college -- , where the order of St. Augustine had a ‘studium generale’ at Oxford (them were the days), and teaches at Padova, where he becomes a doctor of arts, if there’s such thing (Grice was a mere B. A. Lit. Hum.). Nicoletti also holds appointments at the universities of Parma, Siena, and – to honour Bellucci, Bologna. He is active in the administration of his order, holding various high offices. He composes commentaries on several logical, ethical, and physical works of Aristotle, or the Lycaeum (We don’t call Aristotle by name – Minio-Paulello). His name is especially connected especially with his best-selling “Logica parva.” Over 150 manuscripts survive – ‘some of them more or less illuminated’ (Grice) -- and more than forty printed editions of it are made on different occasions. His huge sequel, “Logica magna”, by contrast, is a flop. These Oxford-influenced tracts contribute, however, to the favourable climate enjoyed by Oxonian semantics in especially northern Italian universities, or studia, or ginnasia, as the Italians prefer to call them (‘University’ sounds a bit pompous). Obligatory Griceian comment: “My favourite of Paul’s tracts is his “Sophismata aurea”.” – for Grice thought that Nicoletti’s sophismata reminded him of his philosoper’s paradox! How peaceful for a philosopher to die (give up his ghost, as Grice has it) while commenting on Aristotle’s “De anima.”!” His nom de plum is “Paulus Venetus,” but not for the Dizionario friulano, that has him under the N of Nicoletti – strictcly, Terra. Paolo de Nicoletto. Paolo da Venezia. Wikipedia has a Nota disambigua.svg Disambiguazione"Paolo Veneto" rimanda qui. Se stai cercando lo scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi Paolino Minorita. But we are not, so we won’t. Wikipedia goes on to reproduce: Paolo da Venezia in una stampa Professore Paolo da Venezia, o Paolo Veneto, vero nome – for there are vacuous names, and non-vacuous names, and among these, true and false names. N. (Udine). Filosofo. Eremitano, studente [or pupil] a Oxford, e docente [or lector] a Padova, ove ha tra gl’allievi Paolo Della Pergola [vide under Pergola – Nardi says we should study the scuola di Pergola more profusely. Divenne ambasciatore veneto presso la corte polacca. Per le sue idee teologiche e esiliato a Ravenna ma, dopo, gli è consentito di tornare a Padova. Seguace di Occam [so perhaps we should expand on what Occam says on significatio] e Brabante e autore di vari trattati, tra cui alcuni commenti al Lizio or Lycaeum – the spelling Lizio for Lycaeum is RARE, but indeed attested in one old dictionary. Il suo trattato “Logica magna” e utilizzato come testo di insegnamento della logica a Padova e può essere considerato la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo. Opere: “Logica,” “Commenti alle opere di Aristotele,” “Expositio in libros Posteriorum Aristotelis,” “Expositio super VIII libros Physicorum necnon super Commento Averrois,” “Expositio super libros De generatione et corruptione,” “Lectura super librum De Anima,” “Conclusiones Ethicorum” “Conclusiones Politicorum,” “Expositio super Prædicabilia et Prædicamenta.” “Scritti sulla logica: Logica Parva or Tractatus Summularum, “Logica Magna”; “Quadratura”; “Sophismata Aurea. Altre opere: “Super Primum Sententiarum Johannis de Ripa Lecturae Abbreviatio,” “Summa philosophiæ naturalis,” “De compositione mundi. Quaestiones adversus Judaeos. Sermones. N. in Dizionario di Filosofia Treccani, riferimenti in. Vedi Pergola, Dizionario di Filosofia Treccani. Garin, Storia della filosofia italiana, Edizione CDE su licenza della Giulio Einaudi editore, Milano, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario di Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto storico italiano per il medio evo, Roma, Nuovi studi storici, Perreiah: ‘A Biographical Introduction to N,’ Augustiniana. N. Logica, Venetiis, Imperatore, Imperatore, Gori, Filosofico, Conti, Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Filosofia. DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI, PAOLO DI NICOLETTO, PAOLO DI NICOLETTO (? - 1429), AGOSTINIANO, TEOLOGO, FILOSOFO. Informazioni. Udine † 15 giugno 1429, Padova. Forma alternativa: Paolo Veneto. Attività: agostiniano, teologo, filosofo. Luoghi di attività: Venezia, Oxford, Padova, Buda, Ulma, Cracovia, Kosice, Siena, BOLOGNA (vide BELLUCCI), Perugia. Immagine del soggetto: Paolo di Nicoletto in cattedra, Venezia, Biblioteca nazionale marciana, ms. Lat. VI, 123 2464, f. 162v. Come per la maggior parte dei protagonisti della vita intellettuale nell’epoca di mezzo, anche per l’udinese P. di N., più noto come Paolo Veneto, disponiamo di poche informazioni sicure relative alle sue origini. Nasce certamente a Udine, negli anni intorno al 1370, da Nicoletto del fu Antonio di Venezia, stabilitosi nel capoluogo del Friuli per lo meno dal 1352, quando fa richiesta della cittadinanza, ottenuta il 21 marzo 1361. Il nome della madre, Elena, privo peraltro di ulteriori informazioni, ci perviene da un’indicazione di Antonio Joppi, a tutt’oggi comunque non suffragata da prove documentarie. Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia, che deriverebbe da un Nicoletto la cui sepoltura, nel chiostro domenicano di S. Pietro Martire, risalente al tempo del patriarca Antonio Caetani, era ornata di un’iscrizione con le insegne nobiliari. Antonio Joppi identifica quest’iscrizione, in seguito andata perduta, con quella descritta in una nota manoscritta in calce ad un’edizione latina di Platone, relativa ad un «Nicolettus de Broio auctor de Venetiis». Secondo questa linea di eruditi, dunque, P. sarebbe membro della nobile famiglia dei Nicoletti di Udine, poi di Cividale, le cui vicende furono ricostruite da Francesco di Manzano nel 1894. Probabilmente negli anni intorno al 1383 P. fu accolto nell’ordine degli Eremiti di S. Agostino, presso il convento di S. Stefano a Venezia. Qui egli compì il suo noviziato e la prima formazione culturale sino al 9 dicembre 1387, quando il priore generale dell’ordine Bartolomeo da Venezia lo assegnò come studente al convento dei Ss. Filippo e Giacomo di Padova, sede dello “studium generale” della provincia della Marca Trevigiana. Di lì a pochi anni, il 31 agosto 1390, il priore generale destinò P., insieme con il cugino più anziano Paolo Francesco da Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese della provincia, e non dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per intraprendere il percorso di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in teologia. In quegli anni lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per gli studenti italiani il compimento degli studi superiori presso l’università di Parigi, di obbedienza avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da Venezia aveva in effetti precluso formalmente questa possibilità agli studenti agostiniani. Durante il triennio di permanenza ad Oxford P. ha la possibilità di conoscere ed approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati dell’insegnamento filosofico e di quello logico in particolare. Tornato a Padova, sempre insieme al cugino, mette a frutto questa esperienza nel corso del suo insegnamento come “cursor”, probabilmente dal 1393 al 1396, e poi come “lector”, sino al 1401. Risale a questi anni la composizione delle sue opere logiche più fortunate, la Logica parva e la Logica magna. La prima, diffusa ancor oggi in oltre 80 codici e in 25 edizioni a stampa, è un manuale sintetico, ma molto aggiornato, composto sul modello dei manuali inglesi contemporanei, che arrivò negli anni a contendere il primato nel settore alle duecentesche Summulae logicales di Pietro Ispano e fu persino reso obbligatorio nel curriculum universitario padovano dal Senato di Venezia nel 1496. La seconda, molto più estesa, conosce invece una diffusione assai più limitata, anche perché, rivolgendosi agli specialisti, forniva un panorama approfondito e molto dettagliato di tutte le più recenti dottrine logiche. Testimonianza in quegli stessi anni (1396-1397) dell’interesse immediato che le novità importate da P. seppero suscitare si riscontra nel carteggio di Pietro Tomasi, studente a Padova e poi “magister” di filosofia a Pavia, che si rivolge al suocero Gian Ludovico Lambertazzi, professore di diritto presso lo studio padovano, e allo stesso Paolo Francesco di Venezia per ottenere copie delle due opere ancora in corso di redazione. È con tutta probabilità a Padova che N. trascorse i primi anni del XV secolo, impegnato a completare il suo curriculum accademico con un’intensa attività didattica e di studio. Frutto del suo lavoro di baccelliere in teologia è la Super primum Sententiarum Iohannis de Ripae lecturae abbreviatio, terminata prima del 1402, mentre al suo insegnamento in arti e in filosofia (anch’esso parte dei doveri di un baccelliere in teologia) si debbono ricondurre varie opere di carattere esegetico, come le Conclusiones Ethicorum, le Conclusiones Politicorum, le Conclusiones Posteriorum Analyticorum e probabilmente anche due opere logiche come la Quadratura e i Sophismata. Il suo primo grande commento aristotelico, la Lectura super libros Posteriorum Analyticorum, fu compiuto nel 1406, quando già N. aveva ottenuto il grado di “magister artium et theologiae”. A quest’opera logica fecero seguito, rispettivamente nel 1408 e nel 1409, due opere di filosofia naturale: la Summa philosophiae naturalis e l’Expositio super Physicam Aristotelis. A partire dal 1408 troviamo il teologo agostiniano tra i promotori dello studio padovano, quindi l’inizio del suo insegnamento universitario deve essere collocato prima di questa data (in precedenza la sua attività didattica si era svolta all’interno dello studio agostiniano di Padova). Nel periodo che va dal 1408 al 1420 egli compare regolarmente, sempre nel ruolo di promotore, nei registri delle lauree padovane, con le sole eccezioni degli anni 1409, 1412 e 1419. Tra coloro, oltre una trentina, che ottennero i gradi sotto il suo magistero si annoverano i patrizi veneti Nicolò Contarini, Pietro Giustiniani e Marco Lippomano, il benedettino Giovanni Michiel, l’umanista e scienziato Giovanni Fontana. Suoi studenti furono inoltre il medico Michele Savonarola, il giurista Ludovico Foscarini e Giovanni Antonio da Imola, che gli succederà sulla cattedra padovana. Oltre a dedicarsi ad un’intensa attività accademica, in questi anni N. assunse anche responsabilità all’interno della sua congregazione ecclesiastica, cominciando da quella più elevata: il primo di maggio 1409, poco più di un mese prima di essere deposto dal concilio di Pisa, il pontefice Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, lo nomina vicario generale dell’ordine agostiniano. Nulla si sa della sua attività da lui svolta in questa carica e neppure se nei mesi successivi egli fosse al seguito del papa al concilio di Cividale. È noto invece che pochi mesi dopo, nel febbraio 1410, forse in conseguenza del declino politico di Gregorio XII, rassegna il suo incarico. Nel medesimo periodo, tuttavia, N. fu anche priore provinciale della Marca Trevigiana e come tale, per ordine del Consiglio dei Dieci di Venezia, comminò il 28 agosto 1409 la pena del carcere al confratello Simone da Ancona, reo di aver continuato a sostenere il pontefice deposto a Pisa. In breve tempo le relazioni di N. con il governo della Serenissima si fecero ancora più strette: verso la fine del 1409 fu inviato come “orator” a Buda presso il re d’Ungheria e re dei Romani Sigismondo del Lussemburgo, allora diviso da un’aspra contesa con la Repubblica Veneta per il dominio della Dalmazia, con l’incarico di preparare il terreno per un’ambasceria ufficiale che doveva tentare un accordo. Il suo soggiorno presso la capitale ungherese ebbe termine nel gennaio 1410, ma nel luglio dello stesso anno il governo veneto utilizzò nuovamente i suoi servizi come ambasciatore a Ulma in Germania e presso Federico duca d’Austria e conte del Tirolo. In seguito a questi incarichi la Serenissima compensò P. con la somma di cento ducati e con il sostegno nel conseguimento della cattedra padovana retta in quel momento da Biagio Pelacani da Parma. L’anno successivo quest’ultimo lasciò in effetti lo studio padovano per quello parmense e l’agostiniano fu nominato al suo posto. Ancor più importante la missione che fu affidata a P. il 23 gennaio 1412: in un momento assai critico per la Repubblica Veneta, con le truppe imperiali di Sigismondo che occupavano il Friuli, egli fu inviato presso la corte di Ladislao Iagellone, re di Polonia, con l’incarico di fare il possibile per stabilire con la Polonia un’alleanza in funzione anti-ungherese, così da stringere Sigismondo da sud e da nord e forzarlo ad abbandonare la sua impresa italiana. Le istruzioni diplomatiche contenevano anche la raccomandazione di manifestare al re polacco la piena disponibilità di Venezia a sostenerlo, nel caso questi volesse lanciarsi a sua volta nell’avventura imperiale. P. giunse a Cracoviaprobabilmente a fine febbraio o inizio marzo 1412, poi a fine marzo si trasferì a Kosice, in Slovacchia, dove si trovavano re Iagellone e re Sigismondo, che avevano già firmato un accordo. Il risultato di questa prima fase dell’ambasceria fu di ottenere l’offerta da parte del re polacco di fungere da mediatore tra Venezia e Sigismondo per dirimere la questione della Dalmazia. P. rientrò a Veneziaprima del 10 maggio, ma fu subito rimandato dal re polacco, in quel momento a Buda alla corte di Sigismondo, visto il credito che era riuscito a guadagnarsi presso di lui. L’agostiniano si unì quindi agli ambasciatori Tommaso Mocenigo e Antonio Contarini, che dovevano trattare la pace con Sigismondo, ma nonostante l’appoggio di re Iagellone l’iniziativa diplomatica non poté che constatare l’impossibilità di trovare uno spazio di mediazione tra i due contendenti e a fine giugno 1412 l’ambasceria fu di ritorno a Venezia. P. appariva ormai aver raggiunto in questi anni notevoli traguardi: titolare di una cattedra prestigiosa nell’ateneo padovano, ben noto negli ambienti accademici per la sua dottrina e le sue opere, autorevole rappresentante del proprio ordine, poteva per di più vantare una notevole esperienza diplomatica ed importanti relazioni a Venezia e nelle corti dell’Europa centro-orientale. La sua attività di commentatore aristotelico prosegue inoltre alacremente: sono da ascrivere probabilmente a questo periodo, vale a dire tra il 1410 e il 1420, uno Scriptum superlibros De anima, una Expositio super De generatione et corruptione e la monumentale Lectura super libros Metaphysicorum. Ma improvvisamente nel 1415 la sua fortuna accademica e politica comincia a subire qualche contraccolpo: il 6 giugno il senato veneziano vota una censura che colpiva P., insieme con il medico Antonio Cermisone, per essersi assentato da Padova e dai propri doveri accademici senza permesso; tre mesi dopo il Consiglio dei Dieci lo invita a discolparsi da accuse (non meglio precisate) e gli proibì di lasciare Padova senza una licenza espressa del consiglio stesso; ancora, un anno dopo, nel maggio 1416 la richiesta di P. di ottenere la licenza fu respinta e solo nel giugno dello stesso anno fu concessa, in considerazione dei doveri concernenti la sua carica di priore provinciale, ma con la condizione che non si recasse a Costanza o in altro luogo dove si fosse celebrato il concilio. Le circostanze di questi provvedimenti disciplinari non sono ulteriormente note, ma forniscono l’informazione che P. era nuovamente divenuto priore provinciale della Marca Trevigiana (lo era già dagli ultimi mesi del 1414) e soprattutto che non godeva più della fiducia di Venezia, che non lo voleva presente al concilio. Peraltro l’anno successivo il senato veneziano, con un atto certamente onorifico, gli concesse il privilegio di indossare il berretto nero dei patrizi, privilegio poi esteso, alla sua morte, a tutti i membri del convento di S. Stefano. Di lì a qualche anno, tuttavia, i rapporti di N. con il governo della repubblica veneta si guastarono irrimediabilmente. Per motivi che permangono tuttora ignoti il teologo agostiniano, nuovamente eletto priore provinciale dal capitolo dell’ordine tenuto a Ferrara nel maggio 1420, venne sottoposto ad un procedimento disciplinare da parte del Consiglio dei Dieci che si concluse in settembre con il suo bando quinquennale a Ravenna, da estendere a dieci anni qualora avesse infranto il divieto di riattraversare anzitempo i confini del dominio veneto. P. chiese ed ottenne una proroga di un mese, allo scopo di rimettere nelle mani del priore generale Agostino Favaroni le questioni connesse con la sua carica di provinciale, poi nell’ottobre 1420 fu assegnato dal generale al convento di Siena e gli fu concessa la licenza di insegnare nello studio di quella città. Da quel momento P. non rimise più piede in territorio veneziano fino ad un anno prima di morire. A Siena rimase per quattro anni; in questo periodo i suoi biografi, e per primo Cristoforo Barzizza che tenne la sua orazione funebre presso lo studio patavino, collocano un episodio in cui P. avrebbe agito come un inquisitore, sfidando e sconfiggendo in una disputa l’eretico Francesco Porcario, forse un fraticello, che finì per questo sul rogo. Il Barzizza parla a questo proposito anche di uno scritto antiereticale di P., di cui sinora tuttavia non sono state rinvenute tracce. Venne designato reggente dello studio agostiniano di Siena; redasse per la prima volta un testamento, in cui lasciava al convento padovano i suoi libri e titoli veneziani («de camera imprestitorum comunis Venetiarum»), che egli deteneva su licenza del priore generale, per il valore di mille ducati d’oro, come forma di risarcimento per i gravami e le spese che detto convento aveva dovuto sopportare per la sua lunga permanenza, nonostante il suo convento nativo fosse quello veneziano di S. Stefano. N. venne assegnato al convento di Bologna, con licenza di insegnare nello studio cittadino in qualsiasi materia. Durante il soggiorno felsineo si ricorda una sua disputa con il maestro Nicolò Fava, valente filosofo e dialettico di inclinazioni dottrinali opposte a quelle di P. La sua permanenza a Bologna tuttavia non dura a lungo, poiché già nell’ottobre 1424 fu assegnato al convento di Perugia, nuovamente con licenza di insegnare presso lo studio cittadino. Gli anni successivi, a Perugia, videro P. impegnato in attività didattiche (gli fu concesso ad esempio di esaminare alcuni studenti agostiniani per il conferimento del titolo di “lector”) e nella stesura del suo ultimo commento aristotelico, l’Expositio super Universalia Porphyrii et super Praedicamenta Aristotelis. I registri dell’ordine agostiniano informano inoltre che P. redasse una seconda versione del suo testamento, in cui furono aggiunti come beneficiari la sorella Lucia e il confratello e assistente Nicola da Treviso, e che il primo di agosto dello stesso anno gli fu concessa licenza di recarsi a Roma ogni volta che i suoi lavori lo rendessero necessario. In occasione delle dimissioni del priore di Perugia, gli fu conferito l’incarico di reggere il convento durante la vacanza e di scegliere il nuovo priore ed inoltre a lui toccò di svolgere la funzione di visitatore presso lo stesso convento e quello di Todi. Infine, nel giugno 1428, in seguito ad una supplica fatta pervenire insieme con la raccomandazione del cardinale di S. Croce, il Consiglio dei Dieci di Venezia revocò finalmente il bando comminato otto anni prima e P. poté far ritorno a Padova e riprendere il suo insegnamento, anche se soltanto per pochi mesi, giacché il 15 giugno 1429, mentre teneva il corso sul De anima di Aristotele, morì. Oltre alle opere sopra ricordate, rilevanti soprattutto la sua attività di commentatore aristotelico e di maestro di teologia, P. lasciò anche una raccolta di Sermones quadragesimales, uno scritto antigiudaico, le Quaestiones XXII de messia adversus Judaeos, un’opera mariologica, il De conceptione Beatissimae Virginis Mariae, una versione latina della Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo e diverse orazioni. Secondo il giudizio di Alessandro Conti, il più recente studioso del suo pensiero, P. fu «il più importante pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed interessanti logici del medioevo». La sua fama e le sue opere contribuirono a fare dello studio patavino un centro intellettuale di rinomanza europea; le sue dottrine, improntate al realismo degli universali in ambito ontologico e ad una linea vicina a quella dell’aristotelismo moderato di Alberto Magno e d’AQUINO nel campo della filosofia naturale, innescarono in Italia un dibattito scientifico i cui sviluppi condussero nel corso del XV secolo ad un rinnovamento dell’orizzonte culturale europeo. CHIUDI. Andrea Tabarroni. Bibliografia M. NICOLETTI, Vita dei tre Paoli, ms BCU, Joppi. F. MOMIGLIANO, Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del suo tempo (Contributo alla Storia della filosofia del secolo XV), Udine, Tipografia G.B. Doretti estratto dagl’Atti dell’Accademia di Udine CESSI, Alcune notizie su N., «Bollettino del Museo civico di Padova, GENTILE, Intorno alla biografia di N., in Studi sul Rinascimento, Firenze, Sansoni, BOTTIN, Logica e filosofia naturale nelle opere di Paolo Veneto, in Scienza e filosofia all’Università di Padova nel Quattrocento, a cura di A. POPPI, Trieste, Lint, PERREIAH, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green (Ohio), Bowling Green State Universiy; S. DE FANTI, La missione diplomatica di Paolo Veneto al re di Polonia: il decisivo contributo polacco alla conoscenza della biografia del Nicoletti, in Memor fui dierum antiquorum. Studi in memoria di Luigi De Biasio, a cura di P.C. IOLY ZORATTINI - A.M. CAPRONI, con la collab. di A. STEFANUTTI, Udine, Campanotto; A.D. CONTI, Essenza e verità. Forme e strutture del reale in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo medioevo, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 1996; C. FROVA - R. NIGRI, Un’orazione universitaria di Paolo Veneto, «Annali di storia delle università italiane; N., Super primum sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio. Liber 1, ed. crit. parz. F. RUELLO, Firenze, Edizioni del Galluzzo; N., Logica Parva. First Critical Edition from the Manuscripts with Introduction andCommentary, ed. A.R. PERREIAH, Leiden-Boston-Köln, Brill. LOGICA PAVLI rectam atgemendatam. Additis quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon Tabulao figuris. VENETI HABES IN HOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira quad a brevitatem atos facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab eximioætatis suæ magistro Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti Heremita Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in animo studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re est annexa doctrina. Ideo volens cap. s. et medium retinere utriusg sapiensnam 5. ethic, turam extremt, compendium utile construxi iuveni t. co. 6. ВB bus pluribus diui sum tractatibus, Quorum primus summularum tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit, solutionem ad dens responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait t- C.4 . PHILOSOPHUS in prohemio phylic. sumic exordsum, ideo Dislot tractatus primus terminum [TERMINVS] sic diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et eius divisione quide. i. II suppositionum declarat mareriam. III consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir probativam. V ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar artem et viam. VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio. c. TERMINUS EST SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars propinquae iusdem, ut: “homo”, lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur propinqua quia oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di 2. ecin. i Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo. Terminum quidam est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et remotas, propinqua top. c. 2 cius vide SIGNIFICATIVUS est ile qui per se sumptus nihil REPRESENTAT --: ut s. “me,” “te,” “omnis”, “nullus,” “quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles. Terminorum quidam si secunda significant naturaliter et quidam AD PLACITUM. Termi divisio p nus naturaliter si significans est ille qui apud omnes eius qua vide de m efd RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in primor mente. Terminus AD PLACITUM significans est ille qui ye. c. i. et NON apud OMNES eiusdem est re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui apud nosft. B Paul. sin significat ‘hominem’, sed apud alias nationes nihil significant, ut sunt greci (“anthropos,” “aner”). Reefo. Terminorum quidam est categorematicus, et quida 3 S. colū. SYNcategorematicus.Terminus categorematicus est pri. diui. ticularia particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu. Aduerbia uerbum, et coniunctiones ha minum. i. rem quæ non est terminus dato que effet, ficut TRACTATVS Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle signi Voety fancarious est ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã tasuely “homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam cum alio habet proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siue en imponatur in oratio divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”, “nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et præpositiones (“to”), et adverbial et coniuctiones. Signa namqz distributiua habent officium, fal. 3. quia determinant distributive, universalia yłr, et par bent coniungere terminus vel orationes. Terminorum quidam est prime intentio Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis. Terminus primæ ma, sol. intentionis est terminus mentalis [Occam, Geach] significans non ter D“homo, significat sor. et pla. quorum nullus potest esse terminus. Terminus autem secunde intentionis est terminus mentalis significans solum modo terminum A vel propositionem, ut ili termini mentales, nomen, verbum, participium, propositio, oratio et huius modi. Nis est terminus vocalis [non mentalis] vel scriptus significans solum B modo terminum vel propositionem utili termini vocales vel scripti, nomen, verbum participium, athuius modi. Terminorum quidam funcin complexi, et quidam complexi. Terminus in 6. diui complexus vocatur dictio – ut: lylapis,ly lignum. Sed fioVide terminus complexus est oratio – ut: “homo [est] albus”, lor. et Paul. in placo, deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter considerat: ideo de his restat deffnitiones assignare. NOMEN est terminus significativus lo. ma.f. SINE TEMPORE cuius nulla pars aliquid significat separa dissintta – ut: “homo”. In ifta definitione ponitur terminus lotionoie cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua verso: dicitur significatiuus, quia termini non significativi depri non funt nomina apud logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”, et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad differentiam verbi et participia, quæ significant *cum* tempore. Ponitur: ‘cuius D nula pars aliquid significant separata’ -- ad diferentiam orationis, cuius partes significant separate mo pyo er.c.c Terminorum quidam eat s. diuifio prime impositionis, quidam secundæ. Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi Boe. in ficans non terminum -- ut “homo”, et “animal” in voce vel in scripto. Terminus autem secundam impositio. In princ. L3 Via de nominee et uerbo ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus principa . Defini. V uuset extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid significar separata, ut “curre” c vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo, temporaliter significativus, ad eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum apposito sicut verbum. ceterg autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione nominis. Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus” deữ effe. Vltima particular ponitur ad Piroca Jüfferentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc. cogeneris, quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta. Oratio perfecta est ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio imperfecta est ila quæ imperfectum sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d tres sunt species orationis perfectæ quia orationum perfectarum. Alia INDICATIVA – ut: “Homo currit” . Alia est oratio imperativa [cf. Grice citing Hare, Imperative sentences, Mind, 1947]– ut: “doceioannem.” Alia ed incelreligie ineis oratio optative – ut: “Utinam essem bonus logicus”. fint ap te nate. VERBUM est terminus temporaliter significati differentiam nominis quod significat sine tempore. Secundo dicitur, et extremorum uniciuus: ad differentia participium quod significar cum tempore, sed non unitfup 0 -3 gñare fectū sen bus vide ilo, ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua verum vel falsum significans – ut: “Homo currit” -- ponitur oratio lo non e converso. Secundo dicitur indicativa. quia Cola indicari va est propositio, non autem imperativa nec optativa. Vicimoannectitur: verum vel falsum significans: propcer tales orationes. Cortes potest, plato in PS pro qui alia categorica alia hypothetica. Propositio ca divisio. Categorica est ila quæ habet subiectum prædicatum et Vide in copulam tanquam principales partes fui – ut: “Homo est animal.” l o,m a . f o animal. Subiectum est ly “homo”, prædicatum uero, 101.col, ly “animal”. Copula illud verbum “est”: quia coniungit tum. Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum. vide licet,ły “currens” quod patet in resolvendo illud uerbum “currit.” -- in: sum currens, es currens, est currens, et suum participium. Subiectum est de quo aliquid dicitur – ut: “homo”. Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut: “animal.” Sed copula Quid (u bicctuz semper est verbum substantivum: “sum currens”, “es currens vel hom”, “est homo et currens.” De quidp. propositione hypothetica posterius dicetur ad cuius tum et C differentiam point urilla particula: principales partes quid co . D sint indicatiue. Quia non significant verum nec falsum. Diffini cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub propositione contentas sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum predicato. B rir est propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si dicatur “homo cur . Dubo . fui. quia principales partes hypotheticæ non sunt pula, subiectum et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia affirmativa, alia negativa. Propositio categorica affirmatiua est ila in ligiex.i. qua verbum principale affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio categorica negativa est illa in qua er: Tertia bum principale negatur – ut: “Homo NON currit” S. Propositionum categori: Diffusi carumalia vera, alia falsa. Propositio categorica ue us&hac ra est ila cuius primarium et adequatum signifi-materia carð est verum – ut: “Tu es homo.” Hæc enim est uera. “Tu es vide in homo.” quiate esse hominem est verum.Voco filoma. divisio A tio. i. gi her. C. 5. . a4 1 mo. Cetera autem significate, utte esse animal, teelic substantiam, et huius modi, sunt significate secundaria, et pones illa non dicitur propositio vera nec falsa. Propositio categorica falsa est illa cuius primariam et adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es asinus.” ria, alia contingens. Propositio necessaria est ila, cuius primarium et adequatum significatum est necessarium – ut: “Deus est.” Propositio contingens est illa cuius significatum primarium et adequatum est contigens – ut: “Tu es homo”. Et voco significatum contingens ilud C quod in differenter potesse se verum vel falsum. Propositionum categoricarum alia alicuius uide. i. quantitatis, alia nullius. Propofitio categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est universalis, particularis, . in pri, indefinita, vel singularis. Propositio universalis est illa in qua subởcitur terminus communis signo universali determinatus – ut: “Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti nomen appellativum et pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt ista: “omnis,” “nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet, quantusliber, et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur terminus comunis igno 4. diui afol. significatum primarium et adequatum propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi infinitive vel coniunctiue il 267. secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es homo.”, dicitur fiA dępris. Significatum primarium [cf. Grice, primary sinification in ‘Retrospective epilogue,’ WoW] et adequatum illius, “Tu es homo.” Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis. Propofitio categorica por ilo.ma. fibilis eft illa cuius primarium et adequatum significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et adequatūfi. usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est impossibile – ut: “Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne cella larem, nomen proprium aut pronomen demonstravi Suum singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. [cf. Grice on the and dossiers in Vacuous Names, in terms of auditor] Ex quibus fe B quitur iam quæ est caregorica nullius quantitatis. Et dicitur quod illa quæ non est universalis, nec particularis, nec indefinita, nec singularis -- ut exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet, “Tantum homo currit, omnis homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue laf, u. Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad interrogationem de propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel hypothetica. Secunda autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis? Respondetur affirmatiua vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad interrogationem factam g Quan tarmñdcatur, universalis, particularis indefinita, ucl singularis, et hoc fm exigentiam propositionis propositę. De duabus alijs pposition am divisionibus. Ræterfu pradictas diuisiones dugalią declaran- Prima cur. Propositionum categorica divisio – ut: “Homo currit.” Propositio categorica modalis est illa in qua ponitur aliquis modus -- ut possibile est sor, cur particulari determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.” Si Idem in gna particularia sunt ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7. tract. A quus, et huiusmodi. Propositio indefinita est illa in huius in qua subijcicur terminus communis SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est animal.” Propositio singularis est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus discretus, vel terminus comiscum . col. pronomine demonstratiuo singularis numeri. Exem :4. plumprimi. sor. [Socraes] currit. Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.” Voco autem terminum discretum vel singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste versus. Querca, uel ră alia dein efle, alia modalis. Propositio catego Dricadein efic est illa in qua non ponitur aliquis modus 1: Figura de in effe. r e r e . Modi autem sunt sex . c possibile, impossibile ne Seconda. necessarium, contingens verum et falsum. Propositionum modalium: quædam est in sensu diviso [cf. RIMINI] et quædam in sensu composito. Propositio modalis in sensu diviso est ila in qua modus mediat inter accusativum casum et verbum infinitivi modi – ut: “Fortem possibile est currere.” Propofitio modalis in sensu composito est illa in qua modus totaliter præcedit, vel finaliter sub sequitur – ut: “Deum esse est necessarium.” Impossibile est hominem esse asinum. Ex his divisionibus originantur tres figuræ. Quarum prima dicitur de in effe. Secunda modalis de sensu diviso fchabés admodum primæ. Tertia modalis de sensu composito: leda cæteris disperata. Quartum declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet ho currit. adaz hó ñ currit, Nurbo de currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne, subalterne Figura: demesse Gulltra gda3 ha cuifit, subcontrarie reasu diuisio Contrarie Nullum hoie3 possibile est! curtcit. Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de sensu dictorie Lörra mine polee curitie . Modalis de sensu diviso. sub-contraric Modalis de sensu composito. Nec currere est los. Impose est currere for sub-alterne Contra sub-alterne dictorie Aliquem, ho Contrarie de sensu composito: Fig. Loncra . dictonic Contingens et por, non currere Figura Que libet ho minepole? currere . Pole for currtre, A liquê home minē ñ pole est currere, sub-contraric Secunda præcise proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut: “Quilibet homo currit,” “Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et particularis negativa de consimilibus subiectis prædicatis et copulis, supponentibus precise proeodemuel pro eisdem sunt sub-contrariæ in figura – ut: “Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo non currit. Universalis affirmativa et particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus. precisepro eodem vel pro cisdem, fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi. De figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ PERSONALITER De propositione hy. De ampliationibus po. disiuncti. 15 De praedicabilibus Tractatus tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione norum quando fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib De converfionetibus supponis et de diuisio De suppositione per de natur appõnuz sonali tractatus divisa De nomine tionum De duabus alös diui De supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen cinens C fionibus propõnuzs teriali et de diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem prædica, consequentősconti. de resolubi de propositionibus Tractatus quintus est tionc obligationis et De obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc consequentiæ et De hypo. descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus consequentiæ for De gradu pofitiuocô malis De regulis con. for. q De gradu comparati De regulis poenespropositiones quáras Delydiffert positions non quan De exceptivis De ly necessario et contingenter parabiliter sõpto poncs superius, atq De gradu superlati -minos pertinentes et De ly incipit et defi : impertinentes nir nens. De officialibus pro De defini libus. po. de reg. eius. inferius De regulis poncs pro De exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas Dedecem lis alñsregu De ly totus positioncs hypotheticas De ab æterno De infinitum de probationibus ter obligatory artis: De reduplicativis De regulis poencster De immediate De semper De regu.pancs pro tinens minorum continens. De deffic go cioc insolubilib? et di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia Obiectiones contradi milibus propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs .hui? De exclusivis insolu De insolubili difiun- ulti. ca.contra modos mi. De insolubili particu huiuspri De insolubilibus no é de obic Obiectiones contra Obiectiones addicta est de obiectionibus contra De obiectionibus factis contra re propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et diffig Obiectiones contra pr De deposition ibuster Obiectiones contra re minorum Tractatus Sextus De insolubili uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo et gulas huiuspri de insolubilibus Obiectiones contra dif habens. .huius uifioncciusdem. Gulas huiuspri lari vel indefinito mitra. de predicabili. De insolubili copula. trac.in maceria syllogismorum n a contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus factis con car . las.huius terti las. huius terti tracta. Venetijs ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară, tracta. tëtracta. Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij las. huiusterto tracta Antonñ Iunte Florentini Registrum illaiquaiferi predicaturde terrogatoez factapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť totaratio quafuperi pzedicaturdein quareficpdicaturde illiseq? feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini dictiévľoriadealiquod illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin vniuoc'pze iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere fpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo Eréplüpzimi:vtbóèrifibil dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimueltpredicarsitu lub bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl'me teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė mi? coup” subcocpozecosp? praedicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato a dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat ioautaccica est piedi afinuszlbiftisfua idiuidua carioterminox diuersoz pze foztesz plato. bzunellus fa dicamentorum vt homo é ale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tu est pdicamentu quátitutis liquúdicitureffeillequicon Lui generalisfimúeftquäti. tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aial respectuisti terminihó alterna ärnulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz? di bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi generisiftefür feriozad reliquú dicitur effe fpetieslinea superficiescoz illequi continent urabeo. nnó pustempus locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini bomo. hiclocus. Secundigeneris Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties. f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuzestforma nozuFmsubzlupza. Etdiui, vetcircaaliquidpitasfigura us trinarius quaterna rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali Lozpus insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eft naturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogi cazrhetorica dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz cozrupere equáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uidua funt fic generareboiez cum. quarú idiuidua suntheç fic corruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris spessuntau. bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis species sut tum. quozumindiuiduafffic circulus triangulus quadra auger eilögumficdiminuer gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua funt. biccirculus.bicfunt cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuidua funtficcalefa Quartii predicamétü Ċpdi cerefic frigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris species funtmouct fur ralissimú eft relatio vel ada. Súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera( diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita, zsup2 ficmoueredeorfum. Sertus Primum est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz cuduzé fuppofitio. Lertiuzė paffioniscu generatiffimu supposition primigenerisfpe estp dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actum ca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifiones ponitifte vt foztempoffibileé currere versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu nevelaf. vquanta. parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitp ad i taliter pcedirvei finaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozica vel ipothetica. Se effe asinum. Erbis diuifio cudaaur asseritquodaditer nibus origináturtresfigure rogationé factamoqualisre quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne damodalisofenfudiuisore gatiua. seditertiadenotat habens ad moduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofito fiacefisdispata qua particularis indefinita vel fin ruideclaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. Uifiones duealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer. Contradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalis affirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup bomocurrit. qztermininifup ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp proeisdéfuntatrarieifigu, eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa. Quilibzboè tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla eftpoffibileduofubcötraria vniuersalis affirmatiazpti effefimulfalsa. fedbenefim culari saffirmatia. Etviuer, vera. Patet pars prima ifin salis negatiuaa particularis gulis discurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probaturquoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal se peodez velpeisdezftit 16 bus. Aliquis bono n eft alby alternein figura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó currit. Dar aliquod animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia regulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimulveravelfimulfalf. L madiuifio eftiftaterminori vocaturlravelfyllaba. Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral definitio, sebutcomienicu damagnitudiez caritus eft ilequi permitesperjeigranasoatione. Tedium cóftitué aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya tezinajoftudentiuznecno terminiple fignificatius Pericarione perforsales aliornimia; breuitatez.gbɔ eft ilequi perfe sumptusni, beit perqúemymim nulla fereeftanera doctrina. Bil representatproisnulluseftpermainang Ideo volensmediuftinere 7files. Secundadiuifio eft, vtriusq zsapiésnäzertremi. iftatermiogquidazsignifi, ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla nibɔplurib, diuisuztractati, citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu gnificansestile quiapooés traditnotitia. Secud fuppo . eiusdeestrepsentatiuusficut firionú declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit doctrina. Po AD PLACITVM significansé il Quartus terminoqviistruit lequinóapudoéseiusdez é pbatiua. Quint’ligidiregu, representatiu'ficurilletermi lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto isolubiliafoluendidarartem apud nos significatboiem. via. Septimus atraprimú apoaliquascertasnatoer obijcitfolutione zaddensre, nibil significat vt f untgreci: fpófiuaz. Dct aubotertium bebrei. Zertia diffinito é ifta fodificarpróem argunitati, Q termino kquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun, gozematiczgdáfincathego acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio physicozum füiteros, maticuseftillegtampiezz duuideo tractatuspzim’ter/ cialiob3 ppziùfignificatum mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft tibölianimalinte. Lermi? Gential uit diferenmis. ut box Florin simp prout firepmimusi Cedex gramaticaj. Lorical minátdistributiver particu! complerus eftozó vthomo laria particulariter Õpofitio alborozes platodeuzeffe nesdeterminatfbcertocâu 2buiusmodiic. Aduerbia verbúzcõiúctóes Uia noier verbo er biitcõiungere terminosvel quibus ozatio compoi ozóes quarta diuifio est ia tur ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz eftpziei paliter cófiderar. Jdeo'dbil tentiois.7 quidábeitencois reftat diffinitiones ad-signare Terminus pe intentónis eft Homéest terminus signift terminus mentalis significaf catiu? Fineté pozecuiusnulla nonterminu. i. réānonéter parsaliquidfignificatseper minusdatoq effetficutlibó ratavthomo. In iadiffinite significatsoz tem z platoné. å poif terminus locogencris. Ruinulluspot effe terminus. q2oc nomen est terminus.e Lerminusaütbe itentóisé nóego. diciturfignificatinis terminus mentalis significát quia termininó significatui solimo terminil ppofitone non sunt noia apud logicilicz ptilitermini mentalesnon bi apud gramaticivtomis verbti participiúppofio nullus similia. Tertio di, zbuiusmodi.Qüitadiuifio citurfie tempore addiffere, est istag terminoz quidãcst tiñverbia participüa SIGNIS pe IMPOSITIONIS quidife. ter ficant cum tempore. Duar minus pe impositois estteri toponit cuiusnullaparsali nus voca vel scriptusfigni quidfignificata ddifferentia ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni, liaialivoceveliscripto.ter ficät. (Uerbúeftterminato min’autem se impositionis eft požaliter figificatiu?zertre terminus vocalis vel script? monvnitiuuscuiusnullap8 significas solúī modoterminu aliquid significat separatave vel propositione vtilitermi currit vel disputato icifpria nirocales vel scriptinomen mo temporaliter significati, verbti participitizhuium ói uusad differentiam nominis Serta diuifio eft ifta. Termi quod significat fine tempore non quidifuntincópleri 29 Secundo dicitur ertremo damcompleri. Terminusin rumvnitiuusaddifferentia complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií lilapislilignum. Izterminus tempože. sed non vnitfuppo fituscum appofitoficurvero quenonfuntppofitionesno · bum. cetereatparticťepo obftáteqa fintindicatie q?i nuiturficur toenois. Significant verum nec falsum . P Ropofitioeftoratioi dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito catbegozicaet prodicaria, madevenirate Alia iperfecta . Diario pfec bignier parte dignins e.me,ose ista quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila queperfectu fenfi catu copula generat animo auditous. partes tanös pzincipaler, peplicireutimplicie. vtbomocurrit. sui.vthomo eltaial. i), Etfidicarurbomo currite Horá dumotres funtspe propofitio catbegozicaznon Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte catiu? Cuius aliqua pars ali quidfignificat. Vt boalb?de uz effe. Ulria particula poni turaddifferentia nominis? Propofitionu zaliacaibego verbi. grumpartesnonfigni rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes tubomo predica Diario imperfectaestilla tum verolianimal.7 copula aiperfectuzfenly;generari illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal fbiectum cumpzedicato. busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur nuerare Pria eft ifta 5 cies orationis perfecte Drationuzperfectar. alia indicatiuavthomo currit babz predicatum dicitur qa babz implicicum predicatuz v z li currens quod patzinreroí alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum eseltasuum participiu uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus Subiectuz estoe& aliquidad fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô animal. Sed copula fempererspularerreigitpilianca. currit. poniturozatolocoge verbuzfbftátiuü. l.luzeselt veteteaiomm neris.q:oisppofitioestoza De propofitione yporbeti-inwirtelde eius. tioetnoneguerro. Secundo capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola diferentiam cuius ponitur il la catiuaeitppofitio.nonátim particulaprincipalespartes peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz Secunda oiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuz cabegozi, tiones foztespór. platoicipit car. Alia affirmatiua aliane facit, egineris, matiua eft ilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane kleinesitimplicies apaleaffirmat öcbócurrit. ceffariaaliacontingens,ppo diferencia Presidurijgezo pzopo çatbegozica negatifitione cefariae ftilacuius artean = uaeftillai qobiipricipalene primarium zadequarumfigi gáf. Vt: “Homo currit.” Tertia ficatum est neceffariumvtoe divisio est iappofitouzcatheus est.popofitiocontingens goricaralia veraalia falsa. Eftilacuiu sfignificatumpzi, Propocatbegozicaveraéila mariumza dequatumeftcó tui? pzimariuzadeqtuligni tingensvttues bomo. Etvo ficaruié verúztuesbobecco fignificatumcontingensil n. Eltperatues hóq2reeffe lud quodindifferenterpotest boiezcftveru.Uocosignifi esseverumvelfalsum.Sex catu primaritiza deq tuppo tadiuifiopropofitionumca! fitionisqó eftfimileorationi thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie illius. vn ' titatis alia nullius. P2opo ca deteeffeboiem velqotues 'thegozicaalicuiusquantitati bódicitfignificatu;primari estillaque évniuersalispar uza de quatúilliustuesbó ticularis indefinita vel singu ceteraåt significata vt teeffe laris. Flop. vniuersalise aialteefe Tbstantia7huiul, ilainqua fubijciturerminosnasdistri mõisunt significata secuidaria comunis figno vniuersalides gacia.Prop cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil 7penesillai diciep povera terminatus vtomnisbócursliepy. necfalla. Propocathegorica rit. Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7 inprentinomenappellatiuuz adequatü significatum estfal fumvttuesarinus pionomen pluralis numeri Signa vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali vterq; neuter qualislibzquá aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi poffibiliseftilacui'paimari tioparticularis eftillainqua uz?adeqrufignificatúépor iubijcitur terminuscóisfigno fibile vt tu curris particulari determinatus vt Propofitio cathegoricai, aliquisbo difputat. Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama ticularia funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus terreliqu’rbui?mór.pzopo eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie feprobatio: ctfromloco Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi gno:ytbomo estanimal. Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti lainquafubijciturterminus onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino coniunif realiamodalis. Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica deielleèillaiä fingularis numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut Toutescurrit. ermfiillebo vtbỏcurrit. Diopofitioca disputar. Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num discretumpelfingularé ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo fibileefoxtemcurrer. Modiy Scromodi ftratiuú singularis numeri vt autem suntf erscilicet porsi, ifteiftaistud. Erquib? fequi biler impossibileneceflariu turiamqueécatbegozicanĽ contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil Secundadiuifio p:opositi laanoé vniuersalis necpar onum modaliumquedamcst ticularisneci definitanecfin infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep sucomposito Propositio motiue vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumz verbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte vtfoztempo ffibileécurrere versus. Quecavelip. qualif Propofitio modatisisenfu* nevelaf. vquanta.parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i taliterpcedirveifinaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumefTeé necessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozicavel ipothetica. Se effeafinum. Erbisdiuifio cudaaurasseritquodaditer nibusorigináturtresfigure rogationéfactamoqualisre quanpriaordeieffe.Seci, fpondetur affirmatiuavľne da modalis ofenfu diuisore gatiua. Sed itertiadenotat habens admoduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata qua particularis indefinitavelfin rui declaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. visiones duealie decla Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer C Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibileeft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecundefigurebere ptnll? bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé dictorie. Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida b?fubiectis7 predicatisfup bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét ponuntprecisepzoeodevĽp proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru. Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularis negatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib? pcirepeodévelp alijsregulisipfarum cogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu natura.quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia regľaviuě duoztraria effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa. Primapars negatia velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè tib pcirepeodezvelpejsó albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt iafimiliter Dmneanimaleft quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo curritP. ull'bócurrit?qui Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit. Quartaregla eft poffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa.fedbenefim cularis affirmatia. Etviuer, vera. Patetparsprima ifin salis negatiuaa particularis gulisdiscurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probatur quoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal sepeodezvelpeisdezftit16 bus. Aliquis bononeftalby alterneinfigura. vt glibzbó Aliquodanimalefthomo.Et currit2gdambócurrit. Dar aliquod animalnonefthomo lusbomocurrit. 2gdazbol Tertiaregulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimul veravelfimulfalfa poffibileouo contradictoria patetifta reguladifcurrédo alter. Hecranonfoludefuit Pfingťaptradironia. Quar primevelfecüdefigureimo taregulaeft14. Sivniuerfaľ tertie.Etvocoibinegatio eft vera fuapticularis velin ne prepofitaquandocolligit definitafibifubalternaeftde modofuemod?pzecedarfi ralnego. Unfib effetvera uesequatur.7 postpofitaqui gizboestalb?6fikreffzver coniungiturverboinfinitiui raaligshoestalbosznóez modi. eréplüpzimi.nópofsi. q:iadefactobe veraaliquis bileésoz.curreredelsoz.cur hoéalbɔ.znóiaquilzboeft rerenóé poffibileereplúfi albɔ.Eteodémódicodenei possibileésoz. nócurrerevel funtregule. quorpria reequiuale tiftiptingenscft eftia. Hegpäepofitafacitz foz. nócurrergpumă regula quipollerefuocótradictozio EthneceffeeTo2. Non currer viinoquil; bocurritequalet equiualetiftiimpossibileest isti.Aligshónócurrit.Etnó soz. Currerr recundam regur nullus homo currit equiualz isti lam zifta non nece f l e e soz . ni aliquishomo currit. Eurrer cquiual; huic possibi Secundaraeftistanegató leésoz.currergtertiamrei poftpofitafacitegpoller fuo gulamzita dicaturdecete contrariopbaf. näiftaquils risquibuscunq3 quare7c. bomo noncurritequipollet SDnuerfioeitcranspofi ufti nullus homo currit. 2nul tiosubiectiinpzedicar lushomononcurritequipol rum7 econuerfo:vtbomoé ictifti quilibet homo currit. Animal animal é homo. Etlý Lertiaregulaeftistanega diuiditur in conversione fimi rio prepofitaz postpositatai plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem. Lonuerfiofim no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta nonnul: Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol vtnulluanimalcurritnulluz letifti aliquis homo non cur curr ése animal. Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra, acadésetranspofitiosubiec dic. Post contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca gatiuisquare 7c. roz. nó currere èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz. curre demqlitarefzmutataquanti uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó estaialaliqd Håbé per aaliqrolanoné aialébo. Lóuerfiopptrapo fbftárianullarojaernte7ti fitioneeträf posiectiipdica befalsaaliqui fubstätianon tiire converso manéteeadem énonrosaq2 suutradictori qualitaterquitirate. kmura uzé vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisi terminosi tia ;estrora. finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano currensnóénon pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis ranullusbõémuliē.zbecē puerhonib? puertatponun falfa nulla mulieré bóigif, furistiosus, Feci simpliciter Secuido becéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon cusvid; ens:7becefalfanul traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc. ponúťquattuorlrevocales Lertio ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar éibbiezljéfatfanullusbó firmatiaz. 2vlemnegatiuaz éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf, giftanó suapuertens.fzia firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz velidefinitanegatiua. Luš effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i. plisnega teripuersa.Ad63picogi tiua7 pticularis affirmatiua fitde sbiecto pdicatu.qziicft puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis negariazplis ens. ióficpuertiéšnullüvi affirmatiua puertufp accñs densensécecii.Ad tertium Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens zpticularisvelidefinitane ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?. vľiainullobõieédom? Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco plures cathcgoricar ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla. vtbeaialchó.2pueri nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer velalicuiistarumequiualen fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal uerfo.lzñéita i puersione p accideiis velpatraponez:ná р Ropofitioypothe, ticaeftillaģb abet Iresigitfuntfpesypotheti Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica, litate neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero vt localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi poffibilis. Hulla atitestque tioaditionalisèillaiäjiun fitcótigens.iftereguledicte gun et plures catbegoziceper suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi. tuesaial. Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic Dpulatiua eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego 5nórepared afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest. Londitionalis cemcõitictas. vttuesboiz negatiua estillaiquanotacó ditionisnegatur vtnonfitu eshotuesafinus 7brempp batper affirmatiua. Adveri ratezcóditional affirmatiue requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumalia affirmatiuaa lianegatiua. Affirmatiuae illainquanota copulationis affirmatur eremplumpofitu eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE pritisrepugnetåtecedentivt fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi vera eft quista repugnanttu nus. csbomo tunoessial. An Et semper negariua proba tecedés vocatillappoqim turper affirmatiuam. mediate sequiturnotãcóditi Åd veritatem copulatiue onis: cófeques veroeftalta. Afirmatiuer equiriturquam f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu tuesaialest consequens.Ad eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf alfitatem copulati, matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam "sistemahor oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues behurinefrom cumancedente vifituesbó atucurris. tu sedes. Hec aut ftant fimul Bd possibilitatem copula tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiritur qualibetpar itaconditionaliseft falsa. técepossibiléznll'ä altériiz tatomagis welalijs Jhiunctiuaeftillaique Deus évelfoztesmouef. Ere coñitigüturplescathe pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica. gozicepnotazdi functionis; adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin? Ritur qualibet partemeffeco Propositionúdifuciuarú tingentezznulla alteri repu alia affirmatiuaalia negatia gnarenecét contradictoria il; disunctiva affirmativa éil, laqvtantirpseftalbɔl'ipfe a inqua affirmatur notadi currit. Ponitur tertiapartir litctóisvtpatuit. negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai quanota difiuctó ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés. lzboc firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam difiunctionis. tropugnante poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus. Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi, eilisre quiritur qualspartem possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alterii copoisibilez. eremplu Md posibilitatem difüctie figutcomke partesplenepost primivttu curris. 7tuésafi, affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes. Ad neceffitatez. copla eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed ad impoffibilitate eius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif qualibet partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem vt homoeftafialiudfornogri. husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft. tezelleptingentez.alteraatt Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez nec eidéicópofi affirmative fufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó temeffeneceffaria;veliuicé pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt de partibɔcontradictozijser} Ad Veritate zoifiuctiueaf, fe impoffibile z. Etadcontin Röme ftiguduozycótrario afirmatiuefuficitvnazparte gentiamcopulatiuafacta siune imposfibilealiud effeveram. pttu.cshomop gtib oppofitisfitcótiges, metafarim #coco scadcon coinout:fed quo hoc eftueru, cuno filin ilascopilgrimur, fatke porousopofiris,codicarilkidekie Erionisdifnightutplan qnoradiinch omnis,Admiños vilpropofiriones, congle:fed l Frelsabond murgiipropa Mit Saint Erine et filace prolaindao importinisdefinitiva entrare difusique significatia sseéincóueniensa Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens unum idiom conigat et difiurgatriper Sadcuila copulatiua falton Iparibusopofieasofusdeles in diversors Et iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaé estimat arhdheof magister bisin coligititommdig ogdifinitivaerit Drinsers. viétime quod propria fueimpropriauide itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props liéefetwimmign ruenhomo neltuesani bec.n.éneceffariatunocur iusmodi, ris. vel tu moueris . q becco Lermin e quoc e termin ? pulatia éipoffibiťtucurrif fimplerplura fignificarFzdi tunomoueris.Etbecéptin uerfasrationes ficutlicanis géstucurrisvľtunomoue ghignificatcanelatrabilefi ris.q2 beccopulatiuaéptin, duscelestez piscémarinuz. Genstunócurris tumoue zbocdiuerfisrationibus. risfecúduregulasdatasde Paedicabile fecúdomó fti copulatiuis. mifvideliczcóiterzp ergoétermin?vnwoc?pze. prie Predicabilecóiterfup túiterminoaptus. natusde aliquopdicari. zfictātermi nuscõis finglaristacói dicabilisingddeplerib?ori tibus(pe. ptaialpredicatur deboiezdeafinogorritfpe ineoqdquidqzaditerroga plerusqizplerusdiciepze tionezfacta; perquideftbo dicabile. Sippziesicfumen velafin? rndeturqeltaial. do difinit. Paedicabilee ter Ben'oiuiditur. naquodda minouiuoc'apt nat deplu estgenus gnälifsimu. zquod rib?pzedicari. ficnull?ieri damgenussbalternum nusfingularisnec tráfcedes Benus generaliffimúéter autpofit? Dicitur pzedicabiming ficégen?qd nopot lefeuvniuersaleqóidéė.q2 essespecies. ytfubftátia. Be null’ralisestterin vniuoclis nus subalternúeftterminus Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe termin? fimpler plura signifi species vtaial.eeniz genus cásfm vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde boqo significatfoztezplato rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác Spesestterminusvniuo/ rationeať raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil qodiciturterminus fimpler ercluduttermini3 pofiti. sed significans pla ercluditter minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez. videlzensaligdzbu iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő Spéfoiuiditur q2qdazeft specialissimazadå Malterna Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen? speciediffe"Redicabiledupťrfu rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina cutlialbuqapredicatur. de cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale vtanimal. qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri lisehódlafin?pótpuenien nusqcum fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt bóvel aliter conuertibiliter. Quia nó con Spės spalissimaétermin? uertiturlialbuaialiq°illoz, vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe plurib'orñtıb nuerofolum turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai piedicabile effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter termin?vniuoc? predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero quale. Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti, làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe přib?orritib? nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri. veliqualeacclitaleno qzaditërogatóemfactaper puertibiťr.2 illud éaccñs.er qualisest fortes respondetur predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ idirecta er Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica Þdicabilisdeplib’ieoquod tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut dicaturdefuoiferiozi. Debo rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé platbeieoqdqualeqzadin illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť.7 totaratio quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq? Feriozi velecóuersofz quod éppziapafsio illius termini dictiév ľoriadeali q°illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin’vniuoc'pze iqua ppuúvelaccñspzedir. dicabilisdeplib”ieoquod caturde generefpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuo idiuiduo autepuerfo Eréplüpzimi: vtbóèrifibil dirurin decepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimuelt predicarsitu lub bileéhoalbueaial. Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl me teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatio efriaťė mi? coup”.subcocpozecosp pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať dicamenti vtbóestaial. pze, aiali fpess pecialissimahoľ dicatioautaccicať eft piedi afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminox diuerfoz pze foztesz plato. bzunellusfa dicamentorum vt homo éale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tú eft pdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui' generalis fimúeftquäti. tinerillúzne converso sicut li tasfubý funt duo genera aial respectuisti terminihó alternaär nulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz?di bocaliquid vltra. Lermin’in scretu. Primi generis iftefür feriozadreliquú dicitur effe fpeties linea superficiescoz illequi cótineturabeo. nnó pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftius termini bomo. hiclocus. Secundi generis Lozpozea Jnco: pozea infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumelt passio vel passibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuz est forma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca aliquid pitas figura us trinarius quaternarizë Animatum Jnanimatuz individua vero funt hicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu iusgeneraliffimum estquali Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale. tasfubquofuntquattuo:ge Animal rationale nera subalterna non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eftnaturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies. boc cozpusboc rempus Primi generis spetiesfune Quintum predicamétoem grāmatica logicaz rhetorica dica métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå rasubaltez nafuntfer. quozu matica logicab rbetorica. Nulluė superius ad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspés sunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz ?cozrupereequáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez cum. quarú idiuidua sunt heç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal quarti generis (pessuntau. Bumhocnigp buiusmodi. gereinlongudiminuereila Quartigeneris fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulus triangulus quadra augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua funt. biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuiduafuntficcalefa Quarti i predicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada. súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttria genera( dividua sunt ficmo uerefurfu altera ilebita, 16zsupa fic movere deorfum. Sertus Primum estcaparatio. Se predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu’generatiffimu fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene tiessuntvicinusequale?li, rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt. zsupaav; generari corrupia hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo fimile dñszmagister. qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi tuboiezgenerariftueqmco Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis fuus discipľ? quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic gúdiminuiilatu quani diui. piscipulus. dua funt ficaugeriilogu fic cumouči. primi7figeneris, Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi generis spėssunt v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua diminuerealterare. cfmlo, funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener -- b Logica Parva: Critical Edition from the Manuscripts with Introduction and Commentary, Perreiah, Leiden: Brill; Logica magna, Venezia: Albertinus Vercellensis, Octavianus Scotus; Logica magna: Tractatus de suppositionibus, Perreiah, St. Bonaventure, NY: The Franciscan Institute; Logica magna: Part I, Fascicule 1: Tractatus de terminis, Kretzmann, Oxford; Logica magna: Part I, Fascicule 8: Tractatus de necessitate et contingentia futurorum, Williams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 3: Tractatus de hypotheticis, Broadie; Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 4: Capitula de conditionali et de rationali, Hughes Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 6: Tractatus de veritate et falsistate propositionis et tractatus de significato propositionis, Punta, Adams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 8: Tractatus de obligationibus, Ashworth, Oxford; Sophismata aurea, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Super I Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Ruello, Firenze, Olschki; Expositio in duodecim libros Metaphisice Aristotelis, Liber VII, in Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden, Brill; Expositio in libros Posteriorum Aristotelis, Venezia, Hildesheim: Olms, Summa Philosophiæ Naturalis, Venezia; Expositio super octo libros Physicorum necnon super commento Averrois, Venezia; Expositio super libros De generatione et corruptione, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Scriptum super libros De anima, Venezia; Quaestio de universalibus, extant in nine mss. There is a partial transcription from ms. Paris, BN 6433B in Conti, Sharpe: Quaestio super universalia, Firenze, Olschki; Lectura super libros Metaphysicorum, extant in two mss. (The ms. used here for the quotations is Pavia, Biblioteca Universitaria, fondo Aldini; Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis, Venezia. Amerini, AQUINO (si veda), Alexander of Alexandria and N. on the Nature of Essence, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Alessandro di Alessandria come fonte di N.. Il caso degli accidenti eucaristici,”Picenum Seraphicum, N. on the nature of the Possible Intellect, Musco; Ashworth, A Note on N. and the Oxford Logica” Medioevo; Bertagna, N.’s commentary on the Posterior Analytics, Musco; Bochenski, A History of Formal Logic, Thomas (trans.), Notre Dame, IN: University of Notre Dame; Bottin, Proposizioni condizionali, consequentiae e PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE [cf. Grice, Strawson] in N.” Medioevo; La scienza degl’occamisti: La scienza tardo medievale dalle origini del paradigma nominalista alla rivoluzione scientifica, Rimini: Maggioli; N. e il problema degl’universali, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padua: Antenore; Logica e filosofia naturale nelle opere di N., Scienza e filosofia a Padova nel Quattrocento, Padova: Antenore; Conti, A. Note sulla Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis di N.: Analogie e differenze con i corrispondenti commenti di Burley,” Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Universali e analisi della predicazione in N., Teoria; Il problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di N.,” Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano; Il sofisma di N.: Sortes in quantum homo est animal, Read, Sophisms in Medieval Logic and Grammar, Dordrecht: Kluwer; Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, Rome: Edizioni dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; N. on Individuation”, Recherches de Théologie et Philosophie médiévales; N.’s Theory of Divine Ideas and its Sources”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Complexe significabile and Truth in RIMINI (si veda) and N.”, Maierù/Valente, Medieval Theories on Assertive and non-Assertive Language, Firenze, Olschki; Opinion on Universals and Predication in Late Middle Ages: Sharpe’s and N.s Theories Compared”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; N.’s Commentary on the Metaphysics”, Amerini-Galluzzo, A Companion to the Latin Medieval Commentaries on Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Materia prima e rationes seminales negli scritti di metafisica di N., Medioevo; Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Garin, Storia della filosofia italiana, Torino: Einaudi; Gili, L., N. on the Definition of Accidents,” Rivista di Filosofia Neo-Scolastica; Karger, La supposition materielle comme suppositions significative: N., PERGOLA (si veda), Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Kretzmann, Medieval logicians on the Meaning of the Proposition”, The Journal of Philosophy; Kuksewicz, N. e la sua teoria dell’anima, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padova: Antenore; Loisi, L’immaginazione nel commento al De anima di N.,” Schola Salernitana, Mugnai, La expositio reduplicativarum chez Burleigh et N., Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Musco, Compagno, Agostino, Musotto, Universality of Reason, Plurality of Philosophies in the Middle Ages, Palermo: Officina di Studi Medievali; Nardi, N. e l’averroismo padovano, Saggi sull’averroismo padovano dal secolo XIV al XVI, Florence: Sansoni; Nuchelmans, Theories of the Proposition: Ancient and Medieval Conceptions of the Bearers of Truth and Falsity, Amsterdam: North-Holland; Medieval Problems concerning Substitutivity (N., Logica Magna, Abrusci, Casari, Mugnai, Storia della Logica: San Gimignano, Bologna: CLUEB; Pagallo, Nota sulla Logica di N.: la critica alla dottrina del complexe significabile di RIMINI (si veda), Congresso di Filosofia, Florence: Sansoni; Paladini, Why Errors of the Senses Cannot Occur: N.’s Direct Realism”, Studi sull’Aristotelismo Medievale; Perreiah, Insolubilia in the Logica parva of N.,” Medioevo, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green, Ohio: Philosophy Documentation Center. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, 4 vols., Leipzig: S. Hirzel, Graz: Akademische Druck- und Verlaganstalt; Ruello, N. thélogien ‘averroiste’?,” Jolivet (ed.), Multiple Averroès, Paris: Vrin; Introduction,” Ruello, Super I Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Firenze, Olschki; Strobino, N. and MANTOVA (si veda) on Obligations,” in Musco; Van Der Lecq, N. on Composite and Divided Sense, Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis, Wallace, Causality and Scientific Explanation, Ann Arbor: University of Michigan. NICOLETTI (si veda), noto come Paolo Veneto, studia, fra l’altro, a Oxford e insegna in varie università italiane e soprattutto a Padova; citeremo 168v-173v; Tractatus appellationum, ivi, ff. 175v-179v; Textus de statu, f. 180; Tractatus restrictionum, ivi, ff. 181v-182r; Tractatus alienationum, ivi, f. 182v; Prima Consequentiarum pars, ivi, ff. 184r-193r; Secunda Consequentiarum pars, ivi, ff. 194v-208v. Al titolo Textus dialectices seguirà solo l'indicazione dei ff. 103 Cfr. MacistRI PetrI DE ArLLvAco Tractatus exponibilium, Parisius Impressus a Guidone Mercatore. In campo gaillardi. Id. Octobris, s. pp. (ma l'esemplare consultato ha la paginazione a mano). Petrus MANTUANUS, Logica. Tractatus de instanti, Padova, Johann Herbort; l’ordine dei trattati è diverso dai mss. alle stampe; l’ed. utilizzata è s. pp., ma l'esemplare che ho consultato ha una paginazione a mano; la segnatura della Bibl. Vat. è Ross. 1769; cfr. la bibliografia in Lo Speculum puerorum ..., cit.,299 n. 16. La più completa trattazione d’insieme del pensiero di NICOLETTI è ancora quella di F. MomicLiano, NICOLETTI e le correnti del pensiero filosofico del suo tempo, Torino; pet il soggiorno ad Oxford, cfr. B. NarpI, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, in La civiltà veneziana del Quattrocento, Firenze, dove si afferma che NICOLETTI rimane a Oxford almeno 3 anni, e si le sue opere: Logica parva, Logica magna, Quadratura. Paolo da PERGOLE (si veda) e discepolo di NICOLETTI a Padova e resse la scuola di Rialto a Venezia; la sua Logica segue da vicino la Logica parva del suo maestro; il trattato De sensu corpositio et diviso dipende dall'omonimo trattato di Heytesbury !°; i Dubiz sono legati ai temi delle Consequentiae di Strode. Altro discepolo di NICOLETTI e il vicentino Gaetano da THIENE (si veda), professore a Padova, che ha legato il suo nome soprattutto al commento delle opere di Heytesbury (Regulae e Sophismata). Si ricorda di lui l’Expositio delle Consequentiae di Strode. Il domenicano Battista da FABRIANO (si veda) riporta il seguente documento. Die 31 Augusti 1390: Fecimus studentem fratrem Paulum de Venetiis in nostro studio Oxoniensi de nostra gratia speciali cum omnibus gratiis quibus gaudent ibidem studentes intranei. Item eidem concessimus quod tempore vacationum Lundonis possit libere morati. Cfr. ora A.R. PerreraH, A Biograpbical Introduction to NICOLETTI, Augustiniana. Pauri VENETI Logica, [Venezia, Cristoforo Arnaldo], s. pp. AI titolo Logica parva seguirà solo l’indicazione del trattato. Pauri Veneti Logica magna. Impressum Venetiis per diligentissimum virum Albertinum Vercellensem Expensis domini Octaviani Scoti ac eius fratrum opus feliciter explicit Anno D. 1499 Die 24 octobris. Macistri Pauri VenETI Quadratura. Impressum Venetiis per Bonetum Locatellum Bergomensem iussu et expensis Nobilis viri Octaviani Scoti civis Modoetiensis. Anno ut supra. Cfr. B. NARDI, op. cit., pp. 111-118. Cfr. Pau or PercuLA, Logica and Tractatus de sensu composito et diviso, ed. Brown, St. Bonaventure N.Y.-Louvain-Paderborn 1961. Si tenga presente anche I. Bon, Paul of Pergula on Suppositions and Consequences, Franciscan Studies , XXV (1965), pp. 30-89. Cfr. per l’ed. dei Dubia, n. 90. Cfr. su Gaetano da Thiene: P. Silvestro DA VaLsanziBIo, Vita e dottrina di Gaetano da Thiene, Padova 1949; per l’ed. dell’Expositio (che citeremo col titolo Super Consequentias Strodi), cfr. n. 90. professore di filosofia e teologia a Padova, Siena, Firenze e Ferrara, cominciò la sua carriera accademica un decennio dopo Gaetano da Thiene; compose, fra l’altro, una Expositio del De sensu compositio et diviso di Heytesbury. Il senese SERMONETA (si veda), magister artium et medicinae , figlio del medico Giovanni, insegnò a Perugia, poi a Pisa (per quattro anni) e finì la sua carriera a Padova; ricorderemo i suoi due scritti di logica: Super Consequentias Strodi!5 e Expositio in tractatum de sensu composito et diviso Hentisberi!*, Un’Expositio dello stesso trattato De sensu composito et diviso scrisse anche il carmelitano senese Bernardino di LANDUCCI (si veda)), che divenne generale del suo ordine.Cfr. J. Quérrr-J. Ecuarp, Scriptores Ordinis Praedicatorum, I, Lutetiae Parisiorum 1719,847; G. Brorto-G. ZonTA, La facoltà teologica di Padova, Padova. Cosenza, Biographical and Bibliographical Dictionary of Italian Humanists and of the World of Classical Scholarship in Italy, Boston, ad L’ed. dell’Expositio è in Tractatus de sensu composito et diviso magistri GuLieLMI HENTISBERI cum expositione infrascriptorum, videlicet: Magistri ALEXANDRI SERMONETE (impressum Venetiis per Jacobum Pentium de Leuco, a. d. 1501, die XVII julii), Magistri BERNARDINI PETRI DE LANDUCHES, Magistri PauLi PercuLENSIS et Magistri Bapriste DE FABRIANO. Si veda ora L. GARcan, Lo studio teologico e la biblioteca dei Domenicani a Padova nel Tre e Quattrocento, Padova, Battista da Fabriano. Cfr. J. FaccioLATI, Fasti Gymnasii Patavini, I, Patavii; A. FagroNI, Historiae Academiae Pisanae, Pisis; Ermini, Storia dell’università di Perugia, Bologna 1947,501. Cfr. l’ed. cit. inn. 90. Cfr. l’ed. cit. in n. 113. Cfr. l’ed. del testo in n. 116; si vedano per le notizie biografiche: J. TritHEMIUS, Carmelitana Bibliotheca sive illustrium aliquot Carmelitanae religionis scriptorum et eorum operum catalogus magna ex parte auctus auctore P. Petro Lucio BeLGA, Florentiae apud Georgium Marescottum Contemporaneo del Landucci dovette essere il lodigiano POLITI, artium doctor: alunno di MARLIANI (si veda), insegna calculationes a Pavia! e compose vati trattati di logica: un De sensu composito et diviso, una declaratio della Logica parva di NICOLETTI e una Quaestio de modalibus, che sarà qui utilizzata, scritta al tempo di BORGIA (si veda). da Bernardino di LANDUCCI (si veda)è la più sistematica tra quelle finora esaminate: essa utilizza e discute i trattati di logica dei maestri più rinomati IN ITALIA al suo tempo, ed accenna almeno due volte alle opinioni di SERMONETA (si veda), che designa come quidam doctor, di modo che può essere considerata come il punto di arrivo di una tradizione di interpreti della dottrina del senso composto e del senso diviso. Secondo Landucci, il trattato fa parte degli Elenchi sofistici e perciò esso non è da porre dopo i Primi analitici, come vuole il Sermoneta *”, Inoltre, l’autore fa sua la tesi secondo la quale non è possibile dare una descrizione univoca di ‘senso composto’ e di ‘senso diviso’, giacché di volta in volta diverse sono le raziones che presiedono alla individuazione dei vari modi ®%. 305 Lanpucci, Expositio..., cit.: autori espressamente ricordati, oltre ad Aristotele, Averroè e Heytesbury, sono Strode, Pietro di MANTOVA (si veda), NICOLETTI, e Paolo da PERGOLA (si veda). Si legga il seguente passo relativo alla discussione circa la capacità di omnis di distribuire tutto il disiuzcium o il copulatum’ a parte subiecti: Ad hoc dubium inventi sunt plures modi respondendi. Primus est Petri Mantuani, qui tenet quod totum disiunctum et totum copulatum sit subiectum. Secundus est Pauli Veneti, cuius opinio in diversis operibus est diversificata: nam Sophismate nono tenet quod prima pars solum sit subiectum, et in Quadratura tertio dubio secundi principalis, et in Logica magna et etiam in Parva tenet quod totum disiunctum vel copulatum sit subiectum, attamen solum prima pats est distributa, et illa appellatur ab eo subiectum distributionis. Tertius modus est Hentisberi, Sophismate septimo, qui dicit quod talis propositio est distinguenda eo quod subiectum potest esse totum disiunctum aut una pars tantum, quapropter utramque partem sustentando respondetur ad argumenta probantia quod non distribuatur totum . 306 Cfr. ivi, f. 2rb (posizione del trattato della suzzzza della logica) e f. 3vb (per la verificatio instantanea ): cfr. nn. 307 e 325. 307 Ivi, f. 2rb: Circa secundum dicit quidam doctor quod iste libellus est pars libri Priorum et quod immediate postponendus est ad illum librum, quod quidem, salvo meliori iudicio, non puto esse verum . Ideo puto aliter esse dicendum, videlicet quod iste libellus sit pars libri Elenchorum . 308 Ivi, f. 2vb. 580 Alfonso Maierù L’esame degli otto modi segue uno schema costante: in una prima parte si descrivono il senso composto e il senso diviso e se ne mostrano le differenze, in una seconda vengono poste le regole dell’inferenza dall’uno all’altro senso, in una terza vengono poste obiezioni (con le relative risposte) a ciò che è detto nelle prime due parti. In questa sede noi trascureremo quanto Landucci afferma circa i modi terzo ®”, quarto *°, quinto ®!, sesto ®!° e ottavo (con appellatio temporis soltanto) ?: in essi infatti l’autore non prospetta nulla di nuovo rispetto a quanto già sappiamo dai commenti precedenti. Diverso è il caso dei modi primo, secondo e settimo, che sono simili tra loro, e nei quali si propone un discorso unitario che mira a fissare per ciascuno di essi caratteristiche tali che lo distinguano dagli altri due. Il primo modo ha luogo con i termini modali. Ora, il termine modale è così descritto da Landucci: Terminus modalis est terminus determinativus alicuius dicti et connotativus alicuius passionis propositionis, non habens vim faciendi tale dictum appellare formam *!*. I modi sono i quattro classici, più veruzz e falsum: Landucci non accetta la definizione di Occam secondo cui qualsiasi termine che possa predicarsi di un dictum è da considerare modus?*5; egli ritiene invece che solo quei modi che determinino una proposizione connotandone una qualche caratteristica siano termini modali. Termini come scitum, dubium, intellectum, cognitum non sono modali perché, oltre ad avere ciò che è proprio dei modali, fanno sì che il dictum appellet for309 Ivi, ff. 9vb-12vb. 310 Ivi, ff. 12vb-15rb. 311 Ivi, ff. 15rb-17vb. 312 Ivi, ff. 17vb-20rb. 313 Ivi, f. 23vb-24vb. 314 Ivi, f. 3ra. 315 Cfr. cap. V, $ 6. Terminologia logica della tarda scolastica 581 mam 355: essi rientrano propriamente nel settimo modo, come vedremo. Senso composto e senso diviso così sono caratterizzati: Ideo sensus compositus in primo modo causatur quando terminus modalis totaliter praecedit aut finaliter subsequitur totum dictum totius propositionis in qua ponitur, aut finaliter subsequitur (!); sensus vero divisus causatur quando terminus modalis mediat inter partes propinquas totius dicti; unde partes propinquas dicti appello totum quod regitur a parte ante et a parte post respectu verbi illius dicti, id est a verbo orationis infinitivae vel coniunctivae 317. Ili Se SCHIAVONE non è un avverroista nel senso vero e proprio della parola, avveroista è invece l'eremitano Nicoletti, il quale professa a Padova un tipo d'avveroismo guardingo, che forse «gli vi portò da Parigi, se pure non v'era già arrivato da BOLOGNA, e che risente della lettura dell'opera di Sigieri di Brabante, De intellectu ad jratrem AQUINO, oppure degli scritti di Wilton impugnati a BOLOGNA Bologna, dal francescano Alnwick. NICOLETTI è andato a studiare a Oxford, insieme a un suo fratello germano, anch'egli eremitano, e v'era Dal voi. Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano. Roma, Edizioni Italiane, salvo una modificazione fino al quinto capoverso. Sigieri di Brab. ecc. Che l'averroismo a PADOVA ha origini in BOLOGNA è ipotesi verosimile; ma non si può escludere un'origine oltre-montana. Che poi Averroè è tenuto in gran conto a Padova assai prima di NICOLETTI, è provato dagl’affreschi di Menabuoi nella cappella Cortelieri nella chiesa degl’eremitani, anteriori, e dei quali ci resta la descrizione di Schedel di Norimberga che è studente a Padova. Giunto raffigura Averroè insieme agl’eremitani maestro ALBERTO DA PADOVA e al beato GIOVANNI DA BOLOGNA. Schlosser, Giusto's Fresken in Padua n. die Vorlàufern der Stanza della Segnatura, Jahrbuch der Kunsthistor. Sammel. des allerhòch. Kaiserhauses, Wien, Bettini, Giusto S. M. e l'arte. Padova, P n? NICOLETTI dove ben conoscere quegli affreschi. 2 Maier, Alnwicks BOLOGNA Quaestionen gegen Averroismus, Gregorianum rimasto almeno un triennio. Il soggiorno di NICOLETTI a OXFORD non era rimasto ignoto a CITTADINI (vedasi) da Faenza, che a Ferrara detta un commento polemico dei Logica minora dell'eremitano, in principio del quale si legge: Ferunt autem quidam non auctoritate indigni, hunc libellum in BRITANNIA, ubi olim et dialecticae et PHILOSOPHIAE studia floruerunt, in antiquissimis litteris compertum esse, ut ex illis constaret, prius opusculum hoc extructum fuisse quam NICOLETTI natus esset. Quod eo magis a non nulhs creditur, quod certuni est NICOLETTI apud Britanos visendorum GYMNASIORUM gratia aliquando commoratum esse, ac postea in Italiani revertentem multos libros secum detulisse, quorum auctores Italis penitus erant incogniti. Più tardi soggiorna anche in tlorentissima universitate Parisina, ove NICOLETTI espone gli ante-praedicamenta di Aristotele. Egli è lettore nella facoltà dell’arti a Padova, e quivi compone quella Summa naturalium nella quale è esposta la dottrina del libri fisici e della Metafisica d'Aristotele, con sobrie discussioni dei problemi agitati nelle scuole. Notevole in questa summa il trattato concernente il De anima, perché in esso ritroviamo le tesi fondamentali del De intellectu di Sigieri. Ma di questo scritto aristotelico NICOLETTI ci lascia un'assai più ampia esposizione redatta non di molto posteriore alla Summa naturalium Reg. Re. mi Barth. Veneti, nell'Archivio della Curia generalizia degl’eremitani in Roma Dd. il studio di N. sulla Letteratura e cultura veneziana, La civiltà veneziana. Firenze, Sansoni Cod. Urb. lat. Ghiotta notizia, segnalatami da Pagallo, in una annotazione al Cod. della Bodleniana di Oxford Catal. di H.O. CoxE, P. Ili, Oxford La data di composizione della Summa naturalium è fissata dal codice marciano che ne contiene solo tre parti. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Veneiiarum, Venezia, Lat. Come non molto posteriore è 1'Expositio super libros Physieorum Aristotelis necnon super comento Averois cum dubiis eiusdem Duhem, Le niouvement absolu et le mouvement relatif. Revue de philosophie. Montligeon (Orne) Le stesse variazioni che Duhem riAnche in questa seconda opera l'influsso esercitato sull'eremitano dal trattato dell'averroista belga contro AQUINO, è decisivo, come possiamo convincerci dalla lettura dei seguenti brani che per comodità del lettore riferiamo. Nell'esposizione del testo del De anima, Nicoletti si pone, ad maiorem dictorum evidentiam, alcuni dubia, il secondo dei quali verte sul problema utrum in eodem animali plures possint esse anime totales, che egli risolve nel modo che segue, non senza aver prima confutate altre soluzioni: Circa liane materiam, siint plures modi dicendi. Primus modus est, quod piante non habent nisi unam animam totalem, scilicet vegetativam; bruta duas, scilicet vegetativam et sensitivain; homines vero tres, videlicet vegetativam, sensitivam et intellectivam; non tamen simul generantur, sed successive per tempus, ita quod primo generatur vegetativa, deinde sensitiva, tertio leva – GRICE PIROTOLOGICAL PROGRESSION -- tra quest'opera e la Summa naturalium, si posson notare anche fra quest'ultimo scritto e il commento Super libros Aristotelis de anima, che senza dubbio rivela una maggiore complessità e maturità di pensiero. Nel commento, a proposito del quesito se gli universali sint in rerum natura, NCOLETTI dichiara d'averne trattato quanto basta in alio opere et in prologo physicorum. È probabile che, dopo l'esposizione sommaria delle dottrine fìsiche e metafìsiche dello Stagirita, Nicoletti si sia accinto a commentare le singole opere aristoteliche alle quali si riferiva la Summa, cominciando, come sappiamo, dagli libri della Fisica e proseguendo poi col De caelo, col De generatione et coruptione, coi libri Meteorologici, col De anima e colla Metafisica. Una vera biografìa filosofica di NICOLETTI non è concepibile senza aver tolto in esame tutte queste opere che da parte di Momigliano sono state piuttosto ricordate che vedute e lette. Tornato a Padova, dopo le peripezie che lo avevano costretto a lasciare questa città o forse l'eremitano s'accinse a commentare di nuovo il De anima, come ci attesta Ripalta, piacentino, allora studente nello studio padovano. Questi si procura una copia dell'esposizione completa dell'opera aristotelica, poiché il maestro che con tanto grido era tornato a leggerla non anda oltre il capitolo de gustabili, essendo stato colto dalla morte. Valentinelli NICOLETTI, In libros de anima explanatio cimi textu incluso singulis locis, maxima qiiidem diligentia a vitijs mendis atque erroribus quibus hacteniis ex ignavia impressorum scatebat purgata ac pristine integritati restituta etc. E nel colophon: Scriptum super librimi de anima ex proprio originali diligenter emendatum per clarissimum. artium doctorem. D. magistrum Hieronymum Surianum, filium prestantissimi quondam artium doctoris, Domini magistri lacobi. de Surianis de Arimino Venezia, Eredi di Scoto, comm. post completarti organizationem membrorum generatur intellectiva Hic modus dicendi est superfluiis. Secundus modus dicendi est, quod in quolibet vivente est solum una anima totalis; et quod est ordo in productione animarum, quia FETVS PRIMO VIVIT VITA PIANTE, deinde vita animalis; tamen tales anime simul non manent in eodem, sicut nec due figure, sed in adventu secunde corrumpitur prima, et in adventu tertie corrumpitur secunda. Iste modus est impossibilis, quia tunc aliqua forma per se ageret ad corruptionem sui ipsius. Tertius modus dicendi est, quod in nullo nisi in homine sunt plures forme substantiales seu anime totales, scilicet sensitiva et intellectiva, quarum prima educitur de potentia materie per agens naturale, secunda autem creatur a deo, non obstante quod ita bene inhereat sicut prima, adducendo illud philosophi, de animalibus: intellectus venit deforis. Sed hec opinio includit contradictionem, quia si anima intellectiva inheret materie, ergo educitur de potentia materie et generatur ad generationera corporis animati et corrumpitur ad corruptionem eiusdem. Item hec opinio non est naturalis, quia ponit intellectum creari; et Aristoteles una cum commentatore ponit ipsum perpetuum et eternum. Deinde, si anima intellectiva inheret materie, ergo intellectio et volitio sunt subiective in materia; quod est centra philosophum et commentatorem ponentes potentias rationales esse abstractas a corpore, et consequenter actus illarum. Quartus modus, quem solum puto rationalem, est iste, quod pianta habet solum unam animam totalem, scilicet vegetativam, compositam ex partibus diversarum rationum; et consequenter animai imperfectum simpliciter, quod non habet aliquem sensum exteriorem nisi sensum tactus, nec aliquem motuin ad locum, sed solum motum dilatationis et constrictionis, habet etiam solum unam animam, scilicet sensitivam, que propter sui imperfectionem supplet vices anime vegetative, ita quod in ostrea vel spongia marina eadem anima est sensitiva et vegetativa. Animai autem perfectum habet duplicem animam, scilicet partialem vegetativam, in carne vel osse vel in aliquo proportionali, et Questa teoria è la seconda delle opinioni da N. elencate in Giorn. Crii, della Filos. Ital., ed è ricordata d’ALIGHIERI, Purg., come quello error che crede ch'un 'anima sovr 'altra in noi s'accenda. Questa dottrina, già accolta dal francescano RocheUe, fu difesa, com' è noto, d’AQUINO. lo stesso Giorn. Crii., opinione. Questo tertius modus, che è una teoria intermedia fra quella d’AQUINO e quella schiettamente averroistica, non è altro che la opinione da N. elencate, professata da Alberto Magno, Peckam ed ALIGHIERI. Giorn. Crii.; come pure il voi. Di N., ALIGHIERI e la cultura medievale, Bari, Laterza Questa è anche la tesi di Bate; Sigieri, nel pens. nnam sensitivam totaleni, ut equus vel asinus. HOMO autem, preter partiales animas, habet duas totales: cogitativam sensitivam, generabilem et corruptibilem, inherentem et informantem, et intellectivam perpetuam et eternam, informantem et non inherentem. Da siffatta teoria risultano alcune conseguenze a mò di corollari Tertio sequitur quod HOMO non est homo precise per animam cogitativam, nec precise per animam intellectivam, sed per ambas simili. Cogitativa enim denominat hominem esse animai, et intellectiva denominat hominem esse RATIONALEM. Sed HOMO est diffinitive et convertibiliter ANIMAL RATIONALE – corpi celesti ANIMAL RATIONALE AETERNVM --. Ergo ambe anime concurrimt ad constitutionem hominis. Quo dato, oportet concedere quod, sicut genus est prius differentia et potentiale ad illam, sicut universaliter minus perfectum ad maius perfectum, ita cogitativa est prior intellectiva in homine et potentialis Nella Summa philosophie natura! is o naturalium Venezia. Eredi di Scoto, De anima: conclusio: Necesse est in homine esse plures animas totales. Probatur: nam sol et homo generant hominem, physicorum; ergo homo generatur; sed terminus generationis est forma accipiens novum esse, ut colligitur ex sententia philosophi, phisicorum; ergo aliqua forma hominis generatur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva generatur. Item, philosophus, coeli: omme genitum aliquando corrumpetur; ergo homo aliquando corrumpetur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva. Et ita necesse est ponere in homine duas animas: unam intellectivam, ingenerabilem et incorruptibilem, secundum philosophum, et aliam sensitivam, generabilem et corruptibilem, quam Commentator vocat, de anima, cognitivam cogitativam. Conclusio: Impossibile est in aliquo vivente non intellectivo esse plures animas totales. Patet, quoniam si in plantis vel in brutis ponerentur plures anime totales, una necessario superflueret, quoniam illa que est maioris perfectionis totum actuaret, sicut illa que est minoris perfectionis, et omnes operationes eius exerceret, ex quo in ea fundantur omnes potentie inferioris anime. Dicatur ergo quod in plantis est solum una anima totalis, que est tota in toto et pars in parte, et hec est vegetativa. In animalibus autem imperfectis est solum una anima totalis, et illa est sensitiva, supplens vicem anime, que etiam extenditur ad extensionem subiecti; et in animalibus perfectis sunt plures vegetative partiales et una sensitiva totaUs, multiplicata ad omnem partem heterogeneam. Sed IN HOMINIBVS, praeter formas partiales vegetativas, sunt due totales, scilicet sensitiva multiplicata ad partes heterogeneas, et intellectiva non multiplicata ad aliquam partem illius individui, sed bene ad omnia individua speciei humane, eo quod intellectus est unus in omnibus hominibus, iuxta intentionem Aristotelis et determinationem Commentatoris, de anima. illam sequitur quod idem individuum est diversarum specierum essentialium. Patet, quia HOMO per animam cogitativam sensitivam est alicuius speciei generis animalium, immo supreme speciei, quia, secluso intellectu, PER COGITATIVAM HOMO HABET DISCVRSVM QUODAMMODO RATIONALEM – GRICE PRINCIPLE OF RATIONAL DISCOURSE --, ratione reminiscentie reperte in eo et non in aho; licet enim memoria reperiatur in liis animalibus, non tamen reminiscentia; neque reminiscentia competit homini ratione intellectus, sed ratione cogitative virtutis, quia reminiscentia est passio anime sensitive, secundum Aristotelem, in de meìnoria – GRICE PERSONAL IDENTITY -- et reminiscentia H. Item, quia intellectus humanus est pura potentia in genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio huius, et per consequens est primus gradus illius generis, ideo per intellectum constituit primam speciem intellectivoruni, sicut per cogitativam constituit ultimam speciem generis animalium. Nec est inconveniens duos gradus specificos esse immediatos, quia species sunt sicut numeri, inetaphysice. Et si concluditur ex eodem fundamento, quodlibet mixtum esse diversarum specierum essentialiter, ratione forme mixti et forme elementi, negetur consequentia, quia forma elementi non se habet respectu forme mixti nisi materialiter et potentialiter per modum dispositionis prefinientis in materia formam mixti; ideo non dat mixto nomen specificum nec diffinitionem essentialem. Sed anima cogitativa non se habet tanquam dispositio prefiniens animam intellectivam, cum eque simul inducantur in corpore, nec una potest naturaliter esse sine alia. Cogitativa tamen dicitur esse prior intellectiva et potentialis ad illam propter suam imperfectionem. Come è facile vedere, già in questo luogo dell'esposizione del libro secondo del De anima, la tesi caratteristica di Sigieri, Anche Sigieri, come sappiamo, afferma che la cogitativa è ordinata in intellectivam, talché nec potest intellectus informare materiam non informante cogitativa, nec potest cogitativa informare materiam non informante intellectu; Sigieri nel pens. Quella parte dove sta memora chiama l'anima sensitiva anche Cavalcanti, nella canzone Donna mi prega, tutta pervasa di dottrina averroistica; il mio voi. Dante e la cult, medievale Gli averroisti negano si la memoria che la reminiscenza all'intelletto; il mio voi. Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura Altra tipica tesi di Sigieri che NICOLETTI sviluppa. Allo stesso modo anche nella Summa naturalium Ad secundum dicitur, quod anima intellectiva non advenit enti in actu substantiali, quia eque primo adveniunt corpori sensitiva et intellectiva. Item, dato quod sensitiva precederet tempore intellectivam, adhuc advenit enti in potentia, quia forma sensitiva hominis dicitur potentialis ad ulteriorem actum; non autem anima intellectiva. Hec ergo est differentia inter formam substantialem et accidentalem, quia forma accidentalis advenit enti in actu ultimato, forma autem substantialis advenit enti in potentia, licet non in pura potentia. Ol che r intelletto, pur essendo in sé una sostanza separata unica per tutta la specie umana, s'unisce ai singoli con un vincolo sostanziale, sì da potersi dire forma, atto e perfezione dell'uomo, è accennata in modo esplicito. Ma 1'influsso del brabantino sull'udinese è ancora più evidente nell'esposizione del libro, del pari che nei capitoU della quinta parte della Summa naturalium. In quest'ultimo scritto, NICOLETTI tratta anzitutto della passività o passibilità dell'intelletto umano, formando conclusioni: Quarum prima est ista: Intellectus humanus nullam habet de se in actu speciem intelligibilem, sed ad quamlibet talem est penitus in potentia. Intellectus non est aliqua una natura sed solum habet possibilitatem recipiendi omnes formas materiales. Intellectus possibilis humanus ante intellectionem nullatenus est actu. Intellectus humanus est immaterialis et incorporeus et immixtus. Tutte e quattro queste conclusioni ritornano, con una leggera variazione nel loro ordine, in principio dell'esposizione del De anima; ma qui alla conclusione che corrisponde alla seconda della Summa, il maestro padovano ricollega il problema dell'unità dell'intelletto che nella Summa è discusso. Tanto nella Summa naturalium conclusio, quanto nell'esposizione del De anima combatte la tesi sostenuta un tempo a Oxford da Kilwardby e Wilton, e accolta anche da Jandum, che in aliquo vivente possit esse multitudo formarum iuxta pluralitatem predicatorum essentialium Della qual tesi nell'esposizione del De anima egli dà questo riassunto: Tenentes pluralitatem formarum in eodem iuxta multitudinem predicatorum quiditativorum, dicunt quod prima forma Sortis est illa qua ipse est substantia, et secunda qua est corpus, et tertia qua est corpus animatum, et quarta qua est animai, et quinta qua est HOMO, et sexta qua est Sortes; et ita de individuis aliarum specierum; et imaginantur isti quod, quantum ad animam sensitivam, omnia animalia sunt eiusdem rationis substantialis, a qua sumitur hoc genus animai; et secundum formas ulteriores specifìcas, sunt homines, equi et canes diversarum rationum substantialium; concedentes omnes tales formas realiter distingui et fundari in materia inhesive, ordine essentiali, secundum quod taha predicata invicem essentiahter ordinantur. Ista opinio est impossibilis. Summa naturai., In libros de anima col. Sul modo di concepire la passività dell'intelletto possibile e il concorso dell'intelletto agente e del fantasma ll'atto dell'intendere, l'eremitano riferisce opinioni, l'ultima delle quali è quella d'Averroè: Opinio est Averroys intellectui possibili nihil nisi passibilitates assignantis, fantasmati vero activitatem tanquam particulari agenti, et intellectui agenti tanquam agenti universali; ita quod ad primas intellectiones et species intelligibiles concurrit fantasma tanquam agens particulare, et intellectus agens tanquam agens vniiversale; ad omnes autem conseguentes se habet intellectus agens sicut causa particularis, fantasma autem sicut causa sine qua non, intellectus autem possibilis solum recipit et nunquam agit. Da questa opinione NICOLETTI dichiara di dissentire, non per quel che concerne le prime intellezioni, nelle quali l'intelletto possibile è totalmente in potenza, e quindi del tutto passivo, sibbene per quel che concerne le intellezioni successive, alle quali, essendo già attuato dalle prime, è in grado di concorrere attivamente, semper tamen virtute intellectus agentis. Di qui la conclusione formulata piti oltre, che cioè: Intellectus ante actuationem speciei intelligibilis aliter est in potentia quam post actuationem eius. Dopo aver affermato l'essenziale passività dell'intelletto possibile, NICOLETTI si pone nella Summa naUiralmni il quesito del rapporto da stabihre tra questo intelletto e il corpo umano, intorno al quale tam Inter veteres quam modernos multa discrepantia fuit. E prima di tutto ricorda quod Plato posuit intellectum uniri corpori, non ut formam materie, sed ut motorem mobili, eo modo quo nauta unitur navi et intelligentia orbi, non per modum informationis, sed per contactum virtutis alium a contactu corporeo. Il problema fu a lungo discusso fra le varie scuole nella scolastica della decadenza, senza che ci si rende ben conto della sua gravità, poiché è problema che investe tutta la filosofia fino a Kant: come salvare l'immanenza dell'atto del conoscere, se esso ha bisogno d'una causa esterna che la produca nel soggetto conoscente Summa naturai Quanto ad Averroè, il nostro eremitano ne espone il pensiero in questi termini: Secundo notandum ex intentione commentatoris, ij de anima comm, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam, et non cedit ei organum fantasticum seu imaginative virtutis, cum sit quid corporale, intellectus autem quid spirituale; organum predictum non cedit intellectui, et per consequens illa eadem intentio que informat virtutem imaginativam, informat intellectum materialem; et hoc dico quia intellectus copulatur nobis per formam suam. Copulatur enim nobis per intentiones imaginatas, que sunt eedem cum intentionibus existentibus in intellectu possibili; et ita unitur homini per fantasmata intellecta in actu. Intentiones enim imaginative, per commentatorem, ut informant virtutem imaginativam, plurificantur, quia sunt ibi cum conditionibus materie; sed ut informant intellectum possibilem fiunt una intentio in ipso, quia non recipit cum conditionibus materie. Et ideo inquit Commentator, quod copulatur nobis intellectus per continuationem intentionis intellecte, quia eadem est intentio informans intellectum et virtutem imaginativam. Siffatta interpretazione del pensiero del commentatore arabo anzi che da Sigieri è suggerita invece da COLONNA, al quale il confratello veneto s'appella esplicitamente nel commento al De anima: Opinio fuit Averoys dicentis quod intellectus humanus non unitur corpori ut forma, sed per fantasmata intellecta in actu. Ad quod declarandum, est notandum primo secundum eum in hoc tertio, iuxta expositionem COLONNA, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam etc. All'opinione d'Averroè, NICOLETTI aggiunge quella di Jandun che, al parere di N., egH non ha ben compreso. Ecco ad ogni modo com'egli la riassume: Opinio fuit ianduno dicentis quod intellectus, secundum commentatorem, unitur corpori humano, non ut forma dans esse, sed ut motor mobili dans operari, eo modo quo unitur intelligentia orbi et nauta navi; concedens consequenter quod datur duplex homo: unus qui componitur ex corpore et anima cogitativa; et alius qui componitur ex intellectu et toto residuo In libros de anima COLONNA, Do intell. pass, contra Averr., Venezia quibus proportionaliter respondet duplex intelligere, scilicet universale et particulare; homo sumptus primo modo, solum particularia intelligit; et sumptus secundo modo intelligit solum universalia. A queste opinioni egli oppone la tesi d'Aristotele, secondo il quale l'intelletto è vera forma sostanziale dell'uomo, cui dà essere ed operare. Ma com'egli intenda il pensiero dello Stagirita su questo punto, c'è detto nella Summa naturalium. Anima intellectiva non unitur corpori humano per inherentiam. Patet tripliciter: primo quia ipsa est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima; modo nulla forma inheret materie per transmutationem, scilicet materie que non generatur et corrumpitur, ut colligitur a philosopho, de genevatione, et a Commentore, in de substantia orbis. quia intellectus est impassibilis et intransmutabilis, de anima; sed nulla forma inheret materie nisi per transmutationem et passionem. quia anima intellectiva est indivisibilis et impartibilis per carentiam partium integralium; nam quelibet forma inherens materie suscipit conditiones intrinsecas materie secundum quas inheret; cum ergo conditio materie, secundum quam forma inheret, sit habere partes integrales, licet non partem extra partem, quia hec est conditio quantitatis, etc. Anima intellectiva unitur homini substantialiter per informationem, ita quod est forma substantialis corhumani, non solum dans operari, sicut intelligentia orbi, sed etiam esse specificum et essentiale. Probatur: differentia specifica constituens aliquam speciem sumitur a forma illius speciei, sicut apparet ex intentione philosophi, metaphysice, dicentis quod contraria consequentia materiam non faciunt differentiam in specie, sed contraria consequentia formam; modo differentia propria hominis est rationale; ergo sumitur a forma humana; sed rationale sumitur ab eo quod est intellectivum; ergo intellectus vel anima intellectiva est forma corporis humani. Item, rationale ponitur in diffinitione eius non tanquam additamentum, sed tanquam differentia eius, ut ponit Porphyrius et Aristoteles; ergo rationale est de essentia hominis; sed nihil est per se rationale nisi per aniinam intellecti Sigieri Opinio fuit Aristotelis dicentis intellectum esse veram formam substantialem hominis. Ideo est dicendum cum Aristotele et alijs perypateticis veris, quod intellectus est iorma substantialis hominis, dans sibi esse et operari..vam; ergo etc. Unde ex diffinitione anime data a phylosopho, de anima, convincitur hanc conclusionem esse de intentione sua. Arguitur enim sic: Anima intellectiva secundum ipsum est anima; ergo est actus primus corporis; patet consequentia a dififinito ad diffinitionem; ergo est forma substantialis; patet consequentia secundum phylosophum, de anima, eo quod actus primus est forma substantialis corporis; et nonnisi corporis humani; ergo etc. Deinde anima intellectiva est illud quo primo intelligimus; ergo est forma substantialis hominis; patet consequentia, quia non est alia ratio ad probandum animam vegetativam esse formam substantialem corporis vegetantis, et animam sensitivam esse formam corporis sensitivi; ergo etc. L'anima intellettiva dunque è, sì, forma dell'uomo, in quanto gli dà l'essere e l'operare di uomo, ma non perché sia inerente al suo corpo alla stessa maniera delle altre forme naturali. Su questa differenza NICOLETTI ritorna anche nel commento al De anima: Intelligenda est differentia inter informare et inherere: quoniam informare est dare alteri esse actuale et hoc dicit perfectionem in forma, imperfectionem in materia, quia dare dicit perfectionem; sed inherere est ab alio sustantificari, et hoc dicit perfectionem in materia et imperfectionem in forma, quoniam sustantificare dicit perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam a subiecto – GRICE SUBSTANTIATION --. Ex isto notabili, sequitur quod anima intellectiva, licet informet corpus humanum, non tamen nheret illi, quia non dependet ab eo; quocumque enim tali corpore dato, ante illud fuit et post illud erit anima intellectiva, cum illud generetur et corrumpatur, anima autem intellectiva sit eterna. Ouatuor rationibus arguitur animam intellectivam non inherere materie; quarum prima est ista: anima intellectiva non educitur de potentia materie; ergo sibi non inheret. Secunda ratio: anima intellectiva est prior materia; ergo non inheret illi. Tertia ratio: anima intellectiva est impassibilis et intransmutabilis; ergo non inheret materie. Quarta ratio: anima intellectiva est indivisibilis et inpartibilis per carentiam partium integralium, secundum philosophum et commentatorem, in hoc tertio; ergo non inheret materie. Anima sensitiva o cogitativa ed anima intellettiva son dunque, per il maestro padovano, due forme totali che costituiscono l'uomo nella sua natura di animale ragionevole. Ma pur essendo due forme distinte, sono unite da un intimo In libros de anima legame talmente stretto, che l'una è fatta per l'altra e l'una completa l'altra. Per questa ragione Nifo, più che due anime le dice due semi-anime costituenti, pella loro sostanziale unione, una sola anima umana; -- GRICE UN TERTIUM ANIMAE -- che è anche il pensiero d’ALIGHIERI, il quale ad esprimerlo si serve della immagine del calor del sole che si fa vino, giunto all'omor che dalla vite cola. La tesi di NICOLETTI è dunque identica in sostanza alla tesi professata da Sigieri nel trattato in risposta a quello d’AQUINO contro gli averroisti; ma d'accordo col brabantino il maestro padovano non è nella pretesa d'attribuire questa tesi al commentatore arabo; anzi egli riconosce che è vero il contrario: Cominentator tamen diceret intellectum per se subsistere, et ipsum non uniri materie ut formam; sed non sui ipsius{sic, leggi: sum ipsius) opinionis. Ma se il nostro eremitano dissente da Sigieri su questo particolare, non dissente affatto da lui nel ritenere che, pur essendo forma dell'uomo, l'intelletto possibile è unico per tutti gli uomini. E nella Summa naturalium ritiene sia questo il pensiero non soltanto d'Averroè, bensì quello d'Aristotele: Unde secundum philosophum, primo et tertio de anima, natura nihil facit frustra et non abundat in superfluis, nec deficit in necessariis; cum igitur natura alicui speciei non dederit nisi unum individuum, et alteri plura, hoc est ideo, quia una species in uno individuo potest se perpetuo preservare, et non alia; ut species angelica que perpetuo preservatur in una intelligentia, et non species humana; sed ita est quod species anime intellective potest se preservare perpetuo in uno individuo, quia anima intellectiva est perpetua et eterna sicut aliqua intelligentia celestis, ergo frustra et preter intentionem nature ponuntur plures anime intellectuales solo numero differentes. tem, intellectus venit de foris, secundum philosophum, libro de animalibus: aut ergo per creationem, iuxta opinionem fidei; aut per motum a corporibus celestibus, iuxta opinionem Platonis; aut per introitum unius corporis, aliud relinquendo, iuxta opinionem Pictagore; aut per novam actuationem unius corporis humani, aliud non relinquendo: nullus trium priorum modorum potest assignari, quia intuenti libros Aristotelis notum est ipsum oppositum Sigieri nel pens.Purg. In libros de anima opinari; ergo est dare quartum modum; et cum in eodem corpore non possint esse plures anime intellective simul, secundum omnes opiniones, sequitur quod unicus est intellectus in omnibus hominibus secundum intentionem Aristotelis. E più oltre: Quarta conclusio: Intellectus non numeratur numeratione individuorum, sed est unicus in omnibus hominibus. Probatur: pluralitas individuorum in eadem specie non est nisi per materiam, per philosophum, celi, et metaphysice, ubi probat quod non possunt esse plures intelligentie separate solo numero differentes, per hoc medium: quecunque conveniunt in eadem specie et differunt numero, habent materiam; sed anima intellectivam non habet materiam scilicet ex qua, nec in qua per inherentiam; ergo etc. Unde arguitur sic: anima intellectiva est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima, et non contingit dare multitudinem infinitam, celi et physicorum, et species sunt eterne, posteriorum et physicorum; ergo unica est anima intellectiva omnium. Patet consequentia, quia, si anima intellectiva mutatur mutatione individuorum speciei humane, aut ergo per generationem et corruptionem, ut posuit Alexander, et hoc non, quia repugnat prime parti antecedentis; aut per multiplicationem finitam animarum recedentium et advenientium, ut posuit Plato vel Pictagoras, et hoc iterum non, quia omnes sciunt oppositum scripsisse Aristotelem; aut per generationem vel creationem et incorruptibilitatem, ut ponit fides, et hoc iterum non, quia repugnat secunde et tertie parti antecedentis; ergo oportet dare unicum intellectum in omnibus hominibus, secundum opinionem et intentionem Aristotelis. La stessa tesi NICOLETTI sostiene anche nell'esposizione del De animaci, ma con una piccola variazione: nella Summa, la teoria dell'unico intelletto in tutti gli uomini è detta sen In libros de anima: Secundo notandum, secundum Commentatorem, eodem commento, quod Illa natura intellectus non est hoc aliquid, nec corpus nec virtus in corpore, quoniam, si ita esset, tunc reciperet formas secundum quod sunt diverse et individuales; et si ita esset, tunc forme existentes in illa essent intellecte in potentia, et sic non distingueret naturam formarum secundum quod sunt forme, sicut est dispositio in formis individualibus, sive in spiritualibus sive in corporalibus. Intentio commentatoris est, quod intellectus humanus non sit aliquid singulare vel individuum, ex quo non est corpus nec virtus in corpore; quoniam materia est ratio individuationis, a qua separatur intellectus humanus sicut et quelibet intelligentia celi. Tria ergo inconvenientia adducit, concesso quod intellectus sit hoc aliquid. Primum inconveniens est, quod intellectus z'altro rispondere al pensiero d'Aristotele iuxta impositionem Commentatoris; nel commento invece è presentata semplicemente come intentio e opinio Commentatoris: segno che sul vero pensiero d'Aristotele s'era forse affacciato qualche dubbio alla mente del maestro padovano. Un'altra tesi tipica di Sigieri consiste, come sappiamo, nel ritenere che l' intelletto agente, tanto per Aristotele quanto per il suo commentatore arabo, sia Dio. Nella Summa naturalium, NICOLETTI ritiene: quod intellectus agens et possibilis non separantur ab anima intellectiva, sed sunt differentie illius non substantiales, sed accidentales. Intellectus agens est coniunctus anime intellective per inherentiam et fantasmatibvis per presentiam et indistantiam. Per altro nella risposta Ad primum argumentum egli accenna anche alla tesi di Sigieri, ma senza aderire ad essa: Commentator autem vult intellectum possibilem esse essentiam anime intellective, et intellectum agentem esse primam cavisam, vitaliter immutantem ipsum intellectum possibilem; sed hanc opinionem non teneo ad presens. Invece, quando scrive l'esposizione al De anima, egli era ormai convinto che la tesi di Sigieri fosse la sola vera, non soltanto dal punto di vista della filosofia aristotelica, ma altresì da quello teologico: Dubitatur, si intellectus agens et possibilis differunt tam inter se quam ab assentia anime, utrum sint substantie vel accidentia. In hac materia fuerunt quatuor opiniones. Prima fuit Avicenne et Algacelis, dicentium intellectum agentem et possibilem esse substantias invicem separatas loco et subiecto, ita quod secundum eum sic intellectus possibilis est forma hominis, et intellectus agens est decima intelligentia appropriata decime spere, a qua nostra felicitas dependet; sicut ergo iste unus sol non reciperet nisi formas individuales et secundum quod sunt diverse. Secundum inconveniens: quod species intelligibiles essent intentiones intellecte in potentia et non in actu; quod est falsum, cum sint universales et depurate a conditionibus materialibus. Tertium inconveniens: quod intellectus non poneret differentiam inter formas universales et singulares, sive ille forme corporales sive spirituales. E dopo aver riferite obiezioni contra commentatorem, comincia la sua risposta con queste sintomatiche parole: Responsurus prò opinione Averroys, dico totum universum illuminat, per cuius illuminationem possunt omnes oculi videre, sic, dicebant illi, est aliqua una substantia separata irradians super fantasmata omnium hominum, per cuius irradiationem possunt omnes homines intelligere. Hec opinio est in parte defectuosa, quia postquam intellectus factus est in actu nos intelligimus quandocumque volumus, secundum quod posuit supra Commentator et habetur ad experientiam; sed talis substantia separata non videtur irradiare supra fantasmata quandocunque volumus, sicut nec sol illuminat oculum quandocunque volumus; cum ergo non intelligamus absque intellectu agente, ergo intellectus agens non est talis intelligentia separata. Siffatta critica della tesi d'Avicenna, ci fa presentire come la pensi NICOLETTI su quest'argomento: se invece di identificare r intelletto agente colla decima intelligenza celeste, che è r infima delle intelligenze separate, Avicenna l'avesse identificato con Dio, questo certamente irradia della sua luce i fantasmi quandocumque volumus. Il difetto insomma di questa teoria consiste nell'avere identificato l'intelletto agente con un intelletto particolare, anzi che con un intelletto veramente universale. Dopo di che, NICOLETTI espone e critica come seconda opinione quella di COLONNA, AQUINO, e di tutti quegli antichi scolastici che ritenevano l'intelletto possibile ed agente facoltà accidentali dell'anima. La terza opinione, da lui riferita parimente rifiutata, è quella di Giovanni Eucliph, ossia WycHf, il cui ricordo dove essere ancora ben vivo a Oxford, quando vi giunge il nostro eremitano. Indi prosegue: In libros de anima La opinione è così riassunta: opinio fuit Eucliph dicentis intellectum possibilem et intellectum agentem esse potentias anime inteUective, non tamen esse substantias nec accidentia; sicut enim dicunt theologi quod pater, filius et spiritus sanctus sunt tres persone realiter distincte, non tamen tres substantie nec tria accidentia, sed una substantia que est deus, ita intellectus agens et intellectus possibilis et voluntas sunt tres potentie realiter distincte, non tamen tres substantie, nec tria accidentia, sed una substantia que est anima intellectiva; et sicut pater non est filius, nec spiritus sanctus, et tamen est ille idem deus qui est filius et spiritus sanctus, ita intellectus agens non est intellectus possibilis nec voluntas, et tamen est intellectus agens illa eadem anima intellectiva numero, que est voluntas et intellectus possibilis. Opinio ista non est tenenda phylosophice nec theologice etc. Quarta opinio, que tenenda est, fuit Aristotelis ponentis intellectum agentem et possibilem esse virtutes et potentias anime non subtantiales nec accidentales, sed intellectum possibilem esse accidens proprium et inseparabile anime intellective, quo recipit omnes formas speculativas, sicut materia prima per suam accidentalem potentiam recipit omnes forinas naturales. Intellectuin vero agentem voluit esse substantiam primam, coniunctam intellectui possibili non per modum forme informantis nec inherentis, sed per modum forme et habitus presentis et indistantis; nec aliqua intelligentia, preter primam que deus est, potuit esse intellectus agens, quia, sicut potentialitati prime materie respondet actus purissimus in quo sunt active omnes forme naturales que sunt in prima materia passive, ita potentialitati anime intellective competere correspondere agens primum, in quo sunt effective omnes forme speculative, que passive sunt in anima intellectiva, mediante intellectu possibili. Si enim aliqua intelligentia dependens esset intellectus agens, per istam non posset intellectus possibilis intelligere primam causam, quia intellectus agens abstrahit intellecta et agit ea, secundum Commentatorem; modo nulla intelligentia inferior potest abstrahere causam primam nec in illam aliquo modo agere, ratione independentie suedependentie et imperfectionis. Et hec opinio non solum est physica, sed etiam a theologis tenetur. Nel commento al De anima, dunque, ogni riserva è sciolta, e NICOLETTI giudica la dottrina che identifica l'intelletto agente colla causa prima, cioè con Dio, non soltanto conforme al pensiero d'Aristotele e d'Averroè, ma senz'altro vera in se stessa e tenuta dai filosofi, non meno che da non pochi teologi. La tesi di Sigieri, intorno alla quale aveva avuto dei dubbi, aveva finito per prendere il sopravevnto nel suo animo. Altrettanto non possiamo dire d'un'altra tesi del brabantino, strettamente connessa con quella che concerne l'intelletto agente, la teoria cioè della beatitudine per mezzo del congiungimento della mente umana coli'intelletto divino. Su questo punto Sigieri aveva fatta sua l'interpretazione che il Commentatore arabo, nella celebre digressione inserita nel commento del De anima, dava del Allo stesso modo per Dante, Conv. l'anima in vita tratta per virtù celestiale dalla potenza del seme, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima intelligenza è. Sul qual passo, N. Dante e la cultura medievale e Giorn. Crit. filos. Hai.. QI pensiero d'Aristotele. Anche l'eremitano sa bene come la pensa Averroè: Commentator autem dicit de annna, quod, cum intellectus possibilis fuerit intellectus adeptus, id est actuatus omnium specierum materialium, intelligit intellectum agentem per essentiam propriam Ma neppur questa volta egli è dell'avviso dell'arabo; e postosi il quesito Qualiter intellectus noster intelligit substantias separatas, lo risolve affermando che l'intelletto umano conosce le sostanze immateriali non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Così nella Summa naturalium. Ma nell'esposizione del De anima è anche più esplicito, se fosse possibile. Postosi di nuovo il problema Utrum intellectus possit intelligentias separatas cognoscere, fa questa osservazione che è presa alla lettera dal commento d’AQUINO: Istam questionem non solvit hic philosophus, dicens se determinaturum alibi, scilicet in libro metaphysice; hec questio tamen non invenitur soluta per ipsum, quia complementum illius scientie nondum ad nos pervenit, vai quia nondum est totus liber translatus, vel forte morte preoccupatus librum non complevit. Ciò non di meno egli espone qual fosse il pensiero d'Averroè e in che differisse da quello degli altri interpreti della dottrina d'Aristotele. Ma giunto alla fine della discussione, egli ci fa sapere quod hec opinio iam non tenetur a theologis vel philosophis, e ripete quod intelligentie separate cognoscuntur ab intellectu possibili non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Da quanto precede, mi pare risulti in modo da non lasciar dubbio, che Nicoletti, quando insegna a Padova, aveva od aveva avuto tra mano per lo meno lo scritto di Sigieri in risposta al trattato d’AQUINO. De unitale intellechis. Questa e verosimilmente altre opere del brabantino circolavano già fra i maestri dello studio padovano, o fu il Summa naturai In libros de anima AQUINO, De anima. nostro eremitano a portarvele, forse da Oxford o da Parigi? Non saprei che dire, perché tanto l'una che l'altra supposizione, in mancanza di dati sicuri, è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche nella letteratura manoscritta concernente i maestri che professarono a Padova e Bologna potranno gettare qualche luce sulle correnti d'idee che fervevano in quei due centri d'intensa vita intellettuale. Per il momento, a noi basti di ricordare quel maestro Taddeo da Parma, il quale insegna a Bologna, e che nel suo commento al De anima accoglie la tesi difesa da Sigieri nelle Quaestiones de anima intellectiva. Ma Taddeo, più che l'opera del brabantino sembra aver letto le Quaestiones di Jandun, le quali ebbero in Italia la più larga diffusione e furono trascritte e stampate in parecchie edizioni, discusse con vivacità e qualche volta fraintese. Fraintesa in particolare sembra essere stata da NICOLETTI, e da altri la dottrina intorno al modo come l'anima intellettiva è forma del corpo, la quale, come già sappiamo è in sostanza quella di Sigieri, cui espHcitamente accenna. Il bisogno di togliere alla dottrina averroistica quello che essa aveva d'eretico, dopo che il concilio di Vienne aveva definito esser l'intelletto forma del corpo umano, dove invogliare gl’averroisti italiani a procurarsi quegli scritti nei quali Sigieri s'era difeso contro le obiezioni d’AQUINO, e nei quali, senza rinunziare alla tesi dell'unico intelletto avea tentato di dimostrare com'esso s'unisse all'uomo con tale intimo e sostanziale legame, da potersi dire forma dell'individuo umano cui s'attribuisce l'atto dell'intendere. L'insegnamento di Nicoletti a Padova è una inequivocabile testimonianza che gli scritti di Sigieri non erano ignoti. Un'altra cosa questo insegnamento ci attesta: che la dottrina averroistica poteva esser liberamente discussa ed esposta a Padova, senza che chi se ne fa sostenitore incorresse nella taccia d'eretico; tanto vero che NICOLETTI non sente neppure il bisogno di Vanni Rovighi, Le Quaestiones de anima di Taddeo da Parma. Testo e introduzione. Milano, Soc. Ed. Vita e pensiero ripetere la solita formale protesta, che altri averroisti avevano cura di non omettere, cioè che essi trattavano dallo spinoso argomento come filosofi e non come teologi. E forse perché gli averroisti padovani usano senza parsimonia di questa libertà, il vescovo Barozzi d'accordo coli' inquisitore locale proibì quovis quaesito colore le dispute intorno all'unità dell'intelletto. Ma il divieto riguarda la DIOCESI di Padova, e non, per esempio, Bologna e Pavia, ove si continua a disputare con grande spregiudicatezza. Non mi stancherò mai dal ripetere, per coloro che han l'animo sgombro da pregiudizi, che una vera e propria dottrina della doppia verità nel medio evo e nel Rinascimento non fu mai sostenuta da alcuno. Molti invece furon quelli che, contro il concordismo d’AQUINO, posero in rilievo l'opposizione di fatto fra la teologia e la filosofia, intendendo per filosofia la dottrina della natura congegnata in sistema da Aristotele, detto perciò il filosofo per eccellenza, e sviluppata dai suoi commentatori. Il primo a rendersi conto, in modo chiaro ed esphcito, di questa opposizione, fu Alberto. Il quale, non solo dichiara apertamente che theologica cum physicis principiis non conveniunt, ma giungeva fino a sostenere, non doversi far caso dei miracoli che Dio opera oltre il potere della natura, quando si tratta di conoscere quello che è il corso degli eventi naturali. Perciò, egli che s'era proposto totam Aristotelis scientiam prò viribus explanare, dichiarava di rifuggire dall'interpretazione che del pensiero aristotelico danno i dottori latini: quoniam in istarum quaestionum determinatione omnino Giorn. Crit. di Filos. Ital., e in Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, nonché quanto ne ha scritto Gilson, Etudes de philos. médiév., Strasbourg; id., Dante et la philosophie, Paris A. Magno, Metaphys. A. Magno, De gener. et corrupt., la mia nota La posizione di Alberto di fronte all'averroismo, Riv. di Storia d. Filos. abhorremus doctorum latinorum verba; fra i quali è sicuramente il suo confratello italiano, Aquino. Luigi Speranza -- Grice e Giavelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- semantica del segnare -- segnante e segnato – filosofia fortinese – la scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (S. Giorgio di Canavese). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Grice: “I love Javelli – he is, like me, an Aristotelian; being a northern Italian, he is a Thomstic Aristotelian, which I’m not sure I am!” Grice: “One good thing about Javelli is that he commented on MOST works by Aristotle!” -- Essential Italian philosopher. Studia a Bologna. Fu esegeta. Argomenta contro Lutero. Opera omnia” (Lione, Giunta). Partecipa al dibattito sul Tractatus de immortalitate animae di Pomponazzi, di cui scrisse, su richiesta di Pomponazzi stesso una confutazione. Partecipa al dibattito sul divorzio di Enrico VIII, esponendosi a favore della scelta del sovrano. M. Tavuzzi, in "Angelicum", DBI.Casale Monferrato. Crisostomo Javelli was born in 1470 c., presumably in Piedmont, joins the Dominicans. On G. see GILSON, Autour de Pomponazzi: problématique de l'immortalité de l'âme en Italie, Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age; TAVUZZI, G. OP A Biobibliographical Essay: Biography, Angelicum, G. A Biobibliographical Essay: Bibliography », Angelicum. G. is the author of a Compendium Logicæ. The structure of G.’s work mirrors Ockham's Summa logicae in many respects, but also NICOLETTI (si veda)’s Logica Parva (unlike NICOLETTI (si veda), however, G. does not deal with obligations and insolubles. The Compendium deals with the following topics: Introductory remarks, which include a short history of logic; terms (this part corresponds to the doctrine dealt with by Aristotle in De Interpretatione); propositions; the five praedicabilia (this section corresponds to Porphyry's Isagoge); the antepraedicamenta, the doctrine of the categories (praedicamenta), and the postpraedicamenta (this treatise, as is clear, corresponds to Aristotle's Categories); syllogism; supposition theory; ampliatio and appellatio, i.e. changes in the supposition of a term and changes in the tenses of verbs; theory of consequentiae; de probatione terminorum (this treatise deals with the ways in which it is possible to show the truth, or the probability of a proposition); demonstrative syllogism (this part aims at expounding what Aristotle says in his Posterior Analytics). The treatise is published in in Venice. The Compendium is rather successful, and goes through many editions. G. has many teaching positions within the dominican order and, most probably, he writes his Compendium logicæ for didactic purposes. The tendency to systematize the new logic of the late medieval authors and to present it as consistent with Aristotle's logic is even more evident than in SAVONAROLA (si veda)’s Compendium. G. is also influenced by the humanists, inasmuch as his treatises draw attention to the linguistic, and historical context in which ancient logic arose. If VALLA (si veda) criticizes NICOLETTI (si veda) for the latter's unfamiliarity with the Greek language, G. dwells on the etymology of many key terms of logic, and shows a certain familiarity with both Greek and Latin. . Prima di lui c'erano stati NICOLETTI e Thiene, di cui il recanatese era stato discepolo. Nicoletum, et petere quod diete littere revocentur, tanquam impetrate et concesse contra formam statutorum dicti collegi, ipso collegio et iuribus suis inauditis. Et super hoc factis multis sermonibus et arengationibus, prefatus dominus prior posuit ad partitum, quod quibus placet quod acceptetur in collegio d. M. Nicolectus iuxta tenorem literarum Serenissimi domini, ponat suffragia sua in pisside rubea; quibus vero placuerit quod defensentur iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum per expertos dicti collegi, ponat balotam suam in pisside viridi. Et facto scrutinio cum bussolis et balotis, in vente fuerunt balote quinque in pisside rubea, in favorem dicti M. Nicoleti, et balote xv in pisside viride, quod defensentur iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum. Cinque contro sedici costituisce un bello scacco per ser Nicoletto. Tuttavia è notevole che cinque membri del Collegio si mostrassero disposti, fin dal primo momento, a incassare il colpo, non ostante l'affronto al corpo. Lo facevano per simpatia verso il filosofo chietino, o perché eran persuasi anch'essi che durum est contra stimulum calcitrare? Si trattava ora di eleggere coloro che dovevano assumersi la difesa dei diritti del collegio al cospetto dei rettori della città e del governo della Serenissima. Deinde posuit prior ad partitum, de consensu dominorum consiliariorum, quod quibus placet quod elligantur d. M. Nicolaus de Sancta Sophia, d. M. Ioannes Michael de Bredepal In Tysberum DE SENSV composito ac diviso cum eiusdem collectaneis in suppositiones NICOLETTI. Nec non Tractatus Alexandri Sermonete, Bernardini Petri de Landìtciis, Pauli Pergulensis et Baptiste da Fabriano in eundeni Tysberum. Item qiiestiones Frachanciani Vicentini in consecittiones etc. Venetiis, impensa heredum q. Oct. Scoti, e dedicate a Sermoneta. Esse appartengo Cremona (Vedi Francesco Arisi, Cremona literata, Parma e Tiraboschi, Storia della Letteratura italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo; ebbe fama grandissima e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima del Pomponazzi a Carte che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et Apollinaris ejus discipulus ». E difensore della filosofia cristiana contro l'Averroismo; insegna a Piacenza evi e aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al “De Anima” del LIZIO esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso e stampato più volte. La prima edizione è di Milano (Vedi il Tiraboschi e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato a Venezia, esistente nella Biblioteca Alessandrina di Roma, da Locatell, si trovano la Logica di Pietro da Mantova; il trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo instante”) citato da Pomponazzi nel suo “De Anima”; un trattato responsivo di O. Apollinare da Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; un commento di Menghi alla Logica di maestro Paolo Veneto. NICOLETTI. Le due opere del Mantovano portano questi titoli: Viiri præclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter. Incipil sublilissimus tractatus ejusdem deinslanli. Il trattato d’O. ha per titolo “Illustris philosophi et medici O. Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del Mantovano che Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani) de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se el quam libel sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl, -sul “De Anima” un corso che non puo finire. Forse ad esso si riferiva il Nicoletti. Keywords. Refs.: H. P. Grice, “Paolo da Harborne, and Paolo da Venezia,” lecture for the Club Griceiano Anglo-Italiano, Bordighera. Luigi Speranza, “Grice e Nicoletti: quadratura ed implicatura” – The Swimming-Pool Library. Nicoletti. Keywords. Refs.: H. P. Grice, “Paolo da Harborne, and Paolo da Venezia,” lecture for the Club Griceiano Anglo-Italiano, Bordighera. Luigi Speranza, “Grice e Nicoletti: quadratura ed implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nifo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale ludicra – la scuola di Sessa -- filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sessa). Abstract. When Grice decided to import ‘soul’ into the philosophical vocabulary, he was following Nifo!. Keywords: animus, anima, soul. Filosofo italiano. Sessa, Caserta, Campania. Grice: “I like Nifo; first, because he wrote a treatise he called ‘ludicrous rhetoric;’ second, because he tried to refute Pomponazzi against the mortality of the soul – surely the soul is ‘mortal’ is a category mistake --.” Alla corte di Carlo V (L. Toro, Sessa Aurunca). Studia Padova sotto Vernia. Insegna a Padova, Napoli, Roma e Pisa, guadagnando una fama tale da essere incaricato e pagato da Leone X di difendere l’immortalità dell’animo di Leone X contro gl’attacchi di Pomponazzi e degli alessandristi. Ricompensato con la nomina a conte palatino con il diritto di assumere il cognome del Papa, Medici. La sua prima filosofia si ispira ad Averroè, modifica poi la propria visione giungendo a posizioni più vicine al domma romano. Pubblica un'edizione delle opere di Averroè corredate di un commento compatibile con la sua nuova posizione. Nella grande controversia con gli alessandristi si oppose alla tesi di Pomponazzi per il quale l'animo razionale non e separabile dal corpo materiale e, dunque, la morte di questo porta con sé anche la scomparsa dell'anima. Sostenne, invece, che l'animo di Leone X, quale parte dell'intelletto assoluto, non e distruttibile e alla morte del corpo di Leone X si fonde in un'unità eterna. Tra i suoi allievi, presso Salerno, tra gli altri, ricordiamo, Rosselli, filosofo calabrese autore di un testo molto controverso, Apologeticus adversos cucullatos (Parma), in cui cerca di affermare le sue dottrine che tendono a discostarsi da quello del suo maestro. Lo si ritiene protagonista di un curioso episodio. Pubblica il trattato “De regnandi peritia” (la perizia di regnare), che alcuni ritengono essere un plagio del più noto “Il Principe” di Machiavelli del cui manoscritto e venuto in possesso. Gli e conferita la cittadinanza onoraria di Napoli ed iessa e estesa ai figli ed agli eredi in perpetuo.A lui è dedicato il Convitto Nazionale di Sessa Aurunca, della quale e anche sindaco. Saggi:“Liber de intellectu”; “De immortalitate animi”; “De infinitate primi motoris quaestio” [cf. Bruno, Galilei, Novaro, infinito]; “Opuscula moralia et politica”; “Dialectica ludicra,” “De regnandi peritia.” Furono poi più volte ripubblicati, in quanto ampiamente diffusi, i suoi numerosi commentari su Aristotele, di cui i più importanti sono “Aristotelis de generatione et corruptione liber N. philosopho Suessano interprete et expositore”; “Expositiones in libros de sophisticos elenchis Aristotelis”; “Expositiones in omnes libros de Historia animalim, de partibus animalium et earum causis ac de Generatione animalium, In libris Aristotelis meteorologicis commentaria” (Venezia, Ottaviano Scoto); Physicorum auscultationum Aristotelis libri octo”; “Super Libros Priorum Aristotelis”; “Commentarium in III libros Aristotelis De anima”; “Dilucidarium metaphysicarum disputationum in Aristotelis Deum et quatuor libros metaphysicarum”. “Dialectica ludicra”. Biblioteca del Convitto, Dialectica; “Dialectica ludicra”; “In libris Aristotelis meteorologicis commentaria”; “In libros Aristotelis De generatione et corruptione interpretationes et commentaria, Biblioteca del Convitto Nifo di Sessa Aurunca; “In libros Aristotelis de generatione et corruptione interpretationes et commentaria. G. Gabrieli, "Raccolta Storica dei Comuni", Istituto di Studi Atellani, Sant'Arpino, C. De Lellis, Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Napoli, G. Paci, G. Marco, I sindaci della città di Sessa, Sessa Aurunca, Zano. La filosofia nella corte (Milano, Bompiani). Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Marco, G. Parolino, Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa, Minturno, Caramanica, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, E. De Bellis, Il pensiero logico, Galatina, Congedo, Ennio De Bellis, Aspetti storiografici e metodologici, Galatina, Congedo, E. ellis, Collana Quaderni di “Rinascimento”. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento (Firenze, Olschki); A. Poppi, I liceii di Padova, Dizionario biografico degli italiani, Ratisbona. Grice: “I enjoyed Nifo’s rambling on dreaming – quite an complement for Descartes on clear and distinct perception!” Grice: “Part of my cooperative principle is based on Nifo – echoing Aristotle rather than Kant. Or rather echoing Kantotle. In this case, it’s Aristotle’s key concept of a ‘virtue’ – a collective virtue, like solidarity, lies at the bottom of my conversational principle of cooperation. The virtue is ONE of course, which is good. Each maxim then attends to some virtue. Nifo is better than Castiglione in that his Italian is better. He relies on Cicero, rather than on this or that court poet! So there’s VERITAS, HONESTAS, CARITAS, and the rest. Each is seen as a virtue, and the point is to find the ‘middle point’ or mesotes. A bore is a bore but if you include this or that ‘implicatura ludicra’, two gentlemen can enjoy a nice conversation. Nifo is having the Northern Italian courts in mind, away from that nefarious influence of the Pope, who had paid him to demonstrate the immortality of his soul! The virtue model of conversation is an interestin gone – “De re aulica” is the way Nifo considers this, and he makes interesting observations on how to attain a middle way, i.e .how to win frineds and lose enemies!” –Of course there are overlaps. My model is Kantian, but what is a counsel of prudence if not a nod to Aristotle’s virtue of prudentia – the principle is thus a principle of conversationl conviviality, urbanity --. There are conceptual problems with a purely Aristotelian model, rather than Ariskantian one. One is not after VIRTUE, but the MESOTES – So the ideal is not to be searched for. It’s not pure HONESTAS, but that which fits civil conversation. Oddly, Italians were more concerned with ‘vitii’, which due to their Roman dogmatic assumptions, they correlate with ‘vice’. For each vice, we should not look for the VIRTUE, but to the MESOTES --. Kant could not make head or tail of this! PORTET primum colituere quid Abri materia: nomen Co quid verbum: deinde quid eji negatio, quidue effirmatio: atque enuntiatio or oratio. MISSIS ventofis exor- dijs: breuibus LIZIO quid pertractare vult proponit. Nam rei intentio: et subiectum apud graecos ide funt: differunta; ratione. Vt enim fubiectum habet rationem finis, intentio nuncupatur, ve vero habet rationem materia: in qua propria infunt accidentia, subiectum, fue materia à noftris appellatur. Eft autem intentio libri prefentis, fubictum, fiue materia enun-tiatio ipla: cuius partes constitutiva, que integrales dicuntur, fünt nomen et verbum. Prima vero et prima-riz pecies sunt affirmatio de negation. Genus autem enuntiationis est oratio. Hanc igitur intentionem proponit, et inquit{ Primum oportet conflituere}hoc eft definire{quid nome et quid verbum,ve integrales par tes enuntiationis, verbum illudf oportet} non dicit necessitatem simpliciter, sed conditione. nam fi de enuntiatione per tractaturus est, opus est ve primo de nomine, deg; verbo percurrat. {Deinde} 8e quati fecundo lo coquid eit negatio, quidue affirmatio? tanquam primaria enuntationis species atque, tertio quid/enuntiatio} quid {& oratio} enuntiatio quidem ve intentio, subiectum, ac materia: oratio vero vt genus fubicâi. Multa graci, vt Ammonius, Philoponus: et latini, vt BOEZIO (si veda) et AQUINO (si veda) contendunt. circa feriem verborom: qua, quia ventofa sunt, ad commodumé; non multum accepta, hac fufficiant. Boetius hiclubie- iedle. ctum,materiam ac intentionem libri ait efle interpretationem. Nam inscriptio libri ab cius intentioneficri obilimer es affolet, vt inquit Philoponus in primo Priorum. Obij- ire Dertrum. ciunt côtra quidem viri clarissimi, qui subtiles perhi- bentur. Nam interpretatio vel fumitur pro VOCE ARTICVLATA CVM INTENTIONE – cf. H. P. Grice, ‘Intention and disposition’ -- QVICQVAM SIGNIFICANDA PROLATA, vel pro voce articulata prolata ad signiticandum esse vel non esse, primum quidem non. nam tunc effet nimis commune, effet enim compositis et simplicibus commune quoddam. Hoc autem falsum eft, quia hber hic eit de medijs. Nec secundum, quia liberhic non eit de Secunda põ. voce, sed de intentione voces. Propter ha enuntia- Confutatie. tionem in mente fubiectum efle fingunt. Hacpueri. lia funt, nec digna nostra disputatione. Verum fipfi chuntiationem mentalem subiectum esse fatentur, ad quem de vocali, vel scripta inquirere attinebit? Pro- enie quid. pter hac quod graece “ermenia” appellatur, latine sive “enuntiatio,” sive, “interpretatio” dicatur, ide eft. Et de hac eft liber præsens, de mentali quidem ve quod, de vocali vel scripta, vt SIGNVM, de re vero vt caula. Nam veritas in voce est ve SIGNVM, in mente vt subiectum, in re vt in caufi, vt dicit Ammonius, necaliter Boctius (entit.Multa alia dici folêt, qua quia facilia, pretermittimus. Excufaio nottri enim frequenter circa facilia fimbrias dilatant, circa vero ardua et occulta voces fummittunt. Tu vero a nobis contrarium expeêtabis, quantum videlicet a nobis fieri poteft. Sunt quidomigitur ea que in uoce, carum, que IN ANIMA PASSIONVM NOTE. iEt que feribuntur, corum que in noce. Et рета луна quemadmodum nec littere omnibus cadem, fie nee noces cedem. diete scriptura med nico De nomine, de di verbo, chuntiatione, ac oratione. pertractare propofuit, ante tamen quam de his prole- Cản de veche quatur, quadam communia de vocibus, scripturis, ac TI ferime ANIMA PASSIONIBVS intercipit, fed de caufa intercepti babetsr. ambigunt expofitores. Herminius necesitatem illus ny- Canfa Hervnd modi intercepti fuifleautumat, vt propofita rei com- modum infinuaret. Sed hoc ftare non poteft. na vtilitatis commodiue narratio prohemij pais est, vt LIZIO. in Rhetoricis tradit. fumus autem nuncipfo in tractatu, quod verbú igitur innuit. Porphyrius interpofitz rei Confa Perply caulam propter veterum difienfus circa vocum figni- ry• ficationes, inquit. nam veterum quida voces, formas, fue IDEAS SIGNIFICARE credidere, alij CONCEPTIONES, alij SENSVS fenfation esúcipfas, alij res exiftentes. quia igitur Ariftoteles de nomine deá, verbo pertractaturus erat, contrarias di politiones, ac aduerfa impedimenta eli-dendo, veteri quaftioni generatim curfimé; fatisfecit. Sed nec hoc itare potett. Primo quod quafio hac Cofitaio. partem ad quamlibet definita, que difturus eft de no mine et verbo, non impedit. Secundo hac res eit gravis, eltés altioris negocij, tranfcenditg; limina præsentis voluminis, quum de ideis, deá; formis contendat. Melius igitur cum Alexandro, Ammoniog; fontien dum, quod Ariftoteles hac praaccipit. Tum ve genus Expofitie cane definiendarum rerum colligat. Tum differentiam có-, Fa) Secunda ve fitutivam, videlicet, g› nomen verbum quaque ad placitum ignificent. Tum differentiam difcretiuam, vidclicet, vt nomen fine vero et falso, enuntiatio, et ora tio cum vero vel falso. Hac enim Arift. animaduertens quedam communia de vocibus, scripturis, ac PASSIONIBVS preaccipit. Affumitigitur quatuor ad pralentem Que LIZIO pertractationem conferentia, res videlicet, conceptiones, voces, atque litteras. Oportet autem primo petere hac quatuor non fruftra ele, fed aliquem propterfi-nem.fiquidem neg; natura, negars aliquid fruftra fa ciant. Secundo petimus horum quatuor, duo effena- tura lefe habentia, vt res conceptionesá; duo vero po- Prima Petitio. fitione, vt voces et littera. Veigitur fcias qua horum Secunde. natura fe habeant, quaue politione, ponit praceptum Preceptum, ciusinodi, e qua aque omnes cadem funt, hac natura se habent, qua vero non apud omnes eadem, hec pa-fitionefe habent. Huius precepti prima pars co patet, a natura in cunétis niformis est et fimilis. Pofitio vero cuariat. Qua ere quum res 8e conceptiones apud omnes erdem fist, natura fe habent, voces vero &e lit-tera, quum cuarient, pofitione habentur. Arguitigi- Syllogi frang lit tur, quecung; funtalorum SIGNA VEL NOTE, positionefe habent. VOCES et scripta SVNT NOTA VEL SIGNA ALIORVM. nam VOCES SVNT NOTÆ CONCEPTIONVM, cum. Igitur, voces et scripta sunt positione. praponit mi norem.d.{Sunt quide igif ea, qua in voce cuiufmodi funt nomina et verba-fearum quin anima palsionum notz, et que feribuntur] Svnt NOTÆ SIVE SIGNA: {corú que in voce} Hec vt minor quali concludit, et inquit. (Er} hoc verbum in greca coltructione, quicquid graci fen tiất, vim habet lape illativam apud LIZIO. quafi dicat. {Igitur quemadmodum nec littera omnibus ex dem, fic nec voces eedem}verbum, {ic} in verbis gracis non est, sed ex vi constructionis sub audiendum. Secunda igitur pracepti pars perficua, videlicet, ep ea que in voce, et que icribuntur, politione fe habent. Aliter intelligi poteft, vt dicemus. Queritur verbum illud, Dulintio:2• figitur} quo modo tenct. Expolitor latinus ait dixiffe igur, quali ex premifsis concludens hune. videlicet. in modum de nomine deé; verbo per tractandum, nomina et verba voces funt. igitur de vocibus per traêtandum. Graeci omnes verbum illud efle notim executionis, de non illationis, affirmant, quod mihi conuenien- Secanda dula tius eft. Quarit secundo Ammonius cur primo è vocibus, quamè rebus sermocinari capit. Dicendum de eis primo, tanquamà magis huic libro conueniétibus, Tertia dubs quicquid Ammonius dicat. Querit terto Porphynius cur dixit {Sunt quidem igitur ca que in voce}& non, {funt quide igitur voces; Itéd cur no dixit litter vti, REsPanpb fea que feribuntur, dicit. Porphyrius vuleg nomen et verbum funt partes orationis. prolatz eft enim oratio prolata totum quoddam integrale ex nomine &verbo conftitutum.nomen vero et verbum fcripta partes ora tionis fcripta, et qí partes funt in toto magis quam contra, totum in partibus, nam continet totum partes, et no econtra. Idcircoinquitffunt quide igitur ea, qua funt in voce} hoc eft nomé et verbum, que funt in yo ce, hoc elt oratione prolata vt partes fearum que funt IN ANIMA PASSIONVM NOTÆ, &e ea que feribuntur f videli... cet nomen et verbum in scripta oratione {corum quie Confitatio. funtin voce.} Sed hac expolitio ridenda eft. Tum pri mo, quia cum ditficultate intelligitur partes eile in toto, elle in enim non competit partibus nill improprie quarto Phylica auscultationis, clt autem loquendum veplures. secundo Topicorum. Tum quia in tam exiguo sermone æquivocaret de eflein. Nam dum dicit ¿corú qua funti n anima} fumit effein. vna ratione, dã dicet fea que in voce} alia ratione. Similiratione errant qui volunt esse in capi vt inferius continetur in quo fuo fuperiori. Nam primo in verbo effe in, acciperetur proprie lecundo vero improprie. Quare melius effe in, in vtrog; codem modo accipiendum est. Nam nomen et verbum funtin voce vt in subiecto, vt i res artificialis in re naturali. erit igitur lenfus {funt quidem igitur ea qua in vocef vt nomen et verbum, qua in vo cebarent, vt in materia et fubiecto, NOTE carú PASSIONVM QVÆ IN ANIMA SVNT, etiam ve in materia 8e fubie-Eto. Nam conftat tune Ariftotelem non aquiuocaffe verboillo effe in. Quarit quarto Ammonius cur Arift. Querte dubi» ait paísionum, pathema enim grace palsio eit, palsio aurem affectus. modo affeCtus non eft conceptio, fiue fimilitudo, quam LIZIO intelligit. Dicendumgtria. videlicet similitudo, CONCEPTIO et PASSIO idem Salstio funt, alia tamen ratione CONCEPTIO enim et intelletio vt intelligédi principium, est ratio: ve veroà reipla de-rivatur, similitudo sive species, vt intellectum ipsum perficit, PASSIO vnde et intelligere et sentire in quodam pati faltem perfective confiftit, ve dicit in his qua de anima. vnde qui verbum graecum naBorar in latinum conüertunt “AFFECTVVM,” nee grieciliant, nec graecam constructionem (entiunt. Quinto quarunt, mul 2uinte duMk taefiein voce, qua non sunt PASSIONVM NOTE, v gravitas, acuitas, et ACCENTVS [H. P. Grice on STRESS as non-propositional], et id genus. Dicendum propositionem LIZIO indefinite effe legendam, non autem vniversaliter. Sexto petijt. vtrum yt ea, quein vo Sexta duba. ce note funt eorum que in anima, ita ca que feribuntur, corum qua in voce. Respondet Alexander go lic, wleeRGie et tunclittera est legenda fie{ funt quidem igitur ca qua in vece, earum que in ánima PASSIONVM note, quem- admodum qua icibuntur, corum qua in voce. Nam verbum illud sa graecum, quod latine frequentilsi-mein et convertitur. Interdum Alexander vult apud graecos accipi pro nota similitudinis, ve proficut, vel quemadmodum, &id genus. Hec Alexan. diceret. Huic obijcit Porphyrius. Primo, quia ad simplicem obiedia Pore fenfum nihil addi oportet. Secundo, quia in tam breui flore. ordine, tamque brevi oratione non est partitio intercidenda. Tertio, fita lehabent que scribuntur ad voces, ve voces ad ea, que in anima, tune ve voces varijs litteris permutantur, fie PASSIONES VARIIS vocibus cua-riabuntur. Mibi videtur cum Alexandro et Alpaxio, Lupi proprie &ita secundo modo exponi potelt, vt LIZIO pro-lequendo de nomine verbog; primo colligat inter voces et scripta convenientias. Secundo INTER RES ET PASSIONES. Voces igitur et scripta conveniunt primo guam-bo sunt ve SIGNA, voces quidem conceptionum, scripta vero vocum. Secundo o vt voces non sunt omnibus ezdem, ita scripta. Inquit, {fint quidé igitur qua in vo cetearum qua in anima, PASSIONVM NOTE et qua feri-bütur, corum qua in voce. jQuare voces et scripta conveniunt in hoc q ambo funt vt NOTE SIVE SIGNA. Ethec ell prima convenientia. Deinde subfcribit secundam. d.{8 quemadmodum qua feribuntur non cadem om nibus, fieneg; voces exdem. fHac eit secunda convenientia. Dixit autem fin ANIMA} quod graece elt psyche, et non in intellectu, quoniam intellectus etiam ad diuinum refertur, aut pincellectus novas PASSIONES non fufcipit, sed de his in libro nostro de intellectu, et de anima. Ea ergo, qua sunt in voce et ca qua funt in feriptis conteniunt primo e AMBO NOTA AC SIGNA SVNT. Secundo omnibus cadem non sunt. Tune ad obiedta con- Defryle fle. tra Alexandrum. Ad primum dicendum illum simplicem sensum esse potentia et virtute amplum et composituim. Similiter si oratio est brevis, compendio efe oblonga. Ad hectèrtium argumentum probat ibi no esse in toto similitudinem, sed in parte efe potelt, vt Alexander fentit. Quorum tamen be note primo, cedem omnibus pafrio=- Serptere nes anime funtiet quoram bac similitudines, res iam ecdem. Debis quidem igiur: dietum ef in his que de Anima, altes vius enim bec sunt negocif. Capit LIZIO, vt Alexander dicebat, ponere Cim.j. differentiam inter ca que positione talia sunt, et ca que natura talia. Ea qua in voce et ca qua scribuntur, positione talia funt. Nune vero qu ANIMA PASSIONES et resfint natura tales, declarat. Potest autem textus esse pra-milla, et por esse simplex narratio. Siquidem pramif- f, syllogifnus erit, que eadem apud oes: sunt per naturam talia-natura.n. vt Ammonius inquit, est vniformis semper. PASSIONES ET RES EADEM APVD OMNES. Igitur, natura tales crunt De syllogilmo accepit minorem est in textu. Si vero est narratio tín, elt tune secunda pars differentia, et inquit. {Quorum ti he nota primo:fune PASSIONES ANIMA oibus eadem: et quorum ha similitudinestres iam eadem } funt. Igitur, PASSIONES ET RES OMNIBVS EADEM. 8e ita tales per naturam. Hac fortaf-fe expositione LIZIO, verba examinádo : argumentum Herminij contra Alexandrum imbecille est. Noenim Alexã. vult o apud omnes fint paísiones eademi apud quos voces, ed vt dixi, g› vel tangat minorem, vel par- 2iPeply. tem differentiz secundam perficiat. Animadversione dignum Porphyrium in defendendo Alexandrum: affirmare guca quorum voces apud omnes cadem: 8e ipsa sunt eadem et hoc generatim tam vniuucis ipsis, quamaque vocis. Devaio vcis quidem cxipsorum no minum ratione conflat. De a quiuocis vero, QVONIAM ANIMVS AVDENTIS SEMPER fibi nomen ad significationem debitam, adquamúe A PROFERENTE EMITTITVR [H. P. Grice, UTTERER and REPICPIENT or ADDRESSEE], ac- Confutatis cipit. Sed hoc ftare non poteit. nunquam enim æquivoca propositio esset distinguenda, nam ANIMVS AVSCVLTANTIS SEMPER cam conformiter animo proferentis Вкуб Нас. acciperet. Hermenius aliter sermones LIZIO, intelli Nam VOCES SIGNIFICANT PASSIONES PRIMO ET SECVNDO RES, PASSIONES autem, tantum Crufidatio. res decernunt. Sed hoc ftare non potest, primo quod Arittote. dixithac, non igitur lapide efiet hic repetendum. Secundo verbum illud eadem ad quid adderetur? Ellet enim inutile, nifi LIZIO com munepafsioni- Dubitais: bus et rebus fumat, vt dicit Alexan. Sed tune dices ad quid verbum illud {primo jadditurAlexander vuleno mina SIGNIFICARE PASSIONES AC RES, vt nomen iftud homo 8e naturam ipsam hominis existentem, et eius CONCEPTIONEM SIGNIFICET. verum quia nomen num aque primo duo fignificare non poteft, idcirco LIZIO adijcit ¿primo., Nã ea nomina, qua in voce sunt, PRIMO PASSIONES Cantre Alex. fones SIGNIFICANT, SECVNDO vero RES. Recentiores obii ciunt nam ordo significationum est iuxta ordinem conceptionum. Sed RES PRIVS INTELLIGITVR, quam cius PASSIO. Igitur, PRIVS voce significatur. Ad hac nomen semper predicatur de sua SIGNIFICATIONE. Nomen illud “homo” non prædicatur DE HOMINIS CONCEPTIONE. Igitur, [cf. Grice, ‘shaggy’ does not mean, ‘what the utterer thinks is shaggy] il- Difesie Ale lam non significat. Dici potell pro Alexandro ep nomen in voce primo primitate, vrita dicam, subordinationis PASSIONES PRIMO SIGNIFICABIT. Primitate auré ap- Tradraiale prebélions, res primo, Quaretextus debet stare. Quo rum tamen ha primo} non autem {primorum.} Nam graecus codex habet protos et non proton. Vbi enim proton legerctur, vt fortalle BOEZIO (si veda) noster habebat in latinum primorum eifet convertendum. Collige igitur inter hzequatuor ordinem: quz leri- buntur SIGNIFICANT ea que in voce, qua in voce, eas PASSIONES QVA IN ANIMA qua in anima, ea que in re con- A.D,Th. fiftunt. Licet non fit ordo effentialis, nam qua feribun tur, et in voce funt, poflunt eque primo PASSIONES SIGNIFICARE, quum cripture pro supplemento vocum sint adinuente. Verum quia res hac ad modum est laboriosa, ac difficilis, tranimittit nos ad librum de anima. Est autem quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus fine vero falsoque, aliquotiens autem iam cuire. celfe est horum alteran incife fie c in noce. Cirea compositionem enim er dinifionem e/t neritas atque falsitas. Haltenus hac communiter de ijs quatuor accepit, vt nomina et verba efle in voce et ad placitum fignif-cativa colligat: Tum vt genus primum: Tum vt communem habeat differentiam illorum, cú quibus et ora- tio et enuntiatio ipfa conueniunt. Est enini oratio et enuntiatio in voce et EX IMPOSITIONE AVT PLACITO SIGNIFICANTES et per eiufmodi genus communemé; différentiam differt à rebus ipfis conceptionibusé; Nuncau-tem ipfa lignificare fine vero et falfo declarat, vt vide- licet secundam colligat illorum differentiam, aut, Alexandro placet, ostendit enuntiationem significare cum vero falsoque -- vt per hoc etiam et enuntiationis differen tiam colligat, notin nominis. Et licet littera pofsit multipliciter ad formam fyllogifmi reduci, ve facilius res in telligatur littere syllogilmus non eft aliter formandus, nifi veiacet.Ideo inquit. Est autem quemadmodumin Sylingl/was. th anima aliquotiens quidem intellectus fine vero et fat- fo, aliquotiens autem cui neceffe eft horum altcrum in- effe, hoc elt aut verum aut falfum, fic et in voce:hac eft maior. Addit et ipfam minorem dicens, circa compofi tionem enim et divisioné intellectuales est veritas atque falfitas. Sed circa simplicium intelligentiam, neg; veritas neg; falsitas. Igitur in voce etiam circa compofitionem vel diuifionem crit veritas aut falfitas circa simplicitatem neg; fic neg; fic. Et fic habetur totus syllogismus, per quem habebitur, vt dicemus in textu proximo, gy nomina ipfa et verba ab enútiatione differút.na nomina 8e verba fimplicia funt, et fic crunt fine vero et fallo, enútiatio compo aut diuifio: igitur cú vero aut fallo. Et ita habentur genus et differentiz nominum et verborum. Quantú vero ad verba graca attinet noc-ma graece, latine est, tum intellectus, cum conceptus, et gativa. Simplex vt hominis autequi. Et discursivus -- vt syllogilmus. Modo patet verum vel falsum esse in compositione. Simplicia vero effe abfq; vero et falso. Hac quo ad verba. cus fità fimili tín, velà fimili et caufa. Refondet expo fitor ab Ammonio accipiens hanc manifeftationem ef Le non tín à fimili, fed etiam à caulà, quam effetusipfe imitatur. Eft enim intellectus caufs, qua vero in voce effectus. Sed hoc farenon poteft. quia non videtur cofatio non enim vt materia, autforma: quia conceptus nulla- tenus funt aliquid vocum,nec corum que in vocenec vt fnis,nam finis vult esse vitimum, vt fecundo aufcul. shafin tationis phyfica dicitur. Modo conceptus eft prior et voce et vocum veritate. Nec vtagens, nam ab co gires eft veinon eft oratio dicitur vera aut falla, vtab agen-te,vt dicitur in predicamentis. Ideo vt frequenter di- Selotie proprie ximus verü et falfum funt in intellectu vt in fubiedo, in voce aut fcriptis, vt in figno, in rebus vt in caula. Vis igitur arguendi non eit demontratiua, fed dialectica à fimili tantum. Multa adijci pollunt, que ab expositoribus tum graecis, tum latinis perquire. Hac enim ra- ptim scribimus. Nomina quidem igitur ipsa aut verba consimilia furt fi-ne compositione co divisione intellectui – ut: “homo” vel “album” wwFajd quando non additur aliquid; nam nondum falum aut стт eff. Huius autem fignum hoc eft. hircoceruus er enim significat aliquid quidem sed nondum verum aliquid ant falsum, mifi esse aut non esse addatur aut simpliciter, vel secundum tempus, Hac litera poteft introduci vno modo vt fit conclu fio, quomodo expofitor induxit, innilus forfitan verbo illatiuo igitur, Alio modo poteit inducis vt fit minor syllogifmi, fub accepti sub syllogifmo princi-pali: qui fic erat. compofitio vel diuifio in intellectu funt cum vero et falso, intellectus line compofitione et diuilione nec font cum vero nec cum fallo, ex quo voluit habere hanc conclufionem, in vocefunt quedam cum vero vel falso, quadam non cum ve.. ro aut falso. modo addit minorem dicens, nomina ipsa verba similia funt intellectui, qui elt line compositione et divisione. hoc eft nomina et verba sunt voces fimplices: fubaudi conclusionem. igitur fignificantabiq vero de falso. Illa itaque particula illativa igitur, addita elt vt notaretur conclulionem contine- ninhac minori, propterea fupplet exemplum dicens: vthoc nomenhomo aut album quando non additur aliquid, nam nullo illis addito, nondum corum, ali- Sigum, qued falfum, aut verum eft. Rem hane Ariltoteles confirmare videtur figno, quod poteft loco à maiori fic formari. fi aliquod no-men fé folo fignificat cum vero aut falfo maxime effet hircoceruus. Tunc dat oppofitum confequentis di. cens: fed nondum verum aliquid aut falfum: nifi elle aut non efle addatur. et hocaut fimpliciter, aut fecundum tempus. Sicigitur patet nomina et verba feor-fum accepta fignificare, &e non cum vero aut fallo. Dubitationer. Sed circa verba textus quarunt primo cur vius eft nomine compofito, et non entis, Huius caufe poflunt ef- Prima confa feplures: vt è verbis Ammonij excipi poteft. Primo. quia nomina ciulmodi videntur potifsimum falfitaté significare: propter partium incompofsibilitatem. Secundo vt innucret nonfolum nomina fimplicia ad veritatem fignificandam egere verbo, fed etiam noni Tatia naipfa compofita. Tertio vutur exemplo in filtis, vt innueret veritarem non folum reperiri in rebus, fed in Secida duba, his qua funt ab intellectu folo. Secundo quarunt cur ait compolitionem fignificare cum vero vel falso: et non significare verum vel falsum . Similiter et nomi-na lignificare fine vero et fallo, et non ait nomina non Significate ch fignincare verum aut fallum. Dici potelt e difterunt di fignificare verum, et fignificare cum vero. Nam hoc nomen verum fignificat verum, vt hoc nomen falfum significat falsum. quia significant fe: non tamen cum vero: quia fuum significatum non significant cum ve- Tertiedubi, ro, aut fallo : nili addatur verbum. Tertio quarunt quid LIZIO vult per limpliciter, aut iccudum tem Primarifie pus? Reipondent guidam primo o verbum prafens interdum dicit efle simpliciter vt fubitantiam, ut cum dicitur deus elt.Quandog; tempus tantum, ur dics elt. Dixit igitur aut fimpliciter, aut fecundum tempus propter hac. Sed hac expolitio non placet. Nam LIZIO loquitur de esse et non effe generatim vt funt note extremorum: que abftrahunt ab his. Expofitor aliterait tempus præsens elie simpliciter. Catera ut prateritum ac futurum elle fecundum quid:hoc cit fecun-dum tempus. Sed hac expofitio forte non valeto quia Confutaie quelibet differêtia temporis eft tempus fecundü quid. Quoniam per aliquid differt ab alijs differentijs. Aliter Ammonius, quod verbum porcitaccipidu- pliciter. vno modo abfolute, ve eft, fuit, vel erit,alio Prepria falatie modo cum aduerbijs temporis: eft nunc, fuit heri, erit cras. Primo modo dicitur simpliciter. Secundo modo dicitur lecundú tempus,fed vtcung; fit. Textus pater. Sed contra hac dubitant nonnulli recentiores. vi- 2wste detur enim nomen vel verbum fignificare cum vero aut falfo. Primo, quia AD PLACITVM SIGNIFICANT. Igitur posibile eft vnum nomen imponi ad significandum idem q deus elt. Sed casu posito illa significat cum ve ro vel falso igitur nomen vipote A.aut a. Secundo hac eft vna copulativa vera, “Omnis homo est risibilis” 8e econtra. Modo hoc elle non potelt nili verbum ccon-tra significet cú vero vel falso. Sorticole in rehac di Prime palitio. feordant. Nam quidam corum voluerunt ciulmodi no mina, vt.a.vel.a. lignificare polle cum vero aut falfo, et confequenter concedunt elle enuntiationes aut pro politiones.Hoc probant. quia concedenda aut negan-da funt enuntiationes vel propofitiones: fed hac funt concedenda vel neganda, aut dubitanda. Igitur funt Secunda pifio enuntiationes. Alij timpliciter calus hofce nullatenus amitunt, et ita negant a. efle propolitionem. vel verum, aut falfum fignificare vt per verba LIZIO vi-detur, et per rationem:quia funt implicia: qua nunquam cum vero,aut fallo fignificant, nili addatur effe vel son efle. Sed hac folutio ftare non potelt: quia vbig; LIZIO accepit litteras pro enuntiationibus: vt in do priorum frequenter. Alij concedunt hos cafus, quod videlicet. s. vel.a, possunt, fignificare cum vero vel falso: fed dicunt ciulmodi non effe enuntiationes, aut propolitiones, quia non fignificant cum vero vel falfo per modum complexi. Sed hoc videtur dificile. nam cuicung; competit ratio fignificandi ci debetur modus. Quare fi his competit ratio significandi complexa, criam et modus debebitur. Propter hec videtur Refepreprie. mihi elle dicendum nomina et verba quo ad primam corum impositionem non fignificare nifi incomple-xum,neque cum vero, neque cum falso. Quo vero ad novam impositionem, cum fint AD PLACITVM possunt fignificare cum vero vel falfo, nunguam tamen erunt propolitiones, aut enuntiationes. Propterea non valet. A significat cum verovel fasfo, igitur est propofitio aut enuntiatio. Oportet enim addere in antecedente g significet ex prima impositione, et non ex nova institutione. Etper hac verba LIZIO et Alexandri rationes poflunt moderari. DE NOMINE: Quad fit npe usJrparata Cum interpoluit communia quedam, e quibus de genus et differétias nominis nancifci pollet, núc de no mineipfo aggreditur. Sed videtur ordinem cuertif- se, nam in lbro priorum egit de propofitione antequá deter-determino, modo ita fe habet nomen ad enuntiatio nem, vt terminus ad propofitionem. Secuido, do- Etrina debet ènotiori incipere. Sed nobis funt prius notatota, vt in physica traditur auscultatione, igitur prius ab enuntiatione, que est totum, quam è nomine &e verbo: que funt illius partes. Et fi de nomine 8 verbo prius quam de enuntiatione ipla, cur prius è no-mine? Ad primum quicquid, velint veteres graeci, LIZIO in prioribus refolutorie procelsiffe,ideo è compolitis procesit. Nune vero compofitorie, ideo è partibus. Ad fecundum Esculanus fingit nomen elleve materiam, verbum verovt formam. fed quia materia precedit formam, ideo è nomine. Sed hoeftare non potest: quoniam materia non eft fcibilis, nifi per analogiam ad formam, vt in auscultatione physica di tum eft. Igitur èforma ipsa, et con- Saunde An sequenter è verbo procedendum esset. Ammonius ait nomen ipfum fubftantiz modum detinere, verbum Confilatio. vero accidentis. Modo substantia efo prior accidente. Necimihi placet hoci quia lubitantia non nifiper cognitionem accidentium cognofcitur. Ideo dicen-dum nomen ideo effeprius tradandum, quia facilius cognolatur. nam verbum abique ipfo nomine co-gnolci non poteft. Significat enim esse: quod fine extremis non eft intelligere. At nomen iptüm cum fit absolutum quoddam: intelligi potelt abíque verbo. Quantum autem ad verba dicibus inventur ounquodlatine el, tum grur, sco ergo et rationabiliter profecto, ve videlicetannotaret definitionem ciulmod ex diuifione proxime factacol lectam effe. Hac enim est regula definitionum inue-niendarü, vt Sexto Topicorum traditur. et fecundo po Iteriorum, vt poft dinifionem fiat partium compofitio. vti conclusio. Qua ratione procefsit hic. Diximus enim voces anima pafsiones lignificare: 8c cum nomina pal fonesilliumodi delignent: voces crunt fignificatiur. Vode genus ipfüm Ariftoteles naCtus eft. Dechiratum eft etiam omne SIGNIFICANS EX POSITIONE ET NON NATVRA SIGNIFICARE AD PLACITVM. Quod graece est fythece latina FEDVS, PACTVM [– cf. Grice’s High-Way Code, Deutero-Esperanto], INSTITVTIO, AVT PLACITVM. Sed cum constet nomina significare EX POSITIONE, iu re AD PLACITVM SIGNIFICANT. Rurfum declaratum est nomen significare fine vero et falso: omne autem sic significans est sine tempore significativvm: 8e quius nulla pars se or- ipum significat. LIZIO itaque hac omnia considerant, per modum consequentis definitionem nominis deduxit. Multa alia hic recentiores addunt, que, quia patent omittimus. Pater In nomine nim, quod et equiferus: equas ipse nühil mis se refien ac erple mibel fio per se significat, quemadmodum in hac oratione, equus Eficant. e Jerus. Erat vitima definitionis pars, e nulla nominis particula seorfum separata aliquid significet nunc illam exponit. Et maniseltat hanc vitimam definitionis particulam in nominibus compositis. in quibus, vt inquit Ammonius, minus videtur, vt quasi syllogizet è maiori ad minus. Nam in hoc nomine, quod est equiferus, pars hac “ferus”, aut equus feorfum nihil fignificat: quemadmodum in hac oratione: “Eqvvs sft ferus”, aut eqvvs ferus. Quantum ad graeca verba attinet, verbum equiferus graece elt “calippus”, à “calos”, quod latina est “bonus,” et “hippus”, ‘equus’, sed quia minus sonat “equibonus”, ve-equiferus, BOEZIO et alii tranftulerunt “equiferus”, Et vbi BOEZIO (si veda) transulit “ferus” ipsüm nihil per se significat. Graece legitur “equus”, sed non refert. Amplius verbum illud quemadmodum in hac oratione “equus ferus”: potest legi cum verbo, sic: “Eqvvs eft ferus” et abíq; verbo: “Eqvvs ferus.” Solum enim vült habere quod pars nominis et si significet feorfuminon ita significat, sicut quan do crat in oratione. In capit autem particulam definitionis vitimam exponere: quia, vt ex Ammonio colligitur, hac particula eft vt caterarum finis, e omnibus principalior. Modo finis est intentione primus, de ctiam cognitione. Verum non quemadmodum in simplicibus nominibus, fie fe habet etiam incompositis. In illis enim millo modo Neminir coi + liet part frar pars est significativa, in bis nero unt quidem, sed mullius separata sut in eo nomine, quod est “eqviferus”, particula “fervs.” Sed dices igirur nomina simplicia et nomina com- Cảm. 8. posita non differunt. Ideo respondet, quod differunt. Quia in simplicibus nominibus pars nullo modocit significativa neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam: at in compositis videtur quidem ali hil feorfum significat. Quantum ad graecam litteram attinet verbum illud vuir, graece est vouleta. Melius tamen, vt mihi videtur, sonat apparet, aut videtur. nam nomina composita, ex quo imposita sunt a conceptione composita, videtur quod illorum partes seorfum aliquid significent. Nomina vero implicia, cum instituta sint à conceptione simplici, partes corum feor-fum nec significant, nec significare videntur. Ex his poteit syllogilmus fsc componi. nullius nomini simplicis nulius nominis compositi pars significatie- separata: omne nomen aut simplex, aut compositum: igitur nullius nominis pars significat separata. Minor fupponitur. Prima pars maioris et secunda declarate funt in textu. Sed querit vtrum alicuius nominis pars significet separata? Et videtur quod sic. Quia cuiuslibet com. nis separata fie pofiti ex pluribus nominibus pars significat separa- дерест. ta. Sed aliqua nomina componuntur ex pluribus nominibus vt “eqvifervs,” de id genus. Omnesad quæstionem et graeci et latini conveniunt partes nominis comparari posse ad totius compositi intellectum, aut in ter fe. Primo modo nulla significat separata, nif in oratione homo est bonus. Seorfum enim illud idem partes ha significant, quod in oratione tota significabant. Et hoc modo intelligit LIZIO. Nam licet “eqvvs” et “ferus” forfum aliquid significet, no ntamen ad intellecum totius. Propterea inquit Ammonius, nullum nomen componi pluribus è nominibus, quatenus nomina sunt, sed quatenus tranfeunt in vim syllabarum. “Eqvvs” enim et “ferus” in hoc nomine “eqvifervs,” syllabarum vices detinent. Averroes autem in paraphrafehu solsin AuT-jusloci vtitur alijs verbis, quéd partes nominis nunquam per se significant separata, sed per accidens: quod est dicere: non quatenus sunt partes nominis, sed quatenus scorsvm sunt, transeunt in 'vim non num. At in oratione partes feorfum idem significant, quod in oratione, quia vtrobique quatenus nomina funt. Xamine fint Ad placition uero: quoniam mullum nomen eft fus natue Pady fo,ud ra ann ed eun fo significantnang or illieratifoni, ue qui ferarum: quorum tamen nullum eit nomen. Nune tertiam explanat definitionis partem. Nam primam, quod nomen fit vox et significativa ex his, que communiteraccepit, vult elle manifeltam. Illam vero, quod finetempore ex definitione verbideclara- bit. reftat igitur vt tertiam exponat. Quantum vero ad graeca verba attinct, animaduerte, quod. verbum verbotransferendo littera LIZIO eft, SECVNDVM PLACITVM vero: quoniam natura nominum nihil elt, fed cum fit NOTA, nota cnim graece eft SYMBOLVM, latine etiam SIGNVM. Sed cum hac litera ad verbum translata minimefonet, ideo tranftuli AD PLACITVM vero: quoniam nullum nomen eit lua A NATVRA SIGNVM, sed cum sit EX INSTITVTO. Hoc enim differt &à rebus, de AB ANIME PASSIONIBVS, vt diximus. Et quod natura fignificans non sit nomen exemplo à fonisani-malium perluadet, de inquit. Significant nanque fua natura et illiterati font, ve qui FERARVM: quorum ta-men proprer significationem, quam habent naturat lem y nullum est nomen. Igitur, NOMEN AB INSTITVTO SIGNVM ESSE DEBET: 8 hae ratio valet, fue fit locus à findliun/ contrario, fiue fit locus è simil, sive aliter. Animinomme son maduerte quod animalium tom dicuntur “agrammatoi”, hoc elt “illiterate.” Quoniam scribi non possunt: de A NATVRA SIGNIFICANT. Quia codem modo est in omnibus animalibus. Habet enim a natura animal ipsum per fuz vocis sonum SIGNIFICARE AFFECTVM [Cf. Grice on Darwin, The expression of emotion in man and animals]. Quare propter duo ciufmodifoninomen eifenon pofiunt. rum quia illiterati, tum quia è natura. Recte igitur diêtum est ad placitum. Mouent qualtionem ex Alexandro talem. verba sunt voces, voces sunt nomina; igitur, verba funt nomina, conclufso falsa: et non pro maiori, igitur pro minori. Respondet Ammonius, quod nomen et verbum sunt voces secundum materiam, vt archa est lignum fecundum materiam. Materia enim nominis et verbià natura est, vz VOX. Forma autem nominis ab arte atque institutione, ve archa . quo quidem ad materiam a natura eit, quo vero ad formam ab inititutione ac arte. Sic nomen quo ad materiam est res naturalis, quo ad formam est res ab ar-teevtigitur non valet, hgnum est à natura, ianua est lignum; igitur, ianua est à natura. Obijcit autem huie Ammonius: quoniam si nomen est ab insttitutione, de non a natura: tunc SIGNVM aptius in nominis definitione caderet quam vox. Respondet ipse hoc esse factum: quia in definitione accidentis in concreto debet poni subicectum loco generis, et accidens pro differentia. At cum nomen accidens sit voci, ideo di citur nomen est vox Sed hzc repontio nen mihi placet. Primo, quia li nomen esset forma artificialis, tunc esset quid additum voci. Hoc autem falsum elt. Nam aut erit substantia, aut accidens i non substantia vt patet. si accidens: non absolutum, ve patet. nec relativvm: quia tunc esset relatio realis. nam fundamentum reale est ve vox ‹ terminus realis vt RES SIGNIFICATA. Amplius nomen videtur absttractum. igitur in definitione debet cadere subiectum in obliquo. Selatio apris, Videtur igitur mihi nomen ipsum nihil aliud esseni-li VOCEM ARTICVLATAM CVM INTENTIONE SIGNIFICANDI ALIQVID PROLATA [H. P. Grice: “He uttered x thereby intending to mean that p”]. Vt enim vrina est SIGNVM SANITATIS nullo addito sibi: sed quatenus ab intellectu efficitur SIGNVM SANITATIS. Sic vox est nomen nullo addito. Sed quatenus ab intellectu instituitur AD SIGNIFICANDVM. Sin-dapfus enim non nomen est. Sed si AD SIGNIFICANDVM INSTITUITVR: fiet NOTA SIVE SIGNVM: qua ratione nomen fet vt BOEZIO (si veda) inquit, &e hoc inquit LIZIO cum ait: quoniam naturaliter nomen mhil est: fedi quando fit NOTA, et ita nomen est vox fecundum materiam et formam sic instituta vel sgnums Tunc ad argumentum Alexandri dicerem ibi elie deceptionem propter accidens: vt non sequitur homo est animal, animal cit dictio. Igitur, homo est dictio. Aut non fequitar. homo est animal, animal est genus. Igitur, homo est genus. Variatur enim veforticola fentuntlippositio. Nam, in prima, “animal” supponit formaliter, in fecunda materialiter cideo non valet.. Sed dubitát graci. nam LIZIO ait nominum naturaliter nihil efle . hoc eit nominum significatio non est naturalis. ACCADEMIA vero et Soctates in CRATILO volunt nomina e natura ipsa esse. Etita ifti font contranj: quod apud graecos habeturre motum. Circa hane dubitationem quidam, vt Ammonius Pelitiones. Narrat, voluerunt nomina esse simpliciter de omnino ab institutione: et nullatcnus e natura, cuius opinionis fuerunt Hermogenes: e discretus Diodorus. Alay diserunt nomina elle simpliciter A NATVRA, quatenus sunt rerum naturales SIMILITVDINES. Cuius positionis fuerunt CRATILO haredeus: atque Heraclitus ephesius. Ammonius voluit nomina ipsa esse naturalia quantim ad etymologiam . nam omne nomen vult esse impositum è proprietate repertainre. vt lapis quasi pedemledens: et petra quasi pedetrita. Quantum vero ad significationem ipsam ab institutione sunt, Et ficinter hos duos confultat. Et si dicitur viam rem naturalem plura nomina habere. Respondet, quia à diversis proprietatibus nomina diversa nancilcitur. Sed pacchorum hoc ftarenon potest. Primo, quia tunc nullum esset æquivocum à calui, nam omne nomen significaret a proprietate rei, et ficcanis esset analogum, et non æquivocum casu. Secundo vtin natura accidunt casus, quorum nulla causa potett darinili per accidens, ita et in arte. de per consequens possunt dari nominaà calu, nullaque rerum proprietate. Er videtur hac sententia LIZIO ani primo elenchorum voi inquit. nomina quidem finita funt, &e ora tionum multitudo, res autem numero infinita: necef- fe cit igitur plura eandem orationem et vnum nomen fignificare. Propter quod mihi videtur elie dicen- Solitie proprie dum in vniuocis et fpeciebus nomina effe omniaim- polita fint, «* quineca nen 2 mologia: licer in multis illa nos lateat. In aquiuocis vero et fingularibus nomina effe cafu affero. Vnde BOEZIO (si veda) in pradicamentis. commento primo. inquit. æquivocorum alia sunt casa, alia consilio: casu ve Alexander Priami filius : e Alexander magnus. Augustinus Aurelius: e Auguitinus Niphus [“His favourite example was his self!” – H. P. Grice]. Casus enim id egitvt idem trilque nomen imponcretur. Du- fint in mente, bitant forticole : vtrum nomen in mente fit nomen. Videtur quod non per LIZIO definitionem. namnomen eft vox. In mente autem nulla eft vox. Pro ala parte eft quod nomen prima et fecunda, vt di-cunt, intentionis est in mente. Amplius in mente eft cnuntiatio,fed omnis enuntiatio conftat ex nomine et verbo. Igitur in mente funt nomina& verba. al mio fal cendum apud Boetium in pradicamentis, capite de fubftantia. in mentenon elle orationem, et per consequens nec enuntiationem. Id autem, cui fubordi- natur oratio fiue enuntiatio graceefologus, latine in- terior ratio appellatur. Enuntiatio vero ipfa grace elt - exologus : hoc eit exterior ratio. Apud enim graecos logus est communis rationi et orationi. Apud nos vero interior ratio vno nomine vocatur vt ratio, ex-terior ratio vero oratio. Tunc dico in mentenec effe enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec verba, fed bene conceptiones compositas et simplices. Compositas quidem quibus orationes fiue enun tiationes ipfe fubordinantur, fimplices vero quibus nomina et verba: et ita concedo in mente non effe nomina neque verba: fed fignificationes, quibus Nullum oft no hacfubordinantur. Ad argumenta in contrarium fecie, fa patet folutio i nellam enim elt nomen prima autfe. cunda intentionis, licet fit nomen prima aut secunda impositionis. Onine enim nonien cit ab impositione. Ad secundum patet folutio in mente eitratio, in voce oratio fue enuntiatio, qua ratio- nilubordinatur. Ipfion vero non bomo, non nomenet,, fed nel neque Nenfe onbi nomen pofitum ift, quo ipfum appellare opertet. Nes в finE не que enim e/t oratio, neque negatio, fed nomen nocetur ambiguum. O goniam fimiliter in quolibet eft, co co quod +/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod tunnonhomo, et id genus, Catonis et id genus ef- fentnomina. Nam his competit definitio data. Refpondet LIZIO de excludit duo à ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: et lic definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di- Accipit igitur duo - primum quod non homo et catera id genus non funt nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum,fed vel neque nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc eft fecundum. Hec perordinem declarat, et primo quod nonfit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con - uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione propter particulam negativam. ideo probans secundum inquit. Neque enim eft oratio, seque negatio. Deinde probat primum: et fingit il- li nomen, quo nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum: quia vt dicit, et quod eft, et quod non eit in oratio-ne rerum fine difcrimine vllo lignificat: 8 hocinquit. Quoniam fimiliter in quolibet eit, et co quod elt: o co quod non et. Hircocervvs enim non homo est, Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca verba attinet ambiguum graece est aorilton: quod latine non eft infinitum. Nomina cim graeca fune diuersa. Graeci enim infinitum dicunt apeiron. Ambiguum quod indifferens cft ac innominatum aori-nomen est vox. In mente autem nulla est vox. Pro ala parte est quod nomen prima et fecunda, vt dicunt, intentionis est in mente. Amplius in mente est enuntiatio, fed omnis enuntiatio constat ex nomine et verbo. Igitur, in mente sunt nomina et verba. al mio fal cendum apud BOEZIO (si veda) in pradicamentis, capite de subftantia. in mentenon elle orationem, et per consquens nec enuntiationem. Id autem, cui subordinatur oratio sive enuntiatio graece “esologus”, latine INTERIOR RATIO appellatur. Enuntiatio vero ipsa graece est “exologus,” hoc eit: EXTERIOR RATIO. Apud enim graecos “logus” est communis rationi et orationi. Apud nos vero INTERIOR RATIO vno nomine vocatur vt ratio, EXTERIOR RATIO vero oratio. Tunc dico in mente nec esse enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec verba -- sed bene CONCEPTIONES compositas et simplices. Compotitas quidem quibus orationes sive enuntiationes ipse subordinantur, simplices vero quibus nomina et verba: et ita concedo in mente non esse nomina neque verba – SED SIGNIFICATIONES, quibus Nullum oft no hac subordinantur. Ad argumenta in contrarium fecie, fa patet solutio i nellam enim est nomen prima aut secunda intentionis, licet sit nomen prima aut secunda impolisionis. Onine enim nomen cit ab impositione. Ad secundum patet solutio in mente eit ratio, in voce oratio sive enuntiatio, qua rationi subordinatur. Ipfion vero non bomo, non nomenet, sed nel neque Nenfe onbi nomen positum ift, quo ipsum appellare opertet. Nes в finE не que enim e/t oratio, neque negatio, sed nomen nocetur ambiguum. O goniam similiter in quolibet eft, co co quod +/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod tunnonhomo, et id genus, Catonis et id genus essent nomina [FLATVS VOCIS]. Nam his competit definition data. Respondet LIZIO de excludit duo à ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: et lic definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di- Accipit igitur duo - primum quod non homo et catera id genus non funt nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum,fed vel neque nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc est secundum. Hec perordinem declarat, et primo quod non fit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con - uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione propter particulam negatiuam. ideo probans fecundum inquit. Neque enim est oratio, seque negatio. Deinde probat primum: et fingit illi nomen, quo nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum: quia vt dicit, et quod est, et quod non eit in oratione rerum fine difcrimine vllo significat: 8 hocinquit. Quoniam fimiliter in quolibet eit, et co quod elt: o co quod non et. HIRCOCERVVS enim non homo eft, Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca verba attinet ambiguum graece est aoriston: quod latine non est infinitum. Nomina cim graeca fune diversa. Graaci enim “infinitum” dicunt “apeiron”. Ambiguum quod indifferens est ac innominatum aori-guum propter quandam indifferentiam ad id quod eft et ad id quod non eft: et per hoc differtà nomine communi i quod licet fit indifferens, non nisi is que funt fub eo indifferens eft. Differt tamen aoriftatio tranfcendentis ab aoriltatione termini predicamentalis: quia acriftatio tranfcendens eft fecundum quid illa pradicamentalis fimpliciter, vt didum eft. Echa dubitatio. Querunt ctiam, vtrum enuntiatio pofsit aoriftari? Iamblicus Platonicus orationem fiue enuntiationem aoriftari polle contendit propter aorilta- tionem fubieti aut predicati fue nominis aut ver- Viram aratio bi, motus fortalle, quia quod parti contingit inef- valea infni fe, toti quoque accidit: ve quinto Physicorum hafari. betur, vbi enim capiti crifpitudo inest, et homini inesse necesse eft. Confatatio, Sed hoc fare non poteft. ait enim neque enim oratio neque negatio eft: sed omnis finita. Rurfus in capitulo de nomine de verbo nomen 8e vetbum aoriftari afferit, nullbi tamen orationem. Balutio sprie. Tenendum igitur nullam orationemi nollamque cnuntiationem aoriftari posse. Tuno ad rationem pro iamblico dico quod omne quod parti inest ne- Oratienen pir cefle est toti inesse. Non tamen quicquid partem infuir. de nomina, necesse eft totum ipsum denominare: nam albedo dentes denominat athiopis, nequa- quam athiopem. Dubitant et ad huc forticola: quia videtur nomen ambiguum esse nomen: quia valet est nomen ambiguum tigitur nomen ab inferiori ad suum superius. Respondendum non valere: ficut non valct, est homo mortuus: igitur homo . itemque nec valet, eft albus dentes: igitur albus. Non enim argui - tur ab inferiori ad fuperius, sed a secundum quid ad fimpliciter. olioul cafir a nomicie rine Ipsum nero “Philonis”, aut “Philoni”, co catera id genus non minima fant, sed nominis casus. ratio autem cius in alits quidem est cadem, quancuam differunt. Nam est, aut fuit, aut crit addideris, neque verum neque falsum est. nomen uero ipsum semper, “Philonis” est, aut non est, non dum verum aut falsum dices. Quidam, vt PORTICO, casus esse nomina, et rectum esse casum concedunt. Rectum quidem casum, quia e mente ipsà cadit: et ab ipso cateri casus. obliqua vero nomina, quoniam voces sunt SIGNIFICATI un AD PLACITVM sine tempore. Excludit igitur casus ipsos è nominis ratione, et inquit, ipsum vero “Philonis” aut “Philoni” NON NOMINA SVN: sed nominis casus – H. P. Grice: “Ryle – with his ‘Fido’-Fido theory of meaning – woud agree! -- Addir tamen convenientiam inter casus et nomina, et differentiam: et inquit, ratio quidem cius, hoc est nominis: qua pauloante generatim AD-SIGNATA est, in aljs quidem eadem est: quasi dicat, quod ratio generalis nomini, qua proxime AD-SIGNATA est, vna eit nomini ipsi, atque casibus quan-quam differant. nam cum ipsis casibus est, aut fuit sut crit addideris, neque verum neque falsum eit, nomini vero ipsi, cum supple addideris, semper verum aut falfum dices. ve “Philonis” ipf est, aut non est cum addes, nondum enim verum aut falsüm dices. Nomen igitur et casus nominum conveniunt in ratione nominis generali, differunt autem et quoniam nomen addieum verbo cit., semper reddit orationem aut veram aut falsam. Ex his vult habere Definitie LIZIO, hanc esse nominis definitionem. nomen est pajada. VOX SIGNIFICATIVA AD PLACITVM, cuius nulla pars significat separata, determinata, atque recta: per hanc rationem habetur tota nominis essentia. Per hac patet solutio ad rationem PORTICO. licet enim rectus cadatè mente, non propter hoe dicitur casus. dicetur enim etiam verbum habere casus: sed id dicitur casus, qui ab alio cadit per inflexionem, vt BOEZIO (si veda) et Ammonius addüt. Curvero vsus Dubiationes est verbo substantivo, curúc generalem pramifit nominis rationem, Ammonius, è quo expofitor no- Iter accepit, facile declarat: nam substantivo vius est, quia cum cateris verbis cafus faciunt nonnunquam orationes veras. Pramilit vero rationem generalem, quia doarina incipit ab vniversaliori, adiecit specialiorem, vt generalem compleret. Animaduertendum quod Auerroes, in paraphrase buius capituli velle videtur quod tam nomina ambigua, qua vocat infinita, quam cafus nominum, sint nomina: de hoc ideo dicit, quia vult nomen dividi in hac. Omne autem diuifum predicatur de dividentibus. Sed quia hoc videtur contradicere ver bis Ariftotelis pro verificatione littera : vult hac non effe dicenda nomina absoluta, nam propter excellentiam videtur rectum nomen: et determinatum nomen esse nomina: quia videlicet in illis nominis ratio praftantius faluatur: et ita vule hac elle nomina non privationes nominum, licet abfolute dum nomen profertur de potioribus intelligatur. quemadmodum accidens eft ens, et substantia est ens: verum ens absolute intelligitur principaliter de substantia. Principaliter igiturnomen dicitur dere-eis et determinatis fiue finitis, licet communiter de verifque dicatur. Multa captiunculatoreshiefa-bulantur, qua cum puerilia sint, pratereunda elle diludico. Multa quoque de nominis dittinatione Ammonius addit: que cum fint potius gram-matica dieta, grammaticis relinquantur. Hac de nomine. Ratio uero est vox significativa, cuius partium alis qua separata significatina est, ut dicio: sed non ut affirmatio, uelati “homo” significat quidem aliquid, non autem quoniam fie, aut non fit: sed crit affirmatio aut negatio fi quicquam fibi adideris ana vero hominis fllaba mullatenus significat, non enim in hac dictione “sorex”, “rex” significat sed tantum nunc vox est:i n compositis vero signifiacat aliquid sed ut diximus non pro fc. Сет. Illud, vt diximus, quod principal hic perquiritur, elt enuntiatio: huius partes et materia nomen, videlicet. et verbum declarata sunt, pars vero veforma, qua eit ofo, nunc declarator cur vero, vt Ammonius dubitat, non co ordine rem affecutus eit quo in prohemio pol-Nas licebatur, dictum est. Anima ducrtendumigitur, gno mini et verbo et ofoni cóia sunt vox, SIGNIFICARE, ET NON PER NATVRAM, SED AD PLACITVM, vtrum vero catera particula, vt fine t pe, vel cum tpe, an rete et determinate fucaoriftice, ii ex diftis patet : differt aut oño ab vtroque: qm illius pars significativa est ve dictio, nois vero de verbi non nili per accis, vt diximus, in definitione praterijt an A NATVRA SIT ofo ipsa SIGNIFICATIVA, an AD PLACITVM, quia de hoc erit poftea difputatio. Apponit ait illa duo vt q fit vos et fignificativa, vt habeat genus. proximum,adiecit cuius pars fignificat vt dictio, &c nó vt afirmatio vthabeat differentiam: qua differt è nomine et verbo. Prime dubs. Sed ad intellm huius definitionis dubitemus de lin- An oratio fit gulis. Et primo, vtrum ofo fit vox: et videtur o nó: ofo Refonio fer non est una vox sigitur non est vox. Antecedens arguitur: oratio eit muita voces – MVLTA VOCES NON SVNT UNA VOX; sigitur; oratio non est una vox. Rident forticula concedédo e oratio elt multa uoces, de ulterius p plu res sive multe voces sunt vox fuc una sola uox, quem admodum plures hoies sunt unus solus hó, et oita fit probant: quoniamhac vox est una sola vox, et illa vox est una sola vox. Igitur hac vox, et illa vox sunt una sola vox. Sed hac vox et illa vox sunt plures voces. Igitur, plures voces sunt una sola vox: et fie concedút plu res voces esse unam solam vocem divisive, utd iêum elt. Sed dices contra hos, quia li plures voces sunt una sola vox, igitur per conversionem in parte una sola vox esset plures voces. Amplius plures voces non sunt hae una sola vox, nec illa una sola vox; igitur, nulla una sola vox: et per consequens plures voces non sunt vna sola Definio, vox.. Respondêt forticola et defendunt partem fuam 9 pradicatum illius propositionis, plures voces sunt vna sola vox, confunditur propter vim copulationis, qua includitur in verbo illo plures. Refoluitur. n. plares lie, et illa 8e illa, vt diximus, mo nota copulationis habetvim confundendi, dita negant conversionem, quia variatur suppofitio. In prima illa particula “vox” supponit confufe; in secunda determinate. Et si dicatur quomodo convertitur, quare ipsos, quia est extra propositum. Ad fedam dicunt, eplares voces nulla vna sola vox sunt, qí nec illa nec hae. cum quo ti flatg plures voces fint vna sola vox, qí in hac, iste terminus “vox” stat confusetín, in illa determinate aut diferete: pP quod ha non contradicunt plures voces sunt vna fola vox, et plures voces nulla vna sola vox sunt, cum termini non codem modo supponant. Quanquam hac fint acute dicta, et non possantim probari, fcasno esse LIZIO di (ta, nec necellaria, nec in talibus captiun-colis debemus detineri. Multi. n. vt logicam feruêtad vaguem amittunt philosophiam, et mora in his impe-dit hominem feire veritatem. LIZIO igitur dicerent op oratio est vna vox vnitate verbi, de ficpôt dici plures voces simplices, na vero composita ex ilis proprer vnitatem verbi. Aliqui dubitant fecundo cur di . Secunda duba. xit in neutro genere, cuius partium aliquid significant Contra The. separatim, et non dixit cuius pars aliqua signiticat separata. Hac dubitatio procedit ex ignorantia graecorú verborum In graaca .n. ;ingua pars, que graece “meros” dicitur, neutri est generis, ideo ad nos debetvenire, cuius partium aliqua separata significat s &rita poderatio expositoris frivola est, vt multa alia. Tertio dubitat Tetie dubi. Afpafius contra illam particulam ve dictio, qi alicui competit definitum, cui non competit definitio. Na hypothetica est oratio, 8e tó partes cius significant, vt orationes. Ridet Porphyrius hic esse diffinitam solam orationem simplicem, co quia prior in omnibus reperitur: cui relponfioni etiam Alpafium confentire ferüt. Obijcit huic, vt mihi videtur, BOEZIO (si veda): on definitum non debetelle in plusquam dehnitio, Igitur cum oratio sit communis simplici et compolita: dehnitio etiam di cit esse communis. Sed hac rônon cogit: dicerent. n. gy licetortio quatenus oratio sit cois simplici et composite, ta quatenus hic defcibitur non converit nisi simplici perle, quia cotrafte et no coiter hic defcribit. Miliusigif contradico eis: quia LIZIO poftea diuidet oionem in enuntiativa, et non enuntiativa, et enuntiati uam rurfus diuidet per simplicem et compositam: et nullibi iam ipsam compositam definit alia definitione, igi tur vult cam effehic definitam. Secundo oño comper sinato tit vniuoca, simplici, et composita: igitur debet dari vna definitio communis vniuoca, et nullibi dedit llamsigi turefiet mancus. Alex, vero et Ammonius refpondét Refienfie.s. p hac definitio eft cois omnibus vt iplum definitum: namêt oratio compolita haber partes que lignificant, vt dictio. Huic opponuntalij ve Philoponus et Syrianus, quia Arift.ait vt ditio:& non vtalfirmatio.mo ofo compofita habet partes qua fignificantut affirmatio:et ita male adiecifiet, et non ut affirmatio. Alij foluunt o dietum philofophi debet intelligi luppiendo fic, ut dictio neceffario, et no necellario ut affirmatio, et sic competit omnibus. Ego aut dico pace tantorum fe/priepre dixerim o LIZIO dixit ut dictio: qin licet partes oratio-nis compofita fint orationes, th non ut orationes, fed ut dictiones lignificant feparata: &c hocfatis. Dubitát Quarte dubie quarto, curadiecit ut dictio et non ut aftirmatio, fatis chim fuifet dicere ut diêtio, nunquam enim dictio elt afirmatio. Repondent quidamiquia LIZIO folitus est nonnunquam dictionem pro affirmatione accipere: ne igitur ufus impediat, fuppleuit et non ut aftirmatio: et SIGNANTER ait, et non ur affirmatio, quia negatio addit ad affirmationem, propterca fi non ut affirmatio fatis habetur etiam ep nec ut negatio. Hac refponlio fic dia, f el alicuius expolitoris graeci, tacco, gán ipli yerbaverba LIZIO melius intelligút, et verecundú est pugnare contra graecos de verbis gracis. Hoeti non tace- botg vbig; LIZIO di diftione vocat - gracce phafim vocat:affirmationé vero cataphafim. Sin aliter no me mini me legitie, no ti nego cataphalim compon ex ca- Nie apria ta et phalis. Ideo dico et fuppleuit nó vt aftirmatio, ad DE-NOTANDUM partes orationis vt dixi posse significare vt af-firmatio: sed LIZIO, vult no licintelligere led quatenus habent vim dictionis. Hoc. n. fuppleuit propter orationes compositas: cuius partes funt affirmationes: sed non vr affirmationes: sed vt dictiones significant. Viti mo quarit Philoponus: vtrú hc definitio competat solum orationi perfetta? Ridito foli perfeta hec competitiqí partes non dicuntur nifi in relatione ad totú: totum aût et perfectú ide: et cú oratio hie definiatur in relatione ad partes, videf rationabiliterhie dehnin vt perfecta. Sed contra obijcit BOEZIO primo: quia omne comositü haber partes, cum aúttam pertecta g impertecta habeat partes:rationabiliter qualibet crit totú et perfecti. Secundo tune partes orationis et cu iufg compositi no essent partes nifi in sine compositionis: quia tunc folum compofitum dicitur effe copofitú. Mihi videf orationes ha non militent: quia nó dicit aliquid cópolitum, nili propter forma et materia, cum orationi imperfetta defit aut forma aut materia, aliter effet pfecta, rationabiliter no dicit compolitú nec totum: Tunc ad rationes dico: ep oratio imperfecta no eft totum, qui vel caret verbo fimpliciter vel verbo principali: 8 p consequens caret forma: 8e ficnec eit compositum nec totá, fed quada, vocum multitudo. Ad secundum dico, partés non sunt partes nisi pofti est ipsum tot,ante enim dicunt partes in potétia mlngitur intellectus altu componat subiectum et pradicatim cum verbo. nô erit adtu totü: et ficnce actu partes, et fic concedo id ad quod deducit, Melius igit cótra illos poteft obijci, gin ftatim oratione hic definitam fubdiuidit perfectam et imperfecta: qui rem incogrue egillet, nifi Definitio ena» vtrig; hãc definitioné elle coem voluiflet. Colligeigi innis abfoluta tur definitioné oratio vero est VOX SIGNIFICATIVA, cuius partiú aliqua fignificativa eft feparata: vt di tio, &e non staffirmatio: hoc eft significatione simplici, non compolita, aut similia. Ori aût aliquid significare vt pars pot esse dupliciters aur pars copofita, ve in hypotheti-cataut ve syllaba, vt in voce composita, idco duo facit, Primo declarat o pars ofonis lignificat nó vt pars co polita, videlicet,no vtaffirmatio vel negatio.Secundo o nec vel syllaba. De primo inquit veluti homo fignifi cat quidé aliquid, nó aút fignificat o eft aut non est, sed erit affirmatio aut negatio si sibi quici addideris, hoc eit verbu solu. Et ficper exemplu patet prima pars. Deinde declarat secunda, et inquit.vna verohois fyllaba nullatenus fignificat:quod probat p exemplú et locú à maiori: et inquit. No.n.in hac diétione “forex”, “rex” significat, sed tín vox eit sola, no habens vim significan- Cotra, tu dices: quia in compositis ve in “hircoceru” sgnificat pars. Ridet in compostis noibus significat aliquid ipsa pars feorium, sed, vt diximus, non pro se ad intellectum totius, cuius erat pars. Sicigif patet ou pars orationis nec significat vt pars compolita, nec vt syllaba Oratio igitur eft vox significativa cuius partiú propin quarú aliqua est significativa separata per se quidem vt dictio, non autem semper vt affirmatio vel negatio. Ордір пра од. Et auten oratio onnis significat ina quidem, non tamen ut inferanientam, sed quem ad miodom dictum est secundum imturaxin institutionem. Syllogizabat ACADEMIA in co libro, qui CRATILO inferibi Cámag. tur, ofoné esse NATVRA, ET NON INSTITVTIONE sic. oro est instrumentum virtutis interptativa naturaliter nobis ine- xiltétis. Per ipsam.n. SIGNIFICAMVS – “We, the utterers” (Grice) -- aia affectiones, ceu Pitevais, per instrumentum. omne aüt instrumentum virtutis naturalis eft natura: veluti virtutis viGuz oculi, auditiua au res:& eid genus. igif ofo NATVRA, SED NON INSTITUTIONE est -- hic erat ACCADEMIA fyllogifmus. Huicridet LIZIO et consentit maiori. negat tá minore.nam virtutis interpreta tiug primü inftrumentú et proprium est pulmo, guttur, dentes, lingua, et id genus: qua NATVRALIA sunt. ofo vero est effectus illius virtutis mediamtibus illis instrumétis et ita minor falsa est. Inquit. Eft aút ofo ois significati- ua quidé, non tamen ve instrumentú, sed quéadmodá di etü eft )fm institutione, et ita ACADEMIA minor falsa est. Quantum vero ad verba graca attinet organon, vult BOEZIO (si veda) esse pofitú pro natura:quia (vt dictú ett) Pla-to omnium artiú inftrumeta fm naturam ipfari artiú cófiltere ponebat: et ita erit sensus o ofo significat no ve instrumentum. hoc est naturo Jed/vt diatü eft in capitulo de nome) fm synthecen, hoc eft Pm inititutione, Gue placita Gue fodus, Giue paciú. Melius ait LIZIO organon no pro natura pofuit, sed pro inftrumen to:quia perhoc(vt Ammonius et Alex.aiunt) LIZIO minorem ACADEMIA negareintendit. Sed adhucfo lutio LIZIO non videtur tuta. ACADEMIA n.quidam Hermippus et Numenius obijciút.na idem videtur de effectu. Oratio.n. effectus eft virtutis naturalis per in oratio ipfa natura crit. Secundo, ofo est inftrumentú intellectus, qui eft virtus naturalis. nam intelleêtus ora tionefignificat, syllogismo, qui ofo elt, ratiocinatur: definitione, que rurfus oratio eft, definir.Sed vefupra. omne virtutis naturalis in trumenté eft natura. igitur oro natura erit, non aut inititutione. Ad hac Ammonius tolutioneinnuit o quéadmodú in tripudio motus ipsea natura est, modificatio illius (vtita dicã) ab inflitutione et artificio, ita in oratione voces sive soni natura sunt, modificationes vero institutione : et ita quatenus voces sive soni ofones natura sunt, quatenus tales voces institutione formanf. Tuncad rationépri mam maior falsa est. poteft enim aliquis esse effettus virtutis naturalis per instrumenta naturalia ve tripudia et esse institutione. Ad secundum ait Ammonius (p intellectus non cit natura: quonia nullius corporisaCus est: sed quasi SVPRA NATVRA et sic nihil prohibet virtutis SVPRA NATVRAM esse eflectú institutione. Sedhzcre- sponsio stare non pot: quia faltem intellectus est virtus naturalis: distinguendo NATVRALE CONTRA ARTEM. Igitur effectus suus debet esse naturalis -- vt distinguitur contra Artem. Propterea dicendum o artificialium principivm imsoltio peria mediarú eil VOLVNTAS. He enim est immediata causa institutionum et propterea gg concurrant intellectus et naturalia intrumenta virtutis interpretatiuz, quia tamen ola subiacent VOLVNTATI, ideo inslitutione sunt ET NON NATVRA et hoc nefcivit explicare Ammonius, licet forte hoc voluerit balbutiri. Alexander aphrodifius R5 Ales. enititur probare orationem esse institutione: quia cuius qualibet pars est insttitutione, totum institutione oft, sed orationis partes vt nomen et verbum institutione sunt: igie tota oratio. Hac ratio pace sua petere videtur, quia Plato et Socra in lib. CRATILO volvere etiam nomina et verba NATVRALITER SIGNIFICARE. Amplius similis qualtio est de nome et verbo: qn ipsa sint effectus virtu Ri melier. tis NATVRALIS instrumenta naturalia. Ideo melius a SIGNO idé probari pót: que apud diverfos sunt diuería institutione esse vident. id. n. QVOD NATVRALE EST SEMPER EST VNIFORME sed orones apud DIVERSAS LINGVAS diuer-fie spectantur, gaide SIGNIFICENT, itur NON NATVRA, sed Dubitationes institutione sunt: et hac est sua mel forratio. Sed circa hac recentiores ambigunt, trú nomen, quod SIGNIFICAT ALIQVID, SI IMPONATVR DE NOVO AD SIGNIFICANDUM ALIUD, remaneat IDEM NOMEN, verbi causa, ifud nomen “homo” significat Socratem et Platonem, verum si ponatur AD SIGNIFICANDUM IDEM QVOD “EQVVS” remaneat IDEM nomen. Secunda dubitatio, vtrum oratio, que de no no imponitur AD SIGNIFICANDO ALIVD primo significabat, vt hc oratio, “homo eit animal” -- dato prina rideat non nulli recentiorum g nomen impositum de novo ALITER AD SIGNIFICANDVM et significabat NON EST IDEM NOMEN. Hoc probant exemplo: quia sicut ex variatione forma artificialis resultat alia arg; alia res artificialis, ita ex variatione fignification resultabút Confutatis. alia atg; alia nomina. Sed hac positio stare non pót. Prima quia ad variationem cius quod de foris de per accidens accedit nihil debet variari: sed nomen et verbum SIGNIFICANT EX VOLVNTATEM,ita go significatio deforis accidit nomini et verbo, igitur nomen per illius variationem non variabitur. Amplius li ad variationé signification varientur nomina, ad convenientia erit eadem. Igitur “homo” et “anthropus” erunt vnum nomen: Selatio pra quod nemo dixit. Ideo dicendum, ey nullatenus varia-pris tur nomen: licet varietur significatio cum illa fit accidens ipsi nomini. Pót tamen dici variatum extrinicce, qué-ad modum colúna sit dextra vel finiitra ipso animali va riato. nec valet: significatio formalis variatur, igif nomen, quia illa est fibi extrinseca, sicut colúna dextreitas. Ad rationem dico e variata forma artificialis in. trinfece variatur res artificialis: modo non sic est in nominibus. Ad secundam midentidem o oratio de novo imposita, significandum non complexum, vim habet dictionis. Hoc absolute dictum est falsum – QVIA VOLO “HOMO” SIGNIFICET MIHI equi bos animal, et facio hanc propositionem: “Homo est bos” -- patet o qualibet dictio et pars significat ve dictio, igif tota non significar ve di Etio. Amplius hac oratio de nouofic significans est oratios igitur partes cius significát ve ditiones per deffinitionem datam. Propterea dico quod oratio pôt imponi ad significandum aliquod complexum de non o dupliciter. Vno modo ponendo o partes significent, ex quarum significatione resultet significatio totius, hoc modo significat vt oratio, ve argumenta cogunt. alio modo ponendo q oratio significet, primo illud complexum de novo nihil de partibus afteredo, hoc eit non p hoc e significatio cius resultet ex significatione nova partium. Et hoc modo bene dicunt g› significat vt dictio, quoniam sua significatio non resultat ex significatione partium: quo in casu non erit oratio, licet partes lint noia: nec propositio, licet significet complexum, sed dictio erit tín, de hac re supra disputatum eit. Everationibus Enuntiativa vero non omnis, sed illa, in qua verum aut falsum est, non ait in omnibus el:ucluti deprecativa oratio quidem e/ft, fed neg, neraneg; falsa cetere quide igitur relin quantur, nam ad Oratoria, aut poeflm illarum magis consideratio attinet: enuntiativa vero presentis contemplationis ed. Divisio enuntiationis, vt BOEZIO est autor, hac ra- Cim ao. tione sit fumpta oratione pro genere, ofonum alia im períecta, vt – “Plato in Lycio,” Alia vero pfecta - perfeita vero(filiceat bimebrem facere.) Alia enuntiatiuv, alia non enuntiativa qua e; diuisio, ideo p alterum membrum negativum dat, oi subdividentibus mêbris genus cõe nomen non haber.nó enuntiatiue vero alia elt depreca ciua, ve adfit letitia bacchus dator. Alia imperativa: vt accipe, daé; fidé. Alia interrogatiua, vt quo temeri pe-des?an quo via ducit in vrbemiAlia vocatiua, vt o qui rex hoiumo; deûg, aternis regis imperijs. Enuntiativa Faree mane vero elt vt dies eft:dies no elt. No countiativari vero fie. {pecies expofitor reducit adtres. on illa quinqueor- dinata lunt ve vnus ex intellectu alterius dirigaf:quod quidem in tribus sit modis. Primo adattédendü men te, et ad hoc oratio deferuit vocativa. Secundo ad re-fondendum voce, et ad hoc facit interrogativa. Tertio ad exequédum opere, quod etiá trifaria fit, aut pex prefsionem defiderij, et ad hoc facit optativa, vel refpa Etu superioris, et ad hoc facit depcativa: autrelpediu inferioris, et ad hoc facit imperativa. Siquis aut vellet poffet reducere etia has ad bimêbré, qua res cú non multum côferat, fit hoc fatis. LIZIO.itaq; mirabile brevitate vtens: vt Ammo inquit. tria facit fere infimul. orationem dividit, enunciativa definit: intentioné ad spēm altringit. Dividés ofonem ait. enuntiatita vero non ois. Et lic innuit orationú aliá elle enuntiatiui, alia non enuntiativa. Deinde innuens definitioné inquit. sed illa in qua verum vel falsum est. eft igit ENVNTIATIO ORATIO IN QVA VEL VERVM VEL FALSVM EST. Ve vero clarior esset hac definitio subscribit differentia, qua differtà ca teris. Qua in definitione posita est, et inquit. non aútin cibus est veri, videlicet vel falsum, veluti depracativa oratio et cretera id genus oro quidé est, sed neqi VERA, nco; falsa. Deinde abijciés à consideratione piti orationes nó enuntiatiuas aftringit intentione in fp.m. Nã huculo; de partibus interpretationis: et de cólipfa oratione locutus est. Et inquit. catera quidé igitur relinquantur, ná ad ORATORIA SIVE RHETORICA, aut poesim sive poeticam magis illarum confideratio attinet. Enuntia-tia vero pátis contemplationis est, qua {pés est ofonis potionhuius vero species sunt affirmatio et negatio. Hac igitur sunt que LIZIO breuibus cóplexus eft. Quantum vero ad verba graeca attinet verum vel falsum C falsum in enuntiatione sunt, in intellectu, atque: rebus. Inre film, bus quidem vt in causa, gn ab eo quod res eft vel non est enuntiatio sit aut vera aut falsa. Inintellectu vero, quia intellectus subie tú oium verorum, et ita in intellectu sunt vti in subiecto. In ENUNTIATIONE VERO IPSA SVNT IN SIGNO, ceu SANITAS IN VRINA. Sed lupradictis emer gút dubitationes. Prima, videf o LIZIO male definierit enuntiationé per verum vel falsum: qi verum vel falsum aur sunt dfia, aut propria siquidé propria non erit bona definitio. si dria, tunc contituit ipés: 8cita p suas spés definisset. Secunda cur solum de enuntiatione est consideratio. Logica.n. est (cia cois, igit de oibus. T'ertia de propositione tra @af in lib. priori, et in lib. polteriori. git non hic de enuntiatione: cuidem fint. Ad primá rádet Ammonius, g enútiationé signanter definit p verum vel falsum: quia lunt fines clus: et definitio dat p finé multotiens. totiens. Vel dici pot, g sunt ve propria, qua ponuntur loco differentiz, qua nobis latet, etiam si sint differentia et constituunt /pês genus definiri per pés tieri potest, vt dicit Alexandrus quando vel differentia latent: aut ge-nusnon sit penitus vnivocum. Ad secundam ridet Theophraltus philosophus o omnis oratio aut instituta ordinatad; est ad auscultatione auditionege: aut res ipsas. si ad auscultationes ato; auditiones, sic pertinet ad rhetorem atque poetam, vt ACCADEMIA ofidit in phedro. et Socrates plilebo. Si vero ad res, fie enuntiatio inflita ta est ad librum posteriorú et ad feiam: et ita crit propria huic considerationi. Ad tertiá dici pot, enuntiatio differta propositionesm propolitio ordinatur ad syllogismus, et quatenus ordinaé ad syliogismum dicitur propositio, qua si ordinaf ad demonsirationem, ca. sed si ad syllogilmum limpir vocat propositio absolute. Enuntiatio vero dicit quatenus subordinat intelleêtui p voces exprimentis de rebus verum falsumume. Et ita diffèrunt quia enuntiatio est extra menté ti in voce aut scripto: propositio extra et intra menté, Enuntiatio etia dici pot propositio, et conclulso, et problema: problema in dialectico syllogilmo, conclusio in demonstratione, itêá; dici põt qualtio: et id genus: propositio non nili premissa. Hac ti latius explicabuntur in libro priorum et pofteriorú Quarút rurlus forticola, an eiusmodi propositiones, tonat, corufcat, lego et id genus funt enütiationes. Secudo an difterat dicere, ego lego, ego Augustinus scribo, et dicere lego,icnbo. Ad primam rident non nulli forticole quilliulmodi propositiones, nec sunt orationes, nec enuntiationes: benetn sunt complexa quedam in virtute. Moventur aurem argumento pillarú vna pars vipote SUBIECTI EST IN MENTE – videlicet: “ego.” [Grice: “Those Latins dropped pronouns!”] Alia vero in voce, vipote pradicatá. enutatio at de ois ofo est penitus in voce vel scripto et c ita ciusmodi esse non possint orones vel enttiatio- Cofittiones. Sed ifti delirt penitus. Nã ciufmodi funt in voce aut feripto: et in eis eft verum vel falfum: igitur enuntiationes.Hac.n.fuit LIZIO definitio. Neccon- perfe pres tra cos alter arguo: sünt. n.hac defe derifibilia. Anima duerte igit g› ciulmodi sunt enuntiationes, qui verba sunt subiectum et predicatum et copula, in ilta distione lego -- aut ambulas: est subiectum vi prima vel secunda: pfone verbi, qua sua natura illá importat. Est pradica- qua sunt pronomina et prima et SECUNDA PERSONA, deno tatur affectio aliqua sive pracilio quadá, verbi causa cum dicit ego Augustinus Scribo, denotatur qua -- ut solus scribo, aut nullus ita bene scribit. Et tunc iuxta hanc re bit. Tenet captiúcula per regulá. Secunda, non valet: “Ego, Augustinus, curro” -- igié ego sum. Ef.n. antecedens verum vi ego solus curreré: consequens vero falsums sit deus ego sum qui sumqi alia a deo vel non sunt, vel nonita bene. Bene tamen concedent hasfum, es,id genus. Sed ilti propter captiunculas lepe tradunE in pueriles fabulas. Hac. n. rilu digna fatis funt. Nãdá dico ego fum vel tu esaut in his volunt effe intelligen da fubielta, aut non.fi no: igitur erit aliqua cnuntia-tio pfeêta, et non cum subieto. Si vero volunt esse subie- Ea intelligenda. sed intellectus pót explicare voce om ne quod concipit: et non aliter pót, ( dicendo: “ego sum: vel tu es,” igitur “es” æquivalet “sum.” Et ego sum : es et tu es. Secundo, tunc hec esset nugatoria tin deus est: tín ego scribo: et id genus, Propterca vide mihi lilliulmo-di ofones non differre quantum ad rem: sed solum qua ad vium thetoricum atque: ornatum. quo. n. Ad veritatem idem est dicere “tu es,” et es, “ego scribo,” et scribo. Ad dunttamen rhetores pronomina ipsà prima et secunda persona nónung emphaticos: veluti illud Maro-nis: Me ne incapto desistere viêta? fub illo pronomine, “me,” intellexit reginam deorum, et fororé, et Iovis coniugem. Similiter Cicero. Ego omni officio ac potius pietate erga te catenis satisfacio. sub illo pronomie, “ego”: feillum talem qui cum Ientulo familiarissime vixit, et qui tot beneficia ab eo acceperat intellexit. Addunt igitur rhetores eiusmodi ad amplitudinem licet quoad propositionum veritatem, quam logicus considerat, nulla sit differentia – cf. G. N. Leech on H. P. Grice as proposing a CONVERSATIONAL RHETORIC – not a conversational DIALETTICA. Et hoc modo intelligendum est illud Prisciani grammatici. Hae fatis. Et autem una prima oratio enuntiativa, affirmatio, dea Enuncidiona inceps negatio: cater e ucro omnes coniuncione sunt und. aliu est voafim alie con. Necesse et autem omnem orationem enuntiativam esse ex alia vere cum verbo, dut casu verbi quando o hominis ratio nif refm pes ee.: “est”, aut “fuit”, aut “erit,” aut tale aliquid adyciatur nequag oras per afpr. tio crantistina si Qgaobren an quoddam se or nonmul ta “animal, resibile, bipes”? Neque enim quis propinque di» Pie: Mete. C- Mar. cuntur: una crit. Erit alterius boc trafare negoay. Coniucniunt expositores et graeci et latini, g› definitá Сетьат enuntiatione nunc dinidat LIZIO: et volút gi LIZIO brevibus duas divisiones enuntiationis explicet: quarum vna est o enuntiationum quedam est vna simplex, quedam vna coniunctione. Qua expositor eo approbarge etiam in rebus aliquid est vnvm simplex -- vt indivisibile, aut continuum, alteri colligatione, aut compositione, aut ordine, Secunda vero vt expositor ait subdivisio est enuntiationis vniusin affirmatione et negationem. Vnderecétiores volunt divisiones esse huismodi enuntiationum quadam est cathegorica, quadam hypothetica sive CONDICIONALIS. Cathegoricarum alia est affirmativa, alia negativa. Mouct BOEZIO dubitatione /vtri id quod ait prima ad affirmationé referaf, vt lit posterior negatio, An id quodait prima ad simplicem retulerit orationem: vt secunda sit que ex ofonibus iungif. Hac BOEZIO quæstio resolvit in tres. Prima verum divisio enuntiationis p vna et coniunctione vna sit prior divisione p affirmationem et negationem. Secunda vervm affirmatio sit prior negatione. Tertia vtrvm simplex sit prior coniuncta. Ridet Andivltemi expositor, è quo accepcrút recétiores: g prima divisio. ciatie in visena enuntiationis sit per cathegoricam sive vna simplice et hy [ne vnom fit gri] potheticam CONDICIONALEM sive coniunctione vnam. Huius ratio ab expositore colligit, quia prima entis divisio est per vnvm et multa Igiê prima enuntiationis divisio esse debet similiter. Alia vero divisio est potius subdivisio enuntiationis simplicis. Sed pace horum dixerim hoc stare non pot, gi eriá hypothetica o CONDICIONALIS siue coniunctione vna est affirmatiua vel negatiua. I giê no divisio secunda sive sub-divisio alerius uel. P erit, guat fit per firm tiun et negationem. Secundo errant recentiores qi volunt hanc divisionem esse per cathegorica et hypothetica sive CONDICIONALIS: qi tune sola condicionalis esset coniunctione vna. Am mo.n. et BOEZIO volunt hypotheticam no esse nili duobus modis s aut condicionalem, aut disiunctivam qua ét species conditionalis est vt dicemus. Vñ et grace hypothelis conditio cit. Igit hypothetica condicionalis est tm. Ideo dicendum ad primão hac dua divisiones enuntiationis aquales conertibiles cú ipsa sunt. Vt.n. ens dividitur per vú et multa: 8e per adiú Se potentia et id genus. Qu oe ens aut est vnum, aut multa. Similr o€ ens aut actu aut potentia. Sicois cúciatio aut vina simplex aut coniuncta. Et ois etiam aut affirmativa aut negativa. Etita equales sunt divisiones euimodito non vna sub-divisio alterius. Dico secundo hac diviso p vnam et coniunctione voi no est divisio per cathegoricam et hypothetica sive CONDICIONALIS, Nô.n.vt BOEZIO et Ammo, aiút: cathegoricum opponi hypothetico: sed coniunctione vni. Eit aut coniunctio non vno ma: sed interdi copulatione, interdüt pe, interdum leco, et id genus. Ha.n. sunt coniunctione vnz, pn sol exoritur, diescit: quia coniunguntur coninctione tpis He hmilr, vbi tu disputas, Socrates iacet, et aliz eiusmodi. Que ti non sunt hypothetica. Recte igitur LIZIO verbo côiori vtens, dicit catera vero oes coniunctione fune vna: et non di- ateet secteasoes se apoiteacas Ad ed am sepondet Animo.g affirmatio solum ex parte vocis sit prior Additie expo negatione quia est simplicior. Nam negativa enuntiatio affirmatiua addit particulam negativa. Expolitor aûradiecit duas alias rones, et affirmatio sit prior ex parte intellectus, om affirmatiua significat compositionem intellectus, negativa slignificat divisione. mỡ compositio est prior divisione, cum non sit divisio nisi compositori. Sed o ex parte rei: qi affirmatio significat esse, negatio non esse modo cile et vir habitus na- esfuttio addi turali prior est PRIVATIONE (cf. Grice, “Negation and privation”). Sed hac additiono placet Prima quidem non: om a pari diuto elet pior compositione gi non cit compositio nisi divisiorum. Am plus vt diot Ammo, affirmatio et negatio quo ad compositione et vitatem non difterurit: qu veragi eli composta ex verbo de noie. Lacetilla dicatur divisio reri. Secunda vero minime sgi PRIVATIO naturatr pracedic habitü, vt de in Predacamentis Prius. nicatulus cocus elta viders, et ita fatis citrelponio Amo.( BOEZIO Simplee stiam approbat. Ad tertiai rádet BOEZIO gi enúcia- enantiatie fie tio smplex eit naturatlis/ At coniuncta pon sit vna nili pofitióne et quali ab extrinieco. Sed quod elbra-turale prius eft eo qdi pofitione eli tale ‹ aurefimplicé tiationis limpiscis voitas eltà natura, etiá ipla crita na tura.eadem.n.ratio.eft entis,&evnius:proponitionis& voius: ve di in elenchis. Sed Arifto.ait contra Plaroné nullam afonem e/lea natura. Igitur vé hacexpolitio contra Ariltot. Propterca dico, go via inuentiua, quee compositione agitur, simplex enunciatio prior sit, via vero anayitica hoc sit resolutoria composita sit priortim plici. sed qi LIZIO inilto lib.eltinuentiuus, iurelim Litera exp. plicem praponit. Inquit igitur, est aut vna prima oratio enuntiatiua affirmatio et midens ad particuli, prima (ubicribit, deinceps negatio: gaipla negatio voce posterior est. Ad particulam illam vna, midens aitalia vero coniunctione sunt vna. ve hypothetica &id ge- Duli Mexi, nus. Sed adhue elt dubitatio Alex videlicet, vtrum divisio enuntiationis per affirmationem et negationem sit generis in species. Secunda est dubitatio Ammonij: Scle tran vtrum hec sive enunciatio fue propositio fol existente super terram dies est, sit simplex, aut coniunctione vna. espondet Alexander qudiuisio enunciationis per Rie Ani. affirmationem de negationem non ellet generis in species: qinin genere non eltordo, in enunciatione elt ordo. Refpondet Ammonius, et BOEZIO, et expositor o bene vna porest esse altera prior comparatione facta inter fe vt in numeris patet. Sed comparatione adter- tin: vt poread coc genus nullus est ordogi aqualter funt orones veri vel falli participes, qua eit definitio enuntiationis et hec responsio potelt stare, Scias tá q BOEZIO et Ammonius inter afiarmationem et negationem nullum alium volüt ordinem, nili prolationis et vocum. Expolitoralios affert, quos deiecimus. Ad Ri. ad/elam. Secundam dici por quod illa elt coniunctione vna: ablatiuus absolutus resoluitur per coniunctionem alig, vt dicunt grammatici. Hee de divisionibus colliguné. Expõ secunda Deinde vt Ammonius et BOEZIO introducút. LIZIO, vo- partisprime lens disputare de affirmatione et negatione: que sunt species enunciationis. pramititquoddam vulead fer monem de illis, videlicet, pois enunciatio conftat ex verbo, videlicet, presentis t pistaut casu verbi: q' est preteriti aut futuri. Tacuit verbum infinitum, ve ait Ammo. Tum quia principaliter de afhrmatione loquetur: tum vel maxime, quia coordinatur cum negativo. haber. hictim co fere cádem vim. Sed dubitat Ammo. curpreteriit nomen. pót.n.imo constat enunciatio ex nomine de RECTO, vt fol oritur: et cafu cius, yt me tedet scribere. Respondet primo hoc esse pratermilium: ga potett esse enuntiatio, de non ex noie vel casu nois: vt: “Kire tum nihil est”: vbi verbum est subiectum. Nulla ri enunciatio elle põe line verbo, aut verbi casu. Hec responsio non valet: em vérba illa in enuntiatione nomina funt. Propterea Porphyrius philofophus, qué BOEZIO (equit, volie prater mififeipfum nomen: quía verbum est principalior pars, cum sit pars formalis, quafito-tius enuntiationis compositiva. Signum aut aftert /to-ta oro à pradicato, o est verbum nomen mancilcitur. dicitur. n. cathegorica, hoceit PREDICATIVA. Hac eit Exp5 propria. vna exposítio, qua stare pór.Mihi tá videtur o LIZIO refondeat quattioni tacite, dixit. n. efic enuntiationú alteram limplicé, alteram coniunctione vnam. Lo quis abifciet. ois enunciatio coltat,ex verbo, verbü aut im portar compositionem, j fine extremis non efintelligere. Igitur ois enuntiatio di composita. Cuirídet q ois enútiatio eft composita ex nomine e verbo. Sed di simplex quia non ex pluribus enuntiationibus constat. Veluti hacfi solesoritr, dies efliqua pluribus conltatoronibus.Et tunc continucilitera fic: licet enuntiationú fitédam fimplex, necefle efi tá oem oroné enunciatiua esse ex verbo, aut casu verbigitur de simplex simplicitate opposita compositioni ex pluribus enunciationibus. Et hac est expórectior. Primo, ga illa particula Apprebatio ex ADVERSATIVA (ait) poni non tolet sic obiter, nili ad obic Peitionis, Etiones tacitas tollendas. Sedo, quia interpositio fuif- fetnimis casualis et nopetinens. Tacuic aut nomen: dú à maion liciga fiqua oro cét enunciativa line verbo maxime ellet definitio. Mo ingt, on et hois to, nitripm “est”, aut “fui”, auv “erit” :aut tale aligd adiiciat, nequai ofo enunciativa sit. Igié ois enunciativa ofo ex verbo constare debet. Sed qni de definitione locutuselt, et qualtio de vitate cius elt alterius negocij, ideo se excufat, interponit tamen consutationé cuiufda falf ráfionis. Di cebant enim quiddam, ep definitio est vna, quia partes propinquius iacent. Inquit. quamobre vnum fit et non multa “animal, ressibile, bipes.” Interponit solutionem falsam: et inquit, negi enim quia propinque dicuntur: vna crit. Tunc redit ad excusationem, quali dicés, quare Natabile. vnvm sit definitio erit alterius hoc tractar negocij. Aiadverfione dignum, vt declarat BOEZIO et Ammonius ad vnitatem definitionis elle necessaria partiú propinqui tatem, quia bi partes longo interuallo cocila profer rent, definitio nó ellet vaa. Neigit credat hanc elle cau fam vera, remouit illa &e tranfmilerit nos ad septimum et octavum meta. Etlicet de vnitate definitionis LIZIO. Dubitatio. Rifie T bre. tralmiferit nos ad metaphyficá, Dubitant expositores graeci que eit causa vnitatis definitionis Ridet Theophratus in libro de affirmatione et negatione, e definitio est una ratione fubicati: quod definit. Secundo propter partium proximam constitutionem. Obij-ciunt contra Theophrast, quia tunc definitio no esset vna per se, qín ellet vna ratione fubie ti, et ita ratione extrinseca Secundo, quia tuc oia accidentia essent, vnvm essentialiter, quia funtin vno subiecto, vel faltéca, qua effent in vao fubicCo. Ammonius affert duas causas. Prima elt partiú vicinitas. Secunda vero est, quia in re est aliquid loco materia, aliquid loco forma. et cum inter hac nihil medvet, rationabiliter faciunt definitionem nam: Sed ambo pollunt bene dicere, quia Vt Auerroes ait in, g-mera. com.4a. dehnitio vno modo potest fumi vtinfirmenum, quo intellectus inducitur ad intelligendas essentias rerum, de cú instrumentum fumat vnitatem afine. Finis aut est definiti essentia, iure ab vitate definiti definitio crit vna. Et sic recte Theophraftus ait. Altero vero fumi potelt yt etipfarei eilentia, que cum refultet ex vitima diffe- rentia sive vitima forma, que cil vtmusaCtus, ficbe- Dubitatin The ne Ammonius ait. Sed le res non est hic tractanda, vi bene LIZIO. Dubitatetia Themitius primo posse. quia videtur a definitio sit enuntiatio, quia est species ponis immediatz, vt ait LIZIO hic autem vult non esse enuntiationem. Hanc qualtionem multi fol uere enituntur, quosin pripo polte confutamus, nunc vero Philoponi expositione afferimus, g› definitio pa-test colderari vt premilla, et e sic eit propositio et enuntiatio, vt LIZIO vultibi. Alo modo vt terminus, et lic loquitur LIZIO hic iquia vt sic non est ENUNTIATIVA ORATIO, sed terminus vt dicit. Elait una ORATIO ENUNTIATIVA, dutes que unm SIGNIFICAT aut es que coniunione est uns. Plures vero esse que plu a co non un significat. Aut ee que sine coniuntione sunt. Cim. as. Expositores fere ois volunt LIZIO divisionem pre-politam nunc exponere, quod, vt mihi videtur, stare non potest Addit-n, mónulla mébra que non pdiuilit Primarupt. Confutatin, Ideo LIZIO divisione enuntiationis rurfus núc alio modo ordit, qua hac forma reducit. Enuntiationú, alia est vna. Alia plures, yna bifaria dicit, hac quidem simpliciter,illa vero Fm quid vr dicemus. Plures rurfus biari: en quide plures, ga piura et no vnvm SIGNIFICAT, ille plures, ga line coniunctione multe sunt. Huius secunda divisionis prima pars prima parti prima divilionis ad- Prime duba. versat. Secunda vero pars ciude, secunda illius modi. Referfie Ambigút que diviso sit hac? Ridet et lane fapide gpeltdiuifioziquinoci infigaificata/ve i hodiniderdt in verum, et e marmore, nã lola enuntiatio vna est enuntiatio, plures vero fune vna platione, et METAPHORICA (“You’re the cream in my coffee”). Secundo dubitant quid LIZIO, velit p enuntiationem vnam limpir, et vnam fm qd: quid g; p plures imptir: Secunda dabi. et plures fm quid. Ad hac BOEZIO et Ammo cocorditer rident: et volut eo vnitas et multitudo referan ad enú Referacãs. tiationis signantiam. Simplicitas vero et compo ad voces. Ex his fiunt lex coniugationes: quarum dua sunt impossibiles, quatuor possibiles: vt figura declarat. Eninciations coniugationes fer: quatuor possibiles, o due impossibiles. Vna Polis Simplex sgod Lmpof Impossibilis Polis Composita Polis Plures Erita vna simplex est, felt vna fimpir, vt ho eft ro- nale. cit. o. na quo ad lignantiam.Simplex vero quo ad voces vna vero composita eit vna Pm gd, vt lifol vritur – ut: “Dies est.” “Socrates disputat et Plato legit” e id genus. Hec. n. de vna fm gd, quia colutione vna. Plures etia bifaria funt: plures composita contra primum membrum, vt g incon-lucta sunt tales, vt: “Socrates legit,” “Plato disputat.” LIZIO mo uef. sunt. n. plures et composite fm voces. Plures vero simplices – ut: “Canis latrat.” cit quide plures signatu, vocibus vero slimplex. Simil mo hoc: “AIACE pugnavit cum ETTORE. Multin. fuere Aiaces. Hec quo opponit ad fam membrum. Sed huic obiicit expositor. Frimo, quia p defunitione: qua interponit vi distinguere inter oratione, 9 significat vni, et gelt voa coniunctione. Secuco, quia supra dixit, gp est vnvm quoddam et non multa aial grefsibile BIPES: quod vero est coniunctione vnvm o est vnvm, et non multa, sed eit vnvm ex multis. Sed ifterones frivole sunt. Prima qdem, ga non difigit inter vna, et coniunctione vna: sed inter vna simplice, g tubintellexit in primo membro, et vna coniuctione. Adicam dico upenes aliud accipif vaitas enuntiationis et definitionis hic et ibi. Qía hic fumit vnitas a significatum multitudo etia. Ibi aliter vdisimus. Terio dubitantois – “Homo vel equus currit” -- est vna fimplex, aut vna composita. Similt Plato athenielslapiés academic est in lycio LIZIO LYCIO r est vna simplex, vel vna composita. Silr ois – “Homo lieft bos mugit, et Socrates et Plato disputant” sunt ne vna simplices ? an vna composi-tel Quiced velnt BOEZIO, Porphyrius, Ammonius: et ali. dico g glibet harum est vna simplex. Nã verbum elt vnu, a quio lumit vnitas enuntiandi. Prima gdem vna de subiecto disiuncto, iccúda una de subiecto composito. Tertia vna de SUBIECTO CONDICIONATO. Quarta vero vna de subiecto copulato, et ita qualibet est vna simplex. Quantum vero ad verba attinet adiccit et no vnü quali dicat propositio sine enuntiatio est vna simplex, de plures plures qua fignificane plura, et non vnum. Q in vt Ammonius inquit, sunt enuntiationes plures de aliquo vniversali, vt aial g “Ressibile bipes est homo.” Potest enim resolvi hac in plures, sed quia continent sub aiali, sunt vna. Propterea ait. 8e no vaú pp tales enuntiationes. Aut dici potvt Porphyrius philosophus ait hoc esse di tú ad differentia enuntiation, qua fumüt definitione pro subieêto, aut pro pradicato. Na videntur multa significare: sed in re vera vnum significant. Esenciatio fi Nomen quidem igitur aut verbum didio sit solum. Cum non contingat utis, qui voce aliquid significet, fie dicat, ut cauntier: fue INTERROGANTE ALIQUO, sive non, sed ipse profert. Videtur o LIZIO inferat ve per particulam illariua defignar. Videtur vero gy dubitatione excludat, vé per Icriem verborum haberi pot. Est.n.dubitatio talis, quia dictum et enuntiationem esse nã ab vnitate significatus, sed nomen aut verbum vaú significat. Igitur enuntiatio vna erit nomen vnum, aut verbum vnum. Solvit de volt ‹pis, qui profert nomen aut verbum vnum, vum dicit, et is etiam qui protert enuntiationem vna, vuû dicitil ed non eodem modo. Nã dicens nomen vel verbum, dicit nú prolatite, et non enuntiative, at is qui enuntiatione vá dicit, vnvm dicit enuntiatiue. quatenus enuntiat voú de vno, aut remouet vnú ab vno. Et hoc inquit {nome quide igitor aur verbum dictio fitlo- cu non contingat vtis qui VOCE aliquid signiticat sic dicat vt enuntict, sed contingit ve sic dicat vt profe rat tifadiecit fue interrogante aliquo, fue non inter- rogante aliquo,g qui aliquid nomine aut verbo fignificat poteft dicere vt enuntict aliquo interrogante, vt fiquis petat quis hodie venenum bibit, et refpon deatur Socrates. Patet e is qui dixit Socrates: enuntia uit: 8 hoc quia precefsit interrogatio. vbi autem nulla pretuisset interrogatio, dicens Socrates em, NON enuntia uit, sed protulit ditaxat. Igitur enuntiatio differtà verbo hue noie: gi enuntiationem SIGNIFICAT viium de vno enuntiative, live precedat, liue non precedat interrogatio. At nomen vel verbú pót enuntiare nú de vno solum precedente interrogatione. Propterca air cum non contingat vis qui voce aliquid SIGNIFICAT, sic di. cat vt enuntict, line interrogate aliquo, fite nullo, hoc est vt enuntict in omni casu. ham non nisi vbi prace-filet interrogatio, sed ipse ita dicit ve in omni casu PROFERAT nû. Er lie differt enuntiatio a verbo et nomine, Harum vero hee quidem est simplex enuntiatio, sclut que Tutto imples, aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo enuntiat, illa vero ex his composita: acluti ca oratio quedam que (ane componitur. Ammonius vule vt LIZIO sub-dividat eas enuntiationes, quas dicimus aut INTERROGANTE aliquo, aut quas volumes dicere per nos ipsos. Sed hoc est repcte-reidem pluries: quod non conucnit LIZIO. Melius igitur divisionis pradicte membra exponit per exempla. Er inquit, harum vero hac quide est simplex enuntiiatio, velut per exempla ca, que aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo subaudi enuntiat. Hoc est ve affirmatio – “Socrates est academicus,” aut negation – ut: “Socrates non est timidus.” Illa vero cit qua ex his componitur, quod trifariam ft, vt Ammonius ait, videlicer, aut ex ambabus affirmationibus,aut ambabus negationibus, ved ex alter afirmatione, altra negatione. Cuius exemplum fabdit, et cinquiti veluti es oratio quizdam, qua fane componitur, fupple ex duabus affirmationibus – ut: “AIACE pugnavit et ULISSE fürit.” Ex duabos negationibus – ut: “Plato non est crudelis: et Socrates non est avarus.” Aut ex vna affirmatione, 8e altera negatione, vt: “PLATONE eit in lycio LYCIO LIZIO et Socrates non in academia.” Et ita per exempla paret divilso et membra divisionis. Est autem simplex enuntiatio vox que SIGNIFICAT aliquid Iniciato quid «/Je de aliquo, aut non esse, modo quo tempora distinguitur. Alexander aphrodifius exponit LIZIO nunc Cin 35- definire simplicem enuntiationem, qua ait definifle species. Argumento, enuntiatio no genus cit illari, sed veluti æquivocum quodda. Hac Aspalius ratione hac confirmat: quia eo modo hic LIZIO enuntiationem definit, quo primo priorum descripsit propositionem: ed illic sic propositionem descriplit, propositio est oratio affirmativa vel negativa alicuius de aliquo, aut alicuius ab aliquot igitur de timiliter enuntiationem describere debet. Obijcit autem Ammonius, vt fumit expositor, quia statim LIZIO definiens affirmationem et negationem ponit enuntiationem, et non vt differentia migitur vt genus. Et ita non æquivocum, sed genus erit illarum, et per consequens non definiendum per species. Porphyrius philosophus cum Alexandro volens LIZIO definire enuntiationem simplicem, ait non per species dehnifle, sed per virtutes affirmationis de negationis, efie enim &e non, elle non sunt pecies enuntiationis, sed virtutes affirmationis et negationis. Sed obijcit expositor, quoniam sicut in definitione generis non debent poni species. Ita neg; ea qua sunt propria specierum: MODO SIGNIFICARE esse, proprium est affirmationi, SIGNIFICARE non esse negationi. Igitur non debent poni in definitione generis. BOEZIO autem quafihac miscens vult LIZIO Espibe. lemfimul dividere enuntiationem simplicem, &e definire, vt intelligenti pateti& longis verbis exponit. Sed hoc expositor refellit, quia si enuntiatio simul definiretur et divideretur, cum mon videatur definiri nifiatt per species, aut per virtutes specierum, necessario cum dicere oportebit vel vt Alexander, vel vt Porphyrius. Com Ammonio vero expositor sentit, &enos quod; sentimus, videlicet, gi LIZIO enuntiatione simplicem in duas differentias dividit, vt inde definitiones pécicrum näcifcatur. Et inquiteft autem simplex enunrtiatio, lupple omnis, aur que SIGNIFICAT aliquid esse de aliquo, quod ad affirmationem atunet, aut que SIGNIFICAT aliquid non esse de aliquo, quod ad negatione nde ne intelligatur solum de prasenti tempore, sub-scribit modo quo tempora distinguuntur, quasi dicat; etiam in aljs verbi temporibus. Hac vero divisio vt expositor sentit non est enuntiationis in species, sed in differentiaa specificas, non enim ait quod enuntiatio est affirmatio vel negatio, sed VOX SIGNIFICATIVA cius quod est esse, qua est dificrentia affirmationis specifica, vel eius quod est non esse, que tangitur differentia specifica negationis. Propter hac ex his differentiis subscribet specierum descriptiones. Hac est optima expositio. Verum illa Alexandri non est de-rifibilis? Propterea primo debes scire Alexandrum voluisse enuntiationem, non esse simpliciter æquivocum sed ANALOGVM, quasi analogia genus dicitur analogum speciebus Septimo physica auscultationis. Hac enim analogia perfecti ad imperfectum rationi generis non repugnat. Viterius animaduertendum enuntiationem posse bifariam definiti a prioris, et e sic in pracedentibns definit LIZIO nullas in eius definitione addendo species: aut a posteriori. Et hoc dupliciter vel per ea que intellectui competunt: et ita per species acceptas a vero e falso, superius descripsit, aut per ea que rebus conveniunt, et e ita describit hic icú di cit enuntiatio simplex VOX EST QUA SIGNIFICAT ALIQUID DE ALIQUO ESSE, VEL NON ESSE. Vox enim loco generis accipitur. SIGNIFICANS esse vel non esse loco differentir a posteriori accepta Et hac elt mens Alexandri: que mulcum confsnat littera. Tunc ad argumentum contra Alexandrum patet solutio. Non enim negat enuntiationem esse genus: sed ait esse analogum etiam. Per hac patetrefponfio ad illud contra Porphyriú. Pofiunt enim poni in definitione generis propria fpc-cierü:no quidé in definitione propter quid, sed in definitione quia: et a posteriori. Similiter ad illud contra BOEZIO, simul.n. definit vt notat illud genus vox et dividit ve notat differentia accepta à virtutibus, hoc De bypatbetis est propriis specierum. Credunt forticola LIZIO- củ. lem per simplice intelligere categoricam, et per com Prima pofiria. ciatio sit cathegorica, vel bye que in, gua a pluril categorias confans con.- etetica. sunctione vna eit: de quonia plures categorica, possunt coniungi pluribus modis, {queda enim per nota causa, vt quia Socrates bibit venenum, fuit fortis: Aliz moritur, fepelitur. Et possunt etiam coniung: plures categorica innumeris fere modis; Ideo hypothetice secundum iltos funt fera innumera. Quare ois enuntiatio, qua expliribus conflatenutiationibus el hypothetica. Et sic inductio, exemplum, et enthymema: atgi syllogilmus: et caetera id genus cum sint enuntiationes coniunte per notam illationis, omnes sunt hypothetica. Alij ponun thypotheticarum, fex species sive modos -- vt conditionialem, copulatiua, disiunctiua. Tertia põ. causalé, temporalem; demú et locale. Sorticole côiter aiunt TRES esse species vt: CO-ORDINANS: copulativam (p e q), disiunctivam (p o q) et SUB-ORDINANS: conditionalem: (si p, q). Nam cateras ad has reduci contendút. Theophrastus vero et Eudemus volunt hypotheticam oêm esse conditionalem et nullá alia nisi conditionalem. Huic BOEZIO assentit in primo Topicorum suorum vbi air CONDICIONALES PROPOSITIONES esse, quas graeci hypotheticas (SUPPOSITIO – suppositiva -- vocant. Amplius in libro de syllogismis hypotheticis ait CONDICIONALEM ENUNTIATIONE fortiri speciem et nomen ab hypothesi graece, latine CONDICIO sive SUPPOSITIO. R urfus LIZIO in libro priorum vult ex hypotheticis enuntiationibus costitui syllogismos hypotheticos. Constat autem per ipsum non nisi ex CONDICIONALIBVS. CONDICIONALIVM vero graci duas tradunt species altera eltquam continua vocat. Velifol exoritur: dies est super nos. Altera est: qua disontinua nuncupant, ve: “vel tu es, vel tu non es.” Oua CONDICIONALIS discontinua appellatur, quia posita CONDICIONE ep non sis, sequitur te non esse, cumitag; nihil ponat inesse, CONDICIONALIS eriticum inter partes difun Al formi que Etio signetur discontinua appellatur. Haceit mês om Riends, nnium graecorum et BOEZIO) vbi gi. Qua ratione sit ve hypothetica 6t lpés enutiationis coniunta. Nec cathegorica dividit contra hypotheticam sive CONDICIONALEM sed potius cotra conjuntam. Consequenter videridá de pebus condiciona: De peba con discontinue. Et dicendum vt Ammonius e BOEZIO fen tiunt péspofie enumerari aut penes qualitaté cathegoricarum è quibus constat, aut penes forma, que habetur ex vi notz CONDICIONIS. Si penes qualitate partium: tunc sunt quatuor species. Prima ex categoricis AMBABVS AFFIRMATIVIS: vel – ut: “SI sol lucet, dies est.” Secunda ex ambabus negativis –vt: “SI non est animal, non est homo.” Tertia ex prima affirmativa, et secunda negativa – vt: “SI dies est, nox non est.” Quarta ex prima negativa et secunda afirmatiua -- vt: “SI dies non est, nox est pecies colligantur ex nota CONDICIONIS/ {Ouonihac nota si potest trifariam fumi. aut pure CONDICIONALITER – vt: “SI habere homeri, suderé: Aut permissiva, vofiad me veneris, mille basia dabot aut illative – vt: “SI dies est, sol lucet harum trium tertia est in viu graecorum: et proprie CONDICIONALIS continua. Consequenter quaramus penes quid atrenditur affirmatio vel negatio CONDICIONALIS continua. Respondent recentiores o nota CONDICIONIS est tanqui FORMA CONDICIONALIS: quoniam e forma qualitas profici fcif sicut è materia ipsa quantitastiure ea dicitur negativa, cuius CONDICIONIS nota negatur. Contra vero aftirmativa, cuius CONDICIONIS nota affirmatur. Qua ratione fievequalibetharum sit negatiua: non SI dies est, sol lucet. Itemá; non dies est, SI sol lucet. Rurfus, dies est: non filo lucet. In his .n.oibus semper CONDICIONIS nota negatur. BOEZIO vero in de hypotheticis PiBu. affirmatione vel negatione naciscitur ex qualitate consequentis. Vult enim CONDICIONALE esse negativus etiam si solum consequens negatur. Hac enim est negativa. ficit. a. non el. s. Hac affirmativa. f nonel. A. c. s. Hac positio persuaderi pot, qín vis tota hypothetica est in illatione consequentis. Hypothetica enim nihil po nit inesse, sed solum afferit illationem. Igitur negatio debet esse supra consequens, vbi vis illationis habetur. Sed dices quales crunt ha, non SI DIES EST, sol est or tus. et soleftortus SI DIES EST. Videtur mihi ep etia Dulltitie. ciulimodi sunt negativg gm in omnnibus ijs vis negationis [Contra BOEZIO] exercetur supra consequente ipso. Et pro tanto sunt negative pro quanto consequens negatur. Non per hoc quia CONDICIONIS nota negatur, sed quia consequens negatur lequi ex ANTE-CEDENTE. Quare apud BOEZIO potest CONDICIONALIS esse negativa trifariam, aut per CONDICIONIS negationem, aut per negationis prepositione: aut per negationem consequentis. Et de quantitate agamus Sorticola tenent CONDICIONALE continua nullius esse quantitatis, gri quantitas est CONDICIO subiectei. Modo illa non est ex subiecto et pradicato, quare crit ois non quanta. Probabiliter teneri potest omnem CONDICIONALEM continuam esse quanta Ex hoc a quantitate consequentis.Vocat coim LIZIO syllogilmorum hos vniversales, hos particulares. et hoc a quantitate conclusionis. Igitur cum CONDICIONALIS continua sit vt enthymema potest dici quanta ab cius consequentis quantitate. E tita hac vniversalis, cuius consequens est vniversale, illa particularis simili ratione. Hac quidem erit vniversalis, fi ois homo currit. ois homo mo- roes feptimo phyfica aufcultationis, comméto fecundo vule aliquam conditionalem effe veram, cuius an tecedens et confequens funt imposibilia: aliquã effe fallam, cuius antecedés 8e cófequés funt neceflaria. Etita renet conditionalem diuidi per verum et falfum. Pro hac politione arguút recétiores, cotradictoria diuidunt omnem enuntiatione fm verum et falium. vt dicit LIZIO primo priorum: sed conditionalis continua habet contraditorium quia poteft negari et affirmari Igitur est vera vel falsa. Secundo cuiufli-bet côtraditorij altera pars eft vera et e altera falla. Hec funt contradictoria, SI dies est, sol lucet. Etnon SI dies est, sol lucet. Igitur altera vera et altera falla. Et e gdguid dicatur, equitur conditionalem esse veram ve lfalsam c Confitatio. Sed hac positio stare non potelt: quia vt dicitur in predicamentis ab eo quod res eit vel no eit, oratio dicitur vera aut falsa. Sed hypothetica nibil ponit in eile, aut in non esse. Igitur non poteft dici vera vel falsa. Propria ph. Propter hac videtur mihi faluo meliori iudicio quod nulla hypothetica debet dici vera vel falsa, sed bene necessaria vel contingens, quam quidam vocant bonam aut mala. Reêtius necessariam aut contingente, sive impossibilem. Et hac est intentio Boeuj vbigi- Tune ad rationes dico. Ad primum, e contradiêto riu in hypotheticis non cadem ratione accipit veluti in Simplicibus, na in simphcibus deltruit veritate vel falsitaté, hoc est id quod est in re, vel quod non est in re. In hypotheticis vero destruit necesitatem vel impolsibilitatem illationis. Etita contradicere est fere ÆQVI-voce. Tuncad formam dico, g› contraditoria dividunt verum et falsum in cathegoricis, in hypotheticis necessaria aut impossibile. Et hoc satis. Similiter ad secundam. contraditoriorü enim de necesitate alterum est verum, alterum falsum in cathegoricist in hypotheticis vero alterum necessarium, alterum impoisibile, vel cotingens, hoc est non necessarium. Et de conditionali discontinua agamus, quag; disjuntiva dicif. Et primo dicamus o qualibet pars disiunctiva potesse consequens, ve dicédo: “Tu es, vel tu non es.” Quamqua BOEZIO veatur vig; DVABVS disjuncttionis notis, ve “Vel tu es, vel tu non es.” Et hoc ve notetur nihil poni inesse, nec in prima nec in secunda [but cf. Grice on the metier of ‘or’ as providing pis aller answer to a scenario where alternates are equally topically apt and held to be liable to being truth.] Dico igitur o quelibet potest esse consequens. Nam: “Vel movetur VEL quiescit” -- pot habere consequens altera indifferenter, quia SI non movetur De fimuis quiescit; et SI non quiescit, mouetur. Tunc dicendum e disiunctiva solum est negativa vel affirmatiua per negationem propositam. Causa est, quia quicquid reneatur pro consequente, intelligetur negatum, quod non est De quantite, ita in ipsa conditionali continua. Secundo dico aliqua est vniversalis, et aliqua particularis. Sed non à quititate alterius enuntiationis sed quoties amba sunt eiusdem quantitatis. Causa elst, quia quelibet pot elie consequens, vigitur tenuetur quantitas consequentis, Dabitatis. oportet ambas esse ciulde rationis Sed dies velom. ne.n. est: vel quoddam. a. esse quanta est ista. Dici potelt go hac est alcuius quantitatis in se, quonia ilius cuius quantitatis est ab ea cathegorica, que fumetur pro consequente: Actu vero est disiunctiva vniversalis, de disiunctiva Etiuz particularis. Nechae contradicunt. Pontenim vna met disiunctiva esse vniversalis et particularis hac ratione, videlicet, disiunctiva vniuvríalis, et disiunctiva ctia particularis. De sariste. De veritate vero et falsitate ita sentienda, veluti de conditionali continua. Cum.n. disiunctiva sit conditionalis, et conditionalis nihil ponat inesse, in re nulla erit vera, 8e nulla falsa, sed qualibet disiunctiva erit aut necessaria AVT impossibilis, sive possibilis SIVE contingens. Et de æquipollentijs negatiavrum dicamus. Et quamquam recentiores mula dica, mihi videur, e negatio praposita toti coditionali AVT nota conditionis, AVT consequenti, facit æquipollere copulative coltitut ex antecedente conditionalis et opposito consequentis verbi causa, si homo est animal eft. Siquis praponens negationem dixerit non si homo cit animal est. Hanc VULT SIGNIFICARE: homo est et non est animal. Similiter hac, non si dies est, sol lucet, æquipollet huie, et e dies est: et sol non lucet. Huius causa est, ga conditio non ponit inesse, copulatio vero ponit, quare cum particula negativa neget conditionem, ponit copulationem, et cum neget consequens, vi est vis omnis, ponet etiam oppositum consequentis. Simil ratione: “non vel mouetur vel quiescit,” æquipollet copulativa conslitutz ex oppositis ambarum cathegoricari, videlicer, et non mouetur, et e non quiescit. Causa vero quare negatio preposite disiunctiva facit æquipollere vel ponit copulationem, ele quia copulatio ponit inesse. Verum ponit contradictorium ambarum partium, quia in discontinua qualibet pars potesse consequens, ideo cuiuslibet partis oppositum debet ponere. In continua vero eit consequens determinatem ideo ponit solum oppositum consequentis. Hac de liypotheticis ad mentem grecorum expositorim volui dixille. Nam ab LIZIO pauca habemus. Sorticola vero, cum studiorum fuorum finis sit ostentatio, non esse, muita dicunt in confusione veritatis, que pretereun da funticum in illis non sit felicitas, neqad falicitaté praparent De enuntiationibus vero coniun Ctis grure gula funt in numerg, non cit núc prefens per tractatio, verum si ocium dabitur, ad importunitates forticola- rumatg: captiunculatorum interdum occurremus: ac quid peripatetice ficientiendun circa corum captine culas et cauillos exponemus. Nunc vero de his lit di Ctum intantum. Agostino Nifo. Nifo. Keywords: ludica, ludicra, intellectus, animo intelligere, nous, intellectus passivus, intellectus activus, intellectus agens, intellectus possibilis, intellectus passibilis, what is so ludicrious about dialectis?– Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nifo: la dialettica ludrica”, Grice, “Dreaming” – Malcolm, “Dreaming” --. – The Swimming-Pool Library. Nifo.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nigidio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “N. is my kind of philosopher. He wrote a little essay on ‘gestures’ which surely inspired me to refute Peirce about gestures NOT being vehicles by which an utterer can ‘signify’. Like my joint seminars with Staal, N. elaborated on ‘grammatical’ questions – and I must say N. had a better ear for grammatical improperties than Staal himself!” -- Filosofo italiano. Friend of Cicerone. N. enjoys a great reputation for learning. However, N. is on the wrong side of the civil war between Pompeo and GIULIO (si veda) Cesare, and Cesare sends him into exile – ‘which is worse than death for not a few Roman’ (Grice). N. is particularly interested in Pythagoreanism and is a leading figure in its revival at Rome. ‘Like Witters’ (Grice), N. specialises in the mystical side of Pythagoreanism and is credited with occult powers. N. è una personalità assai notevole. Senatore, pretore e ascoltatissimo consigliere di CICERONE (vedasi) nel momento critico della congiura di CATILINA (vedasi). Nella guerra civile, si schiera col partito di POMPEO (vedasi) e dopo la sconfitta di questo vive in esilio. Nella vita politica occupa sempre posizioni secondarie. Ha fama notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fa ritenere il più dotto dei romani al pari di VARRONE (vedasi), che però lo supera per ampiezza di cultura. CICERONE (vedasi) afferma che fa risorgere le credenze della setta di Crotona come dottrina filosofica. Ma effettivamente è riapparso come pitagorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appartenne Bolos di Mendes, o Bolos Democrito. Quindi l’affermazione di CICERONE (vedasi) su lui si limita al mondo romano. Raccogge intorno à sè un circolo di 'crotonesi' che permite ai suol nemici personali di parlare di una factio. Il suo sforzo di fondere l'insegnamento della setta di Crotona – nella quale vede la verità su filosofia, astronomia e scienze occulte -- con credenze, oltrechè romane, etrusche. Suscita l'accusa di infedeltà alla 'religione' o culto ufficiale dello stato romano. Sembra che coltiva l'astrologia e la magia e che predice al padre d’OTTAVIANO (vedasi) che il figlio che allora gli è nato dominrà il mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti: Commentarii grammatici; De gestu -- una monografia retorica.De dis -- di cui è citato il 1. 199 -- è un tentativo di rappresentare tutto il pantheon romano. Precede un’opera simile di VARRONE (vedasi), che ne offusca il ricordoi si. Vi notano intuizioni stoiche. È dubbio l'influsso di Posidonio. Chiari invece e l'influsso etrusco e astrologici; De extis, si diffonde sull'arte augurale etrusca. Augurium privatum. È dubbia l'attribuzione a lui di un sagio Sulla interpretazione dei sogni.  Un sagio "De ventis".  Si cita di lui un'opera De animalibus e di un De hominum natura. È probabile che compone un "De terris" che sembra fosse un’opera di geografia astrologica. La Sphæra di lui e un saggio di astronomia e di astrologia che includede una sphæra græcanica, descriziene delle costellazioni greco-romana, e anche una sphæra barbarica, colla descrizione delle costellazione di altri popoli. Probabilmente contene predizioni astrologiche.  Le tendenze mistiche, religiose e superstiziose che dominano in lui doveno conservarsi in tutto il pitagorismo posteriore. Publio Nigidio Figulo. Figulo. Nigidio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nigidio”; “Grice e Figulo.”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ninone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotona e la sua causa -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Abstract. Grice: “When Ninone published his best-seller, ‘The secret teachings of Crotone,’ there was no Times Literary Supplment to review it!” -- Filosofo italiano. Crotone, Calabria. One of the leaders of the anti-Pythagorean movement in Crotone. N. claims that the Pythagoreans are elitist and anti-democratic. N. also claims to have a knowledge of their secret teachings and published it in an essay. However, according to Giamblico, N. knows nothing of what the sect teaches and his essay is ‘a work of pure invention.’ Grice: “It has often been said that Austin’s conversations at the Play Group were supposed to be ‘secret’ – the meetings were not PUBLIC, and I never knew why Hart was accepted, since he was two years older than Austin – (who was supposed to be the snior leader). Of course, not all whole-time tutorial fellows could attend: Dummett, who was a Catholic, could not!” Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ninone”.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nisio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia molisena -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bojano). Abstract. Grice: “At Oxford, it’s all about ‘the pupil of’ as any reader of the Who’s Who will agree. I was myself Hardie’s tutor – Hardie being a Scots who at times I felt like he should have been tutoring pupils at St. Andrews, rather – and I was the tutor to Strawson. On the other hand, Nisio was the pupil of Panezio --, but Cicero is silent about who TUTORED Panezio, or whether Nisio did tutor any other than his son!” -- Filosofo italiano. Samnium, Bojano, Campobasso, Molise. A pupil of Panezio. Nisio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nizolio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Brescello -- filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescello).  Abstract. Grice: “I am surprised that Austin, a double first in literae humaniores, like me, would complain of philosophical jargon like ‘volition’ or ‘intention.’ Cicero had to COIN those terms, and not even Marcus Anthony opposed!” N. considers that the start fo philosophical inquiry is not so much the vernacular, as Grice calls it, but Cicerone’s vnacular. His ‘thesaurus ciceronianus’ is meant to provide context for some of Cicerone’s most brilliant coinages – some of them used by Kant, etc. – like ‘quantity’ and such! Filosofo italiano. Brescello, Reggio Emilia, Emilia Romagna. Grice: “I read Nizolio and it’s like reading myself!” – Insegna a Brescia e Parma. Pubblica il lessico Observationes in M. Tullium CICERONE, Brescia, il Thesaurus CICERONE, Venezia, Facciolati, e il lexicon CICERONE, Venezia, Facciolati. Ha una lunga polemica con MAIORAGIO per una critica portata da quest'ultimo a CICERONE che, iniziata con la Epistola ad M. A. Majoragium, prosegue con l'antapologia e si conclude con i De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos, Parma, scritto contro gli scholastici, che interessarono Leibniz al punto che questi li fa ristampare premettendogli il titolo Anti-barbarus Philosophicus, sive philosophia scholasticorum impugnata, con una prefazione ed una lettera a Thomasius sulla dottrina del LIZIO, Francofurti, Roma, Bocca. E chiamato da Gonzaga a Sabbioneta. Contemporaneamente alle critiche di Ramo alla logica dei lizii, anche per lui occorre sostituire all'astrattezza di quella logica un pensiero che sia concretamente legato al reale, e a questo scopo la strada maestra sta nel ritrovare i processi del pensiero direttamente nella struttura grammaticale dell’italiano. Individua cinque principi per fare della buona filosofia. Il primo principio generale della verità e della buona filosofia consiste nella conoscenza della lingua romana, in cui sono espressi quei saggi filosofici. Il secondo principio è la conoscenza di quei precetti che si trovano nella grammatica e nella retorica di CICERONE, sostituendo la grammatica e la retorica alla metafisica, ontologia, o filosofia speculativa, dal momento che il metafisico si e preoccupato solo di ricercare il vero, senza occuparsi dell’utile, il necessario, o il pertinente delle cose trattate. Il terzo principio consiste nell’interpretare il filosofo antico come CATONE IL CENSORE, o Cicerone, o Antonino, e nello sforzarsi di comprendere il modo con il quale il popolo romano si esprime, essendoci verità in quella schiettezza – Grice: ‘slightness” -- di linguaggio. Il quarto principio generale del vero è il libero, e la vera licenza delle opinioni e del giudizio su qualunque argomento, in contro ogni domma, come richiede il vero e il naturale. Non devono essere dunque CICERONE o ANTONINO nostril maestri, ma i cinque sensi, l'intelligenza, il pensiero, la memoria, l'uso e l'esperienza delle cose. Il quinto principio afferma che, oltre a esporre ogni tesi con la chiarezza della lingua comune – l’italiano volgare, senza introdurre nel discorso oscurità (avoid obscurity of expression, be perspicuous [sic], avoid unnecessary prolixity [sic] o sottigliezze, occorre non trattare problemi che non hanno realtà. Esempi di invenzioni filosofichi prive di oggettività sono la idea platonica e la tesi del reale dell’universalie. Infatti, il reale è costituito soltanto da singoli individui e questi devono essere indagati non attraverso la loro natura propria e privata, ma attraverso la loro comune e continua successione. Si fa filosofia non astraendo, ossia togliendo da una singola realtà quel quid che viene poi analizzato come se esso fosse reale, ma comprendendo, ossia considerando insieme il singolo reale. L'universale è una vana e finta astrazione che deriva invece dalla comprensione di ogni singolare di ogni genere, accolto insieme con un atto solo, senza astrazione intellettiva, ma con il solo ausilio di un'intelligenza che comprende il singolare. In sostanza, noi non possiamo distaccare, con un'operazione dell'intelletto, un universale da ogni singolare, ma semmai passare dall'individuale al collettivo. L'operazione consiste nel sostituire alla dialettica la retorica e alla logica la grammatica ma, pur mettendo in rilievo i difetti della logica classica, non riesce a fondare una nuova logica efficace e persuasiva. Saggi: Garin, Rossi, Vasoli, Testi umanistici su la retorica; Testi editi e inediti su retorica e dialettica di N., e Ramo, Milano, Bocca N. in CICERONE observationes Caelii Secundi Curionis labore et industria secundo atque iterum locupletatae, perpolitae et restitutae. Ejusdem libellus, in quo vulgaria quaedam verba et parum Latina, ad purissimam CICERONE consuetudinem emendantur, ab eodem Caelio, s.c. limatus et auctus; Dizionario biografico degl’italiani. Ballestri, Massimiliano. Milano, Cosmo, Battistella, umanista e filosofo, Treviso, Zoppelli, Il rinnovamento scientifico moderno, Como, Meroni, Rossi, La celebrazione della rettorica e la polemica anti-metafisica del De Principiis in La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Banfi, Milano, Bocca; Fink, Logica aristotelica Universale Idea. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Calogero, Dizionario di filosofia. Grice: “I was slightly disappointed when I got hold of Nizolio’s overadvertised masterpiece, the “Lexicon Ciceronianum;” while Urmson liked it, I found it more to be a common-or-garden dictionary. I did not care for philosophical concepts, seeing that he starts wih “A”, ‘the first letter of the alphabet,’ as N. defines it. So, I went straight to the third tome – heavy as they are, and reprinted in London for use at public schools –‘adolescens’ – to ROMA, ROMANVS, ROMVLVS. As for his advice as to deal with the longitudinal unity of philosophy and his rhetorical, ‘Plato is my friend but a better friend is truth,’ I can’t believe it coming from one who dedicated his life to TRACE every little ‘idiom’ (slogans as the London edition has it) uttered by Cicero! While I would expect praise against the barbarian scholastic from Roger Bacon, it sounds hypocritical coming from Leibniz. By N.’s standard, Leibniz was a barbarian his self. The scholastics actually saved the books from the flames of the Longobards and the Eastern Goths (earlier on) Roma, Contr. RuJ. Romain montibus posita, et convalUbus, ccenacolis sublata atque suspensa. de Div. Certahant, Urbem Romam Uemamne vocdrent, Post led. in Sen. Roma arx omnium terrarum. De Pet Cons. Roma civitas CK nationnm conventu constituta. de Onu. Roma domus virtutis, imperii et dgnitatis. Roma domid Uum imperii et gloris. Roma luxorbisterraruhi, et arx onuuum gentium. Div. Bmoul sexennioj post Veios captos a GaUis capta. Rome et reges augnres, et postea privati eodem sacerdotio prsediti, lem pub. Regionum autoritate rexemnt. Qu. Fr. Roma, ubi tanta arrogantia est, tam immoderate libertas, tam infinita hominum centia. Redu Romam Fonteu cansa. Idns Qu. de Nat. Roma in terries nihU meUns. Inoer. Romam conditam 01 vmpiadis sestss anno tertio. Romani. Pro Leg.Man. Romani præter ctiteras gentes laudis et gloriæ avidi. Romani cives facti siculi lege Antoni L. Fara. Romani veteres atque urbau sales. Tus. Romani serius quam GffKci poeticam acceperant Di. Romaia nihU in bello sineextis agebant nihU d<»B& sine auspiciis. Off. Romani toscoianos, equos, volscos, sabinos, Hemicos, victoria parta non modo conservarunt, sed etiaro in ciritatem acceperant Pro Mur. Romani tempora voluptatis laborisque dispelrtiunt, etc. Tus. Romani omnia aut invenerant per se sapientius, quam Greciaut accepta ab illis fcicerant meliora. Div. Romani omnibut rebus agendis, quod bonnm, faustum, felix, fortunamque esset prefabantur. Pro Cnc. Romani eos vendere solebant, qui mUites facti non essent de Ora. Romani minos qoam liitm Utteris studebant Pro Leg. Man. Romani omnibus navalibus puffuis Carthagienses vicerant Aoad. Romanorum antiqua juris jurandi formulaet consuetudo. de Or. Romanoram ingenia raultnm csBteris liomiaibos omnium gentium prsstiterunt Snavitassemkonis Atticoram et Romanomm propiia. Tosc. Apod priscos Romanos morem honc epolaram fiijsseantor est Cato in Originibus, ut deincepi, qui aocobaient, canerent ad tibiam virorom daroram Uodes atqoe virtutes Romanos, a, uro. de Nat Romana RO JaiioteIbBoa«t, <f«aUs8oif2li« $.S.Fo paU RoaiaBi ovnk religio in ftcrt etin anspida diyia. Popalnm Boaunun nan DJ saasnon Sn defendenda ropnb.sed Sn pUndendo cooso Bieie. Bum non nodo Romano bomini, sed ne Perse qwden coiqaam tolerabile. Fam. Bomaoo nsoae oommendare. Romano more feqni. de Orat et Ver. Romani ladL Att. Nu Bc Romanas res aedpe. Romilla, iribus. t. cont Ral. Respondit, Romilla tribo se initiam esse £se-tnram. I, Tribos. Romalos, li, Qutnntti. Romalam qu banc aibem condidit, ad deos immortales benerolentia famaqae sastulimas. de L.Roawhis post exoessum suum dixit Proculo Jolio, se deom esse, et Qaoinum vocartem plumaae sibi dedicari ia eo loco jussit Romuhis quem iaauratum m Capitolio pamun ac lacttntem, uberibos lopiais inhiantem fuisse meministis. OfF. Peccavit igitar, paoe vel Qoirini toI Bomali du Eerim. de D. Romuhis puldier. Ih, Romulus urbm auspicato oodidit Roamlus non solom aospieato Romam condidit, sed etiam optimos augur feit de N. Romnlos auspicBs, Numa sacris constitatb, fandamenta jeeit ostiSB dTitatii. Off. Romulus, cum ci visom csset utilios solum, quam cum altero regnarefiratrem interemit De Or. Roma Jns consitto magis et sapientfaqaam doqueotia usns est S. Div. Romolas et Remus com altrice bdhui vi folminis idi oooddeiant Romulis et Remus ambo augures fberant Roorali stataa decoelo taeta. Som. Ronmlo moriente deficere sd bommibas eatingaiqao visus est. Summatim quanam fine principia generalia veritatis investigande, recteque philosophandi. Item in summa quanasmint princigpeianeralia pseudo-philosophorum et perverse philosophandi. De generali omnium nominum divisione in substantiva, adjectiva propria appellativa, deq; eorum proprietatibus et differentia, nginguam facisusque inbuncdicmab ullo traditisaut cognitis, contra pseudophilosophos. De nominibus propriis et appellativis, tam cole&li vis quam simplicibus non cola Letivis, ac decorum proprietatibus et diferentis, contra philosophastros. s. Deus) 0 (sem (falsis. De denominativis reliquis capitibus Ante predicamentora, vel supervalaneis vel. Universalia realia etiam five raese concedantur, tamen non fuisse facienda quin. Que numeross ed velunumtantum, hoc est, GENUS, vel plura quam quinque hoc est, septem veloflo, adiecto communi, simils, contrario, arque substantia. De nominibus substantivis et adiectivis. De eorum proprietatibus ac diferentis, contra pseudo-philosophos. De generaliomnium rerum divisione oratoria pera et deila pseudo-philosophorum falsa, simul quede voce universi anni versalis et in summa de falsirate universaslium realium ut vocant. Universalia realia nec propter scientias artes quetradendas, nec propter syllogismos eocateras argumentations formandas, nec propler predications superiorum de inferioribus faciendas necessario ese ponenda contra pseudo-philosophos. Universalia realta vere in rerum naturaese non posse. Co propter canone c, uirea Etiffime dicunt nominales. Cintra sultam illam realium opinionem de universalibus realibus, quorum rationes omnes plusquam in aneslabefaltaneur. Um suffi.ientia, quam vocant. De toris, et corum divisionibus, compositionibus quepere, contra falsissimam dialecticorum de his omnibus doctrinam. De vere philosophico e oratorio genere et de vera eius definitione. Contra falsum genus dialecticum et falsam cius definitionem. De vera specie oratoria et vera ejus definitione, contra falsam speciem dialecticam et falsam illius definitionem. De vera diferentia et vero proprio philosophicis oratoriis do simulde eisdem adversariorum vel falfsis vel inutilibus. De accidente vero quid esmedin constanter definite et simul pauca quadam de falsis universalibus, eorum vanis questionibus in universum. De preceptis dividendi et definiendi oratoriis veris et dialecticis falis. De homonymis et synonymis grammaticorum veris quid vere sint et quis verus eoru mufus, contra stultaila aquivocado analoga dialecticorum. Ele tantum modo unum et summum et verum á generalisimum genus oralo rium, quod est, genus rerum sex autem s a transcendentia Dialecticorum, decem pre dilamenia LIZIO et tria VALLA (si veda) falsa. Quam ob levem causam LIZIO CATEGORIAS fore predicamenta decem ponenda existima verii et quam non re et tetria tantum Vallusta rucrit, simul quo pacto nosar borem generica ma Porphyri analonge diversam, faciendam arbitramur. GENUS rerum vere in duas rantum species divide in substantias et qualitates, omnia alia accidentium dialecticorum pradicamenta sub qualitate generalitan quamo verascius specie spere contineri. Simul de falsa universali. De o sem. De qualitate generali et omnibus e iustam comparata quam absoluta speciebus, praferrimquede qualitate speciali, quantum different a speciebus accidentium dialectic corum et singularim quærario de causa diversitatis. De nominibus scientia arris quid APUD LATINOS communite rad proprie significe ne, u quormo dis virum que corum accipiatur et denique; quibus differentis attes elit entia mnter sed iftinguantur, contra falsas scientias et artes pseudo-philosophorum, (falla. De generali scientiarum do atrium divisione nostrar era, et pseudo-philosophorum. De errales LIZIO in generali philosophia divisione admflis. Dialectica minter scientias ariesnecut universalem nec ut particularem ul lum omni nolo cum habere pose sed tanquam non modo falsams ed etiam in utslem de sua pervacuam ex omni arti nm do scientiarum numero ejiciendam. Metaphysicam inter scientias Cartesnecut universalem nec ut parricularem ul lumomn inolo, um habere pose, sed tanquam partim falsam, parlim inutlim, partim super vacuam ab omni artium scientiarum numero removendam. De comprehensione universo rufm singularium vere philosophica de oratoria et simul de abstractınoe universalium pseudo-philodophia et BARBARA contrafallam LIZIO doctrinam falso de ceniis, abstrahentiam non efemendacsum. Oratoriam esse facultatem vere generalem, grammaticam sub se primo, deinde reliqua somnesarl es screntias vere continentem, ium partese jus majores breviter ex ponuntur omnes, o cidem, qua a pseudo-philosophis unique fuerunt ablatare stituuntur. De sophisticis elenchis ab LIZIO in rhetoricam non recte introductis et delio bro sophisticorum elenchorum quid senciendum, Que et quot fintea, quarequiruntur cascientise artibus, ex quibu spendetac fitomnis eorum dividio definition o distinctio, contra falfam de eisdem rebus Pseudo-philosophorum doctrinam. De utilibus et veris argumentis de que utili vero eorum iam tradendorum, quam usurpandorum modo, conira partim sulum purtom inutilem ipsorum doctrinam ab LIZIO traduam in libro Topicorum. De definitionibus nominis et verbido orarionis grammaticorum veris. Pseudo-philosophorum falsis, condealis, queab LIZIO falso vel inutiliter in libro Sepienpenveids traduntur. Dentilibus et veris argumeniationibus, de queutilido vero carum usu, contrainu tolemdo vana LIZIO decudem rebus doctrinam traditam in libris analyticorum. De falsa demonstratione et falsa scientia et falsa sapientia pseudo-philosophorum simul de inutili falsoque posteriorum analyticorum libro. De vanitate eorum, qua a recentioribus dialedicis appellantur parva logicalia. Libros qus hodie sub LIZIO nomine leguntur plerosque non vere essesri Roselicos, sed subdititios con adulterinos, contra communem pseudo-philosophorum opinionem. De ACCADEMIA, LIZIO, Galeno, Porfirio. Deomnibus LIZIO interpretibus Græcis et LATINIS: reviter quid sentiendum rectte philosophaturis. De ratione philosophandi o de corrigendis instaurandisque; Philosophia studis, qua nunc maxima exparte perveriæ corruptsaunt. N. stammt aus Brescello in Reggio d’Emilia. Als Geburtsjahrà wird allgemein und als Todesjahr angegeben. Indes ist diese Berechnung nach der Untersuchung Batistellas auf Grund inschriftlicher Argumentation um ein Dezennium zu spät angesetzt. Demzufolge lebte N. Ueber seine ersten Lebensjahre und Studien ist nichts bekannt. Finden wir ihn am Hofe des Grafen Gambarra, eines eifrigen Beschützers und Pflegers der Wissenschaften. Ihm widmete auch N. seine erste, abgefasste Schrift, die Observationes in CICERONE. Nachdem er eine lange Zeit als Hauslehrer in der gräflichen Familie tätig gewesen, kam er als professor in Parma. Wurde er, bereits, als Leiter an die von dem Herzog Vespasiano Gonzaga neuerrichtete Universität zu Sabbioneta berufen. N. war damals ein weithin berühmter Gelehrter: un vecchio consumato negli studi dell’eloquenza e della filosofia, chiaro per molte opere, vittorioso nelle concertazioni letterarie e per lungo usu di leggere sulle cattedre delle città più cospicue praticissimo, di cui la memoria nei fasti dell’italica letteratura, non perirà giammai. Altersschwäche und ein sich immer mehr verschlimmerndes Augenleiden hemmten den Greis gewaltig in dem schweren Berufe, den er auf sich geladen hatte. Schon ereilte ihn der Tod, ob zu Sabbioneta, oder in seiner Heimat Brescello, lässt sich nicht bestimmen. Vergl. Jöcher, Gelehrtenlexicon sub N. Suppl., der sehr ungenau ist. Ausführl. biographische Notizen bringt Batistella: N. Batist. Bat. Bat. Die Tätigkeit des N. erstreckte sich zunächst nur auf das Gebiet der klassischen Sprachen. Er beschäftigte sich mit der Interpretation griechischer und lateinischer Autoren, vor allem des CICERONE. Mit rastlosem Fleiss verband er einen kritischen und vor allem natürlichen Sinn. Aus dem letzterem Umstand erklärt sich auch wohl der realistische Standpunkt, den er in philosophischer Hinsicht verfocht. Zu eigentlich philosophischen Spekulationen kam N. erst spät und zwar durch einen mehr äusseren Umstand. Während seines Aufenhaltes zu Parma geriet er in einenheftigen Streit mit MAJORAGIO (si veda), professor der Eloquenz in Mailand. Es handelte sich in der Hauptsache um zwei Fragen: Lateinischer Stil und Philosophie, CICERONE und il LIZIO. Majoragio war wie N. ein grosser Verehrer CICERONE, jedoch zog er der eklektischen Philosophie desselben die reine Lehre des LIZIO vor und vertrat die Ansicht, dass man die Philosophie CICERONE mit der des LIZIO in Einklang bringen könne. N. dagegen strebte dahin, den LIZIO für immer zu verbannen, indem er mit Ueberzeugung den Standpunkt von der falschen und unnützlichen Doktrin LIZIO vertrat. Diesem Streit, der auf beiden Seitem unerbittlich und unwürdig geführt wurde, machte schliesslich der Tod MAJORAGIO ein Ende. Bat. Le opere ei giudizi dei eritici. Bat. Bat. La polemica con MAJORAGIO vergl. femer Gerh. Phil. und N. in seiner Vorrede zum anti-barbarus, ad Lectores contra MAJORAGIO. Bat. Bat N. soll in Jahren nicht recht haben schlafen können! (Jöcher a. a, 0.) non solum calamo et chartis venenatisimis, sed etiam putrido et fœtenti illo ore suo contra vitam et mores nostros usque in hunc diem deblateravit et deblaterat, N. ad lectores in De veris principiis, ipse MAJORAGIO qui licet, de magnis et obscuris philosophiæ rebus loqui conetur, tarnen vere est acocfoc, et tantum seit de philosophia quantum asinus de musica, Vorrede. MAJORAGIO hatte auf die Angriffe des N. eine apologia erscheinen lassen, die N. mit einer anti-apologia erwiderte. Es folgte nun seitens MAJORAGIO reprehensionum libri contra N., worauf N. mit seinem anti-barbarus philosophicus antwortete. Seine AngriflFe fasste N. dann noch einmal zusammen in seiner Schrift: De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos In der Hauptsache war N. mehr gelehrter Humanist als philosophischer Denker oder Kenner der älteren Philosophie. Sein Eifer für die Beförderung der klassischen Latinität veranlasste ihn zur Abfassung einer Reihe von Werken, die uns ein Bild geben von seiner bewunderungewürdigen Arbeitskraft. Nur die wichtigsten seien genannt. Als sein Hauptwerk ist wohl anzusehen ein Thesaurus sive latinæ linguæ Lexicon, das, wie auch die meisten der anderen Werke, zahlreiche Neuauflagen erlebte. Das genannte Werk war bereits unter dem Titel Observationes in CICERONE, dann als Apparatus latinæ locutionis und endlich als Thesaurus CICERONE in Venedig, und erweitert von Zanchi gedruckt wonien, erschien es zu Frankfurt und zu Padua mit beigedruckten CICERONE Phrasen, die nicht von N. stammen. Ausserdem verfasste er die bereits erwähnte antiapologia pro CICERONE et Oratoribus contra MAJORAGIO Ciceromastigen, ferner Defensiones locorum aliquot CICERONE contra disquisitione Calcagnini,Venedig, und übersetzte aus dem Griechischen ins Lateinische Galeni explanatio obsoletarum vocum Hippocratis. Fällt die Herausgabe des Werkes, welches das vollständige philosophische System des N. enthält und mit vollem Titel lautet: De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos, in quibus statuuntur ferme omnia vera verarum ar- Bat. Bat. tium et scientiarura principia, refutatis et rejectis prope Omnibus Dialecticorum et Metaphysicorura principiis falsis, et præterea refutantur fere omnes MAJORAGIO objectationes contra eundem N. usque in hanc diem editæ. Parma apud Viottum, Schon die Titel der Werke beweisen, dass die Tätigkeit des N. eine mehr philologische als philosophische gewesen ist. In der ersteren Eigenschaft hat er daher auch stets warme Anerkennung gefunden. Cælius Secundus, ein späterer Herausgeber seiner Observationes, nennt ihn im proœmium einen gelehrten Mann, der sich unstreitiges Verdienst um die lateinische Sprache erworben. N. quasi Deus aliquis linguæ latinæ tanquam universitatem quandam fabricatus est, quam postea hominibus non solum ntendam, verum etiam excolendam tradidit Aehnlich äussert sich Simon Grynacus in der Vorrede zum Thesaurus CICERONE des N. Videtur hie vir in hoc uuo opere, postquam delectum latinæ dictionis, ne promiscue hauriremus, puritatemve linguæ confunderemus, optimum egit, simul et viam loquendi certam post hac et expeditam monstrasse et vim ac copiam sermonis Latii totius omnem effudisse et CICERONE libros nunc deum legendos omnibus exhibuisse. Einer seiner Verehrer H. Fröhlich besingt das Lob des italienischen Humanisten begeistert in dem Ruhmespoem N. quem thesaurum congessit in unum, ex latiæ linguæ fönte, labore gravi: Tro)anas longe gazas superare memento, jjFortunas Crassi, divitiasque Midæ. Für die Philosophie ist N. hauptsächlich von Bedeutung, weil er der einzige Grammatiker ist, der Schule gemacht hat in der Philosophie und ferner als erster unter den filosofi razionali in Italien ausführhch gehandelt hat Ton der Dottrina metodica. Um indes den Philosophen N. ganz nach Verdienst würdigen zu können, muss man die Zeit, in der er lebte, in Rechnung ziehen. G. Bat. Daselbst auch die übrigen kleineren Schriften. Siehe Bat Die Renaissance ist in philosophischer Hinsicht charakterisiert durch die grosse Armut selbständiger philosophischer Spekulation und durch vorläufiges Fortwuchern der scholastischen Philosophie. Daneben kommen als positive Momente einerseits die Erneuerung antiker Systeme, vor allem ein von den humanistischen Philologen in engster Anlehnung an CICERONE gezüchteter Eklekticismus, andererseits eine mit der letzten Erscheinung eng zusammenhängende rhetorische Behandlung der Philosophie, speziell der Logik in Betracht. Die neologischen Humanisten mussten den Schriften CICERONE wegen der Schönheit ihrer sprachlichen Form gegenüber dem entstellten und verwilderten LIZIO der spätscholastischen Philosophie mit ihrer dunklen und vielfach sinnlosen Diktion den Vorzug geben. Daher sehen wir alle Philosophen der Renaissance in dem Streben, durch Beseitigung der sinnlosen Auswüchse den reinen und ursprünglichen LIZIO für den literarischen Betrieb der Logik wiederherzustellen und schliesslich die logische Disziplin zu einer rhetorischen umzugestalten, einig gehen. Galt der Scholastik LIZIO derp hilosophus xat' l^o-/'»]v, als Norm in jeder strittigen Sache, so bekämpfen die Humanisten, wie jeden Autoritätsglauben,vor allem die Ausschliesslichkeit, mit welcher man überhaupt nur dem LIZIO, den man noch dazu in entstellter Form in Händen habe, Wert beilege. Als Massstab und Norm will man vielmehr den eigenen gesunden Menschen-verstand und die fünf Sinne gelten lassen. Und in diesem Gesichtspunkte haben wir die Brücke zu der sensualistisch-nominalistischen Tendenz, die gleichfalls mehr oder weniger die Philosophen der Renaissance insgesamt beherrscht. Neben dem Italiener N. kommen hier als bedeutende Vertreter der Renaissance-Philosophie in Betracht der Römer VALLA (si veda), und Agricola. N. bringt die Bestrebungen seiner Vorgänger zu einem gewissen systematischen Abschluss, sich grösstenteils an sie anschliessend, vielfach dieselben aber auch kritisierend. Von seinen Werken mass er selbst dem anti-barbarus Philosophicus die Hauptbedeutung zu, da er in ihm eine Reformatio Philosophiæ bewirkt zu haben meinte. Aber dennoch erntete er gerade durch seinen Index CICERONE seine Berühmtheit, während seine Philosophie schon beim Entstehen kaum dem Ersticken entging. Philosophia N. prope in ipso partu suffocationem aegre effugit. Das Geschick des in tenui labor, at tenuis non gloria bei N. begründet Leibniz durch den Umstand, dass N. in Italien schrieb, wo damals LIZIO und die Scholastiker in allzu tyrannischer Weise herrschten. Leibniz ist der Ansicht, dass nunmehr seine Zeit, wo man wenigstens zugebe, dass auch ein LIZIO irren könne, auch den Verdiensten eines N. gerecht werden könne. Welche Wertschätzung Leibniz selbst dem italienischen Philosophen entgegenbrachte, beweisen ausser der von ihm besorgten zweimaligen Herausgabe des anti-barbarus die zahlreichen Anmerkungen, dieer in den Text hineinsetzte, sowie die Abhandlungen, die er im Anschluss an die Edition des N. Werkes erscheinen liess. Unter ihnen ist die ausführlichste und wichtigste die sogenannte Dissertation über den philosophischen Stil, Dissertatio Præliminaris de alienorum operum editione, de philosophica dictione, de lapsibus N., wie Leibniz sie betitelt. Er schickte dieselbe nebst einer Widmung an den Baron von Boineburg, ausserdem einen Brief an Thomasius über die Versöhnung des LIZIO mit der neuen Philosophie De LIZIO recentioribus reconciliabili, sowie Exzerpte aus Briefen des Thomasius ad Editorem, Leibniz, der eigentlichen Abhandlung des N. voraus. G. Q. vel hoc saltem in confesso est, LIZIO errare posse. Renhissanoe and Philosophie. Leibniz' üebereinstiramung mit N. Die philosophische Diktion. Gerade die Schrift des N. musste Leibniz besonders anziehen; war doch desselben Massstab in der Beurteilung und Behandlung fremder Autoren derjenigen unseres Leibniz so durchaus ähnlich. Auch N. knüpfte an die Scholastik, die Alten, vor allem LIZIO, an, übernahm das viele Gute, das sich bei ihnen fand und besserte und reinigte, wo es ihm gut und notwendig schien. In dieser Behandlungsweise fremder Autoren sieht Leibniz ein Hauptverdienst des N.; er hält ihn daher den Philosophen seiner Zeit entgegen, die nur darauf bedacht seien, sich ausschliesslich mit ihren eigenen Gedanken-erfindungen zu befassen. Ein gleiches Mass von Uebereinstimmung mit N. bekundet Leibniz in der Beurteilung oder vielmehr Verurteilung der Scholastik. Mit Recht musste seiner Ansicht nach N. nach dem Studium des stofflich vielseitigen und stilistisch glänzenden CICERONE die scholastische Behandlungsweise, die mit ihren Finsternissen und ihrem geringen Gehalt an Nützlichem irgendwelcher Art jeglicher elegantia entbehrte, verachten. Zwar sucht Leibniz, die Scholastiker in Schutz nehmend, ihre Fehler und Schwächen zu entschuldigen mit den damaligen ungünstigen Zeitverhältnissen. Welchen Wert er aber im Innersten seines Herzens der Scholastik beimisst, beweisen die zornigen Vorwürfe, die er denen macht, die noch jetzt, nachdem die Früchte gefunden, lieber die Eicheln essenwoll en und mehr sich versündigen durch ihren Eigensinn als durch Unwissenheit. Ihnen Gerh. Ritter G. vgl. auch G. hält er entgegen den unvergleichlichen Verulamius und die übrigen ausgezeichneten Männer unter den Neueren, die die Philosophie ex æreis divagationibus aut etiam spatio imaginario ad terram hanc nostram et usum vitae revocaverunt. Im Zeitalter der Erneuerung der Wissenschaften, so behauptet Leibniz, hat es viele Gelehrte gegeben, die gegen die barbarische Diktion der Vulgärphilosophen zu Felde zogen, aber es war bei ihnen mehr ein Carpere als ein Emendare. Die einen jammerten, andere mahnten und gaben Ratschläge, wieder andere donnerten gegendie scholastischen Philosophen und nannten sich im Gegensatz zu ihnen Reales, aber sie unterliessen es, die Sache selbst in die Hand zu nehmen. Da sei es nun N. gewesen, der mit Eifer und Fleiss und, wenn man ihn läse, mit solcher efficacia wie kein anderer Schriftsteller sich wirklich damit befasst habe, den Boden der Philosophie von jenen spinæ verborum von Grund aus zu säubern. Er verdiene es daher als exemplum dictionis philosophicæ reformatæ und zwar, soweit es für die Logik, das vestibulum philosophiæ, gelte, angesehen zu werden. Leibniz knüpfthieran den Wunsch, dass in seiner an Talenten so reichen Zeit sich Männer finden möchten, das Werk des N. für die übrigen Teile der Philosophie fortzusetzen. Er selbst würde, wie er hinzufügt, sich dieser Aufgabe unterziehen, wenn er sich nicht teils durch andere Studien daran verhindert sähe, teils aber fürchten müsse, anderen, die dieselbe Sache besser leisten möchten, vorzugreifen. Diese Einwendungen halten ihn jedoch nicht ab, auf die N. Erörterungen wenigstens im allgemeinen einzugehen und ihnen Neues hinzuzufügen. Rühmend hebt G. Ueber das Verhältnis Leibnizens zur Scholastik siehe: Jasper, Leibniz und die Scholastik, Leipzig, ferner Rintelen Leibnizens Beziehungren zur Scholastik, München, besonders G. Leibniz hervor, wie N. überall nicht nur fordere, sondern auch selbst in Anwendung bringe eine dicendi ratio naturalis et propria, simplex et perspicua, et ab omni detorsione et fuco libera, et facilis et popularis et e media sumta, et congrua rebus, et luce sua juvans potius memoriam quam Judicium inani acumine confundens. N. stellt fünf allgemeine Prinzipien des rechten Philosophierens auf, die aber, wie Leibniz bemerkt, mehr auf die Rede als auf das Denken Bezug nehmen. Als erste Bedingung fordert er die Kenntnis des Griechischenund des Lateinischen, als zweites das Vertrautsein mit den Vorschriften und Lehren, die sich bei den Grammatikern und Rhetoren finden, ferner drittens eine umfassende und andauernde Lektüre der besten griechischen und lateinischen Autoren und die Kenntnis des allgemeinen Sprachgebrauchs sowohl, soweit es die obigen betriflft, als auch des Volkes, das nach Horaz die Gewalt und Bestimmung hat über die Norm der Redeweise. Ein viertes Prinzip ist die Freiheit und wahre Willkür im Denken und Urteilen über alle Dinge. Jeder, der richtig philosophieren will, darf keiner bestimmten philosophischen Sekte anhängen, sondern soll vielmehr seinen eigenen fünf Sinnen, seiner Intelligenz und der Erfahrung als seinen alleinigen Lehrern undAutoritäten folgen. Endlich fordert N. als letzte und fünfte Bedingung, dass man nicht abweiche von der gewöhnlichen und bei allen G. N. C. Siehe auch N. nemini fas est, ut Græci dieunt, ovofAaxoTto-.sIv, hoc est, nova nomina tingere, nisi populo Atque ideo dialectici non recte faciunt sed maximum committunt vitium, qui primum impudenter et barbare nominant res a se non inventas et ab aliis ante nominatas, ut exempli gratia, quæ grammatici et oratores jam inde a principio vocaverunt nomina, verba, adjectiva, substantiva, supposita, apposita, propositiones, assumptiones et plurima alia huiusmodi, ipsi prætermissis et rejectis penitus nominibus antiquis et rectis. appellant terminos, copulas, concreta, abstracta, subjecta, prædicata, maiores, minores et alia id genus sexcenta. Gelehrten üblichen Redeweise, nicht za kurz oder dunkel schreibe oder lese, keine quæstiones inconsistentes, nichts Paradoxes oder Ungebräuchliches oder Neues in die Philosophie einführe, falls letzteres nicht unbedingt nötig ist. Besonderen Nachdruck legt N. darauf, dass ja nicht die mos scribendi et loquendi a populi ac vulgarium lo- [N. allem den dialektischen, und metaphysischen und wo immer er handele von seinen mehr als monströsen genera, species, secundæ substantiæ, universalia realia, abstractio, demonstratio u. s. w., verdiene er den höchsten Tadel. In summa behauptet er von LIZIO: ubi bene dicit nihil melius, ubi male nihil peius posse excogitari) Auch diese Ansicht des N. teilt Leibniz durchaus nicht. Er behauptet im Gegenteil, dass er fest überzeugt sei von der genuitas operum LIZIO, was auch sagen mögen N., PICO (si veda), Petrus, Ramus u. a. Die Gründe, die N. angibt, sind ihm nicht durchschlagend. CICERONE, auf den sich Nizolius in erster Linie als Gewährsmann stütze, könne nicht als solcher gelten. Denn es sei nichverwunderlich, dass ein Mann wie CICERONE als Politiker und Vielbeschäftigter -- infinitis curis obrutus -- die Gedanken gerade der feinsinnigsten Philosophen (subtilissimi cuiusdam Philosophi) flüchtig gelesen und daher nicht genügend verstanden habe CICERONE (hie) duo dicit, primum communem esse sententiam quod sint LIZIO, deinde non negat esse LIZIO, sed saltem conicit, posse fortasse esse filii. Hæc vero a possibili coniectura communi illorum quoque temporum sententiae nihil præjudicare debet. Ihm, Leibniz, selbst ist die Echtheit der Schriften LIZIO vollständig verbürgt durch jene perfecta hypothesium inter se Harmonia et aequalis ubique methodus velocissiraæ subtilitatis. In seinem Briefe an Thomasius') De LIZIO recentioribus reconciliabili schreibt Leibniz: Quæ LIZIO de materia, forma, privatione, natura, loco infinito tempore, motu, ratiocinatur, pleraque certa et demonstrata sunt, hoc uno fere demto, quæ de impossibilitate vacui et motus in vacuo asserit. De cetero reliqua pleraque LIZIO Disputata nemo fere sanus in dubium vocabit. N. Adnotatio. Q. Nizzoli. NOME COMPIUTO. Mario Alberto Nizolio. Nizolio. Keywords: Cicerone, lexicon ciceronianus, Antonino, Leibniz’s ‘anti-barbaro’. – Refs.: Luigi Speranza: Grice e Nizolio: il thesaurus ciceronianus” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Noce: l’implicatura conversazionale – la polemica contro il fascismo di Gentile -- la scuola di Pistoia -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Pistoia, Toscana. Grice: “Only in Italy, philosophy and history are so connected; it would be as if we at Oxford after the war would be only concerned with understanding Churchill!” Grice: “For us, to do linguistic philosophy was to get away from post-tramautic stress disorder acquired during what Winthrop stupidly called the ‘phoney’ war!” – Grice: “It’s not difficult to understand why Noce’s notes on Gentile were only published posthumously!” -- essential Italian philosopher. «Certo i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi oggi la sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici.»  (Risposte alla scristianità, da Il Sabato). Ttitolare della cattedra di "Storia delle dottrine politiche" all'Università La Sapienza di Roma.  Studioso del razionalismo cartesiano e del pensiero moderno (Hegel, Marx), analizzò le radici filosofiche e teologiche della crisi della modernità, ricostruendo con cura le contraddizioni interne dell'immanentismo.  Argomentò l'incompatibilità tra marxismo, umanesimo, ed altri sistemi di pensiero che propugnavano la liberazione secolare dell'uomo e la dottrina cristiana (affermò: "solo il Redentore può emancipare"). Sostenne tenacemente, per tali motivi, l'impossibilità del dialogo tra cattolici e comunisti e previde il "suicidio della rivoluzione". Studioso del fascismo, sostenne che tale ideologia fosse peraltro in continuità con il comunismo e fosse anch'esso un momento della secolarizzazione della modernità. Sostenne, inoltre, l'esistenza di molti punti di contatto tra il fascismo e il pensiero dei sessantottini. Filosofo della politica, preconizzò la crisi del socialismo reale, mentre esso viveva la sua massima espansione a livello mondiale. Argomentò che tale sistema, da una parte applicava coerentemente la filosofia di Marx, ma dall'altra negava le premesse del marxismo: ciò in quantomostrava N. lo stesso sistema di Marx si basava sulla contraddizione tra dialettica e materialismo storico. Ribadiva infine la necessità dei valori di verità e di moralità. Figlio di un ufficiale dell'esercito e di Rosalia Pratis, savonese discendente di una famiglia nobile savoiarda. L'anno dopo la madre si trasferisce con il figlio a Savona e, allo scoppio della guerra mondiale, a Torino, presso una zia materna. A Torino, Augusto svolge tutta la sua carriera di studi: dapprima al noto liceo D'Azeglio, frequentato da alcuni dei futuri protagonisti della vita politica e culturale della città e della nazione (Bobbio, Mila, Pajetta, Pavese, Balbo e altri), poi all'Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, allievo di Faggi, Juvalta e Mazzantini con il quale si laurea con una tesi su Malebranche. Inizia quindi a insegnare presso istituti superiori (Novi Ligure, Assisi, Mondovì), mentre sviluppa la sua attività di studio anche con soggiorni all'estero. Legge con entusiasmo Umanesimo integrale di Jacques Maritain, che rafforza in lui, tra l'altro, una sempre più convinta opposizione al fascismo. Cerca invano di farsi trasferire a Torino e di accedere qui alla carriera universitaria. Si trasferisce a Roma per un distacco propostogli dall'amico Castelli. A Roma frequenta Franco Rodano che, con Felice Balbo e altri, anima l'esperienza di «Sinistra Cristiana», un tentativo di conciliazione di comunismo e Cristianesimo da quale Del Noce resta per breve tempo affascinato. Viene accolta la sua richiesta di trasferimento presso un istituto superiore di Torino, dove torna a risiedere. Accompagna all'insegnamento un'intensa attività di studio e di collaborazione a diversi periodici, tra cui Cronache Sociali che gli dà occasione di incontrare Dossetti. Scrive e pubblica il saggio La non filosofia di Marx, che ripubblicherà vent'anni dopo nella sua opera maggiore (Il problema dell'ateismo) e nel quale fissa i termini complessivi della sua interpretazione del marxismo. Nello stesso anno cura l'edizione italiana di Concupiscentia irresistibilis di Šestov. Inizia la collaborazione alla Enciclopedia filosofica del Centro Studi Filosofici di Gallarate, diretta da Luigi Pareyson. Distaccato a Bologna presso il centro di documentazione diretto da Giuseppe Dossetti. Nel capoluogo emiliano frequenta Matteucci e collabora stabilmente al neonato periodico «Il Mulino». Scrive su Ordine Civile, rivista animata da Bozzo, e altri alcuni saggi, uno dei quali, «Idee per l'interpretazione del fascismo», sarà all'origine delle future revisioni storiografiche di Felice e Nolte. Partecipa al convegno organizzato dalla Democrazia Cristiana a Santa Margherita Ligure con una relazione intitolata L'incidenza della cultura sulla politica nella presente situazione italiana: sugli stessi temi N. intratterrà per anni un rapporto difficile con il partito cattolico (altri interventi nei convegni di San Pellegrino e di Lucca. Partecipa a un concorso a cattedra a Trieste, ma non ottiene il posto. Pubblica Il problema dell'ateismo e l'anno successivo Riforma cattolica e filosofia moderna, Cartesio. Partecipa alla «Giornata rensiana» con una relazione intitolata Giuseppe Rensi fra Leopardi e Pascal. Ovvero l'autocritica dell'ateismo negativo in Rensi, nella quale espone la sua fondamentale fenomenologia del pessimismo come pensiero religioso. Nello stesso anno vince il concorso per una cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea a Trieste, dove divenne Professore. In quell'anno esce L'epoca della secolarizzazione, che raccoglie molti dei saggi e degli interventi degli anni sessanta. Si realizza il tanto atteso trasferimento a Roma, dove, all'Università "La Sapienza", insegna prima Storia delle dottrine politiche e poi dal Filosofia della politica. Si infittisce la sua collaborazione a riviste e periodici, sui quali interviene anche riguardo all'attualità politica e culturale. Diresse la collana «Documenti di cultura moderna», dell'editore torinese Borla (poi passata alla Rusconi) proponendo al pubblico italiano autori come Corte, Burkhardt, Pelayo, Sedlmayr e Voegelin. Partecipa vivacemente al dibattito sul divorzio. Dopo la metà degli anni settanta inizia il rapporto con gli universitari di Comunione e Liberazione partecipando a convegni e incontri promossi dal Movimento Popolare. Pubblica il saggio Il suicidio della rivoluzione, dedicato al compimento e alla dissoluzione del marxismo. Con Il cattolico comunista chiude i conti con l'esperienza di Rodano (che nel frattempo ha lasciato la DC per il PCI) e dei teorici della conciliazione tra Cattolicesimo e marxismo. Inizia anche la collaborazione continuativa con il settimanale «Il Sabato» e contribuisce alla creazione della rivista 30 giorni, di cui rimarrà stabile collaboratore. Nello stesso anno viene candidato come indipendente nelle liste della Democrazia Cristiana per il Senato: primo dei non eletti, entrerà in Senato l'anno successivo a seguito della morte di un collega. Viene insignito del «Premio Internazionale Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica. Riceve il premio Nazionale di Cultura nel Giornalismo: la penna d'oro. Viene premiato dal Meeting di Rimini. Muore a Roma. È tumulato nel Famedio del cimitero di Savigliano. Esce “Gentile”, che raccoglie diversi saggi sul padre dell'attualismo, sul fascismo e sul suo significato nella storia, frutto di decenni di studi e rielaborazioni. L'archivio del filosofo e la sua biblioteca sono custoditi a Savigliano dalla fondazione Centro Studi N., sorta nei primi anni novanta, diretta prima da G. Ramacciotti, poi da Mercadante, da Riconda, e Randone. In “Il problema dell'ateismo” N. inizia l'analisi della storia della filosofia moderna invertendo il paradigma storicistico e positivistico che nel progressismo aveva la sua cifra comune. Il filosofo afferma infatti che tale paradigma di illuministica origine ha come prima condizione d'esistenza la postulazione dell'ateismo come necessità del progredire dei sistemi filosofici e delle scienze a prescindere dalla teologia cristiana, cioè a prescindere dalla Scolastica, anzi in più o meno esplicita opposizione alla Scolastica. La tesi che Del Noce intende dimostrare in questa sua opera è -come evidenzia appunto il titolo- la considerazione dell'ateismo non più come «necessità» bensì come «problema» della modernità, il cui ultimo, coerente e necessario sbocco è appunto il nichilismo post-nietzscheano distaccato ormai da qualsiasi riflessione filosofica e sfociato in una pura forma di vita, in puro way of life di distruzione e auto-distruzione dell'uomo. Del Noce pone quindi innanzitutto una distinzione fra tre diverse forme di ateismo, ovvero fra l'ateismo positivo o politico diurno, i cui esempi perfetti sono stati l'illuminismo di un Diderot o l'umanesimo di un Feuerbach, l'ateismo negativo o nichilistico («notturno»), esemplificato invece dalla filosofia di Schopenhauer, e infine l'ateismo tragico, detto anche «follia filosofica», cioè la forma più rara e particolare di ateismo che N. trova solo in due casi in tutta la storia della filosofia, ovvero in Nietzsche e in Jules Lequier. Posta questa propedeutica distinzione, Del Noce inizia l'anamnesi del pensiero filosofico moderno per rintracciare la genesi di ogni forma di ateismo, impossibile da pensarsi per la filosofia antica come dimostra il fatto che anche la filosofia epicurea -considerata comunemente come ateistica- ammetteva in realtà l'esistenza degli dèi. Per N. appare evidente che la crisi della Scolastica medievale non ha costituito un processo necessario per il semplice fatto che proprio colui che aveva intenzione di riformarla -cioè Cartesio- fu invece colui che in realtà la tradì e se ne allontanò: è nelle celeberrime Meditazioni metafisiche che il filosofo francese -allievo dei Gesuiti- tentò di riproporre una nuova prova dell'esistenza di Dio da opporre al naturalismo libertinista del Seicento, che predicava relativismo etico e che sostituiva il dio-logos con la Natura impersonale e senza ordine. In realtà però Cartesio, nel suo sforzo apologetico, compì il definitivo tradimento della filosofia cristiana riattingendo ad un agostinismo privato di platonismo e considerando così le idee dei semplici «contenuti della mente». In altre parole se l'idea di Dio, quantunque logicamente necessaria, non è il riflesso intellettivo di una realtà ontologica esterna al soggetto ma è una semplice struttura logica, allora vale realmente la critica kantiana della prova ontologica di Sant'Anselmo secondo la quale non è lecito aggiungere il predicato dell'esistenza alla perfezione dell'idea se non per un paralogismo. N. in sintesi ha mostrato come il tradimento e la perdita della Scolastica, attuata innanzitutto da Cartesio, ha come punto centrale l'idea di Idea, che è passata ad essere da struttura del reale a struttura del razionale, passando quindi dal dominio dell'ontologia a quello della psicologia. Per questo non vi è alcuna spiegazione se non il rifiuto pregiudiziale di riconoscere uno statuto ontologico all'idea, cosicché non vi sarebbe appunto alcuna necessità di trapasso della Scolastica né tantomeno alcuna necessità di genesi del razionalismo; in tal senso la famosa critica di Kant varrebbe quindi solo contro Cartesio e non contro Sant'Anselmo, il cui platonismo gli permetteva ancora di inferire necessariamente la «perfezione» dell'esistenza dall'idea dell'Essere con ogni perfezione, cioè dall'idea di Dio. Prosegue la sua analisi mostrando quindi come in Cartesio, che pur nelle sue intenzioni voleva essere un defensor Fidei, già sussisteva in nuce ogni forma di illuminismo che avrebbe poi dominato nel Settecento, per questo egli parla di un pre-illuminismo cartesiano e aggiunge inoltre che proprio Cartesio, fiero avversario del libertinismo dilagante nel suo tempo, fu colui che tradusse l'ateismo libertinistico e irrazionalistico nella sua forma razionalizzata, cioè nell'illuminismo, che sarebbe stato appunto un libertinismo razionalistico. Si noti che Del Noce non pone giudizi sulla persona di Cartesio, e anzi sottolinea come al suo tempo egli si poteva davvero credere il grande condottiero vincitore della battaglia culturale del Cristianesimo contro il libertinismo, ma ciò perché non era riuscito a prevedere una forma di ateismo non-irrazionalistico e non-relativistico quale fu appunto l'illuminismo settecentesco, che non si limitò più ad opporsi alla Scolastica ma che formò una propria dogmatica visione della storia in cui il Cristianesimo, rappresentato dalle leggende nere del Medioevo, era stato solo un ostacolo per lo «sviluppo» e l'«emancipazione» dell'umanità (si tenga presenta la definizione kantiana di illuminismo). Da Cartesio in poi sono comunque due i percorsi filosofici che partono e che sviluppano i due aspetti compresenti in Cartesio, ovvero l'illuminismo e lo spiritualismo: da una parte infatti Condillac, Kant, Condorcet, fino a Hegel e Marx riceveranno il lascito propriamente razionalistico e sensu lato materialistico di Cartesio, dall'altra invece Pascal, Malebranche, VICO (si veda) e infine SERBATI saranno gli eredi del suo patrimonio spiritualistico, inteso questo come filosofia di accordo fra ragione naturale e fede cristiana, posta la distanza epistemologica dalla Scolastica; famosa ed illuminante è a questo proposito la teoria della «visione in Dio» di Malebranche, nonché la distinzione pascaliana fra il divino dei filosofi e Dio padre (IVPITER) dei romani. Andando comunque alla radice del problema del tradimento della metafisica cristiana (Tomismo) da parte di Cartesio e del conseguente illuminismo, N. individua come unica possibile condizione per tale tradimento il rifiuto del peccato originale come male metafisico e quindi il rifiuto dello «status naturae lapsae» di cui proprio il Cristo sarebbe il redentore: senza alcuna natura umana da redimere, cioè senzanecessità di alcun redentore, il razionalismo ha sostituito il peccato con l'ignoranza e Dio con la ragion critica, rifacendosi così ad un pelagianesimo laicizzato che da solo rende possibile una qualsiasi forma di ateismo. Egli nota, infine, che avendo rifiutato la radice metafisica del male se ne è dovuta cercare quella fisica o psicofisica, secondo gli schemi ideologici che nel Novecento avrebbero reso la psicanalisi e la psicologia gli elementi complementari allo scientismo per una completa e non riduttiva visione del mondo senza Dio, e per una definitiva «ateologizzazione» della ragione. Compimento e dissoluzione del marxismo Riguardo al marxismo e alla sua interpretazione Del Noce scrisse due opere, ovvero Il cattolico comunista e Il suicidio della rivoluzione, che costituiscono la continuazione de Il problema dell'ateismo in quanto in esse il filosofo analizza più dettagliatamente solo una delle linee filosofiche originate da Cartesio, quella razionalistica, cioè quella che nella storia moderna fu vincente nella sua estensione politica, nel tentativo di trovare e di dimostrare la continuità necessaria fra razionalismo, materialismo, marxismo e infine nichilismo, quest'ultimo inteso come cifra problematica della civiltà postmoderna. La giustificazione epistemologica di questa analisi è data dal fatto incontestabile che la storia del Novecento inizia da un fatto filosofico, ovvero dal passaggio della filosofia marxiana in azione politica, ovvero dalla coerentizzazione di quella che N. definisce la «non-filosofia di Marx»: da ciò appare non solo giustificato ma anche necessario portarsi sul piano storico della filosofia per comprenderne il suo portato teoretico, e così disinnescarne il suo sostrato ideologico. Si affianca a diversi filosofi, quali ad esempio Voegelin, per rintracciare l'inizio della cosiddetta secolarizzazione, il cui compimento sarebbe stato appunto il marxismo e poi il nichilismo, nel sequestro della nozione di «progresso» da parte di filosofie laiche dalla teologia di Gioacchino da Fiore, o meglio dall'interpretazione di tale teologia: ben nota è infatti la distinzione gioachimita nelle tre età della storia, l'Età di Dio-Padre (Ebraismo), l'Età di Dio-Figlio (Cristianesimo) e infine l'Età di Dio-Spirito che avrebbe dovuto superare i «limiti» del Cristianesimo ed estendere l'elezione e la salvezza in modo universale. Di tale teologia mistica e profetica si appropriò lo gnosticismo sviluppatosi in seno al Cristianesimo stesso ed estesosi pian piano oltre i confini delle filosofie razionalistiche del Settecento e soprattutto dell'Ottocento. N. nota infatti una sorta di dialettica nata all'interno dell'illuminismo settecentesco non tanto fra atei e deisti bensì fra rivoluzionari e conservatori, ovvero fra il puro giacobinismo ghigliottinatore dell'«ancien Régime» e il progressismo che caratterizzò invece la fase dell'illuminismo dopo la degenerazione della rivoluzione francese in Terrore, ovvero la fase dei cosiddetti ideologues, fra i quali Cabanis e Condorcet. Il punto attorno a cui si sviluppava tale dialettica fu appunto la differente filosofia della storia che aveva caratterizzato l'illuminismo pre-rivoluzionario e l'illuminismo post-rivoluzionario, in quanto il primo aveva escluso una qualsiasi evoluzione storica e necessaria dell'umanità e aveva anzi condannato il Medioevo con la storiografia della leggenda nera, mentre il secondo aveva invece rivalutato l'intera storia pre-illuministica (sia pagana che cristiana) considerandola come momento dialettico necessario pur se negativo della storia universale. In questo senso N. ha potuto mettere in parallelo l'opposizione fra illuminismo giacobino e spiritualismo in Francia e quella fra kantismo e hegelismo in Germania, ove spiritualismo e hegelismo sono state filosofie vincenti in quanto hanno assorbito in sé il momento rivoluzionario e negativo dell'illuminismo per poi superarlo nella formazione di quella filosofia della storia che ebbe certo in Hegel il suo culmine. Riguardo al binomio illuminismo-spiritualismo la critica vincente del secondo sul primo è stata quella di un estremo e insostenibile riduzionismo rappresentato dal sensismo di Condillac, in altre parole è stata la critica di ridurre la comprensione del mondo al pari di ciò che lo stesso illuminismo aveva accusato la religione di aver fatto. In questo contesto è la nascita della visione sociologica del mondo a rappresentare il tentativo di superare questa aporia illuministica senza tuttavia dover ritornare alla metafisica tradizionale: N. insomma sostiene il trapasso dell'illuminismo in socialismo, non a caso nato in Francia, intesa questa come dottrina che dell'illuminismo mantiene il carattere utopistico (socialismo utopistico) e quindi anti-tradizionalistico, ma ne sconfessa invece il deprecabile riduzionismo che ancora non permetteva un'adeguata analisi della società ai fini della rivoluzione politica. In Germania invece la dialettica fra kantismo e hegelismo, con netta vittoria dell'hegelismo, ha come punto di svolta la riconsiderazione hegeliana della storia come storia dell'Assoluto -- storia di Dio --, secondo il ben noto schema gioachimita che vedeva in ogni momento storico un grado dimanifestazione dell'Assoluto, e quindi «necessario» pur nella sua negatività. In questo senso Hegel è colui che diede forma alla corrente tradizionalistica dell'illuminismo, ove la tradizione non è più peròcome per Tommaso d'Aquinol'insieme delle verità eterne e immutabili che solcano trasversalmente la dimensione temporale mediante il passaggio delle generazioni, ma è bensì la struttura dialettica eterna che necessita l'evoluzione delle verità, e quindi la sua temporalizzazione. Per questo N. afferma che l'idealismo hegeliano ebbe nei confronti del kantismo la medesima funzione che in Francia ebbe il positivismo comtiano nei confronti del socialismo utopistico: egli ricorda la critica di Comte nei confronti dell'illuminismo settecentesco, la sua rivalutazione della tradizione (in senso dialettico), nonché la celeberrima teoria degli stadi che costituisceancora una voltauna forma secolarizzata della teologia gioachimita. È dopo questa dettagliata analisi che Del Noce innesta il discorso sul marxismo, il quale appunto si configuròper stessa ammissione di Marxcome ripresa critica di Hegel attraverso la filtrazione di Feuerbach e della sinistra hegeliana (celebri sono le marxiane Tesi su Feuerbach) e come fusione fra la dialettica hegeliana e la politica del socialismo utopistico: alla base del cosiddetto socialismo scientifico rimane ancora il desiderio di palingenesi politica propria di Saint-Simon o di Fourier, ma onde evitare il risibile utopismo di questi ultimi ad esso Marx applicò la dialettica hegeliana con cui solamente si sarebbe potuto analizzare il capitalismo e prevederne così il necessario fallimento. A tal punto però l'analisi marxiana di come potrà nascere la società comunista introduce l'elemento di distacco non solo dall'idealismo hegeliano ma anche dalla filosofia stessa, ovvero la necessità di tradurre il pensiero analitico in azione politica e di affidare alla storia invece che alla ragione il compito di dimostrare la verità delle tesi marxiane. In questo N. si riallaccia a una lunga storiografia socialista, uno dei cui esponenti più noti è per esempio Lukács, che afferma la stretta e necessaria continuità fra filosofia di Marx e di Engels, politica di Lenin e politica di Stalin, senza concedere alcuna differenza né alcuna opposizione fra socialismo reale e socialismo ideale (quasi a guisa di giustificazione storica). Il fattore fondamentale di continuità fra Marx e Lenin è infatti quella struttura tipicamente gnostica che equalizza il male all'ignoranza e il bene alla conoscenza e quindi divide il genere umano fra la massa degli ignoranti e la ristretta cerchia degl’lluminati, che nella riflessione leniniana erano gli intellettuali borghesi che per una non spiegata differenza dal resto della borghesia avrebbero potuto e dovuto guidare la rivoluzione; in questo senso la politica leniniana, poi proseguita coerentemente nella politica staliniana, sarebbe stata l'incarnazione perfetta nonché l'unica incarnazione possibile della filosofia marxiana, e non invece -come è tesi di una certa apologetica socialista- un tradimento di Marx. Ancora una volta si rifà a una lunga storiografia critica nel considerare il marxismo non come una filosofia ma come una religione, ma a ciò egli aggiunge la dimostrazione non del suo carattere di religione civile bensì di religione gnostica: in tal modo il marxismo leninista sarebbe davvero il compimento del razionalismo ove quest'ultimo è inteso come gnosticismo laico, religione non di Dio ma dell'Idea/ideale che non ha bisogno dell'Incarnazione di un Dio-Uomo in quanto l'uomo stesso avrebbe potuto e dovuto far incarnare tale Idea nel mondo attraverso la sua azione. Questo è il senso dell'appellativo delnociano di «non-filosofia» per il marxismo, giacché la contemplazione metafisica in esso viene interamente assorbita dall'azione politica, in quanto per Marx la politica è la vera metafisica al pari di come per Nietzsche lo è la morale. Eppure è proprio questo punto a costituire secondo N. la contraddizione fondamentale interna al marxismo e quindi la causa prima del suo fallimento storico: se infatti la «riconciliazione con la realtà» iniziata da Hegel, proseguita da Feurbach a portata a compimento da Marx deve rivoltare l'intera comprensione del mondo in trasformazione del mondo, cioè in rivoluzione, allora in ciò non rimane giustificato il riferimento ideologico all'avvenire come sede immaginifica della società comunista, ovvero non rimane giustificato il carattere ancora religioso del marxismo per cui esso ha sostituito il futuro all'eternità e il lavoro dell'uomo alla redenzione del dio-uomo. Il fallimento storico del comunismo, quindi, sarebbe stato non solo la dimostrazione sperimentale della falsità delle teorie marxiane ma anche il coerente compimento del marxismo come auto-distruggersi nella sua forma di religione. Con ciò si spiegherebbe per N. l'attivismo comunista nonché la graduale decadenza del socialismo nel mondo fino alla sua profetizzata fine, simboleggiata dalla caduta del Muro di Berlino. È propria di lui infatti la teoria secondo cui il compimento e la dissoluzione del marxismo non siano due momenti separati o addirittura opposti, ma siano bensì il medesimo momento dispiegato coerentemente nel tempo. L'interpretazione del fascismo Sul fascismo e sulla sua interpretazione in stretta relazione al marxismo dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue opere, partendo appunto dalle opinioni comuni e molte volte ideologiche degli storici nei confronti del fascismo e delineando una struttura paradigmatica tanto controversa quanto precisa e fondata. È a partire dalla definizione data dallo storico tedesco Nolte di ogni movimento fascista come «resistenza contro la trascendenza», intesa come trascendenza storica e non metafisica, che N. sottolinea la continuità fra questo serio giudizio e la communis opinio del fascismo come movimento reazionario, per questo tradizionalista e nazionalista, e per converso di ogni forma di tradizionalismo e di nazionalismo come rimando implicito e forse inconscio al fascismo. Di questo fa una critica serrata, facendo notare innanzitutto le origini culturali dei due fondatori del fascismo, cioè Gentile e MUSSOLINI, come antitetiche rispetto a ogni forma di politica reazionaria, tradizionalista e nazionalista e come invece affini rispetto al socialismo, del quale Mussolini in particolare fu un esponente. Si noti che l'obiettivo che N. intende colpire e abbattere è quella generale concezione del fascismo come momento singolare e controcorrente rispetto all'intera storia moderna, dalla rivoluzione francese in poi, mentre ciò che intende mostrare è la continuità quasi necessaria che è posta fra l'hegelismo, il marxismo e il fascismo come tre momenti dell'unico processo di secolarizzazione. Il filosofo inizia quindi dall'analisi della figura storica di Mussolini e della sua formazione culturale, notando il suo giovanile anticlericalismo, il suo spontaneo confluire nel socialismo, e il seguente superamento di quest'ultimo per l'evoluzione fascista del suo pensiero. È in particolare sul concetto di «rivoluzione» che pone l'accento, essendo questo un concetto base del marxismo che però, attraverso l'incontro mussoliniano con la tedesca «filosofia dello Spirito» risorgente in Italia, dovette radicalmente trasformarsi e portarsi dal livello sociale della «classe» a quello personale del «soggetto». È insomma l'incontro intellettuale di Mussolini con la filosofia di Gentile ad aver reso necessaria la trasformazione della rivoluzione in un senso non più finalistico o escatologico (come era nel marxismo puro, il cui fine è appunto la società comunista) ma in un senso propriamente attivistico e lato sensu solipsistico, in termini gentiliani cioè attualistico. Con ciò N. può connettere la psicologia di Mussolini con il vero e proprio formalismo pratico del fascismo, il quale non aveva in realtà alcun contenuto definito, ma proclamava bensì una forma di azione tanto vaga e generale da poter attrarre a sé ogni sorta di ceto sociale (anche il proletariato) e di frangia ideologica, in alcuni momenti persino quella marxistica. Il concetto di «rivoluzione» infatti contiene in sé già un termine finale ben preciso verso cui lo stato attuale del mondo andrebbe rivoluzionato, mentre nella politica fascista il termine rivoluzione deve necessariamente essere sostituito dal termine «riforma» (si pensi appunto alla riforma Gentile) in senso non più tradizionale, cioè come ri-formare ciò che è stato de-formato, bensì in senso creazionale, cioè come dare una nuova forma (indefinita) alle antiche cose, perciò rimane un concetto molto affine a quello di marxistico di rivoluzione, e permette l'affiancamento ideale dell'attualismo gentiliano al modernismo teologico fiorente a quel tempo e condannato come eresia dalla Chiesa. Saggi: “Teologia della storia” (Torino, Filosofia); “La solitudine di Faggi” (Torino, Filosofia); “L'incidenza della cultura sulla politica italiana, Cultura e libertà” (Roma, 5 lune); “A-teismo” (Bologna, Mulino); “Riforma e filosofia” (Bologna, Mulino, Brescia); “In contra del domma cattolico-romano” (Torino, Erasmo); “Contra il domma cattolico-romano” (Milano, UIPC); “L'amore di Dio” (Torino, Borla); “Il secolare” (Milano, Giuffrè); “Il partito comunista italiano” (Roma, Europea); “Il suicidio di un rivoluzionario” (Milano, Rusconi); “I comunisti” (Milano, Rusconi); “L'interpretazione trans-politica della storia contemporanea,” Napoli, Guida, “Secolarizzazione e crisi della modernità” (Napoli, Benincasa); “Gentile: per una interpretazione FILOSOFICA del fascismo” (Bologna, Mulino); “Da Cartesio a Serbati” -- Scritti vari di filosofia,” Milano, Giuffrè); “Esistenza e libertà.” Spir, Chestov, Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, italiano Faggi, Martinetti, italiano Rensi, italiano Juvalta, italiao Mazzantini, italiano Castelli, italiano Capograssi” (Milano, Giuffrè); “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”; Scritti su l'Europa e altri, Milano, Giuffrè); “I cattolici e il progressismo,” Milano, Leonardo, “Fascismo e anti-fascismo: errori della cultura” (Milano, Leonardo); “Il laico”; Scritti su Il sabato (e vari, anche inediti), Milano, Giuffrè); Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II” (Roma, Studium); “Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, “ I. Mina, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli); “Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea” (Morcelliana, Brescia.). N. insegna nel capoluogo piemontese. Bozzo. N., il filosofo della libertà politica). N., «Idee per l'interpretazione del fascismo», Ordine Civile. E tra i componenti del comitato promotore del referendum abrogativo antidivorzista) e più tardi sull'aborto. premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii. wordpress. Armellini, Razionalità e storia, in Il pensiero politico, Roma, Aracne editrice, Borghesi, N.. La legittimazione critica del moderno. Marietti, Genova-Milano.[collegamento interrotto] Luca Del Pozzo, Filosofia cristiana e politica, Pagine, I libri del Borghese, Roma, Fumagalli, Gnosi moderna e secolarizzazione nell'analisi di Samek Lodovici ed N., PUSC, (scaricabile in PDF dal sito sergiofumagalli) Gian Franco Lami, La tradizione, Angeli, Milano, Marietti, Genova-Milano. Enciclopedia ItalianaV Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ratto, Ipotesi sul fondamento dell'essenza dissolutiva del marxismo e del fascismo, in Boscoceduo. La rivoluzione comincia dal principio, Sanremo, EBK Edizioni Leudoteca, Riili, N. interprete del Marxismo. L'ateismo, la gnosi, il dialogo con Volpe e Goldmann, in Centotalleri, Saonara, il prato, Tibursi, Il pensiero di N. come Teoria sociale, in Andrea Millefiorini, Fenomenologia del disordine. Prospettive sull'irrazionale nella riflessione sociologica italiana, Societas, Roma, Nuova Cultura, Xavier Tilliette, Omaggi. 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Articoli di N. «Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna» da Studi Cattolici. «L'errore di Mounier» da Il Tempo. «Risposte alla scristianità» da Il Sabato. «La sconfitta del modernismo» da Il Tempo. «La morale comune dell'Ottocento e la morale di oggi», tratto da Il problema della morale oggi. «Rivoluzione gramsciana», tratto da Il suicidio della rivoluzione. «Origini dell'indifferenza morale» da Il Tempo. «Le origini dell'indifferenza religiosa» da Il Tempo. «Religione civile e secolarizzazione» da Il Tempo. «Un dramma europeo: il dissenso cattolico» da Corriere della Sera. «Questi poveri cattolici minacciati dal suicidio» da Il Sabato «In stato di porno-assedio»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «La più grande vergogna del nostro secolo» da Il Sabato. «Fu vera gloria? La resistenza 40 anni dopo»[collegamento interrotto], tratto da Litterae Communionis. «Una colomba, non un santo (caso Bukarin)» da Il Sabato. «Intensità d'una gran illusione (Dossetti e dossettismo)»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «L'antifascismo di comodo» da Corriere della Sera. «Togliatti? Un perfetto gramsciano. Polemica su Gramsci»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «Il nazi contagio» da Il Sabato. «La morale catto-comunista» da Il Sabato. «Abbasso Mazzini» da Il Sabato. «I lumi sull'Italia»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «Recensione del romanzo di Benson "Il Padrone del mondo"» dal mensile 30Giorni. «Filo rosso da Mosca a Berlino (Hitler-Stalin)» da Il Sabato. Le connessioni tra filosofia e politica da Il Tempo. Pci, l'impossibile conversione» tratto da Prospettive nel mondo. Grice: “Unfortunately, Noce is a philosopher, like me. We cannot lay word on history. Had Hitler won, I wouldn’t have joined Austin’s Play Group. Being Italian, Noce thinks different. He thinks history is guided by philosophical principes. It wasn’t Mussolini’s charisma that led the populace, but Gentile’s attualismo puro. He makes a good point about the distinction between Hitler and Mussolini. Hitler is a Protestant, Mussolini ain’t! Most in Mussolini’s circle were just as heathen as those in Hitler’s circle – different heathenism, though. No Odin, but Giove. Not Siegrfied, but Enea! Noce does not know the first thing about this. He never socialized with any of the people he is philosophizing about. In any case, there’s Garibaldi, which is a stain to Italian history. Italians, and a Ligurian friend of mine can testify to this, never wanted the UNITY. It was forced ON them. So it’s only natural that Gentile and Noce regard the UNITY brought by Risorgimento (alla Fichte Hegel, and the idea of the NATION) that was furthered by Mussolini. Mussolini did use Garibaldi imagery – saying that his movement was ‘garibalismo puro’ – but although he (Mussolini) did write a little thing about Nietzsche, you won’t find his name in ‘dizionari di flosofia’!” Non si può dire che a Del Noce sia mancato il coraggio di proporre ipotesi interpretative del pensiero contemporaneo anche in radicale antitesi con la pubblicistica corrente e con gli intellettuali più ascoltati dal potere culturale dominante. Come si è visto a proposito del marxismo, la nettezza del giudizio critico non è mai venuta meno e non ha mai ceduto ad attenuazioni, nemmeno nel caso di una vicinanza amicale con i suoi interlocutori. Nel caso dell’interpretazione del fascismo N. esprime un simile coraggio e propone sin dagli anni Sessanta (ma brevi testi dell’immediato dopoguerra documentano già la stessa lucidità)! un’interpretazione originale, solidamente argomentata e assolutamente controcorrente. Anche in questo caso, come in quello del marxismo, N. procede da una considerazione attenta del fascismo che ne faccia emergere le specificità culturali, lo renda identificabile e ne faccia perciò comprendere le ascendenze più o meno evidenti. Quest'opera di studio e di approfondimento dei contenuti del fascismo è già un aspetto rilevante dell’interpretazione, dal momento che, ancora oggi il fascismo è stato rappresentato da una parte come una sorta di barbarie irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della coalizione di tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di interessi particolari. In questa prospettiva il fascismo viene identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo, caratterizzato come male assoluto, mitizzato come un abisso di negatività al di fuori di qualsiasi analisi critica e storica. Da ultimo, trasformato in una sorta di essenza, il fascismo diviene la categoria alla quale ricondurre tutti gli aspetti legati alla tradizione, alla metafisica, al tema dell’autorità ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare la tradizione senza essere nel contempo, almeno incoattivamente, fascisti e repressivi. AI contrario, per N. il fascismo è un momento di quel percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli precedenti) in cui consiste lo sviluppo del razionalismo e che può essere designato più opportunamente come secolarizzazione, per intendere quel tentativo di creare una società nella quale non ci sia più traccia dell’idea di Dio. Il fascismo ha perciò una radice culturale precisa, situabile in quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha inizio con il marxismo. È questo il punto più incandescente dell’analisi di N.: il fascismo si presenta come un tentativo rivoluzionario di origine marxista, nel quale il marxismo viene corretto per essere inverato, cioè per essere effettivamente realizzato. In altre parole, tra marxismo e fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel percorso del razionalismo che porta a una progressiva secolarizzazione del mondo, l’ideale rivoluzionario tende ad assumere il ruolo sociale occupato precedentemente dalla religione. In questo quadro, secondo N., la rivoluzione può assumere due forme: quella marxista, che si fonda, come si è visto, sul materialismo e sulla sua opera decostruttiva; oppure quella attualista, che è una interpretazione dell’ideale rivoluzionario da un punto di vista soggettivo-spiritualistico, che assume le caratteristiche di una filosofia del divenire e della prassi e rifiuta il materialismo marxista. La spiegazione del fenomeno fascista trova perciò in Gentile una figura centrale, attraverso la quale N. mette in evidenza il nesso storico e teorico tra idealismo e fascismo. Per comprendere questo nesso, però, occorre che venga pienamente riconosciuta la complessità e profondità di pensiero di Gentile, più spesso relegato a personaggio di propaganda e di apparato. D. non solo riconosce in Gentile una figura chiave del pensiero italiano, ma nel suo pensiero coglie una svolta epocale, quella del tentato inveramento del marxismo: perciò in esso egli vede il compiersi per l'Occidente del percorso razionalistico del pensiero che così fortemente ha determinato le sorti dell’epoca contemporanea. Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale e connetterlo con l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò dal quel presupposto naturalismo e materialismo che rappresentavano ai suoi occhi un limite nella comprensione del vero spirito idealistico. È in questa temperie culturale che avviene l’incontro con Mussolini. N. è certo attento nel precisare che i fenomeni storici si verificano per una complessa serie di fattori che non possono essere ridotti a uno schema concettuale. Tuttavia quando nelle sue analisi parla di incontro intende evidenziare non solo l’incrociarsi di percorsi biografici e storici, ma anche il congiungersi, si potrebbe dire fatale, di indirizzi di pensiero che per consonanza e necessità logica danno luogo a un connubio creativo. Nel caso del rapporto tra Gentile e il fascismo come regime N. parla, per esempio, di armonia prestabilita, quasi a evidenziare una sorta di attrazione fatale che ha compenetrato traiettorie di pensiero che avevano origini distinte. Mussolini infatti era anch’egli incamminato verso una revisione del marxismo, a partire dalla critica al socialismo riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai più sbiadita rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene perciò sul terreno comune della volontà di ripresa dello spirito rivoluzionario, in una chiave però compatibile con la tradizione risorgimentale italiana. All’interno di questa struttura significativa, certamente gioca poi un ruolo determinante la personalità di Mussolini, che se è senz'altro molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è tuttavia perfetta espressione esistenziale-politica di quell’ansia rivoluzionaria che si traduce in attivismo come pura affermazione di potenza e in solipsismo, inteso come soggettivismo assoluto, incapace di cogliere la realtà esterna in sé sussistente se non in funzione del proprio processo di autoaffermazione. Si comprende dunque perché N. abbia parlato spesso di fascismo come errore della cultura e non errore contro la cultura (interpretazione, come si è visto, dominante nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come fenomeno estemporaneo di improvviso impazzimento della società italiana succube di forze oscurantiste, ma segna un passo decisivo di quell'epoca della secolarizzazione che contraddistingue l'evoluzione ultima del razionalismo moderno e che, secondo N., ha il suo inizio con l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha più coerentemente inteso realizzare il farsi mondo della filosofia secondo quanto prospettato da Marx. In questo senso, tra l’altro, si comprende perché sia senz’altro errato interpretare il fascismo come fenomeno reazionario e conservatore; in esso agisce la volontà di interpretazione dello spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per il quale la tradizione e l’identità storica rappresentano puri strumenti per l’affermazione dell’azione trasformatrice, che sarà perciò inevitabilmente violenta e inesorabile. Ma in Italia, negli stessi anni in cui andava formandosi il fascismo, vi è un altro pensatore che lavora alla revisione del marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria capace di realizzare effettivamente una nuova società: è Gramsci. Anche in questo caso N. dimostra un’acutezza interpretativa unica, nonché coraggio nel presentare le sue ipotesi. Egli infatti mette a punto una serie di studi che confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della rivoluzione, nel quale Gramsci è presentato come colui che, nel tentativo di riformare il marxismo, incontra in realtà l’attualismo e trasforma l'ideale rivoluzionario marxista in una filosofia della prassi perfettamente funzionale e coerente con il realizzarsi del nichilismo. Gramsci, perciò, identificato in quegli anni come il vero punto di riferimento dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il realizzarsi del marxismo nei paesi occidentali, viene presentato da N. come un autore gentiliano. Che cosa è infatti la revisione gramsciana del marxismo se non il rifiuto del suo materialismo e del suo economicismo, per fondare una filosofia della prassi che porti a realizzare la rivoluzione prospettata dal marxismo a partire da una lotta per l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali militanti? Secondo N. non è più marxismo, ma filosofia della prassi con tutti i caratteri dell’attualismo. In che senso allora N. parla di suicidio della rivoluzione? Precisamente nel senso per cui, nel proseguire il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia della prassi non materialista, Gramsci riduce il pensiero a ideologia strumentale per l’affermazione del potere, svincolandolo da qualsiasi riferimento alla verità. Pensiero senza verità, pura affermazione di potenza, e perciò nichilismo, approdo coerente di quell’impeto rivoluzionario che però ottiene il suo opposto proprio attraverso il costituirsi del predominio sociale di una classe borghese cinica e disincantata. Diciamo che Gramsci rappresenta il paradigma italiano di quella dissoluzione dell’idealismo e del marxismo che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è detto, nel compiersi realizza l'opposto di quanto si era proposto. Il primo testo del capitolo è una conferenza confluita in L’epoca della secolarizzazione, che propone una definizione storica generale del fascismo e consente uno sguardo sintetico d’insieme sull’interpretazione di N. delle figure di Gentile e di Mussolini. Il secondo testo è il capitolo secondo de I/ suzcidio della rivoluzione, che imposta l’assunto fondamentale del libro, soprattutto nel mostrare la vicinanza filosofica tra Gentile e Gramsci. Appunti per una definizione storica del fascismo. Il fondamento del progressismo, così nella sua forma di illuminismo laico come in quella di modernismo religioso, è un giudizio sulla storia contemporanea; per dir meglio, su una zona della storia contemporanea, quella dell'Europa fra le due guerre. Ora, l'attitudine contraddittoria a cui ha dato luogo e per la cui designazione ho usato il termine di millenarismo negativistico, porta al problema della sua revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente di mutare il giudizio assiologicamente negativo sul fascismo; si tratta, invece, di vedere quali posizioni ideali siano state coinvolte nella sua catastrofe. È il primo saggio che tenta un’esaustiva comprensione storico-filosofica del fascismo come fenomeno epocale, quello di NOLTE? Sostanzialmente, si può dire che esso abbia dato espressione rigorosa all’idea che informa i giudizi correnti: quella secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire sussunti sotto il concetto generale di controrivoluzione. Visto nel suo aspetto più profondo, come fenomeno transpolitico, il fascismo sarebbe per Nolte una disposizione di «resistenza contro la trascendenza», termine con cui intende non la trascendenza religiosa, ma quella che oggi si suol chiamare «trascendenza orizzontale», trascendimento storico, insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi delle sue forme, è il nemico, deve essere individuato nella libertà verso l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale nell’evoluzione universale, minaccia di distruggere ciò che si conosce e si ama». Sul piano più strettamente politico questa «resistenza contro la trascendenza» si affermerà come lotta sino alla morte contro i movimenti che la rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là dell'ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si dovrebbe perciò parlare di un’essenza comune che si sarebbe specificata in diverse forme nei vari paesi europei, a seconda delle loro diverse situazioni politiche, economiche, culturali. Le principali di queste forme costituirebbero altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea unitaria di sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo dal nazismo. Come è facile osservare, una tale interpretazione corrisponde alla veduta corrente, secondo cui i termini ultimi dei contrasti presenti sarebbero le parti dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore venendo assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una possibilità fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è che questo giudizio non condiziona la ricerca, come presupposto polemico, ma invece appare essere il risultato di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la sua importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili. Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di un’«epoca del fascismo? Da questo: è esistito un periodo in cui, in seguito all’arretramento e al chiudersi in se stesse delle potenze periferiche (Stati Uniti, Unione Sovietica; isolazionismo americano, socialismo in un solo Paese per cui la Russia ridivenne una terra incognita ai limiti del mondo) l'Europa, pur dopo quell’anno, in cui la prima guerra mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto di stati nazionali, poteva nuovamente considerare se stessa come il centro del mondo, e affermarsi quale proscenio degli avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si deve denominare un’epoca, caratterizzata decisamente da contese politiche, sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo, ebbene, in tal caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle guerre mondiali epoca del fascismo»; termine che «presenta il vantaggio di non esibire alcun contenuto concreto, e di non presentarsi al pari della parola nazionalsocialismo con una pretesa contenutistica non però giustificata. Col dare una tale definizione dell’epoca, Nolte non pretende affatto a una particolare originalità. Ha cura, anzi, di sottolineare com’essa fosse già stata affermata da rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel giro di brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era stata affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del massimo suo potere. Ma, su questo punto, avversari decisissimi si erano trovati d’accordo, con opposto accento valutativo. Così Mann nel define il fascismo come «una malattia del nostro tempo, che è di casa dappertutto, e dalla quale nessun paese può dirsi immune». Così, nella nota opera La distruzione della ragione Lukacs ha indicato «nello sviluppo spirituale e politico tedesco null’altro che la manifestazione più saliente di un processo internazionale che si svolge nell’ambito del mondo capitalistico. Bastano già queste citazioni per vedere il posto che l’opera di Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo. Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso liberale, della malattia morale e dopo quella marxista. Luk4cs aveva parlato di una linea unitaria di processo verso l’irrazionalismo da Schelling a Hitler», includendovi tutti i pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte di Hegel. Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di verità, Nolte dissente soprattutto per quel che riguarda il prefascismo di Weber, e naturalmente il dissenso su questo pensatore ha un contraccolpo decisivo per quel che riguarda l’intera linea indicata da Lukacs. Forse — non ho verificato quest'idea — il suo libro potrebbe esser definito come un rifacimento per l'Europa intera di quello che Lukacs ha scritto sul pensiero reazionario tedesco, operato però da uno scrittore su cui è stata forte l'influenza di Weber. Ora, nello stesso giro di tempo in cui Nolte scriveva il suo libro, io mi ero proposto il suo medesimo problema — di una definizione del fascismo in sede trascendentale — arrivando però a prospettive diverse. Infatti, nel saggio di N., Il problema dell’ateismo, definie la peculiarità della storia contemporanea per il suo carattere di storia filosofica. Il mio punto di vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era semplice: se si riconosce un carattere genuinamente filosofico all'opera di Marx, bisogna prendere alla lettera la sua frase secondo cui la sua concezione è quella di una filosofia che diventa mondo (che si oltrepassa nella realizzazione politica e cerca in questa la sua verifica) opposta a quella di un mondo che diventa filosofia nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può essere compresa che in relazione alla rivoluzione comunista, essa acquisisce un carattere nuovo, diverso da tutta la storia precedente, soprattutto dal Rinascimento in poi. Non soltanto una storia che può essere compresa dal filosofo; una storia fatta dal filosofo, perché il valore del pensiero è per Marx quello di realizzare la condizione per un’azione efficace a trasformare la società e il mondo; e per riferimento al carattere precipuo della filosofia di Marx, mi parve di doverla definire come l’età dell’espansione dell’ateismo. Preferirei oggi, per indicare la stessa cosa, parlare d’epoca della secolarizzazione, servendomi di un termine che ora è divenuto corrente. Secolarizzazione e dr O ateismo sono certamente le due facce della stessa moneta; ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che questa età vuol essere — processo verso una situazione in cui si possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e siccome qui si tratta di un’analisi interna di quest'epoca, prima che di un giudizio valutativo, qui è la ragione della mia preferenza. Ora se l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir definita come epoca della secolarizzazione, l’inizio non può essere cercato che nell’opera di Lenin; quindi, davanti a una rivoluzione che nell’intenzione è mondiale, non mi sembra possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente europea e parlare di un’«epoca del fascismo». Bisognerà invece parlare del «momento fascista» dell’epoca della secolarizzazione. Credo inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti come necessaria. Nell’epoca della secolarizzazione noi possiamo distinguere un periodo che si può dire sacrale (in relazione al fenomeno delle religioni secolari, che accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo profano; a un dipresso, e con l’approssimazione necessaria delle date, possiamo dire che il primo si chiude con la morte di Stalin. Fascismo e nazismo appartengono interamente al periodo sacrale; fenomeno nuovo che caratterizza in maniera precipua il periodo «profano» è la società opulenta. Anche qui azzardando un'ipotesi, mi pare si possa dire che Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione dell’Action francaise rispetto al radicalismo e quella del nazismo rispetto al comunismo. Non vorrò negare che la simmetria vi sia, ma, appunto, soltanto una simmetria; è infatti altrettanto impossibile vedere nel nazionalsocialismo la continuazione e lo svolgimento dell’Aczion frangaise che nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più, mi sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando deve trattare del termine medio tra Action francaise e nazismo, cioè del fascismo propriamente detto. Nel considerarlo, infatti, egli accentua, molto giustamente, i tratti segnati da un persistente influsso marxista, e le curiose affinità tra Mussolini e Lenin. Si avrebbe dunque, nel momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel momento iniziale (Action francaise) e di nuovo scompare nel momento conclusivo nazionalsocialista. E, allora, non è almeno singolare definire l’intera epoca con il termine di fascismo? Siamo con ciò arrivati al punto veramente centrale: se si possano sussumere sotto il comune concetto di controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro la trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti e nazionalisti, che più o meno si richiamano tutti all’ispirazione dottrinaria dell’Action francaise, come il fascismo e il nazismo, in modo che si possa parlare di una stessa essenza, che si è specificata diversamente a seconda delle condizioni culturali ed economiche dei Paesi in cui si era realizzata, o se invece l’attenzione debba prevalentemente venir portata sulle differenze. Se ci si mette in questa seconda via si delineano poi due diverse possibilità interpretative. Si devono distinguere qualitativamente i movimenti nazionalisti dal fascismo e dal nazismo, riconoscendo però una stessa essenza a questi due ultimi fenomeni? 2) Si deve invece parlare di fascismo e di nazismo, come di fenomeni per essenza diversi? Come si vede, il punto più delicato, e quello che ora cercherò di affrontare, è proprio quello di assegnare il punto giusto al fascismo italiano: che alcuni associano al nazismo, mentre altri sono proclivi a considerarlo come una semplice variante dei regimi autoritari. La distinzione così di fascismo come di nazismo dal nazionalismo propriamente detto può essere stabilita facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un'eredità, quest’eredità essendo per lo più legittimata per rapporto a valori trascendenti, anche se poi vi sia la tendenza a vederli soltanto nella funzione di legittimare un’eredità (per ciò si può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di un’inesatta idea della tradizione). ! Il fascismo concepisce invece la nazione non più come un'eredità di valori, ma come un divenire di potenza. A diversità del nazionalismo, la storia non è concepita come una fedeltà, ma come una creazione continua che merita di rovesciare nel suo passaggio tutto ciò che le si può opporre. Si tratta, del resto, di una distinzione su cui spesso ebbero a insistere Hitler e Goebbels, che riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato il primo movimento che avesse combattuto marxismo e comunismo da un punto di vista non reazionario; * sta in ciò la ragione della devozione indubbiamente sincera che Hitler mantenne sempre per Mussolini. Assai più che i tratti comuni importano però le differenze. In quello stesso libro sostenevo che il fascismo deve essere storicamente definito come la piena realizzazione e il completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che ha accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx (o pensandola come una posizione contraddittoria di spirito rivoluzionario e di materialismo); e che la biografia di Mussolini è il miglior documento per lo studio dell’idea di rivoluzione totale sganciata dal materialismo marxista e connessa invece col clima di pensiero dominante in Europa nei primi decenni del Novecento. La successiva biografia di Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee che avevo allora accennato, mi pare offrirne la conferma. Rispetto alla caratterizzazione del fascismo, tre mi sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir portata l’attenzione: che fu fondato da colui che giustamente può essere considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra mondiale, del comunismo europeo; che l’ascesa di Mussolini ha temporalmente coinciso con quella della cultura idealistica, che l'avvento del fascismo ha coinciso con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi è una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e dell’altra; che questa cultura idealistica italiana prende inizio da quella prima grande disputa sul marxismo teorico, che segna l’europeizzarsi della cultura italiana. Non si può, insomma, intendere Mussolini al di fuori della misteriosa vicinanza e lontananza insieme che lo collegava alla figura di Lenin, punto ben visto da Nolte, ma non sufficientemente approfondito. Il mistero della lontananza viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a quella distinzione tra il vivo e il morto in Marx che la cultura idealistica italiana aveva definito, che Mussolini aveva di fatto accettato, e Lenin, nella sua riaffermazione dell’unità inscindibile tra materialismo radicale e azione rivoluzionaria, rifiutato. La vicinanza a Lenin è stata assai bene illustrata da Nolte: «Se per comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi da quella riformistica, disposta alla collaborazione, del partito socialista, Mussolini può essere a ragione definito il primo e, da un certo punto di vista, l’unico comunista europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi europei la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del bolscevismo russo, formatosi, nei limiti di una situazione affatto diversa. In ogni caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi del comunismo italiano postbellico egli fu anche il promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della vittoria fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è tentato di contrapporre alla sua ortodossia marxista, non è che l’espressione teoretica della sua intransigenza. Tale volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente contro la teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del decorso spontaneo. Dove è giusto parlare di analogia, non di ortodossia marxista. Il «volontarismo» di Mussolini non è la «dialettica» di Lenin; è il rifiuto del materialismo marxista, in relazione alla generale critica allora corrente del materialismo naturalistico e del positivismo evoluzionista. Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa diventa l'atteggiamento rivoluzionario — inteso nel suo senso più rigoroso, come sostituzione della politica alla religione nella liberazione dell’uomo — quando venga totalmente sganciato dal momento materialistico e dall’utopistico? L’essenzialità del materialismo a quella che giustamente è stata detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova prassi della filosofia» di Lenin, autentico definitore su questo punto del significato del pensiero marxista, è, oggi, assai chiara. Sotto un primo riguardo il momento materialistico significa la sconsacrazione dell’ordine che si deve abbattere; sotto il secondo assai più importante — che implica la conservazione, e non la semplice negazione, del pensiero utopistico nel pensiero rivoluzionario è intrinseco alla finalità rivoluzionaria stessa, in quanto diretta all’instaurazione di una nuova idea dell’uomo, materialistica nel senso che è separata da ogni traccia del divino, in quanto il pensiero dell’uomo è praxzs, attività sensitiva umana, pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla oltre la sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e radicale materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo. Separato dal materialismo, lo spirito rivoluzionario si converte in una specie di mistica dell’azione, in quel che si suol dire con un termine diventato logoro perché sciupato nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»; tensione verso un’azione che è voluta per sé, come semplice trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine, con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di dar significato all’azione, sono pensati valere soltanto come strumenti che possono promuoverla. Ma non basta: la logica che gli è intrinseca lo porta anche alla negazione della personalità degli altri, alla loro riduzione a oggetti; dato il conferimento del valore alla pura azione, gli altri soggetti cessano di essere fini in se stessi per diventare puri strumenti e ostacoli. Questo disconoscimento è però altra cosa dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del disconoscimento morale si tratta di un rifiuto pratico di eseguire quel che la legge morale comanda; nel caso, invece, dell’attivismo si tratta di una prospettiva totale per cui gli altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più senso parlare di doveri morali nei loro riguardi. Come definire quest’attitudine? Io proporrei il termine di solipsismo, e personalmente sarei portato a credere che l’unico senso preciso che si possa dare alla nozione di solipsismo sia questo; insostenibile come posizione teoretica, il solipsismo è possibile come atteggiamento vissuto. La totale spersonalizzazione che l’attivismo include porta a togliere alla realtà l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra che essa non esista che nella mia azione, come ostacolo che proietto davanti a me per superarlo. Sul termine si potrà discutere; ma è comunque certo che all’azione di Mussolini non si addicono la qualificazione di anarchica, perché resta sempre che l’anarchismo cerca l'abolizione del potere, e invece Mussolini la sua conquista, né quella di reazionaria, perché non si può rintracciare la tradizione che Mussolini abbia riaffermata e difesa; né, ovviamente, di giacobina e di comunista. A me pare che partendo da una fenomenologia dell’attivismo diventino comprensibili quegli aspetti contraddittori che rendono così difficile, come De Felice ha giustamente notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini! Perfettamente De Felice ha parlato di un miscuglio di personalismo, di scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se medesimo e al tempo stesso di sfiducia nell’intrinseco valore di ogni atto, e, quindi, nella possibilità di dare all’azione un significato morale, un valore che non fosse provvisorio, strumentale, tattico. Partiamo dal primo, dal personalismo. Bene Cantimori lo ha delineato. Questo senso della potenza, questa volontà di predominio che lo fa identificarsi spontaneamente con la sua patria, questo fortissimo protagonismo politico, diventa, nei momenti della lotta più aspra per un’affermazione della propria volontà, consapevolezza e affermazione della propria individualità... e questa consapevolezza di sé, questo esser continuamente presente, cosciente della propria volontà e della propria individualità, continuerà sempre: l’identificazione spontanea con il proprio popolo si articola sempre più attraverso tale consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in dominio, in compiacimento per la disciplina e obbedienza ottenute». Per sé, l’identificazione con la causa del proprio popolo caratterizza ogni politico ed è da essa che questi trae la propria forza; ma in Mussolini si compie in una volontà di predominio, in un protagonismo politico che è consapevolezza e affermazione della propria personalità; che altro può significare questo se non un’identificazione che si opera a rovescio di quella dei grandi politici attraverso una specie di assorbimento, per così dire, del popolo in sé? Di qui quei caratteri che sconcertarono quegli uomini della vecchia generazione politica che furono in rapporto con lui: l'esclusivo e feroce culto di se medesimo, l'eccezionale energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e il male, il nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui è da aggiungere: se si potesse ridurre la personalità di Mussolini a questo semplice immoralismo, neppure si potrebbe intendere il suo successo. In realtà, nella disposizione attivistica abbiamo una singolare coincidenza di moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di autotrascendimento di sé nell’azione; immoralismo, nel disconoscimento della personalità morale degli altri. Qui è anche la radice ultima dell’antiliberalismo fascista, se il liberalismo è caratterizzato dal rispetto dell’altrui persona. Si spiega pure il tratto, su cui particolarmente aveva insistito Gobetti, del suo tatticismo e trasformismo: l’assenza della finalità ultima dell’azione gli concedeva infatti una disponibilità massima per ogni tatticismo e trasformismo, ma al tempo stesso gli vietava di dare all’azione un valore che non fosse appunto provvisorio e tattico. Di qui l’altra contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che come creatore, mentre di fatto la sua azione non poteva esplicarsi che come distruttrice. Per la radicalità di questa azione distruttiva, pensiamo infatti al posto che gli verrà dato, tra qualche decennio, nei manuali di storia: c'era una realtà storica nuova, il Regno d’Italia, e fu Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto questo rapporto, veramente l’antiCavour. Si intende anche l’osservazione acuta di Gramsci per cui Mussolini non poteva essere un «capo»; ciò, però, non già perché vi si debba vedere quel che Gramsci pensava, «il tipo concentrato del piccolo borghese italiano», ma in ragione proprio della sua disposizione attivistica. Costretto da essa a trattare gli altri come forze, veniva a sua volta visto dagli altri come una forza di cui disporre. Da ciò anche la continua minaccia di restare prigioniero delle forze con cui si alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste forze con altre; onde la sua continua politica di compromessi e di contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non si davano per tali. Onde perfettamente De Felice ha scritto che «credendo così di essere l’arbitro di tutto, non si accorgeva che, di compromesso in compromesso, il suo margine di autonomia si riduceva sempre più e che la logica delle cose, dei problemi di fondo rimasti senza soluzione, lo soffoca progressivamente, e lo riduceva a un piccolo Laocoonte che appariva forte solo perché poteva gonfiare i muscoli, ma era irrimediabilmente stretto in un groviglio di spire che lentamente lo avrebbero soffocato. Si intende pure la sua sfiducia negli uomini, la sua incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi il ricorso al pessimismo di MACHIAVELLI per sentire questa solitudine come forza; per questo riguardo il suo Preludio a MACHIAVELLI è tra le pagine che meglio illuminano la sua personalità. Né c’è difficoltà a intendere come potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine di parlare al popolo e di trascinarlo in quanto massa, e l’incapacità di colloquiare con gli uomini in quanto singoli, e di giudicarli. Perciò ebbe su di lui tanta presa la lettura della Psicologia delle folle di Le Bon; gli rivelava i meccanismi che determinano il comportamento collettivo, lo istruiva nella tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei suoi interventi. Diventa pure chiara la sua incapacità di formare un’élite e di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché questi uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo essere le coscienze più diritte. Questi non sono che esempi che ho addotto per proporre un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico, in Mussolini la personalità solipsista allo stato puro. Con l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei tratti psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la psicologia di Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà dalla sua iniziale scelta per l’attitudine rivoluzionaria, pensata come contraddittoria col materialismo; dalla irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della posizione rivoluzionaria. È a questo punto che deve esser posto il problema del rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna però guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e ignoranza di Mussolini; discorso che si traduce poi in quell’ordinario ritratto che lo rappresenta come un semplice demagogo, sia pure con qualità, in questo genere non comuni; o nell’altro che vi vede l’esemplare dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni cambiamento, a seconda della possibilità di successo; di cui poi è specificazione quello del traditore o del transfuga, o rispetto al socialismo o all’interventismo democratico. Certo, non poté incontrare i problemi culturali che da politico; e pensò contro certe idee che trovava incarnate in posizioni politiche, e aderì a certe vedute culturali piuttosto che ad altre, in relazione a questa polemica politica. Una volta che si è detto questo, si deve vedere quali pensatori abbia dovuto incontrare e domandarsi se abbia verificato nella pratica, e quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di pensiero. Il termine della sua polemica è chiaro: si tratta del socialismo riformista e della cultura che lo accompagnava; del marxismo ripensato nella cultura positivistica di fine Ottocento, e diventato un consiglio di prudenza ai rivoluzionari. Perciò anch’egli fu detto e si disse volentieri idealista perché «aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò a infondere al socialismo una nuova anima, adoperando la teoria della violenza di Sorel, l'intuizione di Bergson, il prammatismo, il misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni era nell’aria intellettuale e che pareva a molti, idealismo. È il noto giudizio di Croce, non inesatto, ma tuttavia generico, e che per questa genericità rischia di sviare. Maggior significato si deve dare alla rievocazione, singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini illustra a De Begnac il processo che l’aveva portato più di vent'anni prima alla fondazione dei Fasci di combattimento. Le guide spirituali erano rimaste indietro di mille anni a noi che avevamo sofferto l’esperienza della lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta mesi una sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma pochissimi erano culturalmente in grado di comprendere il suo discorso. Gli economisti riaprivano il nostro animo ad un qualche interesse alla vita. VITI, MARCO, EINAUDI, RICCI e, soprattutto, PANTALEONI e Pareto. Sorel sembrava appartenere ad altra età, ormai. GENTILE preparava la strada a chi come me avesse desiderato camminare su di essa. Certamente, si tratta di una veduta retrospettiva: è difficile pensare che Mussolini abbia guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico. Suggerisce però una veduta importante, anzitutto come indicazione dei limiti che si devono dare all’influenza di Sorel su Mussolini: al momento in cui il Mussolini «fascista» succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei protagonisti della disputa italiana sul marxismo teorico, CROCE e Sorel, non gli parlavano più. Mentre invece la sua veduta sul momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la veduta affermata dal Gentile scrittore politico non si può separare in alcun modo dalla sua filosofia; e questa a sua volta (pongo qui una tesi che non posso ora dimostrare con la precisione sufficiente, ma che tuttavia penso possa venir largamente accettata) deve venire storicamente vista come l’epilogo più rigoroso di quella disputa. Dobbiamo perciò passare qui a definire il senso dell'incontro di Gentile e Mussolini. Presenta certo degli aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse per il Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di un’influenza di Nietzsche, come pure degli altri autori che possono aver esercitato un’influenza su Mussolini: Sorel, Pareto, Le Bon. Genericamente possiamo dire che fu un incontro per negazioni: per un verso l’attualismo gentiliano era travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre per l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a modellare e a prospettare un movimento politico; di più, nel riguardo delle forme politiche esistenti, pronunziava le stesse negazioni che pure pronunziava il fascismo. Mentre il fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva bisogno di una legittimazione culturale. Facilmente si è portati da ciò al pensiero di un'illusione del filosofo, accortamente captata dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e la conclusione inesatta. Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini come Gentile possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è strettamente simile. È giudizio ormai corrente che quel primo lavoro che fu dedicato, nel mondo intero, alla filosofia di Marx da Gentile (La filosofia di Marx) non è affatto un episodio marginale della sua opera. Si può infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo definire il senso dell’adesione di Gentile al fascismo. È una posizione che deve venir vista come unica, perché non si può ascriverla a quella dei tanti fiancheggiatori di ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile che aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra storica), e meno che mai, si intende, a quella dell’intransigentismo diciannovista. Fu egli l’unico a vedere in Mussolini non già una forza atta a servire o per il consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo costruito a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace di compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini, che decise la sua adesione alla repubblica sociale, O l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi secoli, debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma ultima di questa sua interpretazione. Anche quando tutto indicava che il fascismo stava per concludersi in una catastrofe, Gentile non poteva staccarsene: per una coerenza intellettuale, ancor prima che per l'impegno a restar fedele nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel momento della fortuna. Per intendere la natura del suo consenso converrà prender le mosse dallo saggio su Origini e dottrina del fascismo. La data è molto importante. Esso appare dopo che il fascismo aveva rotto definitivamente con il liberalismo prefascista e dopo che Croce non soltanto si era messo all'opposizione, ma dopo che aveva ragionato i motivi di questa nella Storsa d’Italia. Il primo paragrafo si intitola Le due anime del popolo italiano prima della guerra, e contiene un’interpretazione estremamente significativa dell’interventismo e della partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde perché «c'erano nell’anima italiana due correnti affatto diverse, e quasi due anime irreducibili, che combattevano da quasi due decenni e si contrastavano il campo accanitamente, per riuscire a quella conciliazione che richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare del vinto, quel che è conservabile». La partecipazione italiana alla prima guerra mondiale è sentita essenzialmente come rivoluzione; la guerra è lo strumento perché la parte risorgimentale possa vincere sulla parte non risorgimentale: entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la nazione, dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e la Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e militari, se non economici, che queste annessioni avrebbero potuto arrecare... In guerra bisognava entrare per cementare una volta nel sangue questa Nazione formatasi più per fortuna che per valore dei suoi figli... Cementare la Nazione, come può fare soltanto la guerra, creando a tutti i cittadini un solo pensiero, un solo sentire, una stessa passione, una comune speranza... Cementarla, questa Nazione, per farne una Nazione vera, reale, viva, capace di muoversi e di volere, e farsi valere e pesare nel mondo, ed entrare insomma nella storia, con una sua personalità, con una sua fisionomia, con un suo carattere, con una nota sua originale, senza più vivere d’accatto sulle civiltà altrui, e al’ombra dei grandi popoli fattori della storia. Crearla dunque davvero questa Nazione, come soltanto è possibile che sorga ogni realtà spirituale: con uno sforzo attraverso il sacrifizio. Abbiamo qui il passaggio dall’impostazione democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per la libertà delle Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme del saggio è estremamente interessante per far cogliere la rottura tra l’interventismo democratico e l’interventismo fascista; insomma, tra il fascismo e quello che successivamente prenderà nuova forma come Partito d’azione. Com’erano definite queste due Italie? «I neutralisti stavano per il tornaconto e gli interventisti per una ragione morale, non tangibile, non palpabile, non pesabile sulla bilancia. La prima parte era per Gentile quella dell’Italia giolittiana, la seconda dell’Italia mazziniana; ed è appunto nella continuazione di Mazzini che avverrebbe per Gentile il suo incontro con Mussolini. Mazziniano (quest’ultimo) di quella tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella sua Romagna, egli aveva già superato, prima per istinto e poi per riflessione, attraverso una giovinezza travagliata e pensosa, ricca di esperienza e di meditazione, nutrita della più recente cultura italiana, tutta l’ideologia socialista. Particolarmente importante è quanto vi è detto sulla separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che per il nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la volontà e la personalità dell'individuo, perché concepita come obiettivamente esistente, indipendentemente dalla coscienza dei singoli; esistente anche se questi non lavorino a farla esistere, a crearla. L'individuo nel nazionalismo diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il suo antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve vivere e deve morire; mentre per il fascismo lo stato e l'individuo si immedesimano, o meglio sono termini inseparabili di una sintesi necessaria». In breve, quel che caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da cui proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori. Abbiamo in una certa maniera un Gentile che si inserisce nello sviluppo del fascismo per contenderlo a conservatori, nazionalisti e tradizionalisti? Lo stesso atteggiamento viene da lui assunto nei riguardi della monarchia; nel nazionalismo essa era un presupposto in quanto faceva parte del processo di formazione storica della nazione italiana. E viceversa per Gentile «tutto che pareva già in essere, e quasi un legato ereditario, si trasfigura in una nostra personale conquista, che svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne siamo gli autori». Sarebbe totalmente errato ridurre questo saggio a un puro scritto di circostanza, e ciò perché la visione del Risorgimento che Gentile vi afferma è in continuità diretta con quella già delineata addirittura nei suoi primissimi scritti, espressa già nella prefazione a SERBATI e Gioberti; e SERBATI e Gioberti e La filosofia di Marx sono due libri inseparabili. Gentile era ossessionato dal termine di «riforma» al modo in cui Marx lo era stato da quello di rivoluzione. Riforma della dialettica, riforma della scuola, riforma dello stato, ecc.; ma il termine di riforma significava per lui non già rettificazione di un ordine costituito, ma nuova forma attraverso cui il passato deve essere restituito a nuova vita; è più prossimo cioè a quello di rivoluzione che a quello di riforma ordinariamente inteso. E la sua filosofia è veramente inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica, continuazione in certo senso di quella riforma cattolica giobertiana in cui già si trovano tutti i motivi del modernismo; né ha senso per lui come puro sistema speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli è l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una linea che va da BRUNO a Gioberti, né del resto egli presentò la sua filosofia in altro modo; e in certo senso può anche venir detto l’ultimo dei risorgimentali. Gentile curiosamente ritrova la figura del filosofo politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e Gioberti e su Marx. Studi, il cui senso complessivo può essere espresso nella formula che segue: il marxismo separato dal materialismo e il giobertismo separato dal platonismo, e perciò immanentizzato, si identificano. Da ciò era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento che si ricollegava a quella di Gioberti nella forma di continuazione e di approfondimento; di un giobertismo particolare, però, per cui l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva affermare l’attualità di Mazzini dopo Marx. Col che si stabiliva pure una curiosa analogia tra Gentile e Marx; si può dire che come Marx pensa alla rivoluzione francese come rivoluzione compiuta, così Gentile pensa al Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto. Dal mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità di religione e di politica, seguiva quella serie di negazioni che coinvolgeva, oltre l’intero sistema giolittiano, anche lo stesso nazionalismo. Procedendo per accenni, è importante osservare quale scossa avesse rappresentato per lui la Prima guerra mondiale, e particolarmente Caporetto che gli parve segnare il crollo dell’Italia post-risorgimentale, e quel che seguì, in cui egli ravvisò la rinascita dello spirito risorgimentale. Ebbe allora l'impressione che le cose venissero a lui, confermando la sua veduta filosofica e permettendone la realizzazione, onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e la marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e Dopo la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi di religione, in cui l'accento cade sull’impostazione di una politica religiosa. Possiamo così renderci conto della necessità dell'incontro. Era naturale che Gentile pensasse che come egli, a partire dalla critica teorica di Marx, aveva incontrato il pensiero risorgimentale, lo stesso dovesse avvenire per Mussolini a partire dalla critica politico-pratica del marxismo.” Si vede dunque come, in sede di un giudizio storico e non moralistico e polemico sul fascismo, la questione delle illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima non debba esser posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il maggior filosofo italiano del tempo. D'altra parte non può non essere senza significato il fatto che le stesse critiche fondamentali mosse contro l’attualismo, di attivismo e di solipsismo, servano come criteri storici essenziali per intendere la natura del fascismo. Mi si può domandare: se è facile ricostruire l’idea che Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che Mussolini si formò di Gentile? È un tema, questo, che non è stato ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può pensare che egli non abbia troppo gradito di venir considerato come lo strumento di una riforma religioso- politica pensata da un altro, e di cui neppur bene afferrava i termini; e ho già detto della sua incapacità di vere amicizie. Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del Fascismo; così mi è sembrato molto significativo quell’accenno nella conversazione con De Begnac, avvenuta in un momento in cui Gentile non era certo troppo in auge. Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che così. Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il fascismo, secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione rivoluzionaria, di origine marxista, quale doveva diventare dopo aver accettato i risultati di quella critica del marxismo teorico che fu svolta in Italia negli ultimi anni dell’Ottocento e di cui l’attualismo può essere considerato la conclusione filosofica. Naturalmente, questa definizione non concerne che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente a spiegare la sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si sarebbe data senza una serie di occasioni storiche: la guerra mondiale, il modo in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la trasfigurazione della battaglia di Vittorio Veneto nel mito della vittoria mutilata, la rivoluzione russa, il biennio rosso, ecc. Come si inserisce in quella che prima si è chiamata l’epoca della secolarizzazione? Sotto questo riguardo deve essere definito come alternativa al leninismo (al leninismo, si badi, non allo stalinismo; anche se lo stalinismo e il richiudersi della Russia in se stessa potevano sembrar confermare la validità della soluzione fascista). Ma il termine alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due sensi: quello di opposizione assoluta, o quello di inveramento, in una forma adeguata a un paese di civiltà e di cultura superiori alla russa; non dell’Italia soltanto, anzi, se Mussolini poté pensare a una prossima fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in questo secondo senso che Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la differenza tra fascismo e nazismo. Due uomini si contendevano nel mondo la pretesa di incarnare la vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente sincero. Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua giustificazione storica, nel senso di condizione della sua possibilità, nel fatto che il marxleninismo non ha potuto realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha dovuto arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni. Il constatare però che il fascismo sia fallito come rivoluzione non equivale a dire che debba esser considerato come fenomeno reazionario; né a giustificare i giudizi secondo cui Mussolini avrebbe deliberatamente ingannato sin dagli inizi, servendosi come copertura di una fraseologia rivoluzionaria. Ma la considerazione dell’esito non può servire come criterio per la definizione dell’inizio. Chi, per esempio, dice che il comunismo è fallito perché ha portato a una nuova classe, più oppressiva di ogni altra, non vuol certamente dire con questo che il comunismo sia sorto in un’intenzione reazionaria. Perciò, se è inesatto parlare di fascismi, altrettanto lo è il giudizio che la loro catastrofe coinvolga quella degli ideali tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta; giudizio, il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche. Quel che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo propriamente detto coinvolge, è la linea dei riformatori religioso-politici italiani, linea unitaria che è insieme antiprotestante e in posizione eretica rispetto al cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile, al tentativo di inveramento idealistico del marxismo. AI solito, si risponderà che nessuno pretende realmente affermare che la caduta del fascismo coincida con il crollo degli ideali tradizionali; ma questo significa soltanto che nessuno ha potuto seriamente dimostrare che l’affermazione di tali ideali sia legata direttamente alla politica fascista; non che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso livello, non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la sua caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del nuovo mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è sempre considerato come un fascista più o meno consapevole, o quasi sempre inconscio; e «fascismo» è fatto sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare a simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono ben certo che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto che la formula di resistenza contro la trascendenza facilmente si cangia a livello inferiore, in quella di «spirito di repressività. Per il significato di quanto ho detto, valga un esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia trovato un sostegno valido in quella parte del mondo cattolico che più era avversa al modernismo; e in realtà, si può ben ammettere che un'illusione vi fu, in molti dei suoi componenti; obbedienti a quella visione cattolica dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una condanna globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in ciò la critica del modernismo, e che effettivamente e prevalente (come dimenticare che diede anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro il fascismo combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e il socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta, lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se questo è vero, occorre però aggiungere che si trattò, per costoro, di un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo caddero troppi (si pensi a Croce per i primi anni), sicché una storia completa del fascismo sarebbe in gran parte la loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto facile: quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega come quasi nessuna figura di rilievo della storia italiana del nostro secolo non si sia, per un momento almeno, illusa su di lu (anche Salvemini e Gramsci, al tempo dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può essere considerato come il più coerente dei modernisti (in polemica con altri modernisti per questa sua coerenza)? sia stata intellettualmente obbligata. È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come interiormente obbligata l'adesione dei tradizionalisti, di qualsiasi parte, e invece scusabile perché motivata da illusioni quella degli assertori dello spirito di modernità. E proprio contro quest'idea, solidificatasi ormai come abitudine mentale, che il presente discorso è diretto. Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità sia sempre sinonimo di poszzività. Idea, se ben si osserva, che è intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa conferisce un significato magico, di parola-forza, al termine rivoluzione; oggi quasi sempre, come perfettamente osserva Monnerot, «la parola “rivoluzione” è presa en donne part; quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca. Re: Gentile e Gramsci, alcune premesse sono necessarie. In che senso dico prego intendere quanto scrivo alla lettera che il pensiero di Gentile rappresenta una svolta di capitale importanza nella storia della filosofia, in un senso la più importante del Novecento, e lo dico senza essere per nulla gentiliano? In quello che ha portato all'estremo non soltanto, come normalmente si dice, l’idealismo o la sua forma soggettivistica, ma la filosofia del primato del divenire, chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che si trovano, portate all'estremo, tutte le possibili linee del pensiero antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, il rapporto di necessità che intercorre tra la coerenza rigorosa della filosofia del divenire, e la più radicale negazione della metafisica. Parlare perciò di una svolta gentiliana della storia della filosofia» significa questo: la sua considerazione ci permette di giudicare tutte le forme di pensiero antimetafisico anteriori o successive, e di motivare le ragioni per cui non possono venire affermate dopo l’attualismo. Con l'aggiunta: il suo pensiero si svolge interamente entro la filosofia del primato del divenire; perciò, se si pensa concluda in uno scacco, permette anche di definire, facendola almeno intravedere controluce, quella sola linea in cui il pensiero metafisico può venire ripresentato! O, in altre parole: la sua grandezza resta identica, per la svolta che condiziona, sia che si parli di successo come di scacco. Che la mia persuasione sia la seconda, non ha ora importanza. La rivendicata «classicità» di Gentile, dopo un lungo periodo di oblio, non significa perciò che il suo pensiero appartenga al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue prime opere che, per la loro data, possono essere considerate come i due ultimi grandi libri di filosofia apparsi nell'Ottocento, e in cui tutto il suo pensiero successivo si trova già virtualmente precontenuto, Rosmini e GIOBERTI e La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta come la sua filosofia, suscettibile di essere definita, se vista nell'angolo visuale della prima, come «la riforma cattolica giobertiana resa coerente attraverso lo hegelismo, rappresenti il punto ultimo, soltanto ora raggiunto da coloro che si definiscono nuovi teologi, del modernismo religioso. Per quel che riguarda la seconda ho già accennato — ma devo confessare che il mio pensiero al riguardo non era ancora, al tempo in cui ne scrissi, sufficientemente chiaro — alla sua definizione come punto ultimo a cui deve giungere lo svolgimento dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi; quindi come un oltre-marxismo rispetto a cui il marxismo non si trova nella possibilità di rispondere. Si dirà che, la sua fortuna anche qui in Italia — e si era trattato, del resto, di un successo che aveva avuto scarsa eco oltre frontiera — è andata costantemente declinando rispetto a quella di Heidegger, e che l’arretramento è avvenuto senza resistenza: sintomo, questo, di cui è superfluo sottolineare l’estrema significatività. È vero, ma, se ben si guarda, la visione heideggeriana della storia della filosofia, quale emerge dal libro su Nietzsche, coincide singolarmente con quella proposta da Gentile, ma con segno rovesciato: è, cioè, letta come processo verso il nichilismo. In questo senso, penso sia possibile dire che la filosofia di Heidegger è la verità della filosofia di Gentile, quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la filosofia di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua eccezionale importanza attuale; è attraverso il suo studio che possiamo renderci conto della profondità della crisi del pensiero teologico-metafisico e delle sue radici. D'altra parte, la posizione di Gentile (e di Gramsci) nello hegelo- marxismo può apparire ulteriore a quella di Lukdcs. Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di Heidegger come versione del suo pensiero in forma di filosofia speculativa; per sottrarsi deve tornare, come fa nell’introduzione alla nuova edizione della sua opera principale Storia e coscienza di classe, al materialismo dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di pensiero nella cui critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno dei convergenti punti di partenza dell’ attualismo. Tratterò in questa occasione della questione seguente: se la proposizione: «La filosofia di Gentile è il punto ultimo dello svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia della prassi», sia suscettibile di dimostrazione. Ci troviamo per affrontarla in una posizione privilegiata in ragione dell’esistenza dell’opera del «marxista dopo la filosofia dello Spirito», Gramsci. Uso il termine filosofia dello spirito, invece di altre sigle — neoidealismo, neohegelismo, eccetera — come perfettamente adeguato rispetto alle negazioni che lo specificano. Quella filosofia italiana che genericamente viene detta idealistica, e che è la prima filosofia dopo Marx che sia sorta nel mondo facendo inizialmente i conti col marxismo, non può infatti venir caratterizzata altrimenti che come «filosofia dello Spirito»: contro la metafisica per la negazione dell’intuizione intellettuale, contro il positivismo, per la sua subordinazione alla metafisica, che lo costringe a esprimersi come naturalismo. In questo senso generale la filosofia dello spirito abbraccia così l’opera di Croce come quella di Gentile. Il rapporto col marxismo è patente: al modo del Marx filosofo, CROCE e GENTILE rifiutano così Platone come Democrito, così l’idealismo metafisico come il materialismo naturalistico. Per raggiungere la piena coerenza in questo assunto, rifiutano anche il materialismo di Marx. Il successo del neomarxismo in Italia dopo la «filosofia dello Spirito» non può quindi venir inteso come un accidente, dato che è la riapertura di un problema interno al suo processo di costituzione. Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol essere la riaffermazione di Marx dopo la filosofia dello spirito, correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si rendeva necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di vittoria sul marxismo, all’interno della riforma dello hegelismo. Vuole portare cioè il marxismo al massimo rigore critico, liberandolo da tutte le incrostazioni positivistico-naturalistiche, o paleomaterialistiche o giusnaturalistiche o neokantiane. Il suo problema è rigorosamente filosofico, dato che la vittoria del marxismo è legata per lui alla prova della sua verità filosofica. Rivoluzione e filosofia vera fanno per lui tutt'uno. Si può enunciare perciò il suo problema nei termini seguenti: come la rivoluzione mondiale, perché totale, è possibile? È noto come su questo neomarxismo circolino due giudizi opposti. Per il primo sarebbe la forma più rigorosa che il marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica che possa dar luogo a una prassi politica capace di portare al successo i partiti comunisti occidentali. Per il secondo sarebbe una sorta di marxismo diminuito, accompagnante il processo di dissoluzione della rivoluzione come sua involuzione borghese, condizione dell’affermarsi della nuova classe borghese quale che possa essere il successo del suo partito, giudizio che fu portato alle conseguenze estreme da un comunista non secondo a nessuno per integrità morale, BORDGIA (si veda). Entrambe le vedute sono vere; ma quel che può sembrare paradossale e curioso (ma si dimostrerà come non lo sia) è che la prima è vera per il non marxista e non comunista, la seconda per i marxisti e comunisti autentici. Per anticipare brevemente quel che è il mio punto di vista, dirò che vedo nel gramscismo non già il marxismo contagiato da influenze filosofiche estranee, ma la sola forma in cui esso può riaffermarsi dopo la «filosofia dello Spirito»; questa posizione non può però venire assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà storica a cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel PRINCIPIO SPERANZA. Ma, d’altra parte, è inutile cercare dopo Gramsci un miglior» marxismo, a cui corrisponda una più adeguata politica. Ricordiamo per brevissimo accenno le tesi del marxismo antigramsciano. Esse hanno a punto di partenza i giudizi di chi prende posto nella storia contemporanea come il più intransigente moralista in nome del marxismo letterale e del comunismo nella sua versione ideale, BORDIGA (si veda), e hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno dei migliori libri che sul pensatore sardo siano stati scritti, quello del marxista eterodosso Riechers. Riechers, che pure non mostra di avere una conoscenza approfondita del pensiero gentiliamo (al punto di accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del marxismo a quella di Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano teorico critica Gramsci per aver sostituito al materialismo marxiano un idealismo soggettivo di stampo kantiano-fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui corrisponderebbe sul piano politico una curiosa vicinanza al fascismo di sinistra. Scrive, infatti: «Questi fascisti di sinistra la maggior parte dei quali confluì dopo la fine del dominio fascista nel socialismo e nel comunismo, hanno soltanto da sostituire l'attributo fascista con quello di democratico, socialista o comunista, per scoprire negli scritti di Gramsci una posizione analoga alla loro. Tolto il tono polemico, la frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo di Gramsci appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo, di cui fascismo e postfascismo sono momenti che si avversano mortalmente, ma nello stesso orizzonte; e lo stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio degli antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un errore perché partecipa dello stesso errore. Orbene, uno studio approfondito di Gentile può perfezionare la tesi del Riechers, portandola a un altro significato che coinvolge la critica anche dell’eterodossia marxista. La questione che ho proposto mi porta a una serie di tesi la cui enunciazione può sembrare sconcertante, anzi stupefacente. Soltanto la discussione del tema Gentile-Gramsci ci mette in grado di formulare adeguatamente le categorie interpretative della storia contemporanea. Con la sua discussione giungiamo al momento conclusivo di quella che suol venir detta interpretazione transpolitica della storia contemporanea, cioè quella che privilegia, in detta storia, come l’essenziale, il momento filosofico; o che è attenta al parallelismo tra filosofia e politica come tratto nuovo che la specifica. Possiamo parlare in questo senso di un paradigma italiano, decisivo per una lettura veramente adeguata di detta storia (dato che Gentile e Gramsci possono trovare spiegazioni soltanto nella storia del pensiero italiano). Si tratta, del resto, di paradossi soltanto apparenti. Il carattere che accomuna le filosofie di Marx e di Gentile è di essere, entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel senso della filosofia della prassi. Di questi svolgimenti, quale il più rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe le filosofie, e che è guidato dalla più ferma intenzione di riaffermare il marxismo, ci dà la possibilità di una soluzione rigorosa della questione. Ma perché ho parlato altresì delle categorie interpretative della storia contemporanea, e della possibilità di graduare, nella sterminata letteratura sull’argomento, il momento di verità delle varie tesi, solo a partire dalla soluzione di tale problema? Nel suo aspetto rivoluzionario la storia contemporanea non è altro che il passaggio alla realtà di queste due filosofie della prassi. La rivoluzione marxleninista e le sue eresie, per un verso; per l’altro, l’idea di una rivoluzione occidentale ulteriore alla rivoluzione russa, in quanto adeguata a paesi superiori per civiltà e cultura, o per essere più esatti, per grado di modernizzazione. Non a caso questa idea maturò soprattutto in Italia in relazione così al tentativo di riforma dello hegelismo come all’interventismo rivoluzionario (la guerra come rivoluzione, o per la rivoluzione) e incontrò la filosofia di Gentile, anche se assunse poi forme opposte fino alla morte (ma la lotta fino alla morte caratterizza pure le forme divergenti sorte sull’orizzonte del marxleninismo). Poniamo ora si riesca a dimostrare — ed è l’assunto che mi propongo — che il neomarxismo di Gramsci non è più marxismo nella misura in cui cede all’attualismo. Avremo che la politica che esso promuove prende posto in una rivoluzione ulteriore alla marxleninista, non già, cosa che Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui esplicitamente lavorò (da ciò il suo dissenso con lo stalinismo), perché il modello russo non può essere trasportato identico nei Paesi occidentali, ma perché 07 più marxista. La domanda che sorge è se, nonostante l'opposizione mortale, non si debba vedere una continuità tra il periodo fascista e il postfascista, come continuità di un processo di dissoluzione. In termini filosofici, se la filosofia del primato del divenire, dopo aver elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta al suo punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di processo verso il nichilismo. Trasportiamo la considerazione sul piano mondiale. Se l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della filosofia della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia, nel senso di strumento di potenza (ossia, Lenin ha trasformato il marxismo in ideologia). Perciò la rivoluzione che esso ha promosso ha dato luogo alla forma estrema dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico, con cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la forma filosoficamente più rigorosa, non realizza la rivoluzione, ma il suo opposto. Questo aspetto della storia contemporanea non deve però produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si osserva il fatto che la contraddizione della filosofia della prassi, come termine ultimo della filosofia del primato del divenire, non può esplicarsi che storicamente e praticamente. È In dipendenza delle considerazioni sinora svolte, la trattazione presente deve articolarsi in tre punti. Gramsci pensa di poter risalire da Croce a Marx, perché la filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito, di ritraduzione del marxismo in forma di filosofia speculativa. Ossia, egli pensa di aver compreso il segreto di CROCE. Questi aveva presentato l’avversario contro cui muoveva, ora come il positivismo, ora come la filosofia teologizzante, o anzi, come il genere filosofia senz'altro (con la proposta della sostituzione della metodologia alla filosofia), ora come l’irrazionalismo: Gramsci dice che è serzpre soprattutto il marxismo, e che quello di Croce è l’unico tentativo serio di vincerlo. Per cui, dopo il suo fallimento, il marxismo emergerebbe nella sua forma più rigorosa. In questa asserzione c’è del vero nel senso che la filosofia di Croce è una «ritraduzione in forma di filosofia speculativa di un’altra filosofia». Ma quest'altra filosofia è la filosofia della prassi di Marx o invece quella di Gentile? Si può dimostrare come sia questa seconda. Gramsci dunque, nel suo lavoro di «ritraduzione storicizzante» non incontra Marx, ma invece Gentile, pur credendo di incontrare Marx. Questa tesi può avere la sua riprova nel fatto che le novità del pensiero di Gramsci rispetto a Marx o rispetto a Lenin — novità che nessuno può negare — non possono trovare spiegazione come sviluppo del marxismo o del marxleninismo, mentre invece si accordano con la forma gentiliana della filosofia della prassi (rappresentano il cedimento rispetto a essa. Come può dunque Gramsci essersi illuso di aver ritrovato il marxismo, se anche un marxismo diverso dal marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera, anche dalle formulazioni criticamente elaborate? Occorre distinguere la filosofia della prassi’ gentiliana, dall’interpretazione che lo stesso Gentile ne aveva dato e dalla politica con cui l’aveva connessa. Effettivamente anche un’altra ne è possibile, quella svolta da Gramsci. Si tratta quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e più precisamente nella veduta attualista della storia della filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al rivoluzionario Gramsci. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione che si rovescia in dissoluzione: il nome di questa rivoluzione che si rovescia in dissoluzione è: «contestazione. Non è un caso che Gramsci sia forse l’unico filosofo marxista la cui fama abbia resistito alla contestazione nelle sue forme anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata. Se dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la filosofia del Croce rimane una filosofia “speculativa” e in ciò non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, ha poi storicamente torto nell’identificare col marxismo la filosofia della prassi che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto nell’idea dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario sempre presente alla mente di Croce, anche se ossessione quasi sempre sottaciuta; perché la tentazione rivoluzionario- marxista era stata accesa in Croce da Labriola, e poi criticata senza troppa difficoltà in questa forma labrioliana, e i motivi della critica rivoluzionaria si erano rovesciati nella critica della mentalità radicale, e nell'accordo, su questo punto, con Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse riportato allo Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al moralista che nella prima gioventù gli aveva fornito un purismo etico, giovevole come un’armatura, onde egli mi rivestiva contro il disfacimento dell’etica operato dall’associazionismo, dallo psicologismo e dall’evoluzionismo e dall’utilitarismo che stava sempre nel fondo di questi tentativi, ma al filosofo che aveva sentito l’importanza della distinzione; e affermato una linea che porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia del momento economico alla hegeliana riconciliazione con la realtà. Intenzione — sinora, per quel che so, non segnalata, ma che la corrispondenza rende chiara del Gentile de La filosofia di Marx è di portarlo al suo pensiero attraverso una considerazione del marxismo più profonda di quella di Labriola, condizionante una critica più rigorosa di quella di Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda di quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si atteneva. Si sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle esigenze spirituali, che portarono Croce alla filosofia, tali da spiegare perché questo tentativo doveva andare fallito; separando Croce le accettate critica dell’intuito metafisico e affermazione del formalismo — che rendono possibile anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un tempo dalla metafisica e dal naturalismo dalla filosofia della prassi. In quegli anni Labriola e Gentile si contendono CROCE, senza riuscire completamente né l’uno né l’altro nel loro intento; e senza intendere appieno, né l’uno né l’altro, le ragioni della resistenza. Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche se rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce e di Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua ritraduzione, avrebbe dovuto ritrovare Gentile, o ripensare in forma attualistica il marxismo, dato che la filosofia di Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia speculativa, non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile. Avrebbe dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo detto non è ancora una prova sufficiente del suo attualismo. Potrebbe infatti darsi che Gramsci avesse condotto un parallelo tra lo storicismo marxiano e il crociano, mostrando la superiorità del primo, e avesse poi voluto far coincidere questa ricerca con la dimostrazione che il ripensamento italiano dello hegelismo doveva logicamente concludere con la riaffermazione del marxismo. Le due ricerche potrebbero essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso della seconda non inciderebbe sulla valutazione della prima. Non è tuttavia così, e realmente quel che Gramsci chiama marxismo è il risultato coerente della ritraduzione di Croce, così coerente da ricostruire dopo il crocianesimo l’attualismo, come se procedesse dalla traduzione al testo originale. Possiamo convincercene attraverso varie vie. La prima è la coincidenza puntuale tra la critica gramsciana dello storicismo di Croce e la gentiliana. La seconda è la formulazione nuova che in Gramsci trova il concetto marxiano di società civile, con le sue implicazioni, tra cui quella dell'abbandono dell’economismo e del materialismo marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola, # inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire che l’invito che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece recepito da Gramsci. La quarta è il modo in cui è inteso il blocco storico. La quinta è il giudizio sulla funzione capitale accordata alla filosofia italiana nel processo di modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza da Lenin rispetto alla nozione di egemonia. Per gli ultimi cinque di questi punti, se ne trova la miglior conferma in uno scritto che Norberto Bobbio ha dedicato a Gramsci e la concezione della società civile e che è il più penetrante nella linea, per dir così, gramsciano-azionista, che è anche accettata, sostanzialmente, in quanto riforma del marxismo e del leninismo che è insieme loro sviluppo, dal comunismo occidentale. Da uno studioso di cui è nota la scarsissima simpatia per Gentile e che non pone infatti la domanda essenziale: se quella che pur chiama «la profonda innovazione che Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista possa essere considerata uno sviluppo del pensiero marxiano, o risulti invece dall’accettazione della critica gentiliana, inconsapevole, ma necessaria, dato l'assunto di tradurre in linguaggio storicizzato il pensiero speculativo di Croce. È piccante osservare come le precisazioni testualmente esatte del filosofo italiano più avverso a Gentile rappresentino le tappe per la dimostrazione rigorosa del cedimento in Gramsci della filosofia della prassi marxiana rispetto alla gentiliana. Cominciamo con l’osservare come la critica gramsciana dello storicismo crociano coincida puntualmente con quella svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci? Che al divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che questa sostituzione coincide con quella del divenire reale con un divenire dipinto; che la «non definitività» della filosofia ricopre di fatto la definitività della società liberale, apparentemente aperta allo sviluppo, in realtà chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che, insomma, per usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente sostituito all’apologetica diretta dell'ordine esistente un’apologetica indiretta. Che lo storicismo di CROCE, come storicismo separato dalla filosofia della prassi e dall’unità di pensiero e di azione, è uno storicismo chiuso al futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui Gentile conclude definitivamente i suoi conti con CROCE, Storicismo e Storicismo, riscontriamo una corrispondenza perfetta. Gentile parla dello storicismo crociano come appoggiato a fondamenta semplicemente dipinte, perché all’interno di un realismo e di un naturalismo presupposti; così da essere uno storicismo della realtà conclusa in cui «il futuro preveduto o comunque pensato come un qualunque possibile futuro, è logicamente un passato rispetto al pensiero che lo raffigura nel sistema necessario della logica. Passiamo ora all’innovazione profonda che Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha in questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società civile vista come appartenente non al momento della struttura, ma a quello della sovrastruttura; cioè per Marx la società civile, intesa come «il vero focolare, il teatro di ogni storia», comprende secondo la definizione dell’Ideologia tedesca, poi ripresa nella Critica dell’economia politica, tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive.& Affermazioni che sono la premessa della celebre definizione della Critica dell'economia politica. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una struttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forze determinanti della coscienza sociale. Nella scuola marxista si può trattare dell’azione reciproca tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato della struttura, con la teoria materialistica del riflesso (le idee come riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per «società civile» tutto il complesso delle relazioni ideologico- culturali della vita spirituale, si rimette la dialettica sulla testa, sia pure in modo diverso da quello che aveva fatto Hegel. La storia non è più, in primo luogo, storia economica, ma storia delle concezioni del mondo, storia della filosofia. È quel che attesta il passo gramsciano così frequentemente citato, secondo cui «la filosofia della prassi è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante più Rivoluzione francese; è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche filosofia».& Detto questo, le altre novità gramsciane che BOBBIO mette in luce con tanta precisione non possono servire ad altro che a illuminare meglio la coincidenza tra il distacco di Gramsci da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la sua, certamente non voluta né consapevole, subordinazione all’attualismo. Sembra che Gramsci ripercorra il processo di pensiero di GENTILE da La filosofia di Marx alla prolusione palermitana sul concetto di storia della filosofia, in cui la storia, in obbedienza, per così dire, al mondo rimesso sulla testa nel giovanile libro su Marx, viene risolta nella storia della filosofia. Con la conseguenza, per Gramsci, che il concetto «borghese» di «modernità» si sostituisce alla versione rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla base della «modernità» si ha poi l’incontro tipicamente gramsciano tra la borghesia progressiva e il comunismo, quell’incontro così severamente giudicato da BORDIGA (si veda), ma non da Bordiga soltanto. La novità rispetto all’idea della società civile è correlativa all’abbandono dell’oggettivismo di Labriola, come pure BOBBIO acutamente avverte, senza però osservare che avviene esattamente nei termini che Gentile auspicava. Per LABRIOLA la tesi che «le idee non nascono dal cielo» era equivalente alla loro spiegazione a partire dalla struttura economica, secondo la notissima sua frase per cui la struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i modi di regolazione e di soggezione degli uomini verso gli uomini (il diritto, la morale, lo stato), 1 secondo luogo e per indiretto gli obiettivi della fantasia e del pensiero, nella produzione della religione e della scienza». Le idee non nascono dal cielo neanche per Gentile e per Gramsci; ma le concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni una funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era appunto il senso del congedo del materialismo marxiano — dell’ antDibring in nome dell’elemento più positivo e rigorosamente critico delle tesi — proposto dal Gentile anti-Labriola. La concezione gramsciana della società civile porta alla critica dell’economismo a cui consegue quella del materialismo. Marxismo dissociato da materialismo e da economismo; ma non è una definizione che vale esattamente per l’attualismo? Con un paradosso soltanto apparente si potrebbe giungere a dire che il rimprovero mosso a Croce da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni, ascoltato Gentile. Passiamo a un quarto punto, a quella nozione di blocco storico, in cui, benché gli accenni contenuti negli scritti gramsciani siano scarsissimi, si suol riconoscere il nucleo fondamentale» del gramscismo. Ebbene, in due di questi pochi passi si dice che nel «blocco storico» le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, affermazione a cui Gramsci pensa di dover immediatamente aggiungere che la distinzione di forma e di contenuto è meramente didascalica, perché le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali; così che l’unità-distinzione tra la struttura e la sovrastruttura viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito. Frasi di cui è inutile sottolineare l'accento attualistico. Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana sul primato italiano nella promozione della rivoluzione comunista a rivoluzione mondiale. Per lui, la missione del popolo italiano è nella ripresa «del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella forma più moderna e avanzata» non in quella nazionalistica rivolta al passato. Quanto a dire è nella continuazione, nella forma che si è detto, della filosofia dello Spirito italiana, vista da lui come il punto più alto sinora raggiunto dal pensiero, che il marxismo si eleva alla sua forma rigorosamente critica, condizione del carattere mondiale della rivoluzione. Anche se non mi sembra si possano addurre passi precisi al riguardo, ho l’impressione che il nuovo concetto di società civile ha tra l’altro la funzione di permettere, attraverso una giustificazione filosofica, la fondazione in linea di diritto della novità del leninismo rispetto a Marx: la nozione di egemonia, ossia l’idea del partito come strumento rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva parlato dell’egemonia come «direzione politica», andando in ciò oltre al marxismo nella direzione volontaristica e partitica; per Gramsci bisogna subordinare questa direzione politica alla direzione culturale. Si potrebbe dire che il progresso politico di Lenin su Marx importa filosoficamente per Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che può trovare il suo fondamento solo nel passaggio dalla prima alla seconda forma di filosofia della prassi: è questo un punto che meriterebbe di venire svolto con particolare attenzione. Anche se non si possono trovare citazioni precise, credo si possa considerare pensiero centrale di Gramsci quello che la riforma teorica del marxismo conseguente alla riforma italiana del pensiero classico tedesco rende anche possibile la riforma politico-culturale del leninismo. Altrimenti — non sembra arbitrario attribuire questo pensiero a Gramsci — si va fatalmente a cadere nelle due opposte deviazioni, quella di Stalin e quella di Trockij. Perché si può dire che in entrambe egli dovesse vedere la conseguenza del non risolto problema leninista; nello stalinismo prendeva la forma della subordinazione della teoria alla pratica, con la conseguenza della trasformazione del marxismo in un’ideologia di potere che doveva, in definitiva, portare al social-imperialismo. Quanto al trockismo, la giusta esigenza di non troncare il processo rivoluzionario non poteva trovare soddisfazione sino a che non si fosse elaborata una filosofia rivoluzionaria con significato veramente mondiale. La priorità della direzione politica poteva cioè portare alla formazione di una volontà collettiva, nel senso di volontà universale, solo a condizione che fosse subordinata a una concezione del mondo, non più usata strumentalmente, ma valida perché vera, tale da imporsi agli intellettuali. Ciò aveva portato alla delusione degli stessi intellettuali marxisti occidentali rispetto al comunismo russo, e alla loro solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse fenomeno russo e non inizio della rivoluzione mondiale. Come reazione di Gramsci a questa impressione deve essere inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione del popolo italiano. La rivoluzione mondiale deve, cioè, procedere dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione veramente critica del marxismo, che sarà il risultato di quell’opera fr ewig [per sempre] a cui egli si accinge dopo la sconfitta politica e a cui lavora negli anni del carcere. Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole, alle ipotesi pronunziate all’inizio. È frequente il discorso sull’insuperabilità della crisi che il marxismo non può confessare, e che non può confessare perché è insuperabile. Ora, soltanto #/ necessario cedimento di Gramsci rispetto a Gentile ci permette di definire questa insuperabilità. Davanti alla filosofia dello spirito italiana non ci sono per il marxismo filosofico che due vie: o respingere assolutamente tale filosofia dalla storia del pensiero,@ o trasformarsi nel senso gramsciano. Finché si porti l’attenzione sul solo Croce, la tesi del marxismo di Gramsci può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà, essere sostenuta: il suo è uno dei vari modi in cui può essere sostenuta entro il marxismo la tesi dell’unità di struttura e di soprastruttura; il gramscismo può anzi essere visto come la forma più liberale che il marxismo sia suscettibile di assumere. Le cose cambiano completamente, come si è visto, quando si ponga il problema del rapporto con l’attualismo. D'altra parte evitare questi conti è impossibile perché sia marxismo che attualismo si presentano come l’esito della filosofia classica tedesca. Bisognerebbe dimostrare che l’attualismo è un’involuzione, ma dove ravvisare l'elemento involgente? La considerazione del modo con cui Gentile incontra il punto nodale del pensiero marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso sull’involuzione attualistica dello hegelismo nel giobertismo, nell’ideologia italiana, eccetera; tutti i discorsi del cattaneismo oggi corrente. A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche definito il limite del marxismo di sinistra antigramsciano. Ha ragione quando afferma che il neomarxismo di Gramsci non è effettivamente più marxismo; non però perché contagiato da influenze che avrebbe subito, in qualche modo passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il modo di pensare del suo autore non sia stato rigoroso: si deve invece dire che rappresenta esattamente quel che il marxismo deve diventare quando vuol prendere posizione rispetto alla «filosofia dello Spirito» italiana. Meglio ancora: come già si è visto, l’originalità incontestabile del pensiero gramsciano, quel che ne fa il più notevole tra i commenti filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che, richiamandosi a LABRIOLA (si veda), ha posto il problema dell’autosufficienza del marxismo, necessaria perché la rivoluzione non venga riassorbita nel vecchio mondo; da ciò l’eccezionale importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La critica di sinistra non può procedere oltre dopo il rilievo del nonmarxismo di Gramsci: la sua verità rispetto a giudizi di fatto abbisogna di una diversa giustificazione teorica. Questo marxismo di sinistra respinge il Diazzat come ideologia, e respinge insieme il gramscismo e, senza dubbio, le sue osservazioni sono molto pertinenti per quel che riguarda le conseguenze pratico-politiche del gramscismo. Non sa tuttavia indicare la forma di marxismo critico che possa venir sostituita alla posizione di GRAMSCI; ed è dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione nel senso del marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare tutte le forme in cui sinora si è realizzata o si propone. Quanto si è detto porta al non piccolo risultato del riconoscimento di un’impotenza non superabile. La vera formulazione della crisi insuperabile del marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto nello scacco dell’attualismo, da intendere non come scacco- fallimento, ma come scacco-occasione di una svolta nella storia del pensiero. Ogni altra critica appare esterna rispetto a questa: che mostra come, percorrendo lo svolgimento dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi, non si possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di quale portata sia questa critica ci accorgiamo considerando come quella che si potrebbe chiamare «prigionia gramsciana del marxismo nell’attualismo» porti a rovesciare la rivoluzione, nel senso marxiano del termine, in dissoluzione. Non è senza significato che oggi si affacci l’idea che la contestazione (definibile appunto come rovesciamento della rivoluzione in dissoluzione) abbia compiuto un’opera selettiva tra i teorici del marxismo, risparmiando il solo Gramsci come elaboratore dell’unica strategia capace di render possibile il passaggio al comunismo nei Paesi occidentali. Ma come spiegare le opposte disposizioni politiche di GENTILE e di GRAMSCI? Analizzare così il particolare fascismo di GENTILE come il comunismo di Gramsci può portare a una visione della storia contemporanea diversa dalle abituali. Nelle relazioni che ho ascoltato mi è sembrato di sentire una certa reticenza nei riguardi del fascismo di Gentile, quasi si trattasse di un tema su cui fosse preferibile non insistere. Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere nella funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini, nessuno fu fascista come Gentile. Come spiegare dunque, data la prossimità di posizioni filosofiche, il fascismo di Gentile e l’antifascismo di Gramsci? Cominciamo perciò col considerare a priori le possibilità politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al riscontro testuale. Tali possibilità sono due, la risorgimentale” e la rivoluzionaria. La prima si imparenta alla sua interpretazione in termini di «filosofia cristiana». La grande cesura nella storia sarebbe rappresentata dal cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo al soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete, in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da questo e in relazione alla sua critica del materialismo marxiano, da lui associato con l’idea rivoluzionaria, GENTILE può pensare a un Marx oltrepassato in GIOBERTI (si veda), e all’idea di rivoluzione oltrepassata in quella di Risorgimento, elevata a vera e propria categoria filosofica. Risorgimento che viene conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale alle posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti al materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e amoralismo, spirito rivoluzionario, negazione della tradizione. Da ciò lo sganciamento totale del Risorgimento dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione francese e la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di vera restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non come semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa e affinamento di una tradizione, dopo che essa era stata messa in crisi, così che potremmo complessivamente dire che per Gentile spirito risorgimentale ha il significato di riaffermata religione di SPIRITO (si veda), come spiritualismo purificato da ogni traccia di naturalismo e di soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo per lui, per così dire, una forma di naturalismo iperuranico. Se separiamo però l’attualismo dal suo carattere «cattolico» o dall’interpretazione religiosa che il suo autore gli aveva dato, esso assume un carattere rivoluzionario, per quel che riguarda la sua posizione nella storia della filosofia (particolarmente visibile, per esempio, nella prolusione pisana L'esperienza pura e la realtà storica). Ossia: tutte le concezioni del mondo prima dell’attualismo si sono mosse nell'orizzonte di una realtà e di una verità presupposte; certamente la storia del pensiero è quella di un processo di erosione della concezione oggettivistica e trascendentistica, e con ciò prepara la «maturità dei tempi»; ciò non toglie però il salto tra esse, e il rigoroso immanentismo. L’attualismo non è soltanto il punto d’arrivo di un processo millenario, ma una rivoluzione; e il passo ricordato del giovane Gramsci mostra come egli vi vedesse questo; la rivoluzione filosofica attualista, perfezionamento del marxismo, poteva ben congiungersi con la rivoluzione comunista, negatrice delle formulazioni riformistiche o evoluzionistiche del marxismo. Finora abbiamo parlato dell’attualismo interpretato da Gramsci in senso rivoluzionario. Proponiamoci ora la domanda inversa: l’interpretazione in termini di attualismo, di soggettivistica filosofia della prassi, non porta al rovesciamento dell’idea di rivoluzione in quella di dissoluzione? Cioè al nichilismo che è il termine esatto per indicare questo rovesciamento? A parlare del nichilismo non può non venire in mente la diagnosi di Nietzsche: l'avventura della rivoluzione a contatto con l’attualismo può servire a mostrare che l’idea rivoluzionaria non riesce a sormontare il nichilismo. È qui che si manifesta massimamente quell’enorme potere di negatività, che è il proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole, direi che l’attualismo è oggi attuale, o torna a esserlo, proprio per questo motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette in primo piano la figura dell’intellettuale; e si sa quanta importanza la sua definizione abbia assunto per GRAMSCI. Ora, si consideri: l'influenza gramsciana nell’ultimo quarto del Novecento è stata enorme, solo paragonabile a quella della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di intellettuale che oggi prevalgono sono quello del dissacratore o demistificatore e quello dell’esperto o del tecnico; quale rapporto hanno con la figura gramsciana dell’intellettuale organico? Rispondo che sono il frutto della sua decomposizione. All’intellettuale era assegnata da GRAMSCI una funzione un po’ simile a quella che Marx assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso, libera il mondo. La decomposizione lo trasforma in funzionario dell’industria culturale, dipendente da una classe di potere che ha bisogno così dell’intellettuale dissacratore (quale custode del nichilismo) come dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non è del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte l’economismo, l'opposizione diventerà quella tra intellettuali tradizionali e intellettuali progressivi. Come storicisti, questi non potranno più parlare in nome di un socialismo utopistico; neppure però di un socialismo scientifico, dato l’abbandono dell’aspetto materialistico-economicistico, oggettivistico, del marxismo. Semplicemente in nome della storia come processo di autotrascendimento. L’interpretazione dell’attualismo in chiave illuministica porterà a una sorta d’illuminismo dopo il marxismo, dunque a un illuminismo «senza diritto naturale», con la conseguenza che l’intellettuale progressivo prenderà la figura dell’intellettuale dissacratore: del devalorizzatore dei valori finora considerati come supremi. Quella rivoluzione per erosione, e non per rottura brusca, che è poi la «guerra di posizione» sostenuta da Gramsci, come tecnica rivoluzionaria, alla «guerra di movimento», si risolve in una dissoluzione entro l'ordine dato, che viene privato dei valori ideali che lo fondano, così che viene chiusa la via a una loro riaffermazione purificata. GRAMSCI, naturalmente, non ha il minimo sospetto di questo possibile esito del suo pensiero. Si può garantire che avrebbe detestato gli intellettuali profittatori dei connubi tra marxismo, psicanalisi di sinistra e decadentismo sadico. Ci si può render conto di questa assenza di previsione, se si pensa alle circostanze politiche che furono l’occasione della sua riflessione filosofica. In GRAMSCI ordinovista c’è la persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto attuarsi in Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto imprevisto del fascismo che attrae a sé il consenso della maggior parte di questa cultura; in diversi gradi, ma praticamente è sufficiente il giudizio della sua minore pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo. Per il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso l’unica via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo coerente del suo motivo più originale deve portarla all'incontro col marxismo autentico, o, per dir meglio, alla sua scoperta. SPIRITO dice che GENTILE è il creatore del fascismo. Si tratta di una frase forse un po’ a punta, ma che è vera, quando venga bene intesa. Senza la cultura gentiliana il fascismo non avrebbe potuto prender forma. Ebbene, si deve dire che GRAMSCI e il creatore dell’antifascismo, quando lo si distingua dall’opposizione mossa in nome del prefascismo (quella di CROCE, per esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine del fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi naturale che, trasportato in una situazione in cui il fascismo non sussiste più, l’antifascismo non possa esplicarsi che come fenomeno dissolutivo. Per esprimere tutto in una rapida formula, direi che, visti nella loro radice filosofica, fascismo e antifascismo sono i due aspetti in cui quella filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel farsi mondo. Ritorniamo al punto già accennato, sul vincolo necessario che unisce, nel marxismo, materialismo e idea della rivoluzione totale. Il pensiero di GRAMSCI, in quanto vuole assegnare al termine materialismo un significato soltanto metaforico (al di là del mondo storico non c’è nulla), ne è la completa riprova: la funzione primaria data agli intellettuali come all'elemento attivo e unificante e al partito moderno Principe come intellettuale collettivo porta in realtà alla captazione borghese-illuministico-modernista. Osserviamo infatti. In questa concezione storicistica gli intellettuali possono operare soltanto come dissolutori delle verità eterne, svolgenti perciò una critica che include quella dell'aspetto escatologico del marxismo. Il momento negativo del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal positivo e si fa negazione, piuttosto che dell’ordine esistente, dei valori ideali che lo legittimavano. Esercita un’azione dissolutiva che non distrugge le classi, ma porta al dominio di una nuova classe, che tratta ogni idea come strumento di potere. Il processo è quindi da uno stadio all’altro, più razionalmente organizzato, del dominio di classe. Si trova una precisa conferma a questa tesi se si porta attenzione alle cose più pertinenti che siano state scritte negli ultimi anni, così su GRAMSCI come su GENTILE. Così, è stato giustamente osservato da Riechers come il socialismo si riduca fondamentalmente per GRAMSCI a un modo di produzione capitalistica separato dalla figura dell’imprenditore e in cui il funzionamento del piano è controllato dagl’intellettuali organici (la nuova classe); e che per lui sembra esistere un’economia indifferente alle classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova impedito da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione è scissione completa col vecchio mondo, e tutto il suo lavoro è svolto a definire l’idea, in questo significato scissionistico; di fatto, questa purificata idea rivoluzionaria è destinata a rovesciarsi nel senso che si è detto. [sal Si potrebbe dire che negli atteggiamenti storico-politici opposti di GENTILE e di GRAMSCI si conclude la polemica tra MAZZINI e Marx. Si conclude però nel modo più singolare, estremamente istruttivo così per il pensiero filosofico come per il politico. Marx aveva stabilito la solidarietà tra filosofia della prassi, rivoluzione totale e materialismo; l’approfondimento gentiliano della filosofia della prassi porta alla cancellazione del materialismo; GRAMSCI tenta vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale dopo la riforma gentiliana della filosofia della prassi. CROCE pensa che nelle discussioni italiane il marxismo teorico avesse subito la sua critica decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al pensiero italiano di portarsi al livello più alto del pensiero mondiale. È un giudizio da rettificare piuttosto che da escludere; a parte la consapevolezza che egli stesso o altri abbiano potuto averne, il protagonista della grande e insolubile crisi del marxismo teorico è GENTILE. E la crisi avviene effettivamente in Italia attraverso la rottura non conciliabile tra l’opera rigorosamente teorica di GRAMSCI e quella di BORDIGA (si veda), che è costretta al marxismo letterale, e non può raggiungere una formulazione teorica seria, proprio perché non ha affrontato Gentile, ma che è nonostante ciò sufficiente per mettere in rilievo il non marxismo di GRAMSCI. O, per concludere: l’attualismo è l’autocritica, all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel, dell’idea marxiana della rivoluzione totale, autocritica che si esprime nella forma di rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di GRAMSCI ne è la decisiva conferma. Se è vera la prospettiva che ho enunciato nel mio libro su I/ problema dell’ateismo, secondo cui il razionalismo, inteso come negazione senza prove del soprannaturale, deve concludere sull’idea della rivoluzione totale, l’attualismo è la prova del suo scacco. In ciò il senso della svolta decisiva che la filosofia di GENTILE rappresenta. Augusto Del Noce. Noce. Keywords: saggio su Gentile e il fascismo, Faggi, Serbati, Spir, Vidari, Rensi, Martinetti, Juvalta, Massantini, Catelli, Capograssi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Noce," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Noferi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della setta di Firenze – la scuola di Firenze – filosofia fiorentina -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice would often speak of the ‘Athenian dialectic’ – by which he meant just Socrates, Plato, and Aristotle – and none of the ‘minor’ schools other than the Agora –where Socrates preached barefoot, the Academy, or the Lycaeum --. Grice’s implicature seems to be that he would deem those ‘minor’ – pre-socratic and post-socratic or Hellenistic schools – as ‘minor – ‘sects.’ Italians more or less behave similarly. Other than Bologna, everything is more or less a ‘sect’, including whatever happens at Florence! Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Important Italian philosopher, especially influential at what Grice called Italy’s Oxford, i. e. Firenze“Palla Strozzi was more a mentor than a philosopher, but I would consider him both a Grecian and Griceian in spirit.” alla Strozzi   Palla e Lorenzo Strozzi. Dettaglio dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano. Grazie alla ricchezza accumulata nelle ultime generazioni dalla sua famiglia, il padre puo far istruire il figlio da filosofi, e grazie all'interesse e all'intelligenza, divenne di fatto uno dei più fini uomini di cultura fiorentini. Ricco e colto, commissiona numerose opere d'arte, tra le quali la Cappella N. nella Basilica di Santa Trinita, opera di Brunelleschi e Ghiberti. La cappella, progetto irrealizzato da N., venne fatta erigere in la sua memoria e ne ospita la sepoltura monumentale. Per questo ambiente commissiona l'Adorazione dei Magi a Gentile da Fabriano e la Deposizione dalla Croce a L. Monaco, terminata poi da Beato Angelico che ne fece uno dei suoi capolavori. Collezionista di libri rari e conoscitore del greco e del latino, si trova nvischiato nell'opposizione strenua contro Cosimo de' Medici. Cosimo e l'uomo che per la prima volta si e di fatto preso tutto il potere cittadino, grazie a un sistema di clientelismo con uomini chiave alla guida degli uffici della repubblica di Firenze. Davanti a lui solo due strade sono possibili: l'alleanza accettando un ruolo subordinato o lo scontro frontale. Forte della sua ricchezza e fiero della propria cultura, e a capo della fazione anti-medicea assieme ad un altro oligarca indomabile, Albizi. La fortuna arriva alla sua fazione, riuscendo ad ottenere prima l'incarcerazione di de’ Medici, poi la dichiarazione del medesimo come magnate, cioè tiranno, ed il suo conseguente esilio da Firenze. Il suo obiettivo comunque non e tanto l'eliminazione di un avversario, ma la restaurazione della “liberta”. In questo e diverso d’Albizi.  Intanto de’ Medici manda già segni di prepararsi a un ri-entro, che avvenne puntuale al cambio di governo con il veloce avvicendamento dei gonfalonieri. Tra i primi provvedimenti vi è proprio la vendetta sugli avversari, con l’esilio del filosofo e d’Albizi. In questo de’ Medici e favorito anche dall'appoggio popolare che lui e la sua casata si sono saputi conquistare. Quindi parte per Padova. Il suo palazzo a Padova e un ritrovo di filosofi, nel periodo d'oro quando la città veneta era uno dei centri culturali più notevoli della penisola italiana, per certi risultati artistici più importante della stessa Firenze. Si pensi ai capolavori lasciati proprio da due fiorentini come Giotto o Donatello.  Lascia la sua raccolta di libri rari, arricchita ulteriormente durante il suo soggiorno padovano, al monastero di Santa Giustina. Muore a Padova nel suo palazzo verso il Prato della Valle. Sepolto nella vicina chiesa di Santa Maria di Betlemme. Cavaliere dello Speron d'oro nastrino per uniforme ordinaria cavaliere dello speron d'oro  Marcello Vannucci, Le grandi famiglie di Firenze, Roma, Newton Compton, Palmarocchi, La famiglia Strozzi, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “His main claim to philosophical fame is in his character- unlike Alibizi’s and indeed Medici. He loved freedom, and chose to settle in Padova, although his roots were well in Firenze. He built hiw palace in Padova in Prato del Vallo to gather philosophers, since what’s the good of knowing the classics if you cannot converse? He never touched a university! His ‘bibliotheca’ is legendary! NOME COMPIUTO: Strozzi-Noferi. Noferi. Keywords: “Beautiful painting (by Gentile da Fabriano) of Noferi. Very Italian in an exotic sort of way!” – Grice. Refs.:Luigi Speranza, "Grice e Strozzi-Noferi -- Grecian, Griceian," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nola: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’urina – la scuola di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Crotone, Calabria. Gice: “At Oxford, we are proud of our philosophy, at Bologna, and in Italy in general, they are proud of their physicians, as they call them – students of nature!”. In “Aristotle on the multiplicity of being” and in his unpublications, Grice considers – in the seminar on Categories with his former pupil Srawson – possible predications for ‘medical’ --. In his earlier reflections, Grice is concerned, like Aristotle, with the variety of such predications – ‘medical practice,’ ‘medical herb,’ ‘medical science,’ ‘medical person’. In ‘Multiplicity,’ he goes further. He is interested in refuting Owen, an Anglo-Welsh philosopher, former pupil of Ryle, who had made ‘focal unification’ a bit of the favourite jargon of the day. For Grice, ‘focal’ unification is just ONE type of such ‘unification’ in ‘signification.’ There is, of course, analogical unification, and recursive unification. Grice goes on to propose an exploration in what Aristotle might have had in mind when choosing ‘medical’ as his choice for ‘analogical’ or proportional unification – and comes out with something resembling his excursions into ‘theory-theory’. ‘Medical’ may thus be a bit of the vocabulary of the ‘lay’ or the ‘vulgar,’ for which the ‘learned’ is trying to provide his ‘rational’ or ‘logical’ ‘re-construction’ – Grice restricts the use of ‘construction’ to such routines for which there is no counterpart in the vernacular. Di origini napoletane e zio di Molisi, insegna per lungo tempo a Napoli. Discepolo di Altomare, divenne noto per suo saggio, “Quod sedimentum sanorum, aegrorumque corporum non sit eiusdem speciei adversus Ferdinandum Cassanum et alios contrarium sentientes.” Cf. Marruncelli, Elementi dell'arte di ragionare in medicina” – cf. Grice goes medical – Aspets of reason – “He must be treated!” -- (Napoli, Gabinetto); S.  Renzi, “Storia della medicina”, Napoli, Filiatre-Sebezio); Adalberto Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, Roma; Lavoro critico (Bari, Dedalo). La Famiglia dei N.. Molise, Archivio storico di Crotone.  1, quem ad modum civitates tunc optime gubernatur, (ut inquit Platoin lib. de Philo. cum iniustidant pænas: perin so& impudenter, impugnant, accontra dicunt, optimèquoquereor, et scientiæ, et artesse haberent. Nam veras CLARISS. ALTIMARI discipulo, auctore. med. doctore scientias ac artes perfetè, et brevi cuns et isaffequiliceret: at queitaetia muere scientes, acoptimos artifices fieri. Nuncueròcumlex falso contradicentibus statuta nullafit, no immeritòe inoptimosuiros, arbitror, impurissimum quen queac in eruditum iuuenem inuehiandere et admodum paucos vere scientes, artifices quereperiri, cum& passim scribere omnibus liceat, et unicuique sententiam ferre apud vulgus. Adde, quòdnefcio quo fato datum etiam fit quibusdam, easdem docere artes, ac publicè profiter i, qui uel omnino inertes fint, aut parumeas intelligant: cùm ueròne sciant, scire autem seputant, mirum non est fidgeipfierrent, et alios aberrarecogant. Quandoquidem oporteret (utinquitidem Plato in Alcib.) eos qui aliquid doftursiunt, priufquam doceant, intelligere, fix OVOD SANORVM AEGRORVMQVE SEDIMENTVM IOANNE Andrea Nola Crotoniata Artium et bique   fuoq; martese dimenti ueritate mueftigauitad Hippo. es Gal. sententiam quemadmodumo non nulla alia nonminu sad artem medicam utilia quàm necessaria, ut in reliqus fuis scriptis palàmestuidere:) Sedcum hacfole clariorafint, pateant quecun&tis artis medicæ candidatis, quirenera medicisunt, nedum in uniuersa Italia, uerum etiam into tafere Europa in colentibus; mea approbationenon indigent. Attem puseft ut adiftorum ignorantiam castigandam, ac in numeros errores patefaciendos, accedamus. Nos uero eo, quo scriptifunt, ordine, eos animaduertemus, etiam fiad sedimentorum naturam manifestandam non conferant; ut discant studiosiquam maxime', nedum Artis medis ca, sed philosophia, et dialeticæ fe imperitosese oftendant; quanto veliuore impulsitali ascribere conatifuerint. Cum vero futurun fitut hominem reprehendamin doctum, ftolidum, opinione sua sapientem, nugis interin erudite siuuenes uersatum in uniuersauita, queso, candidiß. lector, liceat mihi uerbis huius ignorantiam castigare asperio nibus, quibus ego ut ialioquinon foleo. Cum primimin prima pagellahicuirdă nassettum Plusquam commentatoris, tum etiam Neotericorum opinionem de sedimento quiz whipseait, quamuis. Iaftenturf copumattigile, longèalijs falluntur Sedimentum SANORUM ægrorumý; corp. biqueconsentire, e nondissidere: hæcetenim bonos decet præcepto ses utipfeait. quod sita fieretnequehic incognitus nescio quis Cassanus, tam fuisse taudaxs atque impudens, ut feuerisoppo neret, nifiexilis esset, quiomnem funditus pudorem exuerunt, neque afuis præceptoribus male eruditusac impulsus, eorumtamen opinio ne sapientibus totausus fuissetscriberenugas. Quas omnes passimin minibus artis medicecandidatis, seclusoliuore, manifestare conabor, quod huiu suiri ignorantia, simul quete meritas castigetur. difcantque reliquiin posterum quàmmalum sitoptimis, aceruditiß. virisindies utilia, Artisg; medicæ apprimè necessaria, et verissima scribentibus; O ut summatim dicam, universam pene medicinam illustrantibus, falso contradicere. Non autem, uteaquæa doctissimoac Clariss. Alti maro præceptore meo de sedimenti in urinis scripta sunttuear, sunt et enim ad eòscitèacdo Et é conscripta, ég hæc, et reliquaomniaque hactenus in luce medidit, acualidiß. auctoritatibus et rationibus comprobata, ut nedumiftorum uirorumnugas non curent, sed quorumuis etiam aliorum do tiffimorum, si quæ essent contradictiones paruifaciant, ipsea; primus omnium quosuiderim, propria inuentione cumque 1 cumque neutri, fuo optimo iudicio, ueritate mattigerint, et fimulli. Uore percitus eosdem recentiores scriptores calumniasset, quorumnca quidem calciamentasoluere dignus esset, eisque falso tribueret cunéta quaibitemerenarrat cõfestim, utipfeait. In fecüda ueritatë protulit quam desedimentosentit, quæquantiss catea terroribus, quantumus averitatealienafit, et Gal. sententia demonstrabimus, ubialios prius ciuserroresin eadem secunda pag. conscriptos, manifeftauerimus: Aitetenim {senolle tempus conterere circa urine generationis modă. NOME COMPIUTO: Giovanni Andrea de Nola. Nola. Keywords: Crotone, Plato, Nola-Molise, corpus sanum, focal unification, Owen, Pantzig, brennpunktbedeutung, Grice, Aristotle, Metafisica, ‘unificazione focale’ – universale: ‘sanitas’ instantiazione: corpus sanum, corpi sani. Refs.: “Grice e Nola” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Sperana – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Noto: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di IVPITER – la scuola di Noto -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pollina). Abstract. In his ‘unpublications,’ – whose number by far exceeds those of my pubilcations’ – Grice would often use ‘God as exegetical device.’ I. e. to conceive of ‘God’ as willing the best for his creatures. It is most likely that, gven the classical education of which he was so proud – and which he at times deemed a ‘requiment’ for his proficiency in his type of philosophy – he was thinking IVPITER, rather than JEHOVA! -- Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Pollina, Palermo, Sicilia. Grice: “Italian philosophers, must be for St. Peter, who DIED there – are obsessed with God – Noto wrote his thesis on that, evidence and lack thereof for God – the part concerining the refutation for those who deny evidence is fascinating! And typically of an Italian philosopher, he narrows down his research to ‘secolo XIII,’ where we at England and Oxford hardly existed!”Fa gli studi ginnasiali al Convento di Giaccherino e al Convento del Bosco ai Frati. Vestì il saio francescano a Fucecchio e professò. Studia filosofia a Lucca, Bosco ai Frati, il Convento di San Vivaldo, Fiesole, Siena e il Convento di Sargiano. Emise i voti a Fiesole e fu ordinato sacerdote a Siena. Andò a Parigi e frequentò l’Istituto Cattolico, la Sorbona e il Collège de France. Conseguì il Dottorato in filosofia e il Diploma di studi superiori alla Sorbona. Essendo andato a Londra per alcuni mesi ebbe il Diploma di lingua inglese che in seguito perfezionò tornando ogni anno a Londra nel periodo estivo. Pubblicò la tesi di laurea “L’evidenza di Dio nella filosofia" (Ed. MILANI, Padova). Si imbarca per l’Egitto e si stabilì a Ghiza dove insegnò. Lì ricoprì gli incarichi di Guardiano e Maestro dei Chierici. Torna in Italia e fu per un anno direttore di un grande hotel di Montecatini Terme. Si trasfere a Figline Valdarno per l’insegnamento all’Istituto Ficino. Si iscrisse alla Università Cattolica dove conseguì il Dottorato in filosofia valido in Italia. Aveva iniziato l’insegnamento della lingua inglese alla scuola per infermieri dell’ospedale di Figline e un corso serale per adulti. Crea un laboratorio linguistico per facilitare e perfezionare l’apprendimento delle lingue. Deceduto nell’Ospedale di Figline Valdarno per edemapolmonare acuto da miocardite in diabetico. Affetto da grave forma di diabete, si era sentito male nella notte dell’11 novembre, ma dopo aver prolungato il riposo mattutino aveva tenuto lezione fino a mezzogiorno. Prese allora poco cibo e tornò a riposarsi. Alle 18 andò alla preghiera comune e alle 18.30 tenne il corso di lingua inglese per adulti. Alle 20 mentre era a tavola fu chiamato il medico cardiologo che ordinò il ricovero urgente in ospedale. Qui la sua vita è stata stroncata da un complesso attacco cardiaco polmonare.  Ai funerali, presieduti dal Padre Provinciale nella Chiesa di San Francesco in Figline erano presenti tanti religiosi e sacerdoti, i parenti, molte suore oltre che un grande pubblico di studenti e popolo che riempiva la chiesa. È stato sepolto nel cimitero di Montemurlo. Convento di Giaccherino Convento del Bosco ai Frati Convento di San Vivaldo Convento di Sargiano Montemurlo  L'evidenza di Dio nella filosofia del secolo XIII. Grice: “Noto is playing with his surname. There’s no ‘significare’ in Italian. They use ‘notare’ – Now, how is God signified? When Cicero said ‘god’ he meant Jupiter. Ask Ganymede: The literal truth is Ganymede was killed in self-inflicted accidental with a boomerang. Her mother said: “His corpse is here, but he was raped by Giove --. Taking this narrative literally – Ganymede was RAPED, so the rape is the way the god gets ‘noted’. Noto. Keywords: IVPITER -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Noto” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Novara: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Euclide – la scuola di Novara -- filosofia piemontese – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Novara).  Abstract. “At Oxford,’ Grice says, “we don’t do Euclid – nor does he do us!” – Euclid is not considered philosophical enough. There is a special faculty for that, an a special chair – the Regius professor of Mathematics --. Grice would often admire a mathematician – ‘provided he is from the other place’. He meant Hardy – and was fascinated by an episode ‘that could never have taken place at Oxford – within the Debating Union --. Hardy is challenged to the ‘alleged obviousness’ of one of Euclide’s theorems, leaves the lecture room, for 24 minutes – returns, and responds to the challenger: “It IS obvious!” -- Keywords. Filosofo italianao. Novara, Piemonte. m. Viterbo.  matematico, astronomo e astrologo italiano. Tra i più importanti scienziati e matematic (anche Bacone lo cita come uno dei più grandi matematici a lui contemporanei), Campano è conosciuto anche come Johannes Campanus (che è tuttavia anche il nome di un Johannes Campanus anabattista belga del Cinquecento).   Elementa geometriae, Campano da Novara Tetragonismus idest circuli quadratura. Pubblicato un'edizione degl’Elementa geometriae d’Euclide ed un importante commento all'opera, introducendo un sistema di calcolo degli angoli del pentagono. Il testo e utilizzato per circa due secoli e sarà stampato a Venezia (Preclarissimus liber elementorum Euclidis). L'opera si basa su una traduzione in lingua araba dell'originale testo greco. N. ha inoltre probabilmente presente la traduzione latina eseguita da Bath. Cappellano di papa Urbano IV (in un documento delle Curia pontificia se ne attesta la presenza e se ne parla come di uno dei quattro migliori matematici viventi) e medico personale di papa Bonifacio VIII e viaggia in Arabia e in Spagna. Su ordine dello stesso Urbano IV egli si occupa anche di astronomia e realizzerà la Theorica Planetarum, nella quale descrisse geometricamente i moti dei pianeti e il modo per realizzare un planetario. I dati sui pianeti sono tratti dall'Almagesto e dalle Tavole Toledane dell'astronomo arabo Azarquiel (al-Zarqālī).  Dopo trent'anni di presenza nella curia pontificia a contatto con i maggiori filosofi naturali dell'epoca, raccolse un enorme patrimonio immobiliare, stimato alla morte da un ambasciatore aragonese in più di 12 000 fiorini: una ricchezza legata con ogni probabilità alla sua attività di medico. Negli ambienti curiali fu assai fortunata una benefica pillola da lui fabbricata, di cui poi si lesse la ricetta nel Breviarium Praticae. Si ricorda anche una sua splendida dimora presso Viterbo, in una zona di bagni termali, nella quale abitò negli ultimi anni della sua vita.  Di lui ci restano l'Abbreviatio equatorii planetarum, il Canon pro minutionibus et purgationibus, il Computus maior, il Tractatus de sphera, il De computo ecclesiastico, un Calendarium, i commenti ad Euclide e all'Almagesto. Secondo una recente ipotesi sarebbe a lui attribuibile anche lo Speculum astronomiae, importantissimo catalogo di opere astrologiche, che distingueva magia lecita dall'illecita. Da lui prende il nome un sistema di domificazione in astrologia. Gli è inoltre stato intitolato il cratere Campano, all'estremo sud-occidentale del Mare Nubium, sulla Luna.  Parte di questo testo proviene dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Francis S.Benjamin Jr., G.J. Toomer, N. and Medieval Platenary Theory, The University of Wisconsin Press, N. (et alii), Tetragonismus idest circuli quadratura, Impressum Venetiis, per Ioan. Bapti. Sessa, Agostino Paravicini Bagliani, N., Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vacca, N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Campanus, su Enciclopedia Britannica, ALCUIN, Università di Ratisbona. Modifica su Wikidata (EN) Campano da Novara, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland. Portale Astrologia   Portale Astronomia   Portale Biografie   Portale Matematica Categorie: Matematici italiani Astronomi italiani Astrologi italiani Nati a Novara Morti a Viterbo Astronomi medievali [altre]. Giovanni Campano da Novara. Novara.  

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; osia, Grice e Novaro: la ragione conversazionale e implicatura conversazionale ligure -- l’infinito del ponente – la scuola di Diano Maria -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Maria). Abstract. Grice dwelt with the infinite early on in his career. ‘I kow that there are infinitely many stars,’ Grice claimed, was a piece of nonsense which, contra Austin, was bound to appear in ‘the vernacular’ or ‘the vulgar’. Grice’s tirade is against those defensors of ‘ordinary language’ that couldn’t recognise ‘ordinary’ from their elbow! At a later stage of his development, Grice re-encountered the infinite in terms of the ‘regressus ad infinitum.’ True, he proposes an ‘anti-sneak’ clause to cut that regress short. But, in response to some possible objection to this as ‘ad hoc’ he would comment: ‘And if the ‘analysans’ of ‘… significat …’ DOES appeal to the infinite – what?!” – Things were different for N., who knew that he knew the infinite – at least for the purposes of his ‘laurea’ – recall that ‘laurea’ occurs in Grice’s degree earned at Oxford, that of BACCA-LAUREVS in artibus --. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Diano Maria, Liguria. Grice: “Novaro comes from my favourite area in Italy, “La riviera ligure”!” Grice: “Novaro wrote a nice little treatise on the nature of the infinite – a concept which fascinates me!” --Fratello di Novaro, nacque da famiglia economicamente agiata e dopo aver condotto brillantemente gli studi liceali, ottenendo la laurea a Torino. Si stabilì a Oneglia dove fu assessore comunale per il partito socialista. Dopo avere per breve tempo insegnato nel locale liceo, con i fratelli si occupò dell'industria olearia intestata alla madre Paolina Sasso.  Pur dedito all'attività imprenditoriale fece parte attiva della vita letteraria dei primo anni del Novecento e fondò la rivista “La Riviera Ligure,” da lui diretta fino alla sua cessazione. Ospitò nel suo giornale filosofi come Pascoli, Roccatagliata, Jahier, Boine e Sbarbaro.  Scrisse saggi di carattere filosofico e raccolse tutte le sue poesie, che hanno come tema principale il bellissimo paesaggio ligure, in un volume intitolato Murmuri ed echi che vide le stampe. Fu anche il curatore dell'edizione delle opere di Boine che sentiva affine negli interessi soprattutto di carattere etico. Saggi: “Finito ed iinfinito” (Roma, Balbi), “Murmuro ed echo” (Napoli, Ricciardi) – cf. Grice, “Implicatura ecoica” --; “All'insegna del pesce d'oro” (Genova, Devoto). Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La Riviera Ligure Nicolas Malebranche. Tra Diano Marina e Oneglia: i luoghi dei fratelli Novaro, su parchiculturali. Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Scheda biografica nel sito della Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Se il concetto di “infinito” è stato dal sorgere della filosofia italiana, uno degl’oggetti più costanti degl’uomini, il progresso verso una definitiva soluzione delle difficoltà che esso presenta non e tuttavia che straordinariamente lento. A ciò à sopratutto contribuito il rilegare, come a priori, l’infinito fuori del campo appunto della filosofia e si considera il regresso all’infinito una fallacia. Poiché quando si ammette senz’altro che, essendo l’uomo finite, non si può pretendere eh' esso arrivi a comprendere l’infinito. Hobbes, De corpore; Descartes, Principien, ediz. Kirclimann, GALILEI, Opere (Milano); Locke, Essay on humane Underslaning, ediz. Ward, World Library, Hume, Treatise, ediz. Selby-Bigge, cfr. anche Jevons, Principia of Science. S’è già troncata la questione senza neanche avei’la posta. S’è lasciato intatto il mistero che sembra involgerla. Già tutti i concetti che in qualche modo ha una stretta attinenza con altri concetti ontologici dovettero per questo attendere a lungo prima di venir trattati in corretto modo analitico. La oscurità misteriosa del concetto di “infinito” si ripercorse naturalmente negli oggetti nei quali esso poteva trovare applicazione, come il tempo, lo spazio, la materia, l’universo, l’essere. Anzi si comincia dapprima ad accorgersi delle difficoltà del concetto di “infinito” non cosi in astratto, ma nell’esame degli oggetti ai quali la infinitezza pare doversi attribuire. Tanti secoli prima della ripresa della questione per Locke, trattarono il problema con sommo acume dialettico i veliani de Velia. Sugli veliani e la loro importanza, vedi specialmente la “Kritische Geschichte der Philosophie” di Dùhring. Le difficoltà che conduceno al veliano a negare la realtà dello spazio non sono punto illusori. Cantor, “Geschichte der Matematik”. Bei ihnen [i tropi dei veliani] handelt es sich um Schwierigkeiten, denen in der That-wcder der Philosoph noch der Mathematiker in aller Strenge gerecht werden Kann Zwei Jakrtausend und mehr haben an dieser zàhen Speise gekaut, und es ware unbillig von den Veliani des funften vorcbristlichen Iabrhunderts zu verlangen, dass sie in Klarbeit gewesen seien iiber Dinge, welche freilich anders ausgesprocben noch Streitigkeiten unserer Gegenwart bilden. Nò altre furono quelle che spinsero poi Kant ai risultati della estetica trascendentale. Sebbene più d’uno storico della filosofia davanti ai tropi di quell’ acutissimo filosofo sentendo l’imbarazzo suo a confutarli, stima poterli chiamare sofismi o false sottigliezze che chi le esaminasse da vicino e colla necessaria acutezza non dovrebbe tardare a riconoscere evidentemente per tali. E più d’uno nel confutarli à seguito, come Zeller, Aristotele che in questo se in altro mai fu infelicissimo. Aristotele crede di confutare il veliano (V. anche Apelt, Beitrdge sur Geschichte der Grieschischen Philosophie, Leipzig) col dire che la dimostrazione data dal veliano riposa sulla falsa et i matematici, i quali spaventati dalle contraddizioni svelate dai veliani avevano dovuto per forza rinunciare a far uso del concetto di “infinito” e lasciar tanto tempo infruttuoso l’ardimento di Antifontem continuarono a lungo ad aiutarsi altrimenti per non derogare alla rigorosa esattezza delle loro dimostrazioni, Cosi il concetto d’”infinito” non compare mai esplicitamente nella geometria degl’antichi. E Archimede ha seguaci anche dopo che il calcolo infinitesimale ha chiaramente mostrati i suoi cosi fecondi vantaggi. Ragione principale di ciò e il non avere l’autore stesso del concetto di “infinitesimo”, saputo mai nè pienamente giustificarlo, nè dargli un denotato preciso, si che egli molte volte ha a espri supposizione che il tempo consti di singoli momenti (ex -J 5 v aio Èrtovi come se la critica del velino non valesse indifferentemente tanto per il continuo dello spazio che per quello del tempo stesso. Cfr. Cantor. Er (Aristotele) lòst das Paradoxon der Duschlaufung dieser unendlich vielen Raum-punkte in endlicher Zeit, durch das neue Paradoxon, dass innerhalb der endlichen Zeit unendlich viele Zeittheile von unendlich Kleiner Dauer anzunehmen seien. Sul concetto di “infinito” in Aristotele vedi specialmente “Phys.”, De Coelo. Il LIZIO dà una divisione dei vari generi di infinito, che come sempre 0 spessissimo presso lui è più una spiegazione di parole che di concetti. Inoltre è la sua trattazione oscura e affatto manchevole. Aristotele non accetta che l’infinito *potenziale*, il quale nasce dal non trovar la nostra immaginazione alcun limite così nel togliere come nell’aggiungere. Rifiuta l’infinito attuale. L’infinito, dice Aristotele, non è grandezza nè à parti così, come il suono è per sò invisibile (Phys., Ili, 4 ). Non esiste dunque in realtà, perchè non v’ è grandezza cui possa attribuirsi. Ma la contraddizione che Aristotele crede dover evitare rigettando il concetto dell’infinito attuale è appunto nascosta invece in quello del continuo. Altrimenti Aristotele non avrebbe così leggermente creduto di aver superate le difficoltà dei veliani. li Montucla, Histoire cles recherches sur la quadrature du eercìe. Paris, Hankel, Zur Geschickte der Matliematik ivi Alterthum und Mitelaltcr.] juersi sulla sua nozione in modo affatto contradittorio. E se i filosofi non riuscirono a chiarire i loro concetti riguardanti l’infinito trascurando la maggior parte di aiutarsi con un esame accurato dalle difficoltà che incontrano anche i matematici, questi dal canto loro si sono del pari in grau parte appagati dei risultati, senza sentire troppo acuto il bisogno di rendersi conto esatto dei concetti dei quali hanno a fare un continuo uso. Che anzi per le difficoltà, oscurità o contraddizioni dell infinito tranquillamente si rimettevano Leibniz, anche quando si esprime più razionalmente intorno ai concetti infinitesimali, conserva pur sempre in fondo una evidente ambiguità sulla natura generale del concetto d’“infinito”. Lascia infatti alla ontologia, senza risolverla Leibniz stesso, la questione se si diano propriamente degl’infinitamente piccoli rigorosi. E cosi tiene pure per indifferente considerare per tali gl’infinitesimi o soltanto per arbitrariamente piccoli. Leibniz inclina però più a tenere l’infinito rigoroso per una finzione. Leibniz, Opera omnia, ed. Dutens e Leibniz; il/af/iema</se/»e Schriften, Gerhardt I', dove Leibniz pare considerare gli infinitesimi come quantità finite variabili e cfr. Gerhardt, Erdmann, dove egli parrebbe ammettere l’infinitesimo *attuale*. In altri luoghi, Leibniz è affatto incerto; ed. Dutens, Gerhardt, e vedi specialmente un passo ivi. Infatti dopo l’adottamento del calcolo, una delle prime accademie d Europa, quella di Berlino, presieduta da uno dei più grandi matematici, da Lagrange, apriva un concorso sul concetto dell’infinito. Dice tra altro ai concorrenti. On demande […] une thdorie clairc et precise de ce qu’ on appelle ‘influì en mathcmati jue. On sait que la haute geometrie fait un usage continuel des infiniment grands et des infiniinent petits. Cependant les geomètres et meme les analystes anciens, ont eviti* soicneusement tòut ce qui approche de l’infini, et des grands analystes modernes avouent que les termes grawleur infmie sont contradictoires. L’Acad^mie sou- haitc donc qu’ on explique comment on a déduit tant de theorèmes vrais d une supposition contradictoire. Nouveaux Mémoires de l’Acad. des Sciences. Berlin. come molti si rimettono tuttora, all’ongologia. L’unico filosofo dal quale si sarebbe potuto aspettare qualche dilucidazione definitiva, Corate, il quale era tanto versato nelle matematiche e che di esse à dato una cosi bella e tuttora insuperata sistematica trattazion generale, non solo non fa fare un passo alla questione, ma neppure seppe bastantemente apprezzare i grandi meriti del lavoro di Carnot, il quale prepara la soluzione definitiva. Solo Locke e Kant sono cosi i filosofi che fanno verso di essa un passo decisivo. Kant però si direbbè che lo fa in senso reazionario, chè se Locke avesse decisamente cangiato li suo metodo empirico e psicologico con un metodo critico, come egli in realtà è qualche volta inconsapevolmente vicino a fare, avrebbe egli stesso còlto 1’ultimo futto della sua fine analisi. Ad ogni modo è merito di Locke, oltre aver risolto l’infinitamente piccolo e grande nel processo formale dell’animo, l’aver dimostrato come un tale concetto sia solo propriamente applicabile a grandezze, al numero, al tempo ed allo spazio. Con ciò ogni nebuloso abuso scolastico e metafisico di esso, era reso impossibile, e ogni sua applicazione ad altro che a concetti di grandezze diventava una pura metafora. Rilacendosi da Locke e approfittando della luce che Carnot getta sulla natura dell’infinitesimo, il Duhnng à finalmente completata la razionalizzazione di [ Leibniz, passo citato, Gerhardt e Montucla, Histoire des mathématiques. Quanto alle questioni che l’ontologia può sollevare sul concetto dell’infinito, il matematico “a droit de ne s en pas plus embarasser que des disputes des physiciens sur la naure de 1 etendue et du movement.” Locke, On human Umlerst., questo concetto. L’infinito assoluto ha però Diihring costantemente rifiutato come la più assurda contraddizione in tutti i suoi saggi filosofici. Soltanto- nell’ultima suo saggio filosofico arriva egli ad una luminosa distinzione dell’infinito *assoluto* dal infinito relativo. La sua dimostrazione è però geometrica, e non insieme algebraica. Manca quindi di generalità. Cosi si spiega come Diihring ritenga ancor ora inammissibile l’applicazione dell infinito al tempo, che egli à assurdamente e colla più gran forza di convinzione fatto finito nel passato. Diihring vide che ove il concetto di infinito non viene dapprima reso chiaro e incontradittorio nella matematica, la rocca in apparenza più forte rimarrebbe in piedi a difesa del mistificante concetto. La nozione di infinito non è però specificamente formale. Il concetto d’infinito appartiene a quel campo della filosofia ‘speziale’, in cui anno comuni le radici o i principi e la matematica e la logica. La. soluzione di un problema cosi universale non può esser diversa, ove esso venga formulato con la dovuta astrazione ed esattezza, sia che la si cerchi nel campo piu astratto dell’ontologia della concezione universale dell’*essere*, sia che la si cerchi nel campo dell’algebra. Non [Nat Uri iche Dialéktik -- questo libro d’oro di puro criticismo, la cui prima edizione è esaurita da molti anni senza che Diihring si decida a ri-pubblicarlo, malgrado il viro desiderio di molti suoi ammiratori, quali per un esempio v. Gizicky e Riebl. Vedi specialmente dello stesso, nei “ Xeue Grundmitteln u. Erfindungen zur Analysis, ecc. il capitolo terzo. L’analisi critica dell’infinitesimo ivi data riassumiamo noi brevemente nel numero seguente, modificandola però nel senso della corretta legge del numero determinato. V. sotto. Cursus der Philosophie; Logik und KVssenschaftstheorie, è un differente problema quello di Senone di Velia, da quello che occupa a cosi grande distanza di tempo i matematici dal seicento in poi. In tutti i problemi riguardanti il concetto di “infinito”, le difficoltà ànno la loro comune radice nella contraddizione fondamentale nascente dalla posizione di un infinito numericamente dato e compiuto nel *finito* stesso. Cosi l’infinitesimo, e già prima l’indisivibile di CAVALIERI, e pensato assurdamente quale risultato di una infinita divisione, o come l’elemento più piccolo d’ogni grandezza assegnabile, di cui si integra ogni grandezza finita. Più piccolo di qualunque quantità data e pensato l’infinitamente piccolo, e maggior d’ogni data grandezza l’infinitamente grande, arrivando anche qui ad una infinità compiuta, come raggiungibile per via di una sintesi successiva. Tra lo zero e una comunque piccola grandezza dovrebbe dunque esistere qualcosa di intermedio. Questa ibrida quantità non dovrebbe esser zero ma neppure perù una determinata quantità per quanto arbitrariamente piccola. Essa dovrebbe esser minore d’ogni quantità assegnabile o qualcosa che esprima l’ultimo irraggiungibile grado di piccolezza immaginabile e prima dello zero. Minore d’ogni quantità assegna- [Modificando la nozione di GALILEI di “momento”, già Hobbes define il conatus (concetto che doveva poi diventare il fondamento della teoria newtoniana), il moto lungo uno spazio minore di qualsiasi assegnato. Hobbes conserva, però, malgrado l’equivoca definizione, come dell infinitamente grande (De Corpore) cosi dell’infinitesimo un giusto concetto. Di quest’ultimo haa intesa infatti a essenziale relatività. V. De Corpore. Delimemus CONATUM esse motum per spatium et tempus minus q’uam quarn bile è però soltanto lo zero; una quantità non può venir immaginata oltre ogni assegnabile grandezza. Tra la quantità e lo zero non vi è cotesta assurda finzione. A meno che il dire “minor d’ogni data quantità” abbia quod datar, id est determinatur, sine expositione vel numero assignatur ìaest per punctum. Ad eius definitiouis explicationem meminisse oportet per punctum non intelligi id quod quantitatcm nullam habet, sive quod nulla ratione potest dividi (niliil enim est eiusmodi in rerum natura) sed id cuius quantità non consideratili-, hoc est cuius neque quantitas neque pars ulta inter demonstrandum computatur. Ita ut punctum non habeatur prò IN-DIVISIBILI. Sed prò IN-DIVISO. Sicut edam instans sumendum est prò tempore IN-DIVISO non prò IN-DIVIS-IBILE. Similiter Conatus ita mtelhgendus est, ut sit quidem motus sed ita ut neque tempori in quo fìt neque lineai per quam fit quantitas, ullam comparationem habeat in demonstratione cum quantitate temporis vel line cuius ipsa est pars. Quanquam sicut punctum cura puncto, ita conatus cum Canata comparaci potest et unus altero maior vel minor reperiri.Poisson ammette invece nel modo più esplicito l’assurdo concetto dell infinitesimo di cui sopra è parola. Un infiniment petit est une grandeur moindre que toute grandcur donnée de la meme nature. On est conduit naturellement a ridde des infiniment petits, lorsqu’on considère les variations successives d’une grandeur soumise à la loi de continuiti. Ainsi, le temps croit par des degrés mo.ndres qu’ aucun intervalle qu’on puisse assigner, quelque petit quii soit. Les espaces parcourus par le différents points d’un corps croissent aussi par des infiniment petits, car chaque point ne peut fi er d une posdion à une autre, sans traverser touts les positions intermédiaires, et l’on ne saurait assigner aucune distance, aussi petite qu on voudrn, entre deux positions successives. Les infiniment petits ont donc une existence rielle, et ne sont pus seulement un mo.ven d’investigation imagini par les giometres. Traile de mécanique, Bruxelles) l’er questa ragione non pochi matematici, quali Bernouille “oto^amente Eulero, pensarono l’infinitesimo come assolutamente nullo. Anche GALILEI, sebbene con altro linguaggio, scompone il continuo esteso in infiniti punti inestesi o nulli senza però trovar poi il modo di farlo generare da quelli. V. GALILEI Opere. Sopra gli atomi non quanti di lui vedi Lasswitz, Galileis Thieorie der Materie, 1 lerteljahrsschrift f wiss. Philosph., a riferirsi non a qualcosa di effettivo o di dato, ma al nostro animo -- il nostro volere -- come ragione della infinita divisibilità, potendo noi sempre supporre una quantità più piccola di ogni qualunque piccola quantità data. Come nella serie dei numeri noi possiamo (prova Peano) farci un concetto dell’infinito aggiungimento di unità a unità, cosi possiamo farcene uno della possibile divisione dell'unità all’infinito. Un tal concetto non rimane tuttavia che il campo d’una operazione che non può per la sua natura venir mai compiuta. La infinita divisione come la infinita addizione non possono mai senza contraddizione considerarsi come eseguite. Non si può con un salto oltrepassare un’infinità di operazioni, ponendo l’ultima come già compiuta, che invece non può mai essere. Ciò che esiste o è dato numericamente quale totalità non può esser che in numero determinato. Un numero infinito come qualcosa di dato o compiuto nel finito medesimo è un CONCEPTO IMPOSSIBILE perchè vorrebbe porre ciò che insieme viene a negare. Ammesso dunque che abbia a dirsi di una quantità che essa è minore d’ogni possibile quantità data, ciò potrà solo razionalmente indicare che è pur sempre possibile suppor quella come ancor più pioti) È questa la legge formulata da Diihring sotto il nome di legge del numero determinato (Gesetz der bestimmten Anzahl). Cfr. Kant: Kritikd. reinen Vcrn. edizione Kirchmann. Sohald etwas als quantum discretum angenommen wird, so ist die Menge der Einheiten darin bestimmt, daher auch jederzeit einer Zahl gleich. Diihring però, e qui sta il grave errore della sua teoria dell’infinito, à tralasciato come iKant di aggiungere che tale legge à valore appunto, come diciamo noi, solo in riguardo a grandezze che si lasciano concepire come totalità, ossia in riguardo a grandezze comprese tra limiti. cola di una qualunque data comunque già piccola per sè. La illimitatezza riposa sul concetto della infinita possibilità della ripetizione, non è dunque un concetto di effettività, ma di mera possibilità. Il moto nevi realizza come si crederebbe l’assurdità di una infinita divisione o di una infinità di parti nel finito. Moto non è che il concetto di ciò che la stessa cosa si trova seguentemente prima in un luogo e poi in un altro. Nostro APPARATO SENSORIALE non fa che abbracciare un dato numero di posizioni diverse, e l’animo non trova altro che il fatto ossia la cangiata posizione. Noi non possiamo formarci nè pretendere altro chiaro concetto che quello del passaggio da un punto all’altro. Possiamo solo, ove ce ne sia l’animo, INTER-POLARE delle posizioni intermedie a piacere senza limite alcuno. Ma effettivamente nè la natura nè noi possiamo fis:arne altro che un numero determinato. È una illusione il credere che un punto, ad esempio, nel muoversi in linea retta vei’so un altro punto fisso, e trascorrendo secondo il concetto comune di un movimento assolutamente continuo, per ogni posizione, trascorra con ciò effettivamente, se posso dir cosi, per ogni grado di piccolezza. La posizione di infiniti punti distinti in una determinata estensione è sempre e solo una possibilità ma non mai un fatto compiuto. Di due punti immediatamente aderenti NOI ABBIAMO ASSOLUTAMENTE CONCETTO ALCUNO. Punti inestesi o coincidono, o hanno una posizione diversa, e allora anche una determinata distanza. 11 punte non può che passare da uno ad un altro punto, comunque noi idealmente possiamo astrarre da cotesti trapassi e considerare unicamente la infinita possibilità (li posizioni diverse. La stessa illusione è nel dire che una quantità cresce per gradi minori di ogni comunque piccola grandezza data. E vero che m matematica le quantità continue crescono per gradi e che ogni nuovo incremento elementare possiamo immarginarcelo già per sè stesso composto di ancor più piccoli incrementi elementari all’infinito. Ma oltre che nella realtà bisogni. Che esistano dei limiti a questa illimitatezza che è solo della facoltà del nostro ANIMO, è anche vero che le quantità non constano di elementi per sè esistenti, e che invece noi solo distinguiamo in esse delle divisioni e stabiliamo dei limiti che per sè non sono dati. Il concetto di continuità ne involge uno infinitesimale che però inchiude solo la possibilità di un infinito porre di limiti, ma non una infinità di limiti posti. Esso è quindi come quello dell’infiuitamente piccolo un concetto di pura posibilità. La illimitatezza nella scomponibilità in parti che possono in ogni caso venir fatte ancora più piccole che una qualunque piccola grandezza data, e dunque ciò che di razionale s’ à a sostituire al concetto nebuloso dell’ infinitamente piccolo. Con ciò viene evitata quella ipostasi o per cosi dire insostanziazione di un modo di azione del nostro animo, o di una mera possibilità, la quale è inchiusa nel falso concetto della grandezza minore di ogni altra assegnabile, come di qualcosa realmente esistente quasi mèta irraggiungibile ma pur reale di una infinità di operazioni. Non esiste un ultimo piccolo o infinitesimo, ma solo una infinita possibilità di rimpicciolimento. 1 Si deve dunque pensare che il differenziale è nel calcolo una grandezza finita relativamente piccola, la quale nel complesso delle operazioni può e deve rappresentare ad arbitrio ogni grado di piccolezza. Si tratta per eempio, dice Diihring, di una lunghezza. Può questa, come infinitamente piccolo, essere secondo le circostanze un milionesimo di millimetro ovvero una distanza solare. L’essenziale non istà in queste eventuali determinazioni, ma nel pensiero che in luogo di quella grandezza, scelta in relazione a un tutto come parte insignificante, possano nelle operazioni sostituirsi altre ed altre senza limite alcuno sempre più piccole verso lo zero. L’ infinito o la illimitatezza non è dunque ipostasiata nel differenziale, si bene sta nel nostro animo che questa grandezza rappresenta qualunque grado di piccolezza oltre il suo. Razionalizzato cosi il concetto fondamentale del calcolo, non à più ragione quella ripugnanza che i migliori matematici anno sempre sentito per quella oscura ipotesi o idea falsa, come la chiama Lagrange, dell’infinitamente piccolo. L’analisi è dunque, dice Diihring, un calcolo d’ approssimazione, ma si noti bene- non di semplice approssimazione, bensì di approssimazione infinita. I sensi trascurano nel piccolo le quantità insignificanti che loro NON SONO più PERCETTIBILI, e se fatti più acuti procederebbero del pari in analoghe proporzioni; cosi fa il calcolo nel trascurare quantità che nelle [l'reyeinet: Étude sur la métaphysique du haul calcul. Cfr. Carnot : Reflexions sur la métaphysique du calcili infinitesima!, Comte: Cours de philosophie positive] loro funzioni darebbero in ultimo per risultato una grandezza che per la sua ultima piccolezza non à importanza alcuna. Accanto a quantità finite si trascura nel risultato e con ragione, un infinitamente piccolo, poiché è nella sna natura di poter venire senza fine rimpicciolito verso lo zero. Idealmente c’ è dunque un abisso tra l’infinitesimo e lo zero. Non quello ma questo è il limite dell’ infinito rimpiccoliinento, e prima dello zero non vi sono che quantità in realtà sempre finite, comunque possano secondo il bisogno venir supposte sempre più piccole verso di esso. D’altra parte nella direzione opposta dell’ infiniitamente grande si à analogamente a distinguere tra [Non altro significa il luminoso concetto di Carnot delle equazioni imperfette. Tuttavia Carnot non arriva a dar l’ultima chiarezza alla nozione dell’infinitesimo. Infatti non avrebbe altrimenti creduto vi fosse bisogno (per dimostrare come i risultati del calcolo in apparenza soltanto approssimativi, siano in realtà esatti) oltre che della considerazione dell’arbitrarietà del differenziale, anche di una dimostrazione della compensazione degli errori. Comte poi frantese affatto ciò che di veramente importante e duraturo conteneva lo scritto di Carnot, e ravvisa così il merito di lui appunto nella dimostrazione della compensazione degli errori (Cours de philosophie positive), la teoria invece dell’arbitrarietà del’infinitesimo la trova più sottile che solida. l concetto della rigida uguaglianza degl’antichi venne definitivamente superato con Leibnitz e Newton. Ciò che però non venne schiarito e rimase oggetto di tutte le lunghe innumerevoli dispute a cui diede luogo il calcolo differenziale, e un giusto concetto di ciò che avesse a indicare la trascuranza, nelle equazioni, dell’infinitamente piccolo. Dopo Carnot la relatività del concetto del differenziale s’è sempre più fatta strada nelle menti dei matematici. Ma non basta questo a razionalizzare l’infinitesimo. Dove colla relatività di esso si ammette però ancora (v. ad es. Montucla : Histoire des maih.) che questo possa divenir minore d’ogni quantità assegnabile, s’è pur sempre lontani da una esatta concezione. questo e 1’ infinito assoluto o transfinito. Qui cometa si à una differenza qualitativa: nell’ un caso si à ancora a fare con delle grandezze, nell’ altro il concetto proprio di grandezza è scomparso. Il non aver distinto questi due concetti non à forse meno contribuito della contraddizione di un infinito compiuto nel finito stesso, implicato nel falso concetto del differenziale e del continuo, a rendere cosi pieno di supposte insolubili difficoltà il problema di cui ci occupiamo. All’infinitamente piccolo risponde perfettamente l’infinitamente grande. Abbiamo qui un accrescimento senza fine come là un illimitato rimpicciolimento. In entrambi i casi ci è data la norma di un’operazione che non deve poter mai venir considerata come compiuta, poiché essa deve rispondere alla illimitata possibilità di ripetizione- del nostro animo, con la quale dunque non c’è grandezza per quanto piccola o grande di cui non si possa sempre raggiungere un’altra ancora più piccola o grande. Attribuito ad una data grandezza il concetto di infinitamente grande non indica quindi altro che essa, comunque già grande, può senza fine venir considerata ancor sempre più grande secondo il bisogno. In ogni aso non sarà però ella mai altro che finite. Come la nostra sintesi benché non abbia limite, pure in fatti non può -- Chiamo infinito assoluto o trans-finito – tras-finito, a distinzione dell't/t/unVo relativo (infinitamente piccolo o grande), ciò che Diihring dice illimitato (Unbegrcnzt) [LIMITATO/NON-LIMITATO] e Cantor, e dietro lui Wundt e Lasswitz chiamano appunto transfinito o tras-finito (<o ). Del resto una volta riconosciute queste differenze essenziali, nulla impedisce di adoperare anche solo e indifferentemente l’espressione “infinito”, lasciando al contesto conversazionale l’ulteriore specificazione. mai esercitarsi che nel finito. Anche l’infinitamente grande è un concetto di mera possibilità e non mai di effettività. Non è quindi propriamente applicabile ad alcuna grandezza determinata. La serie progressiva dei numeri nella sua illimitata addibilità è il più chiaro esempio dell’infinitamente grande. Noi non possiamo mai arrivare ad un ultimo membro delle serie, perchè la possibilità di aggiungerne altri riman sempre la medesima. E nella natura dell’infinitamente grande di non poter venir mai compiuto. La illimitatezza non è neppur qui data oggettivamente, ma sta invece in questo che la grandezza infinitamente grande può rappresentare ad arbitrio una grandezza sempre maggiore oltre la sua. Inteso cosi è senz’altro chiaro che rinfinitamente grande non è un infinito in atto e non può senza contraddizione venir scambiato con questo. L’aver confuse l’infinito assoluto o transfinito o trasfinito o illimitato coll’infinitamente grande è appunto la cagione che condusse chi mirava a un esatto [Locke, On bum. Underst, Our idea of infinity being, as I think, an endless growing idea, biit the idea of any quantity our soul kas being at that tirae terminated in tbat idea (l'or be it as great as it will, it can be no greater than it is), to join infinity to it, is to adjust a standing measure to a growing bulk. We can bave no more the positive idea of a body infinitely little than we have thè idea of a body infinitelv great. Our conception of infinity being, as I may so say, a growing and “fugitive” concept, stili in a boundless progression that can stop nowhere. Our conception of the infinity [...] return at least to that of number always to be added. But thereby never amounts to any distinct idea of actual infinite parts. We bave, it is true, a clear idea of division, as often as we will think of it. But thereby we have no more a clear idea of infinite parts in matter than we have a clear idea of an infinite number, by being able still to add numbers to any assigned nember we have. E chiaro concetto di quest’ultimo a rifiutare risolutamente il primo, dopo averlo trovato incompatibile colla nozione di quello. Mentre l’infinitamente grande esprime una illimitata possibilità, il transfinito o trasfinito esprime invece una effettività compiuta cui l’infinitamente grande non arriva mai. Nel transfinito o trasfinito ogni grado di ingrandimento è già anticipatamente dato. Esso è realmente maggiore di ogni assegnabile grandezza, e dal finito non c’è modo di farlo originare, sebbene ogni finito sia in esso. La facile obbiezione che nessuna grandezza è la più grande perchè le possono sempre venir aggiunte altre unità, non tocca. L’infinito assoluto, ma solo una NOZIONE IRRAZIONALE dell’infinitamente grande, partendo ella da un falso concetto del transfinito o tras-finito, secondo il quale si avrebbe questo a lasciar pensare come un tutto, ossia, contrariamente all’assunto, come finito. Il concetto di totalità applicato al transfinito o tras-finito è trascendente, benché tale non sia il transfinito o tras-finito per sé. Se l’infinito assoluto non può venir esaurito dalla sintesi empirica di nostro animo, non è questa una ragione per rifiutarne il concetto : la sua natura consiste infatti appunto in ciò di NON POTER VENIR RAPPRESENTATO come una totalità ossia esaurito per mezzo di una sintesi empirica di nostro animo -- successiva delle sue parti. – Cf. Speranza, ‘mise-en-abime’ – come violazione del prinzipio conversazionale – be brief. Rifiutarlo perchè non si lascia trascorrere da un capo all altro, è rifiutare il transfinito perchè appunto tale, ossia perchè non è finito, o perchè non si trovano endless divisibility giving us no more a clear and distinct idea of actuallv infinite parts than endless addibility, if I may so speak, gives us a clear and distinct idea of an actually infinite number, both being only in a power stili of increasing thè nuinber, be it already as great as it will” ia esso le proprietà che dal suo concetto sono precisanente escluse. Mentre nell’infinitamente grande la sintesi empirica di nostro animo è quella che aggiunge membro a membro. Nell’infinito assoluto troviamo noi sempre ogni ulteriore membro come già innanzi esistente prima che la nostra sintesi lo abbia raggiunto, indipendentemente da essa. È dato quindi così il numero infinito, se “numero” può questo ancora chiamarsi – “As far as I know there are infinitely many stars” --, che è in realtà la negazione di esso e con ciò di ogni determinazione nel grande. Il “numero” infinito non è più nè ‘pari’ nè ‘dispari’, e neppur quindi aumentabile più, nè diminuibile. Esso è dunque qualcosa di affatto compiuto, al contrario dell’infinitamente grande che è in un continuo'flusso; e sta a questo come all’infinitamente piccolo sta lo zero. Come nello zero non c’è più possibilità di rimpicciolimento, cosi non ce n’è più di ingrandimento nel transfinito o tras-finito. Questo è la negazione della grandezza misurata nel grande, e lo zero la negazione della grandezza in generale e con ciò della grandezza nella direzione deH’infinitamente piccolo. Lo zero come l’infinito assoluto sono non tanto quantitativamente quanto per qualità diversi da ogni altra grandezza. L’infinitamente piccolo e grande sono in un continuo flusso, lo zero e il transfinito sono invece forme fisse ; il principio generativo dei primi non è applicabile ai secondi. Dall’infìnitamente piccolo allo zero e dall’infinitamente grande all’infinito assoluto c’è, a dir proprio, un salto. Duhring: Neue Grundmlttel, ecc. Lo zero e l’infinito assoluto o trasfinito si fanno dunque riscontro. Ed erra «quindi Lasswitz che nega esserci qualcosa di corrispondente a que- [Nel primo caso il passaggio sta non nel rimpiccilire all’infinito per successive divisioni la quantità piccola in modo che avanzi pur sempre un resto, ma nell’ultimo atto risolutivo col quale si sottrae interamente il resto stesso. Nell’un caso si riman sempre nel campo dell’infinitamente piccolo, nell’altro si salta propriamente dalla quantità al nulla di essa. Una quantità non viene mai esaurita col sottrarre ripetutamente anche all’infinito una nuova parte del sempre nuovo resto. Bsogna togliere in ima volta l’intero resto altrimenti si avrà una convergenza continua verso l’irraggiungibile zero, ma non mai propriamente lo zero. E solo in quest’ultimo caso sarebbe veramente esaurita la grandezza. Non bisogna prender per esaustione reale una infinita approssimazione. Ciò che e l’ESAUSTIONE è solo tale fino ad un infinitamente piccolo. Ma questo vien da essa lasciato inesaurito. L’saustione non à luogo che con un salto alla Peano, ossia con un vero passaggio. La inter-polabilità infinita di posizioni tra punto e punto non toglie che da posizione a posizione il passaggio debba rimanere E come v’è un salto da un punto a un altro in una linea, cosi v’è da un punto al punto ultimo col quale la grandezza finisce. Solo col st’ultimo. (Lasswitz: Zum Problem der Continuitdt, Philosoph. Monats - hcfte); come pure e più erra Wundt che crede cadere nel differenziale ogni differenza essenziale tra l’infinito e il transfinito o trasfinito. Wundt: Kants Kosmologische Antinomien u. das Problem der Unendlichke.it Philos. Studien: (che) das Intinitesimalsy.nhol ebenso gut in Siane einer unendlich zudenkenden Abnahme einer gegebener Grosse, wie im Sinne des bereits vollzogenen Processes- dieser Abnahme gedacht werden kann. Hier fàllt niimlich ein wesen- tlichcr Unterscbied des Infiniten und Transfiniten vollig hinweg. -- passaggio allo zero si à però un risultato differente non tanto per quantità quanto per qualità dagli altri. D’altra parte lo stesso risultato qualitativamente differente si à nel secondo caso del passaggio dall’infinitamente grande al transfinito o tras-finito. Praticamente si può concliiudere è vero dal caso dell’incoutro di due rette a distanza infinitamente grande al caso delle parallele, in quanto si astrae dallo sbaglio infinitamente piccolo, e si pone come identico il risultato solo infinitamente approssimativo. In realtà però mentre il punto d'incontro si allontana infinitamente all’vvicinarsi delle due rette al parallelismo senza raggiungerlo, raggiunto che questo sia, esso è scomparso, essendo per sè la infinita estensione della linea LA NEGAZIONE DELLA POSSIBILITa d'uu punto d’incontro, poiché questo le farebbe finite. Ed à luogo allora quella illimitatezza od infinità assoluta della retta, la quale è la negazione della grandezza misurata nel grande, come lo zero è la negazione della grandezza in generale. Un indubitabile significato si lascia dare al transfinito o trasfinito, come vedremo in séguito soltanto nella serie infinita dei processi del tempo passato. Il nostro regresso che assume qui la forma dell’infinitamente grande, procede in base al transfinito o trasfinito della realtà, poiché esso trova e suppone necessariamente come dati sempre piu membri della serie di quelli che esso raggiunge. Se si fosse costretti a pensare l’universo infinito in estensione si avrebbe una seconda applicazione reale del nostro conti) Diihring, luogo citato. «etto ; ma rimanendo insolubile la questione se la natura o L’UNIVERSO o il numero dei stelle sia o no infinita, non si à che l’applicazione di esso allo spazio puro. Ed ecco la dimostrazione che dà di questa Dtihring, colla quale egli stabilisce appunto la distinzione dell’infinito relativo dall’infinito assoluto. La tangente di un angolo che differisce da 90° di una infinitamente piccola differenza, è come la rispettiva secante infinitamente grande. Ad ogni grado di riin-piccioliinento della differenza risponde un grado di ingrandimento della tangente e della secante dell’angolo. Cosi il punto in cui le linee si tagliano si fa sempre più lontano. Rimane però sempre dato un incontro reale delle linee fin che sia data una per quanto piccola divergenza da 90°. Se si à invece una differenza uguale a zero ossia se non se ne à alcuna, non si à nemmanco più propriamente una SECANTE nè una propria TANGENTE. Entrambe le linee loro corrispondenti non si tagliano più. Nel caso dello zero o, ciò che sarebbe lo stesso, per la CO-SECANTE e la CO-TANGENTE di 0 non esiste più alcuna grandezza, allo stesso modo che nello zero medesimo. Intatti la illimitatezza di una linea non è già una quantità della stessa j ella è invece l’assenza d’ogni determinazione quantitativa. In tal modo allo zero dall’una parte corrisponde dall'altra l’illimitato non quanto (das grossenlose Unbegrenzte). Il caso dell’infinitamente grande si distingue da quello dell’infinito assoluto per questo, che la possibilità (della illimitata estensibilità) non figura come per sè data, ma vien 'riferita alla nostra attività.Di pio quest’ultima possibilità vien sempre rappresentata coinè dipendente di un’altra, in modo che dall’infinito rimpicciolimento e dal grado di questo dipende l’infinito ingrandimento e rispettivo grado costantemente corrispondente Una distinzione simile a quella di Diihring à fatto in riguardo all’infinito Cantor, seguito in ciò da Wundt e seguito pure, sebbene con qualche riserva, da Lasswitz. Ad essa fa però assolutamente difetto quella spiccata razionalità che è la caratteristica della filosofia di Diihring. Crede Cantor che la serie dei numeri si lasci pensare non solo come compiutamente- infinita, ma come compiuta totalità. Cantor stima che si lasci pensar radunato in un tutto ogni numero intero positivo. L’aver sconosciuto l’inapplicabilità del concetto di totalità al transfinito o tras-finito è la cagione dell’assurda nozione che s’è fatto Cantor di questo. Infatti perciò à e Cantor potuto credere che il transfinito o trasfinito pnssa trovarsi nel finito stesso quasi come suo sostrato, e servire cosi alla spiegazione del continuo e del NUMERO IRRAZIONALE. Ma qui non si ferma Cantor : chè anzi la vera originalità della sua dottrina vede egli nelle differenze essenziali da lui trovate nel campo stesso dell’infinito assoluto. Si tratta infatti per lui sopratutto dell’ampliazione o proseguimento della reale serie dei numeri intieri Duhrinq. Logik. Cantor: Grundlagen einer Mannichfaltigkeitslehre; Zur Lehre vom Transfinite.] oltre l’infinito medesimo. Egli non ottiene solo un unico numero intiero infinito, si bene una infinita serie di tali numeri come benissimo tra loro distinti. Vi sarebbero cosi infinite classi di numeri ; la l a classe sarebbe la serie dei numeri finiti 1. 2. 3... v..., ad essa terrebbe dietro la 2 a classe composta di successivi numeri intieri infiniti in ordine determinato. Dopo la 2 a si verrebbe alla 3 a e alla 4 a classe e cosi all’infinito. In tal modo naturalmente l'infinito propriamente detto (“das eigentlicbe Unendliche”) non sarebbe ancora il vero infinito (“das walire Unendliche”) o l’assoluto. Chè anzi Cantor espressamente fa notare che in tal guisa non si arriverà mai a un limite ultimo, e neppure a una sia pur soltanto approssimativa comprensione dell’assoluto, il quale solo è un infinito non più oltre aumentabile. Con ciò il transfinito o trasfinito, quantunque determinato e maggiore d'ogni finito, avrebbe assurdamente comune col finito il carattere della illimitata aumentabilità. Cantor dà per esempio del transfinito o trasfinito la totalità dei numeri finiti, confessa però non darsi, o almeno pel nostro animo, una totalità dei numeri transfiniti, ossia l’assoluto o il vero infinito non poter venir concepito, quantunque necessariamente postulato. Qui dunque ritorna la difficoltà del problema, e questa volta Cantor confessa di non saperla sciogliere. Con ciò dà Cantor stesso involontariamente la miglior critica della sua teoria dell'infinito. Il suo transfinito o trasfinito del resto non è in fondo altro che l’infinito dell’animo di Spinoza e BRUNO [ Grundlagen. Zur Lehre. Illusorie come la infinita totalità sono le altre proprietà clie Cantor crede dover attribuire ai suoi immaginari numeri della nuova serie al DI là DELL INFINITO. Cosi il non esser questi più soggetti alla LEGGE DI COMMUTAZIONE (p e q = q e p) è una evidente ASSURDITà che rivela una inesatta concezione dell'infinito assoluto. Questo infatti è indifferente in riguardo al più e al meno. Ad esso non si può nè aggiungere nè togliere, come quello che non si lascia originare per via di operazioni. Per poter ad esso aggiungere qualche cosa converrebbe pensarlo dato quale compiuta totalità. Dia è falso che l'infinito si lasci concepire in tal guise. Cosicché invece di operare con esso si opera inavvedutamente con una quantità pur essa finita. Il concetto formulato da Diihriug dell’infinito assoluto non è nella storia dell’ONTOLOGIA del tutto senza precedenti, per quanto la critica da lui fatta dell’infinitesimo possa assai più facilmente rannodarsi a quella del Locke e di Ivant da una parte, e dall’altra a quella di Carnot, che non si lasci questa sua nuova distinzione rannodare a’ suoi precedenti storici (3). Veraci) Cantor: Grundlagen. Bradwardinus distingue nel suo trattato “De Continuo”, come espone Cantor (Geschichte d. Mathematik), “ zwei Unendlichkeiten, die “kathetische” und die “synkathetische”. “Katlietisch” oder einfach unendlich ist eine Grosse die kein Ende hat.” Syn-kathetisch” unendlich ist eine Griisse der gegenùber es eine endliche Gròsse giebt und ein andsres gròsseres Endliche, und wieder Eines gròsser als jenes Gròssere, und so oline dass ein Letzes sicb fiinde, welckes den Abschluss bildete; aucli dieses ist immer eine Gròsse, aber nickt wenn es mit Gròsserem verglicken wird. Man erkennt leicht dass das kathe- tisck Unendliclie Bradwardinus das Ueberendliche oder Transfinite ‘mente l’INFINITO POSITIVO di Descartes, di GIORDANO BRUNO e di Spinoza è un concetto che tradisce un’origine quasi del tutto- ancora scolastica. L’infinito inteso coinè attributi necessario dell’essere è una concezione comune a BRUNO, e mostra chiara la sua derivazione da un altro concetto. Quantunque esso non ha in BRUNO questa sola origine ‘divino’. unserer neuerer Philosophen ist, dem von Anfang an das Merkmal der Begrenztheit, welches deu endlichen Gròssen zukommt fehlt, wàhrcnd das “synkathetisch” Unendliche mit den Endlosen oder Infinitcn ùbercin stimmt, welches aus der endlichen Grosse durcli unbegrenztes Wa- chsen hervorgelit. BRUNO capovolge la dottrina di Aristotele. Risolve arditamente e con grande acume il continuo ne’ minimi onde liberarsi dalle contraddizioni svelate da SENONE DI VELIA, come farà poi anche ma meno felicemente Hume, e accetta l’infinito nel grande: gli atomi e la infinità del mondo. (V. Acrotismus, citato dal TOCCO, Le opere di BRUNO, p. liti: De Minimo). Devcsi però avvertire che il minimo è per BRUNO ancora una grandezza che ei pensa giustamente, come fa anche Hobbes, relativamente trascurabile nel calcolo. Il progresso infinito nelle divisioni è solo una continua possibilità dell’animo, mai un’effettività. BRUNO non nega all’animo, all’immaginazione o alla ratio, a distinzione della mensì di poter ulteriormente suddividere il minimo all’infìnito, -- dum non promere subiectae credat con- formia rei. — Intìnitae progressioni IMAGINATIONIS seu mathesis NATURA non respondet neque ullus usus ARTI-FICIALIS obsecundat. De Min. Tuttavia anche alla matematica vorrebbe BRUNO dare una base atomistica, facendo valere pel concetto del corpo matematico ciò che vale per quello del corpo fisico. In questo anzi non sa BRUNO liberarsi dalla influenza dell’aristotelismo, pel quale ciò che vale della materia doveva naturalmente valere dello spazio. Il suo strano tentativo ricorda l’antica dottrina delle linee indivisibili o atomiche di Senocrate, anch’essa stabilita per evitare le stesse contraddizioni del continuo messe in chiaro dalla critica dei veliani (V. nello scritto -epì à-riuiov ypaujLùv Apelt, Beitrcige z. Geschichte d. Griech. Philosoph. dove ne è anche data la traduzione) Della dottrina atomistica di BRUNO riconosce giustamente il merito Lasswitz (“ Bruno und die Atomistik”, Viertelsjahrsschift f. icissensch. Tuttavia alcune importanti considerazioni sono comuni al Cusano e a quest’ultimo sulla natura dell’infinito ossia sull’esistenza di un unico infinito in riguardo al quale non possa esservi divisione possibile uè disuguaglianza se misurato immaginariamente da misure differenti. L’infinito assoluto considera poi Spinoza come dato nei noti due cerchi l’uno dei quali è dentro all’altro e che non si toccano nè sono concentrici, esempio ricavato da Cartesio (Principii) e da Spinoza medesimo già illustrato nella esposizione dei principii cartesiani della filosofia. Ma come è impossibile che la materia mossa tra due cerchi possa realmente dividersi all’infinito, cosi è impossibile farsi un concetto di una infinità assoluta di disuguaglianze come effettuata dalla relazione di quelli. Poiché data questa infinità non è nè può essere. Altrimenti la potremmo anche pensare effettuata in un qualunque segmento di linea da’suoi punti infiniti. Una tale infinità non può cosi che venir riferita alla facoltà della nostra mente quale suo fondamento ; non può esser che un caso di infinita possibilità come lo è quello dell'infinitamente grande. Philos.): “BRUNO hat darci» (lcn erkenntnisstheoretiscben Ausgangspunkt seiner Monadologie sicli das bleibendc Verdienst erworben, den Atombegriff klar und wiederpruchslos dargestellt zu haben. So lange das Atom nur als Letzes der Theilung gilt, blcibt es immer fraglich, ob man auf ein solches Kommen masse. Erst die Einsicht, dass es ein Krfordcrniss dcs Erkennens istein Erstes der Znsammcnsetzung zn liaben, macht den Atombegriff za einem nothwendigen. Cusano, Dada ignoranza. Già Aristotele tiene per inapplicabile ad ogni grandezza l’intìnito attuale, ma perciò appunto ne aveva rifiutato il concetto. Il caso (lei due cerchi si lascia ricondurre a quello d’ogni grandezza continua. Ora l’esame del continuo non può per sè mai darci l’infinito assoluto ; il continuo riceve i termini che noi segniamo in esso senza lasciarsi però mai esaurire da successive suddivisioni. Con ciò esso non ci dà che il campo di una regola d’operazioni infinite, rimanendo pur sempre finiti i risultati di queste. Che le parti del continuo non si lascino esprimere con alcun numero (nullo numero explicari possunt) indica solo che sarebbe, contradittorio pensare come raggiunto il risultato d’una operazione infinita ossia da ripetersi senza fine. Il continuo non ci dà insomma che l’infinito relativo. E così ciò che Spinoza distingue dall’infinitamente grande non è in realtà l’infinito assoluto. Esso è soltanto lo stesso infinito relativo nella direzione opposta del primo, ossia nella direzione del piccolo. Ammette inoltre Spinoza che l’infinito propriamente detto può esser suscettibile di più e di meno. Ma non è esso allora cangiato nel finito? (2) e non dice egli altrove che SPAVENTA, Saggi critici, seguendo Hegel trova la distinzione dello Spinoza dell'infinito della immaginazione da quello dell’ANIMO veramente profonda, e ravvisava in questo ultimo fissato il concetto dell’infinito assoluto che trascende ogni determinazione. Infatti però esso non può rappresentare che lo stesso infinito della immaginazione. Vedi lettera XXIX. In complesso questa importante lettera parmi mostrare molta incertezza malgrado il tono suo dommatico e tanto sicuro. I due unici esempi che Spinoza porta dei molti che ei dice avrebbe potuto addurre dell’infinito dell’ANIMO, non sono omo-genei. La infinità dei moti che furono, e la infinità delle disuguaglianze dei due cerchi non cadono sotto uno stesso concetto. Lo stesso abbiamo notato del transfinito o trasfinito di Cantor, il quale dovrebbe del pari esprimere appunto e l’intervallo ( 0.1) come totalità infinita, e il complesso della serie dei numeri intieri positivi. Etica, I, prop. XV. è un assurdo che un infinito possa essere il doppio di un altro? A questo assurdo risultato arrivano tutti quelli che pensano potersi DARE L’INFINITO NEL FINITO medesimo. Di Locke s’è visto qual razionale concetto egli ha dell’infinitamente piccolo e grande. Locke non sa tuttavia considerare l’infinito altro che nella illimitata addibilità e divisibilità, per cui non intese l’infinito assoluto. Locke analizza con una grande acutezza soltanto le funzioni dell’ANIMO in riguardo all’infinito, non però il riscontro loro oggettivo. Infatti e questo per Locke ancora Dio, il quale oltre i confini raggiungibili dal nostro ANIMO coll’illimitato progresso, riempiva tanto l’infinito del tempo che quello dello spazio. Ed è cosi che Locke puo pensare esser l’idea positiva di infinito troppo ampia per una capacità finita e angusta come la nostra (2). Kant scioglie trionfalmente tutte le difficoltà che incontra Locke nell’esame dello spazio, e fissa l’idealità di questo. Una idealità che se è conseguenza delle stesse ragioni che l’avevano fatta necessaria ai veliani, à però, un significato e una giustificazione scientifica di gran lunga superiore. Ma quanto al concetto proprio di infinito Kant non fa un passo oltre Locke. E neppure Hume e andato più oltre sulle tracce di quest’ultimo. E’ non sa anzi per il metodo suo empirico apprezzare la bella trattazione lockiana dell’infinito, in cui la funzione SINTETICA dell’animo trovava una cosi Locke: Essay on Human Under ai. giusta e importante bencliè non del tutto consapevole applicazione. Hume, senza esaminare particolarmente l’infinitamente grande, si volge in special modo a considerare l’infinito nel piccolo. Ciò che più, come già BRUNO, imbarazza il grande scozzese è la considerazione della infinità nel continuo, ossia della infinita divisibilità, la quale egli non distingue dall’infinito esser diviso, ossia dalla infinita divisione effettuata. Il suo empirismo, confondendo il reale colla forma, lo porta a stabilire lo spazio come composto di punti visibili e sensibili (meno risolutamente però nella “Inquiry”) ; e il tempo della somma dei minimi delle sensazioni. Come può, si domanda egli, un infinito numero di infinitamente piccoli non dare una grandezza infinitamente grande? o, come può un tal numero esser compreso allo stesso modo in una data grandezza che in una doppia di quella? Come può passare il tempo da un punto all’altro per un numero infinito di parti reali successivamente esaurientisi ? Sono in conclusione le stesse contraddizioni svelate dapprima da Senone di Velia, l’amato di Parmende. Senone conclude col negare lo spazio e il moto. Hume invece accusa L’ANIMO STESSO senza dare soluzione alcuna definitiva. L’aver confuso la forma col reale, e il non aver più acutamente esaminate le funzioni sintetiche dell’ANIMO sono la ragione della infruttuosità delle sue ricerche sull’infinito. Locke è insomma l’unico tra’ filosofi moderni, o alti) Treaiise; Essays, edizione World Library. Exsai/s (4; Hume: Essai/s. meno sino a Diiliring, che segna un notevolissimo progresso nella razionalizzazione del concetto di infinito. D’altra parte tra’ matematici, dopo le lunghe discussioni sulla natura dell’infinitesimo, si fa strada, è vero, con Carnot, e con Cauchy, in séguito, l’opinione della arbitrarietà del differenziale, ma riman pur sempre come sfondo oscuro l’infinito esatto, una sfinge che i matematici dichiarano spettare AL ONTOLOGO di interrogare. E con ciò la mente è ben lontana ancora dal trovarsi appagata. Con Gauss poi, e dietro a lui con Riemann e con Steiner e con tutti i geometri anti-euclidèi, la nebbia che avvolgeva l’infinito s’è fatta ancora più fitta, e rimarrà cosi quale indizio dello spirito mistico dell'epoca nostra, la quale non sente quel bisogno vivo e quell’amore della chiarezza che cosi grande aveva il secolo decimottavo Nfe i filosofi del nostro secolo sono certo fatti per confortarci della mistica incertezza dei matematici e sbugiardare così il notato carattere generale dello spirito del decimonono dicontro al secolo precedente. (V. più sotto di Hamilton e Spencer n. 8). Dove l’universo, come presso Democrito e gl’epicurei, o presso BRUNO e Spinoza si stabilisce dommaticamente infinito, l’ONTOLOGIA non s’è ancor spogliata di tutti gli elementi puramente poetici. Col criticismo moderno la questione della reale estensione dell’universo si è fatta essenzialmente empirica. La illimitatezza della nostra concezione dello spazio non ci garantisce una infinità oggettiva materiale. Empiricamente non si lascia dimostrare nè la finitezza nè la infinità dell'universo; È chiaro che chi volesse supporre un riscontro materiale assolutamente completo della nostra concezione infinita dello spazio correrebbe dietro una chimera. La nostra rappresentazione dello spazio il la sua spiegazione nella costante unità della coscienza e nella sua libertà del porre e dell’oltrepassare continuamente il posto. Ora a questa funzione de nostro ANIMO non si deve attribuire senz’altro un carattere oggettivo. Al contrario fa il Urtino infinito il mondo appunto perchè è infinito lo spazio, ritenendo che la materia stia allo spazio come questo a quella: “ e se non v’ha differenza tra spazio e spazio, non c’è nessuna ragione che solo quel breve tratto occupato dal nostro sistema planetario sia pieno e tutto il resto dell’immenso spazio vuoto. „ Cfr. Schopenhauer (Die Welt als Wille ecc.). il quale commenta gli argomenti affatto ineritici di BRUNO e vorrebbe farli servire a dimostrare anche la infinità del tempo. altro che il finito noi non possiamo raggiungere e non possiamo mai giudicare se altro non vi sia più oltre da raggiungere nella realtà. Se essa stessa abbia o no dei limiti come gli à costantemente la nostra RAPPRESENTAZIONE. L’infinito COME TALE non può diventar oggetto DELLA NOSTRA ESPERIENZA. Ma se questa è per la sua natura limitata, non perciò dobbiamo pensar limitata la realta inconscia. Il concetto nostro dell’universo sarebbe dunque sempre solo comparativo. Certo è però che praticamente l'universo sarà per noi costantemente finito, poiché altro che in limiti finiti non può venir da noi conosciuto. Il principio della costanza della materia e della forza non basta, come crede Rielil, a dimostrare la finitezza della massa dell'universo. Seia massa si fa infinita, dice Riehl, verrebbe a mancarle con ciò ogni determinazione quantitativa, il che è incompatibile col concetto stesso di massa. Ogni determinazione le mancherebbe però naturalmente se considerata solo nella sua trascendente totalità, non mai invece nel finite. Nè d’altro che di masse finite può aver ad occuparsi l’uomo. Il grande principio della costanza della materia e della forza, nota ancora Riehl, diventerebbe una mera e inutile TAUTOLOGIA, data la infinità loro. Non potendo evidentemente l’infinito venir nè aumentato nè sminuito. Neppur questo è giusto. Il principio in discorso sarebbe tautologico se stabilisse appunto la costanza della materia infinita come tale. Non se, come esso fa, stabilisce quella del finito in essa datoci. Infatti la conservazione costante del finito [Riehl, Ber pMosoph. Kriticismus. non è (lata analiticamente colla inalterabilità quantitativa dell’infinito, poiché come l’infinito non è toccato da addizione o sottrazione, cosi potrebbe, posta infinita la materia, il finito in essa assolutamente crearsi o annichilarsi senza contraddizione alcuna. G. Mentre la estensione e la massa dell’universo sono presumibilmente finite, ma nessuna necessità apriorica od empirica ci sforza a pensarle piuttosto finite che infinite. In riguardo al tempo concorrono invece necessità dell’esperienza e dell’ANIMO a farlo nel REGRESSO assolutamente infinito. Il problema cosmologico del tempo non à tuttavia avuto sinora una soluzione definitiva. A il tempo reale mai avuto principio? Vi fu nell'universo o nell’essere un primo cangiamento? E se il tempo non à avuto principio, ed è nel passato infinito, come può senza contraddizione venir pensata cotesta sua infinità? Che il cangiamento abbia una volta cominciato è, per il principio di causalità, impossibile ammettere. La ausa di un cangiamento deve cercarsi a priori in un cangiamento anteriore e cosi via all’infinito. Un cangiamento assoluto è empiricamente impossibile e a priori inconcepibile. Vi sono nell’essere ultime ragioni dei processi, ma non ultime cause. In ogni punto del tempo è esistita la serie delle variazioni. Non che nel concetto di sostanza si trovi unita necessariamente coll’esistenza l’azione, come crede il Rielil, e che non lasciandosi quindi disgiungere il fare dell’essere dalla sua esistenza, venga ad esser perciò inconcepibile la sostanza scompagnata dal cangiaménto. Inconcepibile sarebbe solo una esistenza vuota, ossia scompagnata dalla essenza. La forza potrebbe però concepirsi ovunque come in equilibrio stabile, e con ciò l’universo come privo di ogni mutamento. Vi è una condizione del divenire cbe non entra mai come membro nella serie causale -- è questa il fondamento ultimo d’ogni fenomeno, la ragione della loro possibilità. Un tal fondamento riman quindi come fuori del tempo ossia veramente ETERNO, senza origine nè fine. Non è cosi dei cangiamenti o degli stati momentanei dell’essere. Lo stato precedente a un DATO momento nella serie molteplice dei cangiamenti, se fosse sempre esistito, non avrebbe mai prodotto un effetto cbe si origina solo nel tempo; auche quello deve dunque aver avuto una causa, e cosi all’infinito. Delle cause non ve ne può essere una cbe da sè inizi assolutamente una serie; ogni causa di cangiamento è essa stessa un cangiamento, e suppone con ciò un’altra causa, un altro stato cbe la spieghi. Tutto è seguenza nella serie, e un principio assoluto è un assurdo. Una prima causa del cangiamento per cui avvenga qualcosa cbe anteriormente non era, non è in alcun modo a connettersi coll’esperienza. La fine della primitiva quiete nell’ essere senza una causa che la faccia cessare è un pensiero irrealizzabile. Esprimerebbe una spontaneità incomprensibile, anche formalmente, cbe noi non possiamo accettare sensa derogare alle leggi della conoscenza e della natura. Come la legge della causalità non conduce fuori della causalità empirica (all’Assoluto), cosi non conduce fuori del cangiamento. Esenti da mutazione rimangono soltanto la sostanza e le sue qualità originarie, ossia in generale gli elementi, per cui solo sou possibili le variazioni. La causalità è applicabile unicamente ai cangiamenti, di modo che causa di un cangiamento non può mai esser che un altro cangiamento, non una cosa come tale. E quindi unicamente l’ideniico che sta a base del vario FENOMENICO che non à nè causa nè ragione, se non quella almeno che con Schopenhauer potremmo chiamare la ragione dell’essere, o di identita. La medesimezza con sè stesso è infatti la ragione della sua eterna esistenza. Dove non c’è variazione non c’è causa da ricercare. Poiché causa non è che la ragion reale del cangiamento. Una variazione che non procedesse in base a qualcosa di stabile è un assurdo. Degli elementi non si dà quindi nè generazione nè corruzione alcuna. L’essere non è mai causa; le cause che la scienza rintraccia sono cangiamenti, e le leggi sono la uniformità e costanza del loro succedersi. Tanto l’essere universale quanto la materia e la forza sono fuori della catena causale. Nn sono per sè causa, si bene la ragione della connessione stessa causale. E cosi l’essere non si può porre quale ultimo anello della causalità. Tanto il più remoto fenomeno immaginabile quanto il presente presupponendo l’essere, il fare dell’essere. Un sistema dinamico non può mai per sè stesso originarsi da un sistema STATICO, come neminanco può a questo passare. Sempre le forze si son misurate a vicenda, ed elementi di esse si son fatti equilibrio ed altri ànno prodotto dei cangiamenti col lavoro meccanico; ed equilibrio e lavoro sono sempre stati necessari da una parte per conservare i cangiamenti lenti concretatisi, ossia in generale le forme durevoli, e d’altra parte per alimentare la vicissitudine o la vita nell’essere. Il voler dunque trovare un principio della mutazione sarebbe lo stesso che credere che la materia una volta non sia esistita. Il sorgere della coscienza a un dato momento nell'universo, che il momento innanzi noi possiamo immaginare come affatto privo di vita conscia, non è uua creazione assoluta, nè rappresenta una infrazione alle nostre leggi della conoscenza dell’animo. Perchè quell’apparizione della vita conscia noi non l’abbiamo a pensare che come una combinazione di elementi, nè di elementi v'è creazione, poiché essi esistono eterni. Pensare la combinazione come occasionata dallo svolgersi delle variazioni non à nulla di sovrannaturale. Certo la coscienza nella sua natura generale non à causa; ad essa come agli elementi ultimi d’ogni realtà è applicabile soltanto ciò che s’è detta la ragione dell’essere. Altra è però la questione della sua fenomenologia- In questa come nella fenomenologia generale la causalità à il suo regno. Se la coscienza al pensiero si presenta come originata dal NULLA, gli è perchè le sue cause, nella loro natura oggettiva materiale, non possono in essa evidentemente comparire. Gli elementi di coscienza, o meglio le disposizioni alla coscienza nella realtà inconscia sono ora come latenti o neutralizzate: una data combinazione materiale ecco ne suscita la luce subitanea. Il sorgere del cangiamento in generale implicherebbe invece una derogazione alla legge fondamentale dell’ANIMO; noi non lo possiamo in modo alcuno concepire, e la realtà empirica ci costringe ad ammettere il contrario. Il variabile non è per sè stesso intelligibile senza un identico a sostrato. La identità dell’io come dà origine alla ragione logica cosi la dà a quella del cangiamento reale. Le diiferenze come tali non possono farsi contenuto della coscienza. Per esserlo anno a venir riferite a una totalità identica. Ammesso che cangiamenti potessero avvenire senza conseguire ad altri, verrebbe a mancare la connessione dei fenomeni secondo leggi costanti. Il concetto di natura perderebbe la sua unità e l’ONTOLOGIA con ciò ogni fondamento. Le leggi dell’animo si incontrano invece con quelle della realtà. È chiaro che come l’animo è la condizione inevitabile della esperienza, e con ciò del nostro mondo fenomenico, cosi le sue leggi o funzioni generali devono anche di quello esser leggi a priori, o assolutamente valide indipendentemente da ogni esperienza. Ciò non toglie tuttavia che coteste leggi possano venir trovate, come vengono in realtà, consone alla natura propria delle cose, ossia non imposte loro direi quasi arbitrariamente, perchè nelle cose sono le stesse leggi quantunque impensate. Che anzi in riguardo al fatto dell'esperienza, in riguardo alla unità sistematica dell’essere e dell’ontologia, potrà trovarsi necessario di veder nelle leggi che la coscienza applica a priori alle cose nuli’altro che un riverbero o meglio null’altro che l’espressione soggettiva delle determinazioni autonome della stessa realtà inconscia. Ponendo un principio del tempo reale e con ciò un cominciamento delle causalità non si sfugge d’ altronde alla domanda. E perchè non prima? Se il primo cangiamento non ebbe causa, o perchè è esso avvenuto solo, mettiamo,parecchi quadrilioni di secoli fa? È vero che non si ammette una causa che l’abbia chiamato all’esistenza, ma nemruanco si dice che qualche cosa l’abhia impedito di nascere prima. Per questo, per quanto lo si allontani dal presente, esso riesce sempre troppo vicino. Richiamarsi alla originarietà dell'essere come fa Duliring, alla sua effettività indipendente da ogni pensiero e da ogni ragione, richiamarsi alla natura della realtà inconscia, cui il pensiero non può mai ricevere completamente in sè stesso, mai fondare in senso assoluto, ma soltanto ammettere come fatto, non è permesso quando intanto alla stessa effettività della natura impensata dell’essere evidentemente si contraddice. Si contraddice, dico, poiché, lasciando da parte l'analogia del pensiero che ammesso il cangiamento non sa vedere come esso possa originarsi in modo assoluto, noi non abbiamo in realtà conoscenza alcuna di un cangiamento cui un altro non preceda, ogni cangiamento che apparentemente si presenta come tale — il nuovo nell’evoluzione — noi lo riduciamo è vero alle forze o forme, agli elementi costanti dell’essere de’ quali non c’è ragione a domandare. Ma il perchè della loro manifestazione appunto in un tale momento e non in altro, è nell’ininterrotto cangiamento collaterale, occasionai e in rapporto a quello. Ben possiamo invece richiamarci noi alla assoluta autonomia della realtà, che nulla ammettiamo contro il suo reale manifestarsi, quando diciamo che in senso assoluto non c’è una ragione del perchè quest’oggi, poniamo, sia proprio ora e non sia già stato in passato o non abbia piuttosto a venire in futuro, che v’è tanto poco ragione di questo suo essere Logik. il, Wiscnschaftsftheorsie, presente che della esistenza stessa universale : dacché come questa non à inai avuta fuori di sè la ragione del suo essere, così nemmanco il suo fare, il suo divenire interno. In qualunque punto del tempo noi fissiamo l’essere, non lo troviamo mai privo di determinazioni, perchè queste sono autonome; e dal suo stato in dato momento dipende ogni sua ulteriore evoluzione ; come però non c’ è un momento in cui l’essere non sia, nemmanco ve n’è uno in cui esso non abbia un suo stato determinato. E cosi che del divenire v’ è sempre la ragione in un divenire anteriore, ma del divenire in senso assoluto, v’è tanto poco un perchè quanto dei suoi durevoli elementi. In ciò che esiste è la ragione di ciò che esisterà ; in ciò che à esistito la ragione di ciò che esiste. Nella originaria nebulosa è la ragione dell’attuale disposizione del sistema nostro solare, ed in altri processi cosmici ebbe essa stessa la sua origine, i quali se la scienza non può oggi rintracciare, non è però assolutamente impossibile che un giorno ella trovi, e che ad ogni modo sono necessariamente avvenuti. Il cangiamento non à dunque avuto principio. Ed ecco appunto dove sorgono specialmente gravi, e a molti filosofi son parse insormontabili, le difficoltà del problema cosmologico del tempo. Si è sempre trovato, e Cusanus, Opera, Complementura theologicum, Si enim numerare possumus decem revolutiones praeteritas, et centum, et mille, et omnes. Si quis dixerit non omnes esse numcrabiles, sed practeriisse infinitas, et dixerit imam futuram revolutionem in futuro anno, essent igitur tunc infinitae et una, quod est impossibile. Bacone, Novum Organimi, odi/.. Fcllow, Ne- Kant è il filosofo che più vi à attira’ o l'attenzione, che ponendo la mancanza d’ogni principio nella serie regressiva delle cause, si viene conseguentemente ad ammettere che un’infinità di cause si sia esaurita, una infinità di cangiamenti sia realmente tutta trascorsaci che contraddice al concetto di infinito, ed è quindi assurdo accettare. Non solo Kant, ma anche, tra gli altri, il più acuto forse dei filosofi post-kantiani, Duliring trova qui una insuperabile contraddizione, ed è stato da essa spinto a stabilire che il cangiamento nel mondo abbia ad un dato punto cosi casualmente senza ragione alcuna avuto un assoluto principio nell’essere, cosa evi- quc. cogitari potest quomodo seternitas dofluxerit ad lume diem; cum distinctio illa, quae recipi consuerit. quod sit infinitum a parte ante et a parte post, nullo modo constarò possit; quia inde sequeretur quod sit unum infinitum alio infinito maius, atque ut consumetur infinitum et vergat ad finitum. Hobbes, il quale dichiara insolubile la questione dell’ infinito in riguardo al problema cosmologico, ammette tuttavia cautamente la infinità del tempo nel passato e non si lascia ritenere dalla contraddizione di un infinito maggiore di un altro che sarebbe data dalla relazione dell’infinito passato a momenti diversi della serie temporale. Non sa però pensar l’infinito assoluto in modo razionale poiché crede di vincere quella supposta contraddizione obbiettando: « similis demonstratio est siquis ex co quod numerorum parinm numerus sit infinitus, totidem esse conclu- deretur numeros pares quod sunt simpliciter numeri, id est pares et impares simul sumpti ». De corpore La impossiblità del “regressus in infinitum in causis efficienticibus” REGRESSUS IN INFINITUM -- e un principio riconosciuto della scolastica. È vero però che gli scolastici lo facevano ancor più che a dimostrare un principio del tempo, o, secondo loro, del mondo, servire a dimostrare (seguendo Aristotele nella sua dimostrazione del PRIMO MOTORE) la necessità di una prima causa assoluta. ossia ontologica. Cfr. il libro apocrifo Idella “Metafisica” di Aristotele, secondo il quale non solo la serie delle cause nel passato, ma anche quella del futuro sarebbe contraddittoria. Cursus der Philosophie, Logik. luoghi citati. dentemente assurda, e tanto più per chi come lui è sur un terreno affatto critico e scientifico. Io trovo al contrario che la illimitatezza della serie regressiva dei cangiamenti si lascia senza contraddizione alcuna concepire infinita o, più propriamente, assolutamente infinita. Dtlliring, non à compreso come l’infinito assoluto possa attribuirsi anche a ciò che è per sé numerabile. E cosi alla infinità dei cangiamenti nel tempo ritroso, che è l’unico caso dove una tale applicazione sia necessaria, egli à fatto invece quella ingiustificata della sua manchevole legge del numero determinato. La difficoltà da me superata sta in questo, cui nessuno, per quanto io mi sappia, à mai badato sin’ora. I cangiamenti infiniti di cui si discorre non involgono contraddizione perchè essi non sono nè furono mai dati come totalità, ossia come complesso di una serie infinita. Acciò la contraddizione esistesse, bisognerebbe che s’ammettesse tacitamente un principio del cangiamento. Di fatti altrimenti nell’assenza d’ ogni principio come si può dire. Ora, in questo momento si è esaurita uua serie infinita di cangiamenti ? Ma da quando dunque? Si pensa con un tratto indefinito di tempo di avvicinarsi di più all’ infinito del passato, mentre in- -- Questa soluzione è gù brevemente enunciata nella mia “Lettera filosofica” a I Simirenko” (Torino, Roux). Schopenhauer, Parcrga u. Paralipomena: Wenn cin erster Anfang nicht gewesen wure, so tornite die jetzige reale Gegenwart nicht erst, jetzt seyn, sondern wiire schou liingst gewesen, dcnn zwischen ihr und dem ersten Anfange miisscn mir irgend einen. jedoch bestimmten und begriinzten Zeitraum annehmen, der min aber, wenn wir den Anfung liiugnen, d. h. ihn ins Unendliclic hinaufruckén, mit hinaufriickt, ecc. ecc. E vece noi ne rimangbiaino sempre alla medesima distanza. Qualunque punto del tempo si scelga, anche milioni di milioni di secoli addietro nel passato, noi siamo sempre tanto vicini lo stesso all’infinito di prima. Come noi per quanto risalghiatno addietro non possiamo esaurire l’infinito che fu, cosi non dobbiamo inavvertentemente ammettere che l'essere sia ne’ suoi cangiamenti partito da un punto per quanto distante da noi. Poiché in realtà ogni e qualunque suo cangiamento ne à sempre avuti dietro a sè una stessa infinità di altri. Non è che l’essere avendo dovuto compiere i cangiamenti in senso inverso di quello che noi tenghiamo nell’abbracciarli venga con ciò ad aver esaurito una infinità di variazioni. Il tempo nella sua durata bisogna considerarlo analogamente a una retta che in una direzione è assolutamente infinita e nell’altra in ogni momento terminata, ma prolungabile a piacere all’infinito. Come non implica contraddizione far terminare a un punto una linea assolutamente infinita, cosi non la implica il passato assolutamente infinito che si termina nel presente e può prolungarsi senza limite nel futuro. L’errore di Kant e di Diiliring e di tanti altri sta nel credere che posta la serie regressiva infinita si abbia con ciò una totalità infinita. L’infinito passato invece non è nè può essere un tutto, e non ammette quindi alcuna determinazione numerica, pur contenendo in sè ogni numero. Tale infinità non involge, come crede Diihring, l'assurdo di una contata (o percorsa, come direbbe Kant) serie infinita (“den Widerspruch einer abgezàblten unendlicher Zalilenreihe”). In qual modo potrebbe una tal serie esser contata? Non s’accorge Diihring che con ciò egli ammette già quello che ei vorrebbe dimostrare, ossia un principio del tempo reale? In verità è quella serie non contata, ma innumerata e innumcrabile, ciò che detto di un infinito non inchiude punto contraddizione. Il moto non à principio nel tempo, e: sino a un punto qualunque del tempo è trascorsa una infinita serie di cangiamenti — non si equivalgono esattamente. Con è trascorsa si vorrebbe tacitamente porre come dato ciò che è impossibile a darsi. Di fatti la contraddizione scompare subito che si dice: la serie dei cangiamenti nel passato è infinita. É trascorsa sembra rinchiudere l’idea di un punto iniziale della serie, dove (die i cangiamenti non si possono considerare un tutto o come serie completa senza contraddire al concetto di ogni assenza di principio. Una infinità di cangiamenti, una infinità di momenti del tempo non è trascorsa, sibbene l’infinito trascorre sempre, e in ogni momento è esistita la serie dei processi. La successione perpetua è appunto la forma della infinità del tempo. Se si dice che l’infinito è trascorso si scambia, a jiarlar esattamente, il suo concetto, ponendo in vece sua quello del finito, o almeno si combinano insieme due concetti incongruenti. Poiché ammettendo che una infinità di movimenti è trascorsa o s’è esaurita nel passato, noi raduniamo in un tutto ciò che per sua natura non può mai venir radunato. Il concetto di infinito e quello di totalità sono incommensurabili.Una totalità è sempre raggiungibile con una sintesi successiva delle sue parti, non cosi l’infinito. Diciamo invece. Le serie dei cangiamenti del passato è infinita — quale contraddizione nel pensare che ogni cangiamento avvenuto è stato preceduto da un altro? Dov’è qui l’assurdo di un tatto infinito che avrebbe dietro a sè ogni momento del tempo? I fenomeni per sè non suppongono se non i fenomeni che immediatamente li precedono ; e come non c’è qui contraddizione, cosi per quanto noi ci trasportiamo addietro nel tempo, mai la troveremo. Come à fatto il tempo reale a giungere all’ora presente dall’infinito? È potuto giungere dall’ infinito perchè non è mai partito. Se fosse a un dato punto partito non sarebbe potuto giungere. E tanto concepibile l’infinito verso il quale tende la serie che quello dal quale essa procede. Nell’un caso e nell’altro si deve solo avvertire di non fare un insieme o un complesso di ciò che non è mai dato come tale, ossia un insieme in cui ogni momento dell’ infinito fosse anticipatamente compreso. Kant nella prima ANTINOMIA spiega dapprima egli stesso che l’infinità di una serie consiste nel non poter questa venir mai compiuta per mezzo di una sintesi successiva e che il CONCETTO di fatalità non è altro che la rappresi) Schopenhauer crede di sciogliere il sofisma Kantiano con un altro sofisma, distinguendo tra assenza di principio e infinità del tempo. Schopenhauer cosi infatti obbietta alla tesi della prima ANTINOMIA. Uebrigens besteht das Sophisma darin, dass statt der Anfangslosigkeit der Reihe der Zustànde, ivovon zuerst die Rede, plutzlich die Endlosigkeit (Unendliclikeit) derselben untergeschoben und nun bewiesen wird, was Xiemand bezweifelt, dass dieser das Vollendetsein logisch widerspreclie und dennocb jede Gegenwart das Ende de Vergangenheit sei. Das Ende einer anfangslosen Reilic làsst sich aber immer denken, oline ihrer Anfangslosigkeit Abbruok zu tbun : wic sich aneli umgekehrt der Anfang einer endlosen Reihe denken làsst. “Die Welt als Wille” ecc. “Kritik der reinen Venunft”, ed. Kirchmann p. 3G4, 3GG, 3G0. 4G sentanone della sintesi completa delle sue parti. Dunque anche secondo lui dovrebbe il concetto di totalità non esser applicabile ad una serie infinita. Tuttavia per dimostrare che le cose coesistenti non possono essere infinite, alla loro infinita sostituisce egli appunto il concetto contradittorio di un tutto infinito. Ed à bel giuoco nel rigettare quindi un tale assurdo. Ecco la sua dimostrazione . un tutto infinito per venir pensato tale dovrebbe lasciarsi esaurire per mezzo di una sintesi successive. Ma l ’infinito non può mai venir cosi esaurito, dunque una totalità infinita di cose coesistenti non può considerarsi come data. Insomma dice Kant : una infinità non potrebbe venir numerata ossia non potrebbe esser finita, dunque non può esser data; vien rigettato l’infinito semplicemente perchè è altra cosa che il finito. Non l’nfinito per sè, solo l’infinito nel finito è realmente un assurdo, poiché come tale dovrebbe esser necessariamente dato tutto. Ogni insieme di cose deve perciò contenere soltanto un numero finito di elementi numerabili. Ma quanto al temilo non c’è ragione di negarne la infinità ; numerabili sono i processi da un punto a un altro della serie, non la serie stessa in senso assoluto, perchè ella non è mai data come un tutto, Is eli infinito assoluto o transfinito che è proprio del tempo, non abbiamo più veramente una grandezza ma 1 assenza di essa, poiché è data la necessità della mancanza di un limite nel regrèsso, ed una tale mancanza è oggettivamente mallevata come nello schema spaziale della mente essa lo è soggettivamente. La ragione della infinità dello schema spaziale, come di quella della serie dei numeri sta nel soggetto ; la infinità invece della serie causale à la sua ragione nell’ oggetto o nella realtà estramentale. E appunto solo nell’infinito del tempo passato che si lascia necessariamente attuare un significato reale del transfinito. Poiché una simile illimitatezza assoluta è bensi anche dello spazio, ma soltanto dello spazio ideale o matematico, in quanto questo viene ogget- tivato e lo possibilità che realmente è solo nella funzione mentale vien naturalmente considerata come oggettiva e per sé esistente indipendentemente da noi. L’infinità del passato non à, come tale, determinazione alcuna quantitativa, non si lascia esprimere col numero ; in essa è invece ogni numero e può porsi ogni determinazione rimanendo ella assolutamente indeterminata. Cosi la distanza di due punti nel tempo, per quanto grande la si immagini, se si à riguardo alla sua relazione all’infinito del tempo anteriore, non significa nulla per questo appunto che l’infinito assoluto essendo propriamente la negazione di ogni grandezza nel grande non può venir posto in relazione con altre grandezze. La nostra fantasia non può correre che all’ infinitamente grande del passato. SOLO L’ANIMO ne intende la infinità assoluta. Della seriedel tempo non possiamo ottenere una assurda totalità; per padroneggiare quella bisogna uscire dal cangiamento e volgersi al fondamento della infinità temporale, ossia all’essere come presente in ogni momento e come fonte d’ogni possibile. Meravigliarsi che la più grande grandezza immaginabile non sia più vicina all’infinito assoluto che la più piccola, è analogo al meravigliarsi che la più ampia conoscenza dei fenomeni non arrivi più vicino alla cosa in sè che la conoscenza più limitata. Qui come là si tratta di una differenza qualitativa che nou si lascia esaurire pei aiiazioni di quantità. L’apparente paradosso che con una comunque grande grandezza non s’è mai più vicini che con altra infinitamente minore al transfinito, riposa in questo, che le due grandezze vengono riferite a quello senza mantenere di esso il giusto concetto, ma consideiandolo invece come una quantità determinata; nel qual caso sarebbe veramente un assurdo dire che da esso disti ugualmente un dato punto e un altro che fosse prima o dopo di questo. Come nel transfinito del passato non c è assolutamente un termine, cosi esso non è raggiungibile in alcun modo; dunque tutte le grandezze sono per riguardo ad esso insignificanti. Parimenti è un assurdo credere di poter addizionare una unità al transfinito o trasfinito. Si può solo addizionarla al finito. L’accrescimento esisterà pertanto in riguai do ad un segmento finito di retta, ma non in riguardo alla retta stessa nella sua infinità. In una retta infinita nelle due direzioni è indifferente il far la divisione più in un punto che in un altro da quello lontanissimo ; le due rette risultanti sono sempre lo stesso transfinito e con ciò sempre uguali. Nella retta co’_a _b _m rx - A — Aoo e oo’B ossia ( co’A-H AB ) — B oo uguale cioè (A oo — AB). Si vede cosi contrariamente alla dottrina di Cantor. Dice Cantor. Zu einer unendlichen Zalil, wenn sie als bestimmt und vollendet gedacht wird, selir «ohi cine endliche hinzu- gelugt und mit ihr vereinigt werden kann, oline dass kierdurch eine Aufhebung der letzeren bewirkt wird ; nur der umgekerte Vorgang, die llinzufugung einer unendlicker Zahl zu einer en dlicbcn, wenn diese che oo-t-1 ( <> —J— 1 secondo la sua notazione) non è maggiore di <», nè 1-f-o è differente da essendo co’A + A B = A B + oo. Non v’è infinito maggiore d'altro infinito: tanto sarebbe infinito il tempo ritroso se la serie dei cangiamenti fosse terminata migliaia di secoli fa, quanto se esso continui all’infinito a trascorrere ancora. Il passato si può misurare tanto a minuti che a secoli, e dirlo eguale, se fosse lecito così esprimersi, a numero infinito di minuti o a uno infinito di secoli; non pertanto sarebbe sempre lo stesso infinito nè più nè meno. E la ragione di ciò è che la quantità transfinita non è misurabile. La immensità supera ogni numero, come direbbe Spinoza. Nella infinita serie delle cause è da pensarsi un numero di esse (se tale può chiamarsi), maggiore di ogni numero assegnabile ; oltre ogni raggiungibile anello la natura ne offre costantemente altri ulteriori. Nella natura la contraddizione non può esistere ella non ef¬ fettua il passaggio che da un momento a un altro; e questo passaggio non può farsi attraverso l’infinito. Per quanto noi risalghiamo all’indietro nella serie causale, come non troviamo contraddizione pel pensiero, cosi non la troviamo nella realtà. Essa ci offre sempre e solo un ziierst, gesetzt wird, bewickt die Anfhebung der letzeren, ohne dass eine Modification der ersteren eintritt. (Grundlagen ecc.); e più oltre: “Ist co die erste Zalil der zweiten Zalilenelasse, so iiat man: 1+01=10, dagegen u> 4 .i-=(coq-l), wo (co- 1 - 1 ) eine von co durchaus verschiedene Zahl ist. Aiif die Stellung des Endliclien konmtes also alles an. Una tale inapplicabilità della LEGGE DI COMMUTAZIONE ai numeri transfiniti o trasfiniti dovrebbe per Cantor servire inoltre a dimostrare come tali numeri debbano poter essere e pari e dispari insieme o anche nè pari nè dispari. . 5dato cangiamento e la sua causa. II fenomeno non richiede per la sua spiegazione la totalità della serie delle cause anteriori, si bene soltanto la causa immediatamente antecedente; e il principio di ragione domanda unicamente la immediata condizione e non una totalità di condizioni. In quanto la stessa richiesta si rivolge successivamente alla causa della causa e cosi via all’infinito, si viene a domandare costantemente una nuova condizione e questa è un nuovo membro della serie e niente di più. Al tempo è essenziale la posizione in atto di un solo momento. Fatta astrazione dai cangiamenti, e supposto l’essere affatto immoto in una rigida stabilità assoluta, noi lo poniamo però sempre in qualunque punto del tempo ideale che noi fissiamo ; la sua esistenza la poniamo cosi necessariamente infinita nel passato. Or come può nascere la contraddizione se noi in uno qualunque di questi punti pensiamo invece l’essere universale nel flusso del cangiamento? Assurda è la posizione di un tutto infinito, quale non può qui esser dato, poiché la successione perpetua è la forma dell’infinito del tempo; noi abbiamo qui una serie che in riguardo al nostro procedere a ritroso nel tempo da fenomeno a fenomeno è infinitamente grande, e per sé è transfinita come la tangente dell’angolo di 90° -- Wundt è condotto a credere (Philos., Stadie. Kant’s kosmologichen Antinonien n. das Problem des Unendl.) che l’applicazione de concetto di transfinito non sia possibile nel problema cosmologico del tempo. Egli crede un tal concetto trascendente, che invece non è e cosi gli viene a mancare un concetto che esprima la infinità oggettiva ossìa 1 eternità del processo della natura. Il concetto limite del in. Kant crede che la sua dottrina della idealità del tempo e dello spazio o della transcendentalità in generale, spiegasse la supposta antinomia del problema cosmologico, e rendesse con ciò inutile e vana la ricerca di una soluzione. Ma appartenga o no il tempo e lo spazio al reale in sè, riman sempre tuttavia la questione se questo, che Kant non può a meno di accettare, si abbia a pensai’e come fondamento di un mondo fenomenico finito ovvero di uno infinito. Non vale rispondere che la serie regressiva delle percezioni nostre non può essere realmente infinita perchè come tale impossibile, e neppure finita perchè nessun limite dei fenomeni può venir concepito come assoluto, e dichiarare con ciò insolubile la questione. Dacché l’oggetto trascendentale condiziona realmente, come egli ammette un determinato regresso empirico, per un esempio nell’ordine dei corpi celesti ; doveva Kant pur ammettere che rimaneva sempre a ve- regresso infinito (o a dir proprio infinitamente grande) non è già un concetto trascendente della creazione quale dovrebbe, secondo Wundt, accettare ogni spiegazione filosofica della natura (v. Wundt, “Ueber das Kosmolog. Problm, Yiertelsjahrszeitscb.); quel suo concetto limite nuli’ altro è invece appunto die l’infinito assoluto del tempo oggettivo, in base al quale è possibile il nostro infinito (infinitamente grande) regresso. Il non aver considerato l’eternità del fare della natura, e specialmente il non aver badato die l’infinito regresso è in realtà per la natura un perpetuo progresso, il cui concetto non può venir altrimenti pensato che per via del transfinito,stata la causa per cui Wundt concepì il tempo passato sotto il concetto dell’infinitamente grande concordando in fondo col Kant, come il Lasswitz si trova in questo d’accordo con lui. (Ein Beitrag zum Kosmol. Proli. Viertels. Kritik der reinen Vermnft. dere se l’oggetto trascendentale determinasse un possibile regresso finito od infinito (11. Perchè se per lui tuttii processi compiutisi da tempo remotissimo ad ora non significano altro che la possibilità deirallungamento della catena dell’esperienza dalla percezione attuale indietro alle condizioni che la determinano nel tempo; pure egli, per ciò che s’è sopra citato, non può negare che il possibile regresso delle nostre percezioni secondo le soggettive leggi della mente, non supponga un regresso oggettivo determinato dalla realtà inconscia indipendentemente da ogni esperienza. Trasportati a indefinita distanza dal nostro sistema solare, avremmo noi sempre ancora nuove percezioni? E cosi, trasportati indefinitamente addietro nel tempo vedremmo noi necessariamente sempre nuovi cangiamenti? Poiché la nostra necessaria produzione dello schema dello spazio e del tempo, non potrebbe per sè far si che noi avessimo nuove percezioni dove l’oggetto trascendentale non le condizionasse e si mostrasse con ciò finito. Lo spazio e il tempo ideali non sono per sè garanti di una corrispondente possibile PERCEZIONE. Non una necessità del nostro concetto a priori del tempo, ma il principio di causalità richiede la infinità della serie regressiva dei cangiamenti. Poiché non si può conchiudere la mancanza di un principio del tempo -- Cfr. Schopenhauer, Parerga. Die wicklichen Dinge der vergangenen Zeit si nel in dm transcendentaien Gegenstand der Erfahnmg gegeben ; sie sind aber ftir mieli nur Gegenstànde und in der vergangenen Zeit wicklich, sofern als ich ecc.). Saranno però dunque sempre non null’altro, come dice Kant poco sotto, ma qualcosa di più della possibilità dell’allungamento della catena dell’esperienza dalla presente percezione indietro alle condizioni che la determinano nel tempo. ]da questo, che ogni limite è necessariamente da noi pensato come relativo. La relazione di termine e terminante è infinita come quella di soggetto e oggetto ; perciò appunto vuota ; essa nulla può aggiungere al contenuto reale cui viene applicata. Come il pensiero dell’essere impensato, che è la forma in cui comprendiamo il reale, nulla toglie alla realtà estraraentale od in sè della cosa, allo stesso modo la relazione mentale di limite e limitante non può evidentemente mettere nella realtà il suo secondo termine se nella realtà non è dato. Questo secondo termine, il limitante, rimane, se si astrae da ogni altra considerazione, un puro complemento ideale. Riehl non seppe neppur egli superare o sciogliere la falsa contraddizione che Kant e Dtihring, per non dir che di loro, credettero inchiusa nella concezione di una serie regressiva infinita di cangiamenti. Visto che la contraddizione stava nel concetto di una infinità la quale quei filosofi avevano pensato necessariamente [Hamilton il quale (“Lectures un Metaphysics”, lettura; On logic) segue Kant nelle antinomie, non giunge che a questo risultato, di pensare in riguardo all’infinito del tempo e dello spazio, che se la ragione non ci fa piegare necessariamente nè da una parte nè dall’altra, pure in realtà il tempo e lo spazio dehban essere o finiti o infiniti. (Cfr. del resto l’acume del Mill nella sua confutazione di Hamilton, La philosnphie de IL). Spencer poi, che à fatto la sua più alta educazione filosofica presso di Hamilton appunto e del suo scolare Mansel, professore di metafisica a OXFORD, seguendo il maestro dichiara questioni insolubili tanto quella riguardanti l’infinità del tempo e dello spazio che quella della divisibilità della materia e altre ancora. Egli pensa, cerne è noto, che i concetti di spazio, di tempo, di moto, di materia e di forza si mostrino in ultima analisi inconcepibili e ci lascino sempre del pari nell’alternativa tra due opposte assurdità, “First Principles”, la quale io stimo certo l’opera più infelice del filosofo inglese. data come totalità, egli pensò di sfuggirla col negare la numerabilità o la reale distinzione e indipendenza numerica nella catena delle cause e delle variazioni. Numerabili, dice egli, sono le cose, non i processi. In quanto le cose sono od appaiono spazialmente divise, deve è vero valere ciò die il Duhring à formulato come legge del numero determinato; ma altrettanto, séguita Kiehl, è certo che quella presupposizione non vale per i processi temporali. Questi non sono, secondo lui, per sé stessi distinti numericamente : è solo per la nostra distinzione mentale che essi ottengono una tale determinatezza. Un argomento dunque che vale per il numero non può senz’altro venir applicato al tempo, poiché mancano in questo per sé considerato e non riferito allo spazio, degli effettivi processi indipendenti, separati l’uno dall’altro, o posti insomma come numerabili. Noi possiamo distinguere dei processi nel tempo soltanto in determinato numero finito, nessun processo è però indipendente [Il Itielil (Ber phUosopliischc Kriticismus) inclinava dapprima decisamente a porre con Duhring un principio del cangiamento. Soltanto nella seconda parte del secondo tomo, tormentato dalla necessità del principio di causalità cangiò opinione (quantunque non lo abbia fatto notare egli stesso esplicitamente); ma per uscire dalla presunta contraddizione dell’ infinito regresso, pensò, al contrario di prima, i processi come assolutamente, e con ciò assurdamente continui. Si vede del resto evidentemente clic il Riehl oltre aver cangiato di parere, non ò nemmanco ancor ora troppo certo della sua nuova teoria; poiché la tratta troppo brevemente e troppo alla larga, come se gli scottasse di dover render più minuto conto di ragioni che a lui stesso non possono parere troppo convincenti Ciononostante l'opera sua e specialmente la seconda parte del secondo tomo è un lavoro filosofico non solo di grande valore, ma anche molto attraente, il che è una cosa assai rara. 1C e distinto da quello che immediatamente lo precede o segue. Rielil, non sapendo come uscire dalla supposta contraddizione à dunque rinunciato a concetti di cui l’esatto pensiero scientifico non sa nè può lare a meno, senza che ciò del resto gli abbia giovato per la eliminazione della temuta assurdità come più innanzi vedremo. La questione dell’infinito riguarda tanto il tempo che lo spazio. Solo si à sempre a distinguere tra l’esistenza loro ideale ; cioè il loro schema mentale, e la loro esistenza reale. Non numerabile possiamo noi solo pensare lo spazio ideale, lo spazio o l’estensione materiale dobbiamo invece necessariamente porla numerabile. Poiché estensione reale è coesistenza, e la continuità assoluta non può essere reale ma soltanto ideale ; altrimenti essa inchioderebbe la contraddizione dell’infinito compiuto nel finito, chè senza parti è solo il continuo della rappresentazione. Porre la continuità assoluta come effettiva è non spiegar nulla e mettere il mistero nella realtà, rinunciando a comprenderla. L’irriducibile noi lo dobbiamo soltanto rilegare negli atomi sia dello spazio che del tempo reali. I tropi degli Eleati non valgono meno contro il continuo del tempo che contro quello dello spazio; non meno contro lo spazio percorso da un pendolo in una oscillazione, che contro il tempo in questa impiegato. In parti ultime non si può dividere il tempo nè lo spazio ideale, perchè essi nè sono composti nè si originano da una sintesi di parti, come in fatti non possono venire analiticamente scomposti in ultimi elementi semplici, e sono conseguentemente l’uno e l’altro divisibili all’infinito ; ma non è cosi del tempo e dello spazio leali, dove la natura viene necessariamente aH'atto. Dice Diehl che solo il nostro intelletto scompone l’accadere temporale in singoli processi, e che questi solo per ciò ci appaiono indipendenti, che partono da cose spaziali e si trasmettono ad altre cose nello spazio. Un processo secondo lui può aver indipendenza solo perchè vien riferito alle cose nello spazio e non al tempo unicamente. Ma è naturale che tutti i processi siano nel mondo materiale (e non vengano soltanto da noi) schematizzati per dir cosi nello spazio, poiché essi non sono altro che cangiamenti della realtà spaziale, e unicamente i processi della coscienza in sè considerati possono venir riferiti al tempo come tale senza riguardo allo spazio. Difatti non pensa ora Rielil che sia concepibile una materia assolutamente continua come lo spazio mentale, ossia non costituita da atomi? Anche della materia allora si dovrebbe dire che gli elementi distinti solo la nostra mente li pone. Come può egli dunque affermare ripetutamente che soltanto la riferenza dei processi temporali allo spazio ci faccia considerar questi come distinti e per sè numerabili? Voler negare la numerabilità nel tempo reale o ne’ suoi processi dovrebbe al contrario anche secondo il Riehl esser lo stesso che negare nello spazio gli atomi o le cose ossia gli aggruppamenti durevoli degli atomi. Ogni grandezza nella realtà à parti elementari, non esclusi i cangiamenti; un certo gi’ado di cangiamento è una somma di successivi cangiamenti minimali. Ma il pensiero come per istinto sembra rifuggire dalla concezione dell’atomo o minimo temporale, perchè colla determinatezza scompare quel che di vago e di nebuloso E ir, rdie altrimenti conserva la concezione (lei tempo, e per cui la mente non avverte o avverte assai meno la inintelligibilità di quello. Colla posizione dell'atomo o minimo, la natura non più oltre scrutabile del tempo si affaccia bruscamente all’intelletto. Il tempo come rappresentazione rimane naturalmente strettamente continuo pur essendo discreti i processi reali, cliè la sua continuità assoluta ideale è una proprietà necessaria dipendente dalla natura della coscienza, la quale tra due processi per quanto infinitamente vicini interpola pur sempre la sua unità. Non c’è un minimo concettuale del tempo come c’è invece e si richiede il minimo reale. I n minimo nella rappresentazione del tempo sarebbe un punto inesteso, e considerarlo come elemento della durata tanto varrebbe quanto rendere impossibile il concetto di questa. Non deve più urtarci l’accettar gli atomi, o meglio la concessione atomistica, per la materia, che accettarla in riguardo alla forza e al cangiamento. Non crediamo siano più intelligibili gli elementi materiali che quelli del divenire. La facoltà nostra mentale di pensare gli Schopenhauer trattando nella quadruplice radice del principio di ragione del tempo del cangiamento, mette in piena e con ciò stridentissima luce il concetto ch’egli à della continuità assoluta del tempo, quale egli trova acutamente espresso presso il LIZIO. “ Come tra due punti v’ è ancor sempre una linea, dice egli, così tra due ora vi è ancor sempre del tempo. È questo il tempo del cangiamento ; esso è come ogni tempo divisibile all’ infinito e per conseguenza il cangiamento percorre in esso un numero infinito di gradi per i quali dal primo stato nasce a poco a poco il secondo. Egli conchiude con Aristotele dalla infinita divisibilità del tempo, che ogni contenuto di esso e con ciò ogni cangiamento, o il passaggio da uno stato all’altro deve essere infinitamente divisibile, e che dunque tutto- ciò che diviene s’origina in fatti da punti infiniti. atomi come ulteriormente divisibili vale per tutti e due gli ordini senza diminuire perciò la necessità che à la mente di ammetterli. Quel sentimento direi quasi di disagio clic par darci questa necessità, non è in fondo che ca¬ gionato da quella nostra come ripugnanza a riconoscere che l’analisi mentale della realtà deve a un dato punto arrestarsi. La mente deve arrivare ed arriva, ad elementi i quali non sono più oltre scomponibili, altrimenti il reale potrebbe sciogliersi nel pensiero.La divisibilità ideale non porta con sè una reale divisione. Solo il tempo ideale può venir diviso a piacere all' infinito, e non à quindi elementi numerabili, ma il tempo reale col suo vario contenuto fenomenico è di sua natura numerabile; quantunque noi, come ci accade per gli atomi della materia, non arriviamo direttamente a’ suoi elementi. Non meno delle cose o degli elementi delle cose sono anche i processi numericamente distinti. E se in astratto la grandezza non à divisione, essa non può tuttavia nella realtà venir esattamente concepita che come risultante di una immediata ripetizione numerica d’uno stesso identico. L’assenza di elementi reali è solo nel nostro pensiero che può a- strarre da ogni divisione nel considerare una grandezza, ed è pienamente libero di dividerla o accrescerla all’ infinito, allo stesso modo che esso procede co’ numeri. Tanto la natura che il pensiero ànno del resto la possibilità dell’infinito accrescere e interpolare ; ma ne’ loro prodotti non possono dare che il determinato: l’infinito si riferisce solo al loro operare, non al loro operato. Il concetto del continuo assoluto applicato al tempo reale sarebbe del resto affatto inutile anche quando fosse giustificato. Poiché empiricamente un tal continuo noi non lo incontreremmo mai. Il fatto che noi della sintesi della natura (come dice Diihring in qualche luogo della “Dialettica”), non abbiamo altro che rappresentazioni di effettività, non ci dà il diritto di fare delle possibilità del nostro pensiero la misura della realtà. Come in sé sia fatto il passaggio da un punto del tempo all’ altro, non può venir inteso. Tanto varrebbe domandare perché esiste il tempo o magari l’essere stesso nella sua -effettiva natura Voler ancora spiegare gli elementi del tempo è uno sconoscere la natura del pensiero; noi non li possiamo ridurre ad altro perchè il tempo non è un prodotto della mente, è condizione anzi dell’esperienza, e non à una natura puramente logica. Il passaggio è una determinazione della realtà che noi non possiamo che riflettere. Sarebbe lo stesso voler spiegare gli atomi della materia; noi non possiamo che ammetterli o riconoscerli; una pretesa spiegazione di essi è assurda poiché il pensiero non è tutta la realtà, ma vien confinato da qualcosa che se pò dare ad esso un contenuto formale, non può però dare il suo essere. Da un grado a un alti’O del cangiamento si fa il passaggio in quanto il cangia¬ mento stesso ci si mostra come fatto compiuto. Noi non dobbiamo quindi illuderci col concetto misterioso del continuo assoluto di penetrare più addentro nel fare della natura, nel divenire dei fenomeni. Noi non possiamo mai altro che constatare gli avvenuti cangiamenti, nuH’altro possiamo. E cosi in realtà non conosciamo come il cangiamento, ma che il cangiamento s’è fatto. Tornando ora alla soluzione di Riehl, nemmanco col fare la serie dei cangiamenti assolutamente continua sfugge egli, secondo crede, alla temuta e presunta contraddizione dell’infinito compiuto od esaurito. E 1' errore suo si fa più stridente e palese quando egli sostiene che la infinità del tempo si mostrerebbe esaurita se si dovesse pensare ad un suo fine nel futuro. Ei crede che solo in tal caso, per evitare la contraddizione, si dovrebbe ammettere un principio assoluto del tempo. E così fa dipendere, cosa enorme, la infinità del regresso dalla infinità del progresso nel futuro. Ma la fine del tempo non è invece punto contradditoria. É questa una questione di natura empirica; e cosi secondo lui non dovrebbe esser allora inconcepibile e contraddittorio neppure un principio del tempo. Il tempo reale, ove fossero date le condizioni di un equilibrio universale, potrebbe finire ad ogni momento senza assurdità alcuna. Poiché ad ogni modo nella natura ogni fine non è della serie infinita ma dell’ultimo cangiamento. Del resto, sia pure, ammettiamo che i processi non siano per sé distinti e numerabili, ma siano invece assolutamente continui. Dice Riehl che le oscillazioni di un pendolo sono senza dubbio determinate numericamente. Ora come risponderebbe egli alla domanda — nè vi può in modo alcuno sfuggire — se si debba pensare che insieme sommate le oscillazioni dei pendoli che possono dall’eternità esser mai esistiti in infiniti mondi, possano venir compresi da un numero finito? E se no sotto quale concetto una tale somma o regola di somma dovrà venir pensata? A ciò non à egli risposta. E più ancora come risponde Riehl a quest’altra, la domanda. Il numero delle terre dall'eternità ad ora nate e morte è egli infinito o finito? Poiché qui manifestamente abbiamo delle esistenze separate, indipendenti, numerabili anche secondo lui. L’unica giusta risposta è che un tal numero è necessarianente infinito, o, propriamente, transfinito. Nel corso perpetuo del tempo non solo non è contraddittorio, sibbene è necessario che un infinito numero di corpi celesti (dato che le moderne teorie cosmiche siano, come pare, inevitabili) abbia gradatamente avuto nascita e morte. Con ciò come non vi fu un primo cangiamento, nemmanco vi fu una prima terra. Il concetto dell’infinito assoluto o transfinito è applicabile solo alla serie regressiva dei cangiamenti, non alla progressiva. La natura di questa consistendo appunto nel crescere suo continuo verso il futuro non può cadere, se infinita, che sotto il concetto dell’infinitamenfe grande. Poiché in nessun punto iminaginabi'e del futuro non si sarà compiuta, a partire da un punto qualunque del tempo precedente, una infinità assoluta di cangiamenti. E ciò che si avrà sarà solo la continua possibilità di sempre nuove mutazioni. La questione però se realmente nella natura dell’essere sia la disposizione a qnes'.o infinito futuro è affatto empirica, non essendoci, come s’è visto sopra, alcuna difficoltà che a priori ci impedisca di pensare possibile un termine d’ogni cangiamento in un qualunque momento avvenire. Il concetto del tempo per sé non ci dà alcuna soluzione; la questione è puramente di fatto. La soggettiva possibile anzi necessaria illimatezza dello schema spaziale non porta seco necessariamente un infinito riscontro nella esistenza materiale oggettiva. Allo stesso modo neppure la illimitatezza del tempo ideale porta con sè quella del tempo reale ossia una serie infinita di reali cangiamenti. Essa non ci impedisce in modo alcuno di considerare come possibile un limite del mondo nel tempo. Se noi siamo sforzati di pensare ad un tempo vuoto non è però il pensiero di esso che gli dà un contenuto reale in ogni suo momento. Essendo che per sè stesso la vuota durata tanto è del reale come del nulla ; sebbene la durata non rimane mai nel nostro pensiero priva adatto di contenuto, in quanto la permanenza dell’essere, indipendentemente dallo svolgersi o no esso in fenomeni, non può mai mancare di farle riscontro. Ed è in questo una grandissima differenza tra la rappresentazione dello spazio e quella del tempo. Mentre a niun punto arbitrario del tempo viene a mancare il contenuto materiale, non così necessaria¬ mente ad ogni punto dello spazio. A parte i cangiamenti in cui l’universo si svolge è evidente che non può ad. esso venir applicato il concetto di una determinata durata. Come esso è sempre quello che è, cosi il tempo non à a suo riguardo significato alcuno. In un qualunque momento inesteso del tempo 1’ essere è completo, è tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. Se dunque nel futuro venisse realmente a mancare ogni mutazione nell’essere, questo potrebbe solo impropriamente venir considerato come nel tempo; la durata dal punto in cui il cangiamento sarebbe cessato à soltanto senso perchè noi la immaginiamo misurata da quella piena di cangiamenti della nostra coscienza. Intanto la meccanica non ammette assolutamente la possibilità del passaggio di un sistema da uno stato dinamico ad uno statico. E cosi il tempo futuro è indubbiamente infinito nel senso di una progressione senza fine – V. anche le considerazioni di Sleyer, “Mechanick iter l Verme”. Tra le due infinità del passato e del futuro sta il momento presente, il quale inchiude la realtà eterna, la realtà che fu e che sarà. La pienezza dell’essere non ci sfugge come parrebbe a considerarlo nella infinita sua fenomenologia. L’essere è sempre tutto presente, non c’ è elemento di cui possa dirsi che sia stato o che abbia a originarsi. Certamente l’interesse nostro va al suo svolgersi ne’ cangiamenti per cui solo ci si svela la sua natura e per cui solo noi ci commoviamo e viviamo. Che per la coscienza l’essere immoto in una rigida inerzia non avrebbe valore alcuno. Tuttavia la infinita possibilità del cangiamento è tutta nell’essere in un qualunque punto matematico del tempo. E cosi T importanza del tempo finito non si perde di contro alla infinità passata e futura del processso: ogni momento del tempo ci dà l’essere sub specie aeternitacis, nè altra mai è stata la esistenza della realtà che quella del momento. Solo in questa considerazione della permanenza eterna del reale possiamo noi comprenderne la infondata e infondabile natura sistematica. Lo sguardo alla incessante evoluzione può troppo facilmente far considerare le interne determinazioni dell’ essere come transitorie. Che l’evoluzione sia tale quale noi l’andiamo scoprendo non è altrimenti a intendersi. Giova quindi, per la concezione universale dell’esistenza, oltre che aver riguardo allo svolgimento di un sistema parziale nel tempo considerare gli altri sistemi parziali del cosmo nel loro coesistente diverso grado di svolgimento, per cui si lascia forse quasi pensare come in ogni momento attuata nello spazio la evoluzione temporale dei singoli mondi. Nello spazio e nel tempo, da cosa a cosa, da processo a processo, per il filo della causalità materiale spiega l’essere la sua unità. Alla necessaria necessità logica rispondi la effettiva unità materiale della esistenza. L’unità dello spazio e del tempo nella rappresentazione non basterebbero per sè a escludere una radicale disparità nel reale. Se lo spazio e il tempo fossero puramente forme ideali nascerebbe il problema del come la realtà non possa dare origine a duplicità di sorta. E la questione si scioglie solo in quanto si riconosce che l’unità stessa del reale è che crea quella dello spazio e del tempo. Le proprietà dello spazio sono esse stesse di na¬ tura meccanica, nè altrimenti potrebbero le leggi della natura esprimersi in relazioni di spazio; nelle necessità spaziali è la logica immanente delle forze della natura. Due spazi differenti sono un assurdo non solo avuto riguardo al pensiero, ma anche in riguardo alla oggettiva realtà materiale. Il pensiero per sè non trova alcun impedimento a riunire ogni spazio in uno spazio unico nel vuoto schema spaziale e non può trovar quindi ragione di considerarlo come disuniforme. Nella realtà poi la pluralità degli spazi vorrebbe dire pluralità di esseri. Ora una tale pluralità non solo non può mai venir oggetto del nostro pensiero e per noi non può quindi assolutamente esistere, ma è dalla realtà smentita, perchè anche l’esperienza colla omogeneità universale della materia mostra esser l’essere uno. Le posizioni delle distanze nello spazio reale non sono che rapporti di forza. Ogni elemento dell’ esistenza materiale è quindi nello stesso unico spazio. Non esistendo cosi elemento alcuno fuori d’ogni relazione cogli altri. Analogamente è del tempo reale ; la sua unità suppone quella dello spazio materiale e dipende insieme dalla universalità del cangiamento. Per la natura radicalmente omogenea delle cose e per la temporalità d’ogni cangiamento è uno anche il tempo oggettivo. E cosi che i principii meccanici si estendono presumibilmente e con sempre maggior certezza ad ogni massa dell’universo, a ogni sistema di stelle fisse e gruppo di sistemi. Poiché la base dell’esistenza è di natura meccanica. Solo la sensazione come tale o il campo della coscienza ne resta fuori e riceve dalla spiegazione meccanica una eterogenea sebbene costante e parallela illustrazione. L’unità dell’essere non à riscontro in una fantasticata e contraddittoria unità cosciente universale; rifrange invece per dir cosi la sua unità in quella di molteplici coscienze individuali. L’unità oggettiva estramentale e la unità della coscienza: due abissi del pari inscrutabili ma rispondentisi. Albana e all’altra sta a base e direi quasi a tergo quella che noi non possiamo concepire che col concetto formale di ragione o di fondamento unitivo e subfenomenico dei due fatti. Non è meno inscrutabile l’una unità dell’altra, sebbene quella della coscienza implica per sé quella materiale oggettiva. Infatti che cosà di meno oltre analizzabile dell’unità radicale che con la mutazione si appalesa esistere negli elementi dell’essere? Come spiegare la effettiva comunione delle sostanze, il fatto che lo stalo di un atomo porti seco un dato altro stato di un altro? Queste riflessioni ci richiamano alla infondata originarietà delle cose, e alla natura per così dire superficiale della conoscenza e del pensiero. Quelli sono resti refrattari ad ogni ulteriore analisi; nè già per difetto del nostro istrumento, ma per la necessaria natura stessa del conoscere, chè altrimenti la realtà dovrebbe cessare di esistere come distinta dal pensiero. La analisi à necessariamente de’ limiti, i quali non anno però bisogno d’esser limiti della conoscenza nel modo in cui falsamente per lo più vengono intesi, quasi indizi di limitatezza di contro a una sia pur solo logicamente possibile conoscenza superiore. Come non è incondizionatamente applicabile al reale il principio di ragione, tanto meno lo sono altri concetti essenzialmente relativi quali quelli di grandezza e di scopo. Se l’universo è infinito, non à evidentemente per ciò stesso determinazione alcuna quantitativa; se finito è vero però che in relazione ad una sua parte esso à una grandezza determinata, sebbene nell’estenzione variabile da un momento all’altro. E che possiamo quindi dirlo più piccolo di una grandezza posta mentalmente superiore alla sua ; che anzi possiamo anche considerarlo infinitamente piccolo in relazione all’infinito assoluto dello spazio ideale. Ma in sè non si potrebbe dirlo propriamente nè grande nè piccolo, perchè fuori di esso non vi è nulla che possa darci una unità di misura. E del pari è affatto relativo il concetto di durata e inapplicabile perciò in modo incondizionato all’essere. Questo non dura nè tanto nè poco; e la ragione di ciò è che esso non è nel tempo. Considerando però la serie dei cangiamenti, al contrario di quanto ci accade per lo spazio, lo schema ideale del tempo riceve necessariamente un contenuto reale perfettamente corrispondente. E sciogliendo la difficoltà che più che tale a molti filosofi è parsa sinora una stridente contraddizione, abbiamo visto che come per mezzo del tempo si fa possibile il cangiamento, il quale altrimenti sarebbe contraddittorio, cosi per il cangiamento trova una necessaria applicazione alla realtà oggettiva l’infinito assoluto o trans-finito. Mario Novaro. Novaro. Keywords: implicatura ligure, ‘la riviera ligure’, Grice echoing Kant, echo, implicature ecoica, Strawson’s ditto-theory of truth, Strawson’s echoic theory of truth, Skinner on echo – ecoico, eco, implicature ecoica, infinito, Lucrezio – Luigi Speranza, “Grice e Novaro” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Riviera Ligure. Novaro.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Novato: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice, as a ‘Midlands scholarship boy’ at Corpus, knew it well: the Romans would distinguish between one born within the sound of the bells of the Campidoglio, and one from the almost un-Roman provincial whence Novato hailed! Keywords. Filosofo italiano. Seneca’s brother. Adopted by Lucio Giunio Gallio. Seneca dedicates two of his philosophical dialogues to him. Seneca’s exhortations suggest that if Novato was not a follower of the Porch, he was a the very least a sympathiser.  Lucio Anneo Novato. Novato.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia,Grice e Numa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la logica del regno – Roma – la scuola di Cures -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Cures). Abstract. Grice: “One would hardly at Oxford call a ‘king’ a philosopher – even if he was the second one!” – They say Romolo could not quite count as Plato’s ‘re filosofo’ – for one, he was an uncultivated, or wolf-cultivated – warrior, rather. ‘Rome only saw wisdom through Numa.’ Grice entered philosophy, as he should, though the sub-faculty, i. e. through the Faculty of Literae Humaniores, ad his was a classical scholarship to Corpus – His family having no ‘intention’ to matriculate in the city of dreaming spires. At Clifton, Grice read Greek and Roman (in that order) profusely. He did not read Etrurian, though, and thus missed most of Numa’s implicatures!” Keywords: Crotone, Roma. Filosofo italiano. Cures, Fara in Sabina, Rieti, Lazio. The second king of Rome. A book was discovered. It wasn’t written by Numa, but the Romans said it was. It was very philosophical. The Roman senate ordered that it should be burned. It was! But most Italians can recite by heart all the indiscriminate teachings it contained. The big polemic came from Cicero. He didn’t want Roman philosophy to have a start other than in Rome, so he denied the school of Crotone and much more any Etrurian influence via N. Still…  N.dal Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume Rouillé 2º Re di Roma Predecessore Romolo Successore Tullo Ostilio Nascita Cures Dinastia Re latino-sabini ConiugeTazia Figli Pompilia N., Cures Sabini, -- è stato il secondo re di Roma, e il suo regno durò 42 anni. Numa Pompilio, di origine sabina, per la tradizione e la mitologia romana, tramandataci grazie soprattutto a Tito Livio e a Plutarco, che ne scrive anche una biografia, era noto per la sua pietà religiosa  e regna succedendo, come re di Roma, a Romolo. N. e un re pio, e in tutto il suo regno non combatté nemmeno una guerra. L'incoronazione di N. non avvenne immediatamente dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo, i senatori governarono Roma a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo di sostituire la monarchia con una oligarchia. Però, incalzati dal sempre maggiore malcontento popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno, i senatori furono costretti ad eleggere un nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa delle tensioni fra i senatori romani che proponevano il senatore Proculo ed i senatori sabini che proponevano il senatore Velesio. Per trovare un accordo si decise che i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abita nella a Cures ed era sposato con Tazia, figlia di Tito Tazio. Sembra che N. fosse nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma. N., concittadino di Tazio, e noto a Roma come uomo di provata rettitudine oltreché esperto conoscitore di leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di ‘pio.’  I Sabini accettarono la proposta rinunciando a proporre un altro nome. Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio, i due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini, per offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, N. vi acconsente solo dopo aver preso gl’auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli. N. fu quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo. La leggenda afferma che il progetto di riforma politica e religiosa di Roma attuato da N. fu a lui dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei boschi e che si innamorò di lui al punto da renderlo suo sposo. A N. viene attribuito il merito di aver creato una serie di riforme tese a consolidare le istituzioni di Roma, prime tra tutti e quelle religiose, raccolte per iscritto nei commentarii N. o libri N., che andarono perduti nel sacco gallico di Roma. Sulla base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici. N.stabilì di unificare ed armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani per eliminare le divisioni e le tensioni, riducendo l'importanza delle tribù e creando nuove associazioni basate sui mestieri. Appena divenuto re nomina, a fianco del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, gli dei più importanti dell'epoca arcaica. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed istruzioni. Numa proibe ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e animale perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini. Durante il regno di N. non furono costruite statue raffiguranti gli dei. Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestal, sulla moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro. Istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città. Le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia. Anco Marzio ne aggiunse altre due. Istituì anche il collegio dei Feziali, i guardiani della pace, che erano magistrati-sacerdoti con il compito di tentare di appianare i conflitti e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi diplomatici. Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei salii, sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra -- per i romani il periodo per le guerre anda da marzo ad ottobre. Era, questa funzione, molto importante per gli abitanti di Roma, perché sanciva, nel corso dell'anno, il passaggio dallo stato di cives -- cittadini soggetti all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive -- a milites -- militari soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni militari -- e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Numa migliora anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo loro di partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia assieme ai loro padroni. La tradizione romana rimanda a N. la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis, e l'istituzione della festività dei Terminalia. Nel Foro, fa costruire il tempio di Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace -- e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo regno -- Secondo Marco Verrio Flacco, riportato da Sesto Pompeo Festo, il re N., ordinando la costruzione del tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda (ad pilæ similitudinem), cioè della stessa forma del mondo, in quanto N. e un convinto sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già in voga in quei lontani tempi. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il re N. poi incluse a Roma il Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto da mura. A N. e ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi di 355 giorni -- secondo Livio invece lo divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo -- con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre. L'anno iniziava con il mese di marzo. Da notare la persistenza dei nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre, ottobre, novembre, dicembre. Il calendario conteneva anche l'indicazione dei giorni fasti e ne-fasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più difficili, la tradizione racconta che il re N. segue i consigli della ninfa Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni. Atque omnium primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia tricenos dies singulis mensibus luna non explet, desuntque sex dies solido anno qui solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis omnium annorum spatiis, dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit, quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat. Anzitutto divise l'anno in dodici mesi secondo il corso della luna, ma poiché i mesi lunari non arrivano a trenta giorni, e complessivamente mancano alcuni giorni per fare l'anno intero, che corrisponde al giro del sole, inserì nel calendario dei mesi intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti anni i giorni concordavano, tornando allo stesso punto dell'orbita solare donde era partito il ciclo ventennale del calendario. Egli fissa pure i giorni fasti e nefasti, ritenendo cosa utile che in qualche giorno non si potessero discutere le questioni politiche davanti al popolo. (Livio, Ab Urbe condita)  L'anno così suddiviso da N., non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni, togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche. Floro racconta che N. insegna i sacrifici, le cerimonie ed il culto del sacro ai Romani. Crea anche i pontefici, gli auguri ed i salii. La tradizione vuole che Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la festa di Quirino e la festa di Marte. La festa di Quirino si celebra a febbraio. La festa dedicata a Marte si celebra a marzo, e venne officiata dai salii. N. partecipa di persona a tutte le feste religiose, durante le quali e proibito lavorare.  A queste riforme di carattere religioso corrispose anche un periodo di prosperità e di pace che permitte a Roma di crescere e rafforzarsi, tanto che durante tutto il regno di Numa le porte del tempio di Giano non furono mai aperte. N. muore ottantenne e non di morte improvvisa, ma consunto dagl’anni (per malattia secondo Livio), quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, ha solo cinque anni, circondato dall'affetto dei romani, grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace di cui avevano goduto. Alla processione funebre parteciparono anche molti rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa esperienza del regno di Romolo, N. seppe con la sua saggezza fornire un saldo equilibrio alla nascente città. Durante il consolato di Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, due contadini ritrovarono il luogo della sua sepoltura, contenente sette libri in latino di diritto pontificale, ed altrettanti di filosofia. Per decreto del senato, i primi furono conservati con cura. I secondi furono pubblicamente bruciati. Il senatore sabino Marcio, che aveva sposato la figlia Pompilia, si candida alla successione ma fu superato da Tullo Ostilio e si lascia morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra Pompilia e Marcio e nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune fonti raccontano di un secondo matrimonio di N. con una certa Lucrezia da cui sarebbero nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni e dei Marci. L’esistenza di N., come accade per quella di Romolo, è discussa. Per alcuni studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per metà filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo alcuni N. viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua figura. Strabone, Geografia, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Livio: Ab Urbe condita. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu quae acceptissima dis essent sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum praeficere. Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum, Tacito, Annali, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Sesto Pompeo Festo, De verborum significatione. Budapest, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Plutarco, Vite Parallele: Licurgo e N.; Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium Plutarco, Vita di N. Antonio Brancati, Civiltà a confronto, Firenze, La Nuova Italia, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane. Eutropio, Breviarium historiae romanae, Livio, Ab Urbe condita libri; Periochae. Plutarco, Vita di N.. Fonti storiografiche moderne, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Roma in Italia, Milano, Einaudi, Brizzi, Storia di Roma. Dalle origini ad Azio, Bologna, Pàtron, Carandini, Roma il primo giorno, Roma-Bari, Laterza, Gabba, Dionigi e la storia di Roma arcaica, Bari, Edipuglia, Matyszak, Chronicle of the roman republic: the rulers of ancient Rome from Romulus to Augustus, Londra, Thames and Hudson, Mommsen, Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni, Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano, Rusconi, Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano, Il Saggiatore, Howard H. Scullard, Storia del mondo romano, Milano, Rizzoli, Voci correlate Gens Pompilia Gentes originarie Età regia di Roma Rex (storia romana) Lex regia Flamini Salii Pontefice (storia romana). N. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sanctis., N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. sapere.it, De Agostini. N. Enciclopedia Britannica, Goodreads. Predecessore Re di Roma Successore Romolo a.C. Tullo Ostilio Storia romana Plutarco  Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Mitologia Categorie: Sovrani Sovrani Romani Nati a Cures Sabini Personaggi della mitologia romana Re di Roma Oracoli classici [altre] Cassius Hemina, vetustus auctor annalium, in quarto libro tradit Cneum Terentium scribam in Ianiculo effodisse arcam, in qua N., qui Romae regnaverat, sepultus erat. Addit etiam in arca repertos esse libros a rege Numa scriptos quingentis et triginta annis ante. Fuisse e charta N. libros Cassius etiam scribit, refertos multis rebus obscuris. Cassius etiam tradit libros in arca integros repertos esse magno cum stupore omnium et a scriba senatui portatos esse. Quoniam omnes notabant libros, in terra infossos, permansisse integros, Cassius Hemina ipse suam rationem praebebat: dicebat enim eos libros in arca sub lapide quadrato positos esse et propter hoc integros mansisse; praeterea, quod libri citrati fuerant magna cum cura, tineae illos non tetigerant. Tamen, lectis libris, multa scripta inventa sunt de Pythagorica philosophia et propter hoc a praetore ussi sunt. Hoc idem tradit Piso quoque in libro primo commentariorum suorum, sed libros VII iuris pontificii, totidem Pythagoricos fuisse narrat. Valerius Antias autem in opera sua etiam senatus consultum tradit quo eos uri iussum est. Cassio Emina, antico autore di annali, nel quarto libro tramanda che lo scrivano Gneo Terenzio avesse disseppellito nel Gianicolo il sarcofago, nel quale N., che aveva regnato a Roma, era stato sepolto. Aggiunge inoltre che nel sarcofago erano stati trovati i libri scritti dal re Numa cinquecentotrenta anni prima. Cassio scrive anche che i libri di N. erano di carta, pieni di molte cose misteriose. Cassio tramanda anche che i libri nel sarcofago fossero stati trovati integri con grande stupore di tutti e che fossero stati portati dallo scrivano al senato. Poiché tutti notavano che i libri, sepolti sotto terra, erano rimasti integri, Cassio Emina stesso fornisce la sua spiegazione.  Dice, in effetti, che questi libri erano stati posti nel sarcofago sotto una pietra quadrata e per questo erano rimasti integri.  Inoltre, poiché i libri erano stati cosparsi con grande cura di olio di cedro, i tarli non li avevano toccati. Tuttavia, letti i libri, furono trovati molti scritti sulla filosofia pitagorica e per questo furono bruciati dal pretore.  Questa stessa notizia la tramanda anche Pisone nel primo libro dei suoi commentari ma narra che i sette libri del diritto pontificio fossero stati altrettanto pitagorici. Valerio di Anzio inoltre nella sua opera tramanda anche la consultazione del senato nella quale fu ordinato che essi fossero bruciati. The original Romans are the ones who did the choosing part. They don’t select anyone from the Sabine senators but find a man in the Sabine city of Cures, the birthplace of the former king Titus Tatius, famous for his justice, wisdom, and piety. His name was N.. The people, happy with this choice, accepted their new king quickly. Only one small problem now occurred – the man who was chosen to rule after so much effort and such a lengthy and difficult process was not really keen on reigning at all. When a delegation from Rome approached him, he humbly refused. It required much much persuasion from his father and brothers with arguments about honour too great to refuse, but in the end, N. finally agreed and became the king of Rome. Numa Pompilio. Numa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Numa.”

 

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