Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Occelo: la ragione conversazionale e la setta di
Lucania -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera,
Basilicata. A Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di Lucania.
O. held that the number III is the key to understanding the world. According to
Ippolito, he also believed that in addition to the IV elements – earth, fire,
air, and water – there is a fifth principle which is circular motion. Filone
says that O. believes that it is possible to prove that the world is
indestructible. Occelo.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Occilo: la ragione conversazionale e la setta di
Lucania. Roma – filosofia basilicatese -- filosofia antica – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera,
Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico.
Brother of Occelo di Lucania.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Ocone:
la ragione conversazionale e l’implicature conversazionali dei liberali
d’Italia – la scuola di Benevento – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Benevento). Filosofo italiano. Benevento,
Campania. Grice: “Ocone has selected Croce as the quintessential Italian
liberal! That should please Oxonians like Collingwood!” -- Grice: “I like
Ocone’s idea of a liberalism without a theory – ‘liberalismo senza teoria’ –
that should please J. M. Jack!” -- Grice:
“Speranza has noted that if Bennett
speaks of meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.”
Grice: “While meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to
make a sign stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism
is Humpty Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and
meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which
conversationalists rely!” Si
occupa soprattutto di temi concernenti il neoidealismo italiano e la teoria del
liberalismo. Allievo di Franchini, è borsista dell'Istituto Italiano per
gli Studi Storici di Napol. Qui ha l'opportunità di lavorare direttamente nella
biblioteca personale di Benedetto Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del
filosofo, raccoglie e analizza il materiale scritto nel mondo su di lui. Un
frutto parziale e selezionato del suo lavoro vede la luce nel volume ragionata degli studi su Croce pubblicata
dalla Edizioni Scientifiche di Napoli, che vince l'anno successivo la prima
edizione del "Premio nazionale di saggistica Benedetto Croce",
istituito dall'Istituto Studi Crociani. È stato direttore scientifico
della Fondazione Einaudi di Roma, dalla quale è stato successivamente
allontanato per le sue posizioni nazionaliste. Successivamente è entrato a far
parte della Fondazione Tatarella ed è diventato Direttore Scientifico di
Nazione Futura. È anche membro del Comitato Scientifico della Fondazione
Cortese di Napoli, del Comitato Storico Scientifico della Fondazione Bettino
Craxi, del Comitato Scientifico dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e
del Comitato Scientifico della Fondazione Farefuturo. Attività e pensiero
Fonda a Napoli, con un piccolo gruppo di laureati e laureandi della Federico
II, cittadini sanniti e napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito
dalla Edizioni Scientifiche, che si propone di rinnovare il messaggio crociano
e che entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. I suoi studi
crociani prendono corpo nel volume Croce, Il liberalismo come concezione della
vita, pubblicato da Rubbettino nella collana “Maestri liberali” della
Fondazione Einaudi di Roma. Il volume, presentando l'immagine originale di un
Croce partecipe del processo europeo di distruzione delle categorie
epistemiche, ha numerose recensioni. A partire dalla sua interpretazione di
Croce, O. elabora la prospettiva di un liberalismo senza teoria, cioè
storicistico e non fondazionistico. Il suo progetto filosofico può essere così
formulato: riconquistare il liberalismo alla filosofia; ritornare in filosofia
all'idealismo; ricongiungere il liberalismo con l'idealismo (si vedano, a tal
proposito, gli interventi di O. nella polemica fra neorealisti e
postmodernisti). In quest'ordine di discorso, O. ritiene che la critica rivolta
a Croce di essere un liberale anomalo, in quanto nel suo pensiero il concetto
di individuo sarebbe sacrificato, vada ribaltato: l'individualismo non è
affatto consustanziale al liberalismo, ma si è legato ad esso solo in una sua
prima fase di sviluppo (all'inizio della modernità). Quello di O. è un
liberalismo che non prescinde né dal senso storico né dal realismo politico.
Successivamente il pensiero di O. ha assunto molti caratteri propri dello
scetticismo politico di Michael Oakeshott, in particolare della sua critica del
razionalismo, del perfezionismo e del paternalismo. Egli ha pertanto insistito
sul carattere “anticonformistico” e “eretico” del liberalismo, sulla priorità
in esso del momento “negativo” o della contraddizione. La critica delle
ideologie, e in particolare del “politicamente corretto”, diviene in
quest'ottica il correlato pratico degli approdi antimetafisici della filosofia
contemporanea. E filosofia e liberalismo finiscono per coincidere Da
ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il significato teorico e storico
dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e “sovranismi”. Essi, prima di
essere ostracizzati, vanno per O. capiti: pur in modo confuso e
contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso” incorso al
processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva crisi
dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata
una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista,
cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e
dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi”
sono perciò per O. movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione (e
connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della globalizzazione,
che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le idee di due
“deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul versante
economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale fortemente
eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali e sui
maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della
rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell
quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il
Riformista”, è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e
“nicolaporro”. Molto seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione
politico-culturale “O.’s Corner” sulla rivista online “startmagazine”. Un
estratto di un suo articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone, Prendiamola
con filosofia, Il Mattino, è stato utilizzato dal Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca come documento per la stesura della traccia
della prova scritta di Italiano negli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore a.s. (Tipologia Redazione di un
saggio breve o di un articolo di giornale2. Ambito socio-economicoArgomento: La
riscoperta della necessità di «pensare»). Nella sezione Dal dopoguerra ai
giorni nostri, Percorso Il dibattito delle idee Dall'“impegno” al postmoderno, Dal
periodo tra le due guerre ai giorni nostri) dell'antologia "Il piacere dei
testi", editore Paravia, è contenuto il suo saggio "Né neorealisti né
postmodernisti, "qdR". Altri saggi: “Coronavirus. Fine della
globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del secolo. Interpretazioni
del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa. L'Unione che ha
fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per il nuovo
secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi,
Roma, “Il liberalismo nel Novecento: da
Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è.
Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri
del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi,
Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova, (Reichlin e Rustichini) Pensare la sinistra.
Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza teoria, Rubbettino,
Soveria Mannelli (con Dario Antiseri), “Liberali
d'Italia” Rubbettino, Soveria Mannelli (con altri autori) “Le parole del tempo.
Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti, Manifesto libri, Roma); “Spettri
di Derrida, Annali della Fondazione europea del Disegno (Fondation Adami), Il Nuovo Melangolo, Genova); “Profili
riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Marx”
(Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La libertà e i suoi limiti.
Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Laterza, Roma); “Croce.
Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Bobbio
ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto laico, Laterza, Roma);
“Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ragionata degli
scritti su Croce; Edizioni Scientifiche, Napoli. Cfr. Archivio borsisti in
Istituto Italiano per gli Studi Storici
Premio Croce, su mediamuseum. Comitato Scientifico, su Fondazione luigi einaudi. Ficara, La Fondazione Einaudi allontana O.
perché "filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione
Giuseppe tatarella. Organigramma, su
nazionefutura. Fondazione Cortese di
Napoli in//Fondazione cortese/
Fondazione Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, Comitato
Scientifico e di indirizzo, su fare futuro fondazione. rubbettino. Vattimo Pubblicazioni La
recensione, Caffe' Europa, Duccio Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a
Nietzsche, su il Giornale, Il blog di VATTIMO: O. e la filosofia classica
tedesca, su Gianni vattimo. blogspot. com.
La filosofia politica è una pseudo-scienza. Parola di filosofo. E che
filosofo!, su reset. Attualità di Croce su
opac., Europa: l'Unione che ha fallito; opac., La natura del potere svelata dal
coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale,
Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide. Chi Siamo, su loccidentale. MIUR Traccia
della prova scritta di Italiano per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione. Il piacere dei testi QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La
chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale:
breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / O., su opac., Il
liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale che non c'è:
manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del pensiero
laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Collingwood, Autobiografia
Collingwood; prefazione di O., su opac., Il nuovo realismo è un populismo / Cesare,
Simone Regazzoni, su opac., Pietro Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e
libertà Reichlin, Rustichini, su opac., “Liberalismo
senza teoria”; su opac., “Liberali d'Italia”; Antiseri; prefazione di Giorello,
su opac., Le parole del tempo; M. Barberis; P. Pellzzetti, su opac., Spettri di Derrida opac.,
O., Profili riformisti: pensatori liberal per le nostre sfide opac., Marx:
teoria del capitale / [visto da opac., La liberta e i suoi limiti: antologia
del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, opac., Croce: il liberalismo come
concezione della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici, opac., Manifesto
laico / Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento di Bobbio, su
opac., Lessico repubblicano: Torino, Maurizio Viroli, su opac., ragionata degli scritti su Croce, opac., La
genialità di Marx agli occhi dei liberisti, riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere
Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com.
Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty
a liberal too.” Grice: “Mussolini
set a puzzle for liberalism – the Italians, disorganized as they are, had to
create a party: they called it the ‘Partito Liberale Italiano’ – which is bound
to close down! It opened in 1922 – while I was at Harborne!” -- Grice: “The test of a man’s intelligence lies
in his ability to name his party – partito liberale italiano – partito liberale
democratico – partito liberale constituzionale – the addition of ‘italiano’ at
the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS that what Borolli did at
Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since he omitted to add the
‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but fiorentino at most!
Similarly, the partito liberale democratico is NOT the partito liberale
italiano, nor is the partito liberale costituzionale. Mussolini had it clearer:
there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa – the infix ‘nazionale’
means that provincials should not appy!” Corrado
Ocone. Ocone. Keywords: liberali d’Italia, liberalism, dal liberalism al
fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale – Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed Ocone” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Oddi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Padova
-- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Padova, Veneto. Figlio
di Oddo degli Oddi, convinto sostenitore della scuola di Galeno. Professore per
incarico del Senato veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove insegna e
introduce senza ricevere emolumenti l'insegnamento della pratica clinica nell'ospedale
di San Francesco Grande, precedendo così tutte le altre scuole. Commentari dell'Ateneo
di Brescia G. Vedova, Biografia degli
scrittori padovani, coi tipi della Minerva, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dobbiamo
al chiarissimo signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica medica di
Padova ec.) la bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e il suo
collega Marco Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso Montano
pochi lustri prima, diedero novella vita al la clinica medica nello spedale di
san Francesco in Padova, condotti dalla sola nobile brama di giovare. E qui
avvertire mo cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore, dopo aver
dimostrato con incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la prima
d'ogni pubblico Studio d'Europa, vanta la fondazione in essa di quella scuola, base
dellamedica scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor
dati professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non
essendo da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza
vôlto in lingua italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli
Acta nationis germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta
et examinata, digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis
Christophoro Sibenburger Carin thio, etKeller Hallense Saxone. Manoscritto
presso la biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in
vita Boltoni, non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca
di Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde
togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che
colà infierivano. N e taceremo, come a'dinostrisidimostròbellamente,che il Bot
Merita,a comune nostro giudizio, di essere celebrato con riconoscente memoria e
di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla nazione
nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni, professore primario di medicina pratica
estraordinaria, il quale condotto dalla singolare benivoglienza che da più anni
a noi concede, oltre all'averci anche in quest'anno dalla pubblica cattedra con
ogni cura ammaestrati, a fine di giovare vieppiù alla nostra istruzione si
riuni nelloscorso inverno all'eccellentissimo Marco degli Oddi, medico
ordinario dello spedale di san Francesco e pubblico professore, e con esso,
finite la lezione, si trasferi sempre a quello speilale medesimo seguito da toni
fu, insieme al suo collega O., il primo che dopo il celebre Montano gettasse i
più so noi per visitarvi parecchi infermi afflitti da diversi generi di
malattie: per tal guisa egli aprissi l'adito ad accuratamente mostrarci come
sido vessero applicare alla pratica quelle dottrine che avevano fatto il
soggetto della sua pubblica lezione, esercitando così i suoi uditori in tutto
ciò che al dotto e sagace medico appartiene di osservare e dipraticarea pro
de'suoimalati. Cessate finalmente le lezioni, volendo Bottoni che neppure
durante le vacanze dell'Università mancasse a noi qualche mezzo di
ammaestramento, e potesse per noi esser posto a profitto il nostro tempo,egli in
una determinata ora della mallina recavasi ogni giorno a quello stesso spedale
:quivi, visitando alternativamente cob O. gli ammalati, andava instruendoci,
ragionando intorno a qualche caso tra i più gravi da lui osservati. Il Campolongo
perciò, vistosi promosso a medico di quel l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia
de'provetti nostri precettori, di dare ogni giorno delle pratiche istruzioni:
nel di susseguente alla sua nomina occupò quindiprimo di tutti con molta
insolenza e temerità quel posto chesoleva essere destinato ai nostri maestri; nè,
occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo in suo pensiero diragionare
aigiovanida quel luogo, non già una sola volta, o per un giorno solamente,
rinnovò la scena istessa per più giorni; e non valseroa ri muoverlo nè a
piegarlo le nostre istanze, direlte a far sì ch'ei lasciasse liberi ü luogo e
l'ora occupati per lo innanzi dai nostri maestri,e che per sè volesse scegliere
altra ora ed altro luogo. Ma, ostinato egli oltre ogni credere, giunse,
coll'insistere per le sue pratiche istruzioni, a turbare quelle solite a darsi
dagli altri prima di lui. Se dal Campolongo solo avesse dovuto dipendere, tutti
saremmo stati esclusi dal Mentre simili esercitazioni, con si maturo
consiglio intra prese a nostro vantaggio, andavano proseguendo, un certo
medicoper nome Emilio Campolongo,digiovanile età, col. lega nell Università e
professore della stessa cattedra, m a in secondo luogo, d’O., riusci,non sisa
come, ottenere che la ispezione a d siedeva e la cura de'malati, cui prima pre
ilsolo O.,venissefra entrambidivisa, permodo che quind'innanzi gli uomini
fossero medicati longo, e le femmine d’O,. dal Campo l'ospitale; il che
pure minacciava apertamente di voler far si che avvenisse. La quale insolenza,
divenuta già intollerabile ai signori professori Bottoni ed Oddo, meritevoli
per ogni riguardo di molta stima e riverenza, li costrinse a partire dallo
spedale, e con essi partirono quanti vi erano studenti della nazione
alemanna,rimanendo così affatto solo ilCampolongo nel luogo da lui tolto agli
altri. Informati poscia bene del fatio i governatori dello spedale, costrinsero
il Campolongo con severi modi a cessare dalla sua pretesa, ingiungendogli,
sepur voleva intraprendere qualche esercizio a vantaggio di taluno degli
studenti, di scegliersi un'altra ora ed u n altro luogo. Cosi, mercè la
prudenza dei nostri maestri e la costanza degli studenti alemanni, fu vinta
l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea ricominciare.
Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani per far le vacanze
presso leloro famiglie, li signori Bottoni e O., eccellentissimi uomini e della
nostra nazione sommamente benemeriti, affinchè far potessimo qualche profitto
nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro pratiche istruzioni quasi ogni
giorno nello spedale di san Francesco sino al principio delle lezioni, con gran
fatica e disagio loro, econsomma utilità nostra: della qual cosa poco io dirò, potendo
bene ciascuno dalla rela. zione del mio antecessore rilevare le circostanze
tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo nella state invitati
parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi vieppiù grati a'nostri, li condussero
due volte colà, dando per tutti cavalli e legno il signor O., e quivi
gl'instruirono circa il valore medico delleacque termali e deifanghi. Verso
lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione opportuna per le sezioni
anatomiche, iBottoni e O. stabilirono di aprire i cada veri di quelle donne che
morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare alla presenza degli scolari
le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo abbandonare ben tosto que lidi
fondamenti della scuola clinica in Padova, che precedette tutte l'altre in
Europa. Lasciò il nostro Bot Bottoni e O. continuarono anche nel successivo
anno ad istruire nello spedale i giovani;ed in quest'anno pure vennero ad
insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano gli atti di quell'epoca, raccontandosiivi
quanto segue: toni un monumento del suo buon gusto nelle arti in un
palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla chiesa degli Eremitani inPadova
(intorno al quale allude la medaglia riportata da Tomasini(1),cheacquistatopo
sto si utile divisamento,poichè, mentre tutto era disposto per eseguire nel
giorno appresso la sezione di due donne, in una delle quali importava esaminare
lo sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri precettori
scuo prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al torace,
Campolongo loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel giorno
medesimo l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue suddetticadaveri. Nacque
da ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti dell’ac caduto e mossi
dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo, di dover
essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto ad’O., quanto al Campolongo, di
astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere lo
stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del
Campolongo contro Bottoni e O., perseverarono questituttavianell'utile loro
impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto dei
malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal
consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne
parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse
ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei
ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone
dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che
il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di
comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate
efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con
cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie
mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci
in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella
pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a
lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia
naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Offredi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del lizio – la
scuola di Cremona -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Cremona, Lombardia. Gli
era tributata grande autorità nell’ambiente filosofico. Insegna a Pavia e
Piacenza. In buoni rapporti con Eugenio IV, Visconti e Sforza. Saggi:“De primo et ultimo instanti in
defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum,” S.l., Bonus Gallus, Giambattista Fantonetti, Effemeridi delle
scienze, compilate da G. netti, Paolo- Molina, Rinascimento, Istituto nazionale
di studi sul Rinascimento, Robolini, Notizie appartenenti alla storia della sua
patria, raccolte da G. Robolini, pavese, Fantonetti, Effemeridi delle scienze
mediche, compilate da Fantonetti, Molina. OFFREDI
CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM QVAE STIONIBVS
IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum, Nunc primum
mendis oinnibus expurgati, et egregijs scolijs marginalibus
illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN COMMENTARIIS tractatas,
altero, qui quastionum capita copiosissime comple&titur, PRAETERE A
DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE AVCTA IN LVCM RE DEVNT A PRAECLARISS.
DOCTORIS Hoc aut contingit propter posibilitatem intellectus D
APOLLINARIS CREMONE N. nostri, qui à principio est sicut tabula rasa, et non.
3. de anima tex. in librum primum Posteriorum mouetur ad intelligendum,
nisi de potentia ad actí cap.is. reducatur sic autem intelligentia non
cognoscunt, Aristotelis, exposition cum semper in actu intelligendi existant,
et eodem modo et nunquam in potentia. Bruta etiam non Mnis doctrina, et discurrunt
saltem discursu pfe&to, quamuis in prin- omnis disciplina incipiosint
in potentia ad cognoscendum, et hoc est telleştiua, ex præpropter imperfectum
eorum modum cognoscendi; existenti fit cogni- Concedi tamen potest, q
aliquo modo, et impertione. Manifestum feétè discurrunt. Ex quo infertur, g per
idem medium euidenter concludere habemus, nostrum mia est autem hoc specu
dum cognoscendi imperfectiorem esse modo intelitia látibus in omnibus;
gentiarī, et perfectiorem modo brutorum, per hoc. f. mathematicæ enim
scientiæ per hunc cum difcurfu cognoscimus, qualiter neq;
intelli- modum fiunt, et aliarum unaquæq; argentia, neq; bruta cognoscunt.
Cũigitur intellectui tium. Similiter aút et orationes,quæ p nostro sit
potentia semper admixta, et cūdiscursu syllogismum, et quæ per inductionem;
scientiā acquirat, in discursu autem error, et recti- utræq; enim per
prius nota faciunt do tudo esse poffit, vbi etiam est admixta potentia, malum,
ö error cötingere poffit, vt colligitur de mente e &rinam; hæ quidem
accipientes,tanğà Arift.g meta. cum dicit, q malum naturaliter
eft tex.6. 19 B notis, illä uerò demonstrātes uniuersale poft potentiā,
et vlterius dicit, g in rebus æternis, perid, quod est manifestum singulare
que semper sunt actu, non est malum, neque error, Similiter aút, et
rhetoricæ persuadent: oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis
di- aut enim per exemplum, et est Inductio: rigeretur humanus intellectus
in acquirêdo notitia aut per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia
alterius, et hæc fuit Ars Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus
operatio, quarum syllogismus secunda primam fupponit, et tertia secundā vt
colli Mnis doctrina,omnisý disciplina gitur 3. de anima (Prima est simpliciü
intelle&tio, Tex. c.at. Secunda est simplicium compositio, vel divisio. Tertia
intellettina preexistente è co- est cognitio discursive His tribus
operationibus sed priores dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres correspondent
logicæ partes, quarum prima magis conuenite fiant pacto consideremus,mani-
habetur in lib. prædicamentorum Arist. G admi- Lui, quatenus in feftum profeito
fiet. Mathematica nang; niculis ipsius scilicet lib. vniuersalium Porphiri,
tellcdwet. fcientiæ illo comparantur modo, caterarú ý lib. sex principiorum,
obi logicè determinatur artium vnaquaque. Sanè circa orationes de generibus, et
speciebus predicamentorum, prout quoque,
fiueille p raciocinationes fiue per cunda est, quæ habetur in lib. Peryhermenias,
vbi de cognitione quadam simplici cognosci habent, sem inductioncm fiunt,
feruari modusidem fo- propositione determinatur, et speciebus ipfius
tàną let: in utrisq; nanque, per antea nota doctri de inftrumento aliquid
compositiuè, vel divisiuè co- C F na nimirum fit, quippe cum
in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò in alys Logicelibris conti- à
cognofcétibus propofitiones accipiantur, netur, qui cõmuniter Ars Noua
dicuntur, vbi de in altera per singulare iam notüipfum vni.
instrumento determinatur, quo discurrere debet in versale oftendatur. Simili profe&to modo,
telle&tus,o3. de syllogismo, es consequenter de alijs modis arguendi.
Diuiditur autem tota illa pars hoc Goratoria rationes fuadent, aut
.n.exem modo, quia ficut in a&tionibus Nature diuersitas plis,quod
est inductio,aut enthymematibus reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate
fiunt, g&quidē ratiocinatio est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum,
quedam vero raro (propter oratoria fuadere. defe&tum aliquem in
natura,ficut monftra ) sicin discursibus rationis quidam sunt, in quibus
est nePro inductione expositionis huius libri Poftecefsitas, et ifti cum
rectitudine rationis habentur. riorum, fub brevitate, videnda funt quædam, v3.
Ală sunt, per quos vt plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam
inueniendi, et confetur, non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter
fcienciam huius libri, Quis ordo huius libribus eft defectus rationis propter
alicuius principi ad cæteros libros logica del LIZIO. Quis libri titulus,et defecttum.
Pars logice, in qua de primis determiquid subiectum et sic consequenter
habebuntur ipsius natur, iudicatiua dicitur, et est illa, quæ traditur in Non
pigeat hoc cause. Quantum ad primum fciendum est primò, q libris Priorum et
Pofteriorī, dita autem' est iudiloco videre Aszi cum modus nofter cognoscendi sit
medius inter mon catiua à iudicio, eo q iudicium est cum certitudine. dum
intelligentiarī, er modum brutoră, ab vtrifq; Vocata etiam est analetica .i. refolutoria,
co gisa diftinguitur in hoc, g intelligimus cum discursie. dicium certum
de effectibus baberi nö poffit, nisifiat. Con quelle stravaganze ed empietà iusegnavasi cercare
col commercio de'demonj, colle magie e le incantagioni i rimedj delle malattie,
e le maniere di preservarsene. Meritavano maggior illustrazione e lode altri
insignim e dici cremonesi di questo secolo. O. solenne filosofo, astrologo e
medico, LETTORE DI METAFISICA – come Ryle! -- lettore di metafisica nello
studio di Pavia e di Piacenza, caro ed accetto ad Eugenio IV, Filippo Maria
Visconti eFrancescoSforza. A Filippo Maria protettor suo dedica O. i suoi
Commentarj di Aristotile sull'anima, stampati poi in Milano, sui quali piacemi
di trascrivere il giudizio che ne fece l'illustre mio concittadino ed amico
Poli. Con quest'opera, dic'egli, pre venne O. in alcuni principii sull'origine
delle idee lo stesso Locke, ecome quegli che appartenendo a quell'onorata
famiglia de'filosofi peripatetici italiani, che al melodo naturale e
sperimentale aggiunsero quello della critica e delle proprie dottrine aveva
proposto nuove ricerche superiori al suo secolo, e di cui van tanto gloriose le
scuole moderne. I n p rova di che il prof. Poli ne'suoi saggi, e nella sua
storia della filosofia ita liana riferisce alcune proposizioni filosofiche
dell'Offredi tratte dalle opere sull'esposizione e sulle questioni de’libri
d'Aristotele de anima (che ebbero poi tante edizioni), dalle quali scorgesi
come l'Offredi svincolasse la filosofia dall'impero dell'autorità, e la posasse
sul sentiero della libera e coscienziosa verità. Quanto alla medicina
Apollinare e celebrato per cure maravigliose fra i migliori medici del suo
tempo, e pubblicava al cune opere, di cui puoi vedere i titoli nell'Arisi.
Il 312 Elogia clariss. virorum Collegii Pisan.1750
negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo Volaterrado e Spacchio non scrive
quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa onorevole menzione in una sua
lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza dell'Offredi dipende quella
della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure da'vostri sto rici e
biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato nella Biografia medica
di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di medicina a Bologna,
Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio intitolato Commentarii
sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non sembra es sere giammai
stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci tramandarono di Albertino de
Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non confondersi coll'altro Albertino di S.
Pietro. Il Cattanei la dottissinio in varie scienze, dottrine e lettere, e
professore straordinario di filosofia, fisica, etica e teologia prima a P a
dova indi a Bologna, poi difilosofia morale e di medicina nello studio di
Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495 fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti
Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara. Fabbrucci, op.cit., in Calogera). Ficino
lo chiama doctrinæ et honestatis exemplar; e lascia alcune opera accennate
dall'Arisi. BOEZIO, Hugues de St Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e
Alberto di Sassonia, AQUINO, Egidio Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di
Gand, Henricus de Gandano, Roberto Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il
francese Gianduno o da Jandun contemporaneo e amico di Marsilio da Padova e di
Pietro d'Abano. Giovanni Duns Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae
Scotista, il Burleusossia Burleigh, Pietro d'Abano ossia Concilialor differentiarum,
Buridano, Vio, Gregorio di Rimini (Gregorius Ariminiensis generale degli
Agostiniani nominalisti), Jacopo da Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di
Taddeo fiorentino filosofi e medici del medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova
logico, PaoloVeneto filosofo, Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino
da Padova uno dei maestri di Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali,
tutti del 15.0 secolo. Il Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni
aggiunte. Di Marliano milanese detto il Calcolatore fanno menzione anche i suoi
libri anteriorie stampati especie quello Deintensione el remissione formarum.
La maggior parte di questi Commentatori sono noti e annoverati sia nelle storie
della Filosofia e della Letteratura, sia nelle Biografie universali, e nelle
Enciclopedie. Pietro d'Abano è uno dei più citati e studiati dal Pomponazzi;è
famoso e una sua accurata biografiafral'altresitrova nella Storia scientifica o
letteraria dello Studio di Padova del Colle.Sopra Jacopo da Forlì che fu
professore a Padova è da notarsi al proposito di questo lavoro che egli è
autore di un De Intensionc 339 titolo più particolare che sta in
testa alla prima pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che esso pure
si riferisce ai corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna. Difatti il
detto titolo è il seguente: “In nomine individuae Trinitatis incipiunt
quaestiones animasticae excellentissimi artium et medicinae doctoris, domini
Magistri Petri Pomponatii Mantuani philosophiam ordinariam in bononiensi
Gymnasio legentis. Sventuratamente il Codice di Firenze non ha che 57 fogli
invece di 267 che ne ha quello di Roma, e delle 79 Questioni di cui contiene
l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi sono trattate; queste corrispondono
generalmente per l'ordine in cui si ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma
non sempre e talvolta con parole diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono
114 ed esauriscono tutto il trattato del LIZIO, quelle del Codice di Firenze
non vanno guari al di là della metà dello scritto aristotelico e nelle 34 che
sono esaminate e risolute non sono comprese le più importanti dell'Indice come
sarebbe quella della Immortalità dell'anima,soggetto del libro famoso che porta
questo titolo. Da un opuscolo del Brunacci è accertato che a Padova
ilPomponazzi comincið et Remissione Formarum, come il Pom ponazzi,manoscritto
registrato dal Tommasini nelle sue Bibliothecae Palavinae manuscriptae publicae
el privatae, Utin, L'Apollinare, Pietro da Mantova e Paolo Veneto sano più
d'una volta dal Pomponazzi citati insieme; e di fatto sono tutti e tre in parte
della loro vita contemporanei. Paolo Veneto ha fiorito nella prima metà del
secolo XV ed è stato professore a Padova; la sua Somma di Logica e isuoi
Commenti supra l'Organo sulla Fisica di Aristotele e specialmente sul De Anima
furono celebri e c m mendatissimi. Di esso parlano il Tiraboschi e il
Papadopoli (Storia dell'Università di Padova) e Poli nel Supplemento IV al
Manuale della storia della Filosofia del Tennemann. L'Apollinare e della famiglia
Offredi o degli Orfidii da Cremona (Vedi Francesco Arisi, Cremona literata,
Parma e Tiraboschi, Storia della Letteratura italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo;
ebbe fama grandissima e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima
del Pomponazzi a Carte che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et
Apollinaris ejus discipulus ». E difensore della filosofia cristiana contro l'Averroismo;
insegna a Piacenza evi e aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al “De
Anima” del LIZIO esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso e
stampato più volte. La prima edizione è di Milano (Vedi il Tiraboschi e il Sassi, Storia della
Tipografia milanese). In un volume stampato a Venezia, esistente nella
Biblioteca Alessandrina di Roma, da Locatell, si trovano la Logica di Pietro da Mantova; il
trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo
instante”) citato da Pomponazzi nel suo “De Anima”; un trattato responsivo di O. Apollinare da
Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; un commento di Menghi
alla Logica di maestro Paolo Veneto. NICOLETTI. Le due opere del Mantovano
portano questi titoli: Viiri præclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter.
Incipil sublilissimus tractatus ejusdem deinslanli. Il trattato d’O. ha per
titolo “Illustris philosophi et medici O.
Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis
adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del
Mantovano che Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus
concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani)
de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se
el quam libel sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim
prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl, -sul “De Anima”
un corso che non puo finire. Forse ad esso si riferiva il manoscritto che Tommasini
(Bibliothecae Patavinae publicae et privatae) dice di aver veduto nella
libreria privata del Rodio. Quanto a quello di Firevze, il titolo ci avverte,
come abbiam detto, che esso deriva come quello di Roma dall'insegnamento
psicologico del Pomponazzi a Bologna.Si troverà nell'Appendice l'indice delle
questioni che vi sono registrate. È certo in ogni modo che il manoscritto di
Roma è il Commento intero di Pomponazzi sul De Anima del LIZIO, e ciò che più
monta e risulta dalla data apposta alla fine del medesimo, è l'opera della sua
età matura, l'espressione più completa del suo insegnamento più importante, il
corso da lui dato o compiuto sul “De Anima”, nel tempo che segna l'apice della
sua attività, in quel tempo in cui egli stesso datava dalla Cappella di S.
Barbaziano in Bologna il De Naturalium Effectuum Causis, e ilvelerit de materia
prima in rerum natura quam nunc sil, velminus. Secundum tamen verilalem, cioè
la fede, malaria ali quando desinil esse ulinc onsccralione, plusaulem
velminusali quando est de forma tam subslunliali quam accidentali. Sed hoc
proposilum non destruil. Er quo sequilur quod si aliquod ens nalurale incipil
vel desinil esse, ipsum incipil vel desinit esse propter cjus formam
substanlialem quae incipit vel desinit esse. Premessa la eternità della
materia, tutto il trattato si aggira sulle difficoltà e le antinomie che
possono sorgere dalla applicazione delle categorie del moto e della quantità
alla generazione e alla cessazione delle forme nella materia, e specialmente
dalla relazione della materia con la forma nei virenti. La qualità delle
argomentazioni giustifica la parola sublilissimus aggiunta al titolo del trattato
e ricorda i ragionamenti della scuola Eleatica di VELIA -- e specialmente di
Zenone sul moto. Il saggio è uno dei più curiosi esempii dell'ardire pur troppo
sterile quanto ai risultati obbiettivi, ma non infecondo quanto alla ginnastica
della mente, con cui la Dialettica del Medio Evo e della Rinascenza si accinse
alla soluzione dei problemi più difficili. Nel manoscritto di Firenze
sopracitato come anche in quello che qui facciamo conoscere Pietro Mantovano è
spesso designato colle iniziali P. M. Fiorentino è rimasto dubbioso se queste
let tere indicassero Pietro Manna cremonese, che Pomponazzi nell'Apologia
chiama viracerrimi in genii gravissimique judicii. Essendo Manna cremonese, è
chiaro che Pomponazzi non puo chiamarlo
concivis meus. Di Pietro Trapolino, il più celebre dei due Trapolini che Pomponazzi
ha per maestri, ecco ciò che dice Papadopoli nella sua storia dell'università
di Padova. Pietro Trapolino Patavii natus patricia genle PHILOSOPHVS, malhemalicus el medicus celeberrimus,
Medicinam in Gymnasio palrio professusesl ut constatex Albis gymnasticis.
Vixilannos LVIII; vivere desiitan. MDIX caipsadiequa caplum direplumque
Patavium estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quæmulla conscripseralperiere.
Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali. Di Trapolino suo precettore
in medicina Pomponazzi parla nella12a delle sue Du Vilazioni sopra il4o dei
Meteorologici del LIZIO adducendo le difficoltà che egli scolaro gli opponera
su certe cause della mutazione delle forme nei misti. Ivi l'autore avvicina
Trapolino a Gentili, a Forlì e a Marsilio di Santa Sofia altri rinomati
professori di Padova. Di Roccabonella che e pure suo maestro è menzione alla
fine del De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone altro suo professore
oltre al cenno che ne fa. Grice: “Italians
are rightly obsessed with Pomponazzi. They complained he looked more ‘a Jew
than an Italian,’ but he predates Ryle’s Concept of Mind. One of his influences
is Offredi, a lizii – who wrote not just on Aristotle’s De Anima (a manuscript
Pomponazzi consulted) but who himself set to defend Pomponazzi – to prove that
he was a real lizio, he wrote on Analytica Posteriora too – “Only a true lizio
will comment on that!” -- Offredi. Keywords:
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Offredi,” The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!:, Grice ed Olgiati: HART
GRICE HOLLOWAY la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei
classici – la scuola di Busto Arsizio – Grice on Hart on Holloway on language
and intelligence -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza
-- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Busto
Arsizio, Varese, Lombardia. Grice: “I’m impressed that Olgiati dedicated a
whole tract to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si forma presso Seminari
milanesi. Collabora con Gemelli e Necchi alla Rivista di filosofia
neo-scolastica e fonda con loro il periodico Vita e Pensiero. Insignito da Pio
XI del titolo di Cameriere Segreto e da Pio XII di Proto-notario Apostolico.
Inoltre assieme ad Gemelli, uno dei fondatori dell'Università Cattolica del
Sacro Cuore. Presso tale ateneo insegnò nelle facoltà di Lettere, di Magistero
e di Giurisprudenza. Condirettore della Rivista del Clero Italiano insieme a
Gemelli. Autore di saggi relativi sulla religione e l’istruzione. I suoi
allievi più illustri sono Melchiorre e Reale. Tomba di Gemelli mons. O.. Il
libro Le lettere di Berlicche, scritto da Lewis, oltre ad essere dedicato a
Tolkien, è dedicato anche a O.. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola,
della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai
benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte — Università Cattolica del
Sacro CuoreLa storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi: “Religione e vita”
(Vita, Milano); “Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I fondamenti della
filosofia classica” (Vita, Milano); “Il sillabario della Teologia” (Vita,
Milano); “Il concetto di giuridicità in AQUINO” (Vita, Milano); “Marx” (Vita,
Milano); Il sillabario della morale Cristiana” (Vita, Milano); “Il sillabario
del Cristianesimo, Vita, Milano) b I nuovi soci onorari della Famiglia
Bustocca. Almanacco della Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto Arsizio, La
Famiglia Bustocca, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia.
La filosofia di Bergson, TORINO BOCCA pS og 4 E E Z á (a ) S 3 JE lí E | S E a
AT O A GEMELLI CON AMMIRAZIONE E CON AFFETTO nel. «ficie tico; de: de; a Forse
nessun filosofo, durante la sua vita, riscosse un plauso cosi intenso e suscitó
tanto entusiasmo, come Bergson. I difensori stessi di altre tendenze
filosofiche, pur dissentendo da lui, lo. ammirano e lo coronano di rose.
William James lo salutó il nuovo Platone. e disse che le pagine dei suoi
scritti schiudevano nuovi orizzonti dinnanzi ai suoi occhi: esse gli sembravano
simili all'aria pura del mattino ed al canto d'un. uccello. Croce gli riconosce
il merito grande di aver rotto le tradizioni dell'intellettualismo e
dell'astrattismo del suo paese, dando per la prima volta alla Francia quella
viva coscienza dell'intuizione, che sempre le e mancata, e scotendo la fiducia
ec- cessiva, che essa aveva, nelle nette distinzioni, nei concetti ben
contornati, nelle classi, nelle formole, nei raziocinii filanti diritto, ma
scorrenti sulla super- -.ficie della realtá (2). Il Balfour conclude: un suo
articolo, assicurando che' chi si trova poco soddisfatto dei sistemi
idealistici e che non puó accettare il credo del naturalismo, si rivolgerá
sempre con interesse e con ammirazione a questo esperimento brillante di
costruzione filosofica. 1! Windelband in Germania JAMES, A pluralistic
universe, Longmanns, CROCE (vedasi) Logica, Laterza BALFOUR, Cre-.tive
evolution and philos. doubt, in The Hrbbert journal, considera Bergson come la
personalita piú originale e pia importante della filosofia francese
contemporanea. Anche se queste lodi fossero esagerate, e certo che da molti
anni nessun pensatore ha esercitato in Francia un efficacia cosi forte come
Bergson (2). Non solo egli ha sotto la sua influenza il corpo filosofico
insegnante del suo paese, che col Gillouin lo stima il solo filosofo di primo
ordine che abbia avuto la Fran- cia dopo Descartes e 1'Europa dopo Kant; ma «
da lui discendono anche ¡i teorici piú moderni delle correnti pia vivaci
francesi. 11 Le Roy, nel suo Comment se pose le probléme de Dieu, crede di
poter distrug- gere con le teorie bergsoniane le antiche prove tradi- zionali e
di poter additare una via nuova per ascendere alla conoscenza di Dio (4); e nel
Dogme et critique si e sforzato di ripensare i dogmi cattolici in funzione di
quelle dottrine. Sorel, dalle sue Reflexions sur la violence ai suoi ultimi
articoli, vuol giustificare il movimento sindacalista con le idee dell”
Evolution Créatrice, libro che egli non esita a paragonare alla WINDELBAND,
LZehrbuch der Geschichte der Philosophte, trad. ital, Sandron, É una giusta
osservazione dello SCHOEN, 2. Bergsons phi- losophische Anschauungen, in Zeitschrift fúr Philos. und
pihlos. Kritik BERGSON,
choix de textes avec étude du syst. philos. par RÉNÉ GILLOUIN, pag. 8. Del Gillouin si vegga pure il recente volume: La
philosophie de M. H. Bergson, Grasset. Anche il Keyserling in Germania
considera Bergson come la mente filosofica piú originale dopo Kant. Anche
PREZZOLIN], La teoria sindacalista, ultimo capo: La filosofía dí E. Bergson Fra
gli studi critici, apparsi in Italia e al- estero, € uno dei piú notevoli. (4)
In Revue de Métaphysique el de Morale, marzo eluglio 1907. Critica della Ragion
pura (1). A Bergson si ispirano i simbolisti ed il Claudel. 1 pragmatisti
trovano nelle sue opere nuovi argomenti in loro favore. Nell'intui- -zione i
mistici scorgono un primo passo verso la loro esperienza tacita, intima,
ineffabile. 1 protestanti li- berali abbracciano con gioia le nuove idee, e
solo pochi mesi or sono, in una riunione degli Unitari a Londra, il pastore
Jacks diceva che esse portano alla religione un soffio nuovo di vita (2).
Persino gli Ebrei tentano di utilizzare le conclusioni di Bergson. il quale,
come tutti sanno, da alcuni anni e il trionfa- tore dei congressi filosofici.
Molte riviste, tra cui il Logos e 1'Hibbert journal, si onorano di poterlo
¡iscri- vere tra i loro collaboratori, e non ce periodico in Europa che non
abbia esaminato i suoi volumi, oramai tradotti in tutte le lingue. In una
parola, la filosofia bergsoniana, per quanto abbia soltanto venti anni di vita,
e davvero una filosofia alla moda SOREL, Considerazioni sulla violenza,
Laterza, rgro; ed in MMouvement Socialiste + in Revue de Métaph. et de Mor.,
gennaio rgrr, nell'articolo : Vues sur les problemes de la philosophie. Quanto
alle relazioni tra sindacalismo e berg- sonismo, si vegga PREZZOLINI: op. cit.
capo III ed un articolo dello stesso autore nel Bollettino Bibliografico
Filosof. di Fi- renze, Gennaio 1909: 7.e grandi idee sindacaliste e la
filosofía di E. Bergson; BOUGLÉ- Sindacalistes et Bergsoniens in La Revue,
GOLDSTEIN. Bergson und Sozialwis senschajt in Archiv. fúr Sozialwissenschfat
COENOBIUM ZIEGLER, Religion und Wissenschaft, Kaufmann Cosi la definisce TILGHER
in un importante ar- ticolo : Zo, liberta, moralita, nella filosofía di E,
Bergson, in Cul- tura, 15 novembre e 1 dicembre 1902. Anche in Inghilterta il
berg- sonismo, che sino a pochi anni fa era quasi sconosciuto, ottiene ora un
successo crescente. Prova ne siano i numerosi volumi e studii di riviste
dedicati al Bergson e le conferenze di questi a Oxford, a Birmingham, a Londra.
Gli inglesi perd.qualche volta, do Na P E ció che piú ancora sorprende, osserva
un neo- scolastico francese, e che la sua riputazione oltre- passa il cerchio
degli iniziati, per raggiungere il grande pubblico. Per farsene un'idea, e
necessario assistere ad uno dei suoi. corsi al Collége de France, ove si ha
limpressione di assistere ad una premitre: gli automobili aspettano alla porta,
i servitori in livrea conservano i posti che saranno occupati dalle grandi
dame; e quando il maestro appare, si sente che egli affascina il suo uditorio.
Gia Bergson entusiasmava i suoi studenti di filosofia del collegio Rollin e del
liceo Henri IV. Agli esami del baccalauerato, della licenza, dell'aggregazione,
tutte le dissertazioni si ispiravano dlle sue idee. E come ciascun anno i
grandi sarti danno la medesima silhouette a tutte le signore, cosi l'autore
dell'Essai sur les données immédiates dava a tutti i candidati la medesima
fisionomia filosofica gia fin dal 1895. Cogli anni l'entusiasmo é andato
crescendo. Nel 1912, narra il Grivet, ogni venerdi la vasta sala del College de
Framce comin- clava a riempirsi un”ora prima dell'apertura della le- zione; sui
banchi gli ultimi posti erano presi d'as- salto; poi si entrava per pressione o
meglio per com- pressione. Come ai giorni piú belli della filosofia, le persone
si battevano, per poter udire colui che i giovani hanno soprannominato «
l'allodola », colpiti da non so quale rassomiglianza tra questo filosofo e
nellPinterpretare Bergson, gli hanno attribuite teorie tutte. op- poste a
quelle da lui difese. Cf. ad es. la risposta . di Bergson ad un articolo del
Pitkin nel The journal of phylosophy, psycolog y and scientific methods, 7
luglio 1910, pag. 385-388, sul quale ritor- neró in seguito, Rivista di
filosofía neoscolastica; Il successo dí Bergson. Anche RAGE OT: 4. Bergson nel
Temps, 2 luglio rgrr. Uuccello, che sotto il cielo azzurro vola cosi alto. e
canta cosi bene (1). Si spieghi come si vuole questo fenomeno. Si dica che la
causa deve essere attribuita alla magia di uno stile, che, specialmente nella
finezza delle analisi psicologiche, sa evocare l'inesprimibile; se ne cerchi
pure la ragione nell'ampiezza della documen- tazione scientifica o
nell'artistica genialita di similitudini superbe e di immagjni seducenti; se ne
assegni il motivo nel bisogno, intensamente sentito dalla generazione presente,
di una reazione all'intel- lettualismo ed al positivismo: e un fatto peró che
questo pensatore puóo vantarsi di esercitare su molti spiriti contemporanei un
fascino immenso. NM successo di Bergson e tale, che alcuni asseri- scono che
con lui si inaugura un nuovo periodo filo- sofico. « La sua opera, scrive il Le
Roy, sará riguar- -data dall'avvenire come una delle piú caratteristiche, dele
pin feconde, delle piú gloriose della nostra GRIVET: MZ. Bergson : esquisse philosophique
in Etudes, s ottobre 1909 e La théorie de la personne d'aprés Bergson nella stessa
rivista, 20 nov. 1grr. Anche nella parte
espositiva del pensiero bergsoniano, quest'ultimo articolo del P. Grivet mi ha
giovato molto, poiché contiene un sunto delle lezioni tenute dal Bergson sulla
teoria della persona. BELOT: Un nouveau spiritualisme, in Revue philosophigue 1897,
19 Semestre, pag. 183. Anche il JOUS- SAIN nella stessa rivista paragond
l'opera del Bergson ad una sinfonia severa : cfr. L'¿dée de l'Inconscient et
'intuition de la vie, in Revue phtlos. epoca. Essa segna una data che la storia
non dimen- ticherá piú; apre una fase del pensiero metafisico; pone un
principio di sviluppo, di cui non si saprebbe assegnare il limite; ed e dopo
fredda riflessione, con piena coscienza del giusto valore delle parole, che si
puó dichiarare che la rivoluzione, da essa operata, eguaglia in importanza la
rivoluzione kantiana ed anche la rivoluzione socratica. Certo, si e esagerato
dicendo che, se il metodo bergsoniano fosse vero, la storia della filosofia non
comprenderebbe che due capitoli: prima e dopo Bergson, e che il primo capitolo,
che abbraccia 25 secoli, non sarebbe che la narrazione di un errore e di un
pregiudizio tenace. Bergson infatti, nella sua Introduction á la Métaphysique e
nel suo discorso al Congresso di Bologna, si + degnato di ammettere che nei
sisterni dei grandi maestri c'e sempre qualcosa di semplice e di netto, come un
colpo di sonda, che e andato a toccare pin o meno in gia il fondo di uno stesso
oceano, portando ogni volta alla superficie un'intuizione vera, intorno alla quale
si e poi organizzato il sistema. Ma anche evi- ROY, Une philosophie nouvelle:
H.Bergson, Alcan In questo volumetto il Le Roy raccolse due articoli ap- parsi
dapprima nella Revue des deux mondes, 1 e 15 febbraio 1gr2 e vi aggiunse
parecchie appendici. Il secondo articolo fi- nisce cosi: « Con Bergson nella
storia del pensiero umano qualche cosa di nuovo comincia. MENTRÉ, La tradition
philosophique in Revue de philosophte (3, ln Revue de Métaph. et de morale. Di questo importantissimo articolo del Bergson c'é
una bella traduzione italiana del Papini, dal titolo: La flosoña
dell'intuizione, Lan- ciano, Carabba, Ig1r. (4) IL discorso, che spesso citerd,
e stato pubblicato dalla Revue de Métaphys. et de Mor., novembre 1911, col
titolo : 7m- tuition philosophique. tando l'esagerazione del Mentré, e
indubitabile che l'intuizionismo bergsoniano e un tentativo di riforma del modo
di filosofare. Lo nota a ragione il Papini, il quale, appunto per questo e
indignato contro la cicalesca plebaglia filosofica, che frinisce sempre nello
stesso metro, guarda il Bergson come un pensatore interessante, riassume alla
meglio i suoi libri, si scandalizza un po” della sua abitudine di scriver bene
e con calore, ma poi non pensa neppure o a distrug- gerlo tutto senza
misericordia, oppure ad accettare il suo metodo, a migliorarlo, ad applicarlo
(1). Ed il Papini ed i bergsoniani vogliono che tutti noi rinunciamo una buona
volta agli antichi sisternmi morti dell'analisi concettuale, per immergerci nel
flutto del reale, per tuffarci nel fiume dell'intuizione. Fra questo delirio
frenetico di. ammiratori, fra tanti inni di lode, non tardarono a farsi udire
le critiche implacabili, i giudizii severi ed anche le ingiurie pla- teali. Il
nuovo Platone venne chiamato dai Le Dantec, dagli Elliot, dai Lankester, da
tutti insomma i mec- canicisti, un jongleur, un faux monnayeur e le sue teorie
vennero ritenute come « aberrazioni e mostruositáa dello spirito umano.
Dusmenil osserva che «quasi non si puó pia ascoltarlo, senza Pintroduzione del
Papini alla traduz. dell'artic. cit., pag. 3. Vedi: LE DANTEC, Reflexions d'un
Philistin in Grande Revue. ELLIOT, Moderne science and the illusions of prof.
Bergson with preface by Lankester, Longmanns pensare continuamente: nego» (1).
IM. Renda ha gia proclamato il fallimento di questa filosofia (2). In Italia
poi il De Ruggiero vi ha sentito un gran senso di vuoto in mezzo alla pid
smagliante ricchezza (3). Ed ¡io potrei continuare a lungo nell'enumerazione di
queste sentenze inesorabili, se, pur avendo coscen- ziosamente letto e meditato
la maggior parte dei principali lavori critici, pubblicati in questi ultimi
anni intorno al filosofo francese, non credessi me- glio di attendere nella
seconda parte di questo volu- me ad esporre ció che in essi ho trovato di
meglio. Qui basterá notare che gli studiosi cattolici, e. so- pratutto i
neoscolastici francesi, sempre si opposero con le loro riviste e coi loro libri
al pensiero di Berg- son. Nel settembre dello scorso anno, in una lettera ad
Albert Farges, che aveva scritto un'opera contro Bergson, il Card. Merry Del
Val, a nome del Ponte- fice, si congratulava con lui, perche aveva combattuto «
le false teorie di questa nuova filosofia, la quale vorrebbe scuotere i grandi
principii, le veritá acquisite della filosofia tradizionale » ed in tal modo
aveva pro- curato di preservare gli animi da un veleno « tanto piú funesto e
dannoso, quanto pia e velato, sottile e se- ducente ». Anche prima peró di
questa condanna, i neoscolastici francesi furono spiccatamente antiberg- soniani.
Nononstante che il Le Roy sognasse un ab- braccio della fede cattolica col
bergsonismo (4); che DUSMENIL, La sophistique contemporaine, Beauchesne RENDA,
Le Bergsonisme ou une philosophie de la mobi- lité, Mercure de France, rgr2.
RUGGIERO, La fñlosofia contemporanea. Il giudizio del giovane neohegeliano €
molto diffuso in Italia tra studiosi di diverse tendenze. ROY Coignet ed altri
vedessero in questo la riconci- liazione della religione e della scienza in uno
spiri- tualismo nuovo (1); che il Segond tentasse di mo- strare che le nuove
teorie non negano la trascen- denza divina (3); nonostante che la stessa
lettera dell'Eminentissimo Segretario di Stato avesse solle- vato le sorprese
del Temps, che in tono di ramma- rico ricordava le benemerenze del Bergson
verso Vapologetica cristiana; gli scrittori nostri non vollero bruciare nessun
granello d'incenso all'idolo del giorno e furono concordi nel riconoscere che
questa dottrina ' e fuori della corrente della filosofia cristiana, e lon- tana
dalla tesi spiritualista e conduce inesorabilmente ad un panteismo ateo (3). Da
queste accuse cerco di scolparsi lo stesso Bergson. In una lettera diretta al
P. De Tonquédec, egli scriveva: « Le considerazioni esposte nel mio Essai sur
les données immédiates mettono in luce il fatto della liberta; quelle di
Matiére et Mémoire fanno toccare con mano la realtá dello spirito: quelle del-
MAD. C. COIGNET, De Kant a Bergson, réconciliation de la religion et de la
science dans un spiritualisme nouveau, Alcan La stessa cosa aveva gia detto al
Congresso di Heidelberg: Cfr. Bericht túber dem III internation. Kon- £ress fúr
Philos. Heidelberg. SEGOND, L'intuition bergsonienne, Alcan In Italia Borgesein
un artic. del Corriere della Sera, dal titolo Cercator: di Dio, diceva che pud
darsi che «lo scetticismo mistico di Bergson si plachi in Dio e che nel suo
mondo sconquassato senza causa né legge ristabilisca 1'ordine la Provvidenza.
Il commento poi del Corriere della Sera alla lettera del Card. Merry Del Val
era simile a quello del Temps. Ad es. MARITAIN, L’évolutionnisme de Bergson in
Revue de Philosophte, settembre-ottobre rg9rr, ed il suo recente volume: La
philosophie bergsontenne, Paris, Riviére. Identico in sostanza é il giudizio
del Mercier nel suo discorso : Vers: Pl unite. l'Evolution Créatrice presentano
la creazione come un fatto: da tutto questo sgorga nettamente l'idea d'un Dio
creatore e libero, generatore ad un tempo della materia e della vita, il cui
sforzo di creazione si continua, dal lato della vita, con l'evoluzione delle
specie e con la costituzione delle personalita umane. Da tutto questo deriva,
per conseguenza, la confu- futazione del monismo e del panteismo in generale.
Poco tempo dopo, ad Edouard Le Roy che in un lavoro aveva salutato nella
philosophie nouvelle un punto d'inserzione del problema religioso, Bergson
inviava un ringraziamento per la simpatia profonda di pensiero dimostrata dal
noto modernista nel- Uesporre le sue idee e soggiungeva: « Questa sim- patia si
dimostra sopratutto nelle ultime pagine, dove voi indicate con poche parole la
possibilita di svi- luppi ulteriori della dottrina. lo stesso non direi in
proposito altra cosa di ció che voi avete detto. Non basta. Nella sua
conferenza di Birmin- gham (3), in un discorso tenuto a Parigi il 4 maggio 1912
(4) ed anche nelle sue recentissime conferenze negli Stati Uniti, Bergson
difese la tesi dell'immor- TONQUÉDEC a proposito dell Evolution Créa- trice
aveva pubblicato negli Ztudes uno studio : Comment in- terpréter P ordre du
monde, dove dimostrava che Bergson é mo-' nista ateo. A quell'art. Bergson
rispose con la lettera citata, che insieme ad un'altra lettera del Bergson e ad
un altro arti- colo del De Tonquédec: M. Bergson est - il moniste 2 si trova
ora nel volumetto dello stesso autore: Dieu dans "Evolution créa- trice,
avec deux lettres de M. Bergson, Beauchesne. Cfr. LE ROY, La philos. Nouvelle.
Questa conferenza fu pubblicata in lingua britannica, lingua poco bergsoniana,
in The Hibbert Journal col titolo: Life and Consciousness, IL discorso fu
tenuto dal Bergson per Piniziativa dell”as- sociazione Foiet vie ed aveva per
tema: L'áme et le corps. Ne talitá dell? anima, considerandola quasi una conse-
guenza legittima delle sue concezioni. e Queste dichiarazioni del Bergson, cosi
contrastanti. con un giudizio diffuso ed autorevole; l'importanza che la sua
filosofia e andata acquistando in questi ul- timi anni e la questione molto
dibattuta intorno al valore del metodo intuizionistico, mi indussero a comporre
questo saggio. 2 Nel quale ho cercato innanzi tutto di tracciare a grandi linee
le teorie bergsoniane, utilizzando non solo le opere principali del pensatore
francese, ma anche quasi tutti i suoi articoli di rivista, i discorsi da lui
recitati in diversi congressi, le sue piú importanti di- scussioni alla Société
francaise de philosophie, le pre- fazioni da lui scritte a varii libri di altri
autori, le sue conferenze, parecchie sue lettere, alcune inter- viste, qualche:
sunto dei suoi corsi al. Collége de France, tutto insomma quello che mi fu dato
di consultare. Riassumere il pensiero di Bergson non e facile. L”apparente
chiarezza dell'espressione copre spesso idee oscure, che sembrano sciogliersi
in qualche cosa di impreciso, di vago, di fiuido. Se in qualche punto le mie
interpretazioni sono inesatte, ció mi sará perdonato, anche per il fatto che,
quando nel apparve un resoconto nel Temps (y maggio 1912) e fu poi inte-
gralmente pubblicata nel periodico Fot et Vie Si vegga alla fine del volume,
nell'appendice, la bibliografia degli scritti di Bergson. Sono parole del
Prezzolini in un articolo della Voce: Bergson. 11 Prezzolini ad un dato punto
parlando dell'oscuritá di alcune pagine del Bergson, esclama: « Ah che di-
sgrazia per chi vuole avere delle idee chiare ! Binet apri un'inchiesta tra i
professori di liceo della Francia, per conoscere l'influenza della filosofia
bergsoniana sul loro insegnamento, le loro risposte furono tali, che in una
seduta della Société frangaise de philosophie Bergson protestó vivacemente.
Nelle tesi che quei professori gli attribuirono, egli non riconosceva nulla di
ció che aveva pensato, insegnato o scritto! (1). lo spero pero di essere stato
un espositore coscienzioso e fedele: alla doverosa lealtá di un avversario
onesto, nulla puó tornare tanto doloroso, quanto il sapere d'aver tradito, sia
pure senza colpa, il pensiero di colui che si combatte. Ponendomi poi dal punto
di vista della Neoscola- stica, e tenendo conto degli studii critici pia
notevoli e specialmente dei lavori degli scrittori cattolici, ho mostrato gli
errori e le contraddizioni di questa filo- sofia nuova. Ma — sará bene
avvertirlo fin d'ora — lo non ho potuto appagarmi d'una critica negativa e
demolitrice, poiche lo studioso di filosofia non deve essere mai un Attila che
non lascia crescere filo di erba, dove si posa la zampa del suo cavallo ; ma
deve essere un medico, il quale esamina un organismo e procura di distruggerne
i microbi dannosi ed ¡ bacilli, per rendergli possibile un ulteriore sviluppo.
Anche il Farges osserva giustamente che non vi sono sol- tanto teorie false in
Bergson, ma che vi si trovano anche idee buone ed eccellenti, che egli e felice
di rilevare e di notare (2). Queste idee buone ed ec- cellenti ho cercato di
organizzarle nella mia conce- Cfr. Bulletin de la Société fran;aise de
philosop.FARGES, Za Philosophie de M. Bergson, Bonne Presse. anche BAEUMKER in
Philosophische Jahr- MN A zione filosofica, poiché ho la convinzione che la
filo- sofia ¿ e non puó non essere sistematica. La seconda parte di questo
libro rappresenta dunque il cozzo di due sistemi. Ed a chi fosse tentato di ab-
bozzare un facile sorriso e di obiettare a priori che il medioevo, ossia un
passato morto e putrefatto, non puó competere con un presente fresco di
vitalitá e di energle, porgo l'invito di leggermi senza pre- gludizil: forse il
suo disprezzo cesserá o almeno su- bira una sensibile diminuzione. Prego poi il
lettore a ricordarsi che il mio e un tentativo modesto, che va riguardato con
l'occhio indulgente, col quale $ doveroso esaminare il primo tentativo d'un
giovane. Saro ben grato a tutti, e specte agli amici della Neoscolastica, se
vorranno rivol- germi le loro osservazioni, persuaso come sono che, solamente
con la critica schietta fra noi, potremo divenire soldati meno indegni
dell'idea grande che difendiamo, ed alla quale siamo fieri di consacrare con
animo lieto la nostra giovinezza e la nostra vita. Ho dedicato il volume al P.
Dott. Agostino Ge- melli: questo nome, tanto caro ai cattolici italiani,
rispettato anche da molti avversari sereni, gioverda, spero, a far dimenticare
le imperfezioni di queste pagine ed a ricordare a tutti la bellezza
dell'ideale, che ci canta in cuore. FRANCESCO OLGIATI. Milano, buch (25B., Heft 1, pag. 10):
Ueber die Philosophie von H. Berg- son; GRIVET in £tudes, BAINVEL in Revue
pratique d'apologétique; TAVERNIER nel! Univers,
2 aprile 1908 etc. Esposizione della filosofia bergsoniana La teoria della
durata reale della coscienza Nella conferenza tenuta al Congresso
internazionale di filosofia in Bologna, il 10 aprile 1911, Enrico Berg- son
osservava che un sistema filosofico sembra dap- prima elevarsi come un edificio
completo, d'una architettura sapiente, dove sono state prese disposi- zioni,
perché vi si possano alloggiare tutti i problemi. Ma a misura che noi cerchiamo
di collocarci maggior- mente nel pensiero del filosofo, invece di girargli at-
torno, ci accorgiamo subito che la sua dottrina si trasfigura. La complicazione
comincia a diminuire, poi le parti entrano le une nelle altre, infine tutto si
rac- coglie in un punto unico, al quale sentiamo che po- tremmo avvicinarci
sempre piú, benché sia impossibile raggiungerlo. In questo punto c*é qualcosa
di semplice, d'infinitamente semplice, di si straordinariamente sem- plice, che
il filosofo non € mai riuscito a dirlo. Ed € per questo che egli ha parlato
tutta la sua vita. Anche attraverso alla svariata ricchezza del pen- siero
bergsoniano, é facile scorgere una intuizione in- divisibile, un principio di
unitá organica. La filosofia BERGSON: L?2mtustion philosophique in .Revue de
méta- Dbhys. et de moraleEsposizione della filosofia bergsoniana di Bergson e
una filosofia della durata (1). Ed in- fatti tale fu il punto di partenza della
sua riflessione originale. Criticando l'idea che la fisica e la mecca- nica si
fanno del tempo, cercando il concreto sotto le astrazioni matematiche (2), egli
giunse, nel sorriso dei suoi vent'anni (3), a questa teoria della durata reale,
che dal Papini fu chiamata la sua scoperta (4). Essa € la sorgente del metodo
intuizionistico; é la chiave che servirá al suo autore per risolvere i pro-
blemi della libertá e dei rapporti tra lo spirito ed il corpo; e la nozione,
che trasportata nella natura vi- vente, lo fará arrivare all'idea dello slancio
vitale. Gli ammiratori di Bergson dicono che dall'Essai sur les données
immédiates de la conscience all” Évo- lution Créatrice, il suo pensiero, con un
progresso ar- monioso che dá l'impressione d'una bella frase musi- cale, si €
sviluppato in un movimento che non comporta evoluzioni divergenti (5); delle
molteplici forme di questo sviluppo, la durata reale e il prin- cipio semplice,
inesauribilmente fecondo, che il lin- guaggio, coi dettagli che si aggiungono
ai dettagli e che compongono una approssimazione crescente, non riesce mai a
comunicarci a perfezione (6). E quindi necessario incominciare l'esposizione
del bergsonismo da questa idea direttrice, in quanto ri- ROY: Une philosophie
nouvelle, pag. 200. (2) Cfr. la lettera di Bergson del ro luglio 1905 al
direttore della Revue philosophique in Rev. phil. 1905, 2% Sem.,' p. 229. In
essa il Bergson difende anche come scoperta sua la nozione della durata. (3)
Cfr. GILLOUINCTE MOD. GASTON RAGEOT in Revue philosophique, luglio rg1o,pag.
84, nella recensione dell Evolution créatrice. BERGSON: Préface a Gabriel
Tarde, introduction et pages choisies par ses fils, pag. s. La teoria della
durata reale della coscienza 5 guarda la coscienza individuale; tanto piú che,
se- condo alcuni, essa ha rinnovato profondamente l'antica massima Conosct te
stesso, che da Socrate in poi fu sempre il programma della filosofia Se io,
dice Bergson, faccio scorrere sulla mia per- sona lo sguardo interiore della
mia coscienza, scorgo dapprima, come una crosta fatta solida alla superficie,
tutte le percezioni che le giungono dal mondo mate- riale. Queste percezioni
sono nette, distinte, sovrap- poste o sovrapponibili le une alle altre; esse
cercano di aggrupparsi in oggetti. Scorgo poi dei ricordi piú o meno aderenti a
queste percezioni e che servono ad interpretarle: sono ricordi che si sono come
staccati dal fondo della mia persona, attirati alla periferia dalle percezioni
che loro somigliano e che si son posati su me, senza essere assolutamente me
stesso. E final- mente sento manifestarsi delle tendenze, delle abitu- dini
motrici, ed una moltitudine di azioni virtuali piú o meno solidamente legate a
quelle percezioni ed a quei ricordi. Tutti questi elementi dalle forme ben
defínite mi sembrano tanto piú distinti da me, quanto piú son distinti gli uni
dagli altri. Orientati dal di dentro verso il di fuori, costituiscono, riuniti,
la superficie di una sfera, che tende ad allargarsi e a perdersi nel mondo
esterno (2). Ma non bisogna fermarsi a questi cristalli ben ta- gliati a questa
superficie, dove le nostre idee galleggiano come foglie morte sull'acqua d'uno
stagno (3); biso- LE ROY, Op. cit., pag. 201. BERGSON: Introduction á la
Métaphysique, trad. Italiana BERGSON : Essai sur les données immédiates de la
con- science, pag. 103. 6 Esposizione
della filosofia bergsoniana gna scendere piú giú, nelle profondita dell'essere,
nella secreta intimitá di queste tenebre feconde, dove zam- pillano le sorgenti
della coscienza. E qui soltanto, che si puó cogliere la persona nella sua
freschezza, nella sua originalita, nel suo ritmo vivente, nel suo palpito
intenso, nel suo murmure fievole, nel suo scorrere ininterrotto attraverso il
tempo. Quando io percepisco me stesso interiormente, profondamente, constato
che ¡o passo da uno stato all'altro. La mia esistenza viene alternatamente co-
lorata da senzazioni, da sentimenti, da volizioni, da rappresentazioni: in una
parola, io cangio senza posa (1). Non basta. Un leggiero sforzo di attenzione
mi ri- vela che uno stato interno qualsiasi non € mai simile ad un pezzo di
marmo, ma si modifica ad ogni mo- mento. Perfino la percezione visuale di un
oggetto esteriore immobile non si conserva mai uguale in due momenti
successivi: la visione che ne ho, differisce da quella che ne avevo or ora, se
non altro perché si € invecchiata di un istante ed al sentimento pre- sente sié
aggiunto il ricordo dei sentimenti passati (2). Ogni stato d'animo, avanzandosi
sulla via del tempo, si gonfia continuamente della durata che esso accu- mula,
e fa, per cosi dire, una palla di neve con sé stesso. Il cangiamento perció non
risiede nel passaggio da uno stato all'altro; lo stato stesso é gia
cangiamento. Vale a dire che non c'e differenza essenziale tra il passare da
uno stato ad un altro ed il persistere in un medesimo stato. Il passaggio
dall*uno all'altro stato rassomiglia ad uno stesso stato che si prolunga; la
transizione € continua (4). BERGSON : Evolution créatrice Z6td., pag. 1-2 e Introd.
dá la Métaph., trad. ital., pag. 46. (3)
Evol. cr. La teoria della durata reale della coscienza 7 Il male é che io
chiudo spesso gli occhi su questa variazione perenne e non vi faccio caso,
finché e di- venuta cos] considerevole, da imporsi all'attenzione e da
illudermi che uno stato nuovo si e aggiunto al precedente. É appunto per questo
che io credo alla discontinuita della vita psicologica, e, dove non c'e che un
pendio dolce, mi sembra di percepire i gra- dini di una scalinata (1). Ma é
un'apparenza fallace; il mio spirito non € mai qualche cosa di fatto, ma si fa
incessantemente; esso é un perpetuo divenire. Anche ¡ mille incidenti imprevisti
che sorgono e pare non ab- biano nessuna relazione con ció che li precede o che
li segue, simili a colpi di timballo che squillano qua e la nella sinfonia,
sono portati dalla massa fluida della mia esistenza psicologica tutt'intera.
Ciascuno di essi non é che il punto meglio rischiarato d'una zona che si muove
e che comprende tutto ció che io sento, penso, voglio, tutto ció infine che
sono in un dato momento (2). Gli stati di coscienza quindi non sono elementi
distinti, non costituiscono stati multipli, se non quando li ho passati e mi
volgo indietro per os- servarne la traccia. Mentre li provo, sono cos] solida-
mente organizzati, cosi profondamente animati da una vita comune, che io non
avrei potuto dire dove finisce uno qualunque di essi e dove l'altro comincia.
In realtá nessun di loro né comincia né finisce, ma tutti si pro- lungano, si
continuano gli uni negli altri in uno scor- rimento senza fine (3), in un
zampillare ininterrotto di novitáa, ciascuna delle quali non é ancora sorta per
fare il presente, che giá ha indietreggiato nel passato. Zntrod. a la Métaph.,
trad. ital., pag. 20-21. (4) Evol. cr., pag. so. 8 ' Esposizione della
filosofia bergsoniana Il presente! Che cos'é per me il momento presente ? La
proprietáa del tempo é di scorrere; il tempo gia scorso é il passato ed io
chiamo presente l'istante nel quale scorre. Ma qui non puód esservi questione
d'un istante matematico. Senza dubbio, c'é un presente ideale, puramente
concepito, limite indivisibile che separerebbe il passato dallavvenire. Ma il
presente reale, concreto, vissuto, occupa necessariamente una durata. Ov'2
dunque situata questa durata? É al di qua o al di lá del punto matematico, che
io deter- mino idealmente, quando ¡o penso all'istante presente? É troppo
evidente che essa € al di qua e al di lá ad un tempo e che ció, che io chiamo
il mio presente, si distente in una volta sul mio passato e sul mio avvenire
(1). La durata é appunto il progresso con- tinuo del passato, che morde
l'avvenire, e che pro- cedendo si aumenta. Poiché il passato s'accresce con-
tinuamente, automaticamente si conserva, ed a mia insaputa mi accompagna. Tutto
questo sará dimo- strato nella teoria della memoria e si vedrá allora che
ciascuno di noi trascina dietro a sé tutto il peso della sua vita psicologica
anteriore. Ció che io ho pensato, sentito, vissuto dalla prima infanzia in poi,
e lá chi- nato sul presente, come la madre sul suo figliuolo (2), e si rotola,
si avvolge su sé stesso nell'impulso indi- visibile che mi comunica. lo lo
chiamo il mio carat- tere, quel carattere che mi assiste in tutte le mie
decisioni e che mi ricorda che il mio passato esiste per me piú ancora del
mondo esterno, di cui non percepisco che una piccolissima parte, mentre al con-
BERGSON: Matiére et Mémotre, pag. 148-9. Cfr. anche BERGSON: La perception du
changement, 2* conferenza di Ox- ford, pag. 28-29 € BERGSON: Life and
consciousness in The Hibbert Journal, ottobre 1911, pag. 27. Évol. cr. La
teoria della durata reale della coscienza 9 trario utilizzo sempre la totalita
della mia esperienza vissuta (1). Conservando il passato, la mia persona
progredisce, cresce, matura continuamente. Ciascuno dei suoi momenti é del
nuovo, che si aggiunge a ció che vi era dapprima; sopratutto nell'azione
libera, nell”atto del volere, io comprendo che la durata é inven- zione ed
elaborazione creatrice dell” assolutamente nuovo. Cos1, quando con un vigoroso
sforzo d'astrazione, la coscienza si isola dal mondo esterno e cerca di ri-
divenire sé stessa (4), le diverse parti dell'essere en- trano le une nelle
altre, e la mia personalitáa tutta intera si concentra in un punto o meglio in
una punta, che s'inserisce nell?avvenire, intaccandolo senza posa. La durata
non ha dunque nulla di ineffabile e di mi- sterioso, ma e la cosa piú chiara del
mondo (6); in essa la coscienza si conosce nella sua essenza e coglie
assolutamente sé stessa Matiére et Mém. 76., pag. 2 e 258. Essai Évol. cr., pag. 219. (6)
Perception du chang., Conf. II, pag. 26. Cfr. la lettera gia citata del BERGSON in The journal of
phylosophy, psychology and scientific methods. - Nell Introd. € la Métaph. (trad. ital. pag. 21-24), Bergson cerca
di suggerire il sentimento della durata per mezzo di immagini. Eglila paragona
allo svolgersi ed allarrotolarsi di un rotolo, ad uno specchio dalle mille
sfumature con degradazioni insensibili, che ci fanno passare da una tinta
all'altra e attraverso le quali passa una corrente di sentimento; ad un
elastico infinitamente piccolo che si allunga e si distende. Pur difendendo
Putilitá delle immagini per darci la intuizione della durata, ne mostra anche
Pincompletezza e l'in- sufficienza. 10 Esposizione della filosofia bergsoniana
Chi é riuscito a darsi il sentimento originale, 1'in- tuizione della durata
costitutiva del suo essere, si accorge subito che questa € una continuitá
dinamica, semplice ed indivisa. La durata tutta pura é la forma che prende la
successione dei nostri stati di coscienza, quando l'io si lascia vivere e si
astiene dallo stabi- lire una separazione tra lo stato presente e gli stati
anteriori. Non é necessario per questo che esso si assorba interamente nella
sensazione o nell'idea che passa, poiché allora, al contrario, cesserebbe di
durare. Non € nemmeno necessario dimenticare gli stati an- teriori; basta che
ricordandoli, non li giustapponga allo stato attuale come un punto ad un altro
punto, ma li organizzi con quest'ultimo, come succede quando ci richiamiamo,
fuse per cosi dire insieme, le note di una melodia. Non si potrebbe forse dire
che, benché queste note si succedano, noi tuttavia le percepiamo le une nelle
altre e che il loro insieme e paragonabile ad un essere vivente, le cui parti,
benché distinte, si penetrano per l'effetto stesso della loro solida- rieta?
(1) Tale € precisamente la durata; é succes- sione senza la distinzione, é una
penetrazione mutua, un organizzazione intima di elementi, ciascuno dei quali é
rappresentativo del tutto e non se ne distingue e non se ne isola, che per un
pensiero capace di astrarre (2). Quando perció io parlo di sensazioni, di
tappresentazioni, di volizioni, e concepisco, 1'unitá vivente della coscienza
come un aggruppamento di stati distinti e giustapposti ; quando solidifico la
flui- dita della mia vita psicologica e la sbocconcello in Essaz Z6., E Le La
teoria della durata reale della coscienza 11 istati, come una commedia in scene
(1); io altero con simboli figurativi e con una deformazione artificiale la
realtáa concreta dell'io. La quale € simile alla figura che un artista di genio
dipinge sulla tela: io posso certo imitare quel quadro con piccoli quadratelli
di mosaico multicolori, e quanto piú questi saranno pic- coli, numerosi,
variati, altrettanto meglio riprodurro le curve e le sfumature del modello. Ma
come quella figura dipinta non é una giustaposizione di piccoli quadratelli,
cosi la mia vita interna non é una com- posizione di stati, ma é qualche cosa
di semplice e di uno, nella sua eterogeneitá qualitativa (2). Siccome poi il
passato sopravvive, € impossibile che una coscienza traversi due volte lo
stesso stato. Le circostanze possono ben essere le stesse, ma non agi- scono
piú sulla medesima persona, perché la prendono ad un nuovo momento della sua
storia (3). Non vi sono due momenti identici nel medesimo essere co- sciente,
poiché il momento seguente contiene sempre, oltre il precedente, il ricordo che
questo gli ha la- sciato. Una coscienza che avesse due momenti iden- tici
sarebbe una coscienza senza memoria, perirebbe e e rinascerebbe continuamente,
sarebbe in altre parole Pincoscienza (4). La durata reale morde e lascia nelle
cose l'impronta del suo dente; é quindi una cor- rente che non si pub risalire
(6); insomma é irrever- sibile. La sua legge fondamentale € di non ripetersi BERGSON: Le
souvenir du présent et la fausse reconnais- sance in Revue philosophique,
dicembre 1908, pag. 577. (2) Cfr. Évol. cr., pag. 98. (3) Zb1d., pag. 6- (4)
ZIntrod. á la Mét., trad. ital., pag. 21-22. (5) Evol. cr. Esposizione della filosofia bergsoniana giammai;
cessare di cambiare, sarebbe cessare di vi- vere (1). Essa € anche
imprevedibile. Nel suo progresso in- timo c'é incommensurabilitá tra ció che
precede e ció che segue (2); il mio stato attuale si spiega, é vero, con ció
che vi era in me e con ció che or ora agiva su di me: io non vi troverel altri
elementi, analizzan- dolo. Ma un'intelligenza, anche sovrumana, non avrebbe
potuto prevedere la forma semplice che a questi elementi astratti (i quali non
hanno nemmeno un'esistenza reale) vien data dalla loro organizzazione concreta.
Poiché prevedere consiste nel proiettare nel- l'avvenire ció che si € percepito
nel passato o nel rap- presentarsi per piú tardi un nuovo aggregamento, in un
altro ordine, di elementi gia percepiti. Ma ció che non é mai stato percepito e
ció che e nello stesso tempo semplice, é necessariamente imprevedibile. Ora,
tale é il caso di ciascuno dei nostri stati, riguardato come un momento di una
storia che si svolge. Esso é semplice e non pud essere giá percepito, poiché
concentra nella sua indivisibilitá tutto il percepito con, in piú, ció che il
presente vi aggiunge. É un momento originale di una storia non meno originale
(3). Cosi, per portare un esempio, quando un ritratto € finito, lo si spiega
con la fisionomia del modello, con la natura dell'artista, coi colori
stemperati sulla tavolozza; ma anche con la conoscenza di tutto questo,
nessuno, nemmeno Partista, avrebbe potuto prevedere quale BERGSON : Le rire,
pag. 32. Per Bergson, se cosi e lecito esprimere il suo pensiero, Pattendere la
ripetizione di uno stesso stato di coscienza € un'ingenuitá peggiore ancora di
quella di una certa signora che l'astronomo Cassini aveva invitata ad assistere
ad un*eclisse di luna e che, arrivata in ritardo, esclamo: il signor Cassini
vorrá bene ricominciare per me. Cfr. Le rire, pag. 45» vol. cr.. pag. 30 (3)
Zbid., pag. 7, Essat, 140-151. sarebbe stato il ritratto (1). L'ingegno stesso
del pit- tore si modifica sotto l'influenza dell?opera che pro- duce, poiché
ogni invenzione, man mano che viene realizzandosi, reagisce sull'idea e sullo
schema, che essa era destinata ad esprimere. Tutto questo si verifica in quella
creazione inventiva che é la nostra durata. La quale perció, a chi, con uno
sforzo di intui- zione diretta, cerca di penetrarla nella sua realtá e nella
sua ricchezza interiore, si manifesta come va- rietá di qualitá, continuitá di
progresso, unitá di dire- zione (3), dove in una semplicita indivisa,
irreversi- bile, imprevedibile, il passato si conserva e si crea Pavvenire.
Purtroppo contro questa concezione elevano le piú fiere proteste la scienza, il
senso comune, la filosofía. Protesta la psicofisica, che non solo attribuisce
agli stati interni un esistenza distinta e separata, ma pre- tende persino di
misurarli. Protesta la psicofisiologia, che nella danza degli atomi cerebrali
crede di aver scoperto lunitá di misura di tutti 1 fenomeni psicolo- gici.
Protesta il senso comune, che ha sempre rite- tenuto che molti fossero gli
stati di coscienza ed anzi li va enumerando, e che ad ogni modo si appella al
tempo della fisica e della meccanica, che permette di dividerli e di calcolarne
la lunghezza. Protesta 1'asso- ciazionismo che si ¿ sempre immaginato le idee e
le rappresentazioni come uno sciame di piccoli corpuscoli BERGSON: Z effort
intellectuel in Revue philosophique, gennaio 1912, PAg. 17. Zntrod. dá la Mét.
Esposizione della filosofia bergsoniana A O MI e AN solidi, mossi in ognisenso
con estrema velocitá, che talvolta si uniscono insieme per produrre un'unita
si- mile a quella che ci é data dagli elementi di un composto chimico. Ed
infine molti altri protesteranno in tutte le varie questioni, che saranno
sollevate. Contro questo esercito di nemici, di diverse nazio. nalitá, ma
concordi nel muovere battaglia alla teoria della durata reale, Bergson scende
in campo e affronta la lotta. IL I nemici della durata reale La psicologia
moderna, sopratutto sotto l'influenza di Kant, é tormentata dalla
preoccupazione di stabi- lire che noi deformiamo la realtá, poiché percepiamo
le cose esterne mediante le forme soggettive, dovuté alla nostra costituzione.
Bergson invece ha la persuasione tutta opposta : egli € convinto che gli stati
di coscienza, che noi cre- diamo di cogliere direttamente, portano il segno vi-
sibile di certe forme del mondo esteriore (1). Ed € venuto a questo risultato,
esaminando i varii nemici della teoria esposta : poiché essi, invece di contem-
plare l'io nella sua purezza originale, guardano la du- rata interna attraverso
lo spazio esteso, sostituendo cos] alleterogeneitá qualitativa l'omogeneita di
simboli quantitativi, al flusso perenne della successione i punti fissi della
simultaneita. La psicofisica. Ecco dapprima i psicofisici, i quali ci
assicurano che una sensazione pud essere due, tre, quattro volte pid Essaz
Esposizione della filosofia bergsoniana intensa d*un'altra; anche i loro
avversari non vedono del resto nessun inconveniente nel parlare d*uno sforzo
piú grande d'un altro sforzo, e a porre cosl differenze di quantitá tra gli
stati puramente interni. ll senso comune d'altra parte si pronuncia senza
esitazione su questo punto. Si dice che si ha piú o meno caldo; che si é piú o
meno tristi, e questa distinzione del piú e del meno, anche quando la si
prolunga nella regione dei fatti soggettivi e delle cose inestese, non
sorprende nessuno. E superfluo osservare che tutto ció 8 incompatibile con la
realtá della durata. Questa, non presentando se non fenomeni che si intrecciano
e si inseriscono gli uni negli altri nella fluiditáa d'un cangiamento inin-
terrotto, si ribella ad uno spezzettamento artificiale. Ma, anche prescindendo
per ora da questo fatto, noi vedremo che la vita reale della coscienza e pura-
mente qualitativa e perció esclude dal suo campo ogni grandezza, intensiva o
estensiva che sia. Fu questa la prima battaglia del Bergson. La sua tesi di
dottorato, 1” Essai sur les données immédiates de la conscience, si inizia
appunto con la critica del concetto dell'intensitá psichica (critica, che
secondo Guido Villa (2), € la piú acuta che si sia fatta ai nostri tempi) e con
una confutazione della psicofisica.Nessuno pud negare — dice il Bergson — che
uno stato psicologico abbia una intensitá. La questione e semplicemente di
sapere se questa intensitaá sia una grandezza. Essaz VILLA: La psicologia
contemporanea, Bocca BERGSON : Le parallélisme psycho-physique et la Mé-
taphysique positive in Bulletin de la Société frangaise de philosophie, Séance
2 Mat I nemici della durata reale 17 Consideriamo ad esempio i sentimenti
profondi del- l'animo. In che cosa consiste la loro intensitá ? Se bene si
osserva, essa si riduce ad una certa qualitá o sfumatura, di cui si colora una
massa piú o meno considerevole di stati psichici. Un oscuro desiderio e
divenuto ad esempio una passione profonda. La sua de- bole intensitá consisteva
in ció, che esso vi sembrava isolato e come straniero a tutto il resto della
vostra vita interna. Ma a poco a poco esso ha penetrato un pid gran numero di
elementi psichici, tingendoli per cos dire del suo proprio colore; ed ecco che
il vostro punto di vista sull'insieme delle cose vi sembra ora cangiato. Tutte
le vostre sensazioni, tutte le vostre idee hanno riacquistato una freschezza
tale, che vi dá l'impressione di una novella infanzia. É un can- giamento di
qualitá che € avvenuto, non di gran- dezza (1). Questo lo si ripeta anche delle
grandi gioie, delle tristezze sentite, delle emozioni estetiche, dei senti-
menti morali, di tutti insomma gli stati profondi dell”anima : il loro
aumentare corrisponde ad una ricchezza crescente, ad un progresso puramente
qualitativo. Si dirá forse che questi stati sono rari, e che bisogna studiare
anche gli altri fenomeni che avven- gono in noi. Ebbene, trasportiamoci pure
all'estremita opposta della serie dei fatti psicologici. Se c'é un fe- nomeno
che sembra presentarsi immediatamente alla coscienza sotto forma di quantitá o
almeno di gran- dezza, é senza dubbio lo sforzo muscolare. Ci sembra che la
forza psichica, imprigionata nell”anima come i venti nell'antro di Eolo,
attenda solamente un*occa- sione per slanciarsi fuori; la volonta
sorveglierebbe (1) Essaz, pag. 6-7 (2) Zbid., pag. 7-14. F. O. 2 Esposizione
della filosofia bergsoniana questa forza, e di tempo in tempo le aprirebbe una
uscita. Eppure, se noi ricerchiamo attentamente in che consiste davvero la
percezione dell'intensitá di uno sforzo, ci persuaderemo che quanto piú questo
ci fa Peffetto di crescere, tanto piú aumenta il numero dei muscoli che si
contraggono simpaticamente e che esso si riduce in realtá alla percezione d'una
pid grande superficie del corpo, che si interessa all*opera- zione. Provate ad
es. a chiudere il pugno sempre di pid. Vi sembra che la sensazione di sforzo,
tutta intiera loca- lizzata nella vostra mano, passa successivamente per
grandezze differenti. In realtá la vostra mano prova sempre la stessa cosa.
Solamente la sensazione, che vi era localizzata, ha invaso il vostro braccio, €
risa- lita fino alla spalla ; finalmente 1'altro braccio si irri- gidisce, le
due gambe l'imitano, la respirazione si ar- resta e via dicendo. Voi credevate
che si trattasse di una stato di coscienza unico, che variava di gran- dezza;
invece no: anche qui c'é un progresso quali- tativo, una complessitá crescente,
confusamente per- cepita (1). II che si verifica anche negli stati
intermediari, vale a dire nei fenomeni dell'attenzione, nei desideri acuti,
nelle collere scatenate, nell'amore appassionato, nell*odio violento (2).
Veniamo da ultimo alle sensazioni, la cui intensitá varia come la causa
esteriore, della quale esse sono considerate l"equivalente cosciente: come
spiegare l'in- vasione della quantitá in un effetto inesteso e questa volta
indivisibile? (3) Per rispondere a questa questione bisogna dapprima
distinguere tra sensazioni affettive e sensazioni rap- presentative. Nelle
prime, allo stato interno, che € I nemici della durata reale 19 pura qualitá,
sono sempre congiunti mille piccoli mo- vimenti di reazione, che esse provocano
nel nostro corpo. É di questa reazione che noi teniamo conto nell?apprezzare
l'intensitá di quelle sensazioni e nel- l'interpretare come differenza di
grandezza una diffe- renza di qualita. Nelle seconde un'esperienza di tutti gli
istanti ci mostra che una sfumatura determinata risponde ad un determinato
valore di eccitazione. Noi associamo cosi ad una certa qualitá dell'effetto
l'idea di una certa quantitá della causa, poniamo questa in quella, ed in tal
modo !'intensita, che prima non era che una certa sfumatura della sensazione,
diventa una gran- dezza. Nelle une e nelle altre si forma quindi un compro-
messo tra la qualitá pura, che € il fatto di coscienza, e la pura quantitá, che
€ necessariamente spazio: a questo compromesso vien dato il nome di intensita,
concetto bastardo, che ci fa dimenticare che se la grandezza, fuori di noi, non
é mai intensiva, l'inten- sitá, dentro di noi, non e mai grandezza. Per non
aver compreso questo, i filosofi hanno do- vuto distinguere due specie di
quantita, luna: esten- siva, l'altra intensiva, senza giammai riuscire a
spiegare ció che esse avevano di comune, né come si possa adoperare, per cose
cosl dissimili, le stesse parole « crescere » e « diminuire ». Con ció stesso
essi sono responsabili delle esagerazioni della psicofisica ; poiché dal
momento che si riconosce alla sensazione la fa- coltá di crescere, ci si invita
anche a cercare di quanto essa cresce (2). Ed e ció che fu tentato da Fechner.
Questi, par- tendo da una legge di Weber, affermava un rapporto Esposizione
della filosofia bergsoniana costante tra la quantitá dell'eccitazione e
l”accresci- mento della sensazione. Noi non solleveremo nessuna difficoltá
sull'esistenza probabile di una simile legge: ma contestiamo, e qui fu l'errore
di Fechner, che si possa introdurre la misura in psicologia e che tra due
sensazioni successive S e S' vi sia un intervallo, una differenza di grandezza,
e non gia un semplice pas- saggio (1). Non si puó misurare se non ció che é
omogeneo ; ora che cosa c'é d'omogeneo tra due sensazioni? Ab- biamo provato
che l'intensita di qualsiasi stato psico- logico non é una grandezza, ma solo
una qualitá ; se quindi da due sensazioni eliminiamo le loro differenze
qualitative, non ci restera un fondo identico, una unitá elementare ed eguale,
ma ci resta nulla, asso- lutamente nulla (2). Fechner non giudicó
insormontabile questa diffi- colta; egli si illuse di aver scoperto il fondo
comune nelle differenze minime della sensazione, che corri- spondono al piú
piccolo accrescimento percettibile dell'eccitazione esteriore. Si raffiguró
quindi la sensa- zlone come un processo continuativo, unilineare, omo- geneo;
S' € la somma di S con la differenza minima, come d'altra parte S fu ottenuta
coll”addizione delle differenze minime che si traversarono prima di rag-
giungerla. In tutto questo c'é il postulato indimostrato e falso che il
passaggio da S a S' sia paragonabile ad una differenza aritmetica, sia una
realtá ed una quantita. Ora, non solo non si saprebbe dire in che senso questo
passaggio é una quantitá, ma, se si riflette, si capisce subito che non €
nemmeno una realta. EA q . PERS I nemici della durata reale 21 Di reale non vi
sono che gli stati S e S', che non sono dei numeri, non sono una somma di
unita, ma sono stati semplici tra i quali c'é una differenza analoga a quella
delle sfumature dell'arcobaleno e non un intervallo di grandezza. Possiamo
quindi dire che non c'é contatto tra l'ine- steso e l'esteso, tra la quantitá e
la qualita. Si puó interpretare l'una con l'altra, erigere ¡”una in equi-
valente dell'altra; ma presto o tardi, al principio o alla fine, bisognerá
riconoscere il carattere convenzio- nale di questa assimilazione (2). b) La
psico-fisiologia. L?illecita intrusione della quantitá nel regno della qualitá
condusse gli scienziati all”altra ipotesi del pa- rallelismo psico-fisiologico,
che ammette un*equiva- lenza perfetta tra la vita della nostra coscienza e la
danza degli atomi cerebrali. Questa concezione, secondo Bergson, non solo non
ha nemmeno un senso intelligibile quando si tratta della fluida mobi- lita
degli stati psicologici profondi; ma é falsa anche per i fenomeni del nostro io
superficiale. Non si pud dire assolutamente che i movimenti omogenei degli
atomi del cervello siano la traduzione integrale degli stati interni. Egli
svolse questa tesi in due discorsi, il primo tenuto alla Société frangaise de
philosophie il 2 Maggio 1911, il secondo pronunciato a Ginevra al Congresso
internazionale di filosofia nel Settem- bre 10904. lo sono interamente convinto
— cosl Bergson enun- ciava il suo pensiero agli illustri della Societá francese
BERGSON: Le parallelisme psycho-physigue etc. Esposizione della filosofia
bergsoniana HA E NE di filosofia (1) — che tra il fatto psicologico e 1'atti-
vita cerebrale c'é una certa relazione, una corrispon- denza di un certo
genere, ma non esiste in nessun modo un parallelismo rigoroso. Posto un fatto
psico- logico, voi determinate senza dubbio lo stato cerebrale concomitante ;
ma la reciproca non e necessariamente vera, poiché questa attivitá cerebrale
puó essere iden- tica per pensieri tutto affatto diversi. Ritengo perció falsa
la tesi del parallelismo, che potrebbe essere for= mulata cosl: posto uno stato
cerebrale, segue uno stato psicologico determinato. O ancora: un'intelligenza
sovrumana, che assistesse alla danza degli atomi di cui é fatto il cervello
umano e che avesse la chiave della psico-fisiologia, potrebbe leggere in un
cervello che lavora, tutto ció che avviene nella coscienza cor- rispondente. O
infine: la coscienza non dice nulla di piú di ció che si fa nel cervello, ma
l'esprime solo in un'altra lingua. Chi volesse fare la storia della questione,
dovrebbe riconoscere che l'idea d'una corrispondenza tra il mo- rale e il fisico
rimonta alla pid alta antichitá, ma non gia l'idea del paralelismo. Il senso
comune ha sempre pensato alla prima cosa, non ha mai ammesso la se- conda, che
altro non € se non un'ipotesi filosofica di origine spinozista e leibniziana,
che data dal giorno in cui si € creduto al meccanismo universale, e che gia era
implicitamente contenuta nel sistema di Descartes. I successori di
quest'ultimo, spingendo alle estreme conseguenze le idee del maestro, hanno
creduto ad una scienza unica della natura, ad una grande mate- matica, capace
di tutto abbracciare. Per non rompere (1) Riassumo le idee espresse da BERGSON
in quella discus- sione: cír. Bulletin de la Societé Frangaise de Philosophte,
1901, Pag. 32-70: Le parallelisme Psychophysique et la metaphy- sigue positive,
l nemici della durata reale 23 questo concatenamento rigoroso di cause e di
effetti, parlarono di parallelismo tra il psichico ed il fisico. Per
l'intermediario poi dei medici filosofi del sec. xvIHn, quella teoria € passata
nella psicofisiologia del nostro tempo. La quale fa benissimo a procedere nelle
sue ricerche come se dovesse un giorno darci la tradu- zione fisiologica
integrale dell'attivitá psicologica, ma dovrebbe ricordarsi sempre che questo é
un'utile re- gola metodologica e nulla piú. Invece gli scienziati la erigono in
una affermazione dogmatica, e la mutano in una ipotesi metafísica, alla quale
incombe di stretta glustizia l'onus probandi e che sarebbe distrutta ¿pso
facto, se i fatti le fossero contrari. Orbene, “questo parallelismo psico-fisiologico
non fu mai dimostrato : nessuno ha finora portato una prova che ce lo imponesse
o che ce lo suggerisse. E non appellatevi - replicava Bergson ad un obiettante
- non appellatevi ai progressi futuri della scienza : non solo perché sarebbe
questo un procedere poco scientifico, ma anche perché io fondo la negazione del
paralle- lismo non su considerazioni negative, ma con una tesi positiva
suscettibile di miglioramento e di verift- cazione progressiva. Il metodo da
seguire non é quello dell'antico spi- ritualismo, che per ribattere i suoi
avversari si rin- chiudeva come in una fortezza nelle facoltá superiori dello
spirito, proprie ed essenziali all'uomo. Con questa tattica di combattimento lo
spiritualismo sembrava ar- bitrario ed era infecondo. Sembrava arbitrario,
perché gli oppositori potevano sempre obiettargli che la differenza constatata
tra il psichico e il fisico derivava semplicemente da ció, che esso considerava
la materia nelle sue forme piú rudimentali e lo spirito nei suoi stati piú perfetti;
ma che se si prende la materia al grado di complessitá e di mobilitá ove imita
certi ca- ratteri della coscienza, e la coscienza ad un grado di 24 Esposizione
della filosofia bergsoniana semplicitá e di stabilitá ove partecipa
dell'inerzia della materia, si riesce senza pena a farle coincidere. Era anche
infecondo, poiché si limitava a considerare i termini estremi e a dichiarare
che lo spirito e irridut- tibile alla materia. Ora una dichiarazione di questo
genere puú essere vera (essa dé vera, a mio gludizio), ma non si guadagna nulla
a constatare che quei due concetti di spirito e di materia sono esteriori 1”uno
all'altro. Si potranno fare invece scoperte importanti, se ci si pone nel punto
ove i due concetti si toccano, alla loro frontiera comune, per studiare la
forma e la natura del contatto. A questo lavoro lungo e difficile io - continua
Bergson - ho invitati i filosofi nel mio Matiére el Mémoire. Nel fatto
cerebrale determinato e localizzato, che condiziona una certa funzione della
parola, ho consi- derato le manifestazioni della materia nella loro forma piú
complessa, nel punto ove rasentano l'attivita dello spirito. Nel ricordo del
suono delle parole ho esami- nato lo spirito nel suo stato pid semplice. lo era
questa volta alla frontiera, eppure ho dovuto arrivare alla conclusione che tra
il fatto psicologico e il suo sub- strato centrale non c'é un parallelismo
rigoroso, ma esiste una relazione che non risponde a nessuno dei concetti tutti
fatti che la filosofia mette a nostro ser- vizio. Dato uno stato psicologico,
la parte vissuta, jouable, di questo stato, quella che si traduce con
un'attitudine del corpo e con azioni del COrpo, é rap- presentata nel cervello;
il resto ne 8 indipendente e non ha equivalente cerebrale. Di modo che ad uno stesso
stato cerebrale possono corrispondere stati psi- cologici diversi, che hanno
tutti in comune lo stesso schema motore, ma non stati psicologici qualsiasi,
perché in una medesima cornice possono stare molti quadri, ma non tutti i
quadri. Il pensiero e relativa- mente libero e indeterminato per rapporto
all'attivita 2”TI nemici della durata reale cerebrale che lo condiziona, poiché
questa non esprime che le articolazioni motrici dell'idea, le quali possono
essere le stesse idee assolutamente differenti. Da ció ne segue che non pud
esservi parallelismo o equiva- lenza tra lo stato cerebrale ed il pensiero.
Queste furono le idee che Bergson difese in quella seduta. Segui una
discussione serenamente tranquilla, che diede campo all'oratore di affermare
sempre piú le sue teorie. Molto piú agitato fu il dibattito che avvenne al
Congresso di Ginevra tra i numerosissimi difensori del parallelismo ed il
Bergson. Questi in una comu- nicazione, che sollevd molto rumore (2), volle
prescin- dere dalle sue teorie, e si propose di stabilire che il pa- rallelismo
psico-fisiologico implica una contradizione fondamentale e riposa su un
artificio dialettico, su una serie di paralogismi. La lettura di questa
memoria, racconta il Chartier, provoco in tutti gli uditori un sentimento di
sorpresa e di inquietudine. Quasi tutti coloro che si trovavano presenti,
avevano formulato spesso la tesi del pa- rallelismo. 1 piú prudenti l'avevano
presentata come il risultato esatto di un gran numero di esperienze
concordanti; nessuno aveva mai esaminato se la sem- plice enunciazione di
questa tesi rinchiudesse una con- tradizione (3). Ora, era questo che Bergson
pretendeva provare. Quando parliamo d'oggetti esteriori - egli disse - noi
abbiamo la scelta tra due sistemi di notazione. Pos- siamo trattare gli oggetti
ed i cangiamenti, che si (1) Questa teoria beresoniana sará ampiamente esposta
nei capitoli seguenti, dedicati alla percezione ed alla memoria. (2) BERGSON:
Le paralogisme psycho-physiqgue in Revue de Métaph. et de Morale Revue de métaphys.
et de morale Esposizione della filosofia bergsoniana compiono, come cose o come
rappresentazioni: nel primo caso siamo realisti, nel secondo idealisti. Che ¡i
due postulati si escludano lun 1'altro, che sia perció illegittimo 1applicare
nello stesso tempo i due sistemi di notazione allo stesso oggetto, tutti lo
accorderanno. Orbene, se si opta per la notazione idealista, l'affer- mazione
del paralelismo implica contradizione; se si preferisce la notazione realista,
si ritrova la stessa contradizione; la tesi del parallelismo non e intelligi-
bile se non nel caso, che per una incosciente pre- stidigitazione
intellettuale, si adottino nello stesso tempo, nella stessa proposizione, i due
sistemi di no- tazione. Poniamoci infatti dapprima dal punto di vista idea-
listico e consideriamo ció che avviene nella percezione degli oggetti, che
popolano il campo della visione. Per Pidealismo tutto € immagine e nelle cose
non vi é se non ció che e mostrato nell'immagine, perchée la realtá si
identifica con la rappresentazione. Il mondo esteriore € quindi un'immagine, il
cervello 4 un'altra immagine della stessa natura e nella danza degli atomi
cerebrali non c'e nulla di piú ne di diverso, se non la danza di questi atomi
stessi. 11 dire col paral- lelismo che lo stato cerebrale equivale alla
rappresen- tazione degli oggetti, é un assurdo in questa ipotesi ; poiché lo
stato cerebrale € un'infima parte del campo di rappresentazione, mentre gli
oggetti riempiono il campo di rappresenzazione tutto intero. É evidente che la parte
non pud equivalere al tutto, e che for- mulato in una lingua rigorosamente
idealista, la ' tesi del parallelismo si riassumerebbe in questa proposi- zione
: la parte e il tutto, Ma la veritá € che si passa incoscientemente dal punto
di vista idealistico al punto di vista pseudo- realista. Si € cominciato a fare
del cervello una rap- presentazione, che non ha da suscitare le altre rappre-
IL I nemici della durata reale sentazioni, poiché queste sono date con esso,
attorno ad esso. Ma insensibilmente si arriva ad erigere il cer- vello ed i
movimenti intracerebrali in. cose, cioé in cause nascoste dietro una certa
rappresentazione ed il cui potere si estende infinitamente piú lungi di ció che
vien rappresentato. Dall'idealismo si é sdruccio- lato nel realismo. Passiamo
ora al realismo, secondo il quale, le mo- dificazioni del cervello prodotte
dalle cose esterne, creano, occasionano o almeno esprimono la rappre-
sentazione degli oggetti da me veduti. Si noti che, a differenza
dell'idealismo, il realismo non pud separare dal tutto reale ció che €
separabile nella rappresenta- zione ; esso definisce l'oggetto per la sua
solidarietá col tutto ed anche la scienza, man mano che progre- disce,
considera l'interazione come la realtá definitiva. 1l realista perció dovrebbe
dire che la rappresenta- zione degli oggetti € funzione dello stato cerebrale e
degli oggetti che lo determinano, poiché questo stato e questi oggetti formano
per lui un blocco indivisi- bile. 1l sostenere che la rappresentazione é
funzione dello stato cerebrale soltanto, é contraditorio ed equi- vale alla
affermazione che una relazione tra due ter- mini equivale all'uno di essi,
oppure all'altra : una parte, che deve tutto ció che e, al resto del tutto, pud
essere concepita come sussistente, quando il resto del tutto svanisce. Ein
questa contradizione che incorre il parallelismo. Esso comincia a darsi un
cervello, che gli oggetti esteriori modificano in modo da suscitare delle
rappresentazioni. Poi fa tavola rasa di questi 0g- getti e attribuisce alla
modificazione cerebrale il po- tere di disegnare, da sola, la rappresentazione
degli oggetti. Ma ritirando gli oggetti che lo incorniciano, si ritira anche lo
stato cerebrale, che da loro prende le sue proprietá e la sua realtá. Il
realista lo conserva, perché passa furtivamente al sistema di notazione 28
Esposizione della filosofia beresoniana idealista, ove si pone come isolabile
in diritto ció che e isolato nella rappresentazione. L*essenza stessa
dell'illusione parallelistica consiste nell*apparente conciliazione di due
affermazioni incon- ciliabili, nell*oscillare ciog dall'idealismo al realismo o
dal realismo all'idealismo. Questo, in breve, é il discorso di Bergson, che nei
congressisti causó una emozione profonda e che fu seguito da una discussione
vivacissima, la quale si prolungó anche dopo la seduta, nelle conversazioni
accalorate dei filosofi presenti a quel Congresso. c) Il tempo e lo spazio.
Dopo le scaramuccie contro la psicofisica e la psico- fisiologia, Bergson con
una battaglia campale contro certi idoli dellazione e del linguaggio vuol
dimostrare quella profonda distinzione tra durata e spazialitá, che, come ben
nota il Prezzolini, forma un leit-motiv del- l'opera sua (1). Se dai fenomeni
di coscienza, presi isolatamente, passiamo alla molteplicitá concreta ed allo
sviluppo organico della vita interiore, noi vediamo che in questa tutto si
compenetra e si fonde in un cangiamento in- divisibile, ininterrotto,
eterogeneo. 1 che, come si disse, non viene menomamente ammesso dal senso co- mune,
dalla filosofia, dalla scienza, quando frazionano la continuitá della durata
pura in tanti stati distinti, separati, esteriori gli uni agli altri, che si
possono trattare come i numeri dell”aritmetica e rappresentare per mezzo di una
giustaposizione nello spazio. Sorge quindi la questione: la molteplicitá dei
nostri stati di coscienza ha la minima analogia con la molteplicita Ne I nemici
della durata reale 29 delle unitáa di un numero? la vera durata ha il me- nomo
rapporto con lo spazio? (1). Nell Estetica trascendentale Kant, con una conce-
zione che non differisce troppo dalla credenza popolare, distingue lo spazio
dalla materia che lo riempie, gli concede un esistenza indipendente dal suo
contenuto. Lo spazio per Kant é un mezzo vuoto, infinito e infi- nitamente
divisibile, che si presta indifferentemente a qualsiasi modo di decomposizione;
€ una realtá senza qualitá, una omogeneitá estesa, una maglia dalle reti che si
possono fare e disfare a piacimento (2). In questo spazio noi ci rappresentiamo
i numeri, le unita omogenee, che non si penetrano, ma che sono suscettibili di
essere sbocconcellate all'infinito e poste le une accanto alle altre.
Ossessionati da questa idea, osserva Bergson, noi Pintroduciamo a nostra
insaputa nella rappresentazione della successione pura della coscienza e
proiettiamo nello spazio il tempo concreto, vale a dire la durata reale, indi-
visa nella sua molteplicitá, una nella sua eterogeneita, irreversibile nei suoi
movimenti. In tal modoriesciamo a dividere i nostri stati interni, a
giustaporli, a percepirli simultaneamente non piú l*uno nell'altro, fusi
insieme come le note di una melodia, ma l'uno accanto al- Paltro. 11 prima ed
il poi non si succedono piú, ma coesistono e prendono per noi la forma di una
catena, i cui anelli si toccano senza penetrarsi. Cosi la conti- nuita dei
fatti di coscienza viene frazionata, ed i di- versi stati, con un ordine che ci
sembra reversibilissimo, si dispongono e si allineano in un mezzo omogeneo ed
indefinito. Il quale, nevvero, dovrebbe essere chiamato spazio ed invece...
prende il nome di tempo! (1) Essaz, pag. 69. (2) 7b01d., pag. 70 € Seg. 30
Esposizione della filosofia beresoniana Ora, non é forse vero che questo tempo
kantiano e un concetto bastardo, dovuto all'intrusione dell'idea di spazio nel
dominio della coscienza pura, e che questa pretesa forma dell'omogeneo deriva
dall'altra? Non é forse vero che il tempo astratto non é che spazio? Bisogna
persuadersi bene di ció, per non confon- dere, come fece Kant, il tempo
astratto, spazia- lizzato, omogeneo, col tempo concreto, ossia con la durata
reale. C'2 una differenza capitalissima tra essi: poiché il primo non e che il
simbolo e 1'ombra dell”altro, proiettato nello spazio. Noi, purtroppo,
sostituiamo sovente, pet ragioni che ricercheremo poi, il simbolo alla realtá.
Ma quando stacchiamo gli occhi dall*ombra che ci segue; quando con mano franca
strappiamo il velo che si interpone tra la realtá e noi; quando, — non
fermandoci alla superficie del nostro io, dove le sensazioni successive. pur
fondendosi le une nelle altre, ritengono qualche cosa dell”esterioritá
reciproca che ne caratterizza opgetti- vamente le cause, — gettiamo lo sguardo
indagatore nelle regioni piú profonde della coscienza vivente; noi scor- giamo
che in questa non vi sono cose, ma progressi; vi notiamo momenti eterogenei che
si penetrano, si orga- nizzano, si mescolano in tal maniera, che non si sa-
prebbe dire se sono uno o molti e nemmeno esami- narli da questo punto di vista
senza snaturarli tosto. Allora comprendiamo che la molteplicitá qualitativa
degli stati di coscienza, riguardata nella sua purezza originale, non presenta
alcuna rassomiglianza con la molteplicita distinta che forma un numero, e che
al- lVinfuori di una rappresentazione simbolica, il tempo non prenderebbe mai
per noi l'aspetto di un mezzo omogeneo. Z61d., pag. 96 e 104. I nemici della
durata reale 31 Una distinzione dunque si impone tra le due forme della
molteplicitá, tra le due apprezziazioni della du- rata: luna é la durata vera e
concreta, la durata eterogenea e vivente, la durata qualitá; Paltra e in- vece
un simbolo morto, € la durata quantita, e un un tempo materializzato per mezzo
di una proiezione nello spazio, € il fantasma dello spazio che ci perse- guita
e ci ossessiona. Per non essersi ricordati di questo, gli associazio- nisti
hanno polverizzato la vita dello spirito, risolven= dola in un aggregato di
elementi separati ed incon- trando poi gli assurdi che la loro teoria suscita
nella questione della libertá e nel problema della memoria. Lo mostreremo
ampiamente in seguito e sempre ci accorgeremo che chi calpesta i diritti della
durata reale solleva mille dispute inutili, insolubili ed eterne. Il giorno in
cui avvenne la confusione di quei due aspetti della vita cosciente, del tempo
con lo spazio, — cosl esclamava Bergson in una conferenza al Col- lege de
France — si iniziarono i guai e le sciagure della filosofia (2). Ma allora, si
domanderá, se la durata propriamente detta non si divide e quindi non si
misura, che cosa dividono e che cosa misurano le oscillazioni del pen- dolo? 11
tempo che l”astronomia, la fisica e la mecca- nica introducono nelle loro
formule, non é forse una egrandezza divisibile, misurabile ed omogenea? Un
esame attento, risponde il Bergson, dissipera quest' ultima illusione. Quando
io seguo con gli occhi, sul quadrante d'un orologio, il movimento della lan-
Z01d., pag. 57-81. GRIVET, art cit., in £tudes. - Riguardo alla spazia-
lizzazione della durata, si vegga anche la risposta del Bergson al Le Dantec in
Revue du mois, 1o settembre 1907 : L*évolution créatrice. Esposizione della
filosofia bergsoniana cetta che corrisponde alle oscillazioni del pendolo, ¡o
non misuro la durata, ma mi limito a contare delle simultaneitá, cosa che e ben
differente. Fuori di me nello spazio, non c'é che una posizione unica della
lancetta e del pendolo, poiché delle posizioni passate nulla resta. Dentro di
me, avviene un processo di organizzazione dei fatti di coscienza, che
costituisce la durata. E perché io duro in questo modo, che mi rap- presento
ció che chiamo le oscillazioni passate del pendolo, nello stesso tempo che
percepisco 1'oscilla- zione attuale. Ora, sopprimiamo per un istante l'¡o, che
pensa le oscillazioni successive; non vi sará che una sola oscillazione del
pendolo e quindi nessuna du- rata. Sopprimiamo, dall*altra parte, il pendolo e
le sue oscillazioniz non vi sará che la durata eterogenea dell'io, senza
momenti esteriori gli uni agli altri, senza rapporto col numero. Cosl nel
nostro io, c'é succes- sione senza esterioritá reciproca; fuori di me esterio-
rita reciproca senza successione, poiché la successione esiste soltanto per uno
spettatore cosciente, che ricordi il passato e giustaponga le due oscillazioni
e i loro simboli nello spazio ausiliario. Tra queste due realtá si produce un
fenomeno d'endosmosi. Siccome ciascuna delle fasi successive della nostra vita
co- sciente, che si penetrano tra loro, corrisponde ad una oscillazione del
pendolo, che le € simultanea; siccome d'altra parte queste oscillazioni sono
nettamente di- stinte, poiché l'una non c'é piú, quando si produce l'altra, noi
contraiamo l'abitudine di stabilire la stessa distinzione tra i momenti
successivi della nostra vita cosciente; le oscillazioni del bilanciere la
decompon- gono in parti esteriori le une alle altre: di qui l'idea erronea
d'una durata interna omogenea, analoga allo spazio, i cui momenti identici si
seguirebbero senza penetrarsi. Ma dall'altro lato le oscillazioni pendolari,
ciascuna delle quali svanisce, quando l'altra appare, I nemici della durata
reale : grazie al ricordo che la nostra coscienza organizza del loro complesso,
si conservano, si allineano e creano nella nostra fantasia il tempo omogeneo.
Cosi dalla comparazione dello spazio, dove i fenomeni non du- rano, e la durata
reale, dove non vi sono che mo- menti eterogenei, nasce questa forma illusoria
d'un mezzo omogeneo ; il trait-d'union tra 1 due termini é la simultaneitá, che
si potrebbe definire 1'intersezione del tempo con lo spazio. Ancora una volta,
il tempo omogeneo ed astratto é solo una rappresentazione simbolica della vera
durata, dedotta dallo spazio. Se ora sottoponiamo alla stessa analisi il
concetto di movimento, noi verremo ad un identico risultato. lo ho la mano al
punto A e la trasporto al punto B, percorrendo l'intervallo A-B. In questo atto
¡o posso considerare due cose : Innanzi tutto, lungo questo movimento posso
rap- presentarmi lo spazio percorso, cioé le possibili fer- mate, le stazioni
del mobile, i punti per i quali la mia mano passa. Queste posizioni, questi punti
non sono nel movimento e neppure sotto il movimento : sono semplicemente
proiettati da me sotto al moto, come tanti luoghi dove sarebbe la mano, se si
fer- masse; sono quindi dei semplici punti di vista. Non basta : le stazioni, i
punti sono l'immobilita stessa ; anche moltiplicindoli all'infinito, non si
ricostruisce il moto. Il movimento sdrucciola nell*intervallo. In breve:
lillusione di costruire il movimento con quelle posi- Essaz. Essai, pag. 78 e Seg. ; Matiére
el Mémotre, pag. 207 € Seg. ; La perception du-changement, pag. 19 € Seg. Prego i lettori a se- guire attentamente l'analisi
bergsoniana pel movimento : essa ha dato origine alla famosa obiezione del Le
Roy contro la prima delle cinque vie che, secondo S. Tommaso conducono a Dio.
Cfr. .LE ROY: Comment se pose le probleme de Dieu, l. c. zioni immobili,
implica l'assurdo che il movimento + immobilitá. Ma io posso riguardare anche
l'atto col quale per- corro quello spazio, l'operazione ciog per cui la mano
passa da una posizione all'altra. Allora non ho piú Una 'CoSa, ma un progresso
; ho una sintesi qualitativa, 'un'organizzazione graduale delle mie sensazioni
suc- cessive, un”unitá analoga a quella d'una frase melo- dica, 'un processo
psichico e percid inesteso. In questo caso non ho piú i punti traversati, che
non erano che immobilita, ma ho la traversata dei punti, cioé il vero
movimento. Ma anche qui si produce un fenomeno d'endosmosi: da una parte,
siccome il movimento, una volta effet- tuato ha deposto nello spazio una
traiettoria immobile, divisibile all'infinito, noi attribuiamo al movimento la
divisibilitá stessa dello spazio percorso, dimenticando che l'immobilitá non
coincide col movimento e che, se si pud frazionare la traiettoria una volta
creata, non si puó dividere la sua creazione, che non é una cosa, ma un atto in
progresso. Dall'altra parte noi ci abi- tuiamo a proiettare questo atto nello
spazio, a solidi- ficarlo, come se questo non significasse che anche fuori
della coscienza il passato coesiste col presente. E in questo modo che sorge
l'idolo del movimento omogeneo e divisibile, il quale rappresenta - gioverá
ripeterlo - lo spazio percorso e non il moto stesso, le stazioni successive del
mobile e non il progresso per cui esso passa da una posizione all'altra, il
punto di riposo e non lattivita, Pestremitá e non l'intervallo della durata, in
una parola l'immobilitá e non il mo- vimento ! Qual meraviglia se per queste
confusioni il (1) Cfr. anche /Zntrod. a la Meétaph., trad. ital. pag. 49,
Essaz, pag. 84-5, Évol. cr. pag. 344, 393 etc. Essaí pag. 85, Évol. cr., 334. I
nemici della durata reale 35 problema del moto ha fatto nascere fin dalla piú
re- mota antichitá mille questioni? 1 quattro famosi ar- gomenti di Zenone
d”Elea non hanno altra origine di questa. Sia il primo (della dicotomia), sia
gli altri (d*Achille e della tartaruga, della freccia, dello stadio) non fanno
altro che scambiare il fatto indivisibile del movimento con la traiettoria
infinitamente divisibile, che quello descrive, e che non é altro che spazio im-
mobile (1). Ed e solo su quest'ultimo che riposa tutta la nostra fisica, anche
quando si parla di tempo, di moto, di velocitá. I trattati di meccanica infatti
hanno cura di notare che essi non definiscono la durata stessa, ma l'egua-
glianza di due durate. Due intervalli di tempo, di- cono essi, sono eguali,
quando due corpi identici, posti nelle stesse circostanze al principio di
ciascuno di questi intervalli, e sottomessi alle stesse azioni ed ' influenze
di ogni specie, avranno percorso lo stesso spazio alla fine di questi
intervalli. In altre parole noi notiamo l'istante preciso in cui il movimento
comincia, ciog la simultaneita d'un cangiamento esteriore con uno dei nostri
stati psichici; notiamo il momento in cui il movimento fluisce, cioé una
simultaneitá ancora; infine misuriamo lo spazio percorso, la sola cosa che di
fatto sia misurabile. Qui non c'é dunque questione di durata, ma solo di spazio
e di simultaneitá (2), vale a dire d'immobilitá. 11 tempo reale, che é un
flusso, ed € la mobilitá stessa dell'essere, sfugge alla conoscenza
scientifica. Dal punto di vista della Essai, pag. 85-7, Mat. et Mém. pag.
211-2; ÉvOol. cr. pag. 333 eseg.; Introd. a la Mét., trad. ital. pag. 52. La perception du changement,
Conf. Il, pag. 20. Essaz, pag. 88. Lvol. cr., pag. 364. Esposizione della filosofia bergsoniana A e A E A
scienza, ció che conta non e P'intervallo di durata, che noi viviamo e
sentiamo, ma sono le stazioni del mo- bile, tanto € vero che se tuttii
movimenti dell”uni- verso si producessero due o tre volte pid in fretta, non vi
sarebbe nulla da modificare ne alle nostre for- mule né ai numeri che vi
facciamo entrare. Edé evidente; poiché la scienza non tiene conto ná della
successione in ció che ha di specifico, ne del tempo in ció che ha di fluido;
essa non si applica alla realtá in ció che ha di movente, come i ponti lanciati
su un fiume non seguono l'acqua che scorre sotto le loro arcate (2).
Analizziamo finalmente la nozione di velocitá. La meccanica costruisce
dappprima l'idea d'un moto uniforme, rappresentandosi d'un lato la traiettoria
A B d'un certo mobile, e dall'altro un fenomeno fisico che si ripete
indefinitamente in condizioni iden- tiche, per esempio la caduta d'una pietra,
che cade sempre dalla stessa altezza al medesimo luogo. Se si notano sulla
traiettoria A B ¡ punti M, N, P.... rag- giunti dal mobile in ciascuno dej
momenti in cui la pietra tocca il suolo, e se gli intervalli A M, MN, NP...
sono riconusciuti eguali tra loro, si dirá che il movimento e uniforme e si
chiamera velocita d'un mobile uno qualunque di questi intervalli, purché si
convenga di adottare come unitá di durata il fenomeno fisico, che si é scelto
come termine di paragone. Si definisce dunque la velocitá d'un movimento
uniforme senza fare appello ad altre nozioni che a quelle di spazio e di
simultaneitá. Conclusione, questa, alla quale si giun- gerebbe analizzando
anche il moto variato (3). Confessiamolo, dunque; noi parliamo di tempo, Essaz,
pag. 83-89, 148, cfr. anche £vol. C7., PAY. 10. (2) Evol. cr., pag. 366. Essaz,
pag. 89-90. E A PA, ya) SAR e ná I nemici della durata reale pronunciamo questa
parola, e pensiamo allo spazio. Discorriamo di movimento e ad esso sostituiamo
la simultaneitáa. Noi insomma - esclamava Bergson nella prima conferenza di
Oxford - diciamo e ripetiamo che tutto cangia, che il movimento esiste, che
esso € la legge stessa della cose : ma intanto ragioniamo e fi- losofiamo, come
se il cangiamento non esistesse. Per pensarlo e per vederlo, bisogna rimuovere
un velo fitto di pregiudizi. La perception du changement, Conf. 1, pag. 4. In.
L' Intelligenza ed il Linguaggio -- HART GRICE HOLLOWAY LANGUAGE AND
INTELLIGENCE Chi vuole riprodurre per mezzo del cinematografo una scena
animata, ad esempio la sfilata di un reggimento, prende sul reggimento che passa
una serie di istantanee, e le proietta sulla tela in modo che si sostituiscano
velocissimamente le une alle altre. Col movimento impersonale, astratto e
semplice dell*appa- recchio, e con fotografie, ciascuna delle quali rappre-
senta il reggimento in un attitudine immobile, si rico- stituisce la mobilitá
dei soldati che passano. Il meccanismo della nostra conoscenza usuale — dice il
Bergson, e questa é una delle idee a lui piú care, che sviluppó lungamente del
1goo al 1904 nelle sue lezioni al College de France, sopratutto in un corso
sulla storia dell'idea di tempo — é di na- tura cinematografica (1). Ne abbiamo
una prova evidente nella ricostruzione che il pensiero concettuale fa del
divenire continuo della durata. Noi prendiamo delle vedute istantanee su questa
realtá interiore che scorre, e poi le infiliamo lungo un divenire astratto ed
uniforme, situato al Évol. cr., pag. 329 € Seg. X 40 Esposizione della
filosofia beresoniana fondo dell'apparecchio della coscienza. Quale valore
abbia questo divenire, che si vuol chiamare tempo omogeneo, l'abbiam gia visto
nel capitolo precedente; ora invece ricercheremo il significato delle varie
foto- grafie, vale a dire dei concetti della nostra intelligenza, e del
linguaggio con cui li enunciamo. pa Qualunque sia il sistema filosofico che
abbia le nostre preferenze, noi tutti siamo d'accordo su due punti. Siamo
pronti ciod a concedere coi pensatori antichi e moderni che un essere perfetto
sarebbe colui che conoscesse ogni cosa intuitivamente, senza aver bisogno di
passare per l'intermediario del ragionamento, dell'astrazione e della
generalizzazione. Inoltre tutti affermiamo che le idee astratte e generali, i
concetti, hanno solo il valore delle percezioni eventuali da essi rappresentate
: tanto é vero che crollano come castelli di carta il giorno in cui un fatto,
un fatto solo real- mente percepito viene ad urtarli (1). Se si ammette questo,
— e come non ammetterlo ? bisogna necessariamente procedere oltre e conce- dere
che ¡i concetti coi quali esprimiamo la durata del nostro io profondo, sono
schemi morti che non ci danno la realtá, ma solo l'ombra di questa; sono fo-
tografie immobili, relative ad uno speciale punto di vista, che non ci possono
servire in u na filosofia che che vuol cogliere l'assoluto. La durata infatti
della nostra coscienza é un flusso continuo ed indiviso, dove tutto é
cangiamento. Ebbene, cosa fa la nostra intelligenza? Essa comincia a
distinguere e a dividere questa vita interiore e ne ot- tiene delle unitá
artificiali, che chiama sensazioni, sentimenti, rappresentazioni, ecc. Riesce
cos] a rappre- La perception du changement, Conf. 1, pag. 5-8. sentarsi il
divenire come una serie di stati, ciascuno dei quali non muta punto; e se
osserva la mutazione di uno di essi, subito lo decompone in un seguito di altri
stati immobili, che costituiranno riuniti la sua modificazione esteriore, e
cosl via, fin quando non ha ottenuto degli elementi stabili. L*intelligenza ha
una viva ripugnanza per ció che e fluido, solidifica tutto ció che tocca, e non
si rappresenta chiaramente che la immobilitá. Siccome quindi il reale, il
vissuto, il con- creto si riconosce per il fatto che e la variabilita stessa, é
chiaro che coi concetti invariabili e fissi, con questi quadri rigidi ed
inerti, non potremo ricomporre la realta. Essi sono soltanto una ricostruzione
semplificata, spesso un semplice simbolo, in ogni caso una veduta immobile,
presa sulla fugace successione della realtá che scorre (1). Non é vero,
rispondera l'intelligenza; la durata é unitá e molteplicitá: eccola risolta in
concetti, esat- tamente, ed in concetti estratti d a essal — Ma é un tentativo
vano di difesa. La nostra durata non puó racchiudersi in una rappresentazione
concettuale. Se la si dichiara multipla, la coscienza insorge ed afferma che le
mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei pensieri sono astrazioni che opero su
me stesso, e che questi termini, invece di distinguersi come quelli di una mol-
teplicitáa qualunque, si accavallano gli uni sugli altri. Confessiamo dunque
che, se c'é una molteplicita, questa molteplicitá non rassomiglia a nessun
altra. Diremo allora che la durata ha dell?unita? Senza dubbio, una continuitá
di elementi che si prolungano gli uni negli altri partecipa dell'unitá quanto
della molteplicita; ma questa unitá -mobile, mutevole, colorata, vivente, non
Zntrod. á la Mét., trad. ital. pag. 45, 48; Évol. cr. . Esposizione della
filosofia bergsoniana rassomiglia affatto all?unitá astratta, immobile e vuota,
che circoscrive il concetto di unitáa pura. Conclude- remo da ció che la durata
si deve definire ad un tempo con lunitá e la molteplicita? Ma, cosa strana,
avró un bel manipolare i due concetti, dosarli, combinarli diversamente
insieme, praticar su di essi le piú sottili operazioni della chimica mentale,
non otterrd mai niente che somigli all'intuizione semplice che ho della durata;
mentre se io mi rimetto nella durata con uno sforzo d'intuzione, m'accorgo
subito come essa é unita, molteplicitá e molte altre cose ancora (1). In altre
parole si comprende che i concetti fissi pos- sono essere estratti dal nostro
pensiero dalla realtá mobile; ma non c'é modo di ricostruire, colla fissitá dei
concetti, la mobilitá del reale. E del resto che che la personalitá abbia
dell”unitá, che il nostro io sia molteplice, é certo; ma ció che importa alla
filosofia é di sapere quale unitá, quale molteplicita, guale realtá superiore
all'uno e al multiplo astratti, sia la unitá molteplice della persona. Questo ¡
concetti né separati né riuniti non ce lo diranno mai; tutto al piú faranno
sorgere una tesi ed un'antitesi, che invano cercheremo di conciliare
logicamente . E non si dica che i concetti sono estratti dalla realtá : lo
concediamo; ma da ció non si pud concludere che vi erano contenuti.
L”apparecchio fotografico estrae, da uno spettacolo che si muove, delle vedute
immobiliz ma non ne segue che le immobilita abbiano fatto parte del movimento.
Tra la realtá ed i concetti ad essa piú. vi- cini, c'é lo stesso rapporto che
tra la scena animata e Zntrod. á la Mét. trad. it.. Z61d., pag. 63. Zb1d., pag. 41;
Cfr. anche Le paralogisme psycophysique in Bulletin . A la fotografia istantanea. Che sarebbe poi, se si
consi- derassero tutti gli altri concetti, che sono meno an- cora di questo,
semplici note prese a proposito di questa realtá, ed anche, piú sovente, note
prese su queste note? Non basta: per altre ragioni ancora dobbiamo con- dannare
l'intelligenza. Essa € invaghita di semplicita, ha abitudini tenaci e radicate
di economia. Con pochi principii, con pochi elementi, vuol ricomporre tutto il
reale, il quale invece € ridondante, é sovrab- bondante e colle sue
innumerevoli manifestazioni Ci attesta la sua ricca feconditá. Tra la realtá
vera e quella dei filosofi, si puó stabilire lo stesso rapporto che esiste tra
la vita che noi viviamo tutti i giorni e quella che gli attori ci
rappresentano, la sera, sulla scena. Al teatro ciascuno non dice che ció che
bisogna dire e non fa che ció che bisogna fare; vi sono delle scene ben
tagliate; la rappresentazione ha un prin- cipio, un mezzo, una fine; e tutto é€
disposto colla massima parsimonia, in vista d'uno scioglimento fe- lice o
tragico. Ma nella vitá c'e una folla di cose e di gesti inutili, non vi sono
situazioni nette; nulla avviene cosi semplicemente, cosl completamente, cosl
bellamente come vorremmo; le scene si allargano le une nelle altre, le cose non
cominciano né finiscono, non c'é né uno scioglimento interamente soddisfa-
cente, ne gesti assolutamente decisivi e via dicendo. Tale e la vita nella sua
feconda ricchezza. Come mai questa potrá essere abbracciata dalle forme
ischele- trite del pensiero, dai quadri dell'intelletto, da pochi concetti ?
Bergson scrisse questo nella sua lettera al Pitkin in The jour- nal of
phylosophy etc. num. cit. BERGSON : Vérité et realité. Introd. alla trad. franc. di
un saggio di James : Le pragmatisme. Esposizione
della filosofia bergsoniana Tanto piú che noi abbiamo visto che la durata €
originalita e imprevedibilitá per essenza. In essa non vi sono mai due istanti
uguali; ogni momento della sua storia porta qualche cosa di nuovo che
scaturisce senza posa nella genialitá di uno slancio creatore. Se si volessero
vestire questi momenti, si dovrebbe ta- gliare un concetto appropriato a
ciascuno di essi, che a fatica si potrebbe chiamare concetto, perché si ap-
plicherebbe ad una cosa sola. Invece l'intelligenza non vede che l'aspetto
ripetizione ; se il tutto é ori- ginale, essa l'analizza in aspetti, che sono
press'a poco la riproduzione del passato. Essa non ammette la novita completa
né il divenire radicale, ma risolve la perenne invenzione creatrice della
durata in elementi conosciuti ed antichi, disposti in un ordine differente (1).
Per questo procede con la combinazione di idee che si trovano gia in commercio
e nella sua incurabile pre- sunzione si immagina di possedere per diritto di
na- scita o per diritto di conquista, innate o apprese, tutti gli elementi
essenziali della conoscenza della veritá. Non le viene nemmeno il sospetto di
dover creare per un momento nuovo un nuovo concetto, ma é preoc- cupata solo di
scegliere uno degli abiti gia confezio- nati; vuol trovare la categoria antica,
il vecchio ca- sellario, la rubrica usuale, l'etichetta di un concetto bello e
fatto . L'intelligenza perció comincia a trascurare la colorazione speciale
della persona, che non puó esprimersi in termini noti e comuni. Poisi sforza,
di isolare nella persona gia semplificata a quel modo, il tale o tal'altro
aspetto che si presta ad uno studio interessante, e lo erige in fatto
indipendente, otte- nendo cosi un punto di vista sulla mobilitá della vita
interna, uno schema della realtá concreta. É un la- Évol. cr., e Seg. Zb1d.,
Introd, á la Mét., trad. ital. pag. 40-3. voro analogo a quello dun artista,
che, di passaggio a Parigi, facesse, ad esempio, uno schizzo d'una torre di
Nótre-Dame. La torre é inseparabilmente legata all'edificio, che € legato, non
meno inseparabilmente, al suolo, ai dintorni, a tutta Parigi ecc. Bisogna co-
minciare collo staccarla ; si noterá solo un certo aspetto dell'insieme. La
torre é costituita da pietre che le dánno, con la loro speciale combinazione,
la sua forma, ma il disegnatore non si interessa alle pietre e non nota che il
profilo della torre. Egli sostituisce dunque all'organizzazione reale ed
interna della cosa una ricosti- tuzione interna e schematica, in modo che il
suo disegno risponde, insomma, a un certo punto di vista sull*oggetto e alla
scelta di un certo modo di rappresentazione. Ora succede precisamente lo stesso
nell'operazione colla quale estraiamo un concetto dall'insieme della persona: noi
consideriamo.il tutto sotto un certo aspetto elementare che si interessa
particolarmente e lo espri- miamo con un concetto, che non ci dá l'assoluto,
come non ce lo dá lo schizzo preso dalla torre di Nótre-Dame. Quest'ultimo
avrebbe potuto essere diverso, se fosse stato ritratto da un punto di vista
differente; quello pure non ci dá dell'oggetto in questione che qualche tratto
sommario, variabile secondo la dire- zione e Pangolo. L*analisi concettuale é
quindi relativa, poiché non si pone nell*oggetto, ma gira attorno ad esso ed e
costretta a tradurlo in simboli, a confrontarlo con altre cose che giá crede di
conoscere, a espri- merlo in funzione di ció che esso non é. Anche ag-
giungendo descrizioni a descrizioni, moltiplicando i punti di vista, non ci dará
mai una conoscenza per- fetta : l'oggetto sará sempre la moneta d'oro di cui
non si finisce di rendere il resto. E quando si ten- Zntrod. a la Mél.. Zb1d,,
trad. ital.. Esposizione della filosofia bergsoniana terá con la moltitudine di
queste rappresentazioni simboliche, con le idee e con i concetti, di
ricostruire la realtá assoluta, non vi si riuscirá, come non riesce un bambino
a fabbricarsi un balocco solido con le ombre che si profilano sui muri. Come e
possi- bile fabbricare la realtá, manipolando dei simboli? Come si potrá
rappresentare la durata con una serie di note, di rappresentazioni piú o meno
schematiche? Come si potrá comporre una cosa con punti di vista? ES Ecco quindi
spiegato 1”eterno bisticciare delle scuole filosofiche, le difficoltá inerenti
alla metafísica, le an- tinomie che fa sorgere, le contradizioni in cui cade,
il pullulare di teorie antagoniste, lopposizione irridu- cibile dei sistemi. Se
la filosofia dev'essere fondata sui concetti, non v'é e non vi pud essere uma
filosofia, ma vi saranno tante filosofie, quanti sono i pensatori originali,
che salgono alternativamente sulla scena, per farsi applau- dire (3). Con un
decreto contestabile essi attribuiranno un'importanza arbitraria ad un concetto
o ad un altro, ad un punto di vista sulla realtá, che impoverirá la visione
concreta ed eliminerá una moltitudine di differenze qualitative. A questo
decreto se ne potrá sempre opporre un altro e cosi sorgeranno varie filosofie,
armate di differenti concetti e capaci di lottare indefinitamente tra loro. E
allora che si avanzano le dottrine scettiche, idealiste e criticiste, che,
constatando Pimpossibilita di Z0. Bulletin de la Soc. fr. de phil.; La perception du
changement, Conf. . L'intelligenza ed
il linguaggio 47 far entrare il reale nei vestimenti di confezione che sono le
nostre idee, proclameranno con Kant la relativitá della conoscenza (1). Dopo
troppo orgoglio si finisce con un eccesso di umiltá. Dopo la pretesa assurda di
voler racchiudere negli schemi concettuali la ricchezza ine- sauribile dello
spirito vivente e di voler cogliere con formule fisse ed immutabili il
rinnovarsi incessante d'una primavea eterna, eternamente nuova ed ine-
sauribile nelle sue creazioni, la ragione umana giunge con orgogliosa modestia
a dichiarare il proprio falli- mento e l'impossibilitá della metafísica. A
questa triste e sconsolata conclusione non si sarebbe giunti, se si fosse
incominciato a valutare con sereno giudizio la natura dell'intelligenza nostra,
scien- tifica o metafisica che sia; se nel tempo spazializzato, nel movimento
omogeneo, nei concetti astratti, nelle idee generali, si fosse riconosciuto una
conoscenza esclusivamente pratica, orientata verso il profitto che ne vogliano
ricavare. Ce ne persuaderemo, esami- nando la funzione naturale
dell'intelligenza, 1'origine delle idee generali e la natura propria della
LINGUA. *k *Se potessimo spogliarci della nostra superba fierezza, se per
definire la nostra specie ci tenessimo stretta- mente a ció che la storia e la
preistoria ci presentano come la caratteristica costante dell'uomo, noi non di-
remmo homo sapiens, ma homo faber. Originaria- mente noi non pensiamo, che per
agire. La specula- zione é un lusso, mentre l'azione é una necessitá. Ed e
nella forma dellazione che la nostra intelligenza é stata fusa; essa non e la
facolta di fabbricare sistemi Introd. a la Mét. Évol. cr., pag MI. 48
Esposizione della filosofia bergsoniana di metafisica, bensi di preparare
strumenti artificiali. Stretta dalle esigenze della vita pratica, la sua atti-
vitá si esercita esclusivamente sulla materia bruta, nel senso che anche quando
adopera materiali organizzati, li tratta sempre come oggetti inerti. Della
stessa materia bruta non ritiene che il solido, e non si rappresenta
chiaramente che il discontinuo ; perció considera ogni oggetto decomponibile in
parti arbitra- mente tagliate, esteriori 1*una all'altra e alla loro volta
divisibili all'infinito; la realtá ultima, 1*elemento estremo é sempre per essa
qualche cosa di stabile e di immo- bile. Questo é utile e questo le basta ; la
fluidita e la continuitá non l'interessano. Poi, per le esigenze della vita
pratica e sociale, l'intelligenza da alle cose esterne un nome, estensibile ad
un'infinita di oggetti. Nascono cosl le idee, i concetti, che naturalmente sono
este- riori fra loro, come i modelli sui quali furono formati; sono fissi ed
inerti come il mondo dei solidi; sono simboli piú leggieri, piú diafani, piú
facili a manipo- lare dell'immagine pura e semplice delle cose concrete. La
logica non é che l'insieme delle regole che bisogna seguire, per maneggiare
questi simboli. I nostri concetti perció sono stati creati da un?atti- vitá che
non era destinata alla speculazione pura, ma era orientata verso l'azione :
dall”azione soltanto eb- bero origine le idee generali. Se si riflettesse a
questo, scomparirebbe il circolo vizioso che il problema delle idee generali
sembra pre- sentare : per generalizzare bisogna astrarre, ma per astrarre
utilmente bisogna saper generalizzare. Intorno a questo circolo gravitano concettualismo
e nomina- lismo, ognuno dei quali ha sopratutto per sé l'insuf- ficienza
dell”altro. 1 nominalisti hanno il torto di non dirci come mai il nome generale
puó applicarsi a L'intelligenza e LA LINGUA molti oggetti, se questi non
presentano rassomiglianze tra loro, se cioé la generalizzazione non fu
preceduta da una estrazione di qualitá comuni. Í concettualisti -si dimenticano
di dirci se le qualitá individuali, anche isolate con uno sforzo di astrazione,
non restano indi- viduali come prima, e se per apparire comuni non hanno dovuto
giá subire un lavoro di generalizzazione. Gli uni e gli altri suppongono che
noi partiamo dalla per- cezione di oggetti individuali. Ora questo postulato e
falso. La nostra percezione delle cose ha origini tutte utilitarie. Ció che ci
interessa in una data si- tuazione e ció che cogliamo dapprima, é il lato per
cui essa pud rispondere ad una tendenza o ad bisogno: ed il bisogno va diritto
alla qualita, alla rassomiglianza, e non ha a che fare colle differenze
individuali. Questa rassomiglianza agisce oggettivamente come una forza e
provoca reazioni identiche in virtú della legge tutta fisica che vuole che gli
effetti d'insieme seguano le stesse cause profonde. L”identitá di reazioni ad
azioni superficialmente diverse e il germe che la coscienza umana sviluppa in
idee generali. Siamo quindi libe- rati dal circolo vizioso, nel quale
sembravamo rinchiusi: per generalizzare, dicemmo, bisogna astrarre le rasso-
miglianze, ma per far questo bisogna giá saper gene- ralizzare. La verita e che
la rassomiglianza dalla quale lo spirito parte, quando dapprima estrae, non é
la rasso- miglianza alla quale giunge, quando, coscientemente, generalizza.
Quella da cui parte é una rassomiglianza sentita, vissuta, automaticamente
rappresentata; quella a cui riviene é una rassomiglianza intelligentemente per-
cepita o pensata. Nel corso di questo progresso si co- struisce l'idea chiara
della generalitá, che ai suoi inizi non era che la coscienza d*un'identita
d'attitudine in una diversita di situazioni. Con uno sforzo di riflessione
siamo passati all'idea generale del genere, per for- mare poi un numero
illimitato di nozioni generali, le O. Esposizione della filosofia bergsoniana
quali perció nacquero non dalla speculazione disinte- ressata, ma dallazione.
Da questa ebbero origine anche tutti i prin- cipii. Nel congresso di filosofía,
tenutosi a Parigi, Bergson cerca di dimostrare questa tesi, per quello che
riguarda il principio di causalita. In quella sua Note sur les origines
psychologiques de notre croyance ú la loi de causalité, egli so- stenne che la
nostra credenza a questa legge € vissuta dal nostro corpo, prima di essere
pensata dal nostro spirito. L*acquisto graduale di questa credenza non fa che
una cosa sola con la coordinazione progressiva delle nostre impressioni tattili
alle nostre impressioni visuali, coordinazione che implica l'intervento di mo-
vimenti e sopratutto di tendenze motrici. La percezione ripetuta di una forma
visuale determinata crea in noi un'aspettazione macchinale di percezioni
tattili deter- minate ; la forma visuale, che si continua cosi rego- larmente
in resistenza, ci appare a poco a poco come la causa di questa resistenza. Ed a
poco a poco anche le forme visuali in generale, vale a dire gli oggetti
esteriori, ci appaiono come forze che agiscono rego- larmente le une sulle
altre. La riflessione, esercitan- dosi su questa credenza, deduce il principio
di cau- salita sotto la sua forma precisa e scientifica. La necessita inerente
alla legge di causalitá si muove cosl tra due limiti estremi: da necessita
vissuta di- viene necessita pensata. Empirismo ed apriorismo si accordano a non
tener conto che della seconda di queste due forme della necessita; € per questo
che Questa analisi sull'origine e la natura delle idee generali si trova in
Matiére et Mémoire, pag. 169 e seg. Questo discorso si trova in Bibliot. du
Congrés Intern, de Philos., Vol. 1, Philos, gén. et meétaphys., L’intelligenza
ed LA LINGUA né Puno né l'altro ci dá una spiegazione veramente psicologica
della nostra credenza ai principii. xk Se ¡ concetti, le idee, i principii
derivano non gia dalla speculazione, ma dalla vita, e precisamente dalle
relazioni nostre con la materia bruta, € evidente in- nanzi tutto che
l'intelligenza raggiunge con essi la realtáa, quando si ferma nel dominio della
materia inerte. L'azione nostra non potrebbe muoversi nell’irreale e perció,
purché non si consideri della fisica che la sua forma generale e non il
dettaglio della sua realizzazione od il simbolismo delle sue leggi, pud dire
che essa tocca l'assoluto. S1, ripeteva Bergson contro coloro che lo accusavano
di anti-intellet- tualismo; io dico che quando l'intelligenza umana e la
scienza positiva si esercitano sul loro proprio 0g- getto, sono in contatto col
reale e penetrano sempre piú nell'assoluto (3). Ma il male é, che quando
Pintelligenza opera non piú sulla materia bruta, ma sulla durata reale o sulla
vita (che, come vedremo, presenta tutti caratteri della durata), tratta il
vivente come l'inerte, applicando al novello oggetto le stesse forme, proprie
dei corpi inorganizzati, trasportando nel nuovo dominio le mede- simi abitudini
contratte nell'antico campo (4). Ed essa ha ragione di farlo, poiché a questa
condizione soltanto, il vivente offrirá alla nostra azione la stessa (1) Ho
utilizzato il sunto fedele che del discorso del Bergson diede la Revue de
Métaphys. et de Mor.. Évol. cr. BERGSON ; A propos de l 'Evolution de Pintelligence géome-
trique, in Revue de mél. et de mor ale, vol. cr. Esposizione della filosofia bergsoniana presa della
materia inerte. Ma resti inteso che la ve- rita alla quale allora si giunge,
diviene tutta relativa alla nostra facoltá di agire e non é piú che una ve-
rita simbolica, Nel nuovo dominio l'intelligenza non é piú un sole che illumina
il mondo, ma una lanterna manovrata al fondo d'un sotterraneo. q Noi peró
dimentichiamo tutto questo, sedotti dalla grande causa di mille errori, il
linguaggio, Creato per designare le cose e null'altro che le cose, il
linguaggio, quando lo si applica alle idee, esige che noi vi stabiliamo le
stesse distinzioni nette e precise, la stessa discontinuita che c'é tra gli
oggetti mateteriali. Si vuole una prova convincente? Quando noi diciamo che
nella nostra durata molti stati di coscienza s*organizzano tra loro, si penetrano,
s'arric- chiscono sempre piú; adoperando la parola « molti », abbiamo isolati
questi stati, li abbiamo esteriorizzati e glustaposti; coll'espressione stessa,
alla quale eravamo obbligati a ricorrere, abbiamo tradito l'abitudine pro-
fondamente radicata di sviluppare il tempo nello spazio (3). Per portare un
altro esempio: quando si dice «il fanciullo diviene uomo », se riflettessimo
bene, vedremmo che allorché poniamo il soggetto « fan- ciullo », Pattributo «
uomo » non gli si addice ancora, e quando enunciamo l'attributo « uomo » questo
non si applica gia piú al soggetto « fanciullo ». La realta, che € la
transizione dall'infanzia all” etá matura, a ci e sfuggita, ci € sdrucciolata
tra le dita. Fot et Vie 1911,
fasc. IV, PD. 421: BERGSON : Les réalitlés que la Science n'atteint pas. Essaz, pag. VII. (3) Z01d., pag. 92-3. (4) Evol. cr..
A AA == Il nostro modo abituale di PARLARE € consono alle abitudini
cinematografiche della nostra intelligenza € non sa cogliere 1”aspetto
infinitamente mobile ed ine- sprimibile, che ci presentano le percezioni, le
sensa- zioni, le emozioni, le idee, senza fissarne e distrug- gerne la
mobilita. É LA LINGUA – cf. H. P. GRICE, “NEGATION AND PRIVATION’, “PERSONAL
IDENTITY” -- che ci fa confondere il sentimento intimo in perpetuo divenire,
coll'oggetto esteriore che lo causa e con la parola che esprime questo oggetto,
facendoci attribuire alle impressioni, che cangiano continuamente, contorni
precisi e l'immobilitá. E LA LINGUA che ci fa solificare le nostre sensazioni. Un
sapore, un profumo mi sono piaciuti quando era fanciullo ed ora mi ripugnano.
Tuttavia io do ancora lo stesso nome alla sensazione provata e parlo come se il
profumo ed il sapore sono restati identici ed i miei gusti soli avessero
cambiato. Mentre tutte le sensazioni si modificano ripetendosi, LA LINGUA ci fa
credere alla loro immobilitá. La parola dai contorni ben definiti, la parola
brutale, che immagazzina ció che c'é di stabile, di comune, d’impersonale nelle
impressioni dell?umanitaá, schiaccia o almeno ricopre le impressioni delicate e
fuggitive della nostra coscienza individuale e specialmente i nostri
sentimenti. Essa deforma l”originalitá d'un amore violento, d'una melanconia
profonda; separa nella loro massa confusa una molteplicitá d’elementi che
dispone poi in un mezzo omogeneo; ruba ai nostri sentimenti la loro
indefinibile animazione, il loro colore, e poi vi appiccica sopra un nome e li
erige in un genere; e dopo aver spogliato questi stati d'animo di tutto ció che
essi avevano di intimo, di personale, di tutte le loro sfumature fuggenti e
delle lora risonanze profonde, pretende di averci fatto cono- Essaz, -- scere
meglio noi stessi, mentre non ha fatto altro che stendere dinanzi a noi la tela
abilmente tessuta del nostro io convenzionale. THE CLOSEST H. P. GRICE GETS TO THIS IS IN THE
CONCLUDING WILLIAM JAMES LECTURE, HARDLY DISCUSSED – on thinking and meaning. Anche riguardo alle nostre idee, se le cogliessimo in
sé stesse, ci accorgeremmo che la dissociazione dei loro elementi costitutivi,
che mette capo all*astrazione, per quanto comoda nella vita ordinaria e nella
discus- sione filosofica, assomiglia alla dissociazione degli stati di
coscienza. Anche le nostre idee hanno uno slancio comune, presentano una
penetrazione mutua; esse non hanno la forma banale, che loro dá il lin-
guaggio, ma vivono in noi come cellule in un orga- nismo, modificandosi ad ogni
nostra mutazione. Certo, non tutte queste idee si incorporano cosi alla massa
dei nostri stati di coscienza: quelle che riceviamo tutte fatte, che rimangono
in noi senza venir assimi- litate dalla nostra sostanza e che giacciono
dissecate nell'abbandono, sono adeguatamente esprimibili con parole; ma se
penetriamo negli strati piú profondi dell'io, assisteremo alla fusione intima
di idee, che, una volta dissociate, sembrano escludersi sotto forma di termini
logicamente contradditorii. X Con tutto questo noi non disprezziamo I'intelli-
genza né neghiamo /utilitá del linguaggio, come non contestiamo l'importanza
dei biglietti di banca. La nostra vita esteriore e sociale esige giustamente
che sotto l'estensione reale delle cose noi stendiamo uno spazio omogeneo; che
sbocconcelliamo la fluida con- tinuitá della durata in tanti momenti ben
distinti, in Essat pag. 99 e seg.; Le Rire, pag. 157. Essaií La perception du
changement, pag. 5. L'intelligenza e LA LINGUA ls 'tanti stati nettamente
caratterizzati; che applichiamo al vivente i concetti, le idee, LA LINGUA
derivati dalla materia inerte. Solo a questo modo, con questi principi di
divisione e di solidificazione, la nostra attivita pud avere dei punti di
applicazione: nulla di piú legittimo nel campo dell'azione. Ma pretendere di
penetrare la natura intima ed il fluire concreto della realtá CON QUESTA
LINGUA, con questi schemi rigidi, con queste idee generali, con queste
astrazioni concettuali, significa voler trasportare nella speculazione pura un
procedimento fatto pella vita pratica. Se non vogliamo BALOCCARCI CON SIMBOLI,
praticamente utili, ma assolutamente inefficaci nel raggiungimento dell'assoluto;
se vogliamo arrivare ad una conoscenza disinteressata ma vera; Se vogliamo la
filosofia; dobbiamo avere il coraggio di atterrare con mano inesorabile
GL’IDOLI DELLA LINGUA ed i concetti dell'intelligenza. a - Aya pe y EE (5
L'Intuizione L”intelligenza umama - tale è la conclusione - non e affatto
quella che ci mostra l’accademia nell”allegoria della caverna. Essa non ha
l’ufficio di guardare ombre vane che passano, né di contemplare voltandosi
l”astro splendente. Ha da far altro: aggiogati, come bovi da lavoro, ad un
compito pesante, noi sentiamo il giogo dei nostri muscoli e la resistenza della
terra; agire e sapersi agire, en- trare in contatto colla realtá e anche
riviverla, ma solo nella misura in cui interessa il lavoro che si fa ed il
solco che si apre, ecco la funzione dell'intelligenza umana. O la filosofia
quindi non € possibile ed ogni conoscenza delle cose é una conoscenza pratica
orientata verso il profitto che vogliamo trarre, oppure filosofare consiste non
giá nel prendere delle idee gia fatte per dosarle e per combinarle insieme, ma
nel rovesciare, nell'invertire il lavoro abituale del pensiero, nel porsi nel
oggetto stesso, nel tuffarci d'un colpo nel fluire della durata per adottarne
la direzione mutevole senza posa, e per afferrarla con uno sforzo d'intuizione.
Che cos'é quest'intuizione? Évol cr., trad. Papini. Introd. a la Métaph., trad.
ital., Se ¡o potessi coincidere per un istante col personaggio d’un romanzo, di
cui mi raccontano le avventure, la mia conoscenza non sarebbe relativa ed
imperfetta, ma mi parrebbe di veder sgorgare naturalmente, come dalla sorgente,
le sue azioni, i suoi gesti, le sue parole. lo coglierei ció che costituisce la
sua essenza in tutta la completezza delle sue perfezioni, e proverei un
sentimento semplice, che si presterebbe nello stesso tempo ad un apprendimento
indivisibile e ad una inesauribile enumerazione. Ecco che cos’e l'intuizione: e
quella specie di simpatia divinatrice, per cui ci si trasporta nell'interno di
un oggetto per coincidere con ció che ha di unico e per conseguenza
d’INESPRIMIBILE; e quell'auscultazione intima che ci fa accostare alla realtá,
per sentirne palpitare l'anima e vi s’inserisce, per coglierla AL DI FUORI
D’OGNI ESPRESSIONE, traduzione, o RAPPRESENTAZIONE SIMBOLICA. Essa sola, dove é
possibile, pud darci la vera metafísica, la scienza cioé che vuol fare a meno
dei simboli e che raggiunge l’assoluto. Diciamolo subito. Questa facoltá non ha
nulla di misterioso. Non é necessario, per andare all'intuizione, di
trasportarsi fuori del dominio dei sensi e della coscienza, come falsamente
crede Kant. Essa Z01d., pag. 13-17. Bergson nell'Zntrod. a la Met. (scritta nel
1093) diceva « simpatia 2ntellettuale ». Ma come bene osservano il Ségond ed il
Le Roy, egli dopo 1'Evolution créatrice, non userebbe piu quella parola. (3)
Zntrod. a la Mét., trad. ital., Z. (5) Zótd., Zbtd., L’intuition philosophique,
riv. cit., pag. 827. non é altro che uno sforzo penoso, perfino doloroso, di
risalire la china abituale del lavoro del pensiero (1), di disfare i prodotti
artificiali creati dall'intelligenza per facilitare la nostra azione sulle
cose, di mettersi subito per una specie di dilatazione intellettuale
nell*oggetto che si studia, per andare dalla realtá ai concetti e non dai
concetti alla realtá. Gli inizii di questa intuizione filosofica sono segnati
dal buon senso. Questo, che tanto differisce dal senso comune, é un senso del
reale, del concreto, dell*originale, del vivente, un'arte di equilibrio e di
precisione, un senso della complessitá, in palpazione continua, come le antenne
di certi insetti. Esso implica una certa diffidenza della facoltá logica di
fronte a sé stessa; fa una guerra incessante all'automatismo in- tellettuale,
alle idee tutte fatte, alla deduzione lineare. Si preoccupa sopratutto di
collocare e di pesare senza nulla disconoscere ; arresta lo sviluppo di ogni
prin- cipio e di ogni metodo al punto preciso in cui un*ap- plicazione troppo
brutale offenderebbe la delicatezza del reale; ad ogni momento raccoglie
l'insieme della nostra esperienza e l'organizza in vista del presente. Esso, in
una parola é pensiero che si conserva libero, attivitá che sta in guardia,
flessibilitá di attitudine, attenzione alla vita, accomodamento sempre
rinnovato a situazioni sempre nuove. Da questo contatto mobile col dato, da
questo sforzo vivente di simpatia, deriva la sua virtú rivelatrice. Ecco ció
che noi dobbiamo tendere a trasportare dall'ordine pratico all*ordine spe-
Zntrod. dá la Met. BERGSON: Le bon sems et les études classiques, discorso pronunciato
alla distribuzione dei premi del Concorso generale. Esposizione della filosofla
bergsoniana culativo (1) e che gia abbiamo compiuto, quando spo- gliandola dai
simboli che la ricoprivano, abbiamo cercato di cogliere la durata del
nostro.io. Mentre l'intelligenza, costretta a prendere delle vedute immo- bili
sul movimento e a scoprire ripetizioni lungo ció che non si ripete, attenta a
dividere comodamente l'indivisibilita della nostra coscienza, era obbligata a
gilocar d*astuzia con la realtá e ad assumere in faccia ad essa un'attitudine
di diffidenza e di lotta, noi ab- biamo trattato questa realtáa en camarade,
abbiamo simpatizzato col nostro io, e con questo sforzo d'in- tuizione abbiamo
oltrepassato l'intelligenza. ES * X Queste parole suggeriscono subito l'idea di
un cir- colo vizioso. Invano si dirá, pretendete di andar piú in lá
dell'intelligenza ; come otterrete questo, se non con l'intelligenza stessa ?
L'obiezione si presenta naturalmente allo spirito, ma con un simile
ragionamento si proverebbe l'impos- sibilitá di acquistare qualsiasi abitudine
nuova. L*es- senza del ragionamento sta nel rinchiudersi nel cerchio del dato.
Ma l'azione rompe il cerchio. Se voi non aveste mai visto nuotare un uomo, mi
direste forse che nuotare é una cosa impossibile, giacché per im- parare a
nuotare, bisognerebbe cominciare a reggersi nell'acqua, e per conseguenza saper
nuotare di gia. Infatti il ragionamento m'inchiodera sempre alla terra ferma.
Ma se io mi butto nell'acqua senza aver paura, dapprima mi sosterró alla
meglio, dibattendomi contro di essa, a poco a poco mi adatteró a questo nuovo
Il sunto di questo discorso sul buon senso € dato dal LE ROY, op. cit., pag.
135. Di esso mi sono servito. Z'intuition philosophique, riv. cit. pag.
824-825.ambiente e impareró a nuotare. Cosi, in teoria, é un assurdo voler
conoscere altrimenti che coll'intelligenza, ma se si accetta francamente il
rischio, l”azione toglierá forse il nodo che ha intrecciato il ragionamento e
che questo non scioglierá. Ma se la metafisica deve procedere per intuizione,
se l'intuizione ha per oggetto la mobilitá della durata, e se la durata €
d'essenza psicologica, non corriamo il rischio di rinchiudere il filosofo nella
contemplazione esclusiva di sé stesso ? La risposta a questa difficolta dev'essere
data da tutto l'insieme dell'opera bergsoniana, che procurerá di mostrare come
noi possiamo simpatizzare con altre realtá ed inserirci in esse con uno sforzo
di immagi- nazione. Questo lo possiamo giá comprendere fin d'ora, osservando
che l'intuizione di cui parliamo non é un atto unico, ma una serie indefinita
di atti, tutti senza dubbio, del medesimo genere, ma ciascuno di una specie
particolare, e che questa diversita di atti cor- risponde a tutti i gradi
dell'essere. Se io cerco di analizzare la durata, cioé di risolverla in
concetti belle fatti, sono obbligato a prendere sulla durata in generale due
vedute opposte, colle quali, dopo, tenteró di ricomporla. Diró che da una parte
c'é un*unitá e dall'altra una molteplicita di stati di coscienza e che la
durata e la sintesi di questa unita e di questa molteplicitá. Questa
combinazione, che ha del resto qualcosa di miracoloso e di misterioso, non pud
presentare né una diversitá di gradi, né una varietá di forme e di sfumature:
in questa ipotesi non c'é e non ci pud essere che una durata unica. £vol. cr.,
(trad, Papini). Esposizione della filosofia bergsoniana Ma se invece di voler
analizzare la durata e di farne la sintesi con dei concetti, ci s'installa
subito in essa con uno sforzo d'intuizione, si ha il sentimento di una certa
temsione ben determinata, di cui la stessa determinazione appare come una
scelta fra un'infinita di durate possibili. Allora scorgiamo tante durate
quante vogliamo, tutte molto differenti tra loro, benché ciascuna di esse, ridotta
a concetti, si riconduca sempre alla medesima combinazione indefinibile del
molteplice e dell'uno. Cosi l'intuizione della nostra durata, ben lungi dal
lasciarci sospesi nel vuoto, come farebbe la pura analisi, ci mette in contatto
con tutta una con- tinuitá di durate che dobbiamo tentar di seguire, sia verso
il basso sia verso l'alto: mei due casi possiamo dilatarci indefinitamente, con
uno sforzo sempre pid violento; nei due casi trascendiamo noi stessi. Nel primo
andiamo verso una durata sempre piú sparpagliata, i cui palpiti, piú rapidi dei
nostri, dividendo la nostra senzazione semplice, ne diluiscono la qualitá in
quantitá: al limite sarebbe il puro omogeneo, la pura ripetizione, colla quale
definiremo la materialita. Andando nell*altro senso, andiamo ad una durata che
si tende, si serra, si intensifica sempre piú: al limite sarebbe l'eternitáa.
Non piú leternitá concettuale, che e eternitá di morte, ma una eternitá di
vita. L'in- tuizione si muove fra questi due limiti estremi e questo movimento
é la stessa metafísica. * *x* Voi vi contradite, hanno osservato altri; se la
nostra intelligenza ha delle abitudini statiche, come potrá comprendere il
flusso del reale? A Wildon Carr che gli presentava questa obie- Introd. á la
Mét. trad. ital. Proceedings of Aristotelian Society. L’intuizione zione,
Bergson rispose che la nostra intelligenza e cir- condata da una frangia
d'intuizione che ci permette di simpatizzare con ció che c'é di propriamente
vitale nella vita. Se a questa frangia si vuol dare il nome d'intelligenza, si
é liberi di farlo, ma si estenderá troppo il senso della parola; ed a dire il
vero, questa frangia d'intuizione sembra che rassomigli meno alla intelligenza
che all'istinto, che é quasi l”opposto del- Pintelligenza. . Siccome questo confronto
tra imtuizione e istimto ricorre spesso nella pagine di Bergson e diede luogo a
molti malintesi, contro i quali egli stesso ha prote- stato (2), € necessario
ricercare quale sia il pensiero preciso del filosofo francese. Nell Evolution
créatrice, quando affronta il pro- blema della vita, Bergson tenterá di
mostrare che la vita, dalle sue origini in poi, non é che la continua- zione
d'un solo e medesimo slancio, che si € poi di- viso in linee di evoluzioni
divergenti (3). Lo sviluppo di quell”unico impulso ha dissociato cosl tendenze
che non potevano crescere al di lá di un certo punto, senza divenire
incompatibili tra loro; ma che peró, nonostante la divergenza dei loro effetti,
conservano qualche cosa di comune per l'identitá della loro ori- gine. Cosi, ad
es., lo slancio iniziale s'é scisso in in- telligenza nell”uomo e in istinto
negli-«animali, in modo che ogni istinto concreto é mescolato d'intelligenza ed
ogni intelligenza reale e penetrata d'istinto. É per questo che noi non siamo
pure intelligenze, ma che intorno al nostro pensiero concettuale e logico é re-
Cír. Proceedings of Arist. Society. A propos de l'évolution de l'intell. géom.,
riv. cit., pa- gina 30. (3) vol. cr., . Esposizione della filosofia beresoniana
stata una nebulosita vaga, fatta della sostanza stessa alle cui spese si €
formato il nocciolo luminoso che noi chiamiamo intelligenza (1); accanto alla
zona ri- schiarata, c'é una frangia oscura che va a perdersi nella notte. Se
questa frangia indistinta esiste, essa deve avere per il filosofo una
importanza maggiore del nucleo lu- minoso che essa circonda (3). Che pud essere
infatti questa frangia inutile, se non la parte del principio. evolventesi, che
non si € ristretta alla. forma speciale della nostra organizzazione e che € passata
in contra- bando? (4). Ed appunto perché questa intuizione vaga non c'é d'alcun
aiuto per dirigere la nostra azione sulle cose, azione interamente localizzata
alla super- ficie del reale, non possiamo noi presumere che essa non si
esercita semplicemente in superficie, ma in profonditá ? É qui dunque che
dobbiamo cercare le indicazioni per dilatare la forma intellettuale del nostro
pensiero; é qui che attingeremo lo slancio ne- cessario per innalzarci al
disopra di noi stessi (6) e per trovare certe potenze complementari
dell'intelletto, potenze di cui non abbiamo che un sentimento con- fuso, quando
restiamo in noi, ma che si rischiarano e si distinguono, quando percepiscono sé
stesse al- Popera, nellevoluzione della natura. La conoscenza intuitiva di questa
frangia ha molta rassomiglianza colla conoscenza propria dell'istinto. Cosi
disse Bergson al Congresso di filos. di Parigi nel 1900 in una discussione col
Weber. Cfr. Revue de métaph. et de morale. Settembre 1900, pag. 662. (3) Evol.
cr.L’intuizione 63 Per quanto l'istinto non abbracci che la piccolissima
porzione di vita che l'interessa e sia necessariamente specializzato ; per
quanto si esteriorizzi in azione, in- vece di interiorizzarsi in coscienza e
tenda assai verso l'incoscienza ; pure bisogna riconoscere che esso € orientato
verso la vita e non fa altro che continuare il lavoro per il quale la vita
organizza la materia, a tal punto che non sapremmo dire dove finisce l'orga-
nizzazione e dove comincia l'istinto. II quale coglie il suo oggetto, al di dentro,
non per un processo di conoscenza, ma per un'intuizione vissuta piuttosto che
rappresentata, che rassomiglia senza dubbio a ció che noi chiamiamo simpatia
divinatrice. Lo ripetiamo : questa simpatia ha un oggetto limitato ed é
incapace di riflettere su sé stessa; in ció sta la sua deficienza.
L'intelligenza invece, benché dapprima si concentri sulla materia e si adatti
agli oggetti del di fuori, pure giunge a circolare tra essi, a rovesciare le
barriere che le si oppongono, ad ampliare indefinitamente il suo regno. Una
volta liberata, pud piegarsi all'in- terno e risvegliare le virtualita
d'intuizione che son- necchiano ancora in essa e che altro non sono se non una
specie d'istinto, divenuto disinteressato, cosciente di sé stesso, capace di
riflettere sul suo oggetto e di allargarlo indefinitamente (2). Bergson quindi
— come scriveva nel 1908 in un arti- colo apparso nella Revue de métaphysiqueet
de morale non pretende di sostituire all'intelligenza qualcosa di differente o
di preferirle l'istinto. Egli vuole sol- tanto che, quando si abbandona il
dominio degli og- getti materiali e fisici, per entrare in quello della vita e
della coscienza, si faccia appello a un certo senso della vita che s'oppone
all'intelletto puro e Life and Consciousness, riv. Cit., pag. 44. O.
Esposizione della filosofia bergsoniana E. AE EN ONIS che ha la sua origine nel
medesimo getto vitale del- listinto, benche l'istinto propriamente detto sia
tutta altra cosa. Che Pintuizione sia possibile, che l'uomo possa distogliere la
sua attenzione dal lato praticamente in- teressante dell'universo, per
rivolgerla verso ció che praticamente non serve a nulla, e ció che ci sugge-
risce l'esistenza in noi di una facoltá estetica accanto alla percezione
normale (2). Nulla come l'arte, pud dirci che cosa sia 1'imtui- zione
filosofica. Non solo, vivendo di creazioni, l'arte pud farci comprendere ció
che é la durata reale e lo slancio vitale; ma inoltre, anche l'artista si pone
per una specie di simpatia nell'interno dell'oggetto e non percepisce piú
semplicemente in vista d'agire, ma solo per percepire, per il piacere, per
nulla. L”osservazione sincera della nostra vita psicologica normale ci mostra
una tendenza costante dello spirito a limitare il suo orizzonte. Nel campo
infinitamente vasto della nostra conoscenza virtuale, noi cogliamo solo ció che
interessa la nostra azione sulle cose e trascuriamo il resto. Prima di
filosofare bisogna vi- vere (5) e vivere significa accettare dagli oggetti sol-
tanto l'impressione utile, per rispondervi con reazioni appropriate: le altre
impressioni debbono oscurarsi o non giungerci che confusamente (6). I sensi e
la co- scienza non ci dánno della realtá che una semplifi- A propos de Pévol.
de Pintell. géomét., riy. cit, pag. 30. (2) Évol. cr., pag. 192. (3) Z01d.,
pag. 49. (4) La perception du changement, Conf. Z61d., Conf. 1, pag. 12. Le
Rtire PIRANDELLO L'intuizione K 67 cazione pratica. L'individualitá delle cose
e degli es- seri ci sfugge tutte le volte che non giova materialmente di
percepirla. E anche lá dove la notiamo, come quando distinguiamo un uomo da un
altro uomo, non é la individualitá stessa che afferra il nostro occhio, ma
soltanto uno o due tratti che faciliteranno il ricono- scimento pratico (1).
Infine per dir tutto, noi non ve- diamo le cose stesse, come non percepiamo i
nostri stati d'animo in ció che hanno di piú intimo e di ori- ginalmente
vissuto. Ci appaghiamo di solito di leggere le etichette, che il linguaggio
appiccica sul reale (2). Noi insomma ci muoviamo tra generalitá e simboli ; e
affascinati, attirati dall'azione, viviamo in una zona mediana tra le cose e
noi, esteriormente alle cose, ed esteriormente anche a noi stessi (3). Se la
realtá col- pisse direttamente i nostri sensi e la nostra coscienza, se noi
potessimo entrare in immediata comunicazione con le cose e con noi, l'arte
sarebbe inutile, o piut- tosto saremmo tutti artisti, perché allora la nostra
anima vibrerebbe continuamente all*unissono colla na- tura. 1 nostri occhi,
aiutati dalla memoria, ritagliereb- bero nello spazio e fisserebbero nel tempo
dei quadri inimitabili. Il nostro sguardo afferrerebbe a volo, scol- piti nel
vivo marmo del corpo umano, frammenti di statua, belli come quelli della
statuaria antica. Noi sentiremmo cantare in fondo alle nostre anime, come una
musica a volte gaia, ma piú che altro lamentosa, sempre originale, la melodia
ininterrotta della nostra vita interiore (4). Ma nulla di tutto ció é percepito
direttamente da noi, perché tra noi e la natura, tra noi e la nostra stessa
coscienza, s'interpone un velo (trad. Papini).fitto per gli uomini comuni,
leggiero e quasi traspa- rente per l'artista ed il poeta. Di quando in quando,
per un felice accidente, nascono delle anime che coi loro sensi e con la loro
coscienza sono meno attac- cate alla vita. Quando riguardano una cosa, la
vedono per sé stessa (pour elle) e non per sé stesse (pour eux) e ne ritraggono
una visione piú diretta e piú immediata. Se il distacco della vita fosse
completo, se l'anima non aderisse piú all'azione con nessuna delle sue percezioni,
avremmo l'anima di un artista, che eccellerebbe in tutte le arti nello stesso
tempo o piuttosto le fonderebbe tutte in una sola. Ma sarebbe chieder troppo
alla natura. Per quelli stessi fra noi che ha fatti artisti, essa ha sollevato
il velo acciden- talmente e da una parte sola: da ció la diversita delle arti.
Ma sia pittura, sia scultura, poesia o musica, Parte non ha altro oggetto che
di levar di mezzo i simboli praticamente utili, le generalita convenzional-
mente e socialmente accettate, infine tutto ció che ci maschera la realtá, per
metterci faccia a faccia con la realtá stessa (1). L”arte dunque ci mostra che
una estensione delle nostre facoltáa di percepire € possibile, e benché essa
non attinga che l'individuale, ci fa peró conce- pire una ricerca orientata nel
suo stesso senso e che prenda per oggetto la vita in generale (3). Ció che la
natura fa di quando in quando per distrazione e per qualche privilegiato, la
filosofia deve farlo per tutti in un altro modo, conducendoci ad una perce-
zione piú completa del reale, per un certo spostamento della nostra attenzione
(4). L*arte e la filosofia si ri- La perception du changement, Conf. La
perception du changement, Conf. L'intuizione 69 congiungono cosi
nell'intuizione, che é la loro base comune (1); é la stessa intuizione,
diversamente uti- lizzata, che fa il filosofo profondo ed il grande ar- tista
(2). ll senso comune dice che lartista € un idealista e certo é un ri] Filosoña
e realtá X* A questa concezione pura del reale si sostituisce spesso un
equivalente statico. La durata vera cede il posto ad un tempo polverizzato, il
movimento si ri- solve in una serie di posizioni, il cangiamento in una serie
di istantaneita, il divenire in una serie di stati. Con una ingegnosa
disposizione di immobilitá, con un procedimento cinematografico, si ricompone
il movi- mento : operazione praticamente comoda, ma teorica- mente assurda e
gravida di tutte le contraddizioni,, dí tutti i falsi problemi, in cui si
impigliano la meta- fisica e la critica (1), come lo mostra 'un colpo d*oc-
chio sulla storia dei sistemi filosofici (2). Xx * Perché infatti i filosofi
della scuola di Elea dichiara- rono assurdo il movimento? Si esaminino gli
argo- menti di Zenone e si vedrá che essi sono logicamente concludenti, se si
confonde il movimento con la tra- iettoria, vale a dire se si fa coincidere il
moto colla immobilita. a Cerchiamo il principio fondamentale della filosofia
che si sviluppd attraverso l”antichita classica : lo spi- rito deve trovare la
qualita, la forma o essenza, il fine, ció insomma che e refrattario al
cangiamento, sotto il divenire delle cose. Ecco quindi le pure idee immutabili,
alle quali Platone attribuisce un”esistenza vera, e che entrando le une nelle
altre si raggrup- pano in un concetto unico, nella forma delle forme, nell'idea
delle idee, nel motore immobile di Aristotele. Cfr. L'intuition philosophique,
riv. cit., pag. 825. (2) Tutto il Capo IV dell vol. Créat. € dedicato a
dimostrare questa tesi. Questo sistema di concetti fissi, che costituisce la
vera scienza, € completo e tutto fatto dall'eternitá : tutto é dato. Quale sará
allora l'indivisibile sorgente della mobilita? Essendo la negazione della
forma, sfuggirá per ipotesi ad ogni definizione e sará l'indeterminato puro, il
quasi-niente, il non-essere platonico, la materia prima aristotelica. E via di
seguito, fino alle creazioni fantastiche di cosmologie arbitrarie, dedotte
dalla concezione falsa, che € alla base di queste metafisiche. Le quali, nelle
loro grandi linee, corrispondono alla metafisica naturale dell'intelligenza
umana: edé per tale ragione che mille fili invisibili uniscono la scienza
moderna alla filosofia greca. Nonostante le differenze profonde che esistono
tra la scienza nostra e quella degli antichi, i nostri scienziati, costretti
dalle esi- genze pratiche, non considerano altro che il tempo lunghezza e
trascurano il tempo vero, il tempo inven- zione. Da questa negazione della
durata, sorge il determinismo assoluto, che abbraccia la totalitá del reale:
anche per loro, tutto e dato. Descartes sembra dubitare di questo: se da una
parte egli accetta il meccanismo universale, dall'altra crede al libero
arbitrio, che ci fa credere all'inven- zione, alla creazione, alla successione
vera. Tra le due concezioni egli é esitante, ma é purtroppo la prima che la
filosofia posteriore abbraccia con Spinoza e con Leibniz. Per l'uno e per
l'altro, la realtá come la veritá sono integralmente date ab aeterno. Essi
rifiu- tano l'idea di una durata assoluta, come la rifiutano anche il preteso
empirismo moderno, le spiegazioni meccanistiche dell*universo, l”epifenomenismo
mate- rialista, la psicofisiologia e via dicendo. Tutte queste dottrine sono in
ritardo in confronto della critica kantiana. Vedendo nell'intelligenza una
facoltá di stabilire dei rapporti, Kant attribul ai ter- mini dei rapporti
stessi un'origine extraintellettuale. Egli affermó, contro i suoi predecessori
immediati che la conoscenza non é interamente risoivibile in termini
d'intelligenza. Con ció apriva la strada ad una filo- sofía nuova, che avrebbe
dovuto porsi nella materia extraintellettuale della conoscenza, con uno sforzo
su- periore d'intuizione. Ma Kant non si mise in questa direzione ; anch”egli
non pensd ad affermare la realtá sostanziale della durata. Il pensiero filosofico
del sec. xix senti che questa era la via da prendersi. Quando un pensatore
sorse ad annunciare una dottrina d'evoluzione, ove il pro- gresso della materia
verso la percettibilita sarebbe stata delineata insieme alla marcia dello
spirits verso la razionalitá, ed ove si sarebbe seguito di grado in grado la
complicazione delle corrispondenze tra 1'in- terno e l'esterno, ed il
cangiamento sarebbe divenuto la sostanza stessa delle cose, verso di lui si
rivolsero tutti gli sguardi. Ma Spencer non attud il suo pro- gramma. La sua
dottrina porta il nome di evoluzio- nismo e pretende di salire e di discendere
il corso del divenire universale: ma in realtá non era que- stione né di
divenire né di evoluzione. L”artificio or- dinario del metodo spencieriano consiste
infatti nel ricostituire l”evoluzione coi frammenti dell'evoluto. Se incollo
un'immagine sul cartone e taglio poi questo ultimo in pezzetti, io potrei,
raggruppando i piccoli cartoni, riprodurre l'immagine. Ed il fanciullo che cosi
lavora sui pezzi d'un giuoco di pazienza, che giusta- pone i frammenti
d'immagini informi e finisce per ottenere un bel disegno colorato, pensa senza
dubbio d'aver prodotto il disegno ed il colore. Tuttavia 1”atto di disegnare e
di dipingere non ha nessun rapporto con quello di radunare i frammenti di una
immagine gia disegnata e gia dipinta. Nello stesso modo com- ponendo tra l oro
i risultati piú semplici dell*evoluzione, voi imiterete bene o male i piú
complessi ; ma né 180 Esposizione della filosoña bergsoniana degli uni né degli
altri voi avrete delineato la genesi; e questa addizione dell'evoluto
coll'evoluto non rasso- miglierá assolutamente al movimento dell'evoluzione.
Tale tuttavia e l'illusione di Spencer : egli prende la realtá nella sua forma
attuale ; la spezza, la sparpiglia in frammenti che getta al vento; poi integra
questi frammenti e ne dissipa il movimento. Dopo di aver imitato il tutto con
un lavoro di mosaico, e di essersi dato anticipatamente tutto ció che si
trattava di spie- gare, crede di aver compiuta l*opera promessa (1). A questo
falso evoluzionismo bisogna invece sosti- tuire l'evoluzionismo vero, ove la
realtá sia seguita nella sua generazione e nel suo crescere (2). É cid ap-
punto che ha tentato di fare Bergson. Cosi finisce 1”Évolution Créatrice e cosi
termino anch'io lesposizione del pensiero bergsoniano. Come gia dissi al
congresso di Bologna ed in una prefazione agli scritti di Tarde, Bergson
sostenne che per capire il pensiero di un filosofo, bisogna riassu- mere tutte
le sue teorie in un punto unico, straordi- nariamente semplice. Questo punto é
cos) semplice che il filosofo parla tutta la vita senza riescire ad esprimerlo.
Egli non pud formulare ció che ha nello spirito, senza sentirsi obbligato a
correggere la sua formola ed a correggere poi la sua correzione : cos di teoria
in teoria, rettificandosi quando crede di comple- tarsi, non fa altra cosa che
rendere con approssima- zione crescente la semplicitá della sua intuizione ori-
ginale. (1) Évol. Créat., Capo IV passim. (2) Zbid., pag. VI-VII. É questo il
metodo che Bergson vuole che si ap- plichi a tutti i pensatori e quindi anche a
lui: metodo tutto opposto ai tentativi molto in voga e contro i quali egli
protesta, di trascurare ció che di personale vi é in un sistema, per
dissolverlo nelle sue fonti e per ridurlo ad una sintesi di idee di altri
filosofi. Si dove perció cercare di afferrare nella com- plicazione delle
dottrine bergsoniane l'intuizione sem- plice che le anima. Modifichera la
nozione della durata della coscienza con le teorie della memoria e sopra- tutto
della vita, poiché la nostra coscienza che dura e che porta con sé tutto il
peso del suo passato, non ¿ che un frammento della piú grande Coscienza. La
durata e libertá ; ma il concetto di questo dev'essere completato con la concezione
della genesi universale, poiché e lo slancio vitale che e libero e che si
risveglia ad una libertá non perfetta nello spirito umano. La Supracoscienza
poi che dura, con la sua distensione fa sorgere la materialita, e cosi di
seguito. Le opere future di Bergson porteranno nuovi ritocchi, daranno al
pensiero passato un colorito speciale; ma Infiniti sono gli articoli di
riviste, dove si cercano le orí- gini del bergsonismo e si paragona Bergson a
Eraclito, a Plotino, a Kant, a Darwin, a James, a Freud, a Wells, a Balfon,
etc. etc. Non ne cito nemmeno uno, perché, fatta qualche rara eccezione, non
mirano a provare la continuita del pensiero filosofico, ma cercano con
ravvicinamenti, quasi sempre contrari al vero spi- rito di questa filosofia, di
distruggere ció che di originale vi € in Bergson. lo non nego perd che vi siano
analogie tra alcune teorie berg- soniane e le teorie di altri pensatori, ad es.
di Ravaisson, di Paul Janet, di Maine de Biran. Si legga ad es: BERGSON: Prin-
cipes de psychologie et de métaphysique a' aprés M. Paul Janet in Revue
Philosophique, 2% Sem., e lo studio gia citato dello stesso Bergson: /Votice
sur la vie et les oeuures de M. F. Ravaisson-Mollien (Académie des Sciences
morales et politiques, séances des 20 et 27 février 1904). Esposizione della
filosofia bergsoniana l’anima vivificatrice, se é lecito esprimerla con una
formula, è sempre l'intuizione della durata pura. A quanto si dice, il
pensatore francese sta ora stu- diando il problema morale ed il problema
d”oltretomba, memore forse che la filosofia non € solo una medita- zione della
vita, come disse Spinoza, ma é anche, secondo il detto di Platone, una
meditazione della morte. Recentemente agli amici che lo avvicinavano, ai
giornalisti ammessi allintervista, Bergson confes- sava che il mistero dell'al
di lá lo tormenta E Mentre egli sta meditando, ¡o vorrei invitare il let- tore
ad un esame critico delle teorie lealmente e serenamente esposte, per vedere se
Bergson pud ab- bandonarsi davvero alla gioia di aver creato un si- stema
vitale, gioia ineffabile, che, in una lezione al College de France, egli
preferiva a tutti gli onori ed a tutti gli applausi. L’intervista concessa da
Bergson a Verne nell’Intransigeant Igrr. PA > BE; Etudes:"e Life and
Consciousness, riv. cit., pag. 42.Gli ammiratori di Bergson, che nel loro
maesto ac- clamavano « il nuovo Platone », ebbero un giorno una sgradita
sorpresa. Bergson — cosl dicevano alcuni critici — é un grande artista, ma non
e un filosofo. Anche noi lo ammiriamo, se ce lo presentate come un cantore
genialmente ispirato. Le sue dottrine sono davvero creazioni superbe e
fantastiche, degne d'un poeta. Ma se vorreste ostinarvi a ricercare in esse un
sistema filosofico, noi saremmo obbligati a ripetervi Pinvito di Alfred
Fouillée e vi proporremmo di non discorrere piú di Évolution Créatrice, ma di
Imagi- tion créatrice. Questo giudizio molto diffuso, per quanto rara- mente
espresso in una forma cosl crude e sincera, mi sembra ingiusto. Poiché, se
Bergson é sempre un at- tista della parola, se alcune pagine dei suoi libri
ras- somigliano di piú ad un canto dell”Ariosto che non ad un capitolo della
Critica della Ragione pura, tuttavia egli ¿ anche un filosofo per i problemi
che tratta e per il metodo che difende. In un tempo in cui si tentava di
ridurre la filosofia ad un paragrafo delle scienze naturali, Bergson ha sentito
il dovere di discutere i problemi della liberta umana, della spiritualita
dell'anima, dell”unione del- FOUILLÉE: La pensée et les nouvelles écoles anti-
intellectualistes, Paris, Alcan Note critiche A O E AENA GU ANIOS l’anima col
corpo, della natura della vita, dell'origine del mondo e via dicendo. Si potrá
e si dovrá combat- terlo per il modo con cui li ha discussi; ma nessuno puó
negargli il merito di aver compreso che le do- mande: «Chi siamo noi? che cosa
dobbiamo fare quaggiú? dove veniamo e dove andiamo? » sono come egli stesso
proclamava nelle sue recenti confe- renze di Birmingham e di Parigi le
questioni essenziali e vitali, le questioni di interesse supremo, che prime si
presentano al filosofo e che sono o do- vrebbero essere la vera ragione della
filosofia E questi « massimi problemi » Bergson ha cercato di risolverli non
giá con le macchinette, cogli istru- mentini dei laboratorii o con gli altri
famosi ritrovati della filosofia naturalistica, ma con quel metodo in- tuitivo,
che € certo incompleto e che nel suo esclu- sivismo é falso e contradittorio,
ma che rappresenta un'esigenza del metodo filosofico vero. Da queste parole il
lettore avrá gia inteso qual'e il giudizio che io daró del sistema bergsoniano.
lo credo che esso, per quanto abbia segnato un immenso progresso di fronte al
positivismo imperante pochi anni or sono (2), presenta ancora mille errori, che
rovinano spesso le sue tesi pid belle. Sono peró anche convinto che questi
errori non sono una manifesta- zione di uno spirito debole ed inadatto alla
specula- zlone, come potrebbe pensare un osservatore super- ficiale; ma sono
talvolta lespressione di tendenze legittime ed insoddisfatte. BERGSON : Life and
Consciousness in The Hibdert Journal; 1d.: Ame et corps, in Foi et Vie, num.
cit. In questo sono concordi tutti ¡ neoscolastici, dal Farges al Mercier, dal
Tredici al Baeumker. Sottoscrivo quindi, pur dissentendo «dal loro sistema
filo- sofico, al giudizio di alcuni critici italiani.Note critiche Il che
equivale a dire che, per giudicare Bergson, non bisogna fermarsi alle
particolaritá dei suoi scritti, non bisogna considerare atomicamente le varie
teorie, per accontentarsi di una facile critica, puramente e semplicemente
distruttrice. Si deve invece studiare questa filosofia nello spirito che la
vivifica e la sug- gerisce, per colpire in ogni sua parte il tutto, con una
crítica positiva e costruttiva (1). Con tale programma, che non so se sara da
me felicemente svolto ed attuato, ma che certo fu since- ramente voluto, mi
accingo ad esaminare il metodo e le dottrine di Enrico Bergson. KRONER nel
Logos art. cit., pag. 139. Chi volesse avere un saggio di critica, tutto
opposto al mio, pud leggere il recente volume di DAVID BALSILLIE : An
examination of Professor Bergsons Philosophy, London, Williams and Norgate, .
ta e MS A An y (Jal y no 1 ' as A AN ras A ME A r $ Bergson e un filosofo del
divenire. La realtá per lui é un movimento senza mobile, € un flusso con-
tinuo, e durata. Nell”esposizione delle teorie bergsoniane, non si 8 fatto
altro che ripetere con una insi- stenza significativa questo pensiero, che
venne giusta- mente indicato come l'espressione sintetica di tutta la filosofia
nuova. Da questa concezione fondamentale, Bergson ha dedotto il suo metodo: se
tutto diviene, la realta che in due momenti, anche consecutivi, cangia
qualitativamente non potrá essere espressa con parole comuni, le quali nella
monotonia della loro ripetizione suppongono l'identitá costante di una parte
almeno del reale, e nemmeno pud essere afferrata dall'intel- ligenza con
concetti immobili, rigidi e sempre eguali. Linguaggio e concetti sono utili per
i bisogni imme- diati della vita, per la necessita della pratica, ma sono impotenti
a darci la veritá, che solo pud essere rag- giunta coll'intuizione. lo
prescindo ora dalla premessa bergsoniana, poiché é nella seconda parte di
questo studio che cercherd di confutare la teoria del divenire universale; e mi
limito a considerare il metodo in sé, vale a dire l'odio Cfr. LE ROY: Une
philosophie nouvelle Note critiche del Bergson contro la lingua e contro
l'intelligenza ed il suo ideale di una filosofia intuitiva. Mi sembra che
questo metodo sia in sé stesso contraddittorio. E La lingua, secondo il
Bergson, e la causa di tutti gli errori, 1”origine di tutti gli inganni. Egli
lancia le sue imprecazioni contro'« la parola brutale », Che de- forma la
realtá, che ce ne dá solo un'ombra pallida e fallace, che non riesce a
riprodurre fedelmente le idee veramente nostre, la vita intima della coscienza
e dell'io profondo, l”evoluzione creatrice dello slancio vitale. Eppure Bergson
stesso ha dovuto constatare un fatto. Nell'introduzione del suo Essai sur les
données immédiates de la coscience, egli scrive: « Noi ci esprimiamo
necessariamente con parole » (2). Ed e verissimo: infatti anche i libri di
Bergson si compon- gono di parole; il metodo dell'intuizione viene di- feso con
le parole; con parole sono esposte tutte le sue teorie; perfino la critica
spietata contro il linguaggio e fatta col linguaggio. Non é forse chiaro che se
la teoria bergsoniana del linguaggio fosse vera, se la parola non potesse
davvero esprimere la realtá senza deformarla, anche tutta la filosofia di
Bergson sarebbe falsa? La parola tra- disce la realtá: ora Bergson ha
continuato a parlare; dunque ha continuato a tradire la realtá. Anzi
bisognerebbe aggiungere che la critica stessa del linguaggio € completamente
vana, poiché anche essa é enunciata con parole, In breve: combattere il valore
del linguaggio e ser- Cfr. Essat, Cap. Il passim. (2) Z61d., pag. VII. Il
metodo 11 ' virsi della lingua come se avesse valore, é una con- traddizione.
Se il reale € inesprimibile, rassegniamoci al silenzio. Per essere coerente,
Bergson doveva negare alla filosofia il diritto di esistere, anzi non do- veva
nemmeno dire questo: la logica gli imponeva un assoluto silenzio. Uno dei piú
profondi discepoli di Bergson, Segond ha tentato di ribattere questa accusa ed
ha osservato che la denuncia del verbalismo non é una condanna del pensiero
verbale, poiché quest'ultimo nella sua ispirazione spirituale € orientato
intuitivamente. Ed il Le Roy ha soggiunto che, benché « lintuizione
dell'immediato, a parlare rigorosamente, sia inespri- mibile », pure «la si pud
suggerire ed evocare con metafore e con immagini » (3). lo non negheró che
specialmente l'osservazione del Segond, come meglio apparirá in seguito,
contiene un'anima di veritá; ma perché queste difese possano divenire valide, e
indi- spensabile confessare con schiettezza che Bergson ha per lo meno...
esagerato. Secondo la sua teoria, il Quanto a questa critica della teoria
bergsoniana del lin- guaggio, si vegga: PREZZOLINI, Op. cit., cap. 111, pag.
285-2945 LECLÉRE: Pragmatisme, Modernisme, Protestantisme, Paris, Bloud; CALO:
11 problema della Isbertá nel pen- siero contemporaneo, Milano, Sandron, nota;
KEY- SERLING: Das Wesen der Intuition und ihre Rolle in der Phi- losophie in
Logos, 1912, Band lII, Heft 1, S.; e fu svolta anche da molti neoscolastici,
come ad es. dal PIAT : Insuffisance des philosophies de Pintuition, Paris, pag.
275. Solo perd il PREZZOLINI non si limitó ad una critica negativa. Riguardo
poi alle riserve di LEVI, L'indeterminismo nella filosofia contemporanea,
Firenze, Seeber, pag. 265 e seg. ed alla sua di- stinzione tra il valore
psicologico ed il valore log.co della pa- rola, credo non abbiano piú nessuna
ragione di essere dopo P Evolution Créatrice SEGOND: Z*intuition bergsonienne,
Paris, Alcan ROY Note critiche pensiero verbale, appunto perché verbale, non
pud darci una visione fedele della durata; ogni parola, anche se é
Evolutionisme de M. Bergson in Revue de Philosophte CRESPI: Lo spirito nella
filosofia di Bergson. M. La me- tafisica bergsontanain La Cultura contemporanea
11 metodo razione, ed invece ci ha dato un'altra metafísica, ricca di
contraddizioni numerose, che non si risolvono tuffandosi nel flutto del reale,
ma solo possono essere dissipate da una filosofía, che, pur riconoscendo la
intuizione, non disprezza la ragione ed il concetto. Quali sono questi
concetti, che la filosofia deve adoperare? Le obiezioni di Bergson non
distruggono forse il loro valore ? Due sono le correnti, che in questi ultimi
anni si sono delineate tra i neoscolastici italiani a proposito di questa
questione. Gli scolastici puri stanno fermi all*antico astrattismo aristotelico
ed aderiscono perció a quanto in prege- voli lavori hanno detto il De
Tonquédec, il Farges, il Piat, il Tredici e mille altri (1). Essi, dinanzi al
bergsonismo, ragionano cos]: «E facile mettere di fronte, da una parte la ric-
chezza e la complessitá del reale quale € dato dall*intui- zione, con tutto
quel cumulo di note che rendono ciascuno differente da ogni altro reale e
soggetto alle piú svariate vicissitudini e mutazioni, e dal- altra la povertá,
la semplicitáa del concetto astratto, che non rappresenta una cosa piuttosto
che un'altra, che resta immutabilmente lo stesso nonostante il cam- biamento
delle cose esistenti, —e poi gridare alla loro TONQUÉDEC: La notion de la
vérité dans la Philos. nou- velle, dapprima apparso in Études, come dissi e poi
pubblicata dal Beauchesne, Parigi; PIAT, Op. cit., passim. ; FARGES, op. cit.,
cap. Vl e VII; MARITAIN, art. cif., passim. ; GRIVET: Henri Bergson: esquisse
philosophique in Études, 5 ottobre e 20 novembre 1909 e sopratutto 20 luglio
19ro, etc. 204 Note critiche completa eterogeneitá, e chiamare il concetto una
deformazione della realtá... Ma la cosa merita di essere esaminata un po” piú
profondamente; ammette « la libera scelta » dello slancio incosciente; e
siccome la radice dell'atto li- bero é nella durata, richiede come conditio
sine qua mon della libertá che vibri la nostra personalitá tutta intera ;
distingue perció 1l'io superficiale dall'io pro- fondo ed enuncia la strana
teoria ripugnante alla te- stimonianza della nostra coscienza che gli atti li-
beri sono rari e che molti muoiono senza aver cono- sciuto la vera libertá.
Invece € chiaro che quando, conscio di quello che faccio, scrivo queste righe,
mi sento libero, anche senza far vibrare tutta la lira dei sentimenti e delle
potenze del mio animo (1); é su- perfluo bruciare la casa per far cuocere due
uova. Vi- ceversa, il desiderio della felicita, profondamente in- sito in
ciascuno di noi ed in ciascuna delle nostre azioni, é necessitato. Bergson
afferma che é impossibile definire l”atto li- bero, perché l'eterogeneita
sempre cangiante della du- rata non puó essere rinchiusa in una forma morta.
Poniamoci dal punto di vista bergsoniano; concediamo per ora, senza discutere,
che il flusso della nostra du- rata interiore sia una continuitá perfetta; che
sul teatro della nostra coscienza sia assurdo che si ripro- ducano due volte le
stesse cause; ammettiamo che per un essere finito l'atto libero futuro sia
impreve- dibile. Anche allora, quando dopo d'esser passato FARGES, op. cit., c.
II, passim. A EP VIA per una serie di mutazioni, Pio compie Patto libero, sente
che se elegge quest'azione, potrebbe perú anche non eleggerla o eleggerne
un'altra. Bergson stesso lo riconosce; poiché e costretto a scrivere: «anche
quando si abbozza (on esquisse) lo sforzo necessario per compiere un'azione, si
sente bene che si é ancora in tempo di arrestarsi. In questo fatto sta 1'es-
senza della libertá. Bergson critica tre definizioni della libertáa: «Patto
libero € quello che una volta compiuto, poteva anche non esserlo; é quello che
non si po- trebbe prevedere, anche se antecedentemente si cono- scessero tutte
le condizioni; quello che non é necessa- riamente determinato dalla sua causa».
Ma egli ha dimenticato proprio la definizione esatta : «| P'atto li- bero é
quello che, mentre lo si compie, potrebbe anche non essere compiuto ». Questa
definizione non confonde il tempo con lo spazio, ma si pone nella pura durata
ed esprime esat- tamente un fatto della nostra coscienza; non vale solo per
l'azione compiuta, ma anche e sopratutto per l'azione che si compie; non
incorre nella tautologia che «il fatto, una volta avvenuto, é avvenuto ;
mentre, prima di avvenire, non era avvenuto »; non cade nelle braccia del
determinismo, ma infigge un pugnale nel cuore di questo avversario. Essa, cosa
importante da osservare, non fa nemmeno dell”atto libero un'abitraria creazione
ex nihilo, poichée e la ragione che deve dirigere la volonta. Quando la volontá
vuole un bene che in quelle cit- costanze € ragionevole, non pone un atto
arbitrario, bensi un atto libero: non e Poggetto esterno che de- termina la
volontá, ma e la volonta, che determina sé stessa e potrebbe anche
(irragionevolmente si, e qui Essaz Note critiche sta appunto la colpa o
l'imperfezione e la responsa- bilita personale) non determinarsi. Avere il
dominio dei proprii atti, non significa che questo dominio debba venire
esercitato arbitrariamente, come credono certi illustri positivisti. Non mi dilungo
su questa questione della liberta, perché nel presente studio critico io non mi
propongo di esporre tutte le tesi scolastiche riguardanti i diversi problemi.
Il mio scopo € piú modesto: io vorrei sol- tanto che ¡ lettori si persuadessero
che non é poi per stupido cretinismo o per un decreto di autoritá che i
neoscolastici- moderni alla voce che oggi risuona nel College de France
preferiscono un”altra parola, la cui eco dorme da settecento anni tra le pietre
della vecchia Sorbona e che veniva pronunciata senza scintilllo di metafore, ma
con semplicita profonda da un grande filosofo. Quel filosofo, che gli studiosi
d’allora, accorsi da tutte le contrade d”Europa, ascol- tavano con Paviditá che
oggi tiene sospesa la gio- ventú francese alle labbra di Enrico Bergson, si
chia- mava San Tommaso d'Aquino. Coloro che lo igno- rano, lo possono
disprezzare ; coloro che lo meditano, lo debbono ammirare. MATTIUSSI GRIVET:
4H. Bergson, esquisse philosophique in Études La dottrina L'anima. Un nouveau
spiritualisme » : ecco come vennero denominate dal Belot le teorie bergsoniane
intorno all'anima umana ed ai rapporti dello spirito col corpo (1). E parrebbe
infatti che nessuna parola fosse meglio indicata, per designare questa
filosofia che combatte il materialismo, che riconosce una dif- ferenza di
natura (e non di grado soltanto) tra 1'ani- male e l?uomo, che sente cosi
prepotente il bisogno dell'immortalitá personale. Ma anche qui é necessario
procedere cautamente; poiché, come nel problema della liberta Bergson non sapeva
conciliare la libertá dell'io con la necessita del tutto, cosi in questa
questione non sa conciliare l'unitá dello slancio e lPindividualitáa dei
singoli. Egli si trova molto impacciato. Ci ha sempre detto che la corrente
vitale ha tutti ¡ caratteri della nostra coscienza per ció che riguarda la
durata: lo slancio unico é un tutto indiviso, in cui non vi sono elementi o
stati separati, come i quadratelli d'un mosaico od i gradini di una scalinata;
le molteplici virtualitá si prolungano e si continuano le une nelle altre
insen- sibilmente, come la dolcezza d'un pendio. Ma e gli individui? Dobbiamo
negarne l”esistenza ? No, risponde Bergson: la corrente una, indivisa,
indivisibile, si rami- fica nelll'oscuritá della materia in tante gallerie sot-
terranee ; é un obice che esplode in tanti frammenti, destinati alla loro volta
ad esplodere ancora. Ció che era uno, semplice, indiviso, indivisibile, si
divide, si BELOT osservava peró che questo spiritualismo rischia di fare gli
affari del materialismo. Cfr. Revue philoso- phique, 1897, 1” Semestre, p. 199.
256 Note critiche A A A A suddivide, separa le sue tendenze, crea i regni, le
specie, i viventi tutti! ! Bergson capisce di essersi messo su di una brutta
china ; e, pentito di aver spezzettato l?unita del tutto, cerca di ridurre ai
minimi termini la individualitá dei singoli: un colpo al cerchio ed uno alla
botte. « Gli organismi — egli avverte — piú che individui, hanno la tendenza
all'individualitá » (1) ; « l'individuo é un semplice luogo di passaggio, dove
la vita prende il suo slancio per ascendere piú in alto » (2); non c'é « une
individualité tranchée » nella natura, tanto € vero che quello che voi chiamate
individuo, dipende dai suoi parenti, dai suoi antenati, da tutta la corrente
vitale (3). Insomma, gli esseri viventi non si individualizzano, se non in una
certa misura «dans une certaine me- sure » (4). In tal modo il povero Bergson €
sbattuto da Scilla in Cariddi. E la burrasca e la confusione aumentano :
malcon- tento di aver troppo depressa l'individualita, egli Come si spiegano
tutti questi fatti o datici imme- diatamente dalla coscienza o constatati
dall'esperienza ? Come si spiega che il mio spirito, sostanzialmente identico
nelle sue mutazioni qualitative, non é il tuo, (1) Si veggano a questo
proposito le opere del Wasmann, del Gutberlet, Gemelli, del Salis-Seevis, del
Farges, del Mercier etc. La dottrina che tra il mio spirito ed il principio
vitale d'un bruto c'é una differenza assoluta di natura ? La teoria delllunico
slancio non sa che pesci pi- gliare. Lo slancio bergsoniano € obbligato a
scindersi, e ció € assurdo, perché ció che é indivisibile, non pud dividersi.
Lo slancio bergsoniano importa la ne- gazione dell'individualitá perfetta e
calpesta l”attesta- zione chiara della coscienza. Lo slancio bergsoniano, tende
a porre una differenza solo di grado tra il bruto e l'uomo, contro ció che lo
stesso Bergson é obbligato ad ammettere. Quei fatti sono invece meravigliosa-
mente spiegati dalla filosofia cristiana. Quando un uomo ed una donna — che non
sa- rebbero tali, se tale non fosse stata la realtá in cui sono stati prodotti
ed in cui sono cresciuti — gene- rano un. nuovo essere, il principio vitale di
quest'ul- timo e, secondo Bergson, la stessa anima dei genitori e dei loro
antenati, e l'identico slancio (naturalmente modificato nel corso del suo
sviluppo) che si scinde ancora una volta. L'impossibilitáa di questa scissione
appare subito a chi riflette che ció che é semplice € spirituale non pud
scindersi. Bisognerebbe dunque dire che i genitori creano quest'anima, ma
Bergson non ricorre a questa scappatoia ; la vita creativa im- porta una
potenza infinita. Resta dunque che questa anima, venga creata. 1 genitori
pongono, causano il corpo, ma lo spirito e creato da Dio e col corpo forma un unico
essere. Con cid si chiarisce, perché io sono questo indi- viduo e non un altro;
perche io, pur derivando dai miei genitori, non mi posso confondere con loro;
perché, nonostante le mutazioni successive continue, ¡o rimanga sostanzialmente
identico : perché tra 1'ani- male e Puomo ci sia una differenza di natura,
essendo solo l'anima delluomo che e spirituale e solo questa richiedendo un
intervento creativo diretto. Note critiche Ma allora, domanda Bergson, non é
forse Aena l’organicitá dell'universo? No, perché la filosofia cristiana ha
sempre difeso l’altra grandiosa concezione del LIZIO, che Bergson, essendo il
tipico ebreo, non mostra di conoscere, dell'unione sostanziale dell'anima col
corpo. In questo problema Bergson si é accontentato di parole e di frasi. La
sua teoria, che fa unire la materia e lo spirito in ragione del tempo e non in
ragione dello spazio, non rischiara il mistero. Intanto, se essa fosse vera,
non sarebbe possibile la percezione. L”essenza della percezione consiste in
ció, che il corpo avverte l'azione esterna che si esercita su di esso; in altre
parole, la percezione € d'ordine psicologico. Non basta che il cervello sia un
bureaw telefonico centrale, munito abbondantemente di apparecchi; perché sorga
la percezione, € indispensabile che a questi apparecchi vi sia qualcuno, che
riceva e spe- disca la comunicazione. Orbene, chi mai nella teoria bergsoniana
percepisce il movimento ? Nessuno : non lo spirito, poiché la materia agisce
solo sulla materia e lo spirito é incapace di essere avvertito della pre- senza
di un oggetto per mezzo di un eccitante mate- riale; anche se l”oggetto
materiale é un'immagine, siccome € fuori dello spirito, non rimane in comuni-
cazione con esso. E tanto meno il corpo: il' corpo riceve il movimento e lo restituisce
per un'attivitá tutta meccanica, che non é menomamente di ordine psicologico.
Se dunque la teoria bergsoniana fosse vera, non solo non si comprenderebbe il
sorgere della percezione cosciente, ma non percepiremmo nulla. GRIVET, art.
cit., Études. La dottrina E poi, Bergson chiarisce forse il fatto che la
libertá si introduce nella necessitá e che lo spirito non resta legato dalle
ferree catene del determinismo ? Ci spiega forse come mai lo spirito inesteso
possa avere delle sensazioni estese e percepire la materia indivisa? Ci dice il
modo con cui lo spirito si unisce al corpo, cosi da poter legare i momenti
successivi della durata delle cose e da ottenere il sentimento della tensione ?
Ep- pure era in questa notte che si doveva far luce ed in cui il dualismo
aristotelico ha, secondo me, proiettato un fascio luminoso. Bergson conosce
solo un dualismo volgare, che non sa trovare un punto di contatto tra due
entitá cosl diverse, come l'anima e il corpo, e che ricorre all*ar- monia
prestabilita o ad un accordo fortuito (1). Egli ha ragione di deridere un
simile dualismo, ma ha torto di non voler prendere in considerazione il pen-
siero di Aristotile. Questi, dopo aver dimostrato che due elementi si debbono
distinguere nellluomo, procedeva cosl. Comincia a constatare un fatto sicuro;
il fatto cioé dell'unitá dell'essere umano. É lo stesso uomo che vegeta, che
sente, che si muove, che intende, che vuole. E concludeva che l'anima ed il
corpo non sono uniti tra loro come un pilota ad una nave, ma che la loro unione
é sostanziale, produce cioé e costituisce una sola natura specifica, una sola
sussistenza completa ; lo spirito forma con la materia un solo e medesimo
essere, una sola natura umana, una sola persona. E come avviene questo? Il
principio dell'unita non € certo la materia divisibile, ma 2 l'anima. É lo
spirito che perfeziona la materia, che le comunica l'essere, il moto, la vita,
e le conferisce la sua specificitá : essa informa il corpo, € forma del corpo.
Forma sostanziale Matiére et Mém. Note critiche ed anche unica, in quanto
contiene nella sua potenza eminente tutte le potenze delle forme imperfette :
se il principio vitale in noi non fosse unico, sarebbe an. nientata lP'unitáa
dell'essere umano. Ed allora tutto si spiega : si comprende il sorgere della
percezione sensibile, poiché la materia animata pud essere alterata da una
attivita materiale; le sue sensazioni saranno dotate di vera unitá, perché uno
e semplice é il principio vitale che informa il soggetto senziente, e nello
stesso tempo saranno estese a ca- gione del principio esteso, della materia. Si
spiega la materialitá dell'immagine-ricordo ed anche come ogni funzione
psichica debba avere in noi un riflesso fisio- logico. Ho detto che € anima che
informa gli elementi: ad essa bisogna guardare, per giudicare un organismo,
come per comprendere il significato di una pa- rola bisogna mirare al pensiero
che la vivifica. Che importa quindi se c'é una somiglianza maggiore o mi- nore
di struttura tra l'animale e l'uomo? Per capire un pensiero non si guarda alla
somiglianza materiale delle lettere, ma al suo significato; per giudicare un
vivente si deve guardare alla natura della sua anima. Ho accennato brevemente a
questa dottrina del LIZIO, per venire alla conclusione che con la creazione
degli spiriti singoli non si distrugge 1l”organicitá del tutto. Poiché, siccome
l'anima forma con la materia un intrinseco costitutivo' del vivente, essa
.risentira l'influsso del corpo. E questo corpo é quale 1'han for- mato ¡
genitori, quale l’han preparato gli antenati, e condizionato insomma da tutta
la storia e da tutta la natura : se i genitori furono viziosi, il figlio
porterá le stigmate del vizio e cosl via. Come si vede, questa concezione della
filosofia cri- stiana € consona coi fatti, e basata sui fatti ed ac- cetta
quello che c'é di vero in Bergson. La dottrina 271 Accetta cioé — posto
l'identitá sostanziale dell'io tutte le analisi bergsoniane della nostra vita
psichica, la continuitá dei nostri stati interni, lo scorrimento ininterrotto
del nostro io, che si svolge, ma- tura e cresce in un ritmo irreversibile, dove
il passato si conserva e si prolunga in un presente sempre nuovo. Puód
accogliere la sua denuncia della confusione tra il tempo astratto della scienza
e la durata concreta, le sue splendide confutazioni delle concezioni
atomistiche, spaziali ed associazionistiche dello spirito; pud applaudire anche
alla sua lotta tenace contro la psico-fisica ed il parallelismo
psicofisiologico. Sopratutto solo la filosofia cristiana pud difendere
efficacemente l'immortalitá personale. Bergson ha fondato la sua presunzione di
quest'im- mortalitá nel fatto che il parallelismo € falso e che la vita mentale
trascende (deborde) la vita cerebrale, li- mitandosi il cervello a tradurre in
movimento una pic- cola parte di ció che avviene nella coscienza. L'indi-
pendenza di questa riguardo al corpo dá un grande grado di probabilitá alla
tesi della sopravivenza. Confesso candidamente di non esser mai riuscito a
capire Pentusiasmo di alcuni neoscolastici per la psicofisica e per la
psicofisiologia. L”unione sostanziale dell.anima col corpo importa soltanto che
ogni stato psicologico abbia una ripercussione sullo stato fisiologico, ma non
esige che tra l'uno e l’altro vi sia un perfetto parallelismo, né permette di
formare delle generalizza- zioni scientifiche, le quali, in questo caso, quando
hanno la pre- tesa di essere vere, sono la negazione della storicitá della co-
scienza. Perció pur rispettando la psicofisica e la psicofisiologia, come
rispetto l'astronomia e le altre scienze, non comprendo come si voglia fare di
esse una parte della filosofia. Lo stesso si potrebbe ripetere del nuoyo metodo
introspettivo. Anche in questa questione mi sembra che la Sco- lastica era ben
piú profonda. L”anima spirituale, che ha delle operazioni indipendenti dalla
materia, non dipende da questa nemmeno nell'essere; dissolvendosi dunque
l”organismo, non cessa di esistere. Ecco una prova che non ci dá solo uua
probabilitá, ma una certezza e che prescinde affatto dall'ipotesi
parallelistica. Supposto anche che ad ogni nostro atto psichico corrispondesse
un determinato movimento cerebrale, ció non significherebbe che l'atto psichico
non sia spirituale e che perció lo spirito dipenda dalla ma- teria nei suoi
pensieri. Anche allora sarebbe ragionevole concludere che l’anima, sciolta dal
corpo, nasce ad un'alba che non tramonta mai; sarebbe logico far risuonare il
grido delle eterne speranze in mezzo ai due grandi silenzi, ammirati da Carlyle
e tra ¡ quali viviamo : il silenzio delle tombe ed il silenzio degli astri. La
dottrina La vita. L'£volution créatrice € ritenuta da molti come la parte piú
poetica e meno filosofica dell?opera bergsoniana. Alcuni anzi non la stimano
del tutto degna dell'autore dell” Essai sur les données immédiates. A me invece
sembra che tra l'uno e laltro volume esista un nesso strettissimo e che
1”evoluzione creatrice non sia che la teoria intorno alla durata della
coscienza, applicata logicamente ad una piú grande Coscienza, alla
Supercoscienza. Partendo da questa mia interpretazione, che giudico esatta e
che, spero, sará limpidamente risultata dalla esposizione che ho dato della
filosofia di Bergson, cominceró ad indicare il progresso che la nuova conce-
zione biologica rappresenta di fronte al meccanicismo, per poi enumerare le
asserzioni che mi paiono fanta- stiche od infondate. La biologia di ¡eri voleva
spiegare i fenomeni vitali col giuoco delle sole forze fisico-chimiche ed
accarez- zava la speranza di poter costruire artificialmente la vita. Basterá
ricordare in proposito tutti ¡ tentativi fatti per provare la generazione
spontanea, dal Ba- thybius Haeckelii alla glia di Maggi, dalla glairina di
Béchamp, ai ritrovati di Burke e di Bastian. Basterá accennare alle piante
artificiali di Herrera e di Leduc, ai cristalli viventi di von Schrón, alle
teorie basate sulle proprietá della materia allo stato colloidale o sui
processi catalitici da questi provocati, alle ipotesi dei tropismi, degli ¡oni,
dell'osmosi, alle deduzioni tratte dalle esperienze del Carrel, a tutte insomma
le dot- trine antivitalistiche, che sorsero, brillarono e scom- parvero. Era
tale l'atteggiamento mentale che ormai va lentamente scomparendo della
generazione trascorsa, che ognuna di queste ipotesi attirava subito l”atten-
zione vivissima di tutti; ognuna di esse, anche se strana, suscitava
l'interesse animato di una tragedia grandiosa, nella quale la forza possente
della scienza infliggeva la morte ad un passato tenebroso di bar= barie. E
nessuno si scoraggiava, anche quando la se- veritá della supposta tragedia
terminava miseramente come il famigerato Bathybius Haeckelii e la legge
biogenetica fondamentale nelle allegre amenita di una farsa. Prossimo parente
della concezione meccanica della vita era ritenuto l'evoluzionismo, che, come
bene osserva Bergson, in sé non dice affatto meccani- cismo. Si pud anzi
aggiungere che la ragione principale del trionto delle idee trasformiste € da
ricercarsi nel- l'illusioné degli scienziati, i quali nelle teorie dell'evo-
luzione videro una dimostrazione della loro concezione. Se dalla materia é
sorta la vita, se l'uomo deriva dal- Vanimale, non c'é tra l'inorganico e
organico, tra Puomo e il bruto che una differenza di grado, non di natura. 1
fenomeni vitali non sono piú un enigma; Pistinto e l'intelligenza differiscono
tra loro quantita- La magnifica opera di GEMELLI: ZL'enigma della vita ed
inuovi orizzonti della biología, Ediz. 2*, Firenze, come pure le altre numerose
pubblicazioni dell'egregio biologo. GEMELLI-BRASS : Le falsificazioni di
Haeckel, 3% Edi Firenze. A A AS La dottrina 275 AS A A SE e El Ia OI A
tivamente; ció che proviene da un altro € uguale qualitativamente ad esso. Ecco
la mentalita di ¡eri. Se la generazione passata avesse sospettato che l'e-
voluzionismo nulla diceva in favore dell'idea meccanicistica, il novantacinque
per cento dei cultori delle scienze positive gli avrebbe fatto una accoglienza
non troppo festosa., Dinanzi a questo indirizzo, che con nomi reboanti e con
parole sonore nascondeva un semplicismo an- tifilosofico spaventoso, Bergson ha
la gloria di aver reagito. I suoi critici anche piú spietati hanno confessato
che le splendide confutazioni del meccani- cismo sono la parte piú bella e piú
duratura della sua opera. E per la storia si deve aggiungere che questo € il
motivo per il quale furono rivolte a Berg- son molte ingiurie, che gli fanno
onore (1), e che pro- vano tutt'al piú il basso livello intellettuale, di chi
le ha usate.Bergson ha compreso innanzi tutto la storicitá della vita e con la
sua teoria della vita-durata ha superato il meccanicismo. Spieghiamoci. Un
esploratore ardito, viaggiando in regioni lontane, scopre una tribú, che parla
una lingua affatto scono- sciuta. Procura di farsi intendere con segni e con
gesti, ma non vi riesce. Trova invece un numero considerevole di iscrizioni nei
cimiteri, nei templi, nelle piazze di quella tribú. Quelle iscrizioni sono per
lui oscure come un enigma; ma egli, pieno di speranza, le esamina
pazientemente, distingue le varie lettere, Cfr. nella prefazione gli insulti di
Le Dantec, di Elliot, di Lankester etc. Note critiche giunge a scoprire
lalfabeto di quella lingua e crede con gran probabilita di conoscere l'alfabeto
completo. Ha forse interpretato con questo anche una sola iscri- zione? No: chi
sapesse solo che in esse vi sono tanti a, tanti b, tanti c, ne saprebbe ancora
press'a poco come prima. Chi dei Promessi Sposi conoscesse soltanto quante
migliaia di lettere di un genere, quante migliaia di vocali, quante migliaia di
consonanti vi sono, non avrebbe ancora capito niente del romanzo dello
scrittore lombardo. Chi pretendesse di spie- gare il significato della parola «
Dio », dicendo che Dio significa D + 1 + O, toccherebbe il colmo del ridicolo.
La vera spiegazione ben lungi dal rinchiu- dersi nell'enumerazione e nella
disposizione delle let- tere, va dal pensiero alle lettere; quello spiega
queste e non viceversa. E se l'esploratore, per confermare la sua stranissima
tesi, si balloccasse a mettere in- sieme lettere con lettere, formando
cervellotticamente dei pseudovocaboli, noi gli risponderemmo che le sue sono
parole morte, dove non brilla il raggio del pensiero. Chi volesse proprio
comprendere una iscrizione di quella tribú, non solo deve cercare il
significato delle parole e delle frasi, ma dovrebbe anche ricordarsi che queste
sono nate in una determinata situazione di fatto e che perció i vocaboli di
quella iscrizione hanno il senso che loro ha conferito colui che Il'ha com-
posta. Noi tanto meglio la interpreteremo, quanto piú non ci fermeremo alle
lettere dell'alfabeto, ma sco- priremo il valore delle espressioni, il tempo in
cui fu scritta, l*uomo che la dettó, l'occasione che la sug- gen, la cultura e
il carattere di quell'epoca e via dicendo. Non basta limitarsi alla materialitá
delle parole e delle frasi. La stessa frase sulle labbra di una persona pud
avere un significato ben diverso di quello che ad essa attribuisce un'altra
persona di un'altra epoca, od anche della stessa epoca. Il vero é€ il fatto, ha
detto Vico e lo dice oggi Benedetto Croce e lo ripete anche Roberto Ardigd :
l'espressione e materialmente identica; il pensiero inteso dai tre filosofi €
sostan- zialmente diverso. Per portare un*altro esempio: quando un negoziante
di acquavite parla di « spirito », non intende certo indicare lo « spirito »
dell'idealista, come quest*ultimo a sua volta non intende alludere allo «
spirito » del monadista, né allo « spirito » dello spi- ritista. Non si puó
quindi dimenticare la storicita dell'iscri- zione, storicitáa che fa si che il
significato di essa sia unico. Scritta in un'altro tempo, in altre circostanze,
con le stesse lettere, con le stesse parole, con le stesse frasi, avrebbe
espresso un pensiero differente, corrispondente agli avvenimenti di quel tempo.
E lo stesso si ripeta, se fosse stata composta da un altro individuo o dalla
stessa persona in un momento di- verso della sua vita. Una differenza
qualitativa ci sarebbe sicuramente, se, ben inteso, si considera la iscrizione
nella sua realtá concreta. Finalmente il pensiero dell'iscrizione € uno, pur
nella molteplicita delle idee espresse; si trova in essa quell'unitá di
ispirazione, che si osserva in una strofa, in un inno, in un quadro. Ecco
perché non si pud spiegare l'iscrizione con le lettere di cui consta,
L’iscrizione ha una storia, é storia; le lettere non ne hanno. L'iscrizione é
unica ; le lettere son sempre quelle. L'iscrizione € una; le lettere sono
molte. Con queste riflessioni — che sembreranno infantil- mente elementari e
che pure furono calpestate dal meccanicismo si rimprovera forse all*esploratore
di aver fatto una cosa ¿imutile ? Ma nemmeno per sogno. Egli ha compiuto un
lavoro utilissimo, una prepa- razione necessaria. Ed anche nel caso che per una
felice combinazione fosse arrivato a decifrare il senso di quelle iscrizioni,
Pesploratore, per utilizzare il suo studio, metterá per un momento da parte la
loro sto- ricitá, la loro unicitá, la loro unitá, in una parola la loro
finalitá. Le scomporrá invece in tanti vocaboli, ne catalogherá il maggior
numero possibile, formerá un vocabolario e dará cosi un mezzo utile e indispen-
sabile a coloro che vorranno comunicare con gli abi- tanti di quel popolo o che
vorranno studiarne la let- teratura, la storia, la civiltá. E tutti
applaudiranno alle sue fatiche pazienti, al suo sforzo, al suo successo. olo
allora gli applausi si muteranno ed a ragione — in fischi sonori, quando egli
fosse cos pazzo da pretendere che le parole si debbono spiegare con le lettere,
che ad es. la parola Re s’interpreta, non giá alludendo ad una autoritá
sovrana, ma con R + e; oppure quando, dopo aver finito il vocabolario ed
elencato tutti i vocaboli, credesse di aver riassunto tutta una cultura ed una
civiltá. A chi ci offrisse un dizionario completo della Divina Commedia e
s'illu- desse che tutta ll fosse la poesia di Dante, noi di- remmo: scusa,
questi sono i detriti di quell*opera immortale, non il poema; sono la morte e
non la vita. Quando per riassumere si confonde un procedimento pratico, utile,
se si vuole, e necessario, Op- pure un minimum di veritá, quale ci é dato
dall'a- strazione, con la veritá in tutta la sua concretezza, allora noi
protestiamo. Ebbene, dice press'a poco Bergson: applicate questo al problema
della vita. Le iscrizioni oscure sono gli organismi viventi; eli esploratori
sono gli scienziati che vogliono risolvere e spiegare l'enigma della vita.
Siccome non ne comprendono nulla, cominciano ad esaminare le lettere che
compongono le parole, vale a dire gli elementi fisico- chimici, le molecole,
gli atomi che compongono il vivente. E si pud dire che raggiungono con probabilita
un alfabeto completo. Fin qui tutto va nel migliore dei mondi possibili:; il
loro lavoro, le loro scoperte sono utilissime sotto mille rispetti. 11 male é
che alcuni scienziati si accon- tentano di ricercare le lettere dell”alfabeto,
gli ele- menti fisico-chimici e credono di aver spiegato il mistero, quando
hanno trovato che in un dato orga- nismo, vi sono tante molecole di carbonio,
tante di acqua, etc., non comprendendo che essi sono simili all'esploratore,
che si ostina a pensare d'aver inter- pretata l'iscrizione, perché sa quanti a,
quanti b etc. in essa vi sono. Ed il male si accresce, quando questi biologi si
divertono nei loro laboratori ad accozzare lettere a lettere, elementi ad
elementi, per creare degli esseri vitali, delle parole significative,
senz'accorgersi che é per il pensiero che si hanno tali lettere, € per la vita
che si ha un tale organismo, e non viceversa. Le conseguenze che ne derivano
sono le medesime: l’esploratore poneva in oblio la storicita, 1’unicita,
I?unita dell'iscrizione. 1 meccanicisti non si ricordano che ogni organismo ha
una storia, mentre quest'ultima, come dice il Bergson, sdrucciola sopra gli
elementi, senza penetrarli. L”organismo é unico e non vi sono in nature due
foglie identiche; gli elementi sono eguali. L'organismo € unita; gli elementi
sono nu- merosi. Essi.sono i concomitanti necessari della vita, come le lettere
sono i concomitanti necessari dell'iscri" zione; ma non sono la vita, non
sono il pensiero ; gli elementi sono i detriti dei fenomeni vitali, sono la
morte e non spiegano nulla. Note critiche Senza dubbio, é utile, é necessario
studiare gli elementi ed i loro composti, come é utile, é necessario conoscere
le lettere d'un alfabeto ed il vocabolario di una lingua. Ma come non €il
vocabolario che spiega la lingua, € questa che spiega quello; cosi non sono gli
elementi né loro combinazioni che risolvono l'enigma della vita, bensl €
quellattivita immanente, che ma- nifesta sempre caratteri opposti alla materia.
Ed anche ripetiamolo non si disprezza il lavoro degli esploratori, ossia dello
scienziato; non solo la scienza, come esperienza storica é presa di realta; non
solo, io aggiungo, alcune sue generalizzazioni astratte hanno un valore
teoretico; ma essa e feconda di risultati pratici. Per ottenere i quali, come
l'inter- prete deve trascurare la storicitá, l'unicitá, I*unitá
dell'iscrizione, cosi lo scienziato deve trascurare gli stessi caratteri della
vita. S'intende perd: il suo € un metodo pratico di ricerca, indispensabile per
1'utiliz- zazione della realtá ed anche per poter poi risalire a cogliere la
vita nella sua finalitá concreta; egli com- mette un errore grossolano, solo
quando vuol erigere una regola metodologica alla dignitáa di spiegazione
teoretica e di sistema metafisico. Questa in breve la confutazione bergsoniana
del meccanicismo; che io accetto, sottoscrivendo anche quasi completamente
(dico: quasi, per la teoria da me difesa intorno all'astrazione) cid che
riguarda i rapporti tra scienza e filosofia. Scienza e filosofia marciano in due
direzioni ben diverse; questa verso la storicitá della vita e della coscienza,
quella verso l'antistoricitá degli elementi, BALSILIE nel suo libro: 4x4
examination of prof: Bergson philosophy, London rgr2, sostiene che Bergson é un
meccanista per alcune teorie di Matiére et Mémoire, non gia per le idee
dell'Évolution créatrice. La dottrina della psicofisica, della psicofisiologia;
luna verso il movimento composto di immobilitá e di simultaneita, l'altra verso
il movimento reale; l'una verso il tempo t della fisica, l'altra verso la
durata concreta; l'una verso il meccanicismo, l'altra verso la finalitá; l'una
verso la morte, l'altra verso la vita; la scienza verso Putilita, la filosofia
verso la veritá. Conseguentemente al suo antimeccanicismo, Berg- son contro gli
evoluzionisti d'ieri, i quali con una asserzione che faceva loro poco onore
vedevano nell'uomo un bruto perfezionato e che tra l'uomo e il bruto ponevano
solo una diversitá di grado, affermó la tesi contraria, ossia una diversitá di
natura. Se ¡ suoi pregiudizi contro l'intelligenza rendono talvolta un po”
deboli le sue prove, é un fatto peró che le pagine dell” Évolution Créatrice,
dedicate alla divergenza tra l'istinto e l'intelligenza, contengono molte
verita. Egli anzi ha compreso che la teoria del trasfor- mismo non é nemmeno
una teoria filosofica, e dinanzi a coloro, che nell'ipotessi trasformista
scorgevano un compendio di tutta la filosofia, ha notato che gli importerebbe
molto poco, anche se il trasformismo fosse dimostrato falso. Gli evoluzionisti
non hanno mai afferrato l'anima di veritá, che David Hume insegnó nel suo
Treatise of human nature. L'esperienza — disse Hume ci mostra solamente come un
fatto segue l'altro, ma non ci dá l'intima necessita del loro collegamento; ci
offre cioé un rapporto di successione, non un » Filosofia e realtá » Note
critiche. a) Il metodo pag b) La dottrina » La libertá L'anima » La vita » Dio
Note oriaficho. Piecola Biblioteca di Scienze Moderne Eleganti volumi in-120
Zanotti-Bianco, In cielo. Saggi di ones Cathrein, Il Socialismo Brúcke,
Bellezza e difetti del corpo umano. Con figuro Sergi, Arii e Italici Rizzatti,
Varietá di storia naturale. Eon figure Lombroso, Il problema della felicitá
Morasso, Uomini e idee del domani Kautsky, Le dottrine economiche di C. Marx e
(sequestrato). 9. Hugues, Oceanografia Frati, La donna italiana Zanotti-Bianco,
Nel regno del sole Troilo, 1l misticismo moderno Jerace, La ginnastica e l'arte
greca. Con fifure ; ó > : » . Revelli, Perche si nasce maschi o femmine?
Groppali, La genesi sociale del fenomeno scientifico . z > »» 2,50 16.
Vecchj e D'Adda, La marina De Sanctis, l sogni .De Lacy Evans, Come prolungare
la vita Stratfforello, Dopo la morte Lassar-Cohn, La chimica nella vita
quotidiana, Con figure Mach, Letture scientifiche popolari Antonini, 1
precursori di Lombroso. Con Sgure - á z, »» . Trivero, La teoria dei bisogni
Vitali, Il rinascimento educativo Disa, Le previsioni del tempo Tarozzi, La
virtú contemporanea Strafforello, La scienza ricreativa Sergi, Decadenza delle
nazioni latine Wasé-Dari, M. T. Cicerone e le sue idee cie e sociali Roberto,
L”Arte ORTO Baccioni, La vigilanza igienica “degli alimenti AO o 3 L= 32.
Marchesini, 11 simbolismo — S 4 6 S > S 3,50 33. Naselli, Meteorologia
nautica — . ESA A E s» 250 34, Niceforo, Ttaliani del nórd ed italiani del sud
Zoccoli, Nietzsche Loria, Il capitalismo e la scienza Osborn, Dai Greci a
Darwin Ciccotti, La guerra e la pace nel mondo antico Rasius, Diritti e doveri
della critica Sergi, La psiche nei fenomeni della vita Henle, La vita e la
coscienza. Con figure . ES E, 4 ” 3= . Baccioni, Nel regno del profumo.
Strafforello, Il progresso della scienza WMinutilli, La Tripolitania. Con' una
carta Maeterlink, La saggezza ed il destino Molli, Le grandi vie di
comunicazione Vaccaro, La lotta per l'esistenza Grant Allen, La vita delle
piante. Con gt O A A y , Zini, [l pentimento e la morale ascetica Materi,
L*eloquenza forense 6 o z A b E y D= HL. Morasso, 1” imperialismo artistico
Lombroso, I segni rivelatori della personalita Oddi, Gli alimenti e la loro
funzione Rossi, 1 suggestionatori e la folla Vaccal, Le feste di Roma antica
Marchesini, 11 dominio dello po Sergi, Gli Arii in Kuropa e in Asia Con figure
Zanotti-Bianco, Istorie di mondi Harnack, L'essenza del Cristianesimo James,
Gli ideali della vita Baccioni, Dall'alchimia alla chimica. Gon figure A ; BR
Pa Fratelli Bocca, Editori – Torino De Roberto, Renan Besant, Autobiografia
Powell, Il cibo ela salute Gachetti, La fantasia Turchi, Storia delle religioni
Somigli, La pesca marittima industriale Halewy, Vita di Nietzsche. Troilo, Il
positivismo e i diritti dello spirito Michels, I limiti della morale sessuale
.Graziani, Teorie e fatti economici Cappelletti L., La riforma Gallo, La guerra
e la sua ragion sessuale Ramaciaraca, La respirazione e la salute Carus, Il
Buddismo e i suoi critici cristiani Sergi, Le origini umane Rau, La crudeltáa
Aitken, Le vie dell'anima Canestrini, Nel mondo dei parassiti Avebury, Pace e
Felicita Rensi, La Trascendenza Grew, Lo Sviluppo di un pianeta Sergi,
Evoluzione organica e le origini umane Gallo, Valore sociale dell'abbigliamento
Ramaciaraca, Ata Yoga: L'arte di star bene (in corso a stampa). = 3 228.
Vercellini, Unita di legge nei fenomeni vitali Germani, La Ragioneria come
scienza moderna. I volumi di questa serie esistono pure elegantemento legati im
tela con” fregi artistici, con una lira d'aumento sul prezzo indicato. Ps Ñ a A
ll nes e T Se y Pe ES A y e a xi le t y ES y, 3 E Z $ í seo > 1 pe 4.
Francesco Olgiati. Olgiati. Keywords: classici, il gusto per l’antico, ius,
Aquino, sillabario, filosofia classica, filosofia no-classica, logica classica.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olgiati” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Olimpio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He lives in the middle of
nowhere. When he finds his city became an uncomfortable place for pagans, he
moves to Rome.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Olivetti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’archivista –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “Olivetti
deals with some topics dear to me and Strawson, like subject, transcendental
subject, and the rest – he also uses ‘analogy,’ which is a pet concept of mine
– I have been compared to Apel, so the fact that Olivetti in his
‘conversational’ approach relies on him, helps!” - Professore a Roma -- preside
della Facoltà di filosofia. Formatosi a Roma, confrontandosi con i temi
del rapporto fede e ragione nell'ambito di un collegio di docenti orientato sul
versante marxista, storicista, postidealista, trova in ZUBIENA il suo maestro.
Con lui iniziò una collaborazione intellettuale che lo porta a studiare i temi
della filosofia della religione, partecipando ai colloqui romani inaugurati dal
filosofo piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo la morte di ZUBIENA come
organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica religiosa e di filosofia
classica tedesca, si dedicò alla ricerca di un approccio neo-trascendentale al
tema della religione, insegnando filosofia morale a Bari e poi sostitundo
Zubiena nella cattedra romana di filosofia della religione. Giunse dopo
l'incontro decisivo col pensiero di Lévinas, ad elaborare una concezione di
questa disciplina come antropologia filosofica e etica in quanto «filosofia prima
anzi anteriore» su base storica, nata dalla dissoluzione in età tardo
settecentesca, soprattutto ad opera di Kant e Hegel, della onto-teologia. Molta
rilevanza aveva nel suo insegnamento lo studio dei classici tedeschi, in chiave
storica, e da ultimo il confronto sia con la fenomenologia, specie con Lévinas
e Marion, sia con la filosofia analitica. In Analogia del soggetto, la sua
opera maggiore, l'autore elabora una teoria analogica del soggetto, riprendendo
suggestioni di Husserl, Apel e Lévinas, confrontandosi con Heidegger e
suggerendo una teoria dell'"umanesimo dell'altro uomo" su base
staurologica ed etico-interinale («espropriarsi del caritatevole nell'interim
interlocutivo» ibidem). La tesi è che non esiste un'essenza dell'essere
umano. Tale essenza è immaginata, e senza siffatta immaginazione l'essere e l'umano
non si coapparterrebbero. Così si dice, in un certo senso la fine dell'etica.
Tuttavia così si dice anche che l'etica, e non l'ontologia, è la filosofia prima,
anzi anteriore. Di seguito l'autore prospetta un ripensamento del soggetto
trascendentale, con un differimento dell'ergo rispetto al cogito cartesiano,
partendo dal “loquor,” ovvero «dall'origine analogica di ogni logica, in modo
da scomporre la presenza trascendentale in sum-prae-es-abest. Si perverrebbe
così all'abbozzo di un «ripensamento dell'appercezione trascendentale, in modo
tale da reimmettere il pensiero rappresentativo nella giusta traccia della
rappresentazione. Attività accademica e influenza Direttore dell'Istituto degli
Studi Filosofici Castelli e poi dell'"Archivio di Filosofia", si fece
promotore di colloqui e convegni nei quali conveniva, a Roma, ogni due anni,
nei primi giorni di gennaio, l'élite della filosofia della religione europea e
mondiale (Ricœur, Marion, MATHIEU, Quinzio, Melchiorre, Lévinas, Lombardi
Vallauri, Forte, Casper, Dalferth, Greisch, Capelle, Courtine, Falque, Grassi,
Paul Gilbert, S.J. Stéphane Mosès, Flor, Prini, Peperzak, Swinburne, Gabriel
Vahanian, Hénaff, Vitiello, Tilliette, Henry, Taylor, tra gli altri). Nelle sue
prolusioni e nei suoi contributi introduttivi si prospettava lo sfondo su cui
si sarebbero esercitati i contributi e le discussioni del Colloquio, di seguito
pubblicati in numeri monografici della Rivista "Archivio di
Filosofia". I temi trattati erano spesso centrali nell'elaborazione
di una filosofia della religione come filosofia tout court e abbracciavano,
negli anni ottanta e novanta del Novecento, temi centrali come "Teodicea
oggi?", l'argomento ontologico, l'Intersoggettività, il Dono, la Filosofia
della Rivelazione,il Sacrificio, il Terzo. La sua personalità riservata entro
l'ambito strettamente scientifico e il rigore speculativo dei suoi scritti non
ne hanno favorito una conoscenza pubblica al di là dei circuiti accademici, e
il suo insegnamento ha lasciato un traccia significativa costituendo una vera e
propria scuola di filosofia della religione. Saggi: “Il tempio simbolo
cosmico” (Milani, Padova); “L'esito teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani,
Padova); “Filosofia della religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da
Leibniz a Bayle: alle radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia
del soggetto” (Laterza, Roma); "Filosofia della religione" in La
filosofia, Le filosofie speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers,
Archivio di Filosofia Archives of Philosophy, Considerazioni introduttive sul
tema: Postmodernità senza Dio?, in «Humanitas»
a.c. di Ciglia e De Vitiis Traduzioni e curatele: Kant I., La
religione entro i limiti della sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei
limiti della sola ragione, I.Kant (Laterza, Roma); “Saggio di una critica di
ogni rivelazione, con introduzione Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario
Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia », Tommasi, Le persone,
infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, « Studi Kantiani », Filosofia
della religione Fenomenologia Ontologia Teologia Fede Ragione Bruno Forte, Del sacrificio e dell'amore_In
memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su filosofia.uniroma1. E. Giacca: un filosofo della religione",
Giornale di filosofia, su giornaledifilosofia.net. Archivio di filosofia, su
libraweb.net. Marco Maria Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura, l’archivista
-- “philosophy of language.” Cratilo, teologia del linguaggio, esito teo-logico
della filosofia del linguaggio, la religione razionale secondo Kant, l’idea de
fine – autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e linguaggio, l’esito
teologico della filosofia del linguaggio, Jacobi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Olivi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Abstract. Keywords. Filosofo italiano.
Udine, Friuli-Venezia Giulia. Medico e storico italiano. Anche filosofo. PALLADIO
degli Olivi, Gian Francesco. – Nacque a Udine da Alessandro e da Elena di
Strassoldo.Gli Annales di Udine annoverano l’aggregazione della famiglia,
proveniente da Portogruaro, tra i nobili della città. Palladio frequentò l’università di Padova,
dove si laurea in giurisprudenza. Rientrato in patria, si dedicò per un breve
periodo alla professione forense; divenuto abate, ottenne il beneficio
ecclesiastico della pieve di Latisana. Si iscrisse, con il nome di Ferace,
all’Accademia udinese degli Sventati, fondata tra gli altri dallo zio paterno
Enrico. Nel 1658 e nel 1659 pubblicò a Udine due opere di Enrico: il De
oppugnatione Gradiscana libri, sul conflitto che oppose la Repubblica di
Venezia e l’Austria, noto con il nome di guerra di Gradisca, e i Rerum Foro-Iuliensium ab orbe condito usque
ad an. Redemptoris Domini nostri 452 libri undecim, rimasti interrotti alla
presa di Aquileia da parte degli unni. Palladio decise di continuare l’opera
dello zio, non più in latino ma in volgare, partendo dal punto in cui si era
interrotta per arrivare sino al 1658. -ALT
La cronaca, Historie delle provincie del Friuli, è composta secondo il
metodo annalistico e fu pubblicata in due volumi a Udine. La narrazione, pur
essendo fondata su un’ampia documentazione, ripete alcuni luoghi comuni
concernenti in particolare l’origine delle città e dei loro casati più
eminenti. L’autore difese in particolare l’antichità di Udine riprendendo parte
degli argomenti proposti da Gian Domenico Salomoni e ripresi da Enrico
Palladio, i quali identificavano Udine e non Cividale nell’antica Forum Iulii
di cui parla Paolo Diacono, attribuendo in tal modo a Udine l’egemonia sulla
regione dopo la distruzione dell’antica sede metropolita di Aquileia.
Riprendendo quanto detto da Salomoni, Palladio riconduceva la fondazione di
Cividale sul fiume Natisone al periodo successivo alla vittoria del duca
Wechtari, o Vettero, sugli Slavi, descritta nel capitolo V della Historia
Langobardorum di Paolo Diacono. Palladio
sostenne con diverse argomentazioni l’esistenza di un antico vescovato udinese
indicando in un presunto vescovo Teodoro da Udine il destinatario della lettera
Regressus ad nos, sulle donne sposate con uomini rapiti dai barbari, inviata da
papa Leone Magno a Niceta, vescovo di Aquileia; attribuì poi a Udine i vescovi
di Zuglio citati nei sinodi e in Paolo Diacono. La Historia, pur presentando i
limiti comuni alla storiografia, fornisce dunque numerosi dati che
contribuiscono alla ricostruzione della storia friulana. Nella metà del
Settecento Paolo Fistulario criticò severamente i passaggi nei quali è creata
un’origine delle illustri famiglie cittadine priva di qualsiasi fondamento. La
la famiglia comitale degli Strassoldo, per esempio, sarebbe discesa da Rambaldo
di Strassau, descritto come il «supremo direttore delle armi» ai tempi
dell’imperatore Valentiniano. L’opera conobbe ulteriori critiche nel secolo
successivo da parte di Antonio Zanon, che rimproverò Palladio di avere scritto una storia
parziale, nella quale veniva data voce solamente al punto di vista espresso
dalla nobiltà e non al ceto borghese cittadino, che trovava invece spazio in
altre opere che circolavano al tempo, quali i Dialoghi di Romanello Manin,
rimaste manoscritti. Scrive anche altre opere in prosa e in versi per l’accademia
degli sventati, ancora di proprietà degli eredi al tempo di Liruti, e alcuni
testi di contenuto giuridico. Nella Biblioteca civica di Udine sono conservate
alcune rime, intitolate latinamente Carmina (Fondo principale) e una
Collectanea legalis (Joppi), redatta secondo voci organizzate in ordine
alfabetico e solo in parte compilate.
Fonti e Bibl.: Udine, Biblioteca civica, Mss.: V. Joppi, Letterati
friulani, c. 77v; G.D. Salomoni, Difesa del capitolo de’ canonici della città
di Udine agli ill.mi et rever.mi signori cardinali della sacra congregatione
Sopra i riti di S. Chiesa, Udine; G. Liruti, Notizie delle vite ed opere
scritte da letterati del Friuli, IV, Venezia, 1760, p. 459; A. Zanon,
Dell’agricoltura, dell’arti e del commercio in quanto unite contribuiscono alla
felicità degli stati, Venezia; P. Fistulario, Discorso sopra la storia del
Friuli detto nell’Accademia di Udine, Udine; Manzano, Cenni biografici dei
letterati ed artisti friulani dal secolo IV al XIX, Udine; Fattorello, Storia
della letteratura italiana e della coltura nel Friuli, Udine 1929, p. 157; E.
Petrarca, Storici minori del Friuli. Palladio Gian Francesco, in La Guarneriana;
Milocco, L’Accademia udinese degli sventati, in Più secoli di storia
dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Udine, Udine; L. Cargnelutti, P.
degli Olivi, G.F., in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, III, a
cura di C. Scalon - G. Greggio, Udine. Enrico Palladio degl’Olivi.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO; ossia, Grice ed Onato: la ragione conversazionale e la setta di Crotone
-- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A
Pythagorean. Fragments from his treatise survive. Grice: “But since they are in
Greek, CICERONE refuses to study him!” -- Onato. Onata. Onato.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Onorato: la ragione conversazionale del cinargo romano –
Roma – filosofia italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.A member of the Cinargo
who takes to the habit of wearing a bearskin. Onorato
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Opillo: la ragione conversazionale e l’orto romano -- l’implicatura
conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Segue l'indirizzo dell’orto. Liberto
di un membro dell’orto, insegna filosofia, ma sciolge la sua scuola per seguire
Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie saggi, fra le quali Musarum libri
IX. Aurelius Opilius. Ueber die Schreibung “Opillus” statt “Opilius” vgl.
F. Buecheler, Rhein. Mus. Opilius lehrte zuerst Philosophie, dann Rhetorik.
endlich Grammatik. Später löste er seine Schule auf und folgte dem P. Rutilius
Rufus ins Exil nach Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem ein Werk von
neun Büchern mit dem Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten, die daraus von
Gellius und besonders von Varro, Festus und Julius Romanus gemacht werden, muss
er sich besonders mit Worterklärungen befasst haben. Ferner erwähnt Sueton
einen Pinax mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir wissen, dass sich
Opilius mit Scheidung der echten und unechten Stücke des plautinischen Corpus
abgab, werden wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen dürfen. Zeugnisse. «)
Sueton, de gramm. Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum libertus, philosophiam
primo, deinde rhetoricam, nocissime premmetiram docuit. dimissa autem schole Rutilinm
Rufum damnatum in Asiam secutus ibidem Smyrnae simulque consenuit compositque
variae eruditionis aliquod volumina, ex quibus novem unius corporis, quia scriptores
ac poetas sub clientela Musarum indicaret, non absurde et fecisse et inscripsisse
se ait ex numero divarum et appellatione. huius cognomen in plerisque indcibus
et titulis per unam (L) litteram scriptum animadcerto, rerum ipse id per duas effert
in parastichide libelli, qui incribitur pinax 3) Musarum libri novem. Gellius, Aurelins
Opi-lines in primo librorum, ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro
de lingua lat. wird er unter dem Namen Aurelins angeführt (proefica; i, 106,
unter dem Namen Opilins Vgl. H. Usener, Rhein. Mus., Bei Festus wird er citiert
als Aurelius Opilius, dann als Opilius Aurelius, ferner als Aurelio, endlich
als Opilius, O. M. Vgl. R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl.
philol. Abh.). Charis. (Julius Romanus) Gramm. lat., 1 at ait Aurelius Opilius.
Aurelio plaret. Vgl. O. Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore (Fleckeis.
Jahrb. Supplementbd.) Der lirres Vgl. F. Ritschi, Parerga, Zu den Verfassern
von indices plautinischer Stücke rechnet Gellius, auch ungeren Aurelius. F.
Osann, Aurelius Opilius der Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw.); G.
Goetz, Pauly-Wissowas Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger,
Lat. serm. vet. rel. und Funaioli (Oben v. u. ist statt (C'os.)* zu lesen. denn
P. Rutilius Rufus war Cos.). Grice: “Since he was a ‘liberto,’ CICERONE refuses
to study him!” -- Opillo
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Opocher:
la ragione conversazionale l’implicatura conversazionale della giustizia – IVSTVM
QVIA IVSSVM – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “There are two points that
connect me with Opocher: ‘individuality’ in Fichte, since I love the problem of
the in-dividuum, perhaps influenced by my tutee Strawson (“Individuals!”) – and
Opocher’s ‘analisi’ as he calls it, of the ‘idea’, as he calls it, of
‘giustizia’, particularly in Thrasymachus, for which I propose an
eschatological study!” Con Ravà e Capograssi è considerato uno dei maggiori
filosofi del diritto italiani del Novecento. Nacque da Enrico Giovanni,
ginecologo. Durante la Grande Guerra la famiglia, timorosa dei bombardamenti,
si trasferì dapprima nella periferia di Treviso, quindi a Pistoia presso una
parente. Gli anni successivi riportarono un clima di serenità e agiatezza, nel
quale Enrico crebbe, dividendosi tra la città natale e Vittorio Veneto, meta
delle sue vacanze estive. Dopo il liceo
fu avviato, secondo il volere del padre, agli studi giuridici, benché fosse
decisamente più inclinato verso la filosofia. Si iscrive alla facoltà di
giurisprudenza a Padova, ma continua a coltivare i propri interessi personali
seguendo le lezioni di filosofia del diritto tenute dRavà. Sotto la guida di
quest'ultimo stilò una tesi su La proprietà nella filosofia del diritto di
Fichte, con la quale si laurea brillantemente. Ottenuta la libera docenza,
vinse il concorso per la cattedra di filosofia del diritto presso la facoltà di
giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che in Veneto era divenuto
segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo padovano insegnò
ininterrottamente per quarant'anni, tenendo lezioni per i corsi di filosofia
del diritto, di storia delle dottrine politiche e di dottrina dello stato
Italiano. È ricordato in maniera
particolare per i suoi studi sull'idea di giustizia, e sul rapporto tra diritto
e valori, nonché per la redazione di un celebre manuale, Lezioni di filosofia
del diritto, usato da generazioni di allievi.
Fu magnifico rettore dell'Università. È stato Presidente della Società
Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Influenzato dall'amicizia con il
cattolico Capograssi e col laico Bobbio, fu azionista con Bobbio e Trentin,
condividendo (a Palazzo del Bo) le attività cospirative della Resistenza
locale. Nel dopoguerra rimase amico stretto di Trentin e di Visentini,
divenendo a sua volta il maestro di Toni Negri.
Saggi:“Individuale” (Padova, MILANI);
“Esperimentato” (Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano, Bocca); “Filosofia del
diritto” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Milano); Dizionario
biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fulvio Cortese, Liberare e federare:
L'eredità intellettuale di Silvio Trentin, Firenze University Press, 2citando
D. Fiorot, La filosofia politica e civile – filosofia CIVILE --. in Scritti, G. Netto, Ateneo di Treviso,
Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del Pensiero,
Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd. Denominazione attuale: Società
Italiana di Filosofia del Diritto, vedi.
Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della tolleranza, in La Tribuna di Treviso,
Toni Negri: «Un uomo davvero libero nell'università chiusa degli anni '60», in
[Il Mattino di Padova] Giuseppe Zaccaria, Ricordo Omaggio ad un maestro, Padova, MILANI, 2Giuseppe
Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Società
Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice: “Opocher is concerned with
‘iustum quia iussum,’ which while transparent to Cicero as analytically false a
posteriori, it is just impossible to express in Anglo-Saxon or English. Both
iustum and iussum come from the same root. So what is just is what is
commanded. The principle of positivism. Opocher finds this all too easy, so he
rather examines Fichte, who tries to express in his vernacular vulgar (Recht,
Wesen, Gemein Wesen, and so forth) all the ideas of contractualism – a contract
between a ego and alter – on the wake of the beheading of Marie Antoinette!”. Enrico
Giuseppe Opocer. Opocher. Keywords: giustizia – fairness, gius, il concetto di
gius nel diritto romano, iustum non quia iussum – verbal aspect here --. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Opocher: giustizia del neo-Trasimaco.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Opsimo: la ragione conversazionale e la setta di Reggio
– Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio, Calabria. A
Pythagorean cited by Giamblico. Grice: “Cicerone said that in proper Italian,
his name was Ossimo!” -- Opsimo.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Orabona Ancora negli anni
novanta nascono altri progetti di lingua universale di autori italiani, fra
questi il Raubser (da raub = universo e ser = lingua), elaborato nell’arco di
quasi vent’anni dal varesino Luigi Orabona (1943), insegnante elementare. Fra
le altre cose, i vocaboli del Raubser esprimenti concetti opposti o che hanno
una certa analogia vengono rappresentati con inversi grafici; così abbiamo: met
= amore e tem = odio; doraf = arteria e farod = vena; favet = bianco e tevaf =
nero; kabon = testa e nobak = coda.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Orazio: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- Roma – la scuola di Venosa -- filosofia
basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venosa). Filosofo
italiano. Venosa, Potenza, Basilicata. Orazio fu attirato dai problemi morali
ed estetici. Quinto Orazio Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle
"Epistole," Orazio dichiara di sentirsi attirato dalla filosofia
morale per la quale vuole abbandonare la lirica. Si è notato che questa
epistola è un protrettico. Ma anche negli scritti precedenti O. tocca spesso
argomenti filosofici. Scherzosamente, O. si chiama dall’orto “de grege poreus”
(Epist.). Effettivamente egli, che dichiara di non voler giurare sulle parole
di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato. Nei suoi
studi in Atene conosce dottrine di scuole diverse, vede nelle sette filosofiche
una disciplina che non deveno essere ignorate. O. s’interessa soprattutto per
la morale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante dell’equilibrio,
della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con simpatia l’etica
dell’ORTO, di cui si scorge l’influsso nelle satire, che abbondano di
reminiscenze a LUCREZIO (si veda). O. ri-assume la teoria dell’orto
sull’origine del diritto e della legge. Più volte, satireggia paradossi del
Portico: tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa. O.
disegna la caricatura del Portico: capelluti e barbuti che, predicatori
ambulanti, espongono precetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita.
Ma O. mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degl’ideali del
Portico. O. si avvicina sia all’Orto che al Portico quando loda la vita
semplice e sana della campagna. Ma quando sferza la caccia alle riechezze e al
lusso, O. si collega al Cinargo, delle cui diatribe si avverte l'influsso nelle
sue satire. Nell'insieme, la morale di O. è utilitaria ed è diretta
dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non è una teoria
filosoficamente fondata e perciò non manca di incoerenze. Nell’"Arte
Poetica" si riconoscono abitualmente riflessi di teorie del “Lizio” e
particolarmente di Neottolemo di Pario, che assegna alla poesia il duplice
ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si fa provenire il concetto del
"decorum", che ha un posto centrale nella dottrina estetica che O.
propugna. He is sent by his father to study philosophy. His studies are cut
short when civil war breaks out after the assassination of GIULIO (si veda) Cesare.
His works, frequently advocate the simple country life, and a number of letters
he publishes indicate a continuing interest in philosophy. Although he has
friends that followed the doctrine of The Garden, and he is clearly familiar
with these doctrines, it is not clear that he belongs to any particular
‘school.’ In an examination of O.’s philosophy, we should not look for that
comprehensive love of wisdom generally termed philosophy by the ancients,
including science, ethics, and speculative thought. O. Is not the speculative
type of man to be interested in the composition of the universe. Quae mare
compescant causae, quid temperet annum, Quid velit et possit rerum Empe 00168
at Stert tan doddret acunen, fre Wetaer the pLanete wander ad rol Fone
spontareduer) 18 pedoedes or subt1e dtortinius that Is Crazed."). O. Is a
realist, concerned with the ethical side of wisdom -- with the conduct of life.
O. is thoroughly Roman, and the Romans, except only a few lofty souls such as
Lucrezio, Cicerone, and Virgilio, are of a practical, mundane nature. The Roman
philosopher cares little for the abstractions of speculation. The Roman is born
to rule -- parcere subleatio et debellare superdos.*2 than oupire, titg Shail
be tnite are, to ozdain the law of peace, to be merciful to the conquered
andbeat the haughty down. The philosophy which appeals to the Roman is that
which would give him mastery over self, and hence over the world. But
everywhere around him O. sees the tremendous waste of human energy, struggling
nen, feverishly pursuing the bubbles that do not satisfy, frittering away their
man-hood, consuming time and not achieving the mastery of life to which their
heritage entitles them. For such an audience, then, in which the will to live
is the dominant characteristie, O., the sane, tolerant, and sympathetic man of
the world, with the insight which comes from contemplation and the inspiration
which comes from a realization of the dignity of his task, formulates his
philosophy of living, a simple, practicable code of ethios, to help men to
saner, worthier, happier lives -- a code which furnishes a solution to the
problems of life. It is not an explanation of life, but a way of life,
something tangible, a touchstone by which the Roman man may test his own worth
and contentment. How keenly he feels the importance of his mission we may know
from "Sic nihi tarda fluunt ingrataque tempora, quae spem Consitiumque,
morantur agendi naviter id quod alike to the poor, alike to the rich, and the
neglect. O. Is unusually well qualified to undertake this office of sage,
monitor, and guide, for he is the product of unusual home training, thorough
training 1n the schools of philosophy, and a very varied experience. O. is very
fortunate in his home influence. Born of a freedman father, who knows life from
the point of view of the toiler, O. early aoquires the common sense which is
the basis of sound living. His father gives him an insight into the things
worth seeking, by pointing out the conspicuous failures in his own vicinity.
Instead of merely advising his son to live frugally, he calls his attention to
a certain well-known fellow who squands his patrimony. Others he indicates as
shameful examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action
of certain Romans whose lives are an example to the wole comunity, and shunning
the practices which had made others infamous, he may always have a criterion of
conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice and
virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by
their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to
him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons, O. is
sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice. It is the finest
possible tribute to the fundamental worth of this rustic freedman that O.
speaks ever gratefully and without shame of his humble birth and boyhood
training. Just what O.’s life at the 'University' of Athens may have been, we
do not know. But he gives ample proof of his entire familarity with both L’ORTO
and IL PORTICO. The former, so ably expounded by LUCREZIO, must have made a
profound impression on O., the lover of life. That he had a sympathy with their
doctrine of impassiveness -- to them the duty of man being to increase to the
utmost his pleasure, decrease to the utmost his pain, and the highest pleasure
being peace of mind -- is proved by Tempora momentis Tapora potent. Oat qua
gordine Dulla -- Not to be exoited about anything, Numicius, is almost the one
and only thing that can make and keep a Ion sun and stars and the seasons
departing in fixed course there are who view with no tinge of and again --
Gaudeat an doleat capiat metuatre, quid ad rem ntere 1, -- ral eerento ne has
esea beeter oat matters it, worse than BotE In body and soudii, hs eyes stare
and he ds dased. In another place he allies himself playfully with the more
material enjoyments of L’ORTO. Once he admits, half shamefacedly, his weakness
for the hedonism of Ceristippus -- Now imperceptibly I slip back to the terets
of et, tot ne to the worla ate the rorta to. And in a second passage he praises
the adaptability of Aristippus, contrasted with the cynic. But a man with the
rigid training of O.s early years could not be completely satisfied with the
superficialities of L’ORTO and Cyrenaism. He values happiness, but he has too
much moral fibre to find it either in impassiveness or pleasure for its own
sake, and so in spite of his repugnance to the sternness of IL PORTICO, and the
severity of its "Sapiens", he is drawn toward the positive virtue of
IL PORTICO. No utterance could ring more clearly of IL PORTICO than the
following: "Vir bonus et sapiens audebit dicere: 'Pentheu, 'Adiman
bona.''Nempe pecus, rem, Comed bas entro toste httote tenth maniodsette sub
custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.' -- The good and wise man will make bold
to say, 'Pentheus, Ruler of Thebes, what will you force an undeserving man like
me to suffer and endure?' 'I will take keep you under the charge of a grim
"The deity himself will free me as soon as I I suppose thig is what he
means, 'I will die.' Death is the final goal of things. Although he appreciates
the value of the tenets of IL PORTICO, he cannot take its asceticism altogether
seriously, nor adopt them in their entirety, and fling this jest at them:
"Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber, honoratus, pulcher,
rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est. -- To sum up, the
philosopher is inferior to jove alone; tingo inga aborea noalthg, sare winen
troubied Thus we see that O. is an eclectic, sifting from all the schools of
philosophy what wis finest, sanest and best adapted to his needs. If there
appear to be inconsistencies in his system of ethics, and there are countless
ones, we must remember that he regards himself as the physician of morals,
ministering to many kinds of ailments, each one demanding a different
prescription, and he knows all too well that life is too complex to be reduced
to a simple formula. To IL PORTICO O. owes his positive dootrine of self
control, of a life in accordance with nature and controlled by virtue, and his
superiority to misfortune. To L’ORTO, O. owes his theory of the wise enjoyment
of life, and to the Cyrenaics his theories of moderation. Of his own foibles
and changeableness he says Cone todtur t tale thdate pocune – I commend the
safe ana humble when funds are low, brave enough in a poor environment; but
when aught better and more sumptuous falls to my good fortune. O’s life
experience ia a kaleidoscopic one. His youth is spent in association with the
sons of the wealthy and well-born, and thus he acquires that tact and urbanity
which are so valuable in his later relationships, and which enable him to give
advice on matters of social conduct. Then follow his attachment to the hopeless
cause of the Republicans, with the disillusionment, loss of property, position,
and purpose. such a complete alteration of nis entire life scheme could not but
have a tremendous effect. Any faith that he might have had in politics as
worthy of a man's best efforts, is of course completely shaken. From that time
on he philosophises with thorough conviction of the insubstantiality of
"ambitio". Besides he realises keenly the moral evils that follow the
civil ware, and pessimism and general contempt for nis shameful countrymen. His
fresh beginning in kome in a most humble position, gives him the first taste of
the real struggle of the great mass of men for the mere means of existence.
From this position he sees the weaknesses of the poor, their unrest, and idle
craving for the wealth which they fail to see is not conducive to happiness. It
is perhaps from this phase of his existence that O. gains an appreciation of
the simple joys of life wich are attainable for all -- sunshine, the shade of
tree, the river, wine, etc. Lastly nis friendship with MECENATE (si veda),
coming after the bitterness of life, affords him the leisure to devote himself
to philosophy. He learns too well the instability of position to value it over
highly, but from this relationship he draws the principles which he lays down
as guides for patron and client.The burthen of O.'s PHILOSOPHY OF LIFE – cf. H.
P. GRICE, “PHILOSOPHY OF LIFE” -- is the attainment of HAPPINESS – H. P. GRICE,
“HAPPINESS”. Since he tastes of the sweetness and bitterness of life, and now
by virtue of his devotion to philosophy is somewhat removed from the toil and
moil of the world, he thinks that he has a better perspective, oa. better judge
of the eternal values than the great majority of men, blinded to the larger
view by the details, and hence first undertakes an explanation of the NATURE of
happiness. Ultimately happiness is the product of a definite attitude toward
life. It is not a mere matter of chance. It is within the reach of all who care
enough for it to pursue it in the right way. An idle, aimless, drifting
existence will never attain the goal. the thoughtless, short sighten so man
world must be brought to realise this, must be aroused to a contemplation of
the issues of life, for he who neglects them suffers for his neglect -- et
miPosces ante diem librum cum lumine, si non -- and if you will not call for a
book with a light before dawn, if you will not apply your mind to the pursuit
of honorable ends, you will be kept awake and racked with jealousy and 1ove.
Men's bodily well-being, in wich they take such a keen interest, is not half so
important as right living. Si latus aut renes morbo temptantur acuto Quaere
fugen morbi. Vis reate vivere: Quis non?"l who does not? -- And yet they
place every other interest before the wise regulation of life, either because
they are too ignorant to realise its importance, or because they are too
slothful and cowardly to face the issues. Nam our Bet andaum, ditters Surand
tompue inatun -- When you make haste to remove what hurts the eye, Then let
every man take thought of whither his life 1s trending -- Inter cuneta leges et
percontabere doctos, Qua ratione queas traducere leniter sevum -- In the midst
of all you must read and question the what lessens care, what makes you your
own friend, we aud walk, and tae pata of a iise mo 10e4. -- When once men do
come to acknowledge that happiness in not an accident, but the logical outcome
of et well considered and consistently pursued course of life, they should give
prompt attention to these matters of vital moment, and thus H. indicates the
first step toward the new life. Multit e arttase fygere et sapteatia prine And
once aroused it will not seem so difficult, for -- Dope up taot que coopst habit;
aapeze aude; If a man really desires happiness he must have an aggressive
attitude toward it, for what is worth achieving can be won only at the expense
of vigorous effort. -- Sedit qui timuit ne non succederet. -- osame has beer
afraid of fallure, has remained And again -- Ho onus horret,10oodt at persert,
ro cospore matus. One shudders at the load as too great for his fueble spirit
and feeble frame; another takes it on his back and carries it to the end. Lest
anyone should think that because his past life has not been a worthy one it is
useles or ridiculous to attempt any serious reformation. O. invites him to draw
inspiration from his own altered ideals. Quem tenues decuere togae nitidique
capilli, quem sois immunem Cinarse placuisse rapaci,Quem bibulum liquia1 media
de luce ralerni,, Cena brevis luvatet prope rivum sommus in led luglise puaet,
sed non incidere ludum. "Leroa -- I, whom fine togas ana perfumed hair
became, I whom you know witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am
not ashamed to have had my sport, but would be, not now to out it short.
Inconsistency is no disgrace, if you have veered to a wiser course, jut
whatever you do, do not delay, but act at once! -- Qui recte vivendi prorogat
horam("He wao postpones the season of upright living is like It gidea and
will glide, rolling on to all time.""out down. With this awakened
interest, O. thinks it well for each man to test to the fill each of the things
wich men from time immemorial have deemed the sunmum bonum – OPTIMVM – Grice:
OPTIMALITAS -- [Indeed, Piso makes this assumption, and it leads him
erroneously to the conclusion that THE PORTICO values scientia as its own end,
as “QVOD IN EO SIT OPTIMVM”, as that which is highest in one. Antiochus then
attributes to IL PORTICO, whether rightly or wrongly, the very LIZIO valuation
of theoretical over practical life that we, his readers, know IL PORTICO would
refuse. When it comes to accurately portraying IL PORTICO as philosophical
movement, the fact that Antiochus, a character in Cicero's dialogue, elides the
difference between IL PORTICO and Aristotle serves as no indication of the
reliability or unreliability of Cicero's or his sources. Cicero simply wants to
show that, whatever the original truth of orthodox PORTICO might have been, it
lent itself to this Antiochean interpretation. As he proceeds, the question he
asks is whether the PORTICO can indeed be accused of valuing theoretical over
practical life despite the fact that THE PORTICO would refuse the very
distinction.] with a view to adopting as HIS one, whichever one seems to have
the most real VALUE, to bring the calm and contentment that are significant of
a life well lived. The decision is a momentous one -- Non qui Sidonio
contendere callidus ostro lescit Aquinatem potantia vellera fucumOcrtius
accipiet damnum propiusque medullis, Quan qui non poterit vero distinguere
falsun. -- He who has not skiil to know now to distinguish from the purple of
sidon, fleeces steeped in Aquinun, will not sustain a more certain loss or one
nearer his heart than he who will not be able to discriminate the false from
the true. Try virtue first of all. Si VIRTUVS [andreia] hoc una potest dare,
fortis omissisHoo age delioiis -- If virtue alone can bestow this, manfully
give up pleasures, and make her your aim. Or try the pursuit of wealth;1 Tme
tepates ous, 108 postrene ontts. 2part that squares the heap." Or try
ambition:"Si fortunatum species et gratia praestat, Meroemur servum qui
diotet nomina, laevum Qui fodicet latus et cogat trans pondera dextram
Porrigere. If pomp and popularity secure bliss, let us buy a slave to tell us
the names, to nudge our left side, and force us to stretch our hand over the
counter. And"Caude quod spectant ocull te mille loquentem. "elonge
that a thousand eyes gaze on you as you Or test the pleasures of food and
wine--Ne let fileen Cruad Tumaigue trons, Quad deceat, guid non,
oblitt."b10tus 0 mere apetie eadenith tod unagesteproper, witt not
"gt us takebaths, forgetful what 18 Or the satisfaction of mirth--jests.")Then,
having advised each man to try for hinself, for each must be the best judge of
his own life. Metiri se quemque suo modulo ao pede verun est. "2 a
100t-leht For caoh one to measure hamsel or hie And he will never be sure that
one of these thinge might not have proved the key to happiness until he has
used it and found its futility, O. sings up the decision which each is bound to
reach. Abstract virtue is a hollow thing,"Virtutem verba putas etLnoun
11gna, -- You think virtue words, and a holy-grove sticks. As CICERONE says, 4
suitable for a community of disembodied spirits, but hardly fitted to men who
consist of both body and soul. It is too cold, too remote, andVre guan satte ca
virea, ge petat naen-s Nor will men find wealth any more satisfactory than virtue
as a "summum bonun" (strictly, OPTIMUM, not ‘goodest'), for its
weaknesses are all too evident. Even granted that it does have many undoubted
advantages -- Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL Bone numa doret
Suadele eaus due, w2 -- For of course queen Cash bestows a wife with a
dowry,ney tan le acornid mith Sua bon and Lode .ho man ofhundred; so you will
be one of the masses. Yet how fleeting wealth 1s!"Quiequid sub terra est
in apricum proferet aetas; Defodiet condetque nitentia. And the summum bonum
must be a permanent thing. rurther-more peace of mind and good health are not
conferred by it--Non animo curas."4ind poia gat ar res tover son the
asting oods bratheir lord, or troubles from his soul. Nor is pleasure a
necessary accompaniment of riches. Nam neque divitibus contingunt gaudia 80118.
"I'or pleasures do not fall to the rich alone. And his advice is bad who
bide you get money rightly or not, by hook or crook, just so that you may get a
nearer view of the plays of PUPIO, for after all, they are lachrimose plays,
and why see them nearer? Besides, in the gest for wealth alone, you are prone
to lose the sense of all other values -- "He has lost his armour, has
deserted the post ofполог, who is always slaving, entirely absorbed in augmenting
his fortune. Ambition cannot satisfy any more than virtue or wealth, for see
the ignominy that it carries with it. One must seek the favor and the gifts of
the fickle Roman mob "Plausus et antoi dona Quiritis, "and make
friends of all sorts of people Ut oulque est atra, Tia quengue deotus adopta
teand although the world applauds a man today, tomorrow its fickle favore may
be given to someone else, leaving 1ts former favorite stranded, so that only a
small taste of the pursuitof ambition will convince a man that"Nex vixit
male, qui natus moriensque fefellit. " pass de not de bad life whose barta
and deata have Furthermore the unrestrained indulgence of theappetite is sure
to result disastrously to both body and mind,there is no ultimate good to be
derived from a life of excess, so men must rejectit, too, as the "summum
bonum.""Sperne voluptates; nocet empta dolore voluptas,
"I•("Scorn delights; delight bought with pain is hurtful.").
None of these external things, then, can be regardedas the "summum
bonum" – OR OPTIMVM – quid in eo sit optimum --, since not only do they
fail to bring the happiness all men are longing for, but are the osuse of so
much of the uncertainty and distress which plague the world. Qui timet hig adversa
fere miratur eodem Quo cupiens pacto; pavor est utrobique molestus,Improvisa
simul species exterret utrumque.Sa guto ue ast mette poutare sie ofe ad
romDeflixis oculis animoque et corpore torpet? He who fears their opposites
excites himself much in the same way as he who covets them, the flurry in both
cases is a torment,whenever the unexpected appearanceagitates the one or the
other. Whether one joys orif at every-It is not that in themselves these things
are wrong--only that they are externals and one must not attach too much
significance to them. It is because men have overestimated them that the three
greatest ourses of the age have come upon the world--superficiality,
restlessness, and greed. Since men are always looking for something tangible as
the secret of happiness they have bedome shallow, have grown to care far too
much for outward appearance, and far too little for inward appearance, and far
too little for inward worth. Si curatus insequali tonsore capilloslee mediai
credis neo curatoria egere -- If I have met you with my hair dressed by theha
hare et hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if my toga sits unevenly and
awry, you laugh; whole round of life, pulls down, builds up, exchanges the
square for the round?lou think mine an ordinary madness and do not laugh, nor
yet imagine I want a leech, or a trustee appointed tortune 8, and tume aboutn
12-out na1102 thean ill-out nail of the And this same belief that happiness
lies in externals makes men restless -- a feverishness that manifests itself in
the iorm of travelling, forever pursuing the happiness which forever escapes
them. now foolish it is to try to escape the things which batfle one by seeking
another clime! -- Sed neque qui Capua romam petit imbre lutoque Aspersus volet
in caupona vivere; nee qui Frigus collegit, furnos et balnea laudat Lt
fortunatam plene praestantia vitam. leo si te validus lactaverit Auster in
alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas. Incolumi Rhodos et mytilene
pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs. Dum licet et volutem
servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et Chios et Fhodos absene.
"2 AAQpraise bake-houses and baths as fully making up thebe praised, and
uhois, and far-off Rhodes. The peace for which men are searching may be
attained anywhere if they only know the secret. Nam si ratio et prudentia
curas, Non locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non animum mutant qui
trans mare currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus atque("So that in
whatmay Bay You have lared a pleasent Lite, tor seineit is common sense and
wisdom that remove cares, and not a spot which commands a wide sweep of sea,
their climate, not their mind,they change whorun across the sea.An active
idleness busies us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por totH at
u20ra0, 1 a contented sptrit The people are merely consuming time, not living,
who are forever on the march. They exhaust their energies and gain nothing but
discontent. And of these curses of looking to externals for happiness perhaps
the worst is the curse of avarice. Why seek for much in the world when one can
use so little and more cannot delight? Quod satis est ous contingit ninil
amplius optet. "2' dia to whose lot 1a118 a competency, desire nothingThe
grasping continually after more only breeds dissatisfao-tion. There can be no tranquillity
so long as one is subject to an ever-increasing desire. Semper avarus eget;
certun voto pete finem. 3 praye iser 18 ever in want; aot a fixed 80a1 to your
What a misshapen monster avarice is anyway -- Belua multorum es capitum. Nam
quid sequar aut quem? A many-headed monster you are; for wnat or whom shall I
follow: As soon as one head is cut off new heads appear, so that it seems
inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare preantes, How helpless men
are in the olutch of such a power as this, which never gives them a moment's
real rest and peace of mind!How wretched the heat of their desires has always
made mankind, and how heroie 1g the figure of the man who has risen above them,
is well illustrated by Homer's tale of the Trojan war, wherein the struggling,
feverish, dissatisfied Agamemnon and Achilles and Paris arecontrasted with
sane, calm, and prudent men like Ulysses and Nestor. Nestor componere
litesInter Peliden festinat et inter Atriden; Huno amor, ira quidem communiter
urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira Iliacos intra
muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et quid sapientia possetUtile
proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit, adversis rerum
immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle the strife
between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by love and
both in common by wrath.and anger There as Bannin nithin the valls o ofun and
with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a hardship
over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of things.")
If the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth, or any of these
external things, which in a limited measure may contribute to the richness of
life, but beyond the golden mean – AVREAS MEDIOCRITAS --, pursued as an end in
themselves, are the cause of so much misery, discarding all such inoidentals
men must look for the real source of happiness within themselves. When men are
dissatisfied, it is not the world which is wrong, but their own attitude toward
the world. In culpa est animus, qui se non eifugit unquam. "Ihates his
own. with the harmless place; it is the mind that is at fault which never
escapes itself.") Two great doctrines O. presones -- the wise control of
life and the wise enjoyment of life. the first thing men must learn is to adapt
themselves to circumstances, to frankly face the fact of the evil and injustice
in the world, to realise that such a thing as periect happiness is nowhere
existent and that all life 18 an adjustment. -- solue puae posot eret estare
beatum, Saost the one ate ony thng Lhat on rate and keep a man happy. Chafing
and fretting against the established order of the universe, against life's
seening inequalities, only serve to augment their hardships. When once men do
face the facts of life and bring themselves Into accord with them, things wich
fornerly seemed of greatest moment will be looked upon with indifference. Yon
sun and stars and the seasons departing infixed courses there are who view with
no tinge of dread.") And it 18 not only for his individual well-being, but
for the benefit of the state as well, that he have this philosophical outlook
upon life. and Bet, to take up beae, Ios nen to are deer toour country, dear to
ourselves.")for ii we are dissatisfied with our fortunes, our bitterness
will taint every relationship in life, but if we are sane, life will look back
at us with the same calm expression. Sincerum est nisi vas, quodoumque infundis
acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean, Whaterer jou pour 1aOf prime
importance i8 integrity of life. It is not enough that a man assume all the
outward appearance of goodness and make a great parade of virtue. Qui consulta
patrum, qui leges iuraque servat;Quo multae magnae que secantur iudice lites;
Quo res sponsore et quo causae teste tenentur. sed videt huno omnis domus et
vicinia tota introrsum turpem, speciosum pelle decora. "3evidence cases
are gained.but all his household and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn)
taz Unless the people no know him best find him honourable and sincere, he need
lay no olaim to worth. Low senseless 1t 18 to delight in being called good by
the world in general, forthat very world will perhaps tomorrow call him a
thief, or unchaste, or say that he strangled his father. de deserved the
commendation they gave him yesterday no more than the slander they heap upon
him today.caliny terig put ede manwao te Fosous and Leedeto be reformed? It is
perfectly clear how pernicious this false praise is and to what lengths it
leads men."Leu, si te populus sanum recteque valentem Dictitet, occultam
febrem sub tempus edendi Dissimules, donec manibus tremor incidat unctis. If
the people keep saying you are in sound and perfect health, you conceal a
hidden fever up to the hour ofR2E2™E60a:till paralysis
seize your hands wile filledIn order to deceive the world they offer sacrifices
publioly to the gods, while secretly they are praying to the gods of trickery
to shield their crimes from detection. 3ecause one is not a thief or a murderer
he has no right to demand praise, for he has his reward already in freedom from
pun-ishment. or is it virtue to avoid evil merely for fear of the
consequences--"Iu nihil admittes in te formidine poenae. "*("You
will commit no crime through fear of punishment.")Good men desire virtue
for calm and peace that it brings them--"Oderunt peccare boni virtutis
amore."("Good men hate sinning through love of virtue.")For it
is what you are that really counts, not what the world thinks. Even the school
boy realizes this.("Yet the boys at their games say: 'You will be king if
you act rightly. However many of the externals of life fortune man have given a
man, if he is weighed down by the sense of his own guilt or unworthines, he
cannot enjoy them. But the man conscious of his own rectitude fears neither
loss of property or of life. Si forte in medio positorum abstemius
herbiscontestin 1lquidus sortunae ctrus inauret;vel quia naturam mutare pecunia
nescit, Val quia cunota putas una virtute minora. "2forward, even though
Fortune's clear stream wereFreedom is another element in this wise regulationof
life--freedom from all these externals which so often bring disaster."Ne
cOtia divitiis Arabun liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t
freedon of my ledsuz1oon oiet etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down
for a copper fixed in the orossings, not see; for he who shall desire shall
also fear: further, the man who shall live in fear, I will never regard as
free. Once the love of riches has fastened itself upon a man he cannot escape
it. If he only realized what a hard master it was he would flee from it as the
fox did from the lion in the old fable.Omnia te angersue pattent a renta
retroraum."tad, an oe be aai0, a2 polateIf then, he have wealth, he must
place it in its proper position, else it may take out of his hands the
direction of his life--it will either be his master, or his slave."Imperat
aut servit collecta pecunia culgue, "3("Each man's hoard of money is
his master or his slave. O. boasts of his own freedom from the opinionof the
masseg-- Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the
suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard
olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom,
but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a
source of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum
voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat
inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and
passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his
unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea,
curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly miseraole.
Invidus alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non invenere tyranni
maius tormentum."2("The envious man repines at his neignbour's
goodly• treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he is covetous
of others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is his
own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure ta
pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his
neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia
bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem.
"IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public
opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man
to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his
baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only
so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own
ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1
fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the
swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed
whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. The gods have
given you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop their
powers of enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final and
always imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous.
"5("It remains for you to go where iuma and Anous have descended.
There is no hope of a life after death in norade--it ig an eternal exile. Yet
he is not pessimistic about 1t. Death18 Inevitable; accept 1t as such, and
since there is only this brief span of years for every man, ending all too soon
in oblivion, let him on that account make the best possible use of each day --
Carpe Diem -- so that the doom of death will appear only as a dark background
enhancing the bright foreground of life. Looking foward, looking backward breed
discontent. Think only of the present. The surest way to get all the possible
joy out of life is to live every day as though it were the last. Grata
superveniet quae non sperabitur hora. Amid hope and care, amid fears and
passions, believe every day has dawned for you the last; so, welcome shall
arrive the hour your will not hope for.")If men keep this thought ever in
mind they will f1ll each moment so full of the richness of living that there
will beno regrets, no joys postponed to a future day which will never be
theirs, when the summons of death does come.This means that to avoid
disappointment men mustenjoy right now whatever the gods may have given
them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam grata sum manu, neu
dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater. Whatever hour the
deity has blessed you with, dosoever you have been, you may say you have lived
apleasant life.If among these blessings wealth is numbered, let men not hoard
it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a fortune if I am not
permitted The man who spares in anxiety for hisneima., no 18 all too severe 18
next door to a For there is much to enjoy in ine world--andmost of the really
worth while sources of pleasure are within the reach of all. shere 18 health.
There are all the delights of the country and out-of-door life. Ego laudo ruris
amoenirivos et musco circumlita saxa nemusque.brown rocks and wood.king, as
soon as I have lorsaken tnose soenes you extol to the skies with loud acclaim.
And--"Novistine locum potiorem rure beato? Tenat ef Taoe conle er onete
ont ura Cumsemel accepit Solem furibundus acutum? Est ubi divellat somnos minus
invida cura?Deterius Mbyois olet aut nitet herba lapillis?"4("Know
you a place preferable to the blessed country?I nore Leasant bree2e allays
ailke te tury of treDogstar and the commotions of the Lion, when once he has
gone mad by receiving the stings of the Sun?Is there a spot where envious care
less distraots our slumbers? Is the scentThere is simple food which nourishes
without distressing--"Pane egeo iam mellitis potiore placentis.
"I"Besad, is what I want now more pleasant than honded There is
sunshine, free to all, of which norace is 8o fond--"golibus aptum. How
foolish it is to want more when these things, if properly regarded, will make
one's life rich and blessed--The wise nan will learn to value and employ what
is within his reach.Not the least of the joys of life is friendship.There is a
deal of the utilitarian point of view in orace's advice about sooial
interoourse. The life of a reculse cannot be the richest one, contact with
other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius said,
"Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe and
heighten ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to make
himself as agreeable as possible. temust not pry into people's
secrets--"Arcanum neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must
never po dato secret on the meetbut when they have been confided to him, he
must keep them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a
teraladon a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat
irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must
not be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia,
for thereby he simply makes himself Obnoxioug~~"Asperitas agrestie et
inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and
offensive.") When he takes up the oudgels in defence of some
trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina, Propugnat nugis armatus.
Equally disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his
host merely to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia
tollit, Ut puerum saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum
tractare secundas. "6actor in a farce handling the seoond
part.")Horace gives a deal of sound advice about the relationship of
client and patron. There are numerous duties whioh a client owes to his patron
in return for his favor.First, he should be grateful for the gifts he
receives:-An rapias. "Pistat, sunasne pudenteror tense a tans erence
waether you take with modestySeoond, he should be willing to share cheerfully
in his patron's chosen pastimes.or blamebe you for composing
poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give way to the mild
requests of your power-Because even the closest bonds of friendghip have been
broken because of dissimilarity of tastes and unwillingness to compromise. It
is foolish to try to dress and live in anextravagant way as one's patron does.
The patron knows only too well his client's ciroumstances and will despise him
for trying to imitate him when he cannot afford it. By all means let him not
complain of trifles, but bear hardships without grumbling."Brundisium
comes aut Surrentum ductus amoenumQui queritur salebras et acerbum frigus et
imbres, Aut cistam effractam et subducta viatica plorat, ("He who has been
taken as a companion to Brundisium, or lovely Surrectum, and complains of the
jolting roadsSion one ote 1059 014 Ba11 ao an ance,Beatet.-poon erer her real
10sse8 and sortowe get noAnd further he should try to appear cheerful for the
benefit of those around, for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus
Occupat obscuri speciem, taciturnus acerbi."3If the client finds that he
is humiliated by patronage, loses his independence and his self respect, if his
patron i8 the sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior
and dislikes, as the host woo pressed upon his guest pears that were so
plentiful that wat he refused, went to the pigs, then he had much better break
off therelationship, for it is degradation.Wen should be most careful of their
choice offriends, so that when accusations assail one who is well known, they
may protect him and back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes
of others, even if it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est
annona, bonis ubi quid desset."? went are et of arlends Low, when those
who wantAnd it is a source of shame to a man to be mock-modest and refuse to
help another when it is in his power to do so--("But I was afraid I might
be thought to have undervalued my influence, a dissembler of my true power,
profitable to mygelf alone.") Tact is absolutely necessary to success in a
social way. There is a proper time for everything, as Horace warns Vinius Asina
when he commissions him to present books to Caesar. One must be careful not to
intrude upon the great, but must await a suitable opportunity, lest by his
excessive zeal he offends the one he would please. Conceit is unbearable and
will destroy friendship. Ut tu fortunam, sio nos te, Celse, feremus.
"5("As you bear your fortune, so shall we yourself, Celsus.")
Just how highly dorace valued social interoourse isshown by his careful
instruotions to orquatus on the duties of host and guests. The host should be
most discriminating in his choice of guests so that all may be
congenial--Jungatur que part, "loeat par("That like meet and be
associated with like.") and that all be the kind which will not make
friendly table conversation a matter of gossip outside--sit qus atota forae
edemthet. andoos ("That amidst our faithful friends there be none to carry
our talk abroad.") A friendship of long standing is an invaluable thing
and not lightly to be broken, as he warns Florus, who has become estranged from
lunatius. The best possible summary of O.'s philosophy of life is his own
prayer. Sit mihi quod nuno est, etiam minus, et mihi vivam Quod superest
aevi,si quid superessevolunt diSit bona librorum et provisae frugis in annumneu
fluitem dubise spe pendulus horae.Sed satis est orare Iovem quae donat et
aufert; Det vitam, det opes, aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire 2or
aselt the renaindes ofidarg, 1onsI may live for myself the remainder of my gods
will any to remain for me.May I have good stock of books and of provisions for
each year, trembling on the hopes of the man. RAPOLLA, VITA D’O. CON RAGGUAGLI
NOVISSIMI E CON NOTE DIFFUSE SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA POR TIOI
Premiato Stabilimento Tipografloo Vesuviano V L 'S^è &•&•
è»A«A«A»'1^e-. SU'' X» i I I i sJ-Sì- I^ VITA DI QVINTO O. FLACCO DI RAPOLLA o
VITA DI O. CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB DIFFUSE SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ
DI VENOSA. RAPOLLA MOBILB VKN08IMO CAVALIKSB DELL’ORDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA
CITTADINO ONORARIO DI POSTICI PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB
PORTICI pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO Corso Garibaldi, L'ijf.S'^ Dtnique
quid psalterio canorius? Quod in morem nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc
Jamòo CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico tumet, nunc semipede
ingreditìtr. 8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio Sommo di poesìa mastro e di
vita. Pisdnnont*, ad O. Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto ! D'un si vivace
Splendido colorir, d'un si fecondo Sublime imagjnar, d'una si ardita Felicità
secura, Altro mortai non arricchì natura Xetattailo, Canto ad Orazio. Et tenuit
mastras Humerosus Horatius aures, DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra.
Ovidio, Trist. 4. Elegia to. il mastro dei poeti, O. La cui lira per tutto
manda il suono, E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio. Tansillo, Canto al
viceré di Napoli. Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose D'abaisser son
cotAurne, et de parler en prose, Voltaire, EpItre à Horace. Sume superbiam
Quaesitam meritis Venosino. Dauti - //. Cult. XIV. // cittadino di Venosa
sentir devesi som- mamente orgoglioso per esser nato in così celebre terra,
pili antica di Roma: splendida civitas, anche nel tempo dei Romani,
splendidissima nei medio-evo, e patria, il che più monta, di Quinto O. Fiacco.
Del grande Venosino smisurate innumerevoli sono state le produzioni letterarie
che ne hanno decantato il nome, criticata F opera eterna, postillato e glossato
ciascun verso o parola Non havvi paese al mondo che non abbia offerto suir
altare del culto della poesia per- fetta di Orazio il suo attestato di
reverente omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran- eia, in Inghilterra si son
fatti studi prò fondi sulle opere del gran poeta italiano, e bio- grafie e
ricerche storiche pregevolissime su tutto quello che riguarda la sua vita, ed i
luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma particolarmente, si cmiservano
reliquie preziose di severe e dotte lucubrazioni su tal subietto. Duole non
poco però che in Venosa, fra tanto lume d ingegni preclari che ha dato quel
paese, non vi sia stato scrittore che ab- bia inneggiato ad O. con serietà e
pro^ fondita, e con opera particolarmente a lui dedicata; ed era un dovere
attraverso i secoli venir lodato Orazio da gente venosina. Neppure un bronzo od
una lapide parlava di lui sin oggi. Ed invero il dottissimo cardinale Giovan
Battista De Luca venosino perchè nei suoi quaranta volumi in folio non trovò il
posto per seguire quello che un S. Girolamo iniziò? Luigi Tansillo, O. de
Gervasiis, Donato de Brunis, sommi poeti venosini, Giovanni Dardo, anch' egli
da Venosa, scrittore di bel- lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et
venustissima carmina scripsit, disse M. Arcan- gelo Lupoli), perchè non
composero poema sult immortale loro concittadino? Che anzi giustamente
Francesco Fioren- tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo, redarguisce
costui, perchè « discorre di quello ix^che chiamava suo concittadino con un
certo « risentimento che non è giusto, perché O. non sdegnò altiero il
soggiorno di Ve- « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi (( un certo
compiacimento nel ricordare la sua a patria ». O.fuggì da Venosa, sia per fini
politici^ sia perchè stretto dalla necessità, sia perchè ogni genio sublitne
sorvolando per forza arcana, trova pure in tutto il ter- restre spazio angusto
confine! In luogo di e alitare tante vuote lodi ad una componente r
aristocrazia di quei tristi tempi di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non
poteva il Tansillo toccare la sua lira can- tando di Orazio, stella che
illumina il mondo e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy? Hanno voi/ do
forse rispettare il suo testamento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma non è
lecito negligere i sommi. Io, benché non degno di venir noverato fra cotanto
senno, ho composto questo lavoro con gran fatica, con gran sudore, con gran
reli- gione, essendomi prefisso con esso diradare molte idee oscure circa la
vita e le opere di O., riferire coti la maggiore esattezza quanto ad esse si
associa, mettere in luce tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che formava
pel passato delle lacune negli scritti dei biografi anche più esatti italiani e
stra- nieri. Ho pure aggiunto dei cenni storici sulla celebre Venosa, che si
commettono con la vita del suo immortale concittadino. Tutto ciò mi è riuscito
lieve, e mi è venuto strenuamente compensato col fatto, che ho aggiunto, io
venosino, un fiore al serto, che immarcescibile cinge la fronte sublime del
grande italiano. Oggi fra tanto tramestio di sentimenti di- sparati, atti a
spegnere ogni entusiasmo, ri- temprare gli animi alla fonte delle opere lei*
terarie immortali come quelle di Orazio, ed il seguirne le norme che da esse
emanano, o cittadini^ è quanto di meglio si può fare. Si respira così aura piti
pura ; si resta an- negato in un Lete morale dolcissimo: si guar- da con occhio
impassibile la vertiginosa corsa del torbido torrente della vita umana, da una
sponda secura e tranquilla. Valete. Portici— Granatello. DZE&O BAPOLLA L
mondo, questo pianeta, che pare sin oggi abbia il primato sul si- stema
universale dei pianeti, perchè in esso vive l'uomo, il re della creazione,
avverti, circa duemila anni or sono, una di quelle trasformazioni, uno di
quegli avvenimenti, che segnano date incan- 'cellabili, e che forse non più si
verificheranno nei secoli futuri, tranne quando avverrà la fine -dell' età.
Neil' aria pregna dì densissimi vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava il
tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian- chissima, divina. Le nefandezze,
le turpitudini, la mollezza, la superbia, la degenerazione del genio del bene
in quello del male erano giunte all'estremo limite del possibile. Era prossima
l'ora delle rivendicazioni, della redenzione, della riscossa voluta dalla
ragione. Era vicina la nascita dell' Uomo-dio, an- nunziato, già da secoli,
come apportatore di pace ed amore. Roma, caput mundi, imperava. Le aquile
svolazzavano in liberi campi, ghermendo prede facili in difficili e remoti
paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si disegnavano al massimo grado. I
grandi ed i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al- bagiosi, i cresi
onnipotenti ed i gladiatori morituri. Roma già da sette secoli esisteva, quando
l'umanità parve potersi paragonare al vapore chiuso in forte e potente
recipiente che sem- bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci, le gesta ed
il ricordo degli altri popoli, come i Cinesi, i Babilonesi ed i Persi, che
vanta- vano maggiore e più antica coltura, eran pres- sochè cancellati da
questi violenti conati di gente che era barbara e volea divenire inci- vilita.
Neir immensa Roma, per la quale po- poli al sommo grado belligeri pugnavano
sanguinosamente per potersi dire cittadini romani^ vagavano uomini quasi nudi,
ed appena ornati da toghe e preziose porpore, che ne lasciavano scovrire i
poderosi garetti e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare- vano non use
a piegarsi alle volubili e spesso avverse disposizioni del destino. Da Roma
partiva quella voce imperiosa che comandava alle schiere invitte la conquista
del mondo intero. Tutto pareva nascer gigante in quel tempo, e con l'impronta
del misterioso e del sublime. Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna,
Giugurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio, Cleo- patra; Roma, Atene, Cartagine;
Virgilio, Ti- bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Giovenale, Tito
Livio, O., Mecenate, Augusto I Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente in-
vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva- no la schiavitù più abbietta.
Fremevano e levavano ruggiti di leoni. E Mario era un leone della foresta :
nato da vilissima gente, sorbì sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i
potenti ed i gaudenti. Era smilzo, altissimo, nervoso, brutto, di volto terreo,
come se quel colore della pelle dovesse indicarne la mal- vagità dell'animo,
come dopo molti secoli in Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe solea
far aspro maneggio. Gridava fremente alle turbe spensierate e lussuriose : O
voi altri, che vantate imagini lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi;
verrà Y ora della rivendicazione sociale. II vostro cammino trionfale sarà
arrestato da un fiume di sangue. Le vostre pompe su- perbe saranno oscurate da
montagne di cadaveri deformi 1 Eppure Mario avea sortito dalla natura il genio
uguale a quello di Cesare, suo grande nepote. Era guerriero nato. Vinse i
Cimbri, aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila stesso si misurò a suo
forte discapito. Corse vagolante sulle rovine di Cartagine. Dipoi iniziò la
fatale guerra sociale. Morì atterrito da visioni tremende 1 A Siila scorrea
nelle vene sangue gentile di patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto;
era vendicativo oltre ogni credere, ma celava in petto cuor generoso e forte.
Non poche migliaia di Sanniti restarono sgozzati al semplice muovere del suo
soprac- ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui, che invano entrava nel
cotidiano bagno di es- senze per torsi di dosso la miriade di paras- siti e
microbi che lo dilaceravano e lo spen- sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne
fosse infetto il sangue degli umani, tra i servi e gli strapotenti. I
mirmilloni ed i reziarii, nelle barbare e sanguinose lotte, formicola- vano,
per appagare la sozza cupidigia di vec- chi lussuriosi e donne ben pasciute e
coronate di rose, e briache e spossate dalla crapula e dal piacere. Era il
preludio delle guerre servili. Dugentoventimila servi e Spartaco con
centoventimila gladiatori produssero uno scoppio ed uno schianto formidabile,
come potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave. Licinio Crasso, quegli che
rappresentava l'or- pellata repubblica, ne fece crocifiggere seimila. A
spaventoso movimento, repressioni più spaventose. Licinio Crasso fu
favolosamente ricco per le opime spoglie e per V oro rag- granellato con la
confisca dei beni delle sue vittime e dei milioni di proscritti. Ma quell'oro
di nefando acquisto vennegli fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi agli stessi
suoi figli. E trentamila Romani sgozzati dai Parti, ad Harron nella
Mesopotamia, furono quelli che espiarono con lui V inau- dita ferocia. Spartaco
gladiatore, di razza nu- mida e di regio sangue, morì da eroe nella fiera
mischia sulla riva del Sele in Lucania, condottiero di stanche e poche
agguerrite schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e Crasso, tra il gladiatore
ed il potente, tra quel povero oppresso e quel ricco oppressore, es- servi
dovea odio mortale. Perversi però e scelesti ambidue ! Cicerone e Catilina,
sommo oratore ma ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso- luto l'altro.
Dalla congiura del secondo, che mirava in realtà al nichilismo dei nostri
giorni, e dalla fine del primo si videro strani risul- tati. Catilina cadde
trafitto nel campo tra le sue schiere pugnaci per un ideale. CICERONE (si veda)
ha il capo e le mani mozzi e confitti ai rostri del foro romano, e la lingua
foracchiata dall' aureo spillone della proterva Fulvia. Splendidi esempii agli
ambiziosi I Mentre che alla magnifica Atene non re- stava che il primato nel
mondo per le let- tere e per le scienze, e mentre V immensa Roma repubblicana
si affraliva e s* incrude- liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas-
sacri e le guerre, nasceva Cesare. Cesare lo si disse dapprima congiuratore con
Catilina. Gli scorreva però nelle vene il sangue vile di Mario. Era rinfocolato
da am- bizione smodata e livore. Fu uno dei più grandi uomini che nacquero nel
mondo. Lottò da atleta gigante con Pompeo, nato da eque- stre famiglia e
partigiano del nobile Siila, e Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani
gliene recarono la testa mozza, e volle punita la barbara adulazione. Era
letterato di gran talento. Era generoso, ma sotto il mantello di leone
ascondeva animo felino, vendicativo, dissimulatore. Catone preferì trapassarsi
di propria mano il corpo con la spada, piuttosto che rendersi servo di Cesare.
Cesare am- biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Germani, i Galli e
Scipione, ma venne pugnalato. Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto di
Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si macchiò di parricidio, perchè la
dittatura lo premeva come incubo, anelava alla libertà, E tale fu la progenie
umana sin da che vide la luce. Cristo, r uomo-dio, venne al mondo colla
missione di pace tra gli uomini. Fatalmente però gli uomini si mantennero
sempre gli ' stessi. Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fratricida per
invidia e per sete di dominio. E da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a
Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi a Tiberio ed a Nerone, che
ricreavansi degli spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole umane. E da
questi ai Torquemada, agli autori degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono
Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da questi a Luigi XI, il compare di
Tristano, ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre aizzava le orde a fare
strage, e permise la tremenda notte di Bartolomeo, a Robespierre che allagò il
bel suolo di Francia col sangue delle vittime del Terrore ; al prigioniero di
S. Elena, che seminò di stragi, rovine e morti buona parte del mondo ; sino a
quelli, innu- merevoli, che in questo nostro secolo avven- turoso han messo a
soqquadro l'universo con lotte ferocissime. Una è perciò la linea che appare
precisa: l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro qualsivoglia supremazia,
servaggio od oppres- sione; mista a malvagità ammantata, sia dalla porpora, sia
dai cenci; in diverse guise, nel- l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra
so- vrani e sudditi, tra volgo profano e menti elette, e persino tra letterati
e tra i sacri mi- nistri delle diverse religioni; il quale odio malvagio personificato
potrebbe raffigurarsi quale Encelado premuto dall' Etna. La scala della
nequizia in tutti i tempi ha toccato i cieli, come quella biblica. Tale era lo
stato del mondo allorché nac- que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene
scorreva sangue di schiavo. I ELLA vetustissima Venosa [Venu- sid), città
situata tra la Puglia e la Lucania), nel dì 8 dicembre dell'anno 689 dalla
fondazione di Roma, sessan- tacinque anni prima dell' era cristiana, essendo
consoli Cotta e Torquato, essendo Cesare compromesso con la prima congiura di
Catilina, perchè sognava la caduta della repubblica e la dittatura, nacque
Quinto O. Fiacco. Il nome di “Quinto” se lo appropria lui stesso nel libro
delle satire. O. ognuno lo chiama, ed egli stesso così sempre si noma nei suoi
scritti. Plutarco lo dice “Fiacco” nella vita di Lucullo – cioè: “orecchiuto”,
ed egli stesso, nell'Epodo e nella satira, così si cognomina. Ma tale
soprannome non indica che ha orecchie deformi, bensì può riferirsi a lui,
quello che egli stesso dice di essere di facilissima audizione, oppure che
quelli di sua famiglia fossero distinti con tal nomignolo, tra le non poche
famiglie della tribù oraziana, della quale si discorrerà in appresso. In un
antico manoscritto che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che
vuoisi opera del dottissimo Cenna, venosino, si asserisce che O. nacque nelle
case dette, al tempo nel quale il Cenna scrive, dei Plumbaroli, presso le mura
della città, e presso certi molini, che in appresso (come rilevasi . nelle note
del Cimaglia) ap- partennero ai Pironti venosini, e che oggi son quasi di
fronte alla cattedrale, venendo dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto /e
Sa/me. Suo padre era uno schiavo fatto libero. La quale condizione se non era
tanto miserevole quanto quella dello schiavo, poteva dirsi av- vilitiva oltre,
ogni credere; imperocché il liberto ripeter doveva quella larva di libertà dal
suo antico padrone; come cittadino ve- deasi privato del diritto al suffragio;
aspirar non potea agli alti uffizii civili, e neppure a coprirsi le braccia e
le dita di anella d' oro perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo stesso
matrimonio era per lui limitato nella cerchia dei suoi pari, perchè un liberto
spo- sar non poteva sia la figliuola d' un senatore o d* un patrizio, sia altro
essere nato libero od ingenuo, come diceasi allora. Viveva il liberto sotto la
tutela del passato padrone, e lui malaugurato se a questo si fosse ribel- lato:
ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas- sato padrone se ne avvaleva per servizii
ono- rifici, mediante lieve mercede. Malamente taluni vollero sostenere che il
padre d'O. fosse libertino nel senso voluto da Svetonio in altri suoi scrìtti,
e non nella biografia d’O., cioè figliuolo di liberto o figlio di schiavo fatto
libero. Orazio, alludeìtttea suo padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel
senso detto dapprima, volendo intendere che suo padre era stato schiavo, ed
aveva avuto poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio alcuno. Il padre di O.
presta il servizio di riscotitore di tasse del comune di Venosa e di banditore,
era un servus pubKcus; il Che dimostra che il suo passato padrone essere dovea
di alto grado sociale, assegnandogli tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed
a servizio della città. Nel suo stato perciò dirsi potea felice ed agiato,
stantechè possedeva presso la Rendina, luogo neir agro di Ve- nosa, un
fondicello che gli dava ( sebbene O. dicesse esser suo padre macro pan- per
ugello) un conveniente provento, e quindi potette unire al suo impiego anche un
negozio di salsamentario, o salumiere; e come vuoisi da Svetonio, Tunico
biografo, così laconico, ma purtroppo veritiero, veniva scher- nito il
giovanetto O. dai suoi compagni di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum
brachio se emungentem ? ^) Ingiuria solita in quei tempi ai figli di salumaio,
e che Cicerone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- aito se emungere
solebat. Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto ciò che O. ha scritto
sopra i suoi geni- tori, né da altri scrittori suoi contemporanei, compreso lo
stesso Svetonio, né il nome di suo padre, né il nome e la condizione di sua
madre. Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscrizioni e sigle, riporta un
frammento d' iscri- zione che dice leggersi sopra una casetta in Venosa, che
erroneamente fu detta esser la casa di O., così concepita: O. C. L. Dio
MlTULLEIAE UX. e che sì è voluta decifrare così: O. Diodoro Caji Liberto
MiTULLEjAE Uxori) La quale interpretazione importerebbe che il padre d’O. nomar
si dovesse Diodoro o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo un falso indìzio
– cf. Grice: spots are a falso indizio di measles], poiché in Venosa furonvi
non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno di questi è riferibile
l'iscrizione funeraria. I due eruditi Grotefend, Franke nei suoi Fasti d’O., ed
il Milmam nella sua splendida opera The works of O. illustrateci, opinarono il
padre di O. poter esser un discendente dell’illustre famiglia romana degl’O., e
che ridivenuto libero, avesse ripreso, secondo il costume del tempo, il proprio
nome. Ma Mommsen, nella sua opera Inscriptiones Regni Neapolitani, riporta
tredici iscrizioni rin-venute in Venosa indicanti l'esistenza di una tribù O.,
colonia romana, nella quale sono allistati gli abitanti della città di Venosa.
Il padre di O. Fa parte di questa colonia, non discende però dalla famiglia
degl’O., nel qual caso farebbero opposizione le continue lamentazioni del
figlio di vii nascimento. Né si potea concepire che, fra tanta chiarezza di
prosapia, da darsi pure il lusso di un' iscrizione sepolcrale, O. poi non enunziasse
neppure il nome di quelli che gli f^ aveano data la vita. Ed è poi noto, come
si vedrà in appresso, che tutto venne confiscato alla famiglia di O. dopo la
disfatta di Filippi. Era anzi quella gente tenuta in bando, e del tutto
sprovvista di mezzi, il che permetter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi
con iscrizioni commemorative. G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo- sophia
vetus et nova ad usum scholae, opina che un avo d’O, assoldato nell’esercito di
Mitridate, venne nelle guerre del Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma,
e comprato da un questore venosino, dal quale si ebbe la libertà. Ma tale idea
fanta- stica, come moltissime venute fuori dalla penna del letterato e filosofo
del Calvados, non ha fondamento, mancando della parte principale, cioè del nome
del prigioniero, schiavo fatto libero, dal quale deriverebbe il padre di O. (di
cui neppure sa dire il nome), che per tal guisa sarebbe stato figlio di
liberto, non liberto, come era infatti; O. chiamando sempre suo padre
liòertinus, non nel senso voluto da Svetonio, e mostrando sempre rammarico per
tale causa. Altri poi (come rilevasi da vecchissime edizioni del gran poeta )
credettero assegnare al padre di Orazio il nome di Tubicino; ma pure questo va
chiaramente emendato, stanteche si è voluto confondere il nomignolo del-
l'uffizio che il padre di O. si aveva in Venosa, cioè di banditore. E siccome i
banditori in quel tempo solcano annunziarsi a suon di tuba, diceansi
trombettieri ( tubicen^ tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- rirsi che
s'ignora del tutto il nome del padre di O. e quello della sua genitrice: se ne
conoscono solo del tutto la condizione e lo stato del primo. Orazio disse
essere stato suo padre uno schiavo, al quale venne concessa la libertà. Tale
origine del suo casato lo mo- lestava acremente. E qui cade in acconcio notare
che mentre Orazio non ha mai indi- cato il nome di suo padre e di sua madre,
non ha mai nominata la città di Venosa. Con molta lucidità indica il luogo
della sua na- scita e ne fa un piccolo cenno storico topo- grafico così
concepito: Io non so con preci- sione se son Lucano o Pugliese, perché il
colono venosino suole volgere l'aratro tra i due confini di queste due regioni.
E che Tansillo venosino cosi traducendo imita nel suo canto al viceré di
Napoli: Io non so se Lucani o se Pugliesi Siam noiy però ch'il venosin villano
Ara i confini d'ambidue paesi. Ed una colonia romana fu spedita in tal luogo,
abitato prima da Sanniti, per iscacciar- neli, e per impedir poi che tale
infesta gente corresse sopra Roma a molestarla come pel passato. Ed invero i
Sanniti furono infesti non poco ai Romani come le storie luculentemen- te
asseriscono. E tale colonia romana spedita in Venosa, secondo attesta LIVIO,
formar dovea guarentigia a tutta la regione pugliese e lucana, e mostra ad
evidenza V importanza della città di Venosa in quei tempi. O. volle con
precisione dichiararsi ap- partenente alla colonia ronìana che discacciava da
Venosa i Sanniti. Eppure i Sanniti furono di razza Sabina, ed O. non pensa che
la Sabina, cioè la patria prima dei Sanniti, formar dovea la sua seconda
desiderata patria, la sua aspirazione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana
commedia ! Eppure i costumi dei Sanniti furono qual si conviene a popolo
belligero, sobrio e buo- no. Governavansi in austera repubblica, ed il sistema
democratico formava la base delle loro istituzioni. Pei servigi resi alla
patria davan persino le avvenenti compagne e le figlie come premio. O
sacrifizio memorabile \ Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i Sabini più
destri e valorosi. Venne però l'ora definitiva della sconfitta, e nell'eterna
guerra tra le genti, il più forte li debellò. I Romani 290 anni prima di Cristo
li espugnarono del tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché dice che la
colonia venosina, debellati i Sanniti, divenne propugnacolo contro le ossidioni
di tal forte e belligera gente. Convien quindi notare che Orazio per quanto
asserì esser nato sul suolo venosino, per tanto sem- bra mostrarsi superbo di
appartenere alla co- lonia romana ivi residente: che anzi bisognerebbe
assegnargli meritevolmente la taccia d' ingratissimo, perchè oltre a non
nominare una sola volta in tutte le sue opere la patria sua, come non precisa
il nome ( e li avrebbe immortalati) né di suo padre, né di sua ma- dre, bensì
il nome del suo primo maestro Flavio venosino e della sua castalda, Fidile^
cosi sacrilegamente si esprime: Sic quodcumque minabitur Eurus Fluctibus
hesperiis, venusinae plectantur silvae, te sospite. E Gargallo, quasi
arrossendo, in tal guisa traduce, cangiando le venosine selve in lucani boschi:
Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^ Ai flutti esperii^ di là ratto il muova A*
lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia) E per giunta in tutte le sue opere O. non
nominando mai, come dissi, Venosa, spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi,
TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma- tino, Benevento, e con
aspirazione invidiosa Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis- sima
Venusia, era bella, com' è tuttora, su- perba, attraente, forte più del suo
Tivoli, e dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno tutti gravi e non poche
mende, ma bilanciate con le qualità individuali, superiori e rare, vanno
cancellate. Salve perciò, o O., sovrano poeta, onore della razza umana! Venosa,
la patria tua, perdona tale non- curanza, e tale al certo involontaria
irricono- scenza. L' hai ricolmata di gloria imperitura, indicando a chiare
note che sorbisti le prime aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò
bastar deve per fare scomparire ogni traccia di livore o sdegno verso di te, se
pur può albergare nell'animo di alcun tuo concitta- dino livore o sdegno, come
invece alberga venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-. tal Tu certo vivi
ancora. Il tuo spirito im- mortale aleggia benefico genio del luogo su quella
ancor bellissima terra; oppure da qual- che stella lucente gitta raggio amico
che mo- stra la via al viandante in quelle selve lucane, od al nocchiero la via
nera dell'antico mare Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an- cora oggi si
annega ! O. scrive : Che qual figliuol di libertin trafitto Soft da tutti)
Invero Guerrazzi da savio sostiene: La ignobilità più che la chiarezza del
Itg^taggio riuscire stimolo acuto a ben meritare; aven- do la natura concesso
all'uomo maggiori po- tenze per acquistare, che non per mante- nere. ^L'assillo
nonpertanto che tormentava O. era la sua nascita: perché non potendo schermirsi
dai vili ma pur tormentosi frizzi della plebe che lo dicea discendente da
schia- vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più su si è discusso, che gli
bolliva in seno, e che il padre vieppiù incrudeliva, estolle la ma- gnanimità
del suo genitore per averlo fatto educare, istruii^e e porre a livello dei
giovani di buone famiglie ed agiate. Che anzi con boria e sicumere che mal
velava lo struggersi interno, asseriva potersi porre a pari, egli figliuol di
schiavo, coi figli dei senatori e dei cavalieri di quel tempo anche nella
superba Romal Si vedrà in appresso quanto fosse ampollosa questa sua assertiva,
allorché si noterà co- me egli stentar doveva per accaparrarsi sia l'amicizia
di altri poeti più fortunati, sia dei grandi, che un solo fortuito caso gli
permise avvicinare, e come molte volte ingiustamente ne restava mortificato,
mendicandone le grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per meritarsi l'onore di
venire annoverato tra i commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi maestro in
cortigianeria a parecchi suoi gio- vani amici ed ammiratori ! Non è lecito
credersi di più di quello che si è in realtà, né fidar troppo sul proprio me-
rito, per quanto incontrastabile esso sia, in questa commedia umana nella quale
regna sovrana V ingiustizia ! Il suo orgoglio come poeta diveniva ridevole
quando si rivolgeva circa la sua condizione nella società nella quale viveva.
Ma quel marchio che al solo presentarselo alla mente lo straziava a morte, il
marchio di esser figliuolo di uno schiavo, gli faceva talvolta aver le
traveggole. Riesce sublime quando esclama: Io disdegno e allontano Da me il
vulgo profano Tacciasi ognun Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o) Egli lodò
grandemente il padre, perché questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove molto
era conosciuta la sua origine, e di af- francarsi dalle prepotenze dei ricchi,
dei senatori, dei cavalieri e di ognuno con Y i- struzione, col coprirsi di
gloria: e tanto ot- tenne. Orazio nacque, come si accennò, dodici anni prima
della congiura di Catilina. Cele- bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio
Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i FILOSOFI Terenzio VARIO e Numidio
FEGULO. E per l'arte tribunizia CICERONE, Ortensio e Quinto Catulo. In Venosa
in quei tempi eravi pure una classe sociale che si distin- gueva dalla volgare,
la quale frequentava la scuola di un maestro Flavio, del povero Flavio, che non
avrebbe potuto mai augurar- si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi
consacrato nel libro di O., che pur non dice il nome del suo genitore, della
genitrice, della patria. A questa scuola attinse i primi rudimenti il piccolo
Orazio. I suoi compagni lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza col farsi
in seguito beffe di essi e dei loro parenti nobili venosini I La povera nobiltà
venosina) quella nobiltà che ebbe incisa in pietra pelasgica tale enfatica
iscrizione: Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA Aelius Restitutianus Vir
Perfectissimus CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM Splendidae Civitatis
Venusinorum Consecravit ") resta schernita e vilipesa dallo stile del
sommo satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed agiate della città di
Venosa dovean tenere a vile accumunarsi con O. e famiglia, stante che ne
conoscevano Torigine. Fu questa una delle ragioni per cui il padre decise
condurlo in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto un ingegno precoce e
svegliato che promet- teva alcun che di grande, e pensò abbiso- gnargli più
ampli orizzonti e pabolo più ade- guato e conveniente. Orazio aveva circa otto
anni o dieci al massimo, secondo il computo di Andrea Dacier, nella sua
Chronologia an- norum Horatii, allorché giunse col padre in Roma, e cominciò a
frequentare quelle scuole romane. Ed è caro quel vanto che trasse O. quando nei
suoi canti, ricordando il padre ed i felici giorni della pueri- zia, e
sentendosi nella folla della scolaresca deir immensa città susurrare
airorecchio di esser creduto di alto lignaggio, dice: Ma d'alti sensi osò
condurre a Roma Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti Che un cavaliere che un
senatore insegna Ai propri figli, Allor se, come avviene In un popolo immenso^
avesse alcuno Gli abiti visto^ ed i seguaci servii Certo creduto avria spese sì
fatte A me apprestarsi da retaggio avito] La quale ingenua confessione dimostra
che il padre di Orazio, sebbene appartenente alla bassa condizione di liberto,
non doveva essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen- te ricco. Quanti miseri
studenti, figliuoli di coloni agiati e signori delle provincie^ non vanno oggi
in Napoli o nell'alma Roma ad apprender lettere o scienze ? Ma ben pochi vivono
certo vita allegra, vestono panni di lusso, e possono farsi seguire da servi e
staffieri con panieri ricolmi di succulenti ma- nicaretti od altre costose
leccornie ! O. però per generoso e riconoscente sentimento riferisce al padre
il potersi istruire con tanta comodità, né può tacciarsi di parabolano o falso,
né molto meno di orgoglioso, lui, che abborriva dall'orpellato fastigio, e
mordeva con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i centurioni venosini! Sotto
l'usbergo d'una morale istintiva covava Tira repressa del figliuol del liberto
1 ni. L padre d' O. conduce suo figlìo in Roma, cioè cinquantacinque anni prima
dell' era cristiana, non raggiungendo questi ancora i dieci anni di età. Forte
baleno dì or- goglio e di stupore dovette abbagliare il piccolo venosino, ma
pur cittadino romano, nel calpestare le aboliate strade della magnì- fica Roma.
Ergevasi la città, che imperava allora su buona parte dell' orbe terraqueo, sui
dodici celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio, e quell'altro dove
Tazio venne a fissarsi coi suoi Quiriti, rifulgono oggi maggiormente nel mondo,
perchè dominio di validissime potenze: la tiara, e la monarchia costituzio-
nale deir Italia unita e libera. Aveva ponti lunghi e meravigliosi, porte
monumentali, mura che potean vantarsi più durature e inconcusse delle
ciclopiche o pelasgiche o delle cinesi. Avea più di quattrocento templi ador-
nati di colonne preziose, archi trionfali, obe- lischi fatti trasportare con
ingentissime spese dalle più remote regioni del mondo onde si fosse palesata la
grandezza delle vittorie romane dalle spoglie ricavate dai potenti e riottosi
nemici. Se però Roma mostravasi tanto superba e potente alla vista, il che
poteva lusingare i sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non proveniva da
paese barbaro e povero, bensì da Venosa, caput Apuliae, città monumen- tale e
stupenda, siccome attestano le antiche carte e le lapidi che hanno sfidata la
corro- sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere nella sua ampiezza
e magnificenza gente av- vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di
Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui più sopra si delineò la proterva
jattanza), quel popolo, dapprima così forte e generoso, vedeva sfuggirsi, pel
libertinaggio prepon- derante, la libertà che offriva ai cittadini la
repubblica di CATONE (si veda), repubblica ormai mo- ribonda. La mollezza ed il
mal costume torcer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo romano. E perciò
Orazio stesso, allorché co- minciò a balenargli in mente il vero, scrisse che
le cure del suo buon genitore, che gli fu guida permanente, fra tante grandezze
e fra tanto scompiglio morale lo ritrassero dal cadere in brutture ed ignominie
e dal venir tacciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu- rarono la stima
dei buoni e dei veramente grandi. Il padre soleva giornalmente condurlo dai
maestri più celebri della città, ed ai banchi di quelle scuole famose sedevano
con lui figliuoli di senatori e di altre famiglie nobili ed alto- locate
dell'alma Roma. Era sicuro il padre che non si sarebbe rinfacciato al
giovanetto Quinto O. la nascita vilissima, perchè s' ignorava donde fosse
venuto : Y emporio immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i popoli della
terra, lo assorbivano. E lo schiavo fatto libero superava per lusso e per
criterio sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini. O. gliene fu gratissimo ; e
scrisse che se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto scegliersi un padre,
avrebbe scelto quello che gli die natura, non trovando altro uomo più
coscenzioso, più perspicace, più amore- vole di questo ! Desta ammirazione e
mera- viglia questa confessione, se si rifletta che il padre di O. era
illetterato, e che era stato soggetto alla schiavitù 1 Ed O. nel parlar di suo
.padre include pure la madre sua, perchè dice: io pago a' miei (genitori), di
fasci E di sedie curuli avoli adorni Saprei spezzar. Le prime lettere gli
furono apprese da Pupilio Orbilio da Benevento, che, come narra Svetonio, fu
dottissimo grammatico in quel tempo e tra i migliori maestri sotto il consolato
di CICERONE Visse centenario; morì povero, solita fine dei non pochi lavoratori
coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e non risparmiò la sua sferza allo
stesso O., che se lo rammentava con satirica soddisfazione. L'uso delle
sferzate nella palma delle mani degli scolari, antico più del tempo del quale
si discorre, formava sin negli ultimi nostri giorni un genere di punizione che
la civiltà invadente va oggi disperdendo, siccome si è tolto il barbaro uso di
bastonare e torturare i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti- tuirsi a
quelle corporali e costrittive. Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò O. ad
alimentarsi della poesia latina; menando a memoria e tratteggiando le scene
drammatiche del poeta Livio Andronico ed altri illustri. Come più sviluppavasi
negli anni, cominciò ad attingere alle fonti delle lettere greche, che egli
stesso poi definì le più pure e che dovevano occupare i dì e le notti degli
scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo, Archi- loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e
non tra- lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che gli fece acquistar
gusto alla satira, furono i suoi modelli nel bello scrivere, e da essi ap-
prese quell'arte divina, quella melodia am- maliatrice, che lo fecero
addivenire il prìftio tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-agonarsi
all'ape industre del monte Matino (ser- vendosi per similitudine del nome d* un
monte della sua Puglia, ma non del Vulture presso del quale spento vulcano ebbe
la 'Cuna), cfee svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da ciascuno quel tanto
di dolce e poetico da for- mar xumti immortali 1 Ed invero potrebbe qui
riferirsi senza de- rogare l'aurea massima di Ovidio del prin- cipiis còsta,
nel senso inverso, per umU, privo del tetto «npic.1, eha Bud«t var»(EUr bnpuko
SctDW col cV»l. Io radiche, essendo gli scribi addetti al contenziose
amministrativo, od alla pubblica contabilità, formavano un' autorità speciale,
siccome la Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi formavano un collegio a
parte e la carica era vitalizia ed inamovibile. Dalle antiche iscrizioni
scoperte in Tivoli, e presso la via Nomentana in Roma nei pri- mi anni del
secolo decimonono, come da altre che vennero con esattezza riportate e com-
mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati, da Reinesius, nella sua Syntagma
inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da Visconti, si rileva appunto
l'importanza del- Tuffizio di scriba. Hawene una di un Tito Sabidio Massimo,
scriba della questura, ed appartenente al sur- referito collegio, al quale i
Tiburtini innalza- rono un monumento in riconoscenza dell'alta protezione
accordata da lui a questa città: T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae. Q. SEX.
Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici. Salio. Curatori Fani Herculis. Tribuno.
Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii. Locus Sepulturae. Datus, VOLUNTATE. POPULI.
DECRETO. SeNATUS. TlBURTIUM. Siccome quest'altra seguente iscrizione a Manio
Valerio Basso antico tribuno di legione come era stato Orazio, pubblicata nel
Giornale di Roma dal comm. Visconti, rende noto che la carica di scriba della
que- stura soleva assegnarsi alla miglior classe dei cittadini, e talvolta
solevasi contraccam- biare con la carica di tribuno delle milizie, acciocché se
qualcuno fosse stato esonerato o per età o per volontà, trovar potesse un
appannaggio adeguato al proprio valore, ed un meritato guiderdone: Man.
Valerio. Man. F. Quir. Basso. Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI.
Primo. Harispic. Maximo. Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et. Fratri. Suo. Hs.
L. M. N. Arbitratu. Heredum. Erroneamente quindi gli antichi interpreti della
parola scriba e dell' impiego ottenuto da Orazio, e molti scoliasti e
glossatori e biografi attribuirono solo il senso di copiatori di pubblici atti,
oppure notai o redatt di atti privati, all'ufficio di scriba. Tale dignità
elevata, ottenuta solo per ii pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi zio più
facile V accesso ed il conversare e grandi ed i potenti di queir età, come si \
drà in appresso. L’importanza poi di tale impiego ott nuto dal poeta si rileva
anche da quello ci egli stesso scrive nella satira sesta del libi secondo:
Quinto, Ti pregano i notai che non ti scordi Di tornar oggi pel noto affare Al
collegio d* altissima importanza [Anche il Gargallo spiega la parola scribi con
la voce notato; ma non credo aver voluta egli intendere quello che oggidì
importa h carica di notaio, bensì componente il collegio degli scribi questorii
suddetti. Il sommo poeta trascorse dunque i primi anni della sua dimora in Roma
tra Toccupa- zione che gli offriva tale dignità onorifica e lucrativa e tra i
diletti della poesia. Non può asserirsi con piena conoscenza quanto Weichert,
uno dei più indefessi il-lustratori del poeta, nella sua opera Poe- tarum
latinorum, vuol sostenere, cioè che O. avesse solo ventisette anni allorché
venne presentato a Mecenate, cioè nel 715 di Roma. La cronologia diventa un
mito quando si ravvolge in date così lontane e senza testimoni oculari. Volendo
però seguire tale opinione, adottata pure da Andrea Dacier, la presentazione di
O. a Mece- nate successe quattro o cinque anni dopo la sua dimora in Roma. E
Mecenate, il gran protettore degrillustri letterati di quel tempo, non lo
ammise nella propria corte se non dopo averne conosciute le virtù, i pregi
dell'animo e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato se Vario e Virgilio,
che glielo raccomanda- rono, avessero imberciato nel segno propo- nendolo pel
novero dei suoi favoriti, quando era a sua conoscenza che Orazio aveva so-
stenuto la carica di tribuno nelle legioni di Bruto, ed era fiero ed ardente
repubblicano. Riesce quindi logico noverare la satira quarta del primo libro di
O. come scritta poco prima che fosse a Mecenate presentato, stante che in essa
si scusa con quelli che lamentavansi delle sue punture, e gliele rimprove vano
come poco coerenti per uno che int( deva guadagnarsi la stima dei grandi. ]
egli vuol farsi credere semplice moralista filosofo che castiga, ridendo, i
costumi, perciò egli si esprime presso a poco coi Il leggere satire, il veder
frizzata la catti gente non riesce certo piacevol cosa a colo che hanno la
coscienza poco monda. Ma e è puro ed integro ed onesto, non teme scudisciate
del poeta, siccome disprezza calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai dar
divulgando le mie composizioni nel piazze, nei trivii, nei simposii od anche
nel accademie. Scrivo per semplice diletto, spini da forza arcana e per pura
intenzione di ù del bene e purgare la società inondata d; vampiri, dai viziosi,
dagli scelesti, dagVinv diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh costarono
sudori a generazioni di lavorator Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci:
può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia d'aver calunniato chi merita lode,
d'aver scemato il merito, anzi non aver abbastanz; lodato i cittadini eminenti
ed onesti? Un uomo che parla così di se stesso me- ritava venire annoverato tra
quelli la cui ami cizia è un guadagno, un pregio, un onore. Vario e Virgilio lo
presentarono a Mecenate. iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la noa. cliL nciFBnlI
iDroliJ. poicha ftllm lla^iu k ÉufanUl pad or nada td kncluopv. Gaxoallo —
Trmd. di Oraiìa AIO Cilnio Mecenate nasce in Arezzo dalla nobilissima famiglia
Cilnia, discendente dai re dell'Etruria, che erano quei guerrieri etruschi
venuti a soc- correre Romolo nella guerra contro i Sabini. Nacque tre anni
prima di O. Visse i primi anni legato di amicìzia col giovane Ottaviano, e
fecero insieme gli studii delle h tere e delle scienze in Atene. Egli pure,
seguendo le orme degli avi, intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt rioso
Cesare in tutte le battaglie per demoli la repubblica e difendere Roma dai nemi
interni ed esterni. Non fu affetto dal morbo dell' ambizion Allorché Augusto
divenne padrone del v stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei i primi onori,
i più ampii poteri; ma tutto eg rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl di
rappresentarlo quando si allontanava e Roma. Preferiva il sistema governativo a
regim monarchico assoluto, piuttosto che quell retto a repubblica, e riuscì a
far determinar col suo savio consiglio Augusto a conservar quel potere sovrano
che per suoi fini particc lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell propria
influenza, dei suoi disinteressati am monimenti e del suo credito per rendere
Au gusto, imperatore e pontefice, proclive ali clemenza ed a far più manifesto
il fastigio della monarchia. Amante del lusso, egli stesso sprona Augusto
severo, economico e restio al grandeggiare, al rendersi sovrano per
magnificenza e per sublimi intraprese edi- lizie e monumentali. Sposa Terenzia,
donna di grandissima bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudia: ritornò ad
essa sommesso: che non hawi grande uomo esente da mende, principal- mente
dipendenti da procacia donnesca. So- stenne lotte atroci per dimenticarla, e
non ne ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom la dipinge nel vero suo
aspetto. Era scrittore forbito, piacevole ed erudito. Compose ( ma non sono
giunte fino a noi ) una Storia naturale, la Vita di Augusto, e diverse tragedie
e poesie. Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi competere con Lucullo:
largheggiava con ma- gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro- verbiale nei
secoli si fu \ aver protetto e be- neficato i sommi letterati del suo tempo.
VIRGILIO (vidasi), Vario, Terenzio, Tibullo, Catullo, Marziale ed il nostro
grande poeta furono i suoi favoriti. Né la sua protezione si limi- tava a
piccoli sussidii, ad inviti ai suoi sontuosi conviti od a sterili
raccomandazioni Bensì soleva rendersi splendido per largi zioni tali da bastare
ad assicurare l'agiatezze per tutta la vita del protetto. Pochi sovran si sono
succeduti sulla scena del mondo prodighi come Mecenate, e tanto avveduti nei
dare ed innalzare chi realmente possedeva meriti personali così insigni da
immortalare il protettore, considerandolo nei frutti del lorc ingegno. Solo in
questi ultimi anni nelle ro- vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu- sto
marmoreo di Mecenate. Le rovine della splendida sua villa a Tivoli non
sarebbero bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran- dezza senza la
Lucerna venosma, che lo ha fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna. Il
vero monumento imperituro a Mecenate glielo ha innalzato O. Fiacco venosino.
Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo insigne protettore: O Mecenate, o
decoro nostro e parte massima della nostra fama. » Ma Orazio si mostra più
virile. Ritiene Me- cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu- do della sua
persona; ma non attribuisce a lui, bensì al proprio ingegno la propria
immortalità. La superbia Oraziana (superbia derivante dai meritati allori ) non
comportava servilità comuni al volgo. Poteva forse il ricchissimo aretino
forjiir- gli una sola favilla di quel genio che il gran cittadino di Venosa
stesso definì particella di aura divina? Tutti i tesori di Golconda non equivalgono
a quegli slanci di lirica sublime che non han- no avuto eguale in nessun
mortale quaggiù ! Come si accennò innanzi, O. venne presentato a Mecenate
mentre vivea occu- pato neir ufficio di scriba questorio, e nel comporre satire
ed altre poesie, che aveano già richiamato l'attenzione degli altri eruditi del
giorno. E ciò dovette succedere, cioè avendo egli già sor- passato il
ventisettesimo anno. Egli stesso così descrive questa presentazione: r ottimo
Virgilio Da pria^ poi Vario dissero chi fossi, ' Né me figliuol di genitor
preclaro Né me opulento possessor che scorra Suoi vasti campi su destrier
pugliese^ Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^ Giusta tua usanza^ tu
rispondi: io parto. E dice pure: Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando Pochi
accenti succiai^ poiché alla lingua Era infantil pudor nodo ed inciampo. Donde
nacque mai in Orazio tanta umiltà tanta bonomia e tanta confusione vedendos al
cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò tente Mecenate, se non dallo scorgere
in lu un amico sincero che cordialmente e senzc vedute interessate lo
proteggeva, e lo 'ponevc nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava
l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams di lui, mentre pel contrario
molti altri lo di- sprezzavano e lo invidiavano, e per tal fine cercavano
fargli il maggior danno possibile? Aggiunger poi si deve che la magnificenza
che circondava Mecenate, il suo palagio, la fila dei cortigiani che colle teste
curve sino a toccare le lastre marmoree del pavimento, il suo prestigio dovettero
colpire O., che, per quanto impavido fosse, dovette risentirne certamente
imbarazzo e confusione. Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti, dopo un'
aspettativa lunga ed ansiosa nelle anticamere, ad un sovrano? E se sei
italiano. ti trovasti mai alla presenza del gran Re Vit- torio Emanuele ?
Quella figura atletica, chiu- sa nella cornice che cinge i re nelle reggie,
colla divisa brillante di generale italiano, con quelli occhioni vividi e fieri
che ti scendeano come saette sin nelle intime latebre dell'ani- mo, quasi a
scrutarne le più riposte idee e sentimenti, non ti produsse alcuna emozio- ne ?
Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti avesse di sua mano largita un' alta
onorifi- cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito sussultare il cuore di
gioia, riconoscenza e compiacimento? Se nulla hai provato, dir debbo che
l'animo tuo è insensibile come pietra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour,
Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taciturno tedesco ebbero fieri sussulti
dell'animo, quando la mano del gran re strinse la loro! Discordanti ben vero
appaiono le opinioni circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da Virgilio e
da Vario presentato a Mecenate. Molti sostengono (e si riscontra nelle me-
morie dei suoi moderni biografi) che siffatto avvenimento accadde nell'anno 735
o 736 di Roma, così che fanno succedere nel 737 il viaggio di O. con Mecenate a
Brindisi e quindi pochi mesi dopo questa data la pub blicazione della satira
quinta del libro primo che ne descrive facetamente il viaggio, l evoluzioni,
gì' incontri avvenuti ed altri fat terelli piccanti. Ma nella Cronologia del
Dacier, che devt stimarsi la più esatta disposizione degli av venimenti e degli
anni nei quali O. com pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con- solati
sotto i quali O. accenna scrivere, viene indicato il viaggio di Brindisi nel
716, od in quel torno di tempo, cioè quando O. avea ventinove o trent' anni, e
riesce ciò più presumibile. Poiché nelle opinioni con- trarie il poeta avrebbe
fatto quel viaggio por- tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri- guardo
alla sua salute un po' malandata ed alla circospezione a conservarsi, ed alla
sua vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e rifiutava perfino gli inviti
di Augusto, non appare verosimile. Sia però come si voglia, certa cosa é che
Mecenate riserbossi nove mesi per poterlo ammettere nel novero dei suoi amici
stretti. O., erudito, giovialissimo, baldo, perchè adusato agli esercizii aspri
della milizia: sperto del mondo, perchè provato dalle sventure e chiaroveggente:
amante del vivere allegro, buontempone, re- sistente alle libazioni dei cecubi
e dei falerni, uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade- scarle col
vischio della poesia, dovea venir ricercato nelle brigate e nelle accolte dei
dotti e dei viveurs di quel tempo. Era bel giovane, se non bellissimo, e ne
menava vanto; ed i malanni della precoce se- nilità (dovuta agli studii
indefessi), siccome la cisposità degli occhi ed i reumatismi, non aveanlo
ancora reso solibus aptum, né biso- gnevole delle stufe calde di Cuma o delle
fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò fé' propendere la bilancia a suo
favore. Mecenate, gran conoscitore degli uomini, ed indagatore minuzioso,
specialmente trat- tandosi di quelli che doveano essergli sempre vicino e sui
quali doveva fidare, lo volle con sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com-
mensale ed ospite nelle sue splendide reggie. Si sostenne (al dir di Svetonio)
da taluni detrattori del sommo poeta, che nel temp in cui O. e presentato a
Mecenate, ve nisse pubblicata in Roma una lettera sua i prosa, e dei versi
elegiaci supplichevoli, co quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n
implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms calunnia (e Svetonio stesso lo
asserì) apparv più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat tava di libelli
infamanti. O. non piatì sup plice nessun onore, provando in petto senti menti
di fiera libertà; sentiva troppo di sé tanto che in luogo di adulare sferzava i
cor tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl dell'effeminato e del Malchino. Il
seguirsi de fatti di sua vita e le proverbiali espression di superbia che si
notano nei suoi scritti, at testano lalto grado della sua alterigia, fie- rezza
ed indipendenza. E non aveva poi h carica autorevole e redditizia di scriba
questorio in Roma ? E a lui, cui bastava tante poco, a lui nemico del lusso e
delle albagie boriose dei grandi, come potette addebitarsi tanta viltà ? Molti
scrittori dissero O. es- sere traduttore dei poeti greci. Frontone chiama O.
memoriabilis poeta, e nient'altro. È noto del resto che il gran Venosino nei
più antichi tempi non fu tenuto in quella no- minanza altissima, come ora si
tiene. *^) Oh che gli uomini sogliono vedere sem- pre il male nel prossimo, e
fingono non vederne il bene I L'adulazione, gli omaggi resi da O. a Mecenate ed
Augusto, sono, derivati dal suo animo riconoscente e buono. Mecenate lo colmò
di doni e favori. O. se l'ebbe a gran fortuna ed insperata, e per aver ester-
nata la sua riconoscenza procacciossi la taccia di pettegolo e vile adulatore.
Lessing ^7) così si esprime : « La malizia regna sovrana negli apprezzamenti,
come nelle altre cose. Che un letterato espri- ma le proprie idee sulla
divinità in maniera da rendersi sublime, esponga le massime più belle sulla
virtù, il volgo si guarderà bene dair ammirare il cuore da cui partono siffatti
sentimenti, bensì gli si assegnerà la taccia di stravagante. Se poi, al
contrario, allo scrittore sfugge il benché minimo biasime- vole fatto, lo si
dirà derivante da un cuore cattivo, da un animo perverso. Così giudicano gli
uomini! Le massime così morali ed istruttive d O., la sua circospezione, la sua
religio ne, la sua integrità, la sua indomita fierezza il suo animo generoso ed
affettuoso insieme la sua amicizia, che si svelava sempre sin cera e
disinteressata, non furono bastevoli e liberarlo dal dente della calunnia e dai
vita perii degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori Quando altro i suoi nemici
non potetterc fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- do che Toblio
l'avrebbe ricoperto; ed infatti ben pochi scrittori di quel tempo e soltantc
qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- darono O. Oh stolti ! O. era stella
sfolgoreg- giante di propria luce! Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe-
dirono certo, perché pregavano O. stesso a presentarle, ed O. negavasi)
suppliche e petizioni a Mecenate per aversi quello che O. ottenne per suoi
meriti straor- dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne aiutato da Vario e
Virgilio, i quali indipendenti e sommi non mercanteggiavano sulla virtù e
suiramicizia ! O. conservò sempre una virile dignità, né fu mai parassita o
cortigiano di Mecenate, ma suo amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte
che li colpì, per istrana fatalità, insieme! Svetonio riporta l'epigramma
faceto ed amichevole che Mecenate ad O. diresse, che molto spiega e rischiara :
Ni te visceribiis meis, Morati^ Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm ninno me videas
strigosiorem, (( Se io, o O., non continuerò ad amarti più di me stesso, possa
tu vedermi ridotto più sfiancato del mio muletto. Al cardinale Ippolito d'Este,
che non era certo al livello di Mecenate, né per inge- gno, né per ricchezza e
potenza, e che ri- volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili- ti va: « Donde
traeste fuori, messer Ludovico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : Fa che
la povertà meno m*incresca^ E fa che la ricchezza sì non m*ami Che di mia
libertà per suo amor esca. Quel ch'io non spero aver fa eh* io non bramii Che
né sdegno ne invidia mi consumi . Si noti differenza di sentimenti ! O. così
risponde al celebre giurecon sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi gliava a
celebrare coi carmi suoi immorta] le gesta di Ottaviano: Trebazio di Cesare
tinvitto Osa le gesta celebrar^ sicuro Che ne otterrai ricca al lavor mercede,
O. cedono ineguali A tanto desio le forze inferme fuor che in propizio istante.
Mai non Jìa che di Fiacco accento voli) Ma questa è apologia bella e buona,
chse, sed c( si tibi natura deest, corpuscolum non « deest. )) Dai quali brani
si rileva che Augusto non solo stimava Orazio al massimo grado, tanto da temere
che essendo le sue opere immor- tali, non curasse d'immortalarlo in esse,
quanto eragli amico intrinseco e con lui so- leva scherzare come con un suo
pari. Ed Augusto non addivenne l'erede testamentario del poeta? Sono fatti che
riescono incomprensibili a quelli che non vogliono riflet- tere quanto grande
sia la potenza del genio, dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate
venosino è un fenomeno che merita uno stu- dio speciale, e non altrimenti
possono spie- garsi quelle poesie nelle quali la superbia e lo sprezzo del
volgo profano fanno ma- nifesta quella grandezza sua, che chiarissima a lui
stesso appariva. Di bronzo più durevole Ho un monumento alzato.,.^ Non Jta che
basti a chiudere Me breve tomba intero Dair imo suolo alt etere Diran eh io seppi
alzarmi Primier su cetra italica Cigno d* Eolii carmi,,,.. Superba or va^
Melpomene Dei meritati allori Tutto il terrestre spazio È angusto a me
confine,..Non io Da r urna e da la stigia Onda sarò ristretto^ Già del figliuol
di Dedalo Io spiego ala piti ardita.... Laude fra tardi posteri Farà ch'io,
guai per fresca Aura, arbuscel piti vegeto Ognor m^ innovi e cresca..,. La
pompa è a me soverchia Che r altrui tombe onora,.,. 34) Colui che si esprimeva
in questi termin sentir doveva di essere di gran lunga supe riore a tutto il
resto degli uomini, e non rieso incomprensibile che abbia potuto divenire i
favorito del potentissimo Augusto, siccom( lo era del generoso Mecenate. E che
la superbia di O. fosse stafc sprone ad acquisto di ricchezze ed onori e vuota
supremazia sui suoi simili, patentemente vien diniegato dal suo metodo di vita,
dalle sue massime radicate di sobrietà e morigera- tezza, dal suo contentarsi
del poco e godere della parsimonia. Mecenate ed Augusto po- teaii certo
offerirgli più che un podere in Sabina, potean delegarlo proconsole in terre
lon- tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu- cuUo; ma ciò sarebbe stato un
offenderlo, un ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio, un
attendersi un reciso rifiuto, perchè non eran questi i voti del venosino. È
notorio che Orazio non usò altri di- stintivi di onorificenze se non lanello e
gli ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene sol- tanto per accompagnare
Mecenate nei pub- blici ritrovi, perchè non amava certo che si fosse detto che
l'amico del potente signore fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- liere
che comandato aveva una legione romana! Un poderetto in luogo ameno, salubre,
tranquillo e lontano dai rumori della gran città, un tetto sicuro, la certezza
di vivere agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici protettori, ai quali
dimostrava ad ogni p sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne solo
sufficiente ma sovrabbondante, e ne rii graziava le divinità! Ah che daddovero
era una grand' anim quella di O. venosino! O divino Verd o sommo Cantù, voi
siete oggi esempi vi venti di uomini immortali aborrenti dalla st perba
jattanza, e modesti, e cari ai popoli e all'Essere eterno che vi stampò !
Riesce fs cile notare nel passato, fatte le dovute ecce zioni, taluni pure
letterati od artisti, ai qual riuscì appena in certa guisa a far risonar pel
mondo la tromba della fama, che non pii si appagarono di piccoli poderi o
rustich- casette, ma bramarono s'innalzassero monu menti a loro stessi viventi.
Vollero onor sommi, castelli, parchi, magnificenza, fra stuono di accademie e
di teatri, e scialo à superare i re della terra ! LA VILLA SABINA SvsTomo —
Vitt ili Orma L'ooohka eoM DgU kiL mlil non ibiHa, Qu«l oh* poHl*d«: PIA qaaL
poco i mto^... Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL Gaioallo Tra4. ili Orati I ell'
esposizione della Promotrice in Napoli si ammirava un cjuadro ad olio, segnato
O. in viiia, dell'illustre pittore Camillo Miola, mio amico, autore della
Sibilla, del San- sone al torchio, delle Danaidi, del Plauto^ e di altre
pregevolissime tele riguar- danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione
italiana fa elogio sommo, dichiarandolo uno dei migliori artii moderni d'
Italia. Ed invero chi esamina quel quadro st pendo yien compreso d' ammirazione
p l'arte e per la precisione storica che vi nota. Non palagio cinto da portici,
o i parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca celli con grifoni e sfingi di
bronzo; ma ui modesta costruzione nascosta da un altissin albero, sul quale si
arrampica un cespo g gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno me roseto; con
semplicità di colore, con pi cola corte, con finestrette modeste, da un delle
quali pende una gabbiolina con un capinera, e da cui compare il busto di On zio
che maschera una vaga donzella, dell quale si distinguono solo le belle fattezzrini
e Batillì imberbi con lunghe chiome, che saltellando ed agitando nacchere e
tirsi, si versan dalle anfore colme vini prelibati rac- colti nel podere. Una
capretta randagia presso il rustico cancello di legno, apparisce spettatrice
innocua di quelle piacevolezze campestri. Basta veder quel quadro per formarsi
una idea della proprietà che O. si ha in dono da Mecenate, unico dono che la
sua modestia aggradì, e che confaceva al suo ideale. O. cosi enunzia la
topografìa del suo podere rustico: Tutto di monti una catena il forma^ Se non
che t interrompe opaca valle Ma così^ che sorgendo^ il destro lato Ne copre il
sole^ e con fuggente carro Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima Ne loderesti)
Nella terza satira del secondo libro per la prima volta parla di tal dono che
gli venne fatto da Mecenate quando cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina
il Dacier, nella sua Cronologia delle opere oraziane, tale satira in quel tempo
fu scritta. Ed O. ringrazia cordialmente Mece- nate per tal dono che gli
giungeva nel suo trentesimosecondo anno di età. La voracità del tempo che ogni
traccia di opera distrugge ed oscura, fece del tutto scomparire le vestigia
della villa di O. in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi ammiratori, e
la religione che accompagnò i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru-
deri di tal fabbricato e podere, guidati dal lume nello stesso O. nelle
descrizioni che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul- timi anni stabilire
il luogo preciso, la con- formazione e r area dove quella villa sor- geva, e
dove il gran poeta, al dir di Sve- tonio, visse molti anni nel ritiro fin
secessu) e nella quiete. Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus- siano,
nelle sue Racemationes venusinae; Obbario, nelle sue no- te sulle epistole
oraziane; e principalmente r opera che X illustre Chaupy pubblicò in Roma sulla
Scoperta della casa di O., possono offrire prezìose notizie sulle ricerche
pazienti e sulle in- vestigazioni profonde e minuziose fatte per dar luce
chiara a tale obbietto. O. disse che al suo piccolo fondo bastano cinque
lavoratori per menarlo a coltura, i quali andavano a smerciarne le der- rate a
Varia, piccola città lambita dall' Aniene, ed avean tutti alloggio nei
fabbricati adia- centi a quelli che lui stesso abitava, e dove ciascuno soleva
vivere con la propria fami- glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul far
della sera, sprigionavansi cinque nuvo- lette azzurrognole che ne indicavano il
ru- stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno tranquillo. Si costuma
tuttodì dagli agiati proprietarii di terre nelle province meridionali di vivere
nel proprio fondo circondati dai rispettivi coloni, e r occhio vigile del
padrone non nuoce alla prosperità di esso. Si comincia pure oggi a comprendere
dai ricchi possessori di latifondi che la pigra vita delle popolose città non
ridonda a vantag- gio della loro fortuna. Si creino pure castelli, e si viva in
essi, ma si faccia dimora presso la sorgente, donde si ricavano quel ricchezze
che rendono disuguali gli uomii fra loro. Si renderebbe così possibile e pei
donabile tale disuguaglianza! Il principale castaido di O. dovev nominarsi
Davo, marito forse a quella Fi dile alla quale dirige consigli savissimi
salutari con una sua epistola. Davo esser do veva un cattivo castaido, come lo
son per h più quei villici che abituati da tempo a fa da padroni nel fondo, mal
vedono un nuo vo signore venire ad imporre ad essi leggi ( dettami ed a
sorvegliarli. O. lo rimbrotta acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe- ste
saturnali, solendosi concedere ai subal- terni piena facoltà di esternare i
proprii sen- timenti senza poter venire redaguiti dal pa- drone, ancorché
gliele cantassero amare, (e tal costume si è conservato sin negli ul- timi
secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel suo sudicio e laido poema, che
intitolò // yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà possa degenerare in
licenza) svela il suo animo protervo, indocile e poco amante delle rusticane
usanze e prosperità derivanti dalle buone e fertili annate, e dall' amor del
suolo opimo; che anzi si svela amante dei piaceri della città per quanto
spregiatore delle gioje campestri, e sotto la veste del campagnuolo si nasconde
un guattero tralignato, ed un operajo invido ed infingardo. Davo prima di
entrare nel podere aveva servito dei signori romani nell* ufficio di
mediastmus. Si figuri il bel tomol Il fondo si componeva di una selvetta ce-
dua (dove al poeta successe quel fiero in- contro col lupo, ed un dio propizio
lo fé' restare incolume) ricca di elei ed altri alberi ghiandiferi che
servivano ad alimentare le piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre- scura
e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed un orto, nei quali pruni, susini e cornie
ab- bondavano, con diverse altre specie di frutta delicate : né mancavano
ulivi; tanto che ben potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La vite poi formava
la parte più ricca del fondo, e dalla quale Orazio solea distillare quel cele-
brato vinello che non disdegnava far gusta- re al palato di Mecenate. Nel mezzo
del fondo scorreva un rivolo di acqua freschissima, che ricascando in gt
terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi je, formava poi una fonte
limpida e crisfc lina da potersi paragonare al celebre fon Bandusia, che
versava le sue pure linfe pres; la patria del poeta, e che ancora oggidì qu di
Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah di Venosa, presso il bosco di Banzi. La
fontana D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9> è appunto \ attuale
fontana degli Oratir presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press Venosa nella
strada che mena a Palazzo £ Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai da Orazio
in una gita a Venosa per cacci, o diporto. Erroneamente si confondono queste
du\ cioè morirà il mio corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav- viverà I In
che cosa si discosta dalle credenze del cristianesimo, se si cangiano i nomi
alla divinità che dall' alto dispone, assiste e protegge? O Jehova, o Dio, o
Giove, uno è il prin- cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale che tutto
vede e dispone, e che premia o punisce. Non è la sommissione buddistica, bensì
la virile sommissione ad una forza on- nipotente. Orazio diceva: Che Giove fra
celesti Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^ E Vittor Hugo in questi
ultimi tempi, ben- ché ammantato di scetticismo volteriano, gri- dava: // est,
il est, il est! **) A tali credenze religiose mescolandosi la -c(a più dolce
salsa alle vivande Procaccia col sudor. 5^) Soleva in compagnia dei suoi
familiari ed alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere a queste semplici
vivande un buon bicchiere di vino schietto e leggiero, che essi mede- simi
avevano manipolato dopo la gioconda vendemmia. La sua mensa era linda, lucente,
bianca, sulla quale campeggiava un vasello emble- matico ripieno di sale: e V
aveva per caro auspicio e quale usanza religiosa. Il sale ha avuto grande
importanza in tutti i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- liti serviva
per purificare e consacrar la vit- tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è
mista al sale. Questa sua grande mondezza, non lo dissuadeva dall' invitare a
convito amichevole, oltre ai suoi amici di condizione eguale alla sua, siccome
Torquato, Settimio, LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle di vita
allegra ed avvenenti, come Fillide, Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran
Mecenate, al quale scriveva: n nauseoso lusso ammirar cessa. Grato ben giunger
suole Sovente ai grandi il variar di scena. Cerca mensa frugai^ là dove ammessa
Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora In pover tetto fa sparir le impronte
Che affanno incide in accigliata fronte. Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è
pregio Povertà senza fasto e senza sfregio) Ed in tali circostanze
straordinarie mo- strar si soleva galante a modo suo. Inco- minciava col
prevenir gli amici che se con- servavano vino miglior del suo, Io portas- sero
pure alla sua mensa che non se ne sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un
bicchierino di soverchio alla salute del do- natore. O. ammetteva che il vino
rinfocolasse l'estro poetico, e perciò mal soffriva sedessero al suo desco gli
astemii, sostenendo che pu- tirono di vino sin dall' alba le dolci muse.
Prometteva ai commensali che li avrebbe collocati nel triclinio ciascuno presso
a per- sona che non gli riuscisse antipatica o me- ritevole di troppe
cerimonie. Né disdegnava riservare il posto ai più gai, ai più giovani e baldi,
presso quelle generose donzelle ro- mane di bellezza e brio regine. La
gentilezza, poi, formava il principale suo pensiere. Così scrive a Torquato:
Già il focolare da un pezzo e le stoviglie Splendon rigovernate a farti onore A
bere^ a sparger fiori io già son primo, Che sozza coltre Che sordido mantil non
giunga il nc^so Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto Tal non sia che
specchiarviti non possa) Né gli piacevano numerosi convitati, ma pochi, cari e
buoni: Che caprino sentore ammorba i troppo Folti conviti. Riesce in vero
gradito e dilettoso figi rarsi in mente il nostro O., re del coi vito, con quel
suo faccione pieno e rose^ ilare, faceto, coronato di rose, levigato terso
colla cute, da sembrare un majaletl lustro e pinzo. Levatosi da letto, soleva
andarsene a zoi zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover glebe e sassi,
adocchiare i filari delle vit curare gì' innesti delle piante e degli albei da
frutta; della qual cosa solcano ridere vicini) i quali conoscendo come Grazi
frequentasse la corte, e che di Augusto e e Mecenate e di altri potenti fosse
familiare non poteano persuadersi di questo suo amor per così rustiche e basse
faccende campe stri. Non riflettevano essi che nella ment del venosino eravi
fisso, incardinato il « m admirari y> secondo l'opinione di Laerzic e di
Democrito. Orazio era dotato di « aia raxia » e le grandigie, il fasto, il
lusso nor lo lusingavano punto, anzi ne era al somme disgustato, siccome
ritrovava diletto in quelle sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie
consiglio: Alma al ben fare accorta Tu serbi • inflessibile A V oro abbagliator
d* ogni pupilla) E dopo le escursioni nel podere ponea mano a coltivar lo
spirito, scrivendo, leg- gendo, meditando. Solca poi di tratto in tratto
recarsi nella gran città, in Roma, sia pel disimpegno della sua carica di
scriba della questura, sia per altre faccende, sia per coltivare le amicizie di
Augusto, di Mecenate e di altri che egli stimava, principalmente versati nelle
lettere e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè la folla dei
postulatori, degl'intriganti, dei finti amici invidi e malvagi, degli zingani,
dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor- dure, e dei molestissimi e
garruli falsi lette- rati non lo avevano risparmiato. villa, e quando io
rivedrotti^ e quando Potrò dei prischi saggi or fra i volumi Or tra il sonno e
le pigre ore oziose Trarre de V egra vita un dolce oblio ì Li fave^ al Sannio,
in parentela aggiunte E i buoni erbaggi come va conditi Nel pingue lardo, oh
quando avrò sul desco I notti I cene degli dei^ dov* io Presso il mio focolar
coi miei m' assido^ E mangio^ ed alla vispa famiglinola Dei servii nati dai
miei servii io stesso I già libati pria cibi dispenso! S^) Della sjpa persona
soleva avere som cura, perchè quasi giornalmente immerge nel bagno, e dopo
ungere si solea di o profumato e finissimo. Nel vestire most vasi dimesso e
noncurante, ma non pe privo di gran pulitezza o da potersi dir come vuole san-
to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del Farao. ^^) Non mi è quindi
riuscito straordi- nario ed inesplicabile quanto in appresso verrò esponendo
circa le consuetudini do- mestiche d’O. Nelle molteplici edizioni delle opere
del sommo poeta, le quali riportano la sua bio- grafia redatta da Svetonio
Tranquillo, ho rilevato che si è tralasciata una notizia in- teressante che
riguarda una sua pratica oc- culta, la quale può ben riferirsi al culto sur-
riferito di misticismo caldaico. La vita di O. composta da Svetonio Tranquillo,
che è l’unico che scrive del gran venosino pochi anni dopo la morte di lui, e
che fa accrescere certezza alle investiga- zioni fatte neir analizzarne le
opere, si compone non più di una sessantina di versi di stampa. Tutto è
laconico e scritto fugacemente, come se si trattasse d’un cenno necrologico.
Sembra che Svetonio abbia vo- luto far notare con certa diffusione Solo l'a-
micizia intima che legava O. ad Augusto, ed in essa si dilunga, fornendo
preziosi brani di lettere. La quale riproduzione di brani di lettere di Augusto
ad Orazio dirette forma- vano forse il soggetto che per la maggior parte dei
contemporanei destar doveva in- teresse maggiore, e far di O. un uomo agli
altri superiore per tanto onore. Il brano della biografia che è stato
cancellato (forse per purgarla), V ho rilevato da un' edizione olandese delle
opere di O. pubblicata da Bond, che la prima volta comparve in Londra, e dopo
se ne riprodussero diverse al- tre edizioni intere, ed è il seguente: (( Ad res
venereas (Horatius) intemperantior traditur nani speculato cubiculo scorta
dicitur, habuisse disposila, ut quocunque respextsset, tòt et imago e
referretur. Formava adunque per Fiacco un culto (( / ars Venerea », ed egli
addimostrava- sene tanto fervente, perchè nato nel luogo ove sorse il primo
Succoth-Benoth. Nella cennata antica cronaca venosina del Cenna, il quale era
pure investito della prima di- gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di
Venosa, si leggono i seguenti versi che rinforzano la mia assertiva: « Alcuni,
e spe- tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi, vanno dicendo che Horatio
Fiacco fusse stato in sua vita di costumi osceni, il che tutto è falsissimo,
siccome lo testifica Ludovico Dolce nella vita di esso Horatio. » E Sivry,
eccelso poeta, nel suo poema. « L Emulation » va all'eccesso contrario,
proclamando O. (( modéle de bravoure et de chasteté. » Ciò che forma adunque
l'addentellato al dispregio di molte produzioni oraziane, viene per tal
riguardo distrutto ; considerando che la sporcizia e l'oscenità, non erano poi
in quei tempi una qualifica essenziale dell' immoralità e della disonestà. Egli
stesso ripetuta- mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi- sce gli
adulteri, i violatori delle vergini, gl'incestuosi I Eran questi per lui
grimmo- rali ed i disonesti. E se non è questo il cor- reggere i costumi, qual
altro fondamento di morale, mancando la cristiana, poteva offrir- gliene
sostegno ? Egli rampogna acremente i Romani d' ir- religione e lascivia. Egli
volle vivere sempre celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto d' alta
responsabilità che non volle allacciar- sene, né restarne tenacemente avvinto.
La moglie di Mecenate gli forniva un esempio troppo splendido d* incostanza,
infedeltà e disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia abbandonando lo sposo. E
non parea conve- niente al sagace venosino far la triste figura di Mecenate,
intendendo professare V opi- nione di Seneca a tal riguardo, quando com- pose
la biografia del marito dell' infedelis- sima Terenzia.Il suo celibato vien
confermato dal non aver scritto mai carme o verso per donna che fosse stata sua
moglie. E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del libro 3^: Te Mecenate il
rimirar sorprende Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^ Io cèlibe^ di
?narzo a le calende E fior prepari. E solo ad un celibe sarebbe convenuto far
pompa di tante conoscenze di cortigiane e donne allegre. Lagage, Gige, dori,
Barine, Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera, Glicera, Tindaride ed altre
dimostrar posso- no, essendo state amanti riamate di O., che se egli non aveva
moglie, godeva non poco del benefizio inapprezzabile di essere li- bero e
celibe. ìÀjiS^Ì se. "*-Sj GuOALio Tml. di Orm, N moltissimi punti delle
opere di Orazio appare che nella sua mente elevata si presentava l'immagine
della morte, questo indecifrabile, nebuloso, oscurissimo problema, questo fatto
in- cognito, pauroso e spaventevole. E dir ch'egli covava in petto un cuor di
ferro, e so- steneva che: Con impavido ciglio Se delteteree spere in pezzi
infrante. Valta compage piombi Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s) Non
poteva con tutto ciò esimersi da quella paura istintiva, da quel senso di
terrore in- generato dal dover mancare alla vita, dal do- ver brancolare nelle
tenebre dell'ignoto. Nato a morir Tutti attende alfin quella profonda Che non
conosce aurora unica notte Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda Presto
rapì t inclito Achille morte E a me ciò farse offrir vorrà la sorte Necessità
di morte Getta sovra ciascun Legge crudeli Ma pazienza mitiga Ciò che non ha
riparo Tutti spigne tal forza ad ugual meta Che a pugnar seco è mortai forza
inabile) Tutta la sua filosofia: le massime di Democrito e di Epicuro, che
facean precetto essenziale di dispregiare e non curare gli orrori del sepolcro,
non bastarono a toglier questo pensiero ftinestissimo dalla mente di lui. In
mille maniere lo rimuginava, lo com- mentava, compiacevasi tormentarsene. La
lu- ce ed i fulgori delle verità cristiane non gli rischiaravano l'intelletto e
non gli molcevano il dolore, promettendogli una patria lassù, sulle sfere,
patria immutabile, bella d' ogni godimento ed allietata dalla vista di quel Dio
rimuneratore e buono ed onnipotente. Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so-
levansi ammettere quei miti inverosimili ed incredibili, che acchetavano la
bramosia di quei popoli privi di una fede consolatrice, che prometteva la
beatitudine ventura come compenso alla vita onesta e laboriosa. Dato che il
piacere terreno formar do- vesse la meta della felicità, che poteva spe-
rarsene dalla vita futura? Il nulla, la distru- zione completa, la particella
della materia andava a ricongiungersi alla materia: Noi cadendo Nella notte che
non sgombra Più non siatn che polve ed ombra . Degli anni il breve termine
Vieta ordir lunga speme: V ombre favoleggiate e la perpetua Notte già già ti
preme) Nella distruzione completa del suo essere O. ammetteva che soltanto una
parte di se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il frutto dei suoi sudori,
il suo monumento: r anima sua. E tale credenza, che non era dubbio, gli scusa
la fede nel!' immortalità dello spirito umano. L* (( omnis moriar »,
espressione tanto concisa per quanto chiara, spiega che non eravi dubbio in lui
neir immortalità del- lanima. La paura della morte comune a tutti, sebbene con
tanta jattanza, dalla maggior parte apparentemente sfidata, più che O. vinceva
il suo protettore, Mecenate. E siccome la paura è attaccaticcia e conta- giosa,
O. non addimostravasi meno allarmato di lui. E tal pensiero dominante trapela
nelle sue opere, come quell'altro, che lo mordeva sordo, della nascita vile ;
né bastavagli a frenargli la lingua, la sua for- tezza e valentia. La paura
della morte era così possente in Mecenate da fargli dettar quei versi riportati
da Seneca, che non fanno grande onore al valoroso romano: Vita dum superest,
bene est Hunc mihi vel acuta Si sedeam cruce^ sustine ! Tanto grave e scoraggiante
riusciva per lui tale idea, che avrebbe meglio amato ve- nire inchiodato in
croce come l'ultimo dei malfattori e vivere, che farsi tragittar da Caronte
nella palude Acherontea. O. venivalo consolando con teneris- sime espressioni,
perchè O. non era codardo, né intendea scoraggiarlo maggior- mente. Ma le sue
espressioni non appro- davano gran che. Tentò alfine porre in ope- ra il savio
consiglio, che la pena gli sa- rebbe venuta scemata sapendolo compagno nel
dolore, ed è perciò che gli dice senza essere scevro di paura :, Non piace ai
numi Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi Un dì medesimo fia d* ambi
estremo Ne il voto è perfido, inseparabili Andremo^ andremo. Che pria se muori
Pur teco air ultimo comun mi trovi I nostri unanimi fuor S ogni esempio Astri
consentono 69) E tale profetica consolazione, per istrana fatalità, si verificò
pur troppo. Non è lecito veder tutto con tinte soprannaturali. Buona parte di
quello che molti direbbero spirito profetico attribuir si deve alla paura della
morte che premeva così Mecenate come O. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non
è vigliaccheria, bensì è innata nella natura umana. Anzi prode è colui che
questa paura affronta, e guarda imperterrito quella figura armata di falce,
sfidandola sui campi delle battaglie, al letto degli appestati. Se non vi fosse
terrore e spavento istin- tivo del morire, quale prodezza, qual valentia
sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le pesti, il mare irato ed il baleno
delle armi nelle tenzoni cavalleresche? L' amistà che legava Mecenate ad
Orazio, il sentirsi quel grande consolato da lui così coraggiosamente lo fecero
memore del poeta che l'assisteva nelFora estrema a preferenza degli altri. Nel
suo testamento scriveva ad Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura di O.
Fiacco come prendereste cura e terreste memoria di me stesso I » E riesce
veramente straordinario come, morto appena Mecenate, che era già soffe- rente e
presentiva la propria fine, dopo pochi giorni, un subitaneo malore colpì il
sommo filosofo, da non lasciargli neppure il tempo di dettare in iscritto le
sue ultime vo- lontà. Andonne misteriosamente a raggiun- gere r amico neir ima
notte, siccome aveva promesso. O. morì a Roma, essendo consoli Caio Mario
Censorino e Caio Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette, due mesi e
qualche giorno, cioè nel dì 27 novembre. Già da qualche tempo varcati i dieci
lu- stri, O. non senti vasi sano: accusava sof- ferenza ai nervi e malinconia
che accom- pagnar sogliono per lo più quelli che tra- scorrono molte ore del giorno
a logorarsi la mente coi severi studii. Perchè i visceri si rendono sofferenti
per le occupazioni men- tali, e defatigata la mente, la tetraggine invade il
cervello, principalmente quando gli anni incalzano. In una lettera che il poeta
scriveva ad un compagno d'impiego nella questura, Cel- so Albinovano, suo
amico, ma che giunto al- l' apogeo della grandezza, perchè ben ve- duto e
careggiato dal giovane Nerone, erede dell' imperio, mostravasi altezzoso e
superbo (sebbene non manchi la nota sarcastica, ben- ché infermo, per questo
favorito di ven- tura) così diceva: Dritto né ameno è di mia vita il corso^
Perché men della mente sano Che delt intero corpo^ udir vo' nulla, Nulla
imparar che il morbo sgravi, I fidi Medici fanno orror, gli amici restia Perchè
al sottrarmi al rio letargo intesi. 7o) Ed a Mecenate . scriveva : Ma di cor
debil troppo e troppo infermo Me conoscendo^ chiederai tu quale Il mio far
possa al tuo periglio schermo? Col corpo affranto dal peso degli anni, dalla
vita trascorsa nelle fatiche mentali e nelle avventure e nei godimenti venerei,
sopraggiunse ad O. la nuova della mor- tale malattia del suo Mecenate e la fine
dì questo. Il colpo fu troppo violento e dovea riuscirgli fatale. La sua fibra
debole non poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con lo scoliaste Elanio
Acrone, dilucida le la- coniche note di Svetonio, circa la vita di Orazio, dice
che lo stato suo di salute era deteriorato assai con gli anni, che non gli
conveniva più restar l'inverno nelle monta- gne della Sabina, nella sua cara
villa : che svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo scrisse) come il luogo
più aprico: ce Tiburi enimi fere otium suwn conferebat, ibique carmina
conseribebat.ì) E Tivoli desidera O. infermo e pensava morirvi là. Così egli
scriveva al fido amico Settimio: Oh tregua al vecchio fianco Tivoli dia Quivi
piagnente di pietosa stilla Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^)
Certuni erroneamente attribuirono la morte di O. a suicidio, tanto apparve
strana la coincidenza della sua con la morte di Me- cenate. Ma deve venire del
tutto bandita tale idea per le seguenti ragioni. O. dei suicidi soleva fare
aspro maneggio, soleva dileggiarli; e la storia di Empedocle di GIRGENTI che
ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente lo dimostra. Empedocle per desio di molta
vanagloria e prodezza, invano precipitossi neir Etna. Ma la sua pantofola ne
tradì la inutile bravura. Esaminando imparzialmente e con co- scienza la vita
di O., si nota che ogni sua cura si volgeva a conservarla, sia che militasse a
Filippi, sia che vivesse in Sabina. Era poi tarchiato ed obeso, e quindi
facilmente proclive all' apoplessia. Che era già fiacco e malandato in salute
nel suo undecimo lustro. Che il dolore della per- dita del suo più caro amico e
protettore Mecenate, egli così amante degli amici e riconoscente, doveva
avergli prodotto tale un rincrudimento dei suoi malanni da dar- gli la morte
con colpo apopletico. E son numerosi gli esempii di fratelli od amici ancor
forti e vegeti, che, toccati dalla re- pentina disparizione d* un fratello o d'
un amico, li han seguiti immantinenti nella tomba sopraffatti da colpo di
malore violento. Non altrimenti deve pensarsi di O.. E che fu tale il suo
genere di morte lo prova poi chiaramente il non avere avuto il tempo di tesser
un elogio funebre al suo sommo protettore Mecenate, che aveva assistito negli
ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e con altri. Eppoi non ebbe forza di
scrivere il proprio testamento. Svetònio dice: (c Quum urgente si va- letudinis
non sufficeret ad obbligandas testa- menti tabulas . Dovette avvalersi di
quello che, dice Giustiniano, prescrivevasi dal giure civile di quel tempo,
cioè della prova testimoniale di sette cittadini, che dinanzi notaro provarono
esser volontà del moribondo O. che l'imperatore Augusto fosse il suo erede, O.
per decidersi a lasciare erede \ imperatore, che consentì ad accettare \
eredità, doveva esser fornito di non pochi beni di fortuna. Che di fondi, che
di valsente doveva aversi senza manco veruno un buon dato, stante la sua
parsimonia. E lo certifica Svetònio quando accennando alle largizioni di
Mecenate e di Augusto dice: (( Unaque et al- tera liberalitate locupletavit. »
Ma delle sue sostanze rimaste non appare vestigio od accenno, meno della villa
e del podere in Sabina, che han formato, come si disse, la paziente
investigazione dei dotti archeologi e degli ammiratori del grande filosofo. L'
aver lui posseduto poderi in Taranto, a Tivoli od a Roma, non è che una
supposizione dei comentatori delle sue opere, che di. ciascuna sua aspirazione
han formato un dominio. Mentre chiaramente O., nella sua diciottesima ode del
secondo libro dice: (c Satis beatus unicis sabinis. » La quale esplicita
dichiara- zione formò la base delle rimunerate investigazioni archeologiche del
Capmartin de Chaupy, siccome si accennò parlandosi della villa oraziana. Che
anzi in Taranto è comune r idea falsa che Orazio si avesse colà un po- dere nel
luogo detto ce Le Leggiadrezze. Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti,
principalmente dal Tommaso Nicolò d' Aquino, autore dell'opera Delle delizie
Tarantine, da Giambattista Gagliardo nella sua Descrizione topografica di
Taranto, e da Ate- nisio Carducci, illustre letterato tarantino, nella sua
versione dell' opera del Aquino, con note, non si è potuto affermare che O.
avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe vi avesse fatto delle brevi
escursioni per isvago. In Venosa poi, sua patria, non evvi vestigio di casa o
podere a lui od ai suoi appartenuta, dovendosi credere erronea V as- sertiva di
Cenna, venosino, nella sua cronaca manoscritta, più volte mentovata, della
città di Venosa, nella quale si dice aver posseduto Orazio una casa presso le
antiche mura della città, a levante, forse alludendo a quella che si accennò
nei capi- toli precedenti, appartenente ad uno della tribù Grazia romana, e di
cui ritrovossi iscri- zione. E da tale ipotesi lascia derivare che dalle
finestre di quella sua abitazione in Ve- nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo
sopra vastissime campagne, e da quella veduta venisse ispirato a dettare i versi
: « Lauda- turque domus longas quae prospicit agros. » Perché non riferire
invece con maggiore pro- babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra chiaramente
erroneo, quando si riflette a tutto ciò che si è riferito nei capitoli
precedenti circa la dimora di O. in Venosa, ove si trattenne solo adolescente :
circa la con- fisca di tutti i beni della sua famiglia, perchè seguace di
Bruto, e particolarmente per non averne fatto il menomo indizio in tutte le sue
opere. Venosa ai tempi di Orazio era cinta da fitte boscaglie, e la lunga
esten- sione dei campi asserita dal Cenna è un sogno. Che O. abbia fatto in
Venosa qual- che rara apparizione, forse per diletto ed in compagnia d'amici,
lo lascia desumere soltanto r ode al fonte di Bandusia, che rumoreggiava con
polla cristallina ed ar- gentea nei fitti boschi di Banzi, dove es- sendosi
recato O. a cacceggiare od a merendare, dovette improvvisare quei versi. Ciò a
seconda dei pareri dei più dotti illu- stratori delle sue opere. O., come si
disse, nacque a dì 8 dicembre del 689 dall' edificazione di Roma, essendo
consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato. Morì a Roma, consoli C.
Mario Censorino, C/ Asinio Gallo, cioè nell' età di anni cinquantasette. Acrone
scambia però, per errore dei copiatori delle sue opere, il numero LXXVII per
LVII, assegnando ad O. anni settantasette. Ma Pietro Cri- nito asserisce: «
Alti supra septuagesimum annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- sum
existimo. » Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome Svetonio, ritengono con precisione
gli anni della vita di Orazio essere stati cinquanta-sette, il primo dicendolo
morto nell’ anno di Augusto, il secondo asserendolo morto nelle date
surriferite, e riportando i consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ; dai
quali limiti precisi estremi non è lecito discostarsi. Il suo cadavere venne
trasportato, tra il compianto universale, in Roma, (non è indicato da alcuno
antico scritto il luogo preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba della
famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle sue annotazioni alla vita di O. di
Svetonio, che Mecenate possedeva un superbo palazzo suir Esquilino, e presso ad
esso una tomba monumentale. In questa ripo- sarono Mecenate ed O.. Mecenate ed
O. vissero amicissimi, intrinseci, vera- mente uniti di pensieri e di amore ;
benché l'uno nato di reale famiglia e di sangue purissimo, e X altro figliuol
di liberto.Una possanza inesplicabile ed onnipotente li fece incontrare,
divenire tra loro stretta- mente simpatici, e quindi insieme dormire nello
stesso Ietto V ultimo sonno I Di Mecenate i tardi posteri ricorderanno le gesta
e la gloria pel suono reboante della tromba della fama procacciatasi col
proteg- gere generosamente quella schiera immor- tale di uomini che vissero nel
secolo di Au- gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo nionumento. È tutta
sua la gloria che fa semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire l'umanità, e
che non cesserà sinché traccia di vita sarawi sul globo. Del sommo poeta non si
conservano sta- tue antiche o figure nei monumenti da po- terne precisare la
struttura corporale ed i lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare tanto chiaro
il ritratto, che basta coordinare le parole che si riferiscono al suo fisico,
per vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- scrive con certa vanagloria la
lussuria dei suoi capelli d' un bel color d' ebano, che ombreggiavangli la
fronte virile e balda, ma che gli anni e le cure aveano resi argentei. Questi
hanno improntata una certa tinta di pazzia benigna, che in luogo di ammira-
zione suol destare compatimento, antipatia e ribrezzo. Le cellule del cervello,
Y involucro osseo che le ricopre, il corpo umano, non han bisogno di quella
veste esterna non naturale, oppur naturale, sian cenci o por- pore, adipe,
globuli rossi, magrezza estrema, capelli o calvizie per foggiare un genio od un
cretino I Si può essere profondo filo- sofo, saggio come gli antichi della
Grecia, e conservar forme aristocratiche, linde, ma- nierose, affabili, con un
corpo formato al pari di Antinoo. O. ne sia esempio lu- culento, e Foscolo e Byron
e Leopardi negli ultimi scorsi anni così difformi tra loro. Assicura Giuseppe
Ilario Eckhel, celebre antiquario austriaco, nella sua opera Doctrina Nummorum
e lo conferma Masson nella sua vita d’O., nel capitolo inti- tolato De Horatii
effigie, essersi rinvenuti dei medaglioni di metallo, terminati nella loro
circonferenza con un cerchio da tre a quattro millimetri di larghezza, e che
possono ben rassomigliarsi alle nostre me- daglie commemorative o di onore, nei
quali si vede inciso in un lato un busto, ed intorno ad esso la scritta
chiarissima (( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta n' è illegibile e
consumata. Il busto anzi- detto è modellato esattamente a tenore di quanto più
sopra si è esposto. Uno di essi si conserva nel museo del Louvre. E certo
appaiono riproduzione di busti o medaglie d' onore di Orazio vivente, eseguiti
nel quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno è r opinione del dottissimo
barone Walke- naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse, « o di bronzo si è
rinvenuto che ricordi il gran venosino. Deve però convenirsi che un uomo che ha
da poco varcati i cinquant' anni, raro è che si renda deforme e barbogio. Anzi
la razza umana generalmente suole giungere a questa età ancora atta a buona
vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi. Se r aureola che circonfuse O. non
è il (( nomen imitile » e neppure X opinione che i suoi contemporanei ebbero di
lui ( opinione poco proporzionata ai suoi meriti, secondo che dottamente
asserisce Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe tra i dotti il primo
posto, perchè Dante stesso chiamò Virgilio Aquila ed O. Satiro), maggiormente
risulta la sua vera gloria dal sempre fecondo entusiasmo che per r eternità gli
uomini risentiranno per lui Trascorsi appena nove anni dalla morte di Quinto
Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri- sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età
portentosa! L'ETERNO MONUMENTO ORAZIANO Ouao - za. I/I. - Ode. Che dire di O.
filosofo, creatore nella letteratura latina di due ge-neri di poesie del tutto
nuove, e che seppe far giungere ed elevare persino I la lettera all'
eccelsitudine dì un ge- nere poetico? Quintiliano dice :' « Dei lirici O. è
quasi il solo che merita di esser letto, poiché s'innalza talvolta con slancio
ammirevole: è pieno di dolcezze e di grazie, e nelle varietà -«( i84 )»-* delle
figure, delle espressioni, d' una felicis- sima audacia. » E Petronio ^7)
continua as- serendo che (( fra i romani Virgilio ed O. sono accuratemente
felici, come Omero ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi- dero la
strada che conduce al lirico stile, o non ebbero il coraggio di batterla. » E
que- st* opinione distrugge la miserabile assertiva di Frontone, ^s) al dir di
Leopardi, ^9) che chianja Orazio Fiacco, siccome accennossi, appena poeta non
isprezzabile [memorabilts poeta). Tanto potevano in questo possessore degli
orti mecenaziani V invidia ed il livore, che tra certi letterati sono solite
malattie I Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Tibullo, Ovidio, Petronio,
Sidonio Apollinare, S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio, Giovenale,
Lattanzio, Alessandro Severo, Dante, Voltaire e cento altri, a coro unanime,
gridarono le lodi del gran venosino. Moltissimi eruditi si sono occupati di
studiare precisamente le opere di O.. I più celebri fra essi nel mondo, siccome
il Bent- lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, Passow, Kirckner, Franke,
Weber, Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum, il Weichert, il Jahn, il
Mitscherlich, il Dab- ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern, il
Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O- relli, si avvalsero degl' interpetri
antichi delle opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio Porfirio, e dell'altro
che prendendo nome dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano, non meno che
di Emilio e Terenzio Scauro. Ciascuno di essi ha cercato desumere con pazienti
ricerche il tempo nel quale O. scrisse le singole parti del suo eterno monu-
mento. Cercherò notare le più interessanti investigazioni. O. dapprima scrisse
le satire e ne compose il primo libro negli anni di Roma, non avendo ancora
raggiunto il trentesimo anno. In essa, siccome si accennò, irrompe con impeto
sarcastico contro un tal Rupilio che con lui aveva militato nell'armata di
BRUTO, Segue poi la seconda scritta nell' autunno, nella quale parla in
generale dei vizii di cui la società romana era infetta. La quarta satira fu
scritta nell'estate, ed in essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi
mostrato un po' virulento nello sferzare la cattiva gente, e secondo il parere
di Wei- chert fu questa la satira che i suoi amici VIRGILIO e VARIO presentarono
a MECENATE, avendo inculcato al poeta di scriverla per cattivarsi l'animo di
quel potente. Scrisse la terza nel principio del 716, ed in essa fa vedere che
mentre gli uomini sogliono cri- ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i
proprii. Vangelo dice : « Tu suoli ve- dere il fuscello nell'occhio del tuo
prossimo, e non vedi la trave che è lì lì per acce- carti ? )) Dopo poco tempo
da che tale satira venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i commensali di
Mecenate; infatti la satira quinta che descrive con gran lepidezza e pre-
cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi, vi fa risaltare la figura di
Mecenate come attore principale e come uomo politico, spe- dito dal governo per
delicati maneggi a quel luogo di sbarco ad abboccarsi con altri personaggi
influenti, e che compagni insepa- rabili di lui furono O., Virgilio, Vario,
COCCEIO e TUCCA. Compose poi la prima satira in omaggio al suo gran protettore,
e pubblicando il libro la pose come principale, perchè a lui dedicata e per
testimoniargli la sua stima ed il suo affetto. Scrisse la nona dopo circa un
anno per cor- reggere quei miserabili che invidiandogli la protezione di
Mecenate, mostravano, .mor- dendolo col dente velenoso della livida in- vidia,
di non esserne a parte. La bellissima satira sesta, nella quale pone la virtù
come il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava con la quale schernisce i
superstiziosi e le donnacce, furono scritte, secondo l'opinione di Spohn. Il
libro degli Epodi era già stato composto da O. prima del cennato primo libro
delle satire, ma fu pubblicato piu tardi. Vuoisi che abbia preso il nome di
Epodi dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in- ventore dei giambi, al dir
di Diomede gram- matico. Sebbene altri sommi scrittori, com- preso il Gargallo
nelle note, ammettano che epodi si dicesse il libro compilato da odi pòstume di
O., fondandosi sul termine gre- co epodem, che significa sopraccantare. E la
terza del secondo libro delle satire sostengono essere stata scritta nella
villa Sabina, dimostrando che già poco più che trentenne Orazio avea avuta
donata quella proprietà. Riguardo alle odi, furono scritte, se- condo il parere
di Butman, del Dacier e di altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734, E da
quest'anno ed i seguenti sino al 744, cioè nella sua età di anni cinquantacinque,
solo l'ultima ad Augusto, come omaggio al più grand' uomo del secolo e suo
insi* gne benefattore. O. dalla sua villa aveva spedito ad Augusto diversi
scritti e molte delle let- tere surriferite, e gliele indirizzò con un
viglietto umoristico consegnato ad un Vinio Frontone Asella, che è proprio
l'epistola decima del primo libro. Augusto dopo aver letto tali componimenti,
gli rispose così: (( Sappi che io sono teco sdegnato, perche in molti di cotali
scritti (come sono le satire e le epistole) tu non parli principal- mente con
me. E forse che temi non ti sia per tornare ad infamia nella posterità, se tu
mostri d'essere stato mio amico ?» A questo onorevole ed amorevole rimprovero
O. rispose colla prima epistola del secondo libro, che è invero un capolavoro
nel genere sotto ogni rispetto. Il primo libro delle epistole venne com- posto
prima del quarto libro delle odi. Il carme secolare scritto per condiscendere
al volere di Augusto fu composto nel 737, cioè nel quarantottesimo anno d'O..
L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo capolavoro, e che può dirsi una
lettera di- dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni, può benissimo
classificarsi come terza nel secon- do libro delle epistole, e venne composta
nel 741-742, mentre la prima epistola del secondo libro indirizzata ad Augusto
vuoisi essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com- posta nel 744, avendo il
poeta V età di anni cinquantacinque. Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta
pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua opera, quanto O. Fiacco (non
Flacco, dato che ‘fl’ e impossibile nella fonologia italiana). È qualche cosa
che sa quasi dell' inverosimile. Basta però per convincersene notare il numero
straordinario delle edizioni delle sue opere, dacché ci furono tramandate,
siansi es- se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti. Nessun erudito
scrittore ha saputo sin oggi precisare chi sia stato il primo scopritore dei
canti immortali di O., né dove rinven- gasi la prima edizione di essi nei tempi
re- motissimi composta. Vuoisi da taluni che in un museo inglese se ne conservi
vestigio. Certissima cosa é che da molti secoli, sia in Italia che in Germania,
in Francia ed in Inghilterra principalmente, le edizioni delle opere del gran
poeta possono contarsi a cen- tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove ne
sorgono, unite a nuovi commenti, chiose e note illustratrici. È proprio
l'arboscello pro- fetizzato da O.: Laude fra tardi posteri Farà ch'io guai per
fresca Auray arbuscel più vegeto Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i Quante
opere insigni di altri uomini nati in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia
ed altrove sono state composte nei secoli scorsi I E sono ignorate o perdute e
scomparse per sempre. E dei monumenti sanscriti di Persia, delle opere eccelse
degli arabi che scrissero nei tempi del califfi e dei sultani, e dei codici
vetusti dei dottissimi scrittori armeni, che invano i Mechitaristi tentarono
illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute neir oblio, o hawene un labilissimo
ricordo, o giacciono ignorate in fondo a qualche pol- verosa biblioteca.
Soltanto la Bibbia ha pro- dotto un fenomeno superiore, se pure non uguale, a
quello del monumento oraziano. Alle opere di O. avvenne un simile me-
raviglioso fatto. Sembrarono piccoli granelli di seme, che fruttificando, e
dapprima poco curati (che dai suoi contemporanei, come si disse e lo confermò
Leopardi, non furono tenute in quella stima che meritavano) divennero poi
giganti. Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si distesero nelle
viscere della terra, per tutte le latitudini, con gagliardia non mai vista. E
per disperdersene le tracce, per abbat- tere tale fenomenale vegetazione,
bisogne- rebbe che la terra universa andasse in fran- tumi. Dalla nostra
Italia, avventurosa patria del poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli, appaiono
vestigia del portentoso volume, in tutte le lingue tradotto e glossato.
Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta del monumento oraziano è una fronda
fre- sca e vegeta che ci ricorda uno dei più grandi italiani. Non era scorso un
secolo dopo la morte di O, siccome attesta Giovenale, che già le opere di lui,
dai suoi contempora- nei poco apprezzate, servirono in presso che tutte le
scuole di Roma come libri di testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve
arguirsi che non poche edizioni dovettero farsene in quei tempi remoti. Ma il
primo editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba- silio Mavorzio, che studia, con
Felice grammatico, sui manoscritti e ne fece redigere non pochi esemplari
riveduti e corretti. Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne le seguenti
edizioni principali antiche e moderne, che sono sparse pel mondo, sopra tali
esemplari condotte: Edizione primaria, senza luogo ed anno, con 'caratteri
romani, di fogli 147, di linee 26, in folio piccolo. Altra che non porta data,
né firma del ti- pografo che s' ignora, stampate in lettere rotonde, di forma
poco graziosa. Antichissima. Se ne conoscono solo due o tre esemplari in
Inghilterra. Edizione pure senza luogo, senza data e senza tipografo
conosciuto, pure in caratteri rotondi, ma molto belli. Edizione di Napoli. In
quarto per Arnauld de Bruxelles, pagine Edizione di Milano. In quarto. Ant.
Zarolus. Fatta sopra quella dì Napoli. Milano. Filippo di Lavagna. Venezia.
Filippo Condamin. Venezia. Senza nome di tipografo. Milano. In folio. Per Miscomini,
col comentario di Lantini. Milano. In folio, con comenti di Mancinello e degli
antichi scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. Strasburgo. In quarto.
Gruninger. Opere di Orazio in latino, con testo stabilito sopra manoscritti
preziosi antichi. Con molte incisioni. La prima edizione Aldina. Venezia.
Manuzio. Rarissima e preziosa. Firenze. La prima dei Giunti in 8.° Giunti.
Rarissima. La prima Ascenziana, Venezia. Manuzio. Riproduzioni. Paganini.
Venetiis. In quarto grande, Petrum de Nicolinis de Sabio. Con note erudite di
Erasmo de Roterdamo, Angelo Poliziano ed altri. Rara. Venezia. Con postille di
Gior- gio Fabricio di Basilea, Mureto. Lione, di Lambino, che corresse ed
interpretò magistralmente O., avvalendosi di dieci antichi codici. Edizione
ripetuta con molte correzioni ed aggiunte in Parigi, in Francoforte, ed in
Parigi. Anversa. Teodoro Pulman con critiche rinomate. Parigi. In 8^ Stefano;
anche con critiche. Anversa. In quarto. Alfonso Cru- chio. Leida. Con lo
Scoliaste. Da un manoscritto Blandiniano antichissimo, ed altri della
biblioteca dei benedettini di Gand andata in fuoco, manoscritto
accreditatissimo. Anversa. Daniele Heinsius. Due volumi in ottavo. Londra.
Giovanni Bond. Stu- penda, bellissima Anversa. Sevino Torrenzio. In quarto con
dottissimo comento. Anversa. Edizione elzeviriana con note di Daniele Heinsius.
Con disser- tazione dotta di tale letterato sopra le sa- tire. Anversa. Nuova
edizione del medesimo, riveduta con note. Leida. Variorum, Editore Cor- nelius
Schrevelius. Lugdunum Batavorum. Ex of- ficina Hackiana. Con comentari
sceltissimi di varii per Giovanni Bond. Rara. Cornelius Schrevelius accurante.
Riproduzione. Anversa. Variorum. Sulla pre- cedente di Schrevelius, corretta.
Parigi. di Dacier. Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio, molte volte ricopiata.
Parigi. Ad usum Delphini. Stupenda. Parigi. Jouvensy. Cambridge. Di Bentley.
Cambridge. Di Riccardo Bentley. Con gli studi i di tale scrittore sopra Orazio.
In quarto. Monumento immortale dell'arte critica, lacerato dai contemporanei
per livida invidia. Ripetuta l'edizione in Amsterdam più volte, ed in Lipsia.
Parigi. Due volumi in quarto. Stefano Sanadon, con traduzione delle opere di
Orazio molto stimata. Londra. Con note del Dacier. Ad usum Delphini. Rarissima
e preziosa. La suddetta in Amsterdam, riveduta e corretta. Otto volumi in
ottavo. Lipsia. In ottavo di Mattia Ge- snero ripetuta con aggiunzioni di
Zeunio e Both. Parigi. Edizione classica in ot- tavo di Giuseppe Valart.
Napoli. Michele Stasi, con note di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo.
Molto stimata. Lipsia. Due volumi in ot- tavo, contenente solo le odi, con note
ed illustrazione di Ch. D. Jhan. Edizione Bipontina. Ripetuta in Milano. La
stupenda edizione di Bodoni in Parma. Londra. Due volumi in ottavo di Ghilberto
Wakefield, con critica eccelsa. La più stupenda e magnifica si- nora edita di
Didot. Lipsia. Mitscherlinch. Mancano in essi le satire e le epistole, ma sono
eruditissimi pomenti e note sulle altre opere e partico- larmente sul carme
secolare. Lipsia. Di Guglielmo Baxter con note di Gessner e Zeunio. Composta
sulla prima edizione dello stesso editore in Londra. Lipsia. Ti^ volumi in ot-
tavo del Doering. Riputatissima edizione per uso delle scuole. Roma. Due volumi
in ottavo di Carlo Fea. Con critica e note riputatissime. Edizione bellissima.
Parigi. Due volumi in ottavo di Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi e gli
epodi. Ma è superba. Breslavia, In ottavo di L. Fed. Heindorf, con conienti
eruditi e note. Con- tiene solo le satire. Maneim-Baden. Due volumi in ottavo
di F. Both. Heidelberga. Ristampa dell'edizione di Carlo Fea di Roma con molte
ag- giunte. Heidelberga. Due volumi in ot- tavo di Grevio. Contiene le sole
odi. Jahn. Lipsia. Con scel- tissime note ed aggiunte. Schmid. Contiene solo le
epistole. Lugdunum Batavorum. Un vo- lume in ottavo. Edizione di Perlkamp.
Zurigo, Gaspare Creili. Con biografia di Orazio e note. Libro erudi- tissimo e
molte volte riprodotto, e partico- larmente l'ultima edizione quarta, accura-
tamente emendata e corretta, sicché con ragione può dirsi la migliore. Venezia.
Premiato con meda- glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con traduzione in versi
e note del celebre mar-chese Tommaso Gargallo. Un volume in ottavo,
preziosissimo. Della vita e delle opere di Orazio scris- sero pure con
profondità di vedute e som- ma dottrina: Crist. Fred. Jacobs, Lecttones
Venusinae, 5 volumi in ottavo. Berlino Gotthold Leissing, De O., Berlino.
Masson, Vita di O..Leida Eichstedt, Critica ed osservazioni stille opere di
Orazio. Jena, Eusebio Baconiere de Salverte. Osservazioni sopra O. Un volume in
8^. Parigi, Cristofaro Martino Wieland, Traduzione delle opere di O. con note.
Berlino. Morgesten, Le satire e le epistole ora- ziane. Un volume in quarto,
Lipsia. E fra tutti primeggiano gli scrittori fran- cesi che convien notare: C.
Boudens de Vanderbourg, Traduzione delle odi di Orazio in versi francesi con
biografia ricavata da vecchissimo mano- scritto. Andrea Dacier, Horace. Opera
latina-fran- cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, Più sopra mentovata,
essa può definirsi una delle più dotte e belle edizioni delle opere del poeta.
Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon, Goubaux, Barbet, Patin, Janin,
Cass-Robi- ne, Daru, Ragon, Duchemin, Goupil, Cour- nol, Boulard, De Wailly,
Halevy, Michaux, Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poligrafo barone
Walckenaèr, che nel 1840 compilò una Storia della vita e delle poesie di
Orazio, Parigi, due volumi in ottavo, opera dottissima ed insuperabile. E
redizione grandiosa del Didot del 1855 in Parigi, con tavole topografiche e
note e biografia, che può asserirsi la più perfetta edizione del secolo.
Riproduzione con ag- giunte di quella suddetta. E TRA GL’ITALIANI: Metastasio,
Leopardi, Algarotti, Corsetti, Bertola, Galiani, Alfieri, Cesari, Tommaseo,
Cesarotti, Pagnini, Salvini, Pallavicini, Colonnetti, Bindi, Gligerio
Campanella, Rocco, ed altri molti scrittori di comenti e studii e saggi
critici. Ma in Italia tra le molte traduzioni delle opere oraziane, la più
perfetta e completa è quella del marchese Tommaso Gargallo, e le edizioni ne
sono innumerevoli. In essa, facendo risaltare la bellezza della frase oraziana,
tale ammirevole letterato ha cercato inciderne il concetto, abbellendola con
versi armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla musa stessa del gran poeta
venosi no. Mi sono avvalso in questa mia opera ap- punto della traduzione del
Gargallo, principalmente in quei passi della storia, nei quali era necessario
dar luce alla dicitura con le stesse parole di Orazio, le quali forma- no, al
dir del gran Fénélon, uno dei pregi massimi del poeta : « Jamais homme n'a
donne un tour plus heureux à la parole Pour lui /aire signifier un beau sens,
avec brteveté et deli e atesse. E perciò servendomi dei versi sublimi frutto
del forte ingegno del Gargallo, e dettati in purissima lingua italiana, per
illustrare uno dei più grandi italiani, ho creduto far còsa grata ai miei
concittadini, ai quali, per questo mio lavoro, chiedo venia e benevola
approvazione. M^ihr^^yrj&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; Da1 Municipio di
Venosa venne emesso il seguente proclama: L'idea di onorare la memoria deità
orientale anteriore r^( 212 y»^ all'epoca del frammento ove è incisa
l'iscrizione, e che nelle notizie sull' etimologia del nome della città di
Venosa si disse da Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome riferiscono Francesco M.
Farao, nella lettera apologe- tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni
(Napoli), ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- tero essere dal primo attinte
molte preziose idee, perchè scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del
frammento trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in una antica
casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, riportata dal Pratillo, dal
Corsignani, dal Lupoli, dal Cimaglia, da Mommsen e da altri storici e
raccoglitori di sigle, che viene così tradotta : MbKCUKI tMVIC. 8ACR. pro
salute Pbassbmtis mostri Agaris Acnc. Come pure trova riscontro in una pietra
di corniola incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente alla famiglia
Lupoli, siccome attesta il Farao nella cennata sua opera, che raffigura
Mercurio coi calzari alati, con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al
disotto la scritta di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag- giungervi da
stenebrare il passato? Chi desidera perciò aver piena conoscenza di Venosa antica
studii e pon- deri r e Iter venusinum » di cosi eccelso scrittore. Il tradurre
in buona lingua italiana tale stupenda opera scritta in latino sarebbe una
fatica vantaggiosa e meritoria. Svetonio Tranquillo Vita Morati, Cicerone. Op.
Lib. IV. Atl Herennium. Fabretto. Inscrip. Gargallo Tonìmaso Traduzione delle
opere di Q. O. Fiacco (non FLACCO, dato che ‘fl’ e impossibile in fonologia
italiana) Lib. i., ode 28. i.* satira Guerrazzi G. D. Orazioni. A Cosimo
Delfante. r^- (io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.* Della nobiltà
venosina. Non è conveniente avvalersi deirautorità del Summonte circa il
fastigio della nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce al Summonte
quel brevissimo e misero accenno sulla to- pografìa e sulle famiglie nobili di
Venosa e privilegi annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per mezzo
del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece inserire dopo Topera del
Summonte « Istoria della città e Regno di Napoli » un trattatello intitolato «
Raccolta di varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu- sione si
rilevano ragguagli in altre opere di altri autori. Ed invero, si rileva dal
manoscritto antico più volte ci- tato, e che si conserva nella Biblioteca
Nazionale in Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi opera dell'
U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata tradizione dei vecchi, che le
mura della città di Venosa, mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e
che im- portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu- cullo, il
celebre milionario del tempo dei Romani, e che fii lui che fece trasportare in
Venosa buon numero di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai
monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata per la conservazione di
tali ricchezze artistiche, una carica onorifica che vien riportata dal
Corsignani, dal Lupoli, siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti
(non però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi- stenti in Venosa.
Bemusbi. MOMUMRNTUlf. POBLICX. rACTUM D. D. M. MUTTIBMUS. L. F. C. Vibius . l.
F. M. Bfsssius . F. OB F. M. Camillius . HONOREM. l. F. >•- M. Mumnius « L.
F. C. Vmn» . L. F. n . Vis . J. D. Statuas . KZ D. D. Rbficivmdas e. Fece pure
LucuUo stabilire in detta città, attratte dalla magnificenza, salubrità e
bellezza di essa, non po- che nobili famiglie romane, dalle quali poi
derivarono quei componenti la nobiltà fiorente, che sino all'invasione dei
barbari formavano il lustro di quella bellissima terra italiana. Né col
seguirsi degli anni quella nobiltà scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè
sin nel 1 500 e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei prìncipii
del secolo presente, si vantò in Venosa un ti- tolo di. nobiltà da potersene
fregiare con orgoglio. I sovrani che si successero nel regno di Napoli arric-
chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie, tra le quali
primeggia quella concessa dall'imperatore Ludovico I con la quale si definiva
non poter Ve- nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del regno ( il
che poi per la instabilità di fede o per fini politici dei sovrani che si
successero, non venne man- tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma
restar dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi patrizii illustri,
scelti dal popolo. E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora in Venosa,
vi mandò l'illustrissimo suo figlio Federigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai
quali poi diresse la seguente lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer- «
sitatis et hominibus civitatis Venusii, fidelibus nostri e dilecti. Come altre
volte vi abbiamo scritto, noi de- [E già precedentemente Ludovico II, il
giovane, imperatore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- narla dalle
soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha memoria in un'antica lapide esistente
nell'attuale semi- nario, un dì castello, prima che Pirro del Balzo avesse
edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello splendido tempio della
SS. Trinità, ove riposano le ceneri di Guiscardo e di altri sommi guerrieri e
duci, sovrani e bali dell' ordine supremo di Malta, il che fece dire a Giulio
Cesare Scaligero : Gens Venu- Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì
L'iscrizione è la seguente: StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM UftBIS AMICUS DUM
FUKHIS Sbupbr Rxgmabis Jums POTKNTEB E nella venuta in Venosa (riporta sempre
il Cenna) del cardinal Consalvo, i nobili venosini si mostrarono magnifici e
splendidi quanto dir non si può, e formarono un'accademia, che può porsi al
pari delle più insigni ed illustri del regno. In detta accademia presedeva lo
stesso cardinal Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, o MoQte
Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa [Porfido venosina, (volgarmente
oggi Montalto) che rappresentava l'Olimpo. E che la nobiltà venosina fosse
fiorente e riuscita insigne per tutto il regno, convien trascrivere quanto
riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista del 1500 per quanto disadorno
scrittore: e così si enumerano molti doni che i sovrani solevano assegnare, per
testimoniare fatti di valore e degni di stima e compenso. Trascrivo V elenco
delle famiglie nobili venosine riportate dal surriferito Cenna, e quelle
riportate da Pietro Antonio Corsignani nella sua opera « De Ecclesia et
civitate Venusiae Historica monumenta selecta > edita, come si disse, che rimontano
sino al precedente secolo decimosesto: Barbiani. Dai quali deriva il conte di
Cuneo, Barbiano, gran contestabile del Regno di Napoli, e condottiere di
cavalieri venosini, del quale diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume
della sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici. Deitardis.
Gomiti. Plumbaroli. Da cui derivò un Corrado Plumbarolo, duce preclaro di
cavalieri venosini sotto i re aragonesi. Maranta. Che ebbe tre giureconsulti
insigni, lu- minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei quali
quello di Calvi, di cui discorre a lungo Giannone, in occasione della
scandalosa e celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino, agitata tra i
teatini ed i gesuiti. E si dissero Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. Cenna. Da
essa derivò quel Jacopo Cenna definito dal Corsignani « Vir sapientissimus
>. Era U. L D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa, che,
manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Cappellani. Una
Laura Cappellano fu madre del celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui
padre era nobile nolano. Porfidi. Celebre famiglia fregiata del titolo di conte
di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa Sozzi di Venosa, che tenea la
gerenza del principe di Venosa, Ludovisio, nipote di Gregorio XV. Fenice.
Solimene. Casati, Consultnagni. Giustiniani, Caputi, Simone. Moncelli.
Costanzo. Famiglia proveniente da nobili vene- ziani. Fuvvi un Costanzo/
vescovo di Minervino, la cui nipote sposa 1' U. I. D. Rapolla della nubile
famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio Nicolao fu protonotario
apostolico. De Bellis. De Luca. Da cui derivò queir insigne cardinale Giovan
Battista de Luca, onore della città di Venosa, autore di opere preclare in
circa quaranta volumi in folio. Bruni Donato De Bruni fu celebre poeta
venosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile Giovanni de Bruni da
Nola, intrinseco del Tansillo (BRUNO (vedasi) scriv un epitaffio sulla
sepoltura di Giacopon Tansillo, figliQ del poeta venosino Tansillo, siccome
attesta Minieri Riccio) non è forse da questa famiglia venosina derivato
Fioriti. Tramaglia. Ttsct. Tommasini Palogani. Pagani. Balbi. Sperindeo.
Berlingieri. Violani. Gervasiis. Orazio de Gervasiis fu il più insigne membro
della celebre accademia venosina, e poeta famoso. Abenanti, Grossi.
Protonotabilissimi, Capibianchi, Campanili. Ferrari, Faccipecora, Leonetto
Troni, Antonello Trono fu esimio nella legale palestra. Aloisiis, Rosa
Biscioni. De Vicariis. Rapolla. Dalla quale derivarono il Clarissimus D.
Venanzio U. I. D. vicario generale Diego ^ U. I. D. Il Corsignani parlando di
lui dice : « Romae triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus in legali
f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi ex hac vita discessit.
Donato U. I. D. Ed il celeberrimo D. Francesco giureconsulto, presidente della
Regia Camera della Sommaria, senatore del S. Consiglio del regno di Napoli, uno
dei settemviri del regio erario. Le sue principali opere furono: De
Jureconsulto Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera di Ludovico Antonio
Muratori De jure Regni. Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo. Vitamore.
Moncardi. Lauridia. De Jura o Thura. Sprioli, Leoparda, Sozzi. Altruda, Vito
Altruda era cavaliere deirordine di Malta. Delle quali famiglie nobili
riportate dal Cernia e dal Corsignani, due sole compaiono tuttavia esistenti in
Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di essa si legge nella
cattedrale di Venosa la seguente epigrafe, riportata dal Corsignani. JOANMi
Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino Et Ammae Fbrrabi Nobili
Sbkbmsi Prognato MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS
OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB Canonicatu Insignito,
humanab salutis Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos Evocato, Dobunicus, bt
Hibbonimus Fratbi DIGNI8SIM0 P E la famiglia Rapolla imparentata con la casa
Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi Costanzo nel 1641, con la Sozzi,
con T Altruda, iscritta neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella
vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen- tilizio, che il Cenna
bellamente esalta come uno dei più degni di quel sacro luogo, e che appartenne
prima alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si ammira un quadro
pregevolissimo di S.^ Maria di Costantinopoli, e vi si leggono le seguenti
iscrizioni : Sull’altare: HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO.
DE3ELLA. U.LD. BT. HOR. DE. BELLA . A. EF. M. D. EQUES. DE . ORDINE.VICTORIÆ
.TISCI. EORVM. MATRIS. RESTAURANDUM. CURAVER . BIDCXVI. àACELL . HOC . MENSE .
EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO. FUrr . CONCESSO. VENANTIO . RAPOLLA .
U . I . D. PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT. SUCCESSO . ET
. PATRONI. CONSENSUS. ACCESSIT . Sotto l'altare: SACELLUM . HOC NOBIUS. FAMILIÆ
. RAPOLLA VENUSIMAB. IN VENUSTIOREM QUAE CERNITUR FORMA. RSDIGrr . U . I . D .
DIDACUS . RAPOLLA. Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li Frusci di
Venosa si rileva che dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa,
D. Saverio Compagno, e del vescovo del tempo ed altri molti, nel monastero di
Santa Maria la Scala si volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e
privilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla, e vi si fé*
innalzare inciso su pietra in fronte dell* architrave della porta che dà nel
giardino di tal luogo, (e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia
Rapolla, la seguente iscrizione: CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB. U. I.
D . AX.OISIUS. Rapolla. Patritius. Vbmosinus. EkBGI. CUItAVtT CRAT1AM . D.
MaUAB . AnDRSAB. Rapolla. Momcalis •Profkssas. suak. kx. rmA-ntc. MXPOTXS.
OmnOMQUB. SDCCBSSOBUM. DB. FAIIIUAB. UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS.
OCCIDBBIT. La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no- bilmente, tanto che
nel 1807, essendosi recato a visitar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie
del reame il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran magnificenza per
due giorni con tutti i generali e gli altri personaggi della sua splendida
corte, dal nobile Venanzio Rapolla, al quale rilasciò certificato di sovrano
comt>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo- luto quel fiero
gentiluomo, già capitano sotto la repubblica partenopea, e tornato da poco
tempo da emigra- zione politica in Francia, accettare titoli, onori od altro
compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua opera Histoire de la vie et
des poesies d' Horace dice: « La Venouse moderne à, malgré sa faible
population, con^ serve quelque chose de plus que son nom et sa position
antique^ pouisqu* elle est le siege d' un eveché, Ormai ò noto, ed il Lavista
nel suo opuscolo: Notizie istoriche degli antichi e presenti tempi della città
di Venosa Potenza^ tipi Favata e Frediano Fiamma, rettore del seminario
vescovile venosino, nelle sue note alla necrologia del nobile Giuseppe Rapolla
(Napoli, tipi Giannini) riportano, che essendosi disposto di trasportare la
sede del vescovado da Venosa a Minervino, con grandissimo nocumento alla patria
di Fiacco, Venanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella capitale
del regno, ove venne trattato l'affare in Consiglio di Stato, con impegno di
illustri avvocati, da far distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi
spese a tale scopo più di lire ventimila, che non volle per sua generosità gli
venissero rimborsate. Veramente nobile animo ) Splendido esempio di filantropia
Riportata da M. A. Lupoli nella sua opera quel preclara gentiluomo, mio defunto
genitore, nobile Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di-
stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto parteciparle che non
lungi da Venosa un terzo di miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in
una grotta messa sul ciglione di una collina verso oriente, sovrastante al
fiume che scorre nella vallata sottostante al tempio della Santissima Trinità,
si è rinvenuto un lungo corridoio con altre strade laterali, con una quantità
di sepolcri scavati nel tufo, coperti da grossi mattoni antichi, con delle
iscrizioni indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui soprasta una
palma ed un'ampolla > E tale luogo si dice il Piano della Maddalena^ e
scovronsi dintorno ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un forte
nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata, che aveva il suo tempio
dedicato alla Maria di Magdala, ed in quelle grotte scavate nel masso vi
avevano la loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer- tezza arguirsi
che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che si estendevano verso le colline,
che oggidì diconsi Monte e Montalto sino al fiumicello divento, formava una va-
sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai tempo dei Romani era
splendida per monumenti, statue e nobiltà, e conservossi tale sin presso al
1500, quando andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai tremuoti,
dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei diversi sbocchi a centri che
cresceano in importanza, gran- dezza e magnificenza sia in Puglia che in
Lucania. E venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un borgo,
fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sinché poi non risorse a novella
vita. Quei pochi fieri abi- tanti, che avevano per emblema il basilisco che si
morde la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro- no però sempre
eguali a loro stessi ed alla loro origine. In essa nacquero e vissero baldi
guerrieri, come si disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti
ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di genio, de- stinati a grandi
imprese. L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun abitante di tale
ameno e forte luogo. Ciascun abitante porta con sé una particella dell'aura
divina, che emana da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle e
feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii antiqui^ sostiene essersi
coniate in Venosa delle monete raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere
me- glio figuratamente la potenza della città di Venosa ? Oggi Venosa colla
libertà e col progresso è nuovamente ri- fiorita, e per ricchezze e lustro non
è inferiore che a poche città meridionali d'Italia. Gargallo Tommaso.
Traduzione delle- opere di O. Lib. i." sat. Il Vulture. I due versi di
Orazio nella sua ode quarta del libro terzo ed il « pios errare per lucos >
han dato campo a non poche dispute tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi
tra gli altri per- sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una balia
di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del pargoletto prese parte,
tenendolo addormentato in su le ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale
in Ve- nosa. Gargallo traduce: Da pueril trastullo Mentre io lasso, e dal sonno
oltre alla soglia De r Apula nutrici, amar faruimllo Giaceva sul V\lL?r appulo,
di faglie Tutu a nuazi arhuscelli Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli. Ma
ben considerando questo bisticcio di Voltar appulo oltre la soglia (i confini)
delt Apula nutrice^ si chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa,
usando il tutto per la parte, cioè la Puglia Daunia. PLINIO (vedasi), (disse e
Dauniorum colonia Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re-
gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella Puglia Peucezia, quindi
fuori dei confini della Puglia Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio
resta dilu* cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro per chi
ignora la topografìa delia regione pugliese. È certo che O. intese parlare,
nominando il Vulture, della catena appenninica minore dopo il Vulture, cioè i
monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei tempi erano copèrti da
fitte boscaglie, come una buona parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte
Alto ecc.). Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu- sque
bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^ a Forenza {humilis Ferenti)^
che son tutti luoghi che fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra-
scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio avesse inteso parlare
delle pendici del Vulture, come oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di
Atella, RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non esistevano in
quei -tempi, certo in tutto il perimetro della pendice del Vulture doveva
esistere qualche traccia o zona di terra abitata, come la Rendina attuale, ove
la taberna celebre è anteriore all'epoca romana della quale si discorre. Del
Vulture hanno ampiamente e dottamente trat- tato r abate Tata {Lettera sul
Vulture), Daubeny {Narrative of on excursion to mount Vultur in Apulia—
Oxford), il prussiano Ermanno Abich, L.. n Patrizio e l'Abate — Un volume in
i6», pag. 250, Tipi Di Angelis Napoli, XTobiltà e 1)0rgh68ia, Tifi Tarnese
Napou, Uemorìe storiche di Portici Stabilimento Tipografico Vesuviano Portici,
Presso Tautore Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo Dei Conti Sì Bavoja— Tipi
Giannini Napoli. ì Quinto Orazio Flacco. Orazio. Keyword: Il Giardino. Luigi
Speranza, “Grice ed Orazio” – The Swimming-Pool Library. Orazio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice ed Ordine: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di BRVNO al rogo – la scuola di Diamante -- filosofia calabrese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diamante).
Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Diamante, Cosenza, Calabria. Professore
a Calabria. Rriconosciuto come uno dei massimi studiosi del Rinascimento e Bruno.
Ben noto ai lettori per i suo eccellente saggio su Bruno, è anche uno dei
migliori conoscitori attuali del milieu sociale, artistico, letterario e
spirituale dell'età del Rinascimento e degli inizi dell'Età moderna.Sigillo
d’Ateneo dell’Urbino. Centro di Studi
Telesiani, Bruniani e Campanelliani. “L' utilità dell'inutile” (Milano,
Bompiani). Opere: “La cabala dell'asino”, “Asinità e conoscenza in Bruno” (Teorie
et oggetti, Napoli, Liguori, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo); “La soglia dell'ombra -- Letteratura, filosofia
e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro il Vangelo armato: Bruno, Ronsard
e la religione” (Milano, Cortina); “Teoria
della novella e teoria del riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re.
L'impresa di Enrico III e i suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la
vita. Una piccola biblioteca ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo,
Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di
Teseo). Grice: “Some like Bruno, but I don’t – for one, he was a PRIEST before
he was burned – no philosopher *I* know is a priest. Being a priest, as A. J.
P. Kenny well knows, disqualifies you as a philosopher. Campanella was a priest
too, and I’m not sure about Telesio. I mention the three because while there is
a Keats-Shelley Association in Rome, only the Italians can think of ONE centro
di studi TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI – enough to have a triple split
personality!” Nuccio Ordine. Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso,
risus significant laetiia animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi
telesiani, divenne centro di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! –
telesio not a priest!--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita
dell’utilitarismo di Geremia Bentham” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice ed Orestada: la ragione conversazionale della diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto).
Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean cited by Giamblico. He
frees Senofane from slavery – as cited by Diogene Laerzio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Orestano:
all’isola -- la ragione conversazionale
e l’implicatura conversazionale dell’opzione eroica – la scuola d’Alia -- filosofia siciliana -- filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Alia).
Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Alia, Sicilia. Self-described as a
‘Federalista siciliano’ --. Grice: “There is something pompous about Italian philosophers and their
isms – Orestano’s ism is the superrealism!” Grice: “When I was invited to deliver my
lectures on the conception of value, I was hoping it was a first, but Orestano
had written two big volumes on it!” – Studia a Palermo. Insegna Palermo, Pavia, e Roma. Collabora con Marinetti
nella concezione del futurismo, e lavorando ad alcune pubblicazioni comuni. E inoltre
vicino alle idee politiche, collaborando tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato
da Balbo nella Libia italiana, difende gli ideali e gli intenti italiani in
contrapposizione al nazionalismo. E eticista, fenomenologo e promulgatore
d'un'idea filosofica positivista che egli stesso denomina “super-realismo.” Si
ritira a vita privata nel su palazzo di Roma per dedicarsi alla sua opera
principale “Nuovi principi” (Milano, Bocca). Membro dell’Accademia d'Italia e della
Società filosofica italiana e dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed
Economici. Autore di noti aforismi, a lui sono intitolate una via di Roma e una
scuola di Palermo. Saggi: “Opera omnia” (Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”,
Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, Angiulli, Roma,
Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, A proposito dei principi di
pedagogia e didattica” (Città di Castello, Alighieri);“Un'aristocrazia di
popoli -- saggio di una valutazione aristocratica delle nazionalità” (Milano,
Treves); “Verità dimostrate, Napoli, Rondinella); “Opera letteraria di
Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia); “Esame critico di Marinetti e
del Futurismo” (Roma, Estratto dalla "Rassegna Nazionale"); “Civiltà
europea e civiltà americana” (Roma, Danesi); “Nuove vedute logiche” (Milano,
Bocca); “Il nuovo realismo” (Milano, F.lli Bocca); “Verità dimostrate, Milano,
Bocca); “Idea e concetto” (Milano, Bocca, Celebrazioni I, Milano, Bocca
Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia del diritto” (Milano, Bocca,
Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici, Milano, Bocca); “Verso la nuova
Europa” (Milano, Bocca); Prolegomeni
alla scienza del bene e del male, Milano, Bocca); “Leonardo, Galilei, Tasso” (Milano,
Bocca); “La conflagrazione spirituale e altri saggi filosofici” (Milano,
Bocca); “Pensieri, un libro per tutti”; Studi di storia della filosofia”; “Kant”;
“Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”; Contributi vari, studi pedagogici, studi
danteschi; Aligheri e saggi di estetica e letteratura; conversazioni di varia
filosofia; corsi, ricerche e conferenze, studi sulla Sicilia, Filosofia della
moda e questioni sociali, Dizionario Biografico
degli Italiani, E. Guccione, L'idea di Europa in Federalisti siciliani, A. R. S. Intergruppo
Federalista Europeo, Palermo, Guccione, Da un diario una nuova pagina di
storia, in La politica tra storia e
diritto, Scritti in memoria di L. Gambino, Giunta” (Angeli, Milano); Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della
filosofia: il caso di Lamendola, Arianna, O. Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel
pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli
valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi
va speciali, così, quando adopera
i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico –
con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o
quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi.
Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi
quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza
concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò
che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora
si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio
o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che
modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione?
Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda
può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si
noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della
volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali
restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o
anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-),ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme:
a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio,
promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua
nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che
come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per . Ora
torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione
dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta,
dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”, “T”,
“u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il caso u si
può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè
stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici*
casi che costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna
pensare che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti
concomitanti, e osservare le variazioni di valore che questo intervento
produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è
data da una formula. Il momento più importante è qui l'associazione della
circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di
questo secondo momento accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande
sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con “W”,si avrà dunque: W(ru) >
WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato
(quando il beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone
estranee al rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il
valore della volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E
la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in
favore del beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di
più deve migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)>
Wr. glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI
nè diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula,
la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza
del MALE ALTRUI. Allora si avrà:
W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della
volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica
si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia)
o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi
le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore,
se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W
(U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male
altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La
volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se
per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza
aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u).
Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore
della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W
(ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U)
W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0
W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con
segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di
queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come
indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque
riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla.
‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della
volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si
è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di
una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla
determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE.
L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante
constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti
concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori,
dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel
modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità
della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e
repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra
affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi
come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni
ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi
delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono
fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore
nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio
iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al
momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò
facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale,
allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la
volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo
che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui.
In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione
iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati
fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty).
La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO
è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal
punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione
di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi
che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo.
Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO
ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono
adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due
bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse
proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi
interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della
valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”.
Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u”, “W(gu)”,
si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre
il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra
del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i
termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una
semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande
interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo
interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a
un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore
morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non
tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del
valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le
costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g”
e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono
necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti
0 e 0,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è
però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse
altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è
quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u”
pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F, 1
W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)=
0, lim W (ru)= 0,, limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0
lim W (gu)= – 00. pure evidente, che
la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più
IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore
dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando
però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà
pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla
grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che
l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si
sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula.
Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si
determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono
mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per
far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a
“g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W (gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può riscontrare
agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi
lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà un valore più
alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E se si
contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare quella
di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI
ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e per
far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo
colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al
posto di “r”. Sicchè si avranno i
seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di
alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula
del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y
gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0
T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0.
Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a
colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di
tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or
ora ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri
guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande
valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di
piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto
PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale
(1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti
estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno
distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il
punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di
una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti.
Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”,
cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la
formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >. Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di
binomi: gr g+1 1 T (go+ 1)r.
Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due
binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI
comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica,
sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore
etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza
di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni
umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il
problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni.
Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento
morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e
psicologicamente. E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure
in un'indagine psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore
etico è la psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda
direttamente dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o
categorica) sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè,
anche ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva
una interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come
sia possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a
interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il
criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio
assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre
la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da
compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una
interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica
alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto
non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo
l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della
sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella
dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo strazione
dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale valore
etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato. Ma non a
questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo fondare
un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme, un'etica cioè
rispondente alla concezione di un significato morale della vita umana,la
coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso di fondamento,
i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia porterebbe i più
decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La psicologia è scienza
sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è impossibile la
ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore di fine dopo
essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde la moralità
positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo contributo diretto
della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti, consistenti nella difesa,che
solo la psicologia può fare contro lo scetticismo morale. La legittimità di una
valutazione etica, che abbia forza di per sè, si suole negare da chi crede che
il bene e il male siano risultato di convenzioni sociali più o meno inveterate,
mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non rispondenti a una costante
necessità della vita e della natura umana. Per riparare dallo scetticismo si è
ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo scetticismo e anche ai
suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non può opporsi
efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a determinare
positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge argo menti
di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e necessario del
valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie di esso. Un
esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della psicologia nell'etica, accennando
ai problemi concernenti la ricerca dei fondamenti psicologici della solidarietà
o dei fondamenti naturali di essa, come li chiama GENOVESI, opportunamente
ricordato dall'autore. Questo esame particolareggiato comprende la crudeltà e
le sue varie forme, la simpatia, così in generale, come nelle sue due
manifestazioni principali, gl’atti di cortesia e di protezione. Le dispute
sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono la loro decisione non
dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la psicologia può rivelare e
valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è generale nell'uomo l'avversione
al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli, quando si potesse esplorare in
un àmbito sempre più vasto l'estensione dei fatti e degl'istinti della
simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con essi il concetto
dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una morale immanente, estranea,
benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si potesse attribuire
positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente, un valore definitivo
al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde a un istinto
originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua utilità, sarebbe
tolta all'utilitarismo quella base consistente nella proposizione universale,
che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere che i dubbii della ricerca
psicologica si riflettano nella morale, perchè i risultati che la psicologia ci
potrà offrire non avranno valore di modificazione del contenuto normativo
della morale, ma bensì tenderebbero a modificare il carattere formale di
essa, come dottrina del dorer essere e come scienza. Al Congresso medesimo Calò
presenta una comunicazione intorno alla Calderoni ritiene che l'assenza della
ricerca e della sufficiente analisi di quello ch'è il fatto ultimo e
irriducibile su cui poggia tutta la vita morale, il giudizio etico, ha impedito
il costituirsi dell'etica come scienza. Molto ha anche nociuto “la nessuna, o
quasi, distinzione che si è fatta tra il giudizio etico e il giudizio teoretico
o conoscitivo, La morale deve invece ricercare come ogni altra scienza, dei
fatti ultimi, elementari, irriducibili su cui fondare l'edificio autonomo delle
proprie investigazioni. L'elemento irriducibile, la realtà ultima, da cui deve
prendere le mosse ogni dottrina morale, è un fatto psicologico, un
sentimento, non uccidere per esempio, apparterrà sempre al contenuto
normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre la psicologia
intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le conclusioni intorno al
fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla simpatia saranno
negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione presenta i
caratteri della accidentalità e della fluttuazione dei fatti sociali, oppure i
caratteri trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la valutazione etica e
una gradazione fondata su altra base, non su quella della realtà effettiva dei
fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno positive, l'etica, assumendole
come sue proprie, avrà a fondamento il significato psicologico e antropologico dell'umanità
morale e potrà scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso. Infine
TAOROZZI ri-assume il suo credo in queste parole, che tutto si debba attendere
dalla scienza, e che essa sola possa spiegare un giorno perchè abbiano
universale valore massime conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non mentire,’
“Ama il tuo prossimo. Ogni qual volta noi giudichiamo del valore morale d'un
sentimento, d'un'azione, d'una determinazione volitiva, tale giudizio si
presenta alla nostra coscienza con un sentimento particolare di approvazione o
di disapprovazione. L'esame retrospettivo ci dice, che quel giudizio non
risulta da un meccanico sovrapporsi dei concetti del soggetto e del predicato
(buono, giusto, ecc.), dal paragone delle loro estensioni e connotazioni
rispettive, dalla rivelazione pura e semplice del loro rapport. Ciò che
interviene, e ciò che più importa, è il sentimento di approvazione o di
disapprovazione, di adesione o di ripugnanza. Qui si presenta un problema
fondamentale. Trattasi di vedere se il sentimento di approvazione o di
disapprovazione accompagni semplicemente, come effetto o come carattere, la
rivelazione del rapporto in cui l'obbietto considerato è con quel predicato. O se
quel sentimento appunto renda possibile la costituzione del predicato e quindi,
mercè la capacità di riferimento propria della ragione, l'enunciazione del
rapporto. Questo problema non può essere risoluto senza una analisi comparativa
del giudizio conoscitivo e del giudizio valutativo. E quest'analisi mostra
appunto che, mentre nella funzione conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto,
nella funzione valutatrice è, al contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere
è constatare, attingere ciò che è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello
spirito non è di chi constata, ma di chi reagisce. Non di chi afferma e
riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge qualcosa risultante da ciò che in lui
non corrisponde, ma risponde alla realtà conosciuta. E l'atteggiamento non di
chi afferma o nega, ma di chi si sovrappone alla realtà, o che le assenta o che
le si ribelli, sia che lodi, sia che condanni. Mentre, per il teoretico, il
sentimento è un accessorio trascurabile, per il moralista, esso è la vera
realtà etica, poichè il senti mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto
di giudizio etico. In ultima analisi, ogni giudizio etico si riduce ad
approvazione o disapprovazione d'un sentimento, d'un istinto, d'una volizione,
d'un'azione. Ora l'approvazione e la disapprovazione non sono che due
speciali sentimenti, due forme diverse d’uno stesso sentimento, il sentimento
del valore. Il giudizio etico, dunque, intanto è possibile in quanto si compie
una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la ragione valutativa ch'esso suscita
in noi. E, insomma, questa stessa reazione che costituisce tutto quanto noi
diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto come soggetto del giudizio. Si
direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica quanto e come vive nel senti
mento valutativo. Questo poi varia e quasi si determina e si atteggia
diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e di venta volta a volta
sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico o dei loro contrari,
di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o di stima di se
stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che ognuna di queste
determinazioni del sentimento di approvazione e di disapprovazione ha una sua
individualità e che l'analisi di esse ci dà l'analisi di tutta la coscienza
morale. Il sentimento del valore, come fatto fondamentale della coscienza
etica, si pone a norma della realtà interiore e dispone gerarchicamente i vari
istinti e le varie tendenze. Un'altra sua proprietà è anche quella di avvertire
ogni atto che rappresenti un non-valore come un'intima contradizione, il che dà
luogo al sentimento particolare dell'obbligazione. Il sentimento del valore è
dunque di sua natura tale da assumere, di fronte al resto della realtà
psichica, un'attitudine speciale e da contrapporre all'esistenza di fatto
un'esistenza di diritto. Esso si distingue profondamente dal piacere e dal
dolore, perchè questi sono stati subbiettivi interessanti semplicemente
l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento del valore è obbiettivo anche
rispetto alla individualità del soggetto che giudica. Il sentimento del valore
oltrepassa la sfera della mia utilità o del mio benessere individuale; sono io che
sento, ma non perme. Altro carattere differenziale è questo, che nei sentimenti
di piacere e dolore lo stato subbiettivo è confuso con l'oggetto della
rappresentazione, mentre nel sentimento del valore, l'oggetto è nettamente
distinto dall'atto valutativo e può essere rappresentato come obbietto di
conoscenza teorica. Ciò ch'è piacevole e spiacevole non esiste che nel
sentimento e per il sentimento, mentre ciò ch'è valutato è chiaramente
rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è insomma conosciuto. Non si può
valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero che la valutazione si presenta
spessissimo sotto forma di preferenza e il valore viene appreso
comparativamente ad altri come plus-valore o come minus valore. Sebbene il
giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel sentimento,esso non
esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della funzione conoscitiva,
la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la funzione apprezzativa. La
grande varietà dei giudizi morali osservabile fra individui diversi dipende
appunto dal diverso modo come sono appresi e considerati gli obbietti,dai
diversi elementi che ci pone in luce la funzione conoscitiva. Così, mentre
l'analisi del processo della valutazione etica è compito della psicologia
morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni morali si riferiscono non
possono esser tratti analiticamente dalla natura stessa dei nostri sentimenti
di valore. Essi possono essere determinati in parte in base alla considerazione
di rapporti for mali della volontà, in parte in base all'esperienza storica e
sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative. CALDERONI, nelle sue
Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è recentemente proposto di porre
in rilievo talune concordanze fra le leggi economiche del valore e della
rendita e le valutazioni morali sociali. In tal modo egli crede che l'economia
politica possa apportare un contributo positivo alla scienza della morale e
aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale può considerarsi, così
Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate richieste vengono fatte da
taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli altri, I quali oppongono a
queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore o minore, e
richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi di natura
determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale di
approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse
alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della
rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del
produttore, CALDERONI accenna più particolarmente a due specie di disarmonie
economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza
del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il
venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che
sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione,
e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono
proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai
costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano
più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si
trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed
efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da
diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette
quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi
quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il
fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo
a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da CALDERONI
così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più
stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut consumo
si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli
individui, i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono
perciò di un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è
possibile la correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento
di produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso
di prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità
indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti,
per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli
alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che
all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti
corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che
il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe
la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi
per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due
individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi
di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità
del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi
scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi
l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie
di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura
irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire
rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni CALDERONI passa a
rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero,
a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non
meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il
valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca
l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore
atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli
uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli
Vi è nella vita una gran quantità di
atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen
ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano
nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò CALDERONI vuole
opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in filosofia
morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore
esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro
desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal
loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a
quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è
deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in
altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto
personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono
considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi
richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a
difettare in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono
marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori
contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi
stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte
le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose
esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni
viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle
ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo
i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la
domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica.
In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è
una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o
almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la
legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire
universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto
rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto
perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano
troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca
sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende
strettamente dal nu e la un virtù, virtù, mero di persone sedute
dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il
capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle
buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi
errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni,
individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato
non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge
d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per
cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non
atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare
precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di
rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la
varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e
svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà
di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in
media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non
agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche
talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che
cresce col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione;
mentre colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria
e l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto
maggiore è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni
si troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito,
individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro
carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di
ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e
morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran
lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero
più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per
indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle
condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire
l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra
specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo
economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste
disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a
eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita.
Grice: “I love
Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very seriously – as
he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with ‘e’ from Latin
‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter, Italian altro. So
we have W for value (worth), and the possibilities that ego desires the evil
for alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism. Altruism can be
reciprocal. In a purely altruistic society, things go well – but Pound knows
who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for Meinong, and so do
I” --. Francesco Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione
eroica, Alighieri, Galilei, Tasso, Vinci, concezione aristocratica della nazionalita,
l’eroe Mussolini, l’eroe Enea, Weber e la teoria dell’eroe carismatico,
l’ozione dell’eroe non e una ozione. It’s not an option, Calderoni. Luigi Speranza, “Grice ed Orestano”.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Oribasio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di Marte, o la scuola di Giuliano -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma) Filosofo
italiano. Giuliano’s
personal philosopher. He shares Giuliano’s enthusiasm for paganism. His
treatises survive, as does paganism – “Only you shouldn’t use that vulgar
adjective,” as Cicerone says!” – H. P. Grice.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Orioli:
l’implicatura conversazionale nella logica della monarchia romana – i sette re –
la scuola di Vallerano -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Vallerano). Filosofo italiano. Vallerano,
Viterbo, Lazio. Grice: “Only in Italy, a philosopher, rather than a cricketer,
is supposed to take part in a revolution and write a book about his shire!” -- Fondatori
della Repubblica Romana. “De'
paragrandini metallici” (Milano,
Fondazione Mansutti). Il padre, medico, lo condusse a Roma, dove si laureò
brillantemente. La professione non lo attraeva molto: lo troviamo, infatti,
professore di filosofia nei seminari e nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere
a Perugia, dove si laureò. Insegnò a Bologna. Partecipò con gli allievi
all'insurrezione delle Romagne; successivamente fu eletto membro del governo
provvisorio di Bologna, che fu sciolto in seguito all'intervento militare
dell'Austria. Tentando di mettersi in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia
con un altro centinaio di rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale
viaggiava venne catturato dall'allora capitano di vascello della marina
austriaca Francesco Bandiera (padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio)
e tutti i rivoluzionari furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco
dopo venne liberato, forse per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.
Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando sempre
all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles
insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della
città. Quando Pio IX concesse l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la
cattedra di archeologia. Le sue attitudini per il giornalismo non attesero
molto per farsi notare, e così fondò un periodico politico che ebbe però vita
breve, La Bilancia. Fu eletto deputato al parlamento della Repubblica Romana.
Quando il governo pontificio fu restaurato, in riconoscimenti dei suoi meriti,
fu nominato consigliere di stato. Pubblica molti saggi di filosofia. Tra i più
famosi sono da menzionare “Dei sette re di Roma e del cominciamento del
consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi italiane e l'arte di comporle”
(Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di prevenzione contro i fulmini e
la grandine, che coinvolse anche Bellani, Beltrami, Demongeri, Lapostolle,
Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari, Richardot, Scaramelli, Tholard e
Volta. Le compagnie assicurative usarono questi studi per valutare rischi e
premi per i campi agricoli. Riconoscimenti Il comune di Vallerano lo ha
onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico, quella
del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa sulla
facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto Statale
di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi indirizzi
di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della Enciclopedia
Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti,
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione
Mansutti, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M.
Bonomelli, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F.
Mansutti. Milano: Electa, Polizzi, Alla ricerca dello «specioso» e
dell’«insolito». Leopardi, «Lettere Italiane», Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. -- rità assai leggieri, e, se
grandemente non m'inganno, assai consentanei alla ragione, de'quali ho stiinato
aver bisogno, l'enunciazione de'puri fatti che costruiscono l'istoria della
dignità regale nella città de’ sette colli, ha dovuto essere da me corretta, e
ridottasotto la forma seguente. La successione al trono mai non appartenne in
Roma a figliuoli maschi de' re precedenti. Essa appartenne sempre a' generi
loro, quando ve n'ebbe di viventi -- Numa, Servio, Tarquinio il Superbo. Lo
sposo della figliuola Maggiore e a tutti gl’altri preferito -- Servio. Quando i
generi sono morti, la successione passa ai primogeniti del primo genero --
Tullo Ostilio, secondo la mia correzione della leggenda che lo concerne; Anco
Marcio. Quando si tratta di DUE RE, in luogo di un solo, e di quella
magistrature binaria ed a vita che si surroga ne primi tempi alla dignità
regia, parimente non si rinunzia a queste medesime regole, e se non trovansi
due generi che potessero elevarsi al potere supremo, si'elevano egualmente a
quello, secondo l'ordine legale DUE FIGLI DI GENERO --- REMO E ROMOLO -- Bruto
e Collatino. La figliastra del re e equiparata alla figlia nel dritto di dare
il trono al marito, o a’ suoi discendenti maschi, in un tempo in cui
probabilmente figlie proprie non esistevano -- Tullo Osti. Quando non v'hanno,
nè generi, nè figliuoli di generi, il trono passa a’ nipoti che s'a mò
riguardare, in sì fatta contingenza, come legittimi eredi de’dritti
degl’ascendenti loro -- Tullo Ostilio, se si preferisce l'ipotesi, nella quale
egli è NIPTE D’UNA FIGLIA DI ROMOLO -- maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre,
o de 'magistrali che ne tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza
ottenerla, dimandano la dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità
ci ha trasmesso la memoria, è stato ugualmenle un genero di re -- Numa MARCIO
-- ; due altri, ne'quali' non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno
dimandato il trono per le vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto --
i figliaoli d'ANCO --; due di che solo si parla presso Plutarco se si ricusi di
considerare l'Ersilia dalla quale discende, come FIGLIA DI ROMOLO, e se si
rispetta la tradizione, secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al
più il padre adotetivo della SECONDA ERSILIA. In un caso, nel quale il capo
supremo non potè far valere il dritto di successione alla sua dignità
negl’eredi maschi delle sue figliuole, ne in altro modo potè effettuare la
trasmissione della suprema autorità per via d'altre donne sue discendenti,
almeno tramanda il suo grado nell'erede necessario della moglie – BRUTO
rispetto a LUCREZIO TRICIPITINO, suo successore nella pretura massima, o
vogliam dire nel consolato. Quando non vi furono eredi quali che si fossero di
lato di donna, il trono, sempre messi in non cale i maschi, ricadde in una
persona estranea, cioè non legata di piirentela colla famiglia reale --
Tarquinio Prisco. Quando, non ostante l'aversi eredi legittimi per parte di
donna, una persona estranea consegue la dignità regia, ciò avvenne contra il
dritto, per la forza dell'armi: Tazio. Non altra è l'espression' rigorosa de'
fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti correggerne la
sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se posso dirlo, in
nessun modo 'temeraria.' Le mie autorità, i miei ragiovamenti, non sofferirono
contraddizióve ne’loro particolari, eme nechiamo felice. Si volle solamente
avvertirmi che nel mio sistema sono alcuni fatti dubbiosi, e ricavati per
conghiettura. stato . co: Voleso e Proculo, sono stati proposti senza gran
fatto fermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor qualità
di candidati, e sembrano avervi rinunziato essi stessi; finalmente sono messi
innanzi in un tempo nel quale tutto che concerne le leggi relative alla
successione regia era evidentemente suggetto di controversia, e dispuldvasi
intorno alle basi stesse di questa parte della costituzione organica dello Io
risposta, io vi ho presentato l'analisi, per così dire più condensata, delle
tradizioni; lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per 'messo unicamente
qualche volta. o. Spesso la successione al trono in Roma s' è fatta contra ogni
principio d'equità, d'utilità, e di convenienza reciproca de' cittadini. Perchè
-- per qui contentarmi d' un solo esempio il quale abbraccia un lungo periodo
d'anui -- non certamente a vantaggio del partito latino, o di quel deʼ sabini,
sotto la dinastia etrusca, la dignità regia resta sempre nella fazion toscana. Grice: “Orioli philosophised
on many topics. To Italian philosophers, who are OBSESSED, during their
unstable political history, with political philosophy, his ‘research’ on the
consulate proves helpful. He notes that Romolo had no son – so who to succeed
him? Other than that, he was almost shot (Orioli, not Romolo) after trying to
oppose what he called the Roman theocrazy – or theocracia – For Orioli there
are various cracies: theocracia, democrazia, TIMOcrazia, and ARISTO-crazia. PATRIZIO VITERBESE; CONSIGLIERE ORDINARIO DI STATO DI
3. S. P. DI M. MEMBRO DEL COLL F1LOSOF. DELLA UNI V. DI ROMA, PROF. DI STOR.
ANT. ED ARCHEOLOG. NELLA STESSA UNIY fclA* PROF. DI FISICA NELLA UNIV. DI
BOLOGNA CC. CC. MEMBRO CORRISPOND. DELL* A. SC. MOR. E POL. DELL’lSTIT. DI
FRANCIA, ACCAD. BENED. DELL’ ISTIT. DI BOLOGNA, UNO DE'TRE SOCI ATTIVI DELLA
CL.DI LETT. DELLA REALE AC. DI SC. E LETT. DI PALERMO . SOC. ONOR. DELLA IMP. E
R. AC. DI SC. E LETT. DI PADOVA. SOC. CORRISP. E R. IST. LOMBARDO DELLE SC. DI
MILANO E DELL* IMF. E R. IST. DI VENEZIA, DELLA AC. DELLE SC. E LETT. DI
TOAINO...E DI MOLTISSIME ALTRE ACC. DI FRANCIA, GRECIA, E ISOLE IONIE, NAPOLI E
REGNO, ROMA E STATI PONTIF., FIRENZE E TOSCANA, LOMBARDIA CC. CC. CC.M l' ì(? 0
POLITICI j\r rro vjl Con giunte dell' A. NAPOLI STAMPERIA DEL KIBRENO. Faites, mon garcon, faites,
ré{K>nd lo vìeux radicai, et dites-leur aussi à ces hotnwes qui ont cbassé
et. ..et tous ceni qui ont osé ex printer un mot de se ns commun et d'humanité,
qui lapident Ics prophètes et éteignent l’esprit de Dieu, qui aiment le
mensonge, qui pensent ameoer le rógne de l’atnour et de la fraternité aree des
piques, des bouteilles de vilriol, aree le meurtre et le blaspbéme, dites-leur
à eui et à tous ceux qui pensent comme eux qu’un vieillard...dont les ebeveux
ont bianchi au Service de la cause du peuple..., qui contempla lecraquement des
nalions en g'3 et qui entcndit les premieri cria d’tm monde au berccau, qui,
lorsqu’il était encore un enfant, vit venir de loin la liberté et qui se
réjouit en la voyant comme devant une fiancée, et qui pendant soixante pé
nibles années, l’a suivie à travers les soliludes ; - diles - leur que cet
homme leur eovoie le deraie r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur
qu’ils soni les esclaves de leurs convoitises et de leur r message qu’il
envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de leurs
convoitises et de leur r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur
qu’ils soni les esclaves de leurs convoitises et de leur s passioni, les
esclaves du premier coquin venu à la laogue retentissante, du premier charlalan
veuu qui dorlote leur opinion pcrsonnclle ; dites-leur que Dieu les frapperà, Ics
fera renlrer dans le néa nt et les dispenserà jusqu’à ce qu’ils se soient
repentis, qu’ ils se soieot fait des coeurs purs et de nobles ames, et qu'ils
aieut relenu les lecons qu’il s’ efforce de leur donner depuis quelque soixante
ans ; dites-leur que la carne du pcuple est la cause de celui qui créa le
peuple, et que le malhcur toinbera sur ceux qui prennent les armes du diablc
pour accomplir l’ceuvre de Dieu ? » Sandy
Mackate nel Romano Alton locke di Kingsley Revue des deux Mondes. DUE PAROLE A
CHI È PER LEGGERE Stampo ancora una volta, cedendo alle lusinghevoli istanze di
parecchi amici miei, questi Opuscoli, a' quali m’è altresì parulo bene d'
aggiungere qualche annotazione nuova dove V argomento s embravami o
richiederlo, o meritarlo. Certo, che, s'io pongo mente, non alla benigna
accoglienza soltanto, la quale a essi Opuscoli fecero que' che m' onorano da
lungo tempo della loro pregiata amicizia, e le mie povere cose hanno abito di
giudicare con molta indulgenza, ma sì a quel che altri, a me per lo addietro
ignoti, o,per fermo, non congiunti d' alcun vincolo di antecedente amistà, ne
scrissero ne' giornali, o con private lettere me ne significarono, io debbo
tenermi come bastantemente ricompensato della quale che siasi fatica durata nel
comporre le pagine che qui appresso seguitano. Tra coloro che più contribuirono
alla buona fortuna della mia impresa ho debito di noverare principali i dotti e
benemeriti scrittori del Giornale che ha titolo — Civiltà Cattolica — E so la
mina degli sdegni a’ quali questo atto di franca gratitudine è per metter fuoco
nel campo nemico, poiché campo nemico non manca. Ciò non mi sarà impedimento al
fare lealmente il mio dovere di render loro pubbliche grazie. II Giornale — la
Civiltà Cattolica — è a troppi, e in troppe sue parli un osso non poco duro da
rodere. Nel difetto d' argomenti logici, si può a libito dirigere contro al
valoroso drappello de' dieci o dodici campioni che vi brandiscono
cotidianamenle la penna, batterie, da ogni lato, di que’ pessimi argomenti rettorici,
che si chiamano, in arte, argomenti ad odium, e ad invidiam : resisterà però
illeso ed invulnerabile agli strali spuntati de' loro sarcasmi, come le legioni
romane restavano salde ed immote agli urli co' quali i barbari, nella loro
impotenza, tentavano spaventarle. Quando si sarà detto e ridetto, facendo l’
alto dello scherno e del vilipendio. È opera dei rugiadosi che si sarà provato
con ciò ? Si sarà lasciata una prova di più della misera e svergognata
dialettica del nostro secolo, rotto a tutte le perversità, ed avvezzatosi a
dare alle villanie valore di ragioni. Tornando al mio proprio libro, censure
fino ad ora, le quali valgano la pena d’ una speciale risposta, non le ho
vedute, nè udite. Sunt quibus in dictis videar nimis acer, et ultra Legem. e,
rileggendo a mente fredda, conosco l' acrimonia di certe espressioni, la qual
forse sarebbe stato meglio tem perare un po' più. Tuttavia, ben ponderata ogni
cosa, ho creduto dover lasciare tutto come stava ; e ciò, in primo luogo,
perchè questa in somma è una ristampa, la qual non dee mentir al suo titolo ;
in secondo luogo, perchè, al postutto, muri può dire che, contro ad alcuno
singolarmente, abbia combattuto e combatta con armi ripassate alla còte samia.
Il mio proposito fu ed è, non di fare duelli, ma battaglie. Le persone io le ho
sempre rispettate e le rispetto, perciocché ho voluto, e voglio, esser libero (
ed esco ornai dalla metafora ) di trattare /’ errore pervicace e spavaldo con
tutta quella severità ed austerità di forme eh' et merita, e che un uomo,, il
quale ha sentimento di sua dignità, rifugge dall’ adoperar contro all’errante.
L’errante è, quanto alla carne ed allo spirito, consanguineo e fratello nostro.
Niun può sapere s'e i non sia più presto un fanatico ed un illuso, che un
perverso, od almeno un gran perverso. Ha sempre diritto al fare in sé
rispettare la santa emanazione del soffio divino ricevuto, od ereditato, nella
fronte. È sempre la creatura celeste, che, se cadde, può rialzarsi, e che,
quand’anche, per propria colpa, è in terra, e più al basso che in terra, esser
dee per noi, più ancora subbietto di compassione, che obbietto di collera. Ma V
errore staccato dalla persona, l' errore lasciato in tutta la sua schifosa
nudità, non ha diritto ad alcun riguardo, e vuol essere trattato senza
discrezione, senza misericordia. Quanto a colui che avendolo in sé incorporato,
sé da quello non distingue, ed a sé stima dette le ingiuriose parole, che
quello solo feriscono, tal sia di lui. Più di cosi non aggiungo. E forse non
era nè manco necessario dir così : tanto più, che, nell’ antica prefazione, ciò
stesso, comechè più brevemente, aveva significato. 1 discreti perdonino.
Gl'indiscreti riconoscano che queste ciance premesse per lo meno non hanno il
torto della prolissità. wmmm PARERE D’ UN AMICO INTORNO 11 MIO SAGGIO Ho Ietto
attentamente la prefazione, e le due dissertazioni vostre. Io credo che abbiate
ragione. Avete però del pari prudenza? II mondo è oggi troppo malato. Certe
verità dette con durezza qua e là soverchia fanno l’effetto del dito
stropicciato sulla piaga viva. Il meglio che vi possa accadere è di non esser
letto. Se leggeranno, le grida saranno alte .... terribili. Perchè stuzzicare
il vespaio? Ciò non è degno della vostra vecchia esperienza. Il passato non vi
basta? Pensateci. RISPOSTA Ho pensato e stampo la prefazione, e le
dissertazioni. Le considerazioni che mi schierate innanzi hanno molta verità,
ma non mi rimuovono dal mio proposito. La prudenza ! - Sta ottimamente. La
prudenza è però spesso il soprabito della vigliaccheria ; e in questo caso non
è niente altro che un belletto dell’egoismo. Per non incorrere nel male proprio
.... per non turbare la propria pace per non tirarsi addosso disturbi o peggio
.... per non guastar, come suol dirsi, i fatti suoi, s’ban da lasciare, senza
darsene per intesi, le menti umane sempre più travolgersi, le opinioni sempre
più corrompersi, certa gente accrescer la pervicacia nell’errore, e propagarlo
a tutto potere. Sentendosi bollire in corpo la verità utile, ed affacciarlasi
alla bocca, s’ha da ringhiottirla, o sputarla ( scusate la parola ) nel
fazzoletto e poi rimettersela in tasca, quand’anche s'è persuasi, che a
gittarla là alla palese sarebbe bene ; che questa verità messa in pubblico
sgannerebbe alcuni r eh’ essa suonerebbe alto all' orecchio d’altri, e
servirebbe a svegliarne il coraggio addormentato, o gioverebbe almeno a restare
come testimonio a’ futuri che v’è, pur tra noi, qualcuno, il quale ricusa le
complicità, protesta virilmente contro alle cattive e rovinose dottrine, se ne
sdegna com’è il suo debito, ed è disposto a mostrare, che chi sproposita e
minaccia scompigli e rovine, invano si confida d’avere il monopolio della
franca ed ardita parola. Io vi ringrazio, caro amico: ma voi m’amate troppo.
Non pensando, che al mio privato materiale vantaggio, avete dimenticato a mio
prò il resto del mondo. Io sento d’ amarmi men di quel che voi mi amate.
Intendo benissimo, che scrivere com’ io scrivo, è prepararsi disgusti e forse
peggio. Ma considero ch’io son vecchio, e nell’ ordine naturale poco ancora mi
resta a vivere. La mia povera e caduca persona non è ornai di tal prezzo che
siavi interesse per me a risparmiarla. È lungo tempo da che ho perduto il sapor
delia vita, e che le sue dolcezze non mi fanno gran gola, nè le amarezze grave
offesa al palato. La lode è un amo che non mi passa la pelle. Il biasimo ( dove
creda non meritarlo ) è un’ortica che non mi punge. La minaccia è contro a sì
poco che a tenerne conto è una miseria. Di me sarà quel che piace alla
Provvidenza. Nella minuzia di tempo che a vivere mi rimane, vorrei pur fare il
bene nella maggior misura che posso, a qualunque mio costo. E poiché il
pubblicare queste mie carte mi sembra, che o in una guisa o nell’altra qualche
bene possa recarlo, perciò le pubblico. Al mio male quale che siasi, dunque,
non ci badate, com’io non ci bado. Fate conto ch’io sia soldato. Sarebbe pur
bella che al soldato si consigliasse di pensare alle ferite, alle quali
battagliando s’espone ! Per altra parte, a me tocca ricomperare il tempo perduto,
ed affrettarmi a farlo. Troppo mi dorrebbe il lasciare di me tal memoria in
questo mondo che dia giusto diritto a suppormi quale certe antecedenti
particolarità della mia vita possono aver fatto credere ch’io mi sia. Non nego,
e sarebbe ridicolo il negarlo, d’avere avuto anch’io le mie politiche illusioni
( certo però non quelle di gran lunga, le quali oggi corrono il mondo, e sono
in gran favore presso tanti ). Sento il dovere di far conoscere a qualunque
prezzo ch’io non sono mai stato da confondere col più de’ cosi detti liberali
d’ oggidì, e che istruito ornai ioti all’ esperienza, non sono nemmen da
confondere con quell’io che già fui, e molte mutazioni ho in me fatto. Costi
ciò tutto che s’abbia da costare al mio amor proprio, voglio che Io si sappia.
Gli altri posson tacere ; io non lo posso, nè Io debbo. E so che dirassi da
taluni ch’io adulo que’che regnano. Veramente crederei che tutta la mia vita
passata m’avesse da essere scudo contro alla bassezza di questa accusa ; tanto
più che quegli stessi i quali la daranno (dove tuttavia questo ardiscano ),
dovrebbero ricordare, se quando essi regnavano pur testé, io li adulava.
Sarebbe avere aspettalo un po’ troppo tardi a mutar natura. Ma voi dite
eziandio, che il mondo è troppo malato, e che le sue piaghe non vogliono esser
toccate com’ io qua e là le tocco, senza molta discrezione. Caro amico ! la
vostra seconda proposizione distrugge la prima. Se accordate che la malattia
del mondo è grave, pretendete voi di curarla coll’acqua di gramigna? Eh si: vi son
medici che non curano le malattie, ma si contentano di guardarle. Se morte
sopravviene, tanto peggio pel malato. Il medico se ne lava le mani. Io non sono
di questa scuola. Vi sono piaghe che han fatto il callo, evoltano tutta la
malignità aldidentro;ed allora l’arte insegna di trattarle col caustico. Si fan
cerimonie, e si risparmia la sensibilità quando il male é leggiero; e questo,
per vostra confessione, non è il nostro caso. Da ultimo io vi prego a
considerare ch’io mi guardo scru * pelosamente dall’attaccare le persone. Il
mio dogma é Parme personis, dicere de viliis. Contea il male non mai congiunto
al nome di tale o (ale altro, credo mio diritto, e — li — mio debito scagliarmi
con tanta più veemenza quanta mi sforza ad usarne l’animo grandemente commosso.
Delle persone io non sono, non voglio, e non debbo essere il giudice; nè v’è il
prezzo dell'opera ad esserne il pubblico accusatore. Per altra parte il
pubblico non perde nulla per cagione delle mie reticenze. Le persone s’accusan
da sè. La loro moda è di non dissimulare quel che pensano, quel che vogliono,
quel che van facendo. Per chi’ scrivo? Pei popolo? Il popolo non legge. Tra
que’ che leggono, gli uni non han bisogno di leggere ciò ch’io scrivo, perchè
ciò eh’ io scrivo è quello che essi medesimi scriverebbero se avessero a
scrivere. . . quello che sanno già, e di che sono persuasi tanto quanl’ io lo
sono. Gli altri, nel maggiore lor numero, son oggimai venuti a tale, che,
quand’anche io fossi aitr’ uomo da quel che sono, cioè, quand’anche fossi più
eloquente oratore di Demostene e di Cicerone, e più stringente ragionatore di
Zenone, e d’ Aristotele, non si lascerebbero smuovere dalle opinioni loro,
delle quali han fatto carne e sangue. . . una (falsa) religione... un culto...
una necessità... una parte principalissima, e la più soave, delia lor vita
interiore ed esterna. Ove fosse pur possibile che consentisser d’aprire gli
occhi dell’ intelletto alla luce de’ ragionamenti, e si lasciassero illuminare
nella cecità alla quale son venuti di deliberato e volontario proposito, e
vedessero, perciò vinti, il bisogno d’ abbiurare la politica fede in che Guor
vissero e giurarono di morire, non oserebbero farlo, vincolati, come sono
(impavidamente diciamolo), alle sette che li tiranneggiano e ne tengono in
catena ogni libertà. Cosi, solo a pochissimi, posso io rivolgere la parola con
qualche speranza che sia per tornare non inutile; e son que’ pochissimi, i
quali non tanto innamorarono del creder nuovo, che di questo credere abbiano a
sè fatto una passione, e non un legittimo atto della facoltà intellettiva, al
quale sian giunti per lavoro di ragionamento, soggetto, come tutti i legittimi
atti di ragione, alla necessità di sottostare alle leggi che governano la
potestà raziocinante, e che debbono dominarla. Io m’inganno però anche rispetto
a essi ultimi. Noi viviamo in un secolo, nel quale la ragione stessa è come
morta dell’abuso che se n’è fatto esagerandone i diritti, e falsificandoli. Due
già erano, dal tetto in giù ( e voglio dire nelle questioni dove rivelazione
non ha luogo ) gli elementi necessari — coessenziali.... tendenti a
rafforzamento reciproco, per dare fermezza alla morale governatrice delle
volontà e delle azioni umane, ragione (d’individuo), ed autorità (collettiva
dei più savi, la cui ragione siasi guadagnata, per ogni correr di secoli,
maggior fede presso l’universale, che le spicciolate ragioni di tale o tal
altro o di stuoli comparativamente piccoli, e d’un opinar dissonante ). Il qual
secondo elemento ( l’ autorità ) è dunque ( a ben considerarlo nella sua vera e
giusta natura c quiddità ) ragione aneli’ esso, ma una ragione preponderante e
superiore, come quella che non è il giudicare soltanto d’ alcuni separatamente
presi, e ristrettisi nella lor propria e privata impotenza, fallibilità e
pochezza, ma è la quinta essenza delle ragioni dei più ( chè questa sola, dai
tetto in giù, pur sempre, in certe questioni di senso comune, è l’ autorità
vera o legittimamente sovrana ). £ dico dei più, o sia che si contino nel
numero, -o che si pesino nel valor loro intellettuale: i quali perciò, quanto
son maggiore stuolo nel lor consenso prestato a equipollenti sentenze quanto
rappfesentan meglio, colla lor somma, tempi e scuole e popoli diversi... quanto
hanno maggiore e più costante comunion di pareri, non ostante la diversità di
sangue, di luogo, d’educazione, e di tutte le secondarie influenze, tanto fan
più sicuramente una forza morale, clic è forza di natura, non d’arte, e che è
qualche cosa più potente e più salda che la tanto oggi predicata sovranità del
popolo; poiché èia sovranità, non d’un popolo, ma la sovranità della specie
umana tutta intera, esprimente il suo voto colla più legittima e la più
autorevole delle maggioranze possibili ad ottenersi. Or noi, uomini del secolo
XIX, de’ due soprannominali elementi, uno e il più gagliardo, ripudiammo... Y
autorità-, ed abbiamo chiamato sovrana unica la ragione (d’individuo), cioè V
anarchia! Noi, tutti o quasi tutti (dico noi ragionatori nel popolo, e
consenzienti a ragionamento ) abbiamo stabilito in cuore questo primo articolo
del nostro atto di fede politica. Io non crederò mai che quello che persuade il
mio proprio intelletto; e quel che pèrsuade il mio proprio intelletto io io
crederò conira ogni persuasione degli altri, contra ogni dottrina di sapienti o
di popoli, contra ogni sperienza di presenti, di passati, o di futuri, contra
ogni domma di religione, contra ogni legge di governi... E stabilita una volta
questa democrazia delle fedi... decretato anzi, che, in argomento di fedi
d’ogni genere, non è governo alcuno possibile, ma gli uomini han tutti naturale
e iualienabile diritto d’indipendenza reciproca ed assoluta dove ornai vassi,
ed a che? posto che le fedi, cioè le persuasioni dell’ intelletto, sono il
perno, sul quale s’appoggiano per muoversi le volontà umane. C’è più
possibilità di leggi? C’è più speranza d’obbedienze, altre che tirate colla
forza materiale? C’è più virtù di logica? C’è più società ? (li ISullius
addiclus jtirare in rerba mtigtstri ama ogni giovane dire di sè slesso uscito
ap|»ena dalle scnole di quella filoso- [Persuadetemi, noi diciamo, e mi
piegherò ad obbedire, senza combattere il vostro comando con ogni mio mezzo.
Persuadetemi che quel che m’insegnate è vero, e quel che lia, che oggi, sotto
Dome d’ eclettica, invade un grandissimo numero di scuole, e quel eh’ è il
peggio, anche colla innocente approvazione, e sotto il patronato, di maestri
ottimi, i quali mostrano di non aver ben compreso a quale indirizzo con ciò
guidano gl' illusi discepoli. Se l'avesser compreso, si sarebbero accorti, che
professare eclettismo è professare la negazione d’ogni vera certezza, riducendo
quella maniera di certezza, che pur si concede, ad un fenomeno d’individuo
senz’alcun valore per gli altri individui liberissimi di preferire ciascuno la
stia propria certezza alle opposte altrui, comechè d’un numero quanto sì vuol
grande, c consenzienti in una medesima opposta sentenza. L'eclettismo non è una
filosofia, ma una negazione della filosofia quale scienza altra che opinativa.
Essa è anzi peggio che ciò, perchè mentre nega una certezza intrinsecaad ogni
filosofia d'individuoo d’individui (per numerosi eh’ essi siano nel
consentimento ad una stessa filosofìa), e mentre non s’ avvede, che con ciò
viene a negare, per conseguenza, ogni autorevolezza intrinseca a tutte le
certezze individuali, confessandole tutte intrinsecamente incerte, accorda non
pertanto a ciascuno il diritto di fidare nella propria certezza, e, quel eh' è
il più, il diritto di regolare le proprie azioni a dettato di questa incerta
certitudine : ciocché viene a dire, che, nel tempo stesso nel quale afferma la
fallibilità di tutte le certiludini individuali, afferma nondimeno f
infallibilità loro nell’ applicazione all' individuo, dando a esse il diritto
d’ingannarlo, e all’individuo il diritto di seguitare unicamente questa guida
fallace, quando, a proprio esame, non gli paia tale. E cosi, in luogo d’ una
morale, viene a stabilire e farne legittime tante quante piu vuoisi o non
vuoisi. L'eclettismo non è nè manco un metodo, come alcuni spropositando
dissero, perchè non indica- una speciale strada da seguire nella ricerca del
vero. Esso è niente più che una professione di libertà e d' indipendenza
nell’opinare ; è un assoggettamento a niente altro, che alla ragion propria.
Filosofia eclettica è parola che non ispiega nulla quanto alla natura delle
dottrine. Dice solo che il libro, il quale reca in fronte questa parola, è
scrìtto seguitando il dettame della ragione dello scrittore, fattosi giudice
supremo d’ ogni ragionamento ed opìuamento altrui. Cosi, tutte le filosofie,
per diverse che siano, c 1’ una all' altra contraddicenti, possono intitolarsi,
del pari, eclettiche, e tanto più eclettiche, quaulo più professanti
indipendenza. Messo taluno alte strette, crede d'aver salvato a bastauza la
mala parola si fecouda d’errore, rispondendo che il filosofo eclettico, quando
accorda alla ragion propria l' autorità che pur le accorda secondo il canone
fonda[che nii comandale è giusto . Ma siam noi tutti atti ad essere persuasi?
Gl’ingegni nostri son tutti di quella virtù, di quell’addestramento, di quella
purità e serenità, che li fa esser buoni a intendere un raziocinio, a non
lasciarsi illu men late dell’ eclettismo, parla della retta ragione, cioè
convenientemente usata e normale; e non s’ accorge, che, colla sua risposta o
rinega la scuola eclettica e la disdice, o ne lascia interi tutti gl’
inconvenienti ed i difetti. Che cosa è la retta ragione, e la ragione
convenientemente usata, e normale ? Ad esclusione de' notoriamente pazzi ed universalmente
tenuti per tali, e perciò per non uomini, o per non più uomini ; e de’ rozzi ed
incolti, che riscuotono risaie da tulli, e son tenuti universalmente per
incompetenti, ossia per non ancor uomini (i quali ultimi tuttavia del ticchio
dell’ eclettismo non vanno immuni, nè si di leggieri della loro autocrazia e
indipendenza si lasciano spodestare ; e il fatto odierno di tutte le filosofìe
di piazza più che troppo lo prova ), ognuno di noi, che abbiamo il mesticr d’
occuparci di studi e di stampa, crediam d’ usare la ragion retta, e
convenientemente usarla con ogni normalità, e troviam facilmente, con poco
impiego di senno ed industria, un coro grande o piccolo di lodanti, il qual
basta per darci persuasione, che la ragion nostra è per lo meno tanto retta e
normale quanto quella di chicchessia. Peggio è che vi son uomini, di ragione,
per fermo, squisitissima, e universalmente riconosciuta come tale, de’ quali,
per conseguenza, mal si potrebbe dir che non hanno la ragion retta ed a ottima
norma, e non sanno usarla ; e pur mostrano, col fatto, che le loro ragioni li
conducono a dottrine opposte.... 0 vuoisi dire che la ragion retta e normale si
riconosce a certi criterii suoi, che non sono della ragione d’ individuo, ma
sono d’ una universale ragione, a' quali criterii debbono le ragioni
individuali commensurarsi, accettandoli per una norma estrinseca alla quale
debbano affarsi ? Ma ecco dunque rinegata allora e disdetta veramente la scuola
eclettica, e confessato il bisogno d’un dommatismo,' al quale debba soggiacere
ogni opinar privato, perduta la libertà della ribellione c l' indipendenza....
Facciasi tutto che vuoisi, ci è appunto nella filosofia necessità d’ un
dommalismo dominante i capricci e le contraddizioni degl' ingegni in certe
fondamentali questioni costitutive del viver morale e civile. L 'eclettismo
potrà permettersi all’ amor proprio d’ognuno nelle altre questioni, come una
concessione di poco o niun nocumento. E nondimeno, anche in quelle, il giudizio
dell’ individuo dee sottostare al senato degli uomini che si chiaman competenti
. Ma questo non è un argomento per una nota, per la quale il poco che se n’ è
detto 6 troppo, mentre ciò che ad una nota è troppo, ad una trattazione
conveniente è men che poco . ] dere da un sofisma, da un paralogismo, a por
nell’ esame * delle questioni la necessaria preparazione di scienza, a
spogliarsi di tulle le prevenzioni dell' intelletto, dell' affetto,
dell’interesse? Siam tutti veramente uomini ed uomini maturi; o molti di noi
non sono, e non restano, fanciulli sempre, e non sono, e non restano, bruti, o
quasi-bruti ? A tutto questo nessun pensa a rispondere. Il primo articolo del
simbolo de’ nuovi pseudo-apostoli sta pur fermo. Io non crederò, se non mi
persuadete; e non farò di buon accordo, e senza resistenza, che quello che sarà
conforme al mio credere ! Dirassi eh’ io esagero gli errori del tempo presente.
J)irassi, che non tutto alla sovranità del proprio intendimento è dato, ma non
è, nel fatto, chi non fortifichi, ancor oggi, le suggestioni del proprio intendimento
coll’ autorità di numerosi stuoli d’ amici e d’ uomini del proprio partito,
ovunque sparsi, e in più d’un paese predominan ti. Aggiungerassi, che la fede
nou è atto di libertà, ma di coazione morale, alla quale l’ intelletto-, che
nou è potenza libera, non può resistere : ma faci! cosa è dare risposta. Si,
per fermo. Contro alle necessità imposte da natura non cosi di leggieri vassi.
O vogliasi, o non si voglia, non si può restar soli del proprio parere, se nou
s’ è monomaniaci, che è dire malati di cervello. L’istinto stesso ci spinge a
metterci all' unisono con altri, verso i quali ci attraggono simpatie naturali
o artificiali, e a’ quali si crede, perchè si crede a noi medesimi : e v’ è in
noi tendenza al formarci un mondo di que’ che ci accostano, e che accostiam
noi, magnificando ed esagerando il valore e il numero loro. Cosi, quando il
mondo che ci siaui fatto pensa e crede come noi, e noi crediamo e pensiamo come
quello, ci palelle qiiesta universalità parziale e locale valga la vera universalità
potente a vincere tutte le contraddizioni. Ma può ella esser questa l'autorità
destinata a fare spalla alla ragion privala di chicchessia, o ad essere uno de’
due puntelli del I' uomo, postigli da due lati per impedirgli il cadere ? La
specie umana è forse un partito, ed è una ragion di partito la ragione umana? I
partili forse non s’ingannano, e non ingannano? Non hanno passioni che velano
il giudizio? Non hanno interessi che muovono le passioni? O nou v’é obbligo,
nelle grandi questioni umanitarie, non di misurare il proprio deliberare e
credere col deliberare e credere di ((udii, o pochi o molli, a’ quali ci
stringono i nostri interessi e i nostri affetti, ma di misurarlo con quel che
delibera e crede la sola legale maggioranza del genere umano, cioè quella che
si raccoglie in una somma, comprendendo nel computo i popoli di tutte le età,
di tutte le stirpi, di tutte le regioni, e dando particolar valore a que’ che
si reputaron sempre i più savi, i più probi; e riguardando un po'nella
verificazione delle dottrine ( in virtù di quell’argomentazione che i
dialettici chiamano ab absurdo) ai grandi ed ultimi conseguenti loro, i quali,
se contrari alla perfezione della specie intera, significano, con ciò stesso,
efficacemente, la falsità d e’ principii, donde que’ conseguenti discendono? E
istituita questa misura e questa comparazione, non bassi egli obbligo, per una
generale norma, di dar sempre più valore all’espressione ultima di quel
sentimento della vera maggioranza degli uomini, che al sentimento suo proprio,
e de’ suoi colleglli ed amici, per numerosi che paiano e siano? o siani venuti
a tanto stravolgimento di logica, che ornai l’ autorità di ciò che si chiama il
senso comune, ed è appunto il da noi descritto in ultimo luogo, è distrutta ed
annullata ? Dopo di che, qual forza ha più l’altra obbiezione dedotta dal
supposto, che l’inlelletto non soffra violenza, e che, rispetto al credere, non
si è liberi di credere quel che si vuole, ma si è costretti a regolare la
propria fede secondo la luce interiore, d’onde essa fede ha unico procedimento?
Ammetto il fallo: sebbene, anche in ciò, molto dipende dalle preparazioni
estrinseche della monte, e dalle disposizioni del cuore. Pur liberalmente lo
ammetto. Ma, dal fatto cosi ammesso, qual diritto scaturisce ? Forse che
regolar dobbiamo le nostre azioni interne cd esterne, secondo la suprema norma
di quel che all’ intelletto nostro pare unicamente vero? Non già. L’obbligo è
d' umiliarci, e di riconoscere, una volta per sempre, l’inferiorità del nostro
intelletto, quando ci accorgiamo che i privati opinamenli nostri son
contraddetti dalla grande universalità degli opinamenti dell’umana famiglia,
considerata nella totalità sua presente e passata; e di lasciare allora da
parte il falso lume del proprio intendimento per diriger noi e le cose nostre
coll’altro lume tanto più sicuro, eh’ è il lume a cui demmo il nome di cornuti
senso. Ed intendiamoci bene, a evitar tutte le ambiguità. Qui non parliamo
delle questioni, intorno alle quali il cornuti senso non ha luogo, ne
competenza, nè autorità... di quelle questioni, che non son fatte per esser
trattate da tutti, e che non bisognano a tutti per la -loro normale esistenza e
sussistenza... Qui si tratta di quelle questioni, le quali possono e debbono
chiamarsi le grandi questioni del genere umano: le grandi questioni teoriche,
fondamento sommo da fatti appartenenti ad un tempo di tralignamento, a
svantaggio e discredito delle aristocrazie, non può in nulla percuotere le
dottrine che qui si professano. La questione allora sarà al più, se i ceti
aristocratici possano mai realmente preservarsi dalle mutazioni che li fan
perniciosi più presto che utili, e ridursi a tale di conservare piena
conformità col tipo migliore, o di riguadagnarla ; ciocché per me non è nemmeno
una questione, e non può esserlo per alcuno, il quale tutta la potenza delle
buone arti educatrici conosca. Risaliamo dunque, ripeto, al tempo di certe vere
ed antiche aristocrazie cavalleresche, normalmente condotte a quella natura,
che aver denno per essere dell’utile specie da noi voluta, e spesso stata e
vedutasi nel mondo. In esse voi troverete familiari alcune virtù sommamente
utili al popolo, e diffìcilmente reperibili altrove nel numero e
coll’abbondanza che più sono desiderabili. Chi noi sa ? Nelle prosapie
aristocratiche, principalmente, se non unicamente, può sperarsi- di trovare, ad
ogni necessità, i veri patres palriae, preparati a tutti i bisogni ; cioè
quegli uomini autorevoli, potenti, coraggiosi, avvezzi a mettersi fuori si
dignus vindice nodus, godenti già il privilegio d’essere ascoltati con
riverenza, con effetto, assennati, sperimentati, periti, probi, pe’quali è
fatto naturai dono, ancor più che artificiale, tutto che è generoso, nobile,
magnanimo, eminentemente civile ed utile a civiltà ; e prima la lealtà oggi si
rara, il eaudore, la fede, la incorruttibilità, la fermezza, il disinteresse,
la franca ed inviolata parola, quella che proverbialmente pereiò si dice parola
di cavaliere ; il mantenere a qualunque costo i patti e le promesse ; il non mai
mentire ; il religioso astenersi da ogni cosa vile o brutta... Non è la santità
de'perfelti in religione, nobil dono di Dio, e privilegio sommo di grazia,
sdegnoso per solito di queste cose terrene e caduche ; è la virtù antica e
civile, una cosa illibata, ingenita, uscita dai paterni lombi, ed avuta da
natura, più ancora che da innestato ammaestramento ; che perciò non costa
fatica, nè sacrificio, ma è ab ovo e per traducem, fin dal primo impasto
dell’uomo e della razza. — Con questo, è l’abitudine dell’ anteporre
l’interesse pubblico ed altrui al proprio e privato... è la naturale generosità
e larghezza... è il preferire quasi istintivo del retto all’ utile... è la
disposizione avita di tutte le cosi fatte stirpi a eminenza di cittadine virtù
ed attezze... il primeggiare nel ci vii senno e consiglio... il gittarsi
innanzi, come il ’ prode destriero al romore delle battaglie, anche non
chiamati, nè pregati, né desiderati, in tutti i grandi e solenni bisogni della
cosa pubblica, senza risparmio di sè e delle sue fortune... il trovarsi pronti
e preparali a soccorso, a protezione, a sosteguo, a sovvenzione, a
incoraggiamento, a guida, a ufficio di capitani e di porta-bandiera. E I’ esser
sempre caporioni agli altri nel bene, e caporioni efficaci, ascoltati, sentiti,
rispettali, obbediti... l’aver coraggio civile o militare secondo clie fa
d'uopo... il guardare dall'alto al basso il puro e vile materiale interesse, e
il cercar sempre nelle questioni il lato della moralità e della giustizia. Non
mi state a dire che queste qualità preziose son rare come le mosche bianche.
Rare forse oggi, vi ripeto : ma non rare in ogni tempo ; non rare quando gli
uomini s’educavano a modo antico. E se si riusciva ad ottenerle, quando a
quella forma s’ educavano essi, io non veggo, perchè richiamando le stesse
cagioni, non s’abbiano ad ottenere, e non si possauo, gii stessi effetti. Non
mi venite a soggiungere, che altrettanto e meglio, per forza di conveniente
educazione, puossi ottenere fuori delle privilegiate caste. L’educazione è cosa
sempre troppo artificiale, e troppo perciò difficile a condursi a buon termine,
se natura non agevola, e condizioni intrinseche non favoriscono ; e l’una e l’
altre non favoriscono, se fin dai primi istanti non concorrono ; e dai primi
istanti non concorrono che assai di rado, e solo con qualche frequenza, quando
certe disposizioni son fatte dono abituale per lunga serie di generosi avi, e
quando ogni cosa che è intorno le seconda. Imperciocché indipendentemente da
quel che allora è dato per una felice armonia del fisico col morale improntata
per concepimento, v’è lo spontaneo innesto che nou può mancare a chi è uato in
mezzo alle morali qualità che si voglion generate ; a chi le ha trovale in
casa, e n’è stato cinto da ogni parte fin dalla prima infanzia -, infine a chi
non ha incontrato, anche uscendo" di casa, che quelle, come cosa propria
della casta in mezzo a cui vive. Le quali cose tutte non sono, per fermo, allo
stesso modo, in uno stato dove non è che democrazia, pe'figliuoli degl’ingenliliti
da un giorno, e degli arricchiti. Perchè in questi per solito le ricchezze e
l’innalzamento è dall’industria mercantile o quasi-mercantile ; e l’industria
delle mercature e de’com fu merei, pur troppo, a esser promossa, e tanto da
generare tesoro, ha bisogno d’accompagnarsi con amor di guadagno, e d’ esserne
preceduta come da suo naturale stimolante : amor di guadagno, che è passione
per sè, non dirò vile, ma certo un po’ bassa, e non troppo generativa di virtù
politiche. Ed ha radice d’egoismo e d’interesse materiale e personale, due
interessi che non poco penano a subordinarsi all’interesse morale, tanto da
contentarsi sempre delle seconde parti. Donde poi viene, che nelle case di si
fatti (non ch’io neghi molte onorevoli eccezioni) gli esempi non sogliono esser
quali in quelle della vera e buona aristocrazia ; e colla rarità di questi
esempi va proporzionata la difficoltà della fruttuosa educazione di che
favellavamo. Che se, pe’fin qui discorsi argomenti, s’ è dunque cercalo di
provare, che utile pertanto è l’aristocrazia, rispetto al creare, con un buono
e conveniente indirizzo, una schiera di cittadini egregi, quali con arte di
speciale istituzione applicata a’ primi che presenta il caso, o la fortuna, è
difficile ottenerli; già possiamo a un altro argomento venire, e sarà
l’argomento di un secondo e ancor più elevato interesse politico, il qual
consiglia a mantenere, quantunque dentro giusti contini, un ceto aristocratico
nello stato; c questo è l’interesse cornai at or e. Il quale interesse, naturale
antagonista delV interesse riformatore, molti non vogliono conoscere utile,
perchè non vi pongon mente : e, non avvertendolo, non se ne fanno una chiara
idea. Ma non perciò non esiste; e non è rilevantissimo, e tanto anzi più
importante, quanto le forme del governo son più liberali, e tengono delle
repubblicane, o delle rappresentative e democratiche, e quanto v’è più grande
l’autorità delle turbe popolari. Perchè il proprio delle democrazie, come in
generale dei popoli e de’tempi tendenti a democrazia, è, in politica, il moto
perpetuo. Un paese dato o soggetto alla dominazione, od alle forti influenze
de’ capricci, di quello che fu e sarà sempre varium et mutabile vuigus, è come
dire un terreno in man d’una compagnia d’ agricoltori, ognun dei quali vuol coltivare
a suo modo ; e dove, secondo che uno riesce a prevalere sull’ altro nella lotta
delle volontà, e nella pertinacia e nella validità de’ contrasti, distrugge
l’opera de’compagni, e rilavora, e risemina a suo modo. Il qual terreno lascio
decidere a chicchessia se può mai prosperare, e dare un frutto che valga le
spese, e le fatiche periodicamente abortive. Un tal paese è sempre sul
disordinarsi, e riordinarsi per disordinarsi di nuovo, e tornare ad ordinarsi:
come ciò accade del mobile campo del mare a ogni nuova aura che spiri, non
importa da qual parte. Le leggi non vi durano. L’espcrienze lunghe non vi si
maturan mai. Le fortune vi sono instabili, come le dignità, come le influenze,
come le ricchezze, come le risoluzioni. Ora un tal paese, per avere una qualche
speranza di requie, e di rallentamento negl’impeti inconsiderati del moto, ;
per non lasciarsi perpetuamente allucinare da false apparenze di mali, da false
apparenze di beni, giudicate secondo la prima impressione, e guidanti a fatti
spesso inconsiderati e rovinosi, ha bisogno che sia, nel popolo, un certo
numero di cittadini saldamente potenti (ciocché non vuol dir prepotenti), i
quali mettano nella bilancia disposizioni opposte ; cioè appunto quelle
disposizioni che si chiatnan conservatrici, com’é il proprio delle
aristocrazie, alle quali tutto fa invito a temere i troppo rapidi mutamenti, e
a temperarli, facendo per propria essenza l’officio del regolatore nell’
orologio, e della scarpa nel carro, non per arrestare l’ andamento, o per
voltarlo io contrario, ma per fare necessario contrasto alle accelerazioni
dissenna te, e per impedirne le aberrazioni pericolose. Né voglio, a provarlo,
altra dimostrazione che quella delle prove storiche, dalle quali risulta che
nessun paese prosperò mai lungamente, dove un robusto ceto aristocratico non si
ponesse in mezzo tra le facili velleità delle plebi e de' municipii, tra i
piccoli e gretti interessi del terzo stato ... tra le tendenze agli abusi del
potere in più alto luogo; c non concorresse con ciò validamente e in modo
principalissimo alla costruzione diffìcile del buon governo. Finirò enumerando
i beni accessorii, che a lutti i precedenti van connessi. Unicamente
coll'aristocrazia, che si tiene ancorala sopra una ricchezza immancabile ( non
fluttuante, non fortuita, non nata oggi o ieri, c non destinata a perire
domani), e sopra tradizioni antiche di potenza, e sopra le aderenze numerose e
gagliarde che la corroborano, e la fan per cosi dire immortale, sono possibili,
od almen frequentissimi, tanti abbellimenti delie città ; que’ palagi, de’quali
parlavain sopra, che sffdano i secoli, e che son come reggie; i musei, le
ville, i parchi, le splendide ed ereditarie proiezioni alle belle arti di
lusso, alle lettere, alle scienze; i costumi gcutili, il secolo di Leon X, la
considerazione al di dentro, e al di fuori, la dignità c il decorodelle
nazioni. Solamente coll'esistenza di famiglie, la cui poderosa influenza sugli
uomini e sulle cose abbia grande ed antico ed esteso fondamento, è lecito
sperare ad ogni privato facili appoggi e saldi nelle solenni necessità d’ogui
genere, ferma resistenza contra ogni nemico interno od esterno che minacci lo
stato e la città, c perfino la miglior guarentigia possibile contra gli abusi
d'autorità, procedenti da ogni alto luogo. Questi abusi, possibilissimi anzi
dove non sono che governo e popolo più o meno minuto, e qua c là ricchi senza
consistenza e senz’ altra fede che nella loro pecunia, non possono esistere o
sussistere gran fatto dove quel terzo elemento dello stato è fortemente
costituito su basi ben radicate che non tremano ; le combinazioni ternarie, in
queste faccende, piu essendo valide ad impedire le abusive prevalenze da
qualunque parte, c quindi le prepotenze di qualunque origine. Ivi i facili
rivolgimenti c sconvolgimenti trovano remora gagliarda e principalissima,
distrutta la quale i Iremuoti politici si succedono a ogni piè sospinto ; e
dura pròva più d’un paese n’ha falla in questi nostri lagrime volissiini tempi.
Di qui è che la sapienza antica, per voce di Platone c di Cicerone, cosi
appunto sentenziava ne’ libri De republica. Si ama favellare soltanto delle
soperehierie de’ nobili, di certe violenze che alcuni di loro si permettono, di
certi mali ch’essi han prodotto. Bisogna, com’ io diceva, pesar più giusto, e
mettere su la bilancia nell’ altro piatto i vantaggi. Quando avrete distrutta
la nobiltà, e avrete solo tollerato quella ineguaglianza di fortune, che non
siete padroni di distruggere, e che resisterà ad ogni vostro tentativo
livellatore, avrete tanto e tanto le stesse violenze e le stesse soperchierie
da que’che avranno la prevalenza di fortuna, ma le avrete senza il correttivo
ed il freno che per sua natura è chiamalo a mettervi il buon patriziato per una
dicevole educazione e tradizione. Servio Tullio, fin dai tempi regii di Roma,
non annullò questo ; ne moderò i poteri ; e provvide con ciò alla fuUira
grandezza di quella ch’era destinata ad essere la capitale del mondo. La
elevazione di Roma repubblicana è dovuta principalmente al suo senato di patrizi.
Le successive invasioni della plebe alzaron molli di quesla sino a quello, cd
era giusto ; non abbassarono quello fino a sè, che sarebbe stato follia. . .
distruzione di Roma. I Cesari lolser di mezzo, o snaturarono l’organo politico,
pel quale Roma dominò la terra ; eslcrminarono le grandi famiglie, fecer perire
l’ antiche tradizioni, tolsero ogni impedimento, ogni potestà tra sè e il
popolo, e con quale effetto non ho bisogno di ricordarlo ad alcuno. Venezia ed
Inghilterra la Venezia de’ passati secoli, l’Inghilterra d’oggidi, son altra
prova storica e splendida della mia tesi. I soprusi e gli abusi di potere si
possono correggere, impedire, medicare; il male della mancanza della nobiltà è
immedica bile nel materiale e nel morale. E la nobiltà è zero senza ricchezza ;
e la ricchezza è labile senza fedecommessi. Dunque i fedecommessi, oltre al non
essere ingiusti, oltre all'essere senza detrimento al paese che li ammette, gli
sono necessari (1). (1) Di qui è, che, a mio senso guardando alla ragion politica,
possono nelr eredita fidecommissaria difendersi anche certe sostituzioni, e
certi passaggi di famiglia a famiglia come mezzo di perpetuare i gran nomi, la
memoria de’ grandi servigi, e gli obblighi che queste memorie traggon seco.
L'argomento è degno per lo meno di nuovi esami. Non è il mio Bne
l’intraprenderli. N- B. Dopo stampale, una prima ed una seconda volta, queste
lettere, un vicino paese fu, nel quale i maggiorati s’ abolirono, disputatone
prima, come e quanto lo si poteva aspettare, nella camera dei suoi deputati, e
nel senato de’sapienti del luogo. Nè negherò, che, vista la coedizione de'tempì
e delle opinioni, il conservarli sarebbe quivi stato un’ anomalia ; certo una
disarmonia con tutto il resto. Nel fallo, si guardi meno alla quistione assoluta,
che alla relativa ; e meno la relativa al piti o manco di vantaggio del popolo,
e in generale dello stato, ebe ia relativa all' andamento politico in cui lo
stato s'è colà messo, ed alle necessità che ciò s'è tratte dietro. La questione
giudicata oggi cosi sta donque forse bene. Bisognerà vedere se ugualmente starà
bene domani. DELLA LIBERTA’ E DELL’EGUAGLIANZA CIVILE. -DEL GOVERNO E DELLA
SOVRANITÀ’ IN GENERALE. - DELLA COSI DETTA SOVRANITÀ’ DEL POPOLO E DELLA
DEMOCRAZIA. -DEL VOTO UNIVERSALE. DELLE RIVOLUZIONI E DELLE RIFORME NEI GOVERNI
EC. Al REPUBBLICA! RICOVERATI IH IHGBlLTERRA E ALTROVE Il ne faut pas vous le dissiniuler. Le
peuple, ainsi que la bourgeoisie n’a nulle confianee en vous. Le peuple rii de
vos pasquinades politiqueset sociales: il vous a connus à l’oeuvre : il a jugé
la puissance de vos moyens et la fécondité de vos ressources; il a vu poindre,
sous volre iniiiative, celle réaction que vous condamne/. aujourd'bui, mais
dont le principe est loujours vivant dans vos vues et pour rien au monde il ne
se sou cie de riimeltre nne seconde fois ses destinées eulre vos mains.
Tranquillisez-vous donc, et quoi qu’ il arrive, ne vous excilez pas le cerveau,
ne vous écbaufl'ez l.oint la bile. Acceptez en tonte résiguation le repos que
vous fait l’cxil, et metlez-vous bien dans la téle qu’à rnoins d'unc
transformation complète de volre esprit, de volre caraclèrc, de votre
intelligence, volre ròte est lini. Teuez, voulez-vous queje vous dise louie ma
pensée? Je ne connais qu’un mot qui caractérise votre passò, et je saisis celie
occasion de le Taire passer de l’argot populairc dans la langue polilique. Avec
vos grands mols de guerre aux rois, et de l'ralernité des peuples ; avee vos
parades revolulionnaires, et toutee lintamarre de démagogues, vous n’avez été
jusqu’à préscnt, que des blagucurs. Journ.
le Peuple ile l»bO Articolo di P. /. Prudhon Della libertà nel civile
consorzio, e dei limiti che necessariamente debbc avere. Che cosa volete,
signori maestri del mondo, che si rinnova? - « Libertà ed eguaglianza nel
consorzio civile, nco« nosciute e difese; e, come frutto della libertà e
dell’egua« glianza, la parte di sovranità nel popolo, che a ognuno «
coegualmente spelta per quel che concerne gl’interessi « sqoi, e gl’interessi
dell’universale in correlazione co’suoi. « Perchè, se gli uomini sono uguali
per natura ( e certo lo « sono}, è una iniquità il farli disuguali per arte; è
una slo« Udita il lasciarsi far tali, ed ammettere maggiori di sé soci pra sè
quando piace, e quando non piace. E se gli uomini « sono liberi per natura, è
una iniquità il farli più o meno a schiavi per arte, e stolidità il lasciarsi
far tali, ed ammet« tere padroni di sè sopra sè, quando piace, e quando non
piace. Ma qui vale la risposta celebre degli spartani a Filippo re - (1). « SE
». La libertà! Innanzi tratto, parliamo un po’ sul serio: raccordate voi
veramente all’ uomo, voi che pugnate tanto perchè vi si lasci interissima, e
quasi o senza quasi priva di vincoli ? - Ma molti di voi, che chiamano l’uomo
una macchina fisica, so che il libero arbitrio, cioè questa tanto richiesta
libertà, dicono non esistere ; poiché tutto che facciamo, lo facciamo, secondo
essi, per coazione prodotta in noi da impellenti motivi, interiori od esterni,
che prepotentemente, (I) Plutarch. fìe g.imililale. Edil. Rnisk benché
occultamente, ci spingono a fare o non fare, ed a fare una cosa piuttosto che
un' altra. Dunque, almen per tutti cotesti negatori del libero arbitrio, le
dimande d’ esser liberi hanno assurdità manifesta, e mancan di senso, essendo
in contraddizione perfetta colla loro intima e confessata persuasione di non
poter esser soddisfatti nelle loro dimande, nè essi, nè chicchessia (1). Essi
sanno, o pretendon sapere, che chiedono quel che non è possibile dar loro ;
poiché quel che chiedono, a lor detto, è un nulla, un non-ente; e niun può dare
ad altrui, se non illudendolo, un non ente, un nulla, una cosa, che nè ha egli,
nè alcun altro possiede, o può possedere. Dunque la libertà non possono
chiederla, che coloro i quali la credon possibile all’uomo, e che non
risguardano il mondo morale, ossia il mondo delle volontà, come un conflitto di
forze, ognuna delle quali non può non esercitarsi, che nel modo col quale nel
fatto s’esercita, senza che alcuno possa iutervenirvi per azioni diverse da
quelle con che ogni volta in realtà v’interviene. La libertà, in altri termini,
non posson chiederla, che gli spiritualisti ; e già in ciò v’è molto di
guadagnato: perchè cogli spiritualisti, se sono veramenle quel che dicono di
essere, si può disputare con ferma speranza di giungere presto o tardi a
spogliarli di certe idee, per così dire, superfetate ed aggiunte, contro a
naturatile loro persuasioni di spiritualisti: idee non compatibili con quelle
persuasioni, e tali, che nonèdifficile alla lunga di farle apparir loro quali
realmente sono, riducendole al giusto loro valore. È argomento ad hominem — Ex
ore vestro voi judico. Que’ cbe negano la libertà non solo non posson chiedere
questa, ma non possono, sul serio e da senno, chiedere o pretendere nulla, nè
accusar nulla, nè lagnarsi o adirarsi di nulla, nè trovare a ridire su nulla.
Nella loro ipotesi lutto quel che è o sarà, tatto quel che si la o si farà, non
dipende dall'arbitrio 'di chicchessia. È o sarà, à fa o si farà, perchè non puh
essere nè farsi diversamente. Dimande, lagnanze, accuse, saranno, per vero,
esse pure atto necessario, ma un alto senza significato, o d’ un signitìcato
che non può stare. La proposizione non lo che accennarla. Il trattarla ex
profitto non è di questo luogo. E che cosa è questa libertà ? - « La facoltà (
rispondono } « d’usare delle proprie forze, fisiche o morali, nel modo « che
più aggrada, la quale ( dicono que’che vi credono ) « è una facoltà primitiva e
naturale, e tale perciò che non si « ha diritto di toglierla. » Intanto, essi
che l’ ammettono, si vergognerebbero di non ammettere però, che alcuni di si
fatti usi della libertà propria son buoni, altri cattivi, e che i buoni usi
ognuno è tenuto a praticarli, e i cattivi ad evitarli. Dunque coloro che ammettono
la libertà, .e che perciò ne chiedono alla congrega civile la maggiore
possibile indipendenza e franchigia, concedono almeno una legge interiore, e
naturale, e non abrogabile, data al loro intelletto, che comanda, consiglia, o
proibisce; legge obbligatoria per ognuno. Dunque concedono, che la libertà, per
sua natura, non è poi cosi sfrenata come lo si suppone, nemmen nell’uom
solitario e sottratto perciò ad ogni coazione estrinseca de’simili suoi, da che
è limitata e vincolata da una legge interna, che notabilmente ne restringe pur
sempre i poteri. Anzi, poiché, conceduto il bene ed il male nelle azioni libere
o volontarie, vengono con ciò necessariamente a concedere la distinzione tra
l’uomo da bene e perfetto, e l’uomo imperfetto e cattivo, conseguita da questo,
che per essi il migliore ed il più perfetto degli uomini è quegli che più
limita le proprie libertà, e che, per conseguenza, nel fatto, è o si fa men
libero; e viceversa, che l’ uom peggiore e più imperfetto è quegli il quale più
ai vincoli della libertà si sottrae, godendo, nel fatto, d’un più illimitato
uso della libertà propria. Qual è l'uomo il più libero ? — Il ciallroue, che,
senza un riguardo per sè o per gli altri, va e fa e dice, e si veste o sveste,
e s'accompagna o scompagna, e si satolla negli appetiti suoi più disordinati e
più bestiali ed immondi a tutto suo grado, gitlandosi panciolle o rotolandosi
in istrada, ubriacandosi nella taverna, appaiandosi colle sgualdrine, gridando
e urlando per via, spargendo motti, dileggiamenti, bestemmie, ingiurie a questo
ed a quello. Or, se la civil convivenza è ordinata a rendere gli uomini, non
più imperfetti e cattivi, ma sempre migliori e piu perfetti (ed aspetto che
qualcuno voglia con moderna impudenza negarmelo), è chiaro, che quello è il consorzio
umano più conforme alle leggi di natura, in che il male è più difficile a
farsi, ed il bene piu facile. Laonde, se un modello di ottimo civile
ordinamento è a proporsi come un tipo al quale si debbano conformare, quanto
meglio ciò è dato, le umane congreghe, converrà dire l’ideal naturale ( come lo
chiamano ) dell’ ottima e perfetta civil convivenza esser quello dove alle
volontà del male è recato il massimo impedimento, alle volontà del bene il
massimo eccitamento e favore, alle volontà indifferenti quanto a bene ed a male
la massima indipendenza : quello dunque dove la libertà ha vincoli molto
maggiori de’ vincoli che le nostre leggi, anche le più rigorose impongono.
Tuttavia confesso, che chi cosi ragionasse andrebbe troppo in là col
ragionamento, massime ove difendesse l’opinione, che questo ideale sia
immediatamente riducibile ad atto nella odierna condizione delle aggregazioni
umane che si noman popoli. Confesso, che, conosciuto il mondo cosi com’è, e
considerato quanto immensamente son gli uomini ancor lontani, nella lor molta
corruttela, dal tollerare universalmente d’ esser costretti a farsi ottimi, e
ad incontrare ostacoli ad ogni azion loro men che retta ed a bene rivolta;
veduto quindi che la legge troppo rigorosa incontrerebbe innumerabili ribelli,
i quali sarebbe presso a poco impossibile frenare, e colla forza ridurre ad
obbedienza, o pur solo punire; infine, richiamalo alla memoria, che Iddio
stesso, nella formazione dell’ uomo, mentre si è contentato di dare ad Lo 5cln
'rauo clic corre armalo le campagne taccinlo silo tulio che trova, spogliando i
viandanti, accoltellandoli.... — E qual uomo onesto, nel senso che questa
parola ottiene in ogni vocabolario di popolo civile, vorrebbe essere cialtrone
o scherano ? o eie' specie li ci' il consorzio è possibile ne' cialtroni, e fra
gli scherani?] ognuno le norme del bene e del male, ba però voluto lasciare, a
tutto risico di chi devia da queste norme, la libertà di si fatta deviazione ;
di qui è che, per men danno, e per men difficoltà, i savi, che dell’
ordinamento degli stati han fatto particolare studio, avvisarono la necessità
di abbandonare al proprio libito di ciascuno il più di quegli abusi di li bertà
recanti a tristo o sconveniente (ine, ma che non nuocono altrui, riserbato il
vincolare con leggi quegli abusi die agli altri recauo un più o men grave ed
ingiusto nocumento, od una indebita e non lieve molestia : ciocché accordandosi
a riconoscere e concedere ( e vi riflettati bene i capitani e i campioni delle
nuove dottrine) non credon già di aver, per si fatti divisamenti, proposto quel
che veramente sarebbe il meglio; ma, proponendolo, o, a dir piu vero,
confessando d’ essere stati costretti a concederlo, compiangono di non aver
potuto proporre c consigliare che un men male. E tuttavia questo men male non
lo propongono, e non lo accettano, che in modo, per cosi dire, precario, e
finché, con un migliore indirizzo della educazione privala e pubblica, sia
lecito assai più recidere di questa libertà del non buono, senza troppa
resistenza, e per successivi sempre maggiori troncamenti giungere alfine a quel
minimo di libertà lasciata al mal fare, che costituirebbe de’ civili
ordinamenti la vera normalità. Ed ecco ricacciate in gola, io spero, a certi
insipienti banditori del sacro diritto (coni’ essi soglion chiamarlo) d’ esser
padroni delle azioni loro, tante balorde cicalcric di pocosen so, che vanno
eglino ripetendo, e che, se dimostran qual che cosa, dimoslrau solo quanto è
grande la ignoranza di gridatori si fatti in lutto che risguarda la vera
filosofia delle leg; gi e la vera natura dell’ uomo. Io so però con qual
mutamento di linguaggio si sforzeranno essi di riguadagnare terreno, se non di
fronte, almen per fianco. Senza osar troppo di negare, presi cosi alle strette,
che quegli usi della libertà, dai quali un altro, e con piu forte ragione più
altri, o la comunità intera, possono essere più o men notabilmente ed
ingiustamente pregiudicati, debbono dalla legge frenarsi, diranno però, ed in
effetto dicono ( abbassato molto il tuono della voce e della superbia ), che la
forfattura de’ legislatori a cui si chiede emendamento è appunto nel giudizio
del male, operato o da operarsi, il qual conviene, o prevenire perchè si tema,
o punire perchè si risguardi come fatto, e delle condizioni che si stima utile
all’ universale di lasciare in potestà de’governanti lo imporre a’ singoli,
quale un debito comune di violenze fatte o da farsi alia libertà d’ ognuno pel
bene di tutti. Rispetto a che ricusano il più delle norme stabilite dalla
sapienza antica, senza un riguardo eh’ ella sia stata sempre una e costante,
sempre simile a sè fin dalle prime manifestazioni sue, giungendo da gente a
gente al nostro tempo ; e trinceratisi sopra questo terreno, vogliono, coni’
oggi dicesi, guarentite almeno certe principali libertà, o salvati certi
privilegi di libertà, di che fanno enumerazione, secondochè, per un detto di
detto, impararono. E qui non discenderò io a disputar loro ciascun palmo del
nuovo terreno in che s’accampano, questo non essendo per ora il mio proposito.
Non ch’io non voglia, a miglior tempo, a un per uno, espugnare ciascun
de'baluardi ove atlendon battaglia, impotenti, come si sentono, a tener la
campagna aperta. Ben, fermandomi qui sulle generali, poche cose dirò, che
importa stabilire, come opportune premesse a tutte l'altre, quasi
circonvallandoli intorno d’un regolare assedio, per toglier loro qualunque spe
[ È degno d’esser notato che si schiamazza e si pugna per si fatte libertà, e
per questi privilegi sempre ne’ tempi in cui più si vuole abusarne, e da
que’che di abusarne hanno il proposito deliberato. Que’ che non han bisogno
dell’abuso, e che non lo hanno nell’animo e nel desiderio, è chiaro che sarebbe
ridicolo se ciò curassero. Ed altrettanto è a dire de’ secoli in cui rarissimi
sono, o nessuni, gli abusa tori di fatto o d'intenzione. Queste grida allora
non si sa che siano. Si chiede il permesso di quel che si vuol fare, e si
muovono lagnanze di quel che, volendo farlo, non sì pub ; non di quello mai,
che non occupa la mente, e che non ispiace di non poterlo operare a suo grado.]
anza di esteriore sussidio, e di futuro scampo. Dove, se per avventura, io paia
a taluno usare, a dispetto, un troppo superbo linguaggio, valgami a scusa la
salda fede che ho nell’animo, non veramente del prevalere per senno, ma sì
certo dello scendere a combattimento con tale una soprabbondanza di forze, che
il far fronte, negli avversari, più mi sembra presunzione ed insania, che
coraggio e bravura. E prima, prendo, come suol dirsi, atto del concesso, e
dell’ ornai da essi perduto per non poterlo difendere : cioè, che tutte le
declamazioni, le quali fannosi, a destra e a sinistra, suonare sul sacro
diritto della libertà umana, cosi in generale sfrenata, e della intangibilità
di questo diritto ( le quali declamazioni tanto si vanno ripetendo a illusione
e pervertimento degli sciocchi, e col plauso del codazzo lungo anzichenò
de’tristi, i quali approvano e fan coro, perchè l’approvazione è come indiretta
difesa di molte ribalderie loro); tutte queste declamazioni, dico, bisogna
ringhiottirsele, o riservarle a’ crocchi degl’ imburiassali a lor forma, e già
non più ragionanti, nè disputanti, ma credenti, e disposti a contendere solo
co’pugnali e colle contumelie. Per tutti gli altri un punto è vinto, ed una
verità è conquistata: la libertà, per sé medesima, dev’ esser vincolala in
tutti. Questo non ammette più disputa. Or, ciò premesso, io dico poi, che,
nelle azioni le quali necessariamente han, per cosi dire, contatto cogli altri,
e sono usi di libertà che agli altri possono riuscire o molesti o pregiudice
voli, a rendere, non pur possibile, ma solo reciprocamente tollerabile la
consociazione degli uomini, è chiaro che l’interesse comune richiede il
provvedere a tanto, che i conflitti delle coeguali libertà siano evitati il
meglio che esser può, e siano del pari scansate le cagioni, quant’elle sono,
onde, per fatto delle libertà male-usate, si renda sgradevole ed intolleranda
ad altri, pochi o molti, la convivenza. E poiché nessuno è giusto che sia
giudice in causa propria, quando specialmente la causa propria è in contrasto
colla causa degli altri, perchè niuno, negl’ innumerabili e colidiani casi di
si fatti contrasti, vorrebbe aver fede nella giustizia e nella discrezione d’un
che ha interesse a favorire sè stesso (massime considerando, che il momento
medesimo del conflitto, allorché più le passioni sono in presenza, in
accensione, ed in tumulto, dovrebbe esser quello del giudizio ), perciò è
necessario, che ognuno anticipatamente sappia (da terzi ed im parziali, e
parlanti con autorità in guisa da comandare obbedienza ed ottenerla) quel che
può e deve, e quel che non può, nè dee. Di che poi si conclude, che, innanzi al
fatto, egli è della più grande evidenza, bisognare alcune regole prestabilite,
ossiano leggi, per le quali si determini efficacemente il lecito e l'illecito.
Resterà dunque solamente a cercare, da quali, secondo ragion naturale, debbano
queste leggi emettersi, ed in che misura. E la -questione giunta a questo
termine, s’allarga. Perchè, venuto il discorso alle leggi che stabilir denno i
confini e la misura della libertà civile, l’argomento facilmente trapassa alla
non meno astrusa ed importante trattazione del primitivo stabilimento di tutte
l’altre leggi obbligatorie per l’universale, e si di quelle che fermano, o
fermar debbono le originarie condizioni della civile congrega, nelle parti onde
si compone od hassi a comporre l’intera macchina governativa, qual si ha, o
qual si desidera averla, si di quell’altrc, che, a volta a volta, si van
facendo, o si vorrebbero fatte, per nuovi bisogni che si stimano sopravvenuti,
o per correzione d’antichi e nuovi errori, de’ quali credesi avere
accorgimento. Intorno a che una opinione oggi, e da molli anni, a memoria di
noi vec-r chi, cerca di signoreggiare il mondo, secondo la quale, la volontà
egualmente ed il senno di lutti avrebbe in ciò a consultarsi, e a deliberare,
per quella dottrina che troppi pongono a di nostri in cima a ogni altra, e che
chiamano il domala della sovranità del popolo, da cui, come da vecchia sua radice,
sorse già e prese forza l’altro domina del cosi detto patto, o contratto
sociale ; due domini a’ quali dassi appunto per fondamento, come la libertà
originaria e naturale dell’uomo, cosi l ’ eguaglianza primitiva d’uomo con
uomo. Or poiché, rispetto alla prima già vedemmo, quantunque sommariamente,
quel che bassi a pensarne, favelliamo adesso della seconda. Della eguaglianza
in generale, e quanto poco esista essa nella specie utnana. Si pretende, che
gli uomini, per naturale diritto, sian tutti uguali, e, al solito, insegnando
al popolo questa supposta fondamentale verità, que’ che la insegnano si guardan
bene dal dichiararla con più esplicite parole, e dallo spiegare in che senso, a
lor senno, questa eguaglianza può affermarsi, in che senso non lo si può. E il
popolo fa di questa proposizione quel medesimo, che dell’altra, la qual die
e-Gli uomini son lutti liberi - Ambedue le accetta così come gli si danno,
senza limitazione, e se le stampa bene in mente al modo che suonano, per poi
trarne le conseguenze dirette ed estre- i me, che oggi pur troppo ne trae...
conseguenze che la pace del mondo da sessanta anni disturbano ed impediscono.
Io spesso ho domandato a que’ difensori di si fatte stolte teoriche, co'quali è
pur possibile tentare un po’ di ragionamento, qual fondamento dessero (
parlando dell’egualità ) al domma che stabiliscono ; e i più di loro m’hanno
risposto con gran franchezza, che l’eguaglianza è da legge di natura, perchè la
natura ci ha fatti tutti della stessa specie, e della stessa carne; tutti, gli
uni agli altri, fratelli. Ma, quando li ho incalzati, chiedendo, se la natura
facendoci uguali quanto a specie e carne, e con questo dandoci una comune
fraternità, abbia poi col fatto mostrato di averci voluto ad un tempo dare
anche le altre eguaglianze qualitative e quantitative, ossia di modo, e di
grado, che bisognano per costituire l’assoluta eguaglianza naturale, la quale
intende il popolo, non ra’han potuto più rispondere cosa che valga. Almeno
avessero potuto dimostrarmi che queste ultime sono una conseguenza necessaria
di quelle prime! Bisogna compatirli. Essi non potevan fare l’ impossibile. La
natura, certo, non ha voluto farci diversi da quelli che ci ha fatto. Ora è
chiaro, ch’essa ci ha fatto in ogni cosa disuguali. ( E si noti, eh’ io qui uso
il linguaggio de’ moderni filosofanti. Metto da parte la fede, il peccato
d’origine, e le sue conseguenze. Parlo, come oggi usano tanti, della natura
acefala, e separala dalle sue cagioni, come se non le avesse ). Infatti che
vogliamo ricercare? Il fisico, o il morale? Ma, nel fisico, nessuno, per fermo,
avrà l’ ardire d’ affermare, che la natura, fabbricandoci tutti della stessa
carne, e collocandoci nella stessa specie, abbia voluto altro farci che
disugualissimi. Non forse ogni giorno ci schiera essa innanzi i belli ed i
brutti, i dritti ed i bistorti, i contraffatti a ogni forma ed i ben composti
della persona.... i sani e gl’ infermicci, i gagliardi ed i frolli, gli
svegliati ed i pigri o buoni-da-nulla? Non forse tra milioni di visi nessun ce
ne presenta ben simile... ben uguale ad un altro « imprimendo ad ognuno una
fisonomia sua, che è la sua e non d’altrui? Non forse disuguali dà le
complessioni, la fazion generale della persona, le idiosincrasie ? Pur la carne
è una in tulli, e la stessa : la specie è una e comune. Più però l’originaria e
naturale disuguaglianza fassi palese, ove al morale riguardiamo, e si a questo
nella parte intellettiva e discorsiva, si nella memorativa, si nella
immaginativa, nell’ affettiva, nella volitiva, e in quante altre le
sottigliezze de’ filosofi distinguono... Ho io bisogno di dire, che hannovi
nati stupidi, e nati con ogni buona disposizione di memoria, di giudizio, d’
acume... ? Ho io bisogno di ricordare le portentose varietà d’ altezze, di
capacità, d’umori, di tendenze, infinitamente tra loro disparate e distanti ?
Ho io bisogno di avvertire, che GALILEI (si veda), Newton, Eulero, Lagrangia
non nacquero per esser umili ragionieri di lor persona sopra un povero banco di
libri tenuti a scrittura-doppia ; Cesare, Carlo Magno, Napoleone, non erano
modellati alta stampa d'un piccolo caporale di milizie ; i Law non furono mai
del legno di che si formano i Colbert, i Turgot ; Omero non doveva essere
Clierilo, nè Virgilio Bavio..., e tutta la larghezza d’ un oceano doveva
separare Marco Tullio Cicerone da Marco figliuolo, Marco Aurelio Antonino da
Commoilo, Tito da Domiziano... Vaucanson da un costruttore d’organucci di
Barberia... Giovanna d’ Arco dalla mia donna di faccende ? Non favello delle
disposizioni di cuore... delle disposizioni di volontà... del più o meno di
mercurio, di zolfo, di sali, che, fino dal primo impasto, è infuso nelle nostre
crete; e del diverso rombo di vento a che si volge l’ago delle nostre
tramontane. Nel vostro stesso campo, signori maestri del novello mondo,
consultate Gali, Spurzheim, Fossati, Combe. Crederanno leggervi sul cranio,
scritto e significato a grandi rilievi, se siete della pasta dei Tersiti,
de’Paridi, degli Ulissi, de’ Palamedi, o degli Achilli.... E non solo
differenti s’esce di prima stampa dall’utero materno. Altre cagioni
soggiungono, da natura pur sempre, e dal conflitto perpetuo delle sue forze,
per le quali alle inegualità fisiche e morali, cominciate fin dai primordi
nostri, se ne vanno altre aggiungendo finché dura la vita, ed alcune per
effetto della stessa vita. Imperciocché a questo lavorano giornalmente le
infermità, e centinaia di fortuiti accidenti che sopravvengono... le differenze
di climi e del tenor di vita... i nostri spropositi volontari ed involontari...
: senza di che molle cose al vecchio toglie P età, e al fanciullo non le dà
ancora... E l’arte, eh’ essa medesima è da natura, opera forse, e conduce, a
diverso fine? -L’arte è l’educazione, secondo che ce la danno, secondo che ce
la diamo. Or l’educazione, facciasi quel che si vuole, è per l'uomo una nuova
grandissima cagione d’ inegualità, la quale niun potrà mai governare in modo da
impedirle il produrre questo ultimo effetto. E, primo, è una potente cagione
d'inegualità dalla parte degli educatori. Perché come poterli applicare a uno
stesso modo, a una stessa misura, in tutti i luoghi ed a tutti? nelle città e
ne’ villaggi ? nelle campagne e ne’ boschi ? a que’ che vivono raccolti
insieme, e a que’che in solitudine, o grandemente spicciolati e divisi ? Come
trovarli, da per tutto, uguali in eccellenza, per dottrina, per zelo, per
altezza, per l’allre molte qualità che aver denno, o dovrebbero ; o come non
piuttosto contentarsi assai spesso di non trovarne, di non averne, o di averne
de’mediocri, degl'insufficienti, o decessimi? Come, da per tutto, avere o
procacciarsi le stesse facilità secondarie, gli stessi ausiliarii mezzi, senza
di che la bontà degli educatori o fallisce, o men vale? Come non avere
riverberate sugli educati le diversità che provengono dalla diversa natura de’
maestri, de’ metodi, degli aiuti estrinseci? E, per tutti questi motivi, come
non giungere all’effetto ultimo, che, se le differenze predisposte da natura
erano già grandi, più grandi ancora saranno esse fatte, dopoché di necessità in
diversissimo grado e modo l'arti educatrici sarannosi adoperate? Secondo, è
un’altra cagione d’ineguaglianze, dalla parte di coloro che debbono educarsi.
Imperciocché le inegualità già preordinate in ciascuno nell’esser coucetli,
come potranno non avere accrescimento e moltiplicazione, aggiuntevi le
inegualità avventizie, prodotte dall’azion di coloro, che, più o men bene, o
più o men malamente, educheranno? Dove, tra inegualità ed inegualità, sarà pur
talvolta che accadano compensazioni: ma sarà più spesso ancora, che le
inegualità si sommino, e s’alzino a maggior valuta... Terzo, son molte più,
accidentali, cagioni, che necessariamente faranno anche maggiore essa
differenza : come dire, il più o men bene, o male affetto stato di salute, o di
vigore, il più o meno di fortuiti ostacoli, o di fortunate agevolezze
sopraggiuugenti : la nebbia delle passioni viziose che alcuni offuscalo la loro
forza che molti distrae; lo stimolo delle passioni generose che ad altri é
incitamento... cento altri e mille incidenti della vita, che or turbano, or
secondano, e fan mentire in bene o in male ogni anticipato presagio da natura
tratto... Ma v’ è una piu generai considerazione, che vie meglio conferma la
verità del mio detto. Essa ci è somministrala dalla ricerca del fine stesso per
cui la natura ci diede delle arti educatrici il bisogno, l’istinto, ed il seme.
Questo fine evidentemente, e per sua essenza, è, sempre, e ogni giorno più,
disuguagliare, anziché uguagliare. Imperciocché la perfettibilità umana esse
arti han persubbietto sul quale lavorano ; e la perfettibilità è cosa
sterminata. L'arte, cioè l’educazione, perfeziona, che è dire s’ aggiunge alla
natura, acciocché quello che in essa è germe, tallisca, cresca in pianta, e
fruttifichi. Ora il germe è d’ineguaglianze: dunque ineguaglianze
raccoglierannosi dall’ educare, tanto maggiori, quanto l’ educare sarà più
perseverante, e condotto a maggiore eccellenza. In ciò sta il progresso, che è
pure un altro degl’ idoli del nostro tempo : in ciò la civiltà, effetto principale
del progresso, che tanto oggi i nuovi dottori dicono di voler promuovere, non
s’accorgendo, che il suo vero fine è aumentare le differenze tra gli uomini,
non già scemarle. Gara infatti essa è per essenza, e specie di palestra aperta
a tutti, dove arte aiuta natura a far si che ciascuno co’ vantaggi che può e
sa, si gitti innanzi quanto più può e sa meglio, lasciando iudietro il compagno
o i compagni di quanto piu intervallo è possibile, nelle diversità di direzione
che tutti prendono. Cosi arte e natura a un medesimo scopo convengono. Quella
accresce 1’ effetto di questa. La disuguaglianza é data all’uomo per legge; il
disuguagliarsi per istinto, e per bisogno. Voi piu facilmente fabbrichereste
gli uomini della favola di Luciano, usciti dalla granata magica, con metodo di
successive dicotomie, che gli uguali i quali sognale. Arroge, die questa è una
legge non esclusivamente propria della nostra specie. Chi ben considera, trova
ch’è legge data all’intero universo, come norma del suo modo d’essere. Tutto in
esso è varietà e diversità. Tutto è gerarchia. La materia è una nella sua
sostanza, pur l’oro non è argento, nè T argento rame, nè il rame piombo, nè il
piombo arsenico, nè l’arsenico azoto od ossigeno. Vi son dunque caste nella
materia, come nella specie umana ; come nelle specie degli animali domestici
(cavalli, pecore, capre)... V’ è una gerarchia delle stelle tra le stelle,
delle comete tra le comete. V’é il grande ed il piccolo, il luminoso e
l’oscuro, quel che domina e quel eh’ è dominato. Un carbone è cristallizzato ;
è brillante; è la coli-i noor, la montagna della luce, che brillerà sulla
fronte di Vittoria regina d’ Inghilterra ; un altro carbone non è buono che a
scaldare la pentola della massaia. Lo stesso grano, dice il più santo de’libri,
è trasportato dalla piena del torrente nel mare, e vi perisce ; dal vento tra
le sabbie, e non vi nasce ; dall’agricoltore nel campo, e, secondo le
condizioni diverse del terreno e de’ succhi, v’ intristisce c non viene a
spiga, traligna ed è ucciso dalla golpe... prolifica ed è ricchezza della messe
e del granaio. Evidentemente queste diversità di sorte furono, sin dalla prima
origine, ne’ disegni del Creatore, nelle necessità imposte al creato... Quanto
agli uomini, ciò non è solo un fatto cieco ed improvvido : è una manifestazione
splendente della sapienza del divino architetto. La vita normale della civil
congrega ha bisoguo di simiglianti radicali disuguaglianze. È forza che v’
abbia chi non si sdegni d’ esser destinalo ad metalla, alla coltivazione
laboriosa delle terre, alle meccaniche fatiche dell’incudine, della sega, della
pialla... Come è forza che v’abbiano altri ad altro buoni, ed a meglio, secondo
tutta la varietà degli uffici e de’ servigi che se ne aspettano. Fede c
filosofia s’ accordan poscia a proporci, affinchè nissuno si lagni, il sistema
delle compensazioni in una seconda vita. Or, se tanto è innegabilmente vero,
come s’ osa insegnare al popolo l’opposto di queste dottrine? Come s’abusa
della sua irriflessione naturale e della sua ignoranza per falsificargli sino a
questo segno il giudizio? Come s’ardisce predicargli ogni giorno il domina
supposto delVeguaglianza, o non fiancheggiandolo con ragioni, o rendendolo
credibile con miserabili ragioni di fratellanza universale, d’identità d’origine,
o simile? (1)-E v’ha chi chiama perfino a complicità dell’inganno la religione,
come se vi credesse! V’ha chi usa come argomento: Siamo lutti figli d’Adamo;
lutti ugualmente redenti sulla croce; tutti ugualmente fratelli in Cristo! -
Fratelli si certo ; c figliuoli lutti della prima umana coppia, e della seconda
per Noè il diluviano; ed ugualmente ricomperati col prezzo di sangue sul
Golgota: ma non perciò uguali; come uguali non erano, ancorché fratelli, più
ancora stretti tra toro che non un uomo a un altr’ uomo, Caino e Abele ; come
uguali non erano tra loro, ancorché fratelli, Isacco ed Ismaele, Giacobbe ed
Esaù, Giuseppe e Beniamino, e gli altri figliuoli di Giacobbe... Fratelli, e
perciò tenuti a reciprocamente amarci, ad assisterci, a giovarci; ma non a
modellarci ognuno sull’altro, ma non a metterci tutti a uno stesso livello, ma
non a interdirci ogDuno i vantaggi delle nostre individualità, o a pretender di
divider cogli altri gli svantaggi. L’ autorità della religione, della quale s’
abusa, non ha mai consacrato queste massime, o, per dir meglio, ha consacrato
sempre le massime contrarie. Io dimentico però, che hannovi, a di nostri,
cristiani a’ quali par bello servirsi del vangelo per falsificarlo, e spurii
cattolici, i quali s’argomentano d’ insegnare caltolicliesimo alla Chiesa, e
teologia alla teologia! (1) É facile intendere, se non il come, almeno il
perchè. Si cercano nel volgo, e nel minuto popolo complici, ed uomini di
braccio per l'opera di distruzione ebe si medita; e l’adescarli con si fatti
miserabili e detestabili inganni par utile, se non bello. Se non che intendo
bene quel che vorrassi rispondermi. Sorgeranno d’ ogni parte di coloro, che
vorranno dirmi, nissuno esser si stupido da pretender di negare il fatto
visibile e palpabile delle ineguaglianze di natura e d’arte, che son tra gli
uomini, troppe delle quali non possono non essere in un grado maggiore o
minore, si nel morale, che nel fìsico. Solo chiedersi oggi quell' eguaglianza,
che spetta agli uomini, in quanto congregati in società; e questa esser
Veguaglianza che chiamasi civile, cioè de’ fondamentali diritti della vita di
cittadino; e pretendersi essa come dovuta per legge eterna di naturale
giustizia. E avvegnaché, ristretta la proposizione entro si fatti più precisi e
più angusti termini, non è poi si chiaro il comando della legge di giustizia la
qual si cita, e resta sempre a superarsi la difficoltà del concepire come e
perché abbia a credersi di misurar giustamente, applicando a tanti fra loro
disuguali una misura uguale per tutti, fan prova d’ avviluppare sé e gli altri
in un tessuto di ragionamenti, che è pregio dell’ opera l’ esaminare-
Esaminiamoli dunque, c cerchiamo di far conoscere quanto essi hanno poco del
solido, e quanto facilmente s’abbattono, e si riducono a nulla. Dell'
eguaglianza nel civile consorzio e su quali falsi fondameli ti si pretenda
stabilirla. Si vuole l ' Eguaglianza civile, cioè l’eguaglianza ne’
fondamentali diritti della vita di cittadino! E per che buona ragione
?-Rispondono i pili barbassori: « non veramente per « che siavi tra gli uomini
l’eguaglianza primitiva di natura, « o perché possa l’arte giungere a
distrugger mai le diffe« renze che natura ha in noi largamente seminate nel
tisico « e nel morale j ma perchè, tra tante che mancano, un’e« guaglianza
primordiale è pur veramente in tutti, ed è « T eguaglianza di condizione
primitiva, quando la vita civile « ha per noi, secondo ragione, normale
coininciamento. » E, a meglio spiegare il concetto loro, cosi ragionano,
tornando un tratto a considerazioni relative alla libertà « Sia quel che si
voglia de’ limiti che la legge eterna ha se« gnato al libero arbitrio
d’ogn'uno, e della natura obbli« gatoria de’ precetti ch’essa legge dà a tutti
; se potente« mente c’invila essa ad unirci in civil convivenza, non, « per
fermo, l’invito è coattivo (posto che niuu pretende « esserci disdetto il
segregarci per vivere in solitudine, « quando ciò ne piaccia) ; e molto meno è
obbligatorio a un « dato modo d’associazione (posto che niun pretende esser« ci
da ragione naturale vietato il torci all’ associazione, in « che, per esempio,
ci troviamo inclusi dal nascere, per « entrare, a nostro libito, in un'altra la
quale consenta « di riceverci). Dunque l’entrare, o il restare, in una data «
civil congrega, è, per sé, atto di libertà, rispetto al qua le noi conserviamo
intero l’arbitrio. Ma lo stesso ragio— « namento può ugualmente applicarsi ad
ogni uomo. Dun« que tutti gli uomini, debbono, in ciò, riguardarsi d* lift guai
condizione : lutti almeno coloro, a togliere qui ogni « soGstcria, che hanno
sufficiente normalità coni’ uomini, « quanto alle facoltà naturali (salvo il
diverso grado in che « le posseggono), per non dare evidente motivo d’ esser
te« nuli come non liberi. Ma concessa l’esistenza d’almen « questa eguaglianza,
non v’è poi ragione perche da detta « eguaglianza non si derivi un’altra
eguaglianza, e vuoisi « dir quella per che, ne’ rapporti generali di cittadino
a cil« ladino, e da cittadino a tutta la congrega, pesi c benefi« zi, cioè
doveri e diritti sian parificati. Dunque sì fatta pali rificazione, che è
l’eguaglianza la quale aveva a dimo« strarsi essere di diritto naturale, lo è
realmente. » Dal qual tenore di discorso è poscia uscita, nel passato secolo,
tutta la dottrina del palio sociale, c (connessa con quella) l’altra dottrina,
secondo la quale il popolo, cioè la somma di tutti i concorrenti a civil
consorzio, nell’atto del concorrervi, c dopo esservi concorsi, ha in sè la vera
sovranità e supremazia, per tal guisa, che ognuno ne possiede la sua coeguale
parte: ciocché costituisce poi quella che si chiama la sovranità popolare, o la
democrazia risguardata come il solo governo naturale e legittimo. Donde molte
conseguenze scaturiscono, c principalmente questa « Che gli entrati, « od i
liberamente restati in una civil convivenza, se dispnee nendo di sè, come
sovrani che ne sono, tutti con egual « volontà e potestà si spogliano o si
spogliarono pacificale mente d’una parte della sovranità di sè stessi, per
formale re di queste parti riunite l’altra sovranità posta fuori, e ee
depositata in mani terze, alla quale, in essa convivenza, ee liberamente si
sottoposero, non però a questa seconda so« vranità non si serban sempre
superiori. Nè, in quanto è « artificiale, e procedente dal loro libero arbitrio,
da cui « trae tutto il suo valore su ciascuno, può questa sovranità fattizia
distruggere la supremazia delle volontà da « cui supponsi derivala. E perciò,
quantunque soprastante « per patto, essa è nondimeno in realtà soggetta, e
dalla « stessa volontà onde procede può quindi essere rivocata e « distrutta ».
Le quali teoriche con tanto animo i nuovi maestri le difendono, che, non
potendo non accorgersi, ciò, nel fatto, non esser mai, perchè, storicamente
parlando, l’asserito patto sociale, mai, o quasi mai, non in terviene, ancorché
per diritto dovrebbe, a lor sentenza, intervenire « ciò dicono provar solo la
spuria origine delle « civili congreghe in che, per tal guisa, si è inclusi.
Don« de è poi, che il pacifico e precario restarvi, il qual fac« damo, non può,
a lor detto, chiamarsi nemmeno un « tacito consentimento. Imperciocché secondo
il proverbio, « chi non parla non dice niente. Ed, essendo che ogni go« verno é
intanto una forza di fatto alla quale difficilmente « si può resistere, cosi il
non dir niente esso medesimo è, « conchiudon essi, una necessità imposta,
piuttosto che « volontaria. Il perchè, ora massimamente che i popoli co«
minciarono a parlare, il diritto, il quale non poteva essere abrogato, o
soppresso, risorge, dicon essi, con tanto « più vigore, e legittimamente
pronunzia illegittimi quc’civili consorzi, e sentenzia rivendicata e ripigliata
da tutti quella sovranità di sé, che natura diè loro, per esercitar« la
congiuntamente, dove ciò aggradi, nella formazione « di consorzi nuovi e di
nuovi governi, a tal forma, e con tali leggi, che il libero ed effettivo
consentimento prece« da consorzio e governi, e li accompagni, o, cessando, «
cessi l’autorità di questi, c sia come se non fosse. Donde « tornan di nuovo
alla tesi, che la democmzia è nel diritto x di natura, in quanto almeno poter
supremo, cioè alto ed « indeclinabile potere, che sovrasta ad ogni maniera di
governo, la quale il libero consenso degli uomini abbia stabilito, o sia per
istabilire ; e che tutte le altre maniere di « governo, anche consentite, sono
artificiali e transitorie, mentre quell’ una, o esista o no in alto, è
permanente ed « imprescrittibile. Cosi presso a poco ragionano, quanto a tutto
cotesto domma dell'eguaglianza, e a’ corollarii che ne traggono, i più logici
tra costoro, e nondimeno ragionano pessimamente e con una molto povera logica.
Perchè, in tutta l’esposta tela di raziocinii, s’afferma, più che si provi,
quella supposta egualità di condizion primordiale, che, o realmente, 0 per una
finzione giuridica, precede, o debbe precedere, l’ingresso consentito d’ognuno
nella civil convivenza, e che è data come fondamento di tutta l’eguaglianza
civile intorno alla quale si disputa. In questa vece facilissimo è dimostrare
che il fondamento, assunto per postulato non ha sussistenza alcuna.
Imperciocché sia pur dato e non concesso a’cosi ragionanti d'assumer l’uomo nel
momento d’entrare con perfetta libertà di sè in una associazione nuova, 1 cui
patti abbiano allora allora da stringersi, e, come molti oggi dicono, da
formularsi (ciocché, nel fatto, non è mai) ; certo, anche in questa immaginaria
ipotesi, di che direm poi quel che è a dirne, falsissima cosa è, che, nella
turba de’ concorrenti a costituire la nuova congrega, ciascuna arrechi, non una
quale che siasi equipollenza, od eguaglianza di requisiti, ma quella
equipollenza od eguaglianza che sarebbe necessaria per venire alla conclusione
a cui vuol venirsi. L’equipoHenza o l’eguaglianza che v’è, è quella delle
individuali libertà degli ancora sciolti, ossia è l’eguaglianza nella
autocrazia, o nella signoria di sè, che ciascuno, per ipotesi, conserva ancora,
e in virtù delia quale, come padrone della propria individualità, concorre e
consente per la sua parte alla formazione d’ un sociale consorzio. Ma da che si
viene all’inventario ed alla ricogniti) E tuttavia del rigore di questa stessa
speciale uguaglianza potrebbe disputarsi, cercando deulro quali termini, e
sotto quali condizioni ogni uomo è sui juris nel fatto. Ma il cercarlo sarebbe
un'iucidentu questione, la quale ci porterebbe troppo lungi.] zione de’
capitali e de’ requisiti che ciascuno con sè reca ad associazione,
l’equipollenza o l’eguaglianza subito cessa, e cominciano le disuguaglianze...
tutte quelle disuguaglianze, che noveravamo nel precedente articolo, e che non
possono non essere messe in conto rispetto al reciproco interesse degli
stipolanti, c a quanto esso comanda. Imperciocché sia pure un contratto quel
che trattasi di formare, e sia pure in libertà d’ognuno il preordinarne gli
articoli a suo proprio grado, o il ricusare la stipolazione. Ma si abbia in
memoria, che qui si domanda al postutto, a stipolazione da farsi, non quello
che ognuno, con un pensiero egoista di superbia, d’invidia, e di gelosia, non
volendo esser da meno degli altri, pretende a perfetta parità cogli altri, per
prezzo d’adesione, o sia o no interesse degli altri il concederlo ; ma quello
che gli eterni principii di ragione c di giustizia in questo proposito
consigliano ed ordinano. Perchè, insomma, bisogna ricordare quel che dicevamo
nel nostro primo articolo. Non è il libero arbitrio puro e semplice la norma
direttrice degli atti umani, e non esso è l’autocrate, oil sovrano legittimo;
nè alcuno ci venga a dire, secondo filosofìa, stai prò ralione voluntas. Il
vero e legittimo sovrano è il Xòyos", e il Xòyos, cioè la ragione, non di
tale o tale altro individuo, ma si l’universale ; quello che è la espressione
del senno raccolto dalle ragioni più squisite di tutte l’età e di tutti i
luoghi. Rispetto a’ cui precetti non si può nemmen dire che nel caso nostro
siavi oscurità, o incertezza, chiari essendo e non contrastati i principii
generali regolatori de’ contratti di società, non secondo tale o bile altra
legge scritta, ma secondo il naturale diritto. Insegna esso, che se un individuo
contribuisce al bene della società men clic altri, non può pretendere d’essere
accettato alla stessa dose di beneficii che gli altri., i quali contribuiscon
più. Nè se, quanto aU’amministrazione della società intera, sono in essa e
capaci ed incapaci, è giusto che gl’ incapaci pretendano il diritto dell'avere
altra parte che indirettissima nella direzione e nel governo degl’interessi
sociali. Di che l’applicazione al caso nostro non ha bisoguo d’altre parole. E
tuttavia l’ altre parole, che qualcun chiede a maggiore schiarimento saran
dette a suo luogo. Qui basti per ora t’avere indicato in che giace la falsità
del ragionamento su cui la pretensione all’eguaglianza civile si vuol fondata ;
e- basti chiudere il discorso facendo riflettere, che, dopo le cose dette,
resta almeno a tutto carico ornai de’difensori di cotesta domandata eguaglianza
il provare, che realmente, nell’ ipotesi del libero convenire degli uomini a
costituire una nuova civil convivenza, tutti arrechino in contributo, non una
parziale ed apparente, ma una totale e conveniente egualità di condizione
primordiale, e nè più, nè meno di quella che il caso nostro richiederebbe a
rigore di legge. Ma è una seconda parte, che non vuol esser passata sotto
silenzio. Questa è l’esame di quel che si vuol dare per conchiuso ed accettalo
; cioè che gli umani consorzi, come sono fin qui stali c sono, abbian da
considerarsi tutti appunto per illegittimi, e spurii, perchè non consentiti
normalmente da ciascuno nel popolo, ed anomali, e non formali secondo quelle
che sole si giudicano essere le regole veramente razionali, destinate da natura
a presiedere al nuovo patto sociale, e a servire a stabilirlo. Intorno a che
veggiamo un po’ quanto, ugualmente, e con quanto pericolo, vanno errati coloro
i quali cosi predicano, e cosi s’ostinano a pervertire il piceol senno delle
turbe. • Sta bene mettersi in capo di sovvertire tutto ciò che è stato, ed è,
in fatto di civili convivenze, e volere sconvolgere da cima a fondo lutti gli
stati, perchè vi sono alcuni (e sian pur molti ), che gridano che, negli stati,
cosi come sono, la distribuzione de’diritti civili non è esatta ! Sta meglio
che questi medesimi, i quali cosi propongonsi di turbare violentemente la pace
del mondo, giurino di non voler cessare la guerra da essi intimata, e già
flagrante dal lato loro, contro alle congreghe umane oggi esistenti, e di non
posare le armi, e di non finire le cospirazioni, finché non solo a una riforma
in ciò siasi giunti, ma quel, che è più, finché uon siasi pervenuti alla maniera
di riforma, la quale, a lor senno, è la sola giusta ! Peccato che vi siano
certe difficoltà teoriche e pratiche, le quali combattono questo bene e questo
meglio... £ so che delle difficoltà oggi non s’usa occuparsi dai proseliti
delle nuove scuole. Chiamali vigliaccheria, strettezza di spirilo
l'occuparsene. Chiamano oscurantismo il proporle. Chiamano forfattura il dirle
al popolo. Noi, che non siamo proseliti di quelle scuole, diciamone alcuna
cosa. Non saremo da essi ascoltati. Non mancheranno tuttavia gli ascoltatori in
tempi piu tranquilli, se non oggi. Questa è almeno la nostra fiducia.
Considerazioni contro al preteso diritto di rinnovare le società umane per
accomodarle alle proprie idee preconcette, e contro alle tentale riduzioni ad
allo di questo diritto. « Il mondo'( vuoisi dirci ) ha bisogno di riforma, e di
« quella riforma che noi da lungo tempo andiamo indican« do : e, poiché n’ha
bisogno, non resteremo colle mani in « mano. - Giovandoci d’ogni mezzo, tanto
faremo, finché « avrem pur conseguito quel che ci siamo proposto. » Quante
proposizioni incluse nelle precedenti parole, ognuna delle quali proposizioni,
in argomento si grave, richiederebbe un libro a parte per trattarla come si
conviene, e per porre ben in chiaro quel che debba pensarsene! « Il mondo ha
bisogno di riforma. - La riforma che bisogna è quella che le scuole
democratiche oggi insegnano, e non altra. Questa maniera di riforma si ha
diritto di cercare immediatamente il tradurla ad atto, senza lasciarsi
trattenere da quale si voglia opposta secondaria ragione. - Tutti i mezzi son
buoni e leciti, se a sì fatto fine paian conducenti. » - Ecco quel che vale il
discorso con che abbiamo incominciato questo articolo! Non tutte, per vero, le
dette proposizioni s’ osa dirle da tutti : ma tutte son professate con cieca ed
ostinata fede. Professarle, in questo caso, è metterle in pratica, perchè la
loro natura c tendenza è pratica più ancora che teorica. Due fini si hanno. Uno
è terribile. Da maniaci e per maniaci ; impossibile, grazie al cielo, a
conseguirsi interamente, ma purtroppo tale, che il camminare verso esso è
impresa feconda de’ piu gran mali che melile umana possa immaginare. L’altro è
un castello in aria verso il quale non è pallon volante che possa condurre,
perchè tutti i palloni son condannali a precipitare prima di giungervi:
castello senza base, altra che di nuvole; castello posto nella regione de’
turbini, e del fulmine; dove niuno durerebbe tranquillo, e senza perirvi alla
lunga, corps el biens. Il primo è mettere a soqquadro ogni cosa : città, terre,
castelli, e ville, per distruggervi gli ordini stabiliti, e, se bisogna, tutti
che s’oppongono alla distruzione. Il secondo è dare alla specie umana un altro
ordinamento: ordinamento repubblicano; ordinamento di pura democrazia,
interpretata e stabilita nel senso il più largo. Se ne spera per gli uomini
d’un altro secolo (certo, non pe’vivenli oggidi, e, men che per tutti, pèr
quegli stessi che ciò tentano ) quasi l’inaugurazione d’un’ era nuova tra gli
uomini, era di felicità, di ragione, e di giustizia! Cerchiam di mostrare
quanto questa speranza è vana, temeraria, fallace, e quanto questa impresa è
colpevole, sottoponendo ad una ad una, ma brevemente, ciascuna delle
proposizioni a critico esame. 1. Il mondo ( morale ) ha bisogno di riforma ? -
Eh si. Ma la perfezione, in ogni cosa umana, è un punto di mira piuttosto che
una meta. Vi si guarda, ma non si pretende arrivarvi. Vi si guarda per prendere
la direzione, e per accorgersi se si sbaglia nell'andare, come si guarda alla stella
cinosura dal navigante, non che il guardarvi significhi speranza di
raggiungerla. E bello è accorgersi di quel che merita riforma. Per gran
disgrazia - judicium difficile, experitnenlum periculosum - Si prendono spesso
de’ be’ granchi a secco, in questo mare, piu che in altro, e con più danno. E
conosciuto il bisogno vero di riforma, bello è spesso il tentare di operarla.
Spesso, ma non sempre. Perchè vi sono in medicina certe malattie, che a volerle
curare si fa peggio ; e ciò nel morale, come nel fisico. Perciò un medico
savio, prima cerca di ben conoscere la malattia, e di non ingannarsi nel
giudicarla ( cosa, come testé notavamo, non facile ). Poi cerca se si pnò
medicare. Se si può intraprenderne la cura subito. Se non giova invece
differire il rimedio, e far vero il dinotando restiluit rem. Od ancora se a
tutto non è preferibile il rassegnarsi per non isdegnare il mafe ed
intristirlo. E il medico savio al cito preferisce il tufo; e, salvo pochi casi
estremi, e disperati, che scusano le più grandi temerità, non mai dimentica lo
jucunde d’Asclepiade. Gli stati sono grandi corpi, ne’ quali un'intera sanità è
impossibile. E guai se tutti pretendono di tastar loro il polso, e di trattarli
alla risoluta con ferro e con fuoco, alla Browniana, od alla Rasoriana, dandosi
patente di dottori senza diploma. Turba medicorum occidit Caesarem, e Cesari,
in subiecta materia siamo tutti. Figuriamoci poi quel che dev’essere, quando i
medici non sono che empirici. . ! Quel che è peggio, nel caso nostro que’ che
si gittano innanzi a tastare il polso, non sono nemmeno empirici; perchè
empirici sono quelli che se non han teorica, almeno han pratica : e che pratica
possono avere di cose amministrative e politiche tutti cotesti innanzi tempo
usciti, o piuttosto scappati, di scuola, a’ quali l’età troppo giovanile e il
non essere mai stati in faccende nega ogni esperienza? La riforma che bisogna è
quella che le scuole democratiche oggi insegnano, e non altra? Stimo la
franchezza colla quale in piazza questo è spaccialo come assioma, che non
importa dimostrare. V'ha egli in ciò buonafede? Quando lutti coloro ette
studiano a queste cose fossero d’ un medesimo avviso, potrebbe ben dirsi a chi
non lo sa : Ecco la verità in poche parole. Le prove sono inutili. Si tratta di
quel che è consentito generalmente. Ma qui la dottrina che si va spargendo è
contro a ciò che i più grandi Statisti e Politici sempre ed uniformemente
insegnarono. Trova oggi stesso una forte opposizione nelle scuole e fuori delle
scuole, presso il più gran numero di coloro che a queste materie han volto
l’animo preparato da forti studi. Noi medesimistiam per provare, che è dottrina
palpabilmente falsa; e lo proveremo, se al eie! piace.E si tratta d’ana
dottrina che minaccia grandi interessi stabiliti, dottrina gravida di
sconvolgimenti e di rovine .... forse e senza forse di stragi : e affermo anzi
senza forse, perché quei che la professano, stragi senza reticenza minacciano a
ogni terza lor parola. Con che coraggio dunque persi fatto modo s’inganna il
povero popolo invasandolo a questa guisa di supposte certezze, che non sono che
grossolani e pericolosissimi errori, atti a scaldare le sue passioni le più
accensibili, le più feraci di mali quando sono accese ; o che, per Io meno, son
dottrine in nessun modo dimostrate? 3 La riforma, la cui necessità si v#
predicando con parole, si ha diritto di cercar di tradurla immediatamente ad
atto senza lasciarsi trattenere da qualunque ostacolo d’opposta ragione? Ciò è
ben qualche cosa di peggio. Tal diritto in una proposizione incerta,
combattuta, negata da troppi ed autorevolissimi I Bella legislazione iu materia
di diritti ! Ciò è il diritto in causa grandemente controversa ( e non tornerò
ad aggiungere, nella quale non è difficile dimostrare che si ha torto marcio )
di sentenziare, non solo, in proprio favore, sommando in sé le parti di
contendente e di giudice; ma eziandio quello d'eseguir subito la sentenza che
si è pronunziata dando a sé ragione ! S’ardisce dire : « Se gli altri negano la
« certezza della opinione nostra, noi ne siam persuasi, e « non possiamo
permetterci di dubitarne, ed operiamo co« me persuasi e non dubitanti ». - Ma
gli altri che negano, negano perchè, con più persuasione ancora, od almanco con
pari fermezza di persuasione, hanno una certezza in senso contrario. V’è
dunque, per lo meno, lotta teorica e coeguale di certezze contro a certezze,
delle quali nessuna, cosi di leggieri, cede alla sua contraria (1). Or perchè,
e (1) Io indebolisco l' argomento . e mi lo torlo. Gli altri che uegano hanno
per qual ragione, la certezza vostra dee prevalere alla nostra, e non la nostra
alla vostra? Per la ragion della forza, o per la forza della ragione ? Se per
la forza «Iella ragione ; dunque ragionate, e vincete ragionando, cioè
persuadendo, ciocché solo è vincere in fatto di ragionamenti. Ma > finché
ragionando non avrete vinto, e non avrete guadagnato quella generai convinzione
degli intelletti, nella quale sola può consistere la vittoria, confessate
almeno ch’ei v'é la sola certezza del non v’ esser certezza, e ciò colla
solenne forinola, Nonliquei; e lasciate le cose, nel generale, come stanno,
finché alla certezza clic si cerca non siasi veramente giunti. Se poi la
certezza vostra volete che alla nostra prevalga per Tunica ragione della forza,
abbiate almeno il pudore di non parlar più di ragione. . . abbiate almeno il
pudore di non parlar più d'eguaglianza civile de’ difilli- Voi rinegate
quest'ultima col vostro fatto medesimo, mentre la difendete col detto, e mentre
pugnate ( solete dice) per conquistarla ad universale vantaggio. Voi la
rinegate, perchè vi fate superiori, e prevalenti, per forza, a lutti coloro che
credono e vogliono il contrario di quel che voi credete e volete. Voi la
rinegate, perchè, prima di contar quanti siete, senza legittimamente poter sapere
ancora se siete la pluralità, o il minor numero, vi tenete padroni di venire ai
fatti, e di combattere contro ai dissenzienti da voi, pochi o molti che siano,
sforzandovi di tirarli a voi men colle ragioni, che ado perandovi le
cospirazioni, e a vostro libilo le armi, cioè la una certezza ben altrimenti
salila die la vostra. La vostra è ertezza di partilo, o di setta : quella degli
altri è certezza fondata sul senso colmine, cioè sul credere presso a poco
universale degli uomini di lutti i luoghi, e di tutti i tempi; di quelli che si
son sempre giudicati i più sapienti, ed i migliori ; degl’ interi popoli, i
quali tra gli altri ebbero la riputazione di più savi, e che meglio
prosperarono finché a questa certezza furono fedeli nella direzione della loro
azienda politica. Si può egli dunque istituir confronto giusto fra la vostra
certezza, e la certezza degli altri ? Chi non ha il senno velato da passione
risponda e giudichi.]frode eia violenza. Voi rinegate, perché non vi vergognale
di dire, clic, se anche una maggiorità evidente e contata, dissentisse in modo
esplicito da voi, voi minorità non più dubbia, pur seguitereste la guerra per
vincere, cioè per fare che il numero minore soperchiasse il maggiore, e per
conseguente acciocché voi che costituireste il primo dei due numeri aveste a
valere ciascuno più che ciascuno degli altri, costituenti il secondo numero.
Voi finalmente la rinegate, perchè, divenuti ancora maggiorità manifesta, nel
voler tradurre ad alto la opinion vostra, se voleste esser ben d’accordo colla
dottrina vostra d’ universale eguaglianza ne’diritli civili, dovreste concedere
che il vostro solo diritto non potrebbe esser che quello di formare un
consorzio civile del modo che a voi piace con coloro che con voi concordano,
lasciando a’ discordi di formare un altro consorzio a lor gusto, ma non di
sforzare le volontà de’ discordi a soggiacervi ; non di comandare ad essi, e di
disporre delle lor cose : ciocché è misconoscere il loro diritto,
individualmente pari a quello di ciUscun di voi ciocché è dare alla forza il
diritto supremo d’annullare l’eguaglianza ciocché é confiscare in ognuno
de’dissidenti I’ autocrazia di sé e delle sue cose, e ciò a profitto d' una
sovranità vostra su voi e sugli altri.E so che risponderete. I dissidenti, che
riescon mi— « nori di forza e di numero, sgombrino il suolo, e se ne va« dano
altrove; o se voglion rimaner tra noi, s’assoggettino « colle persone e colle
cose loro. » — Ma qual è il principio di ragione, col quale giustificate questa
vostra massima di governo ? Un patto reciproco di cosi fare, tra maggiorità e
minorità ? No : perché questa massima non può esser parie d’ un patto, che non
é fatto né consentito ancora, e per conseguenza che non esiste altrove che nel
paese delle vostre speranze e de’ vostri desiderii ; donde poi si deduce, che
non è obbligatoria per que’ che ai patto da voi proposto non si son fatti
spontaneamente ligi, e che, come uguali a voi, sono perfettamente indipendenti
da voi. O volete insegnarci, che così dev’ essere per un diritto realmente
superiore ed anteriore a quello dell’ eguaglianza... per un diritto antecedente
ad ogni patto... diritto naturale... diritto che attinge la virtù efficace e la
sanzione dal fatto, in quanto è fatto; e dal fatto, in virtù di clic i più
numerosi, i più forti, i più destri est in fatis, che faccian sempre la legge
alle minorità di numero, di destrezza, di forza? Guardatevi dall’insegnarlo.
Quei che saran per avventura disposti a concederlo, potran per virtù di logica
dedurne ben altro da quello che voi ne deducete. Siccome numero maggiore,
violenza, destrezza non sono lo stesso che ragione ; siccome sovranità di
numero, di violenza, di destrezza non è lo stesso che sovranità di ragione ;
siccome, secondo la ipotesi assunta, numero maggiore, violenza, destrezza non
han bisogno di consentimenti e di patti per comandare ; siccome l’essenza di
questa virtù di comando è di misconoscere il principio dell'autocrazia
nell'uomo, e quanti» a sè, e quanto alle sue cose, e d’assoggettarlo, per cosi
dire a posteriori, ad una forza che gli viene dal di fuori, trasformando il
fatto in diritto ( c sia poi, nella pratica, questa forza, quella d’una
maggiorità, d’una minorità scaltra, o d’un solo ) : cosi, ammessa una volta si
fatta dottrina, s’accorgeranno ch’ella assorbe ed annichila tutte le altre.
S’accorgeranno, che non vi sono più, con essa, nè uguaglianze, uè autocrazie di
persona, nè patti che tengano. Sentenzieranno che la forza, razionale od
irrazionale, è l’unica padrona... la tiranna degli uomini : la forza che ha la
ragione di sè in sè, o piuttosto in nessun luogo, ma che non ne ha bisogno. E
sarà con ciò giustificato non solo il vostro fatto, ma quello d’ogni despota
felice, d’ogni governo forte, qualunque siane la natura, l’origine, e la forma
; o sarà dispensato almeno dalla necessità di giustificarsi, perchè sarà
annullata la giustizia. E voi che avrete messa in onore questa terribile
massima, n’ avrete guadagnato al postutto di metter in onore un principio, che
potrà esservi ritorto contro da ogni fortunato avversario; e ridurrà tutto il
diritto pubblico al diritto d’una guerra perpetua tra gli uodiìdì ; senza mai
speranza di concordia o di pace. Nè ho qui toccato l’altro punto della
proposizione la quale esamino, contenuto nella seconda parte di essa proposizione,
dove si dice dai nuovi riformatori del mondo, eh’ essi non son disposti a
lasciar di cominciare o di seguitare l’ opera per qualunque ostacolo d' opposta
secondaria cagione: ciocché, mi si perdoni d’ esser costretto a risponderlo, è
favellar da mentecatti. Imperocché i soli insensati dancominciamentoalle
imprese, e s’ostinano a continuarle, senza punto attendere alle circostanze,
alle opportunità, agl’ impedimenti. Povera gente! Questo lo chiamano bravura!
la bravura di Storlidano nella Gerusalemme liberata. È un amor idolatra della
propria opinione, la quale ha toccato i termini della infatuazione e della
mania. Per essi è vero Audaces fortuna juvat; non è vero — La fine de’ temerari
e degl’improvvidi è fiaccarsi il collo. Come tra tutti gl’ innamorati, le
difficoltà non servono ad essi ebe a far crescere in loro le furie cieche del1’
amore. Caloandri fedeli, andranno per montagne e per valli, colla lancia sempre
in resta, contro a rupi e burroni, se non basti contro ad uomini, e contro a
giganti. La previdenza la chiamano codardia, tiepidità, sacrilegio. Sacrilegio,
perchè questo amore è per loro una religione ( perdonino la parola le orecchie
pie). Son sacerdoti dell’ idea, della quale si son fatti un idolo interiore ; e
purché l’ idolo sopravvinca, muoiano tutti, e la patria stessa perisca. E sorga
un'altra patria, se lo può, e sia rifatto il mondo a pieno lor grado... o sia
disfatto!!! — Aspetto, intanto, che mi si provi, gl’innamorati ed i fanatici
esser mai stati, o poter essere uomini atti ad amministrare le cose umane,
private o pubbliche. Governali essi male sé medesimi : può immaginarsi come
governerebbero gli altri ! — Gran miseria de’ nostri giorni, il dover perdere
il tempo a confutare monomanie si mostruose! Il meglio che si possa fare sul loro
proposito è non dirne altro. Qualunque mezzo dee tenersi per buono e lecito, se
al fine conduca della universale Riforma che vuol ten~ (arsir — Egregiamente,
come il resto! L’assassinio... perchè no? Questo s’ usa. Questo non radamente è
necessario. Ha spesso una efficacia molto sbrigativa ed unica. Dunque è bene. E
se è bene I’ assassinio... un pugnale dietro le spalle... un assalto a
tradimento... un’aggressione di quindici armati cantra uno disarmato, perché
non il veleno? perchè non l’ incendio ? perchè non la calunnia ? perchè non »
libelli infa manti? perchè non le falsificazioni di carattere? perchè non il
furto, o la rapina? #alum ad bonum ErgobonumH! E ciò sarà chiamato riformare in
meglio il mondo ! Togliete a! popolo ogni sentimento religioso. La religione,
eh’ esso ha, favorisce i tiranni. Toltagli questa religione, il volgo sarà
materialista ed ateo... M’inganno. Alzerà altari Deo ignoto, come già in Atene
; ma ad un Dio, che non ha fulmini per punire, non ha che indulgenze per
chiuder gli occhi sui male che fanuo gli uomini ; e gli uomini faranno il male
allegramente, e con piena sicurtà di sé. Ma per (sradicare nel popolo la fede
nel Dio de’ Cristiani, nel Dio che lo ajutò ad esser buono colle sue speranze,
co’ suoi spaventi, volete adoperar le scaltrezze d’una filosofia sofistica e
trascendente? Esso non la capirebbe, non la gusterebbe. Meglio vale creargli il
bisogno di non crederla. Si renda vizioso, e tanto che disperi del perdono, e
trovi più comodo il negare le pene d' un’ altra vita, che il paventarle. Si
seducano perciò le donne, e s’infiammino d’illeciti amori. Si corrompa la
gioventù... Debbo io seguitare questo tristo inventario di pratiche atte a
pervertire? O non qui scrivo un piccolo brano della prima pagina delia storia
contemporanea ? Cosi, non è tanto una proposizione astratta, quella che qui
discorro, quanto un’ opera avviata a compimento e cotidiana. Già non c’ è più
bisogno di prediche. Le prediche son fatte, ed han fruttificato. È in pien
corso il nuovo insegnamento. Aspettando la universale Riforma, a chi minacciata
sotto forma d'una ghigliottina, (o d’una delle tante eleganze inventate 60 anni
fa in Francia, coggi pronte a risuscitare: u«e fournée, une noyade, una
passeggiata di colonna infernale), a chi presentata nell’ abito verde della
speranza come un secol d’oro che si prepara a nascere per condurre in terra la
perfezione fin qui ignota a’mortali; noi poveri contemporanei vivemmo,
invecchiamo e morremo tra le delizie d’un presente tutto pieno di
perturbazioni. Ora i benefizi che si promettono agli eletti son per lo meno
nella schiera de’ futuri assai contingenti. Il male che s’ opera, e che si
soffre purtroppo, è da lungo tempo una funesta realtà. Per tornare all’
argomento nostro, gli scrupoli si van togliendo. La bella morale del fine che
giustifica i mezzi corre il mondo, c lo conquista. Noi siam cattivi abbastanza.
I nostri figli, se Iddio nella sua misericordia uon ci provvede, saran peggiori
di noi. Qual riforma della umana convivenza possa divenir possibile con si fatta
educazione degli uomini, altri mcl dica. Io non so indovinarlo. Il mio stomaco
si solleva dalla nausea veggendo i costumi nuovi, le abitudini nuove, udendo le
bestemmie nuove. L’istoria ha sempre insegnato, che tutte le volte nelle quali
un popolo è stato condotto a questi estremi, esso ha rapidamente degenerato, e
finalmente è perito. Cosi fu spenta la gloria di Grecia e di Roma antica. Cosi
la gloria più antica ancora delle Monarchie de’ Babilonesi, de’ Medi, de’
Persiani, degli Egizi. Le stesse cause hau sempre prodotto nel mondo gli stessi
effetti ... e sempre li produrranno ! E qui fo punto. Fo punto; ma poche altre
parole mi permetto d’aggiungere su tutto l’argomento di questo articolo. Si
vuol distruggere gli antichi ordinamenti del mondo caule que conte, facendo
sempre la vista di partire dai due principii, della libertà e della
eguaglianza. E vedemmo quanto l’una e l’altra si rispettino in tulli gli sforzi
che si fanno per fas et nefas a fin d’ affrettare l’ ora della riforma. V’ é
però ancor peggio di quel che ho detto, sebbene ho detto molto. Ripigliando da
un’ altra parte il principio de\Y eguaglianza, dopo averlo calpestato c
manomesso, e ripigliandolo a scapito del principio della libertà, si parla
d’abolire lutti i diritti acquistali anche per vie le più oneste. Gli uguali
ban da essere uguali, perdendo tutto quello per che con arti anche degne, e
coll’ industria, e co’meriti, e colle fatiche, s’eran fatti maggiori, e non han
da esser nè uguali nè liberi quanto al diritto di contrapporre il loro no
all’allrui si. Gli uguali s’tian da potere non solo spogliare dagli altri
uguali, ma da questi si ban da potere anche sterminare ed uccidere, se voglion
conservare intatta tutta la loro autocrazia, se non voglion piegarsi a dar mano
a queste spogliatrici dottrine... -Un contratto sociale tra eguali ha da esser
fondamento della società nuova per libero consentimento di tutti; ma il patto,
o contratto sociale non dee poter aver forza, e il libero consentimento non ha
da esser libero di non consentire ai patti che vogliono i preparatori della
nuova libertà ed eguaglianza. E queste contraddizioni palpabili e nauseose si
dissimulano dagli uni ; e dette agli altri non li commuovono, ed è come se non
fosscr dette, tanto è fermo il proposito di non ragionare, c d’ostinarsi. Ecco
a qual grado d’ accecamento e di depravazione s’è giunti! Con che torna vero
quel che già notavamo, chiudendo il 3. articolo. Cercar di confutare costoro è
spendere parole ed inchiostro a pura perdita. — Scriviamo a preservazione dei
non corrotti ancora, o ad emendazione di chi sta tra due nè ben sano, nè tutto
guasto. Gli altri Iddio li illumini. E ripigliamo dal suo principio il discorso
delle ricostruzioni, delle costruzioni, o delle riparazioni dell’ edilizio
sociale. Altre considerazioni sulle riforme nel reggimento delle convivenze
umane in generale, e sul diritto e il modo di tentarle. Quantunque d’un
argomento si importante oggi tutti parlino in tuon di dottori, e quasi anche i
fanciulli, qui «ondimi aere lavanlur, pur non è men vero, che il dire intorno
ad esso quel che veramente la ragione insegni è cosa grandemente difficile per
tutti, ed anche pei più periti nelle scienze dello Statista. Due sono i casi. O
alcuni inclusi in una convivenza civile già stabilita, e soggetti alle sue
leggi, se ne stancano, vi si trovan male, vogliono sottrarsene, e ciò non collo
staccarsi e irsenealtrove in cerca d’un’associazion nuova, ma coi riformar
l’associazion vecchia e spiacente, resistendo a questo gli altri che pur vi
sono ; o i venuti a desiderio di rinnovazione del politico ordinamento, nella
civile congrega alla quale s’appartiene, non sono alcuni, ma presso a poco
tutti, cosicché nessun degl’interessati in ciò resista, e faccia notabile
ostacolo. Nel secondo caso, difficoltà gravi, quanto all’iniziare le riforme,
di che si crede aver bisogno, non possono esservi (1), perchè si suppone non
esservi lotta ; ed aversi, (t) Noq saranno le difficoltà quanto al consenso
nelle riforme, ed alla loro attuazione. Resterà peri) a vedere pur sempre, se
le riforme in che consentirono, avranno quel sommo genere di legittimità che
sola puh dar la giustizia e ragionevolezza loro, o se uon l'avranno. E resterà
a cercar se, non avendola, siano ciò non ostante obbligatorie, ed in che senso,
e fino a qual grado, o dentro quai limiti lo siano : questioni difficilissime a
trattarsi, ma che non e questo il lungo di trattare presso a poco, universalità
di consenso. (Le difficoltà cominceranuo, quando si tratterà del modo, se
vogliasi che questo modo sia il più ragionevole, ed il più profittevole a
tutti). Ma, nel primo caso, non si può dire altrettanto. Quando un governo è
stabilito, e un ordine quale che siasi già esiste... quando in tutto il numero
dei componenti la civile congrega i sufficientemente contenti sono di gran
lunga i più, e i veramente gravati, e giustamente malcontenti sono di gran
lunga i men numerosi, il vero diritto non è quello di turbare tutto lo stato
tentando novità, e con ciò disturbare tutti i contenti e tranquilli,
rimescolando e rinnovando ogni cosa, e scomponendo e disordinando ogni privato
interesse, per fare ragione ai pochi che si lagnano perchè stan male ; ma è il
diritto di cercare, senza punto incomodar gli altri, o comunque gravarli nelle
persone e negli averi, che sia fatta ragione ai pochi che lo dimandano, e che
lo meritano. £ questo può esser difficile ; può essere anche talvolta
impossibile senza rovesciare intera mente la costituzione dello Stato. Tuttavia
ci vuole un bel coraggio per mettere innanzi la proposizione, che, dove ciò
accada, la giustizia negata a’ comparativamente pochi, debba essere ad essi
buono e legittimo motivo di spinger la reazione immensamente più in là di quel
che porta il loro diritto ; cioè, affinché questa sopravvinca, di scomporre e
distruggere tutta la macchina costitutiva della civil congrega, della quale i
più si trovan paghi, mentre ogni turbamento un po’ generale dell’ordine
stabilito tutti inquieta, molesta, e danneggia (1). Maggiore però fa d’uòpo che
sia questo coraggio, se quei che si fatta proposizione mettono (1) Può bene io
questa ipotesi ater luogo il principio (ed il più spesso lo de\e)-Expedit unum
hominem mori prò cunctopopulo.-l pochi gravati, operato per ottener giustizia
tutto quello che non pub operarsi senza manifesto e mollo maggiore danno deli'
universale, se ascoltano la voce della coscienza, il meglio che possan fare è
rassegnarsi, come è forza rassegnarsi alle malattie, alle disgrazie fortuite,
ai tanti altri mali della vita. ] innanzi, nessuna ingiuria, nessun (orlo
ricevettero, e sono unicamente duellanti, per cosi dirlo, di malcontento, i
quali non si lagnano per proprio conto, ma si lagnano per conto di quelli che a
loro spiace di non udire lagnarsi, e eh’ essi vogliono che si lagnino per forza
; o di quegli altri che, pur lagnandosi a buon diritto, nondimeno par loro che
non si lagnino abbastanza, e non sian disposti a spinger le querele fino agli
estremi che a lor piacerebbero. Vengan di nuovo que’ehe cosi vogliono e fanno,
a parlarci d’eguaglianza, e di tutte l’ altre loro frottole di libertà, di
giustizia, di ragione ! La loro eguaglianza diventa, come altrove riflettevamo,
superiorità de’ pochi su i molti. La loro libertà diventa licenza di nuocere
agli altri per giovare a sé, o per soddisfare la propria passione. La loro giustizia
è non tener conto del diritto altrui, per non aver occhio che a quello che si
crede essere il diritto proprio, od il proprio talento. La loro ragione è la
ragione del più forte ; una ragione egoista, ostinata, feroce, senza pietà,
senza discrezione, senza riguardi... una ragione che ricusa di ragionare, e che
vuol esser tiranna delle ragioni altrui. Si difenderanno con dire, che,
ncll’operare quel che tentano, il fine loro non è contentare sé stessi,
pregiudicando indebitamente gli altri, c dando loro motivo legittimo di
querelarsi ; ma è proporsi cosa in sé buona : cioè, considerato che gli stali
son oggi, dove più, dove meno, in tal mala guisa ordinali da render possibili
per tutti, e inevitabili per molti, una gran quantità d’ ingiustizie, d’avanie,
d’oppressioni cotidiane, senza facile riparo, e sovente senza alcun riparo ;
considerato per conseguente, che il malcontento il quale per gli uni è attuale,
per gli altri è virtuale, e che il danno da tale o tale sofferto oggi, può
percuoter domani, o doman l’altro, a volta a volta, quelli ancora che or sono
contenti ; considerato perciò, finalmente, che, a distruggere il vizioso
edificio delle odierne macchine politiche per sosliluirvene un altro migliore,
è meno ancora contentare sé, che rendere servizio all’universale, e a quei
medesimi che ora per poca previdenza, per indolenza, per egoismo rifuggono
dalle riforme e che ciò è poi promuovere la causa sempre bella ed onesta della
giustizia : per tutte queste ragioni far essi cosa degna d’ approvazione,
anziché di biasimo, perseverando nella impresa alla quale si danno. Ma
l’apologià nulla vale. Primo : hanno eglino ben pensato, cotesti temerari
sconvolgitori delle civili convivenze, la massima gravitò del fatto a cui
s’adoperano? Uno stato è una somma immensa d’interessi distribuiti e collegati
tra tanti quanti sono in esso gl’individui che sono, e que’che prossimamente, o
più tardi, saranno. Ogni interesse si risolve esso medesimo in innumerabili
subalterni interessi di cose e di persone, ed ha sempre due parti : una che
risguarda i privati, l’altra che risguarda il pubblico, ossia 1’ universale.
Quanto più una umana congrega è matura a civiltà, ed in essa progredisce, tanto
più questi interessi crescon di numero e d’importanza. La prosperità privata e
pubblica è tutta principalmente fondata sul rispetto, sulla protezione, sui
favore che ottengono si fatti interessi. È pur troppo certo (colpa delle
imperfezioni umane !), che non v’ha umana congrega, non v’ha stato, dove
gl’interessi qui mentovati riscuotano tutto il favore, tutta la protezione,
tutto il rispetto che aver dovrebbero, acciocché la prosperità fosse massima.
Per conseguenza è purtroppo certo, che tutte le umane congreghe, tutti gli
stati han sempre bisogno di qualche riforma, e di molte riforme, e questo è
bisogno che mai non cessa, perchè mai non cessano di rivelarsi e di generarsi i
difetti di rispetto, di favore, e di proiezione di che parlo. Qualche umana
congrega, o qualche stato, tanto alle volte soprabbonda di difetti di si fatto
genere, che il riformarli si fa un bisogno generalmente, e fortissimamente
sentito. Ma, dopo lutto ciò, può egli dirsi che sia cosa lecita e conveniente
(per lo sdegno delle riforme che non si fanno da que’che llO lo dovrebbero,
polendole fare) l’opera cbe, con privala autorità, vogliono alcuni collocare in
promuovere tali convulsioni politiche, dalle quali, secondo le maggiori
probabilità umane, queste immediate conseguenze sian per discendere, che tutta,
o quasi tutta la massa degl’interessi privati e pubblici sia improvvisamente e
grandemente turbata-che moltissimi di essi patiscano enorme ed irreparabile
offesa, od anche intera rovina-e cbe, per un tempo più o meno lungo, e sovente
lunghissimo, nata, e durando, la lotta tra que’cbe si difendono, e que’ctie offendono,
innanzi alla vittoria decisiva, la quale di soprappiù non si può mai prevedere
per chi sarà, non s’abbia altro spettacolo cbe di fortune ile a soqquadro, di
famiglie desolate, di uomini esterroinati, di civili battaglie e guerre... del
commercio rovinato, dell’industria spenta, degli studi intermessi, d’ abitudini
d’ozio, di turbolenza, e di licenza introdotte, e di lutti gli altri mali di
cui gli annali contemporanei troppi esempi da più cbe mezzo secolo ci
somministrano ? Per poterlo dire, sarebbe almen necessario aver fatto un
bilancio: il bilancio de’ danni a’quali vuoisi portare riparo, e di quegli
altri, che, col fine d'arrivare a questo riparo, certamente si genereranno. Ma
questo bilancio, che, ne’singoli casi, i temerari sconvolgitori odierni delle
civili convivenze non fanno, e non han fatto, l’ba già fatta per tutti la
storia, e lo ha pubblicato. Essa da lungo tempo ha insegnato agli uomini, che,
di tutte le calamità, le quali possono cadere sopra un popolo, nessuna calamità
pareggia quella di ciò cbe si chiama una rivoluzione, massime dei modo di
quelle che oggi si macchinano, e si hanno in pensiero, od apertamente si
minacciano. I cattivi governi... le tirannidi d’ogni nome offendono gravemente
alcuni, od anche molti ; ma, salvo certi casi rari come le mosche bianche,
lascian sufficientemente tranquilli i più, e, nel loro proprio interesse
(voglio dire nell’interesse de’ governanti) risparmiano il massimo numero : di
guisa che le angherie, lille ingiustizie, sodo enormi iu pregiudizio d' alcuni;
per molti sono grandi, ma pur tollerabili e pazientemente tollerate, per non
pochi nessune. Al contrario, le rivoluzioni, a quel modo che oggi s’ intendono,
se pur non siano, come suol dirsi, colpi di mano, a coi per miracolo succeda un
immediafo e tranquillo riordinamento, per poco che durino (e durano spesso una
o più generazioni d'uomini), offendono tutti... anche que’che le han fatte, i
quali, d’ordinario, finiscono col perirvi, essi e i loro. Finché si pugna, è
strage dalle due parti... la strage delle guerre civili ; strage accompagnata
di crudeltà mostruose e ferine, d’eccessi contro a natura. Sono incendi,
saccheggi, brutalità d’ogni nome, e senza nome. Que’che non combattono, sono
vittime spesso delle due parti combattenti. E chi può prevedere quanto durerà
il combattimento, quanto sarà esteso, quante volte ripullulerà, or dall’un
lato, or dall’altro ? Chi può dire a priori, se vincerà Bruto, o Tarquinio se
interverrà Porsenna.... se si troverà sempre un Muzio Scevola, un Orazio, una
Clelia... o se piuttosto Roma non finirà per servire al re di Chiusi, come pur
troppo la storia rettificata oggi dice? Habenl sua sidera lites.-E intanto le
felicità dell’anarchia per que’che non pugnano ! Le felicità delle dittature
militari nel campo, o ne’campi di battaglia, o dovunque armati stanno o passano
! Le terre le coltiverà chi può, ossia non le coltiverà più alcuno 1 mercatanti
potran chiudere i loro fondachi, se tuttavia lo potranno, e se non li vedranno
messi a ruba ed a rapina prima del chiuderli. I ricchi fuggiranno, se lor torna
fatto, ma fuggiranno in farsetto, se nou perdano la testa per via. Palagi,
monumenti, sa il cielo come saranno malmenati. Il danaro rubato si dissiperà,
come si dissipa sempre il danaro del furto. L’altro sarà nascosto, o mandato
all’estero. Poi la penuria, la carestia, la fame, e seguace della fame la peste
o l’epidemia. De’ costumi non parlo, né della gioventù falciata innanzi tempo,
o perduta ad Ogni buono impiego Digitized per l’avvenire... Succederà, quando
Iddio vuole, la villoria ultima a chi Iddio vorrà darla (spesso nè agli uni, nè
agli altri, ma a' terzi venuti di fuori... ai Porsenna : secondo il proverbio,
che tra due litiganti il terzo gode ; con che sarà perduta l’autonomia, e da
popolo che obbedisce a sé stesso ed a’suoi, si sarà trasformati in popolo
conquistato, in popolo assoggettato, in popolo profeto, in popolo-colonia, in
popolo vaceg-da -mungere ), e colla vittoria ultima sarà una specie di pace.
Che pace però? La pace accompagnata qualche volta da amnistie per tutti, se può
sperarsi, che, come è disposto a dimenticanza vera il Vincitore, cosi sia
disposto il vinto : ma, se a questa seconda dimenticanza non si crede da esso
vincitore, mancherà d’ordinario la prima, e mancherà, alle volte,
indipendentemente da ciò, s’cgli creda che bisognin giustizie ed esempi, e se
le collere non calmate cosi consiglino, o le circostanze paiano cosi comandare.
Ed allora s’avrà un altro tempo, più o meno lungo, che sarà di terrori più o
meno grandi, e di severi gastighi, od anche aspri, che i gastigali chiameranno
reazioni e persecuzioni, i gastiganti chiameranno necessità, e opere di
prudenza ; e chi oserà dire, in massima generale, da qual parte sia la ragione?
E questa vittoria, e questa pace, e i migliori lor frulli, per chi poi saranno?
10 l’ho già detto. Per chi vorrà Iddio : cosicché è possibile (si torni bene a
pensarvi sopra), mollo frequentemente è probabile, e facile a prevedere, se non
si è ciechi, che non sarà dalla parte di chi tentò la rivoltura : ma, o di
quelli contro a’quali fu tentata, o d’altri e d’altri, diversi, e non
aspettati, c non voluti, e non utili. Nel qual caso agli altri mali
s’aggiungerà quello che non s’avrà nemmeno il contento d’aver guadagnato ciò
che si cercava ; e s’avrà invece 11 dolore e la pena di avere aggravato il male
che voleva allontanarsi, o d’ esser caduti, come s’usa dire, dalla gradella
nelle brace. - Anzi non basterà a’rivoltuosi nemmeno l’aver essi per sè
guadagnata la vittoria : perchè aver vinto è poco. Ciò significa essere riusciti
a distruggere, non significa avere edificato, e poterlo e saperlo fare. L'opera
della riedificazione resterà ad intraprendersi : opera più difficile sempre che
non quella della distruzione : opera, che, ne' paesi, ove gli ordini antichi,
colla violenza, si spiantarono, richiede, per solito, anni moltissimi, e
talvolta secoli, innanzi all’ esser condotta a qualche buon termine : opera, in
questo mezzo, tutta di prove e di errori, tutta d’esitazioni, tutta di conti
sbagliati e da rifarsi ; vera tela di Penelope da far disperare del compierla ;
e che quando pur si compie si trova ben altra da quel che s’era immaginato,
finita da altre mani, sotto l’impero d’altre circostanze, sovente di altre
idee, tale insomma che, per ultima conclusione si riconosce essere un
imperfetto sostituito a un altro imperfetto, dove ciò solo di sicuro che emerge
è la certezza del male immenso che si è fatto a pura ed inutile perdita.
Secondo: e fin qui ho supposto che si parta almeno da un motivo più o meno
evidentemente giusto dell’ operare le rovine che vogliono operarsi, col fine
huono, sebbene con Non si crede vero? — Un’occhiata allo Stato d’Europa ila
sopra a 60 anni in qua. Veggasi piti che altro la Francia. Vcggansi poscia le
tante repubbliche succedute alle mutazioni americane. E mi si opporrà, per
avventura, il solilo modello della repubblica degli Stati Uniti d’America ;
cioè un esempio sufficientemente favorevole contro a molti contrari. Questo è
la pruova del terno vinto, che è la rovina di tutti i dilettanti di giuoco. La
repubblica degli Stati Uniti d’America ha incontrato quattro fortune piuttosto
uniche che rare. 1. La fortuna d’ essersi imbattuta in un Washington. 2. Quella
d’essere stata, quando cominciava l'affrancamento un paese nuovo, e d'una
popolazione assai sparsa In mezzo alla quale le fermentazioni e i conflitti
delle idee meno eran facili. 3. Quella d’averne avuto a progenitori, uomini già
educati a libertà, ed a reggimento presso a poco repubblicano. 4. Quella d’aver
dovuto lottare contra un potere lontano.... troppo lontauo, e con validi esteri
aiuti. E ancora, prima di giudicare il bene o il male del reggimento che si è
conseguito di stabilire, bisogna la sanzione d’ almeno un paio di secoli. Io
non lo credo fondato su base ferma.] gravo pericolo, e spesso quasi colla
sicurezza di successo non buono, o non proporzionatamente buono. Ma questa
giustizia del motivo v’è ella sempre? Chi la giudica d'ordinario? e quanti sono
que’che la giudicano? Uomini d’esperienza? Uomini i più sapienti nel popolo?
Uomini che conoscou bene lo stato vero delle cose? Uomini, che non si lasciano
illudere dalla passione? Uomini capaci di ponderare, non solo se il motivo è
vero in qualche grado, ma se è vero fino a tal grado da richiedere un pronto
rimedio, da non averiosi che per una rivoluzione? e da lasciare sperare con
qualche buon fondamento che per una rivoluzione di leggieri s’avrà? Diamo
un’occhiata al passato, ed al presente prima di rispondere, e ricaviamo la
risposta da quel che s’è veduto, e si vede. Ragazzi, e giovinastri, od uomini
già noti per natura torbida, e per naturale inclinazione a novità. Gente
impetuosa, violenta, a cui natura toglie il giudizio freddo ed imparziale dei
fatti. Persone di mano, e non di testa, facili a prestar fede al male che si
dice di que’che odiano, e ad esagerarlo, ed a misconoscere il bene: tali che .a
reggimento ed a governo mai non dieder mano, e che parlano di quel che non
sanno, per un dicium de dieta tali che delle ponderate risoluzioni non hanno nè
la scienza, nè 1’ abito, nè la capacità ; e il cui maggiore studio non è
curare, se quel che vogliono sta bene o male a volerlo, ma cercare come possano
cominciare a ridurlo ad atto. E cotesti formano il fiore dello stuolo. Gli
altri son quali possono accompagnarsi a cosi fatti gonfalonieri, come
subalterni. Volgo proletario, che è facile sedurre con immaginarie speranze, e
mettere in fermento con fanatiche predicazioni. Disperati e perduti per debiti.
Piccoli ambiziosi, che consapevoli della loro nullità e turgidi di luciferesca
superbia, non altro mezzo veggono per sorgere, che il gittarsi a corpo perduto
tra i motori di cose nuove. Giovani entusiasti, poveri di mente e di cuore, in
cui l’immaginazione prevale al giudizio, il bisogno d’agitarsi e di fare al
bisogno di starsi con uu libro innanzi o Ira le pacifiche occupazioni d’ una
vita di sedentari negozi. Altri che seduce il mistero delle sette, nati per
essere schiavi in nome della libertà, e bruti in nome della ragione. I seguaci
di Calilina, quali ce li descrivono Cicerone e Sallustio.... gli scherani di
Clodio i guerriglieri di Spartaco. Ora il senno di questi può con giustizia
decidere il tremendo problema delle rivoluzioni, e della necessità del
farle...? Poveri popoli condannati a patire la costoro malefica influenza! I
disordini d’uu governo cotesti son più atti ad accrescerli che a conoscerli, e
a ripararli.,E il lor costume è di dire che il desiderio loro è il desiderio di
tutti, o almcn de’ più, perchè più di tutti essi gridano, e s’ agitano, e
accendon fuoco da ogni parte! Gli altri che tacciono, e che col silenzio
mostrano che non si malesi trovano da dover gridare, non li contano. Son essi
il popolo vero; il popolo solo. Gli altri, che coraggiosamente s’oppongono e
gridan contro, non li apprezzano. Chi sta in casa e bada agli affari suoi non
fa numero. Chi s’oppone è zero ! ! ! Tanto basti avere avvertito per giunta
ali’altre cose dette nell’antecedente articolo, e nel principio di questo. Si
opporrà — Stando al precedente discorso, le rivoluzioni non si potrebber mai
fare ( vedi calamità !), e i gravi disordini degli stali non mai correggere. E
Bruto primo ( po'ni esempio ), e Bruto secondo sarebbero stati o due pazzi, o
due furfanti. E Roma avrebbe dovuto tollerarsi in pace quella grande iniquità
del regno, e quella maggiore di Tarquinio secondo e di Giulio Cesare. E i
popoli dovrebber soflferir sempre, eie tirannidi sempre trionfare, lo rispondo.
Innanzi tratto non si abusi delle autorità. Sappiamo oggi tutti la verità
intorno ai due Bruti, non quale ce l'han trasmessa menzognere storie, ma quale
una bene illuminata critica cereò di porla in chiaro in mezzo alle tenebre
addensate sugli antichi fatti. Del primo Bruto poco può dirsi. Esso è mito più
che personaggio certo. Stando a quel che se ne narra.] bene addimostrò s’egli amava
la libertà o la schiavitù diRo' ma, nella famosa storia del bacio dato alla
terra. Oggi si sa, e ben sa, che Roma, innanzi alla distruzione dei Galli, non
fu mai si florida come sotto i re etruschi. La rivoluzione di Giunio Bruto
contra il Superbo, se risguardiamo agli effetti, distrusse per lunghi anni la
prosperità della futura capitale del mondo, e non è sicuro che la preparasse. A
essa dovette Roma i mali d’ una lunga e disgraziata guerra, che condusse, come
testé notavamo, all’assoggettamento a Porsenna, il quale altro ferro non lasciò
a’ vinti romani se non quello che agli usi dell’ agricoltura sovvenisse. La
città regina deve la sua rivendicazione in libertà ai fatti della guerra
infelice del re chiusino contro ad Aricia e contro a’Cumani.E senza Bruto, la
tirannide del Superbo finiva al finir di lui : nè le due catastroG, che
successero, pel tentato repubblicano mutamento sarebbero state. Se dal male
venne poi bene alla luoga,ciò non è il merito dell’ autore del male. I
provvidenziali destini di Roma dovevansi compiere ad ogni modo. Quanto al
secondo Bruto, si conosce nou meno a che buon fine usci il cavalleresco, e
sufficientemente odioso fatto dell’ingrato bastardo del Dittatore. Il fanatico
non conobbe nè i suoi contemporanei, nè i veri bisogni del suo paese. Fu un
povero politico, siccome un povero guerriero. Nè combatteva per la riforma, ma
a chi ben riflette, contro ad essa, voglioso di richiamare a una vita
impossibile la degenerata e morta repubblica, la quale Cesare per ben di Roma
aveva distrutta. E il mondo che vi guadagnò? L’aver perduto un grand’ uomo qual
senza dubbio era il vincitore delle Gallie e di Pompeo, per fargli succedere un
minore di lui, nè manco despota di quello. Nondimeno, io non voglio abusare di
questa maniera d’argomentazione. Certe rivoluzioni, che, dopo i primi mali
prodotti, alla fine son riuscite ad utilità ( una ogni mille ) io non voglio
negarle. Voglio negare che il massimo numero delle volte siano state atti
considerati e degni di lode, anche quando una utilità se ne trasse. Voglio
osservare ch’elle sono giuocate di lotto, dove il vincere è un caso assai raro,
il perdere è la sorte comune; con questo di peggio, che il perdere non è mai di
poca cosa, nè d’uno o di due, ma di tutto un popolo, di tutta una nazione, perchè
la posta ( 1 ’enjeu ) è la fortuna di esso popolo, di essa nazione, nel suo
presente, forse nell’avvenire; sono le vite, gli averi, gli onori, ogni cosa
più cara che gli uomini s’abbiano. Voglio per conseguenza dire, ch'esse possono
esser atto di disperazione o d’audacia, non atto mai, o quasi mai di senno; e
che sono un mezzo, e qualche rarissima volta il solo ( della cui natura lecita
od illecita quanto a coscienza di buon cristiano è questione che lascio
decidere a’casuisti ) per liberare l’universale da mali, più o men reali, e più
o meno intollerandi, son però un pessimo mezzo; uno di que’ rischia-tutto, che
chi sente d’andare a irreparabile ed imminente rovina, tenta qualche volta,
come un’ultima speranza, quia melius est anceps, quarti nullum experiri
remedium, ma che aggiunge un biasimo di più a chi, andando a rovina, per questa
via l’ affretta, e la rende più grave, più inevitabile. Or, data, contro alle
rivoluzioni in generale, questa sentenza di condanna, qual rimedio dunque
avranno i tiranneggiati, gl’insoffribilmente angariati, i giustamente e gran-:
demente malcontenti de’ mali ordini politici sotto i quali gemono ? Vuoisi eh’
io tratti la questione storicamente, o teoricamente? Se storicamente, dirò, con
franchezza, spesso nessuno. Perciò gli annali del mondo son pieni delle storie
di popoli non solo lungamente malgovernati, e barbaramente oppressi, ma
sterminati senza rimedio, e cancellali tutti interi dal libro della vita.
Coraggio o viltà ; resistenza e difesa sino agli estremi, od abbandono di sè,
non ci fanno nulla: chè spesso il tentar di liberarsi e di riscuotersi è stato
col proprio peggio, rendendo più tormentosa 1’ agonia, più terribile I’
eslerminio. In questa guerra, come in ogni altra, è quale nel duello. Non vince
sempre chi ha ragione. Cosi le disgrazie dei mali ordinamenti, e le pressure,
son come le pestilenze, come le fami, come gli altri flagelli che cadono a
volta a volta sulla nostra povera specie, a ventura, come un decreto di
calamità e di morte, al quale ci è forza soggiacere. Se parliamo poi
teoricamente, dirò, che in cielo non è scritto, che la giustizia in terra
sempre vinca. È nell’ economia del mondo, che il male non rade volte domini il
bene, e che la specie nostra riceva, a quando a quando, dure lezioni per imparare
umiltà e rassegnazione; per accorgersi che non è qui il tribunale supremo dove
si giudicano le cause degli uomini in ultima istanza; per Operare o per temere
una giustizia futura ; per credere un’ altra vita. Noi tratteremo altrove
questo argomento più alla distesa. Il rassegnarci sarà dunque lo scoraggiante
unico dover nostro? nè Iddio nella sua pietà e bontà infinita ci avrà dato modo
per ajutare la giustizia, se non a vincere, almeno a generosamente difendere le
proprie ragioni, a virilmente protestare contro alla iniquità e al sopruso?
Questo io non pretendo, e nessuno lo pretende. Quel ch’io pretendo, e ciò t che
i savi pretendono, richiede un più lungo discorso. A chi, senza passione,
studia i casi dei popoli quasi sempre appar chiaro, che si fatta specie di mali
assai radamente sono senza manifesta colpa o cooperazione di chi vi soggiace.
Si soffre perchè s’è meritalo di soffrire. I figli pagano la pena degli errori
de’ padri. E tuttavia, se par non esservi rimedio, è che manca le più volte
piuttosto la sapienza e la virtù per emendare il danno, di quello che la
possibilità d’emendarlo. Un popolo che soffre ( giova ridirlo ), soffre
ordinariamente, perchè è degno di soffrire; ed allora il soffrire è una pena
meritata, e il non saper liberarsi di questa pena, e il seguitare di essa è
ugualmente sua colpa. Dove i probi, ed i sapienti, e i fervidi amatori del
pubblico bene abbondano, l'amor del giusto e del vero necessariamente si
prepondera, che l’ingiusto ed il falso non possono allignare, od allignando non
possono guadagnare rigoglio, e non finire col diseccarsi fino alla radice, e
col perire. Perchè dal retto apprezzamento, nel maggior numero, di quel che è
buono e cattivo, e dall’avversione per questo, e dal bisogno di quello, si
genera di necessità ciò che si chiama la forza della opinion dominante, che è
tanta parte della forza delle cose, la quale, allorché ha saldo fondamento di
verità, dura, e non domina da burla. I cattivi, se vi sono, allora han più
vergogna, e a lor malgrado, si nascondono, e non osano, o, se ardiscono, sono
presto repressi, senza strepito d’armi, dalla generale riprovazione, la quale,
in innumerabili, prende la forma di coraggio civile, che dice animosamente, ma
pacificamente, e con tulli i modi legali, il vero : ciocché è possibile, ed
alle volte è probabile, che nuoca a chi lo dice, ma non è possibile, nè
probabile, che non Gnisca col giovare all’universale, secondo che gli esempi di
sì fatto coraggio fruttifichino, si moltiplichino, e si rinnovino. In altri
prende la forma di pubblica e franca disapprovazione, tanto più efficace,
quanto men turbolenta, quanto meno esagerata. In tutti prende ogni legittima
forma, per la quale sia possibile arrivare, senza eccessi mai, nè disordini,
all’emendazione del malfatto. E il malfatto battutto da tante parti, ed in modo
si misurato, si degno, sì animoso^ nel tempo stesso si prudente, potrà bene
sbizzarrirsi ancora qualche tempo, ma non vincerà la pazienza e la virile e
nobile resistenza di quei che giustamente si querelano, si bene sarà vinto con
assai più prontezza che altri non immagini. Ma dove cittadini della forte e
virtuosa tempra ch’io dissi, o difettano al lutto, o sono in minimo numero, e
gli altri non sono che turba ignobile, impastata d’ egoismo e di vizio, primo
(torno a dirlo perchè bisogna), la perseveranza e l’ immedicabilità del male a
torlo è querelata. Essa è un effetto le cui cagioni principali sono in chi si
querela, come dianzi affermavamo: secondo, è allora solamente che in mezzo a
popolo depravato si giltan fuori falsi medici ; cioè quelli che han fuoco
soprabbondante di passioni per isdegnarsi di ciò che materialmente si soffre, e
per accender lo sdegno al di là d’ ogni equa proporzione col suo fomite ; ma
non hanno, nè senno per conoscere e pesare quel che conviene e quel che no, nè
virtù per saper soffrire quel che non può evitarsi, nè altro di ciò che bisogna
a dar buono indirizzo al pensiero riformatore. E son eglino che non contenti di
sbagliar essi la strada, traggon fuori di via gli altri, già purtroppo, per ipotesi,
poco alti a fare saper quel eh’ è il debito. Eglino che screditano la
moderazione, i mezzi legali e pacifici, e tutto che non sia l’impeto loro
sconsigliato e pazzo. Eglino da cui nasce e prende piede la falsa opinione
dell’ impossibilità del bene o del meglio senza ricorrere a’ loro forsennati e
pericolosi divisamenti. E già troppo di questo argomento s’ è favellato. Ma fin
qui noi, per cosi dire, non abbiamo che girato attorno al massiccio delle
questioni nostre. Ciò è la trattazione del governo in sè, che si vuole
ostinarsi a considerare come una emanazione pur sempre di quella sovranità del
popolo, di che abbiamo già detto parecchie indirette parole, ma non le dirette
che si richiedono. Direttamente dunque ornai favelliamone, e cerchiamo che il discorso
abbia l’ estensione che l’importanza del soggetto richiede. De’ governi, e
delle sovranità in generale. Si : nessun assioma più oggi è fitto nella mente
degli uomini, che quest’ uno, tenuto come principale La sovranità risiede, per
sua essenza, nel popolo Chiedete intanto a que’ che cosi pronunziano, qual
cosa, in si fatto assioma delle piazze e delle conversazioni, significa per
essi sovranità, che cosa popolo : chiedete l’ analisi e la sintesi teorica e
pratica dell’ idea che innestano a questi due vocaboli : chiedete la
spiegazione delle dottrine, che da esso assioma voglion dedotte, od almeno
de’suni più immediati conseguenti; e vi accorgerete esser quello, al maggior
numero di loro, niente altro che una frase oscura e d’ indeterminata significazione,
la quale permette interpretazioni le più diverse, e, purtroppo, lascia sovente
libero il luogo alle più strane e le più assurde. Come intendete voi, brav’
uomo, questo che oggi tutti dicono Il popolo è sovrano ? dimandava io, son or
pochi giorni, a un mercenario, il quale, per prezzo, prestava alla mia casa non
so che faticoso servigio Rispose L’intendo, che tutti dobbiamo comandare Io
ripresi Ma, se tutti comanderanno, chi dunque obbedirà? Senza perdersi d’animo,
egli soggiunse Que’ che han comandato finora. I nobili ed i preti. I ricchi e
gli usurai. Quei che posseggono e possono, mentre noi non abbiamo fin qui
posseduto, e potuto nulla — Ed io Ma non sono essi ancora popolo, e del popolo,
e perciò, almen almeno, cosi legitimamente padroni della lor parte del
comandare, quanto I’ han da essere gli altri? Ed egli La parte loro di
padronanza l’hanno esercitata e goduta anche troppo, giacché l’hanno adoperata
soli e sempre. Una volta per uno. Adesso tocca a noi. Essi non eran popolo, nè
del popolo, quando comandavano, e lasciarono esser popolo, e del popolo,
solamente a noi poveretti. Dunque, giacché s’ erano separati dagli altri, ne
patiscano la pena... Ecco come il volgo interpreta la sua sovrana potestà ! Un
abuso sostituito ad un altro abuso : una tirannide ad un’ altra tirannide (
concessogli anche, senza esame, nè disputa, che ogni poter sovrano dell’ antico
modo sia stato, sia, e non possa non essere, che abuso e tirannide ;
concessione, la quale dicano i discreti se possa farsi. Certo, in coscienza, io
non posso farla. ) Ritorniamovi sopra. 11 secolo interroga Di chi è per naturai
diritto la sovranità ? — E son io questa volta, che voglio rispondere. Nè
tratterò prima la quislione, che chiamano pregiudiciale : se quel che
lilosolìcamente parlando, sembri a taluno, od a molti, od anche a lutti, di
naturai diritto assoluo più sono per andare, innanzi, avvegnaché in si fatti
popoli, le sempre crescenti disuguaglianze stabiliscono, per legge di ragione,
una necessità di gerarchie, per le quali vuole giustizia, che gli uni siano
maggiori degli altri a vario grado, e la sovranità s’ attemperi all’ordine
gerarchico, il quale natura ed arte hanno stabilito, o son per istabilire. Ma
essenza della civiltà non è meno un immenso campo aperto alle passioni ed ai vizi
i più detestabili, come alle virtù più nobili. Da una parte avarizia, invidia,
rivalità, egoismo, ambizione, tradimento, perfìdia, frode, broglio, seduzione,
baratteria, truffa, usura, ladroneccio, mariuoleria, stupro, adulterio,
dissolutezza, maltolto, accattoneria, accoltellamento, assassinio, e cento
altre mila simili, o peggiori, depravazioni e miserie d’una civiltà volta a
contrario fine : dall’ altra filantropia vera, generosità, carità, longanimità,
sacrifizio abituale di sè, e delle cose sue, date a pubblico e privato
vantaggio, assistenza a chi è in bisogno, disinteresse, rettitudine eminente,
desiderio intenso del bene, orrore del male, coraggio militare e civile,
infaticabilità, zelo, larghezza di consigli, d’indirizzi, d'aiuti... virtù cristiane.
. . virtù civili. Or ciò fa una seconda categoria di disuguaglianze, maggiori
ancora di quelle che precedentemente consideravamo in più special modo ;
disuguaglianze che hanno un gràdo intermedio de'non buoni e non cattivi
abitualmente, ma degli andanti a orza. Donde la convenienza di tener gli uni
come peste del popolo, e come non popolo; di diffidare grandemente degli altri,
c di non aver fede, a pubblica e comune utilità, che de’ già provati ottimi,
nei quali le altre condizioni pur concorrano. E di qui una nuova ragione perché
la democrazia pura a’ popoli civili tanto men s’ attemperi quanto son più
civili, e contenenti perciò nel loro seno, al fianco di molti ottimi, molti
(tessimi, e molti che stanno tra l’ ottimo e il pessimo. Il perchè, se, a priori,
e secondo le suggestioni astratte dal senso comune, in essi popoli avesse a
crearsi una sovranità, certo ogni sua parte sarebbe agli uni negata
assolutamente, agli altri non concessa in ogni cosa, e ridotta, nel generale, a
più o men ristrette proporzioni ; e riservata o interamente, o nella massima
sua dose, a’ soli degni di questo privilegio. In che può ben essere una
difficoltà grande d’esecuzione; ma ciò non toglierebbe che in teorica ciò
avrebbe a giudicarsi il meglio da ogni savio. Per ultimo l’essenza della
civiltà è il creare innumerabili maniere d 'interessi, de’ quali non è vestigio
nella vita delle selve, o delle capanne : interessi principalmente materiali,
odiali e screditati da quei che vorrebbero ricondurre gli uomini alla vita
della selva e della capanna ( o lo confessino, o no, perchè chi vuole il mezzo
vuole il fine ); ma interessi tanto connaturati a ogni società civile, che il
turbarli a qualunque grado è fare a un popolo uno dei maggior mali che possano
farglisi. Tali sono gl’ interessi di possidenza, gl’ interessi d’industria
promossi da qùe’ primi, gV interessi di famiglia, gl’interessi di condizione,
ed altri che non accade specificare più a minuto. I quali da due parti si
possono riguardare: dalla parte di coloro a chi spettano; e dalla parte delI’
universale, in mezzo a cui sorgono, e si moltiplicano. E, dal primo lato, giova
dire, che hanno essi una origine, della quale, se sono artificiali i modi, è da
natura la principale radice. Perché è natura l'amare noi stessi, e i nostri congiunti,
e il nostro e il loro bene ed agio ; natura l’ istinto della proprietà, o del
possesso di quél ciré ci troviamo avere, e di quel che andiamo procacciando man
mano ; natura il cercar di crescere questo capitale nostro, che non siam
padroni di non considerare come facente colla nostra persona un sol tutto, per
tal guisa, che, quanto fa esso maggior somma, tanto fa più grande la nostra
importanza, il nostro ben essere terreno, il sentimento d’ esser meglio che
altri riusciti a soddisfare il bisogno ingenito d’alzarci con ogni nostro
onesto sforzo, non per soperchiare chicchessia, ma per obbedire, anche in
questo, alla legge di perfettibilità e di progresso ; natura quindi ( ciò che
istintivamente a un modo medesimo ammise presso a poco ogni popolo ), il
chiamare ed il credere legittimamente nostro l’ ereditato, il donatoci, il
comperato, l’ottenuto, si nel peculio, e si nella superiorità della condizion
relativa a che s’ è giunti, o in che s’ è nati... il guadagnato e l’avuto dal
lavoro, o da traffichi di buona lega; (ìnalmerite natura il riguardare
l'interesse proprio d’ ogni forma come non si esclusivamente proprio della
persona, che non s’abbia a riguardarlo quale un interesse, ad un tempo, dell’
intera famiglia alla quale apparteniamo, finché sarà essa per durare e per
estendersi. E di qui categorie di ricchezza più o meq considerabile, in
opposizione colla povertà ; di patriziato più o meno eminente, in opposizione
col terzo stato e col volgo. Di qui tutta la scala delle fortune, per che uno è
Grasso, o Luculio; un secondo è un accattone di strada; un terzo è un che vive
del suo, masotlilmente, con quel che basta, e con nulla che avanzi — Da un
altro lato, se gli effetti di ciò, nell’universale de’ cittadini, si
considerino, quantunque a dì nostri molta sia la proclività de’ novatori al
gridare, questo essere, non pur soltanto ingiustizia degli uni contro degli
altri, ma ( quel ch’è peggio) gravissimo danno, gl’imparziali e giudiziosi però
non cosi vorranno affermare quando ben vi riflettano, e quando massimamente
volgan l’occhio alle conseguenze ultime. Per chi ben guardaci! mondo è fatto in
modo, cosi avendo il creatore disposto, che non può uscire di questo di lemma ;
o dell’esser composto di lutti poverissimi, costretti, per sussistere, alla vita
selvaggia, e nomade, e di cacciatori ; senza nemmen pastorizia, non che
agricoltura ; o dell’ esserlo d’ uomini, i quali, cominciato a gustare le
materiali e miste dolcezze .d’ un viver più confortevole, più agiato, meglio
congiunto con que’che s’amano, e co’quali s’ ha strettezza di sangue, più che
le gustano, più ne divengono avidi, e più speronano la propria attività per
procacciarsele, ognuno, nella maggior misura possibile, senza essere impedito o
disturbato, e più se ne creano quel che si chiama un loro interesse
individuale, a cui tengon tanto quanto alla propria vita : ed allora, secondo
che un s’ industria più, un altro meno, uno piu è destro, un altro ha manco
attezza, ecco a poco a poco ricchi e poveri, possidenti e proletari, banchieri,
mercatanti in ogni ragion di mercatura e di commerci, agricoltori,
fabbricatori, mercenari, patrizi, e plebei... uomini accasati e vagabondi, capi
di bottega e garzoni, e manovali, padri di famiglia e scapoli ricusanti la
briglia delle nozze per amore dell' allegra e libera vita, quegli che ha la
casa e la vigna, e quegli che non ha nè la casa, nè la vigna... E l’amore di
ciò crescendo, cresceranno le distanze tra gli estremi, o le differenze. Or
quello è barbarie, questo è quel che sempre s’è chiamato la civiltà, il
progresso, o della civiltà, e del progresso, . effetto, ad un tempo, c causa e
criterio e simbolo il più visibile. Volete voi una civiltà, invece, ed un
progresso, senza questi effetti? Voi vi fate illusione. Avrete un ricadere
infallibile nello stato barbaro. Imperciocché, si pubblichi, a cagiou d’
esempio, una legge domani, non dirò che abolisce ogni proprietà, ma dirò che
abolisce, pur solo, la libertà de’ cumuli, e degli accrescimenti, nella
possidenza così detta, e che con una nuova divisione di tutte le terre
distribuisce per teste il suolo, assegnando a ognuno tanti iugeri, e non più.
Aggiungansi altre leggi, che quanto è danaro faccian colare spartito
coegualmente, o più o men coegualmente, su tutti. Chi non vede la conseguenza
forzala? — Tu che non puoi coltivare colle tue braccia, con quali braccia
coltiverai? Con quelle d’ un operaio preso a mercede? Ma l’operaio è possidente
ai par di te, ed ha i suoi propri iugeri da coltivare. Se addoppiando la
fatica, pur si darà braccia anche per te, si contenterà più egli di coltivare
il tuo con quello stesso salario con che te lo coltiva oggi? Vorrà
raddoppiarlo, o astenersi, perchè non ha bisogno ; e tu dove troverai questo
doppio danaro che t’ è necessario, se vuoi che i tuoi pochi iugeri ti faccian
mangiare? Dove lo troverai, se sei di coloro, i quali s’avvezzarono a vivere
col solo frutto della loro possidenza, e non saprebbero far altro? (Oltre di
che, se Io trovi, c glie lo dai, egli diverrà comparativamente il ricco, e tu
diverrai, viceversa, il povero, ristabilita cosi a rovescio, comechè dentro piu
ristretti limiti, la differenza di fortuna, e ripristinato, per contrario
verso, un nuovo bisogno di livellazione ). Ma, educato come sei, non ti basta,
pe’ pochi iugeri che ti son dati, o che ti restano dopo lo spoglio, il trovare
coltivatori. Ei ti bisogna trovare un che dell’ amministrazione s’intenda, più
di quel che tu ne intendi, tu che, probabilmente, non vi pensasti mai, volto ad
altro il pensiero, e solito a farti servire in tutto ; e questi ancora non
vorrà spartire il suo tempo tra l'azienda della propria coltivazione e della
tua, senza esserne ben pagalo egli stesso. Ecco dunque per te una nuova
necessità di pecunia, che non saprai donde trarre. Ecco, se tu arrivassi a
trovarla su i risparmi eccessivi che t’ imporresti, una cagione per esso di
soprastare a te nell’ avere, e di turbare il livello, quanto almeno il misero
sistema che analizziamocomporta (colla conseguenza poi del bisogno di
sconvolgere nn’ altra volta la società, per novamente livellarla, quando il
ricco sarà diventato povero, e il povero ricco). Ed ecco, se, non ostante ciò,
non potrai trovarne quanta te ne bisogna, ecco dunque, ripeto, cbe i tuoi pochi
iugeri non ti serviranno a nulla, e resteranno incolti, con danno anche pubblico,
e tu morrai di fame. Muori pure, tu fuco nell’alveare della nazione, tu il «
quale non meriti vivere» dirà la legge nuova, che, senza scrupolo, e senza
badare a numero, vuole uccidere una eletta parte della popolazione a profitto
del nuovo mondo, il quale s’avvisa di fabbricare. « Muori tu, con tutti i tuoi.
« Resteranno, con maggiore utilità, cittadini più laboriosi, « tra’ quali
que’cbe prestan le braccia e la direzione per « coltivare, saran pagati con
quel cbe lucreranno i non col« tivanti con altre occupazioni retribuite. Ma che
occupazioni potranno esser queste? Arti, per esempio, di lusso? Tu burli.
Queste no : perchè il lusso è una superfluità per que’gran birboni de’ ricchi,
cbe necessariamente costa cara, essendo cara la materia prima, care le operazioni
destinate a trasformarla, e le spese di manifattura ; ciocché fa, che il prezzo
loro è necessariamente alto ed altissimo, e perciò irreperibile in un popolo
dove ricchi più non sono. Dunque non più carrozze, non più arredi preziosi, non
più drappi sfoggiati, non più cristalli e porcellane di Sevres, non più ori e
gemme ed argenti, e per analoghe ragioni, non più statue, non più pitture, non
più palagi, non più parchi, giardini di piacere, cavalli di pompa, ville...
cose tutte riservate a’ paesi infelici dove duri la servitù degli uomini...
Quali pertanto, nella beata tua Sparta, saranno le arti, a che que’chenon
vogliono, o non sanno, o non possono, coltivar la terra, o fare al più vita di
pastori, potranno darsi, per isperare sostentamento, e possibilità di coltura
alle poche terre, che la legge agraria avrà voluto assegnare alla loro
incapacità? Siccome la consumazione è quella che regola sempre la produzioiìe,
saranno > salvo poche eccezioni, le arti che si chiamano di prima necessità,
ed elle stesse ridotte alla loro pili grossolana e più rozza e men costosa
espressione.... E questo non si chiamerà rendere la spezie umana retrograda, e
distruggere la civiltà ! ! ! Questo sarà il secol d’oro ( senza l’oro, e
ricacciato nel fango dei consorzi umani che sono in sul cominciare, e che
tengono ancor molto della primitiva creta senza vernice ). E io qui non
parafraso l’argomento, e non lo-scorroper ogni suo punto, piacendomi a
descrivere tutti gli altri conseguenti: gli studi scaduti, le occupazioni geniali
vegnenti meno, lo slaucio, il potere degl’ intelletti inceppato ... a dir
breve, la condizione di tutto il popolo condotta sollecitamente a quella forma,
che oggi, per trovarla, dohhiam salire le montagne più selvagge, insinuarci ne’
villaggi i più rozzi.... Pur so qùel che si risponde dai gros bonnels delle
nuove filosofìe politiche. Non son essi cosi bestie da non vedere tutto ciò,
per poco che vi riflettano, cosi limpidamente come noi lo veggiamo... Ma essi
han due lingue in bocca. Una colla quale parlano al volgo; un’altra colla quale
parlano a noi. La prima delle due lingue favella alla faccia del popolo.
Divisione de’ beni Distruzione de' ricchi Abolizione dell’ odierno ordine di
cose col ferro e col fuoco — Sovranità della moltitudine proletaria.... senza
comento, senza restrizione. E la feccia del popolo accetta con alacrità questo
simbolo della sua fede politica nel senso il più letterale, il più largo ; e vi
crede ; e se ne infatua ogni giorno più ; e affretta co’desiderii l’ istante,
in che la legge agraria sarà promulgata; e odia intanto, e minaccia que’ che
hanno, considerandoli, come usurpatori del dovuto (!) a que’ che non hanno ( e
che non hanno fatto niente per avere ). Come potrebbe essere diversamente? — La
lingua, in questa vece, che parla con noi, rinega, o piuttosto maschera sì
fatte enormità. Va per giravolte. Sostituisce alle idee troppo urtanti, ch’esse
enormità rappresentano, altre idee che mostran meno quel che è celato sotto.
Propone temperamenti e sistemi, che creeranno una civiltà nuova, capace d’
evitare, o d’attenuare Uno ad una proporzione innocua i precedenti sconci.
Utopie. Le Icarie d’ un Cabet ( da andare a cercare in America, lontano lontano
dagli occhi di coloro, che potrebbero screditarne gl’ incunaboli, e riferirne le
miserie). I ComuniSmi sotto certe forme. I socialismi de’Fourieristi e di
Considerane diLouisBlanc, e di Prudhon: sistemi confutati ogni giorno lecento
volte da uomini sommi.. . da uomini i più grandi, i più competenti della
Francia, e dell’ altre nazioni d’Europa, e pur messi sempre innanzi colla
stessa impavida sfrontatezza, colla stessa subdola destrezza, fingendo, che
confutazioni nou vi siano. ..che le dispute abbiano cessato, o non meritino la
pena ’d’ essere intraprese e siano state vinte ... che il giudizio dell’
universale ( non quello delle proprie sette soltanto ) sia già intervenuto, e
sia stato favorevole : sistemi, uno de’quali è la confutazione dell’altro:
sistemi, non pertanto, ciascuno de’quali, cosi ancor controverso, cosi ancor
contrastato tra le file stesse degli odierni rinnovatori del mondo, non si è
già contenti dell'ofirirlo solo all’esame ed alla disputa de’ ginnasi, com’io
pur altrove considerava, ina, prima d’averne posto fuor d’ogni controversia la
certa utilità presso almeno il maggior numero degl’invitati a subirlo, si vuol
pervicacemente tradurlo ad alto ; si vuole imporlo a tutti colla forza, e
guadagnargli la prevalenza del numero, colla seduzione, e con arti di
cospiratori ! Nè io, deviando troppo dall'argomento principale e diretto di
questo articolo, debbo qui imprendere d’ aggiungere una confutazione di più
alle tante che corrono il mondo, e che si rimangono senza adeguata risposta. A
me, per l’oggetto, che mi son proposto, basterà fare una dimanda (lasciato da
parte il trattare, se quello di si fatti sistemi, che ciascuno .ole de’ parliti
nuovi preferisce, e che, ad ogni costo, vorrebbe sostituito, senza dilazione,
al presente ordine di cose, bada esser liberamente consentito, o si vuol che
sia una confisca violenta delle libertà di troppi a profitto d’ una futura
riordinazione degli uomini secondo la prestabilita formola d'alcuni, che non si
vuol disputata, né sottomessa ad arbitrio di rifiuto, ma si vuol accettata da
chi non la crede buona ed utile, come da chi la crede, ancorché chi non la
crede s’ostini invece a riputarla un esperimento eminentemente dannoso ed
assurdo, o per lo meno grandemente rischioso, e pieno di pericolosa
incertitudine). — Io farò la dimanda, che sola qui m’ imporla. I nuovi sistemi
di congrega civile ( si risponda con franchezza ) manterranno si o no, la
diversità, più o meno, di specie e di grado negl’interessi, anche materiali,
de’ singoli, come in generale, l'ordine della civiltà mostrammo, per sua natura
leudere a produrre? — Se no: dunque ( levata pure ogni maschera ) tutti, ne’
materiali profitti, avranno lo stesso ; tutti spereranno lo stesso, o presso a
poco lo stesso. Sparirà, o tenderà a sparire, la libertà del mio e del tuo,
almeno quanto alla misura. L’attività, la solerzia, per ciò che spetta al ben
essere fisico d'ognuno, non recheranno alcun maggiore vantaggio, che
l’infiugardia, l’inerzia. La perizia più grande nello stesso genere sarà
materialmente trattata come la minore. Nella comunità nessuno avrà alcuno di
quegli stimoli stali sempre, che più energicamente e più universalmente ed
infallibilmente son motori al fare, non che al ben fare. Vi sarà ( vorrà
dircisi ) il premio della maggiore stima che si godrà da chi la merita, oltre
alla soddisfaziou generosa dell’ animo proprio. Vi sarà il piacere di sentirsi
lodato j di vedersi onorato, consultalo sopra gli altri. Ma questo é
dimenticare, che si fatto premio già c’é nell’ordine odierno, e pur non basta
senza quegli altri che oggi vi sono, anzi non basta nemmen con quegli altri.
Questo é dimenticare che noi siam composti d’anima e di corpo, 1' uno e l’altra
co’ suoi speciali bisogni, e perciò cogl'interessi, e co’ diritti suoi (
purtroppo i secondi essendo, di più, meglio sentiti che i primi ). Questo è il
togliere de’ due ordini di molle, che natura ci ha dato per impulso al
progredire, uno de’ più efficaci; il più efficace de’due; il solo efficace pel
maggior numero de’viventi : i quali, se anche colla giunta della potente azione
di si fatta specie di molle, si spesso, tra color pure che son meglio educati e
disciplinati, si ristanno, c non progrediscono, o vanno all’ indietro, può ben
prevedersi quanto più si ristaranno dal progredire, od andranno all’ indietro
dopo la sottrazione che lor si minaccia. Ma qui non si fermeranno gl’inconvenienti,
poiché bisognerà bene esser preparati al subire molti altresi di quelli che già
di sopra toccavamo, od analoghi a quelli. Tradotto a pratica, uno od un altro
di cotesti sistemi* per ipotesi, livellatori, senza bisogno di speciali leggi
suntuarie, il naturale loro effetto sarà che diverranno per tutti ugualmente
interdetti certi innocenti, ma vivi, piaceri della vita, a che pur ci ha
preparato natura, e non ci è a disgrado che ci educhi l’ arte ; cioè il
magnifico vestire, la buona tavola con una corona d’ amici del cuore, servita
di costosi manicaretti, e di squisiti vini, e le altre, o simili cose ch’io
diceva ; come dire argenterie, oreficerie, tappeti, arazzi, bei quadri, le
sontuosità de’ palagi, le scuderie popolate da bei palafreni, o da generosi corsieri
.... cocchi, cacce, viaggi, villeggiature, libero ed ampio sfogo a’ propri
generosi impulsi, e ad altri, che, per essere men nobili, non ci son però men
cari, nè men sono innocenti.. ; il poter direasè stesso. Y’è qualche cosa...
v’è molto, di cui son io padrone... di che posso disporre a mio pien
beneplacito, e di che posso, con oneste arti, a me accrescere il godimento,
quanto a farlo mi basti la volontà e l’ ingegno, chiamandolo mio senza che
altri me ne turbi, o me ne coarti ad una data invidiosa misura, l’uso ed il
possedimento. Questa è la vera libertà del progresso. Questo è il progresso
della libertà. Libertà dell’ industria. Libertà piena «senza limitazioni.
Libertà, non della sola persona, ma di quello, che, com’ io notava altrove, noi
consideriamo qual parte, e connaturale contorno e complemento della nostra
persona terrestre, nel senso che già esponemmo. Or si ponga ben mente alla
contraddizione. Si dice, che, ne’ sistemi presenti di reggimento de’ popoli le
libertà son troppo vincolate, e non hanno il loro legittimo slancio,
tiranneggiandole soverchiamente tutti più o meno i governi. Si dice, che il
diritto al progresso è inceppato ; che è giunto finalmente il tempo d’
affrancar l’uomo dalle infami antiche catene; ed intanto i nuovi sistematici
preparano al mondo forme di schiavitù inaudite, e che non sono mai state. La
vita comune è d’ alcuni conventi, e si sa quanta abnegazione del proprio volere
ed istinto costa, e quanto pesa, e quanta virtù esige perchè si giunga a
patirla senza lamento. Altrettanto è dello stare a parte in mano, e del vivere
a misura quale che siasi, ed a spilluzzico in ogni cosa, secondo che altri
assegni o conceda. Quel dover più o manco, giusta la diversità de’ sistemi,
lamentare tra sè e sè con queste voci : « La famiglia me la « usurpa in gran
parte lo stato. La rendita me la limita lo « stato. La nobiltà me l’abolisce lo
stato. La eredità me la « sequestra e me la impedisce lo stato » ( parlo qui
specialmente nella supposizione sempre dalla quale son partito, cioè in quella
de’ livellamenti, qualunque siane il metodo e la forma), non è egli un
costringere ad esclamare chi cosi considera « Io non son più meijuris ! Io mi
son fatto servo dell’ associazione d’ uomini nella quale sono entrato! Questo è
ben altro che società sinaliagmatica di buona fede 1 — Questa è una società
leonina, o una società da « volpe ( ripeteranno ), dove il più poltrone, il più
gaglioffo, il più stupido, il più disadatto, iLpiù vivente a « peso degli altri
è il più favorito o il più furbo, ed ha stipolato in suo favore il monopolio
del massimo vantaggio; « mentre il più attivo, il più industrioso, il più
ingegnoso, « il meglio animato a fatica, quegli che del suo piu contri« buisce,
è quegli eh’ è sopraffatto, eh’ è derubato, eh’ è « vittima! Questo è il mondo
alla rovescia!? Cosi combinisi ogni cosa come lo si voglia, diasi d’ oro alla
pillola meglio che si sappia, cuoprasi con tutti i nastri che si voglia la
trappola, mal s'ha fiducia del riuscire a ingannare altri che i più sciocchi.
Da che l’ effetto ultimo sai che ha da essere l’averti tirato dentro ad una
società a capitale morto, dove, nella liquidazione de’frutti, a te principale
azionista, o dei principali, dee toccare un dividendo pari al dividendo di chi
non ha messo nulla, per poco che abbi saviezza, non si sarai gonzo da
lasciarviti accalappiare. Dopo tutte le quali considerazioni, per ultimo
risultato, e per giunta alla derrata, a si fatta conclusione non si sfugge, che
l’alzarsi al postutto degl’ infimi, e di essi stessi fino a un limite poco
lontano e di piccola elevazione, gioverà ben poco alla causa della civiltà e
del progresso, e rabbassarsi a precipizio, de’ nati per esser sommi, gioverà a
questo ancor meno; e perciò, che, contata ogni cosa, la conclusione finale sarà
il regresso sollecito degli uomini verso quella che sempre s’è chiamata
barbarie, non certo un’accelerazione di passo nel verso opposto. Se
poi.ne’nuovi ordinamenti politici, che si ci si vantano, per salvar la legge di
progresso, e di civiltà, e della naturale libertà di sé e delle cose sue, che
alla civiltà ed al progresso è tanto incitamento, vogliansi conservate le
diversità negli interessi di vario nome, si quanto a specie, sì quanto a grado
(ch’era la seconda parte del mio dilemma), dunque costituirà ciò una terza
categoria di disuguaglianze, crescenti col grado del progresso e della civiltà
; e ammessa la realtà di queste nuove disuguaglianze, come non dovranno
generare elle ancora una disuguaglianza ne'diritti in ragione delle
disuguaglianze suddette? Perchè, io non sarò di coloro, i quali esclusivamente
le convivenze umane risguardano sotto l’aspetto di quelle società A’azionisli
eh’ io poco là mentovava, dove i soli valori de’ puri interessi materiali
d’ognuno, tradotti nell’ idea del proprio tornaconto, rappresentino le azioni
messe in comune, e quindi le correspettività de’ diritti politici da godersi.
Certo v’è altro eziandio, a che gli eterni principii della giustizia
distributiva comandano che s’ abbia riguardo, e spesso un maggior riguardo; e
alcune delle cose dette di sopra mostrano in ciò la mia persuasione in questo
senso. Ma non son io nemmen di quegli altri, i quali la somma e l’importanza
disi fatti interessi non considerano affatto nella ripartizione de’ poteri e
de’ diritti a’ poteri ; e per questo lato, tanta voce vorrebber data al
mascalzone, il quale non ha interessi di possidenza, non d' industria... non di
famiglia (od ha interessi tutti negativi, cioè tutti in opposizione cogl’
interessi di coloro, i quali nell’ alveare sociale sono Tapi operaie e
produttive ; tutti interessi di far guerra alla produzione, alla possidenza,
all'industria... alla famiglia... ; tutti interessi di disordine per pescare
nel torbido), quanta agli altri pe’ quali la società va prosperando, cresce in
affluenza di beni, ed è corpo, regolare, utile, e conducente al fine, per cui
principalmente le convivenze umane sono stabilite. ]si dato mano, e solamente
lo patirono, di che il bene susseguente è poida ricompensa. ]mili, esso uomo
abbia or buono avviamento od indirizzo alla riuscita, or non l’abbia, e ciò,
alle volte per colpa propria, o rispettivamente per proprio merito, altre volte
senza ciò, e contro a ciò: cosicché l’impiego de’ mezzi aberra più o meno dal
fine, e radamente vi conduce ; e, quando vi conduce, lascia sempre molto e
moltissimo di desideralo e non conseguito. Dove le volte, che più o men si
riesce, servono a mantenere l’attività nostra, e la speranza, e il coraggio, e
a preservarci dal precipitare nell’inerzia ; le volte che non si riesce,
servono a ricordarci, che un potere superiore al nostro è dietro la tela, il
quale regge le coso umane, e con occulta sapienza, or ci dà i beni della terra,
or ce li leva, o ce li nega, acciocché pensiamo che non son questi il fin
proprio e sommo a noi proposto. Ma poiché insonuna, concedo io pure, che al mal
governo l’ opporsi con onesti sforzi, invece di esser colpa, è anzi spesso
dovere, o quasi dovere (l’acquiescenza pura e semplice, e la rassegnazione,
quando fosse di tutti, potendo in alcuni casi divenire condannabile, rispetto
almeno ad alcuni: perocché è alto, non di sola virtù, ma di debito, per quelli
che han di ciò competenza : 1. l'illuminare, a il cercar d’ illuminare, i
depositari del potere, in quel che veramente abbiano errato, od errino, massime
quandi l’errore sia grave ed abituale : 2. l’adoperarsi a promuovere la
medicina de’ vizi radicali con indefessi, opportuni, e convenienti mezzi), come
dee procedersi iu questa dilli cile e delicata faccenda? — 'fiuti is thè
qmstion — Ciò sia materia d’un Di quello che al popolo non ispelta, e spelta,
in fatto di governo e di sovranità, e del modo e della misura in che gli
spetta. L’argomento io l’ho toccato qua e là più volle, forse con un po’ di
disordine, ma esprimendo con forza ogni volta l’opinione della quale sono
persuaso. Giova nondimeno tornarvi sopra in quest’articolo, e dir con più
grande asseveranza ancora, che in ogni altro luogo — la principal fonte degli
errori, i quali sul proposito nostro si spacciano, e corrono oggi il mondo,
stare appunto in questo atto d’universale superbia, per che, in cosa, la quale
tanto è legata a fatti providcnziali che si burlano, per cosi favellare, di
tutte le previdenze umane ; la quale tanto poco dipende dalla volontà
de’singoli ; la quale tanto è superiore alla intelligenza delle turbe ; tanto è
diffìcile ad essere trattata come lo si addice ; tanto è poco alla a condursi
per sole deliberazioni d’uomini quali che siano, a grado delle passioni loro, e
nel conflitto de’loro interessi perpetuamente fra loro lottanti : s’argomentano
di credere tra tutti distribuita, ed a tulli appartenente la competenza del
trattarla per Io meglio loro. Don^c è poscia l’opinione si da noi combattuta,
che la sovranità, in radice, è di tutto il popolo, inalienabile da esso,
reversibile in esso, e rivendicabile per esso, tutte le volte che lo vuole ;
esercitarle da ciascuno, individuatamente, ed individualmente, nella porzione
più o men coeguale che gli spetta ; residente di fatto, come potere attuale ed
accidentale nella maggiorità ( più o meno istabile di sua natura) de’cittadini,
che sendosi data la pena di concorrere ad esercitarla, convennero in un
medesimo voto ; ma non ispettante di diritto normale ad essa; perchè la parte
non può equivalere al tutto ; perchè chi non ha parlato, non ha detto niente, e
non s’è interdetto di poter parlare quando che sia ; perchè il diritto delle
minorità, tanto piccolo quanto più si voglia, può essere oppresso, ma non
annullato, nè distrutto; perchè, infine, non può non esser lecito a queste il
cercar di farsi maggiorità la loro volta, acciocché il fatto della sovranità ad
essi o passi, o ritorni. E, per vero, i fautori stessi delle anzidette
sentenze, non osapo analizzarle, od almen confessare, i naturali conseguenti
loro, de’quali conseguenti il principale è, che, cosi insegnando essi, vengono
a dire, insomma, che la sovranità, comunque affidata come potere esecutivo,
legislativo, giudiziario, o quale altro potere che siasi o che si chiami,
obbliga in diritto i soli consenzienti: quanto agli altri, li violenta, ma non
può obbligarli; o, ciò che vale lo stesso, vengono a dire, che la sovranità è
obbligatoria di diritto per nessuno, giacché que’che le obbediscono, in quanto
sono consenzienti, evidentemente obbediscono a sè e non a quella, cioè
obbediscono alla propria volontà di obbedire, nou alla forza imperante della
sovranità, attinta, in massima parte, dagli eterni principii della ragione e
della giustizia ; ed obbediscono perchè son contenti di farlo, non perchè si
credano obbligati a farlo ; ed, in que’che obbediscono, in quanto, a lor
malgrado, vi sono costretti, non dall’autoriLà, ma dalla forza materiale, in
essi ancora l’obbedienza è un fatto sofferto, e non un dovere adempito ; e un’
obbligazione estrinseca, e non un obbligo di vero nome ; o, a dir meglio, è
violazione di diritto, e non diritto, contro alla qual violazione si ba invece
il diritto di mettersi in istato d’ostilità, di cospirare, di muover guerra
flagrante, in detto ed in alto. Il che dire è negare la sovranità, e
ennsiderarla come ud fallo pur sempre, non come un diritto; Tatto di alcuni che
soperchiano tutti, non diritto di tutti contro a ciascuno ; tirannide, e non
sovranità, pe’ dissenzienti ; cosa inutile, superflua, ed illusoria, o
simulacro di cosa pe' danti libero consentimento : ciocché bene interpretalo,
significa poi, che la sovranità, in quanto è potere, pe’soli dissenzienti
esiste ; ma esiste per essi soli come una iniquità ed una ingiustizia, non come
cosa mai legittima e normale : verità si vera, che lo spirito logico d’ uno de’
più sinceri, e de’ più espliciti tra gli antesignani del nuovo liberalismo
(Prudhon) non ha dubitato di confessarla e dichiararla ad alta voce, e per
istampa. In si fatto sistema, pertanto, gli attualmente investiti della sovrana
potestà, e d’ogni sua grande o piccola parte, quali e quanti pur siano, non
sono che semplici incaricati d’affari, privi di plenipotenza, e quasi direbbesi
ad referendum, o piuttosto godenti d’una plenipotenza frodolenta di l'alto a
tutto loro risico, e sotto la loro perpetua responsabilità, come i generali di
Cartagine ; sempre revocabili, sempre soggetti al sindacato di tutti e di
ciascuno ; posti in una siugolar condizione innanzi al popolo : perchè,
ne’paesi dove tutto il popolo non è stalo chiamato, e non è concorso a farli
(messo dietro le spalle ogni diritto di prescrizione e d’usucapione) sono come
se non fossero; usurpatori posti fuori della legge ; nemici pubblici, e niente
meno di ciò : ma, ne’ paesi stessi, dove il popolo è quegli che li elesse negli
universali suoi comizi, non hanno, per le ragioni esposte di sopra, solidità e
realtà alcuna di potere ; burattini da filo quanto a tutti, e tali burattini,
il cui filo dev’essere spezzato il più presto, o quando il destro uc viene,
quanto a’dissidenti. Che se tutto ciò è rispetto alle persone, poco
diversamente dee dirsi rispetto agli atti loro, il cui valore intrinseco è
subordinato sempre all’apprezzamento libero e capriccioso d’ognuno. Ed
altrettanto è ancora delle leggi ; o sian pure quelle che si chiamano
Costituzioni, Carle, Statuti, o simile. E cosi dislruggesi allatto, e si
demolisce l’idea di governo, e si sperperano le convivenze civili, rimettendo
ogni umana congrega nelle condizioni primordiali del viver selvaggio,
ricondotto a’suoi naturali e radicali elementi d’indipendenza degl’individui, e
di forza brutale del più potente, o del numero maggiore, centra il più debole,
o contra il numero più piccolo. Io invece, per finirla, riduco a queste non
molte proposizioni i dettati della ragion pura in si fatta perplessa materia,
sottoposti nondimeno alcuni di essi, nell’applicazion loro, al prudente
apprezzamento delle circostanze. Iddio, a farci appunto conoscere, nella
presente imperfezione ed ignoranza nostra, eh’ egli è il padrone (domitius
dominanlium ), e che noi, per molto che immaginiamo di esserlo, non lo siamo
punto, o lo siamo assai poco, c sotto sempre la legge della sua supremazia,
dispose, c dispone, colla sua direzione occulta del mondo morale, come del
tìsico, le cose in modo, che lo stabilimento de’ governi, nel materiale, e nel
personale, è (storicamente parlando, cioè nella pratica, cosi come dalla storia
universale e particolare de’ popoli ci è dichiarata) un mero previdenziale
fatto, dato o coadiuvalo, sempre, o quasi sempre, da forza di circostanze, indipendenti
il più spesso da ogni preordinala volontà delle turbe ; per le quali
circostanze, o contrastato, o no che sia ne'suoi cominciamenti, esso, da una
esistenza precaria, e spesso irregolare, passa, a poco a poco, ad un'altra
esistenza tacitamente consentita dall’universale, e pacifica, e con ciò
legittimata ; rispetto alla quale, l’azione indesinente de’ due principali
fattori di quest’ordine di fatti (e voglio dire, 1. il reggimento divino delle
cose umane, 2. quella dose di politico senno, che giunge per solito, da ultimo,
a scaturire da qualche parte), più o meri laboriosamente, viene a galla, a
traverso d’ogni difficoltà, in mezzo ai popoli, come una manifestazione
inevitabile alla lunga, dell’idea insita in tutti, ed eterna, tuttoché più o
meno oscurata, di giustizia, di verità, di dovere; ed allora quest’azione, or
lenta, or sollecita, opera in guisa, che l’intollerabile alla fine si fa
tollerabile e tollerato, l’ingiusto si fa giusto, o meno ingiusto, l’improvvido
o provvido, o meno improvvido ; e nascono sistemi e vie di compensazione,
lenitivi, palliativi, rimedi ; e il male che c’è, o che resta, non può superare
una certa misura (tranne quando un decreto terribile di Provvidenza vuol che le
nazioni periscano, o si consumino, e decadano umiliate e contrite), nè può non
avere un contrapposto di beni : cosicché di questo misto si componga quella
dose d’ infelicità terrena, più o meno temperata, che è necessariamente
compagna di questa vita, punizione meritala agli uni ; scuola di virtù, e mezzo
di merito agli altri. A vie meglio mostrarci la verità di questa dottrina, la
Divinità ha in tal forma ordinato il mondo morale, che in que’ secoli di
contumace superbia, o tra quelle superbe nazioni, in cui la verità c la
presunzione della propria sapienza più prevale tra gli uomini, e li spinge a
voler tutti fare e non lasciar fare, ognuno mettendosi innanzi, e cercando
d’esser primo, o de’ primi, ognuno volendo esser dio a sé stesso, e governo, e
governante ; ivi, ed allora, è l’infelicità massima, il disordine massimo, lo
sgovernamelo massimo, la guerra civile imminente o flagrante, l’anarchia, lo
stato convulsivo, od epilettico, delle umane congreghe: disordine,
sgovernamenlo, guerra, anarchia, convulsione, epilessia, che seguitano finché
questo periodo di presunzione non passa, e finché principii migliori, e più
giusti, non tornano a prevalere la loro volta. Intanto perù è giusto
confessare, che, se da un lato, il Creator delle cose, per le ragioni che più
volte adducemmo, non ha concesso agli uomini la perfezione in nulla, e nè manco
ne’governi, ed ha voluto tollerare, e permettere, a volta a volta,
l’imperfezione, anche condotta, in essi governi, fino all'abituale imperizia,
imprevidenza, inettitudine, ingiustizia, e tirannide; da un altro lato, ei non
ba voluto, in generale, abbandonare si fattamente la specie umana all’ impero
del male, anche sulla terra, che non abbiale concesso, nella sua benignità,
mezzi normali di riparo, di resistenza, di rimedio (renduti, egli è vero, per
suoi segreti disegni, ora più, or meno efficaci), e non abbia perciò inserito
nelle ragioni, le meglio addottrinate, de’ saggi in mezzo ai popoli il lume più
o manco opportuno a conoscere in ogni caso quel che è lecito, e conveniente, e
necessario di fare per tentar diuscire di pena, d’ingiustizia, e d’oppressione.
Questa è almeno la regola generale, sebbene, purtroppo, convien dire, che
talvolta, nel segreto della sua sapienza, esso Creatore, permette e tollera,
come altrove notammo, che sì fatto lume in pochissimi splenda, e quasi in
nessuno : di che poi la conseguenza è, che il male del malgoverho, o dura, o
quel che è peggio, per gli sforzi inconsiderati di que’che non vogiion patirlo
s’aggrava, o sia che conservi, o non conservi le prime sue forme. Or quando a
si fatto ultimo flagello non si è condannati (pena, per solito, del lungo
tralignare d’una civil convivenza, confermata nel vizio, e nella cecità
d’intelletto) allora il rimedio, e il riparo, c’è, sol che tutti facciano il
dover loro ; e c’è senza le maledette rivoluzioni, senza le illecite
cospirazioni e sette. C’è per la forza pacifica ed infallibile delle persone, e
delle cose. Del quale riparo e rimedio le massime io le ho sostanzialmente, qui
indietro dette, nell’articolo. E non è, che, in si fatto ufficio non abbia ognuno
la sua parte legittima. Solo bisogna confessare, che la parte non può nè dev’
essere in tutti uguale, e la stessa. La prima e principal condizione è il
coraggio civile (giova ripeterlo : il militare guasterebbe tutto, infondendovi
dentro le sue furie), coraggio prudente, ponderato, modesto, mantenuto sempre
rigorosamente dentro i limiti del permesso dalla legge, ma perseverante,
istancabile, non in alcuni, ma nel maggior numero. Le leggi in nessun luogo son
cosi cattive, che non aprano più di un adito a raddrizzare i torti, e a far
fare giustizia. Bisogna non perdersi d’animo. I forti debbono aiutare i deboli,
dirigerli, farsene avvocati. 1 savi debbon dar mente agl’ insipienti. Questi
debbon ricorrere a coloro che la fama universale indica in ogni luogo come
sapienti ed uomini da bene, per cercar lume, e conoscere se veramente ban
ragione e diritto di lagnarsi, e dentro che misura. Gli uomini da bene e
sapienti non debbono negarsi agl’inferiori.Tutti insistendo nelle vie
consentite da ragione e da legge, e facendo concerto perpetuo di sforzi, ciò,
senza essere una cospirazione illecita, e di setta, e d' armati, è impossibile
che non produca il suo frutto. Ma non bisogna che i primi, a’ quali questo
coraggio sia di qualche danno personale, faccia» perciò meno il debito loro, o
che l’esempio del loro danno distolga gli altri dali’imitarli. Ciò ha da
essere, come nella guerra. 1 feriti, non perchè feriti, finché possono,
lasciano il combattimento, se aspirano al titolo di bravi : e i non feriti non
fuggono perché altri al loro fianco son feriti od uccisi. Solamente bisogna ben
guardarsi dall’ uscir dalle vie rigorose della legalità, e del rispetto che è
interesse di tutti il non dimenticare; e dall’ immaginare, o pretender gravami
e torti, dove non sono. Cosi adoperando, colla metà della ostinazione che gli
odierni settarii pongono nelle loro inconsiderate e criminose mene, certo non è
abuso di potestà, il quale non debba con [Ecco mio de' vantaggi innegabili
dell' aristocrazia. Dov’ella è in forza, e bene e convenientemente stabilita, è
3i grande l' autorità sua, si connatura to il coraggio civile, si spontaneo f
intervento a tutela de deboli, che difficilissimo riesce l'abuso del potere in
cbi lo ha in mano, almeno condotto sino a vizio abituale, ed a quell’eccesso
ch'è tirannide intolieranda, od insipienza equivalente a tirannide.]più
certezza essere corretto, die tentando pazze congiure a moderna usanza. Nè
nego, perfino, che quando i’ abusare nasca da imperfezione di legge, o di
leggi, di questa o queste non possa legittimamente chiedersi il mutamento, e il
raggiustamento a più equa forma. Quando veramente costi, per consenso di tutti
tsavi, che le leggi sono cattive, o talmente imperfette da rendere necessario
un cangiamento, niun può trovare men che giusto il desiderarne e il chiederne
la rettificazione. Il male non istà nel desiderare, e nel chieder ciò, ma nel
desiderarlo e nel chiederlo in modo illecito, arrogante, e perturbatore. Sta
nel volere a forza cattivo, quel che non lo è manifestamente. Sta nel non
andare a rilento in si fatti giudizi, e nei non ben verificare ogni cosa a
norma della sapienza scritta di tutti i tempi, prima d'avventurarsi a
pretendere che la cosa è come la si pensa. Sta nel non aver occhio alle
circostanze, agli effetti probabili, agli scompigli possibili. Sta nel mancar
infine di buone bilance per non trascender mai la giusta misura in nessuna sua
parte : condizione più essenziale ancora, acciocché niuno possa imputare di
sedizione, di ribellione, di fellonia ciò che nel qui discorso senso e modo va
operandosi. Da tutte le quali cose vede ognuno che non discende, nè l’obbligo
assoluto di rassegnarsi al male, che evidentemente è male, nè l’assoluta
assenza di mezzi per medicarlo. Ma non discende nemmeno la pazza politica
massima degl’odierni, che per ultima panacea propongono date forme di [Queste
sono le teoriche. Ma torno a dire, se i savi mancano, se mancan d’ accordo, se
v’ è funesto li svolgimento negl’ intelletti di que’ che so» creduti tali ; se
certi desiderii poco ragionati, e poco ragionevoli, si confondono co’bisogni,
solo perchè sono alia moda, e perché sono intensissimi; se certe lagnanze son
di minimi che si giudican massimi, e che fatte suonar alto più disturbano che
non giovino; se? Allora come non tremare nell’avventurarsi alla pratica? Iddio
liberi i popoli dall’ esser condotti agli estremi qui sopra ricordati; e dia
loro la sapienza vera che li aiuti a scegliere il miglior partito.] governo
applicabili a tutti i casi, come uua calza a maglia. Delle democrazie pure già
dicemmo quanto basta a provare la loro imperfezione essenziale. L’antica
sapienza rappresentata da CICERONE sta per le Monarchie temperate, dove i veri
ottimati, cioè dove le capacità e gl’ interessi han voce preponderante, e tra
gl’interessi, meno ancora i fluttuanti e transitorii (sebbene questi eziandio),
che i permanenti e più tenaci, d’un buono e lodevole patriziato. S’ è perciò
giustamente levata a cielo la timocrazia di Servio Tullio la sapienza del
Senato romano e dell’ aristocrazia inglese, corroborata dalle tradizioni di più
secoli. Ma non tutti gli ordinamenti ( ridiciamolo ) convengono a tutti i
popoli e a tutti i tempi: e chi non ne fosse persuaso, più d’un esempio recente
potrebbe addurne, fatto per iscoraggiare assai del supposto valor pratico di
certe teoriche, le quali poi, quando si traducono in iscena, si risolvono in
bliteri, e in peggio che ciò, vale a dire in danno evidentissimo de’ popoli.
Grandissimo ( a miglior prova di ciò ) è il male che s’è detto, massime nel
tempo nostro, de’ governi assoluti; e i governi assoluti eglino stessi han poi
per loro essenza e natura il grande ed intrinseco male, che con tanta
generalità oggi s’afferma? ( L’argomento loabbiam già toccato alcune pagine
indietro : pure importa tornarvi sopra un’ultima volta ). Messi a bilancia con
tutte le altre forme di governo, e contati, e imparzialmente pesati, i vantaggi
egli svantaggi, traendoli dalla verità storica d’ogni età e d’ogni contrada, e
non dalle menzogne sistematiche di tale o tale altro declamatore odierno, io
non so se un uomo di delicata coscienza oserebbe giurare, che la parte degli
svantaggi preponderi, sempre totale contro a totale, cioè somma intera di fatti
contro a somma di fatti, dal Iato delle monarchie pure, a quel modo che s’ama
asserirlo. Per Io meno questo conto, o vogliasi dirlo bilancio, non è mai stato
instituito colla debita accuratezza, e varrebbe la pena dell' instituirlo:
impresa tuttavia molto più difficile di quel che non si pensa, e da più dotti,
che non sono di gran lunga i giudici di strada. Donde poi deduco, che, assai
più alla leggiera di quel che si dovrebbe, si pronunzia la sentenza assoluta di
condanna, la qual suona nelle bocche di tauti, più per moda, che in forza d’
una dimostrazion rigorosa. Le ingiustizie, le improvidità, le tirannidi
s’incontrano in tutte le forme d’ ordinamenti politici ( cosi insegna la storia
), e le forme le più liberali n'ebbero, e possono averne all’ avvenire, di non
minori che i più tristi degli assoluti governi. Quidleges sine moribusvanae profitiunt
(ridirò col poeta)? Uno o molti che siano gl’ investiti dell’ atto della
potestà, possono del pari abusarne; e, se gli abusatori son molti, sarà il
danno più grave assai, che con un abusatore unico, tranne se alcun si piaccia
del paradosso che più tiranni debbono men nuocere d’un tiranno solo. Le
responsabilità ministeriali, o d'altri ( nome vano ) si dovrebbe ornai sapere
da tutti quel che valgono. Le supposte guarentigie sono sempre un preservativo,
o un rimedio, più illusorio, che vero. Cb’ buoni sono inutili, co’ cattivi sono
insufficienti, per grandi eh’ elle sembrino. Dove furono concesse Ano ad ogni
richiesta misura, gl’incontentabili odierni se ne contentarono forse? Le
probabilità del maggior senno, che parrebber più facili ad incontrarsi nel
consiglio di molti, di quello che in una mente unica, non sono assai spesso, in
tempi di civiltà corrotta, e d’ambizioni flagranti, che un vantaggio presunto,
più che bilanciato, ed annullato dall’altre probabilità delle discordie
intestine tra senno e senno, e delle lotte che quindi nascono. E sovente è più
bisogno di guarentirai da que’che sono scelti à guarentire, che ragionevolezza
di speranze le quali in questi ultimi si ripongano. Hannovi poi circostanze ( è
giusto il ricordarlo ), nelle quali solo le pure monarchie valgono ad operare
il bene delle nazioni; e sonovi beni che soltanto dalle pure monarchie possono
aspettarsi. Ad esse principalmente, se non unicamente, parche abbia riservato
la Provvidenza l'incarico de' grandi mutamenti da operarsi ne’ popoli colla
debita rapidità, rovesciando i maggiori ostacoli : perchè il modificare
ampiamente, e radicalmente, con forza, prontezza e conveniente efficacia, le
sorti d’un popoloso dimoiti popoli a uu tempo, è parte quasi esclusivamente
concessa agli assolutismi de’ Sesostri, degli Alessandri, de’ Cesari,
degl’Augusti, de’ Carli Magni, de’ Federicbi, de’ Napoleoni, certo non alle
disordinate e burascose discussioni de’ senati, de’ parlamen li, de’tribunali,
delle moltitudini deliberanti. Sono sempre, o quasi sempre, gli assolutismi,
che tagliano ultimi il capo alle rivoluzioni, e creano ultimi la stabilità
delle paci. Sono essi una necessità pe’ popoli che vanno in bizzarrie
pericolose e distruttive. Sono essi a volta a volta, grandissimi benefattori
della umanità, piuttostocfaè i suoi principali flagelli. £ di questa
particolare virtù de’ governi assoluti, quanto a prevalenza d' efficacia e di
rapidità, tanto hanno persuasione, perfino i moderni perturbatori, ( torniamo a
dirlo sebbene altrove l’abbiamo già detto), clic solamente perciò hanno
istituito, essi medesimi, la obbedienza passiva delle sette, e
l’assoggettamento senza discussione, e sotto pene terribili, a’capi di esse.
Tuttavia non voglio io qui farmi l’apologista esagerato de’governi di si fatto genere,
e dissimulare gl’inconvenienti a’quali vanno per solito espósti. Non voglio
dare il piacere a’ miei avversari, di poter dire ch’io sono un assolutista
sistematico, perchè abbia con ciò bella occasione la rettorica di certa gente
del gittarmi alla faccia questo rimprovero seguitato da una mezza dozzina di
punti ammirativi. Ho voluto solamente dire che ancora essi governi possono
avere ed hanno il loro tempo, e la loro opportunità; ed in subiecla materia
esaminino (dirò di nuovo) i capi-setta sé stessi prima di rispondere se è vero
o falso. Mi basta avere indicato l’irragionevolezza della troppo universale
condanna la qual di essi governi è fatta, come di cosa assolutamente CONTRO A
NATURA (cf. H. P. Grice), e necessariamente riprovevole. Mi basta aver dato a
conoscere, die vale, anche rispetto ad essi, la regola generale, che non vi può
essere una regola generale di proscrizione. Le circostanze, anche a loro
riguardo, entrano per molto nel giudizio, come in ogni altra maniera di
governo. D’ altra parte, i governi veramente assoluti dove più sono? Tutti il
tempo li modifica. Addolcisce i più severi. Modera i più dispotici, e viene più
o meno accostandoli alle forme di temperata monarchia. Siamo giusti. Dove son
più i Busiridi, i Falaridi, i Tarquini Superbi, i liberi, i Neroni ? Se si
voglia trovar tiranni, nell'antica significazione del vocabolo, bisogna andar a
cercare nel campo repubblicano ultraliberale i Marat, i Robespierre. I voti del
vero popolo, di giorno in giorno, son più ascoltati di quel che vuol
confessarsi; e, se si é di buona fede, non può esser negato, che le concessioni
cominciate qua e là a farglisi, per tutta Europa, son bastantemente grandi per
far dire che nelle altissime regioni non si è tanto sordi, quanto da alcuni si
va spacciando. 1 bisogni reali finiscono sempre coll’essere ascoltati, non per
forza, ma per ragione. Gli esagerati e falsi può colla violenza costringersi a
soddisfarli per un momento, ma vale allora il proverbio. Nil wolentum durabile.
Per chiudere a quel modo che meglio per me si può l’ardua discussione nella
quale sono entrato, io Unirò dunque cosi dicendo a chi tanto si preoccupa del
male dei governi più o meno imperfetti (come se per necessità non dovessero a,
diverso grado tutti esserlo), e a chi perciò, venendo a conseguenze estreme,
niente ha più a cuore ed in mente, che farsi autore e cooperatore di riforme
radicali, da ottener subito, quasi a tamburo battente, ed a qualunque gran
costo, giuste ch’elle sianolo non siano, purché tali paiano a quei che le
dimandano, avuto a sdegno, e messo in non cale il più prudente desiderio e
consiglio de’ miglioramenti graduati, bene studiali, ben maturati, e solo
predisposti e promossi ne' legittimi e tranquilli modi che rispettan la
pubblica pace, e servono ad assodarla, anziché a turbarla. Se veramente ami tu
il bene del tuo paese, fa senno, e pensa che qui non si tratta d’un trastullo
da gioventù, e d’un balocco da capi sventati, per darsi dell’ aria e
dell’importanza, ma della somma delle cose pel presente e per l’avvenire, od
almeno per lunga successione d’anni. Fa senno, e dà prova d’averlo fatto,
giudicando per anticipazione testesso, prima d’assumere il terribile incarico
di giudicare gl’imperi ed i regni. Discendi, Gracco, nel tuo interno, e chiedi,
con buona fede, a te medesimo se t’è lecito di crederti tale da ben sapere quel
che è mestieri sapersi nell’astrusissimo argomento de’ governi, per islendervi
sopra una man temeraria; e se ti puoi, senza farti rosso nel viso, chiamare
uomo di stato, ose, in questa vece, non senti, nel tuo segreto, d’essere niente
altro che un misero pappagallo, il quale ripeti su ciò, senza bene intenderlo,
quel che t’ha insegnato la piazza, o la setta. Non ti lasciare illudere
dall'orgoglio, nè dall’assenso lusinghiero de’ niente maggiori e migliori di
le, ma metti l’amor proprio da parte, e dà sentenza su te, come la daresti
sopra un altro. Tastati addosso, e cerca imparzialmente se trovi sotto il dito
l’economista, il dotto nella filosofia delle leggi, l’intendente ne’ misteri
dell’amministrazione e della finanza, il fino conoscitore della storia umana,
l’uomo freddo, ponderato, esperto, che nel giudicare questioni si diffìcili, si
recondite, si gravi, si feconde di beni e di mali, come sono tutte queste delle
quali stiam parlando, sa, innanzi tratto, esaminare, prima del giudizio,
gl’innumerabili particolari; che concorrer debbono ad illuminare la mente; a
spogliarsi d’ogni passione e d’ogni opinione preconcetta; e, senza dar peso a
insinuazioni d’amici, o di confederati e compagni, discernere, e ben discernere
quel che il luogo, il tempo, le circostanze, gli uomini, gli antecedenti, i
comitanti, i conseguenti, oltre ai principii eterni di ragione e di giustizia,
suggeriscono e richiedono. Va intorno, e parla pettoruto alle genti in questo linguaggio.
Miratemi, e sentenziate voi. Son io veramente l’uomo da rifare il mondo, e da
insegnare agli altri il come? Son io Zaleuco, Caronda, NUMA (si veda), Licurgo,
Solone del secolo illustre ; o sono almeno l’uomo da saper discernere, senza
ingannarmi, que’ eh’ io possa e debba seguitar come capitani in faccenda di si
gran momento? O piuttosto la risposta non l’odi aver già preceduto la dimanda?
Povera mosca del carro (tu dei sapere la favola), va a scuola, e fatti vecchia
prima di toccar solo col pensiero problemi di tanta astrusità. Solamente allora
saprai ridurre al genuino valor loro tanti spropositi di moderne teoriche
assolute, che, messe in prova da già dodici lustri, non han saputo partorire
ovunque che continuati scompigli, e inenarrabili guai sempre ripullulanti a
doppio cornei capi tagliati dell’idra! Povera mosca, solo buona ad esser tafano
atto ad inquietare i cavalli che tirano il carro dello stato, finché un colpo
di frusta ti schiacci. Riguarda ( se non hai le cataratte agli occhi ) nella Francia,
prima maestra di sì fatte novità, e spettacolo e scuoia delle lor conseguenze a
ogni gente... nella Francia già più volte rovinata, e data per queste a
scompiglio, e le più volte, non da mani forestiere, ma dalie proprie. Riguarda
a’ be’frutti delle agitazioni tedesche. Riguarda a’ bei fruiti delle agitazioni
di questa misera Italia, qual ella è or fatta per colpa di simili tuoi ! Gusta
il Progresso che han generato i tuoi pari, la ricchezza e la prosperità eh’ è
opera loro! Basta ornai. Basta. La terra ha bisogno di tranquillità, e, a tuo
dispetto, saprà come darsela. Cosi ti risponderà, e ti risponde il mondo : non
quello veramente nel quale tu vivi, ma quello in mezzo al quale dovresti
imparare a vivere, per tua istruzione, ed emendazione, e per l’altrui pace. Ma
ti risponderà, e ti risponde anche altro. Ti dirà, e ti dice. O tu, che ti
proponi niente meno che di metterti il grembiule di Prometeo, cioè di rifare la
gran famiglia umana in quella parte che rende a lei possibile il viver
socievole, cioè negli ordinamenti de’ suoi governi, comincia col rifare te
stesso. Volendo insegnare a’ tuoi contemporanei l'arte del comando, insegna a
te medesimo l’ arte dell’ obbedienza, che non sai, o non vuoi sapere. Con
uomini quale tu sei nessun arte di comando, e per conseguente di governo, è
possibile, e l’ esperimento s’è visto. È forse giovato in più d’ un luogo darti
costituzioni, e rinnovarle? É forse giovato accordarti assemblee deliberanti,
libertà di stampa, libertà d’associazione ...tutte le libertà? È bisognato
finir col frenarle dal momento che i pari tuoi v’ han voluto metter mano. E
cosi doveva essere ; perchè ogni governo, anche larghissimo e mitissimo, è
legge e dominazione; e cbe legge, oche dominazione può esservi per tali come tu
sei? Tu ( quel tu eh’ io m’ intendo ) di Dio non accetti che H nome. Tu sei di
quegli uomini, quorum Deus venler est ( riconosciti ). . ; degli uomini
turbolenti, sfrenati, ricalcitranti che chiamano ben pubblico il dar di naso
abitualmente ad ogni autorità, sotto colore di far la guerra agli abusi suoi,
colla presunzione di giudicarli in ultimo appello secondo il privato tuo senno;
degli uomini che ban distratto ogni riverenza, ogni fede al senno antico, ai
documenti de’ secoli passati, alla sapienza accumulata per gli studi comuni de’
migliori cbe in ogni età vissero; degli uomini che ner gano ogni efficacia d’
antica esperienza, e che queste massime non si contentano di professarle per
sè, ma le promulgano giornalmente d’ ogni intorno! Or con te, e con tali quale
tu sei, qual maggiore pubblico bisogno v’è, del bisogno di mettersi in guardia,
e tirare a sè le briglie ? É egli tempo d’allargar la mano alle redini, quando
il cavallo dà continuo cenno di rubarla, e di mettersi alla scappata verso
precipizi!? Pur troppo quando un paese ha la disgrazia d'avere a ridondanza
gente del tuo taglio, facilmente arriva a quella condizione di tempi che o
scusano, o rendono ine vitabili gli assolutismi i più stretti e i più
vessatori. Perchè, non accade dissimularlo. Ecco la massima miseria della
condizion nostra. È peggio che al tempo de’ guelfi e de’ ghibellini. L’ira tien
luogo di ragione. Vendicarsi, ed esterminare sono ornai la parola di guerra.
Sangue! San-gue! Ammazza ammazza! Quel che non s’ osa fare aucora, si dice
pubblicamente che sarà fatto alla prima opportunità. Designane adcaedem
unumquemque nostrum. Poveretti! S’uccidono gl’individui, non s’uccide la verità
e la giustizia. Ma anche a’Principi d’Europa rivolgerò finalmente la rispettosa
mia voce. Purtroppo hanno essi bisogno d’una rivista severa del passato, e
d'una ponderazione accurata del presente a previsione del futuro. Quel che è
stato ed é male, fa d’uopo mutarlo. Quel che è giusto e doveroso in tanto mare
di desiderii, di querele, di mescolate richieste, bisogna farlo. Mai non ci fu
maggior necessità, per chi siede ne’ sommi scanni, d’esaminare gli antichi
ordinamenti, e di recarvi miglioramenti reali e legittimi. Mai non richiesero i
secoli che sono scorsi maggior senno in chi regge i popoli, e per conseguenza
più grande opportunità di circondarsi di buoni, e probi, e saggi aiutatori, e
subalterni. “Riforma!” è la parola favorita del nostro tempo. Riforma non è in
sé medesima parola d’errore. Le riforme bisognano sempre alle congreghe umane,
come agl’ individui. Riforma dunque anch’ essi dicano i re ma non ogni riforma
dimandata le riforme che la vera sapienza politica consiglia, e vuole.
Eruditami qui iudicalis terram. Imparino le genti col fatto, che amate di cuore
il ben pubblico, odiate il male, e vi studiate per quanto è da voi d’affaticare
alla pubblica felicità correggendo intorno a voi, per aver più diritto, e più
facilità a correggere intorno a quei che vi debbono obbedire. Due parole a chi
è per leggere Parere d’un Amico intorno a questo saggio Risposta Prefazione
Opuscolo De’ Fedecommessi e dell’ Aristocrazia Due parole al Lettore Lettera I
Fedecommessi sono una istituzione appartenente a più luoghi c a più genti e
tempi, che non si crede. Conseguenza di ciò Essi hanno una principale e giusta
difesa nell’interesse convenientemente inteso di famiglia Non sono applicabili
ai piccoli patrimoni, ma solo ai grandissimi ivi Perennando lo splendore di
tutta una linea principale po tentemente soddisfatto a uno de’ sentimenti
connaturali all’ uomo Senza i Fedecommessi, le grandi fortune, di necessità,
tra breve, sminuzzandosi, periscono per V intera famiglia, e con ciò essa è
condannata a rapido scadimento 1 Fedecommessi salvano, per quanto esser può, il
patrimonio dalle imprevidenze, dall'incuria, e da’ vizi dei temporanei suoi
possessori, e lo conservano a que’che debbono in avvenire possederlo
Discussione delle ragioni de’ cadetti. E maggiore il numero de'beneficali nel
sistema che qui si contempla di quello che nel sistema opposto pag. ivi Infatti
quei che nel i° sistema godono ( al contrario di ciò che succede nel 2°) sonpiù
numerosi de’ danneggiati I vantaggi d’ognuno de' favoriti sono più grandi, che
i vantaggi d’ognuno de’ favoriti nell' altro sistema Gli svantaggi de’
danneggiati nel secondo sistema sono più grandi che quei de’ danneggiali nel
primo Lettera Soluzione d’ alcune difficoltà 35 Si risponde a chi oppone che il
testatore dee riguardare al bene massimo de’ prossimi ed esistenti, e non,
collo scapito di questi, a quello de’ remoti, e non esistenti ancora, o forse
non destinati ad esistere giammai .Si prova che, oltre al vero interesse delle
famiglie, nel si stema de fedecommessi, meglio che nel sistema contrario, è
provveduto anche all’interesse dello stato Risposta alla obbiezione de’
supposti diritti degli altri figli, che si dicon violali nel sistema da noi
difeso Si torna a distinguere tra i fedecommessi utili, e i dannosi, e si prova
come ne’ primi i cadetti non sono pregiudicali in modo indebito 19 Risposta a
chi oppone l’ accusa di parzialità, e d’ eccitamento alle invidie, a’ disamori,
alle discordie tra pa dre e figli e tra fratelli Esposizione de’ rapporti tra V
erede preferito cogli altri posposti Convenienza del preferire il primogenito
ai nati poi . . M Di nuovo sull’ accusa del supposto fomite somministrato alle
invidie reciproche 45 Indirizzo da dare all’ educazione perchè queste temute in
vidie non nascano Lettera Seguita la soluzione delle difficoltà Non è vero che
i fedecommessi, favorendo il celibato laicale, favoriscano i vizi che vi vanno
connessi 1 matrimoni son più incoraggiati nel sistema qtrì difeso, che in
quello della divisione dell’ eredità per capita, p. 49 È insussistente il
nocumento che la sottrazione di molti be ni rustici, in virtù, de’ vincoli
fidecommissarii, alle speculazioni di compra e vendila minaccia di recare al
pubblico Un certo numero di latifondi legati a fedecommesso, lungi dall’ essere
un impedimento alla buona agricoltura, ed alla pubblica prosperità, sono utili
e necessari al l'unae all’ altra Risposta alla difficoltà tratta dai creditori
dell’eredità defraudali talvolta, quando essa ha il genere di vincolo del quale
qui si tratta Lettera Difesa dell’Aristocrazia Proposizione premessa, che,
distrutti i fedecommessi, è distrutto il patriziato I vizi de’ nobili che sono
da degenerata istituzione non vogliono esser contati soli, ma messi a confronto
delle utilità, e delle virtù ivi Essi vizi possono emendarsi, e le utilità e le
virtù accrescersi : utilità e virtù le quali difficilmente possono trovarsi
fuori del ceto patrizio ivi È nella natura stessa della Nobiltà un seme di
miglioramento nella specie umana, che ne innalza la dignità e la perfezione
Caratteri propri del genuino patriziato La grandezza degli averi in famiglie
non patrizie non può dare i vantaggi eh’ essa dà o può dare nelle famiglie
patrizie Necessità politica in uno stalo dell’ esistenza del ceto nobile, e
particolari servigi, che ad esso esclusivamente sono riservati ed appartengono
Opuscolo Della libertà e dell’eguaglianza civile Del governo e della sovranità
in generale Della così della sovranità del popolo, e della democrazia. Del voto
universale. Delle rivoluzioni e delle riforme de governi ec paff. Della libertà
nel civile consorzio, e decimiti, che necessariamente debbe avere. I più di
qne’ che la dimandano oggi, da ette negano nella loro filosofia il libero
arbitrio, e sono materialisti, fanno una dimanda assurda, cioè chiedono quel
che credono non potere esse r loro concesso Per chiedere la libertà civile,
bisogna essere spiritualista, e cogli spiritualisti non è difficile giungere ad
intendersi in tutte le altre questioni da noi trattate Que’ che chiedono la
libertà, quale e quanta la dà natura, debbon concedere gli usi buoni ed i
cattivi della medesima, ed una legge interna che comanda i primi, e vieta i
secondi, e con ciò debbon concedere di fatto e di diritto che la libertà è
limitata per natura La convivenza civile essendo ordinata a perfezionare
l’uomo, e non a deteriorarlo, la miglior convivenza civile necessariamente dee
dirsi una convivenza ove la libertà naturale incontra nella legge vincoli
grandissimi e maggiori di que’ che ordinariamente le si prescrivono È solo la
difficoltà soverchia opposta dalla corruttela umana allo stabilimento d’ una
piena normalità nelle civili convivenze, quella che impedisce il comandare oggi
tulli i vincoli che bisognerebbero: ciocché non toglie però che il vero
progresso è quello il qual favorisce essi vincoli, e li promuove, anzi che
produrre effetto opposto ivi È per effetto di questa difficoltà che le umane
congreghe si ristringono per solilo quasi al solo governo di quelle libertà,
gli usi o abusi delle quali risguardano i rapporti reciproci de’ cittadini co’
cittadini, non che il loro scopo remolo non debba esser quello d’ordinare a
poco a poco le leggi a una sempre migliore sistemazione, e per conseguenza a
una sempre maggior limitazione, di tutte le altre libertà col fine d’accostar f
turno alla perfezione quanto più puossi. Prime parole sulle leggi che legar
debbono le libertà, e su’coloro che debbono stabilirle; c sulla genesi dell’
odierno domma della sovranità del popolo, e del patto sociale Dèli’ eguaglianza
in generale, e quanto poco esista essa nella specie umana Falsità della massima
che al volgo suole oggi insinuarsi che gl’uomini sono tutti uguali per natura.
.Naturale ineguaglianza fisica tra uomo ed uomo Naturale ineguaglianza morale
Altre cagioni artificiali ed accidentali d’ inegualità; e prima per parte degli
educatori Degli educandi D’altre accidentali cagioni E pel fine stesso che
l’arli educatrici si propongono, e possono non proporsi Si Per ultimo
l’ineguaglianza è la legge generale della natura, in tutto il creato Una delle
principali ragioni, per le quali il creatore volle questa disuguaglianza
Vergognoso abuso che si fa della religione per cercar di persuadere la
contraria dottrina Passaggio al provare che inutilmente si limitano alcuni ed
difendere soltanto l’eguaglianza ne’ fondamentali diritti della vita di
cittadino Dell’eguaglianza nel civile consorzio, e su giudi falsi fondamenti si
pretenda stabilirla Paralogismi con che, dato un quale che siasi appoggio alla
qui combattuta dottrina, cercasi di ricavarne la dottrina del palio sociale,
della sovranità popolare e della democrazia; e conseguenze che se ne deducono,
ivi È falsa l'equipollenza di condizioni pel cui supposto gli uomini
liberamente entrando in una civil convivenza acquistati pari diritto di
fermarmi palli Nè lo stabilimento di questi patti è puro atto di libertà, ma
dee conformarsi a certe massime generali di ragione e di giustizia che
impediscono appunto l’affermata egualità di diritti È non men falso, che gli
umani consorzi quali sono e furono debbano considerarsi come illegittimi e
spurii perchè non individualmente consentiti da tutti e da ciascuno. Passaggio
al provare l'assurdità e i pericoli della dottrina che quindi si suol trarre
per voler sovvertire il passato e il presente a vantaggio d' un futuro
ipotetico Considerazioni contro al preteso diritto di rinnovare le società
umane per accomodarle alle proprie idee preconcette, e contro alle tentale
riduzioni ad atto di questo diritto Confutazione di quattro proposizioni, che
corron oggi per le bocche di molli, e prima, risposta alla i a proposizione,
che il mondo ha bisogno di riforma Che la riforma la qual bisogna è quella che
le scuole democratiche oggi insegnano, e non altra Alla Che la riforma la cui
necessità si va predicando con parole si ha diritto di condurla immediatamente
ad atto; e che non è da lasciarsi trattenere da qualunque ostacolo d’opposta
ragione Che qualunque mezzo dee tenersi per buono e lecito, se al fine conduce
della universale riforma che vuol tentarsi Altre considerazioni sulle riforme
nel reggimento delle convivenze umane in generale, e sul diritto ed il modo di
tentarle Due casi che rispetto a ciò possono darsi. E prima, del caso, in cui
tutti consentano Secondo, del caso in cui siano divisi i pareri, e sia lotta
de' medesimi. Solo e vero diritto che allora si ha Grave torlo dei dilettanti
di malcontento, e parole severe ad essi dirette quando tentano le rivoluzioni
Risposta a certi loro sofismi Danni delle rivolture politiche, quanto a
interessi di ogni genere Incertezza de’ loro successi Difficoltà del ben
giudicare i molivi che spingono a rivolte, e poca fiducia da aversi in coloro
che per solito le tentano Vanità della querela che alcuni fanno, come se tolta
la libertà delle rivoluzioni, il migliore strumento fosse tolto del ritorno a
giustizia. Esame d’ alcuni esempi so lili ad addursi Rimedi più veri e più
ragionevoli contro alle ingiustizie anche abituali de' gox'emi Certi mali sono
conseguenza d’imperfezione della natura nostra, o decreti di provvidenza Essi
sono il più spesso, generalmente parlando, ineritali, ivi Doveri e diritti de’
cittadini sottoposti a cattivo reggimento. De’ governi, e delle sovranità in
generale Ignoranza del popolo quanto alle idee di ciò che è sovranità, e di ciò
che è popolo. Esempio ivi Se un diritto, il quale anche realmente si abbia, sia
sempre perseguibile, e da perseguire Idee preliminari sulla socievolezza, come
una delle condizioni di natura date all’ uomo Il bisogno d" un governo è
uno de’ conseguenti della necessità d’ associarsi. Definizione del governo
Distinzione fra governo normale, e governo legittimo indicata Mentre il vivere
in società è una necessità ingenita, la formazione d’un governo è un bisogno
accidentale, sopraggiunto, e secondario Dottrina intorno a ciò che discende
dalla Fede ivi Distinzionedi tre stati nell’uomo, cosi come oggi lo conosciamo
per sola ragione. E prima dell’ uomo ineducato e selvaggio e delle conseguenze
di questa con dizione quanto a governo Secondo, del? uomo ipoteticamente
perfetto, e di nuovo del governo del quale è suscettivo Terzo, dell’ uomo nè
selvaggio, nè perfetto, cosi come suol essere, c delle innumerabili varietà
delle sue condizioni, donde si trae che il governo il quale gli conviene non ha
nè può avere generali regole, tranne il principio generico che dee
possibilmente esser giusto e ragionevole ivi Questo principio generico non
insegna però,nuUa d’assoluto guanto a necessità di determinale forme nell’
applicar zione, e negli altri particolari a cui si suole applicarlo Niente
dunque v’ha di primitivamente fermo e comandalo intorno alle costituzioni
primitive de’ governi da applicarsi alle diverse genti Della sovranità del
popolo, consistente nella democrazia pura, e rappresentata dal voto universale
Ragionamenti che si fanno per provarla universalmente fondata sopra giustizia e
ragione ivi foro insussistenza. V’è egli un popolo uno ? Tutto ragionevole?
Tulio illuminalo? Tutto probo? Tutto unanime? Conseguenze che discendono dalla
risposta ne-galiva a si fatti quesiti Esame della famosa dottrina circa le
maggiorità, e circa il voto universale Che cosa è il maggior numero ; come si
compone, e che cosa conseguila dai difetti della sua composizione. Se sia vero
che col volo universale si può almeno ottenere il massimo contentamento del
CORPO SOCIALE Fino a qual segno le maggiorità siano maggiorità reali La
democrazia de’ moderni non può convenire ad alcun popolo Essa twn conviene a un
popolo selvaggio Non a un piccolo popolo di pastori e d’ agricoltori Non a un
popolo piti o meno provetto in civiltà per cagione delle disuguaglianze, che la
civiltà tende sempre ad accrescere, e delle loro conseguenze per cagione della
lotta delle virtù co’ vizi delle altre ine-guaglianze che da ciò derivano e
delle necessità che ciò crea per cagione di ciò che costringono a mettere a
calcolo nella formazione delle società le diversità enormi d’ inleressi tra
cittadini e cittadini Conseguenze funeste ed assurde del sistema tanto da
deu-ni idolatrato della divisione de’ beni secondo le leggi della livellazione
universale Differenza sleale di linguaggio che usano i propagatori delle
dottrine nuove quando parlano col volgo, e quando colle persone educale a
ragionamenti Dilemma ad essi proposto. Vogliono essi o non vogliono rispettata
la differenza di grado negl’interessi, e tenulane ragione? Se no, conseguenze
necessarie e lui (uose della neqativa Se si, dire conseguenze di ciò
diametralmente opìwsle a quel che pretendono e vanno spacciando Continuazione
dello stesso argomento. Traltazione d’ deune obbiezioni die quali si cerca
rispondere. Risposta die lagnanze di que’ che lamentano il vilipendio e l’
oppressione del povero popolo, e agli eccitamenti che gli danno a redimersi a
ogni patto Leggierezza, e spesso insussistenza de’ giudizi che su questo
proposito s avventurano Mate usanze introdotte rispetto a ciò, e perniciosi
effetti di esse Diritti esorbitanti che si vorrebber dati alle turbe a fine di
prevenire gli abusi dell’ autorità imperarne, e di farli efficacemente cessare,
ed estirpare radicalmente. Catastrofi inevitabili alle quali non potrebbe non
condurre la riduzione a pratica di tutto questo ordine (Videe. Parere intorno a
ciò di CICERONE e di Platone ed esempi moderni contraddizione con sè stessi de’
difensori delle dottrine fin qui impugnate, i quali mentre affermano di combat
tere per la libertà, impongono servitù inlolleranda ai loro proseliti, e cosi
mostrano che colla libertà da essi predicata il governare comunque le volontà
umane è impossibile anche a lor giudizio Le stesse ragioni colle quali lentan
essi di scusare questa contraddizione provano contro di loro Di nuovo delle
ragioni, per le quali la formazione a priori d' un ottimo governo, e lo
stabilimento il più ragionevole della sovranità non ha regole generali, e
costituisce un problema di difficilissima e quasi impossibile soluzione,
massime quando la soluzione al popolo s’abbandoni Pochissimo, e quasi titilla,
rispetto a ciò, può attingersi, ne’ particolari casi, dalla sapienza generale,
e quasi lutto esige in essi le deliberazioni ad hoc d’uomini i più saggi Or
Alcune volte quest’ uomini non sono presso il popolo del quale si tratta Spesso
non in sono in sufficiente numero, e tale da essere facilmente trovati ed
utilmente ascoltali Diffìcilissimo è distinguerli dai cerretani che simulati
sapienza ed esperienza, e tendono con male arti a mettersi inmnzi e prevalere
Non dirado, anche cotisultati, rendono intralciatissima la deliberazione, non
essendo tra loro accordo di pareri Spesso ancora accresce la difficoltà il
tnescolar che essi fanno all’ interesse della causa pubblica, quello delle
private loro cause, delle loro passioni e simili, E tuttociò vale, quando, a
società non costituita ancora in alcun modo, trattasi di costituirla. Peggio è
che il più spesso le società umane sono già costituite, e v’ è la question
preliminare, se sia giusto, conveniente, e possibile il disfarle per rifarle
Lotte per solito che in tal caso nascono tra conservatori, e riformatori, e
discussione de diritti degli uni e degli altri e delle contitigenti conseguenze
di esse lolle Del perchè e del come il problema del governo e della sovranità è
presso a poco insolubile a priori por l’umana sapienza Cardine della questione.
Doppia natura dell'uomo Bisogni ed istinti numerosi della vita terrena, che non
son fatti per ottenere la soddisfazione loro durante essa vita Motivo e fine
occulto, e non troppo occulto, di ciò Applicazione di questa dottrina anche al
particolare problema qui discorso E nondimeno non può dirsi che un qualche
rimedio alla frequente imperfezione degli ordinamenti civili non sia dato in
terra all’ umana specie. Ritorno, rispetto a ciò, a una quislione già altrove
trattata Di quello che’ al popolo non ispella, e spelta, in fatto di governo e
di sovranità, e del modo e della misura in che gli spetta Principal fonte delle
false opinioni che intorno a ciò corrono tra’ moderni Si torna all’esame della
presunta distribuzione tra lutti del diritto competente a trattare e risolvere
sì falle questioni ivi Una conseguenza ultima ed inevitabile di si falla
dottrina è che la sovranità non obbligherebbe dunque che t ~ soli consenzienti,
o piuttosto non obbligherebbe alcuno, e cesserebbe d’ esistere in altro modo,
che come una cosa da giuoco ed assurda li altrettanto sarebbe di tutte le leggi
Teoremi più veri eh’ io credo doversi sostituire alle opinioni dominanti delle
turbe male istrutte. Proposizione Due parole su i governi assoluti Protesta
Conclusione ed Epilogo Esortazione ai predicatori di rivoluzioni e di novità
politiche Poche parole a’ Principi Indice ragionato Lin. CORRIGE Urliamo
Gridiamo fili le ristampa con emendazioni edizione di lilosolia di buona
tilosofia collaterali collaterali almeno prossimi in quella società in quel
consorzio nipoti nostri nipoti nostri, e, se non di tulli almeno di (pianti più
ci è lecito civil società civil congrega all'opposto per all' opposto (almen
quanto alla linea privilegiala), tra pe’ fratelli poi-nati lTl pe cadetti
quello dico quello dico pur mentovalo contechè alla breve ir società
consociazioni son le difficoltà son difficoltà le propensioni le agevolezze pii
uomini gli uomini senza rovinarsi Kit de' Babilonesi degli Assiri c clic e che
se CONSIGLIO GENERALE DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE Napoli.Vista la dimanda del
Tipografo Marotta con che ha chiesto ristampare il primo volume dell’opera
intitolata Opuscoli politici d’O. Visto il parere del Regio Revisore Capone. Si
permetta che la suddetta opera si ristampi, però non si pubblichi senza un
secondo permesso che non si darà se prima lo stesso Regio Revisore non avrà
attestato di aver riconosciuto nel confronto essere 1’impressione uniforme all’
originale approvato il Presidente interino: Saverio j4 puzzo, ìl Segretario
interino : Piktrocola. Francesco Orioli. Orioli. Keywords: implicatura. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Orioli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Ornato:
la ragione conversazionale o dell’implicature conversazionali nella
conversazione d’Antonino con Antonino – la scuola di Carmagna -- filosofia
piemontese -filosofia italiana -- Luigi Speranza (Carmagna). Filosofo italiano. Carmagna, Cuneo,
Piemonte. Visse vita ritirata, modesta e schiva d'onori e ricchezza intesa
soltanto allo studio. Coltiva le scienze fisiche e matematiche, la filologia,
la poesia, la musica e con singolare amore le discipline metafisiche. Sii
trasferisce a Torino dove frequenta alcuni esponenti dell'aristocrazia sabauda.
Tra le sue amicizie più importanti Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei
concordi è insegnante di matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato
nella segreteria dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente
professore presso la Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari
e nominato da Santarosa Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si
rifugia in esilio a Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin
e la sua casa è frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter
rientrare in Italia e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti
Pellico, Provana, Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà
sepolto nel cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna,
traduzione dei “Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti
di Leone Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, Becchio
Calogero, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono essere reperiti
nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su
comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero
Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e
contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla IMPRESSIONE
che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a quello secondo che
quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del lasciarci guidare
unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in mente a caso, seguendo quelli
che eccitano più la nostra attenzione. Due stati passivi, dove l’uomo non
esercita punto la volontà nè l’intelletto, ma segue ciecamente, nel primo, il
caso esterno, o nel secondo, il caso interno, cioè quella che è stata nomata di
poi legge di associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha
scopo. Il primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo
nel sogno. Quello, proprio del giovane troppo dedito al senso. Questo, del
vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire il
difetto del giovane si esorta a fuggire quello del vecchio. Il carattere che fa
riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare, cioè il parlar senza
costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè stesso che l’uomo può essere
rimbambito già anche quando non parla ancora senza costi itto, non vaneggia
ancora in parole, se egli fa delle azioni senza costrutto, o vaneggia nelle
azioni: il che ha luogo ogni volta che esse azioni non sono collegate tra sè,
non hanno unità, cioè non sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo.
Questo lodare la compassione senza aggiungere con Epitteto che ella debba
essere puramente esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al
principio stoico. La compassione essere come tutti gli altri affetti un moto
irragionevole dell’anima, e contrario alla natura, il saggio non essei'c
accessibile alla compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo
medesimo §, dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione.
Ma è una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge
talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul punto particolarmente della
compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso
tutti gli uomini e Antonino uno stoico poco fedele al principii della sua
scuola, e segue piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il
sentimento della pietà essere il carattere distintivo delle belle e grandi
anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non togliete nè
Voltare dal tempio y nè dalla natura umana la compassione. Fu in questa
deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del Portico
Antonino e stato preceduto da altri romani illustri del PORTICO. Il che non
potea non avvenire, perchè secondo un antico senario greco, il cuore soltanto
del malvagio non è capace di essere ammollito. E però il severissimo CATONE
minore, già deliberato in quanto a sè di morire, pianse, come narra Plutarco,
per pietà di tutti quelli amici e concittadini suoi che eransi pur dianzi
affidati ad un maro procelloso per non lasciarsi cogliere in UTICA da GIULIO
(si veda) Cesare vincitore, come avea pur pianto alcuni anni innanzi per un fratello
amatissimo, quando trovandosi esso CATONE minore al comando di una legione in
Macedonia, alla novella che il detto fratello era moreute in Enos città della
Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da Tessalonica, contro
l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare tempestosissimo, E GIUNTO IN ENOS
TROVA IL FRATELLO GIA SPENTO (Plut., vita di Catone). E pianse certamente
TACITO, benché del PORTICO anch’egli, quando, dopo aver narrato come e vissuto
e morto, non senza sospetto di veleno, Giulio AGRICOLA suo suocero, aggiunge
queste patetiche parole. Beato te. Agricola, che vivesti sì chiaro e moristi sì
a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto. Quanto a te, quasi
scolpandone il principe. Ma a me e alla figliuola tua, oltre all’acerbezza
dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non ci sia toccato ad
assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di abbracciare,
baciare, affissarci nel tuo volto. Avremmo pure raccolti precetti e detti da
stamparli nei nostri animi. Questo è il dolore, il coltello al nostro cuore.
Senza dubbio. o ottimo padre, per la presenza della moglie tua amatissima, ti
soverchiarono tutte le cose al farti onore. Ma tu se stato riposto con queste
meno lagrime, e pure alcuna cosa desiderasti vedere al chiudere degl’occhi
tuoi. Fra le varie divisioni dei beni appo IL PORTICO, l’una è questa, che dei
beni altri sono finali, altri efficienti, altri e finali insieme ed efficienti.
I beni finali sono parte della felicità e la costituiscono. Gli efficienti solo
la procurano. I finali ed efficienti insieme e la procurano e sono parte di
quella. Del primo genere sono la letizia, la libertà dell’animo, la
tranquillità, ecc. Del secondo, l’uom prudente ed amico. Del terzo, tutte le
virtù. L’uom prudente ed amico è un bene efficiente, perchè muove con la sua
dispozione razionale la tua diapoaizion razionale, cioè è occasione a te di
buone azioni. E nello stesso modo è un bene di quel secondo genere ogni cosa, o
sia pensiero o altro, che è occasione a te per camminare verso la perfezione.
Di questo bene parla ora ANTONINO (si veda). Il quale, per l’esser solo
efficiente, e non finale, cioè pel non essere accompagnato ancora da quel
sentimento intimo di gioia perfetta che costituisce la felicità, non attrae
invincibilmente il tuo volere; ed è necessario quindi, perchè operi veramente
sull’uomo, che questi si sottragga da tutte le altre cose che ne lo possono
sviare -- conferisci quello che ne insegna la teologia intorno alla grazia. E
quando ANTONINO chiama questo bene razionale -- che è attributo generale del
bene appo IL PORTICO -- il fa per opposizione al preteso bene dell’ORTO, che è
sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo bene – o
OTTIMO --, giudica che il bene sia sensibile: noi il giudichiamo intelligibile.
E più sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste cose e necessario
notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove la maggior parte dei
cementatori ed interpreti ha voluto cangiare la parola efficiente in “civile” o
vuoi “sociale” con manifesto danno del senso e del pensiero di ANTONINO.
Dispensazione, in greco “eco-nomia”, vale generalmente governo della casa,
amministrazione. E perchè molte cose si fanno pel governo della casa, le quali
da per sè sole non si farebbero -- come per esempio il risparmiare certe spese
perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al mantenimento di quella -- quindi
è stata applicata questa voce ad ogni cosa che si faccia con fine
provvidenziale, benché sia di nessun pregio in sè od anche noiosa; come p. e.
il gastigare i rei. È usata sovente IN QUESTO SENSO [O IMPLICATURA] dagli
filosofi latini di tarda età, e del PORTICO ed altri. È tra noi disusata perchè
è DISUSATO IL CONCETTO ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica cittadinanza
in Italia alleghera il passo seguente di Cavalca, l’ultimo dei citati sotto
essa voce nel V. della Crusca (Medicina del cuore). Per divina dispensazione
avviene che, per li pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione ed
infermitade arda e salvi l’anima. Da una nota d’O. credo che, quando la scrive,
inclina per l’interpretazione di questo luogo, a dar ragione a Xilandro contro
i posteriori. Se non muta poi di parere, IL SENSO (O IMPLICATURA) DI QUESTA
ESPRESSIONE con libertà di parole dovrebbe essere liberalmente cioè con
liberalità di parole, o generosamente poiché così anche lo Xilandro intende lo
£À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo raccomandare la generosità nelle
preghiere, ANTONINO intende di biasimare le preghiere che non mirano che all’interesse
proprio di chi lo fa. E però loda quella preghiera degl’ateniesi, i quali, al
dire di Pausania, soleno pregare non solo per TUTTA L’ATTICA, ma anche per
tutta la Grecia. Auto nel senso peripatetico del Lizio e scolastico, è
l’affezione costante deWente: e per quel carattere di costanza si distingue
dalla disposizione che è variabile. Appo IL PORTICO è la forza o virtù
(andreia) che mantien l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi
favellano, è spirito -- intendi aria -- che mantiene il corpo e il contiene.
Perchè l’ente ò corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice Senone, penetra
per tutte le cose particolari e le mantiene e governa: ma non tutte nel
medesimo modo: perchè nelle une si manifesta come abito -- pietre, legni --;
nelle altre come natura -- intendi principio organico mero: piante, alberi --;
nelle altre come anima -- principio animrle mero: bruti --; nelle altre ancora
come mente e+ ragione -- anima ragionevole universale e sociale appo ANTONINO;
uomini. Le cose governate dall’abito sono adunque i corpi dove non è altro
principio costituente che il generale di corpo, dove per conseguenza non è
altro carattere distintivo che quella affezione -- modo d’essere -- costante
por cui sono il tal corpo anziché il tal altro. Sono la classe infima e
generalissima di corpi, che noi chiamiamo inorganica. Nelle cose governate
dalla natura, oltre al carattere generale di corpo v’ ha già il carattere
d’organizzazione. Nelle cose governato dall’anima, oltre al carattere di cor
poreità e di organizzazione, v’ha di più quello di animalità ecc. Le classi si
van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per carattere la
razionalità. In questo il testo è. in più d’un luogo corrotto, e verìsimilmente
havvi anche qualche lacuna. Non potrei dire precisamente quali sieno le
emendazioni seguite o fatte da lui, perchè una sua lunghissima nota sulle
difficoltà di questo paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran
parte non intelligibile, è anche manchevole, essendone stato lacerato via, non
so da chi (forse dall’O. medesimo per aver mutato parere), un mezzo foglio. Nel
voltare in italiano io mi sono discostato il meno possibile dalle sue parole
stesse e ho serbato inalterato il senso della sua interpretazione. Questo
paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei quali l’emendazione e
inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli interpreti. O. lascia
scritto al principio di una lunga nota: Di questo veramente corrotto paragrafo
non so che partito trarre. La sua interpretazione che io seguii nel
volgarizzamento vuol dunque essere accettata con quella medesima riserva con
che egli la propose. La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e
fors’anche mutilata. O. non la tradusse in alcun modo, riserbandosi di farlo
quando avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia
molte note. Nel mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da
Schiiltz, non perchè egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non
seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi
corregge in un modo e chi in un altro, e chi ancora difendo la vulgata. Io ho
seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla quale parvemi almeno di
poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il paragrafo conf. anche V, 33,
e Seneca. More quid est? aut finis, aut transitus. Tutti gli interpreti che io
conosco finora, compreso anche Gataker, il quale nondimeno si scosta dal vero
meno che gli altri, pigliano qui il granchio (fan pietà Dacier o Joly che
seguono ciecamente Gasauhono, come fa pure Barberini: iMilano poi è la stessa
pecora sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme,
siccome fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv e il ToO xóojjiou ’hys.u
Qvixdv; quando anzi nella distinzione di queste duo cose è fondato il senso di
tutto il paragrafo. La toO SXou qjvlcjis è la potenza creatrice o facitrice
primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou è la potenza governatrice, dipendente da
quella prima, generata, o formata da quella prima. Siccome la natura dell’ uomo
forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo non meno che il corpo; e la mente
dell’uomo poi gOTema il corpo. Il senso adunque di tutto il paragrafo è questo.
La natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il
mondo, dandogli, per così dire, un corpo ed una mente. Ora, o questa mente, a
cui è affidato il governo del mondo, segue la ragione (perchè la mente nel
senso dello ìf£|jiovixbv può anche talora essere sragionevole). E allora tutte
le cose che ella fa, sono quali le ha determinate generalmente dà principio la
natura formatrice del tutto, sono involute in quella prima determinazione, sono
conseguenza necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente
non segue sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove
accadere che non solamente le cose di minor conto che ella fa, ma anche le cose
principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che nelle cose
principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere sragionevole nè anche
in quelle di minor conto; dunque tutte le cose vanno secondo ragione. Godo di
aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato e quindi trarre in luce la
precedente nota (la cui redazione sarebbe certo migliore se l’ autore avesse
potuto ripulire e pubblicare egli stesso il suo lavoro); perchè
l’interpretazione e illustrazione contenuta in essa è ingegnosissima,
naturalissima e confermata da tutto quello che conosciamo della fisica degli
stoici. La natura universale (n toù óXov (pdcjts), la potenza facitricc o
creatrice è il divino puro, il quale trae l’universo dalla sua propria
sostanza, è l’unità assoluta senza distinzioni e diversità di parti, è la
natura naturane; la potenza governatrice, la mente che governa il mondo
(TÓrìysixovixóv toù xó^jxou), generata da quella prima, è all’incontro,
nell’attuale diversità delle cose,' nella nauìra naturata, nel mondo
propriamente detto e composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza,
l’anima di esso corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo § è ora
da aggiungersi Pierron. Ed è tanto più da stupire che il sig. Pierron abbia
egli pure sì mal compreso, in quanto che, avendo egli già prima tradotto la
Metafisica di Aristotele, dovea essere sufficientemente versato nelle dottrine
filosofiche delle principali scuole della Grecia. Quasi tutti i traduttori
hanno franteso questo luogo, pigliando l’iwoia per intelletto ragione e
traducendo quindi: vide ne intellectus hoc feraf.... il senso letterale,
aggiungendo ciò che è sottinteso, è: vedi se la nozione (che tu hai di te
stesso come uomo) soffre cotesto, soifre cioè che tu dica esser nato a goder
dei piaceri. Pierron, seguendo l’ esempio di tutti i suoi predecessori, pigliò
anch’egli Vhvo'.a per intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena à le
prétendre. Colia bontà delle singole azioni vuotai procacciare di ben comporre
la vita. Il testo e bravissimo. Talvolta troppo fedele alla lettera e studioso
di conservare tutta la brevità dell’ originale, avea tradotto: ai vuol comporre
la vita mettendo inaieme le azioni ad una ad una; poi comporre inaieme la vita
accozzando le azioni ad una ad una; poi allogando le azioni ad una ad’una. Non
credo che so avesse potuto ripulire e terminare egli stesso il suo lavoro, si
sarebbe contentato di alcuno di questi tre modi, che tutti peccano di oscurità
e di ambiguità. A costo dì essere men breve, io ho creduto di dover essere piò
chiaro non solo in questa frase, ma in tutto questo paragrafo, svolgendo un
poco il concetto dell’autore siccome io l’intendo. Quasi tutti gli interpreti
frantendono. Nel novero degli interpreti che frantesero questo luogo comprendi
ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz. L’errore
sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae col ófUTw che precede; laddove si
riferisce all’azione alla quale l’animale ragionevole tendea e nella quale è
stato impedito. E ciò pare che abbia poi capito lo Schultz nella sua seconda
edizione del testo greco, avendo egli posto una virgola dopo il óutù. Se tu
vo/eafi ftema la debita ritterva, che da lei etesaa; cioè a dire: se tu volesti
assolutamente e non a condizione soltanto che la cosa fosse possibile; questo
atto della tua volontà fu veramente un male, perchè, come è detto altrove, l’
animai ragionevole non dee voler nulla che non sìa in poter suo, ed anche il
bene relativo, non dee volerlo se non se condizionalmente, cioè in quanto sia
possibile; rimpossibilità essendo per gli stoici sinonimo di non voluto dalla
natura e dal destino, al quale il savio non dee ripugnare. Che se poi la cosa
voluta da te fu una di quelle che non sono pur buone in senso relativo, e
quindi il volerla fu un appetito, prendendo il vocabolo volere nel significato
volgare, cioè un moto del senso, piuttosto che della volontà ragionevole; tu
non ricevesti nocumento nè impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma
bensì mento, ragione o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo
la tua propria natura non puoi essere impedito da nissuna forza esteriore. Così
intendo questo luogo, così certamente è stato inteso dall’ Ornato (assai
diversamente dagli altri interpreti che io conosco, Gataker, Schultz e Pierron,
e questo senso ho procurato, di esprimere traducendo. O. lascia una breve nota
a questo luogo, ma in essa non fa che avvertire le difficoltà del tradurlo,
stante la povertà dell’italiano,comparativameute al greco, e scusare l’
oscurità e l’ ambiguità della traduzione tentata da lui. Di tutto questo
paragrafo fa quattro tentativi diversi di traduzione, tutti laboriosissimi,
come appare dalle molte cancellature e correzioni. In margine alla quarta od
ultima prova scrisse: Sta qui fermo, perche farai peggio se cangi. Non fu
quindi senza molto bilanciare che mi risolsi a fare io, come feci, una quinta
prova, essendomi sembrato che il miglior partito fosse qui di tradurre
letteralmente, e spiegare i sensi del testo nelle note. Ad illustrazione del
senso stoico di tutto il paragrafo ricordiamoci priinierainente che secondo gli
stoici: c Dio, considerato dal lato fisico, è la forza motrice della materia, è
la natura generale, e r anima vivificante del mondo; considerato dal lato
morale, è la ragione eterna che governa e penetra l’universo, è la provvidenza
benefica, è il principio della legge naturale che comanda il bone e proibisce
il male. Ricordiamoci ancora che l’aria, come uno dei due elementi attivi e
parte essa stessa della sostanza divina, ò dagli stoici considerata come il
principio della vita sensitiva. Dice adunque Antonino: non contentarti oramai
di essere unito con Dio a quel modo solamente che sono uniti con lui gli esseri
solamente sensitivi, cioè per mezzo della respirazione; ma fa’ ancora di unirti
con lui a quel modo che si appartiene agli esseri intellettivi, cioè con
cognizione e accettazione libera dello scopo che Iddio ha proposto
all’accettazione libera di quelli. E però, siccome tu traggi dall’aria ambiento
gli elementi della tua vita sensitiva, traggi ancora dalla ragione ambiente gli
elementi della tua vita intellettiva. L’esistenza delle cose dissolvendotù
(Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti
(JiOop^). Qui mi pare che fosse il caso di dovere assolutamente abbandonare la
lettera e contentarci di esprimere il senso del testo, piuttosto che cercar di
tradurne le parole, che non sono traducibili in italiano. L’Ornato avea detto:
tutte le, cose vanno soggette a mutazione. E tu stesso ti alteri continuamente,
e peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era contento, come appare dall’usato
segno. E in vero che significa quel tutte le cose vanno soggette a mutazione f
Significa, e non può significare di più, che tutte le cose possono essere
mutate e lo saranno effettivamente quando che sia; ma ciò liou esprime quella
condizione delle cose, per cui non hanno stato, o modo di essere che perduri
pure un istante senza mutamento, che è la vera condizione delle cose secondo la
filosofia di ANTONINO e voluta esprimere da lui. Chi dovesse tradurre questo
luogo in tedesco, lo potrebbe fare, parmi, benissimo dicendo: Alle (Unge aind
in unaufhorlichem anclera-werden; come si dice in werden non solo dai filosofi,
ma anche nel linguaggio famigliare, quando di una cosa che non è ancora, ma si
sta incominciando 0 si va facendo, si suol dire: Die Saehc iat noch ini werden.
Ma la nostra lingua italiana non ha tutta la flessibilità del tedesco, uè
sarebbe chiaro, uè permesso il dire in italiano: tutte le coae sano in un
continuo mutarai. È una singolare coutradizione di Marco nostro e di altri del
PORTICO poateriori il venir cosi spesso parlando con tanto dispregio della materia
che aottoatà alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, — A"edi anche YI,
13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un animale perfetto e bellissimo,
il cui corpo è la materia, e l’anima, Dio. Le rughe sul volto del vegliardo, le
screpolature delle ulive e del fico vicini ad infradiciare, la bava del cignale
ed altre sì fatte cose hanno pure una certa grazia e venustà, perchè il mondo è
perfetto, e nulla è nelle suo parti che non conferisca alla bellezza del tutto.
Perchè dunque ora tanto dispregio non solo per tale o tale altra parte, ma
universalmente per tutta, la materia che sottosta, quando questa materia, che
non è poi altro per gli stoici se non se il suhstratum indeterminato di tutto
il contingente sensibile, è essa pure sostanza divina secondo la scuola?
Intendi: « o tu voglia dire che il mondo sia stato formato di atomi. ed abbia
quindi origine dal caso; o che sia stato formato di nature (essenze,
entelechie, monadi), ed abbia quindi per origino l’ intelligenza, o la natura,
che qui è sinonimo di intelligenza; questa cosa pongo io certa anzi tutto, come
tratta dalla mia osservazione immediata, che io sono attualmente parte di un
tutto governato da una natura. Con altre parole: o tu faccia venire il mondo
dalla pluralità, o tu lo faccia venire dall’unità, ella è cosa di fatto che io
ci ravviso attualmente una pluralità governata da una unità. Il qual metodo di
filosofare, per cui, lasciata stare la disputa intorno all’origine delle cose,
si viene ad esaminare la realtà attuale di esse; lasciato stare il lontano e
mediato, si viene ad osservare l’ immediato e prossimo; lasciata stare la
cognizione dedotta, si viene a far capo alla cognizione di fatto acquistata per
osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il lettore che appo stoici mondo, tutto,
natura, Dio sono V sostanzialmente la stessa cosa, e però quelle che poco
innanzi furono chiamate parti del tutto, qui sono dette della natura. Dìo,
natura, mondo, tutto sono espressioni diverse che corrispondono a modi diversi
di considerare una stessa cosa, e questa diversità è relativa alla mente finita
dell’uomo che non può simultaneamente contemplare gli aspetti e momenti diversi
delle cose, e non alla realtà obbiettiva. Quindi ò che le espressioni
soprascritte sono non di rado usate runa per l’altra, poiché sostanzialmente
significano la medesima cosa. Il mondo KÓrfixog), dice Laerzio, er DAL PORTICO
considerato: 1® come causa 0 pbtenza informatrice di tutte le cose che sono
{natura nuturans, i; t£ Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la quale, come artefice
e informatrice di sé medesima, trae da sé stessa e informa tutte le coso con
suprema saviezza e divina necessità, cioè secondo le sue leggi che sono quelle
della ragione; 2" come la totalità delle cose informate e ordinate dalla
potenza informatrice immanente in esse e governatrice di esse (dotta allora xòv
Toù xd^fjLou) e quindi come l’opera vivente, il vivente organismo, o corpo
organato da quella {natura naturata); finalmente come l’unità dei due, cioè
dell’ organismo vivente e della forza organatrice e governatrice, in quanto
l’uno non si distingue dall’altra se non se per la contemplazione della mente
finita deU'uomo. Vedi i Prologo nell’edizione di Torino. Fa che tu vi
sottoponga col pensiero di che io ragiono. Ho conservato tutte le parole della
interpretazione dell’O., perchè non avrei saputo quali altre più chiare
sostituir loro; atteso che io non son sicuro di intendere qui nè che cosa abbia
voluto dire r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo una
nota; ma non la fece, e non trovo altro,, che si riferisca a questo luogo,
ne’suoi manoscritti, se non se un cenno pel quale è indicato che egli lesse qui
ò, ti risolutamente^ ove tutti gli altri, che io conosca, lessero &ti; e
che egli intese r Ù7TÓ0OU diversamente da tutti gli altri interpreti. Gataker e
Schultz che lo segue da vicino, non sono più chiari. Le quali tu apprendi»,,
considerazione del tutto. Così O. svolge ed illustra la filosofia di ANTONINO
espresso brevissimamente e, parmì anche, poco chiaramente nel tosto. Non ho
mutato quasi nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’O., sia perchè
ho motivo di credere che ne fosse già poco meno che contento egli stesso,
trovando io questo paragrafo nettamente ricopiatom sia perchè non avrei voluto
correr pericolo -- li alterarne benché minimamente il senso, trattandosi di un
luogo che egli intese assai diversamente da tutti gli altri interpreti. Vuol
dire che non bastano le impressioni buone che noi riceviamo per mezzo della
sensibilità, le quali possono e sogliono venir cancellate da impressioni
contrarie, ma ci vuole anche il lavoro deir intelletto che riduca quelle ad
unità e le fermi cosi nel nostro spirito, formandone come un corpo di scienza.
Non basta l’osservazione, l’applicazione dello spirito alle cose di circostanza,
ma ci vuole ancora la contemplazione, l’ applicazione dello spirito alle cose
permanenti, al generale immutabile. Solo col ridurre ad unità il moltiplice, a
generalità il particolare, si possono radicare le cognizioni nell’ anima, la
quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza cui la
semplicità del cuore dee far rimanere secreta naturalmente nel cuore, ma non
artatamente celata; ed allora è l’anima veramente grave e soda e come chi
dicesse, veneranda. Sul fine del paragrafo fa la enumerazione delle diverse
categorie alle quali si dee riferire l’oggetto osservato. Questa nota d’O. che
per le troppe citazioni del testo greco non può qui darsi che in parte, trovasi
intera nell’edizione di Torino. Grecismo, per suole accadere. Non era possibile
il tradurre altrimenti. Del resto vada a rilento chi per la sola ragione del
non potersi tradurre sempre colla stessa voce una stessa parola del testo,
accusa ANTONINO qui ed altrove di arguzia. IL PORTICO crede che, là dove è una
stessa parola, debbe essere anche una stessa idea. Ed anche Platone (vedi il
Cratilo) il credette; e il credette VICO (si veda): e tanti j altri il
credettero: e noi il crediamo. Se quella idea generalissima che l’antichità
avea attaccata al:p:?.eìv non si trova più annessa al nostro amare, ciò j non
prova altro se non che il greco d’ANTONINO e l’italiano sono due lingue
diverse. E sap evadicelo. Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’
uomo filosofo liberalmente educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un
tiranno od un re, gli par di udire lodato e magnificato un pastore, perchè egli
munga di molto latte; e l’animale cui pasce e munge il re, gli pare anche più
ritroso e più infido di quello cui pasce e munge il pastore; nè men rozzo nè
meno ineducato stima egli l’uno che l’altro, mancando ad amhidue il tempo per
badare a sè, e vivendo il primo fra le mura della reggia a quello stesso modo
che l’altro nella capanna sul monte. Del resto, il senso generale di tutto
questo paragrafo, non bene inteso, secondo me, dagli interpreti, mi pare che
sia: Tu dèi farti capace sempre pih cho tu puoi vivere da filosofo in questa
tua corte come faresti in. quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad
ogni passo esempi di quel che dice Platone: uomini che vivono nei palagi come
farebbe un rozzo pastore in sul monte: ingolfati cioè quelli e questo nelle
cure materiali del governo dell’armentoV E sottintende: se per costoro il
palagio non è altrimenti che una capanna, non può ella con più ragiono essere
la reggia per te come un ritiro filosofico? Gran ragione ha qui ANTONINO di
raccomandare a sè medesimo anche ' questo genere di contemplazione, cioè a dire
lo studio dei fenomeni, e delle maraviglie, come egli dice sapientemente,
dell’organismo corporeo degli animali e deir uomo massimamente: perchè non è
altro studio il quale possa per via più compendiosa e sicura condurre alla
cognizione della infinita sapienza, e provvidenza infinita della causa
reggitrice del mondo. Nè l’uorao può presumere di conoscere sè medesimo, sé non
conosce almeno un poco di queste maraviglie, cioè come si formi, cresca, si
conservi, si rinnovi e deperisca il suo corpo, quale sia la natura e il modo di
operare della causa o principio a cui dehbonsi riferire questi fenomeni, quali
le relazioni di questa vita organica del suo corpo con quella del principio che
in lui sente, vuole, e pensa, e come possano questo due vite modificarsi fra
loro scambievolmente. In vero chi aspira a conoscere sè medesimo, per quanto
sia dato all’uomo di pur conoscere sè stesso, e non cura di conoscere un
po’intimamente anche questa delle due parti di che si compone l’esser suo,
porta gran pericolo di errare nel vano, e di prendere astrazioni por realtà, il
che avvenne appunto ai filosofi del PORTICO, ignorantissimi di anatomia o
quindi più ancora di fisiologia. Perchè uno appunto degl’errori fondamentali
della loro filosofia, quello por cui mutilavano la natura umana escludendo da
essa la sensibilità che riferivano al corpo come a cosa straniera all’ uomo
propriamente, il quale per essi non e altro che ragione e volontà; questo
errore, dico, è in gran parte da attribuire alla imperfezione delle loro
cognizioni, ai loro errori circa la costituzione fisica dell’uomo e le
relazioni in che ella si trova colla sua costituzione morale e intellettuale; o
per dire più veramente, alla loro totale ignoranza dello leggi che governano i
fenomeni dell’organismo corporeo dell’uomo, delle relazioni intimissime della
vita di esso organismo corporeo con quella della mente, e della natura
egualmente spirituale di ambidue. Questi versi sono d’Omero e sono dei più
famosi nell’antichità, dei più spesso citati e ripetuti, imitati dai poeti
posteriori; o però ANTONINO non li scrive per intero, ma solo quei brani che
sono stampati in corsivo, bastando quelli a richiamare alla memoria i versi
interi, alle diverse sentenze contenuto in essi alludendo egli poi nella parte
seguente del paragrafo. Con questi versi GLAUCO, (opo aver detto magnanimo
Tidide a che mi chiedi il mio lignaggio?, incomincia la sua risposta a Diomede,
il quale, prima di accettare il combattimento con lui, aveagli chiesto qual
fosse la sua stirpe. Io li ho tradotti letteralmente, giovandomi in parte della
traduzione di Monti, la. quale, come nota a tutti i lettori, avrei volentieri
dato qui inalterata, se in essa fosse più fedelmente espresso, e nell’ ultimo
verso non interamente guasto il senso delle parole d’Omero. Il qual verso,
voglio dire il 149\ è tradotto da Monti come segue: CosxVuom nasce e così muor:
il che fa fare un falso sillogismo a Glauco, il quale secondo la traduzione del
Monti, concludendo, affermerebbe dell’wo/ Ho ciò che dovea affermare delle
schiatte umane, mutando, come direbbero i loici, nella conclusione il piccolo
termine, che nella premessa minore- non era uomo ma schiatta o stirpe, come
disse Monti. E pure il verso d’Omero ò chiarissimo. Questo strafalcione Monti
non fa se, come quasi ignorante del greco, con tante altre traduzioni avesse
saputo consultare quella mirabilissima, non solo per eleganza di stile ma
ancora per fedeltà, precisione e chiarezza, del Voss, il quale in cinque
bellissimi esametri tedeschi traduce letteralmente i cinque esametri greci.
Anche Pope, sebbene i suoi lavori sui poemi d’Omero, tutto die pregevolissimi
per altri rispetti, non meritino il nome di traduzione, non fa qui lo
sproposito di Monti. Ed altri ancora potrei nominare dei nostri che con
nobilissimo intendimento si diedero all’ardua impresa di recare nella nostra
lingua italiana chi l’una e chi l’altra di quelle poche reliquie che ci
rimangono della greca poesia -- dico poche rispetto a ciò che fu divorato dal
tempo --; i quali avrebbero meglio inteso e meglio tradotti moltissimi luoghi
se avessero potuto consultare, se non tutti gl’interpreti, cementatori ed
espositori, almeno i traduttori tedeschi. Ma basta che io nomini il più
valente, a parer mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne forse una più intima
notizia del greco, nulla mancava, non valor d’arte, non felicità d’ ingegno, a
poter fare una traduzione perfetta, o prossima alla perfezione, dei tragici
greci. E in vero, leggendo io le traduzioni di Bellotti e riscontrandolo
diligentemente cogli originali, ebbi in moltissimi luoghi ad ammirarne la
eccellenza, anzi direi quasi in tutti quei luoghi dov’egli capì abbastanza
intimamente il suo testo e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia
traduttore. Ma anche in molti altri luoghi io ebbi a lamentare che egli pure
non abbia saputo o potuto giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte da* suoi
predecessori alemanni. Nel solo Agamennone, che anche considerato in sè stesso
e non come parte di una grande e sublime trilogia, è forse il più bel monumento
della scena antica, e certamente il più grande di tutti per sublimità tragica,
recondita filosofia, splendore di immagini e copia di alti e forti pensieri,
quanti errori avrebbe evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe
fatto dire a quella grande anima e colossale ingegno d’Eschilo, so egli avesse
solo potuto profittare della traduzione e dei Prolegomeni di Humboldt? Non dirò
del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo che forse non era ancora
pubblicato quando Bellotti traducea l’Agamennone. Ed è tanto più da lamentare
che a Bellotti siano mancati questi sussidi, quanto è meno da sperare che sia
presto per sorgere un altro ingegno italiano, il quale possa fare quello che
avrebbe potuto Bellotti. Ritornando al paragrafo di ANTONINO e al luogo citato
d’Omero, è da notare come siffatti pensieri intorno al poco o niun valore della
vita considerata in sè, e di tutte le cose umane e dell’ uomo stesso, così
frequenti nei poeti ebraici; frequentissimi in questo scritto di Antonino e
divenuti quasi abituali nei cristiani dei primi secoli, si trovino pure non di
rado anche nei poeti greci più antichi, voglio dire in quelli delle prime e più
splendide epoche della greca letteratura, sebbene i greci fossero un popolo di
allegra immaginazione. Forse non dispiacerà al lettore il vederne qui raccolti
alcuni esempi: nell’ Odissea la terra non nutre nulla di più infermo che l’uomo.
Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che siatn noi dunque o che non siamo f
Leggiero veder d’ombra che sogna. Letteralmente la seconda parte. L’uomo è
l’ombra di un sogno. Nel Prometeo d’Eschilo e non vedevi l’imbecille natura a
vano sogno eguale onde è impedito il cieco umano gregge? Nell’Aiace di Sofocle,
perocché veggo non essere noi, quanti viviamo, altro che larve ed ombra vana.
Nel Filottete del . medesimo Sofocle, Filottete chiama sè medesimo: ombra di un
fumo. Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto incomincio a stimare tutte le
cose umane come un' ombra, E vuoisi notare come appo i tragici ed anche appo i)
lepidissimo Aristofane la parola effimeri, cioè quelli che durano un giorno, è
spessissimo usata come sinonimo di uomini. A queste, o ad altre simili sentenze
d’ antichi ed illustri poeti, le quali erano nella memoria di tutti gli eruditi
del suo tempo, allude evidentemente ANTONINO con quelle sue parole: il più
breve detto, anche di quelli che sono i più noti ecc., accennava poi per esempio
quelli d’Omero. Questa nota e scritta in tempo che io, quasi appona ripatriato,
e mandato a stare in un cantuccio al tutto vacuo di studi e di lettere
(prendendo i vocaboli in un senso un po’ alto), e ridottomi a passare nella
solitudine i pochi momenti d’ozio che r esercizio di un pubblico ufficio mi
lascia, avea potuto, non saprei diro perchè, immaginarmi che il valentissimo
Bellotti fosse già del numero di quei felici che più non vivono altrimenti
sulla terra che per la memoria di opere egregie che vi lasciarono. Avvertito
ora del mio errore, non cangio nulla a quello che ho scritto di lui; ma
aggiungo l’espressione di un voto, che deve esser quello di tutti gli amatori
delle buone lettere desiderosi di vedere vie più chiara e più grande la
rinomanza di un nobilissimo ingegno: ed è che l’esimio sBellotti, come sta ora,
da quanto mi dissero, rivedendo o migliorando il suo volgarizzamento di
Sofocle, così possa egli poi rivedere ed emeudare quello ancora di Eschilo, il
quale, a parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello, tranne forse alcune
eccezioni, non pecca gravemente che nella parte lirica; laddove in questo
trovai, 0 parvemi certamente trovare, molti luoghi da dover essere emendati non
solo nella parte lirica troppo spesso non traducibile in italiano (come è
intraducibile Pindaro, secondo che fu sentenziato anche da LEOPARDI non
ismentito dal tentativo più audace che felice di Borghi); ma eziandio nel
dialogo. Ella comjyie nondimeno..», si avea proposto. Mi sono scostato, anche
nel senso, interamente dall’ Ornato, il quale avea tradotto: ella rende intero
e compiuto quanto ella avea fatto fino allora; primieramente perchè il senso
voluto esprimere d’O. non mi sembrava abbastanza chiaro; e poi, e
principalmente perchè mi parve troppo grande licenza il tradurre per quanto
avea fatto fino allora, il tò irpoTcOiv, il quale mi sembra qui usato nel senso
il più ovvio del verbo “7rp.oT{6T)|ju”, che è quello di proporre, e così l’
intende anche lo Schultz contrariamente al’Gataker seguito d’O. Veggo bene le
ragioni che possono avere gl’indotto a interpretare a quel modo. Ma non mi
persuadono. Il pensiero di Antonino mi sembra chiaramente, l’anima razionale,
la quale non si propone altro che di operare sempre secondo ciò che richiede il
momento presente, e di aver caro tutto ciò che le interviene, come cosa voluta
dalla natura, in qualunque istante le sopravvenga la morte, compie sempre
interamente il compito che ella si avea proposto, e in modo soddisfacente a sè
stessa; ella ha tutto ciò che potea desiderare, ha totalmente esaurita la sua
parte come attrice sulla scena del mondo; e appunto il morire quando la natura
lo vuole, è la conclusione, il compimento della parte a lei assegnata e da lei
liberamente accettata nel gran dramma della vita universale. Bone avverte qui
Gataker aver già Socrate usato il medesimo argomento per indurre Alcibiade a
disprezzare la moltitudine, alla quale peritavasi di farsi innanzi a
concionare: qual è, diss’egli, di costoro quegli che ti impaurisce? forse
Micillo il ciabattieref Trigaió il conciatore f Trochilo il ferravecchio? ora
non sono costoro quelli dei quali si compone l’adunanza del popolo? Che se non
temi di favellare a ciascuno di essi separatamente, che è dò.che ti fa timido a
parlar loro riuniti insieme? Il ragionamento di Socrate era giustissimo
applicato ad una moltitudine di popolo riunito, e avrebbe anche potuto
ricordare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li Ateniesi conservatoci da
Plutarco: preni ad uno ad uno »iete tante volpi; riuniti insieme siete tanti
allocchi. Ma il medesimo ragionamento applicato allo cose di cui parla Marco
nostro non ò molto concludente. E una melodia, per es., come qui avverte
opportunamente Pierron, è qualche cosa di più che una semplice successione di
suoni, e Antonino dimentica di considerare ciò appunto per cui le note musicali
hanno potenza da commovere l’anima sì intimamente. Avverta il lettore che idea
tragica fondamentale ai poeti greci era la lotta infelice della volontà e
liberta morale dell’ uomo contro l’ inflessibile necessità; o per dir più
veramente, quella fatale retribuzione di giustizia che risulta inevitabilmente
alla vita umana dalle leggi necessarie dell’ordine morale. Perchè quella
necessità che non era punto upa cosa cieca secondo gli stoici, apjio i quali il
/«<o non era altro che la concatenazione delle cause secondo le leggi della
natura, cioè della ragione e quindi della giustizia; quella necessità, dico,
non era punto una cosa cieca neppure nella mente dei poeti: sendo che a Nemesi
figlia appunto di essa necessità e particolarmente incaricata di vendicare i
delitti e rovesciare le troppo grandi e- immeritate prospérità, a Nemesidico, e
alla Giustizia (5“tx-ri), che erano i due concetti più puri fra tutte le
divinità immaginate dall’ antico politeismo, il semplice, ma sublime buon senso
dei Greci riferiva tutto ciò che risguarda il supremo governo del mondo. L’idea
dunque della giustizia era congiunta con quella della necessità sebbene in modo
diverso, anche nella mento dei poeti, come in quella degli stoici. Cho se
Antonino non fa qui esplicitamente alcuna allusione a quella retribuzione di
giustizia, che era l’elemento morale della tragedia greca, ma solo allude alla
inutilità della lotta contro alla necessità, e sembra così impicciolire l’idea
nobilissima dell’antica tragedia; egli è perchè questa inutilità intendeano gli
stoici e i poeti allo stesso modo, e quasi esprimevano colle medesime parole;
laddove intendeano in modo diverso quella retribuzione: e non erano forse i
poeti quelli clie la intendeano in modo men vicino al vero. Benissimo Gataker
ricorda qui alcuni detti memorabili di Pocione, conservatici da Plutarco, ai
quali alludea probabilmente Antonino in questo luogo. Già condannato a morte
per giudizio iniquo de’ suoi cittadini, in proposito. di uno che non ristava
dal dirgli villanie, disse Focione: non sarà alcuno che faccia costui cessare
dal disonorar «è medesimo? E già vicino a morire, questa sola ingiunzione fece
al figliuolo: dimenticasse il fatto ingiusto degli Ateniesi. Quanto alle parole
che seguono di Marco nostro: mpposto che non e in fingenac, non debbono esser
prese come, espressione di nn sospetto nel caso particolare di Focione, ma
bensì in un senso generale, quasi dicesse Antonino con istoica riserva, non
bastar sempre le parole a dar certo fondamento a un giudizio sulle disposizioni
interne dell’animo altrui, nè doversi mai fingere, neppur quando il fingere
potesse giovare a bene edificare gli uomini. Da stólto (à|*vu/jiov). Traduce
inìquo, seguendo Schultz che tradusse iniquum. Ma non e ben risoluto di aver
bene interpretato quello “ayvofxov,” come appare dal consueto segno. E
veramente non parmi che lo ayvcofjLov possa esser preso in questo senso,
sebbene abbia quello ingrato, disleale, disamorato. Il senso più ovvio di
questo aggettivo è privo di senno, stolto, inavveduto, e parmi che 41 1 reo
Aurelio questo senso quadri benissimo in questo, luogo, meglio che non faccia
quello di inìquo. Dopo aver detto ANTONINO essere da pazzoy cioè a dire da
stolto, il volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo ammettere in tesi
generale ed assoluta, poiché non si può fare altrimenti, che essi debbano di
neces- sità peccare, e il volere ad un tempo che essi facciano una eccezione a
favor tuo, è cosa non solo às. stolto ma anche da tiranno: da stolto perchè
l’eccezione, anche di un solo caso non è possibile ai malvagi;.da tiranno
perchè vuoi esser distinto e che ti si abbia maggior rispetto che agli altri
uomini. Anche Gataker intende 1’ àyvwi^ov così; iPierron segue lo Schultz.
Parole di Epitteto malissimo interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro
OavTi al padre, quando deve essere riferito al figliuolo, corno fece O.,
seguendo Gataker e Schultz. La medesima sentenza si trova anche nel Manuale del
medesimo Epitteto con parole poco diverse, e fu benissimo tradotta dal
Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura un tuo Jigliolino o la moglie, dirai
teco stesso: io bacio un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il lettore com-
prenderà facilmente come il senso stoico di questa frase, tante volte ripetuta
da Marco nostro, è al tutto alieno da quello della famosa sentenza del sofista
Protagora: V uomo è misura di tutte le cose. La sentenza del sofista si
riferiva ad ogni cosa, alla verità obbiettiva, alla moralità come alla
sensibilità, e tendea quindi a distruggere la possibilità' di ogni cognizione
teorica, la morale come la religione. La sentenza di Antonino al contrario, il
quale, per un errore direi quasi magnanimo, riduceva, seguendo gli stoici
anteriori, tutta l’essenza dell’ uo- mo alla ragione e alla volontà
ragionevele, non si riforisce ad altro che alla sensibilità, cioè ai piaceri e
ai dolori di cui essa sensibilità è soggetto. Intendi raziocinio nel senso
proprio dei loici, cioè facoltà del sillogizzare, operazione propria
dell’intelletto; e nota qui il carattere esclusivo del Portico, il quale
considerava e stimava un nulla, non che la sensibilità ma l’in- telletto
stesso, a paragone dei buon uso della volontà, cioè della moralità della
ragione. Traducendo ho usato il vo- cabolo raziocinio piuttosto che intelletto,
perchè in italiano il senso della parola intelletto può essere troppo
facilmente confuso con quello di ragione, la differenza fra i due non essendo
così ben determinata nella nostra lingua, come è fra i due corrispondenti
tedeschi Verstandnis e Vernunft. Ornato. Keywords: implicatura, Antonino, ad
seipsum, ricordi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ornato” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Oro:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Grice e Trissino
– la difficoltà dei segni di Trissino non favorì la diffusione della sua
filosofia – la scuola di Vicenza -- filosofia veneta -- filosofia italiana (Vicenza). TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO
(Vicenza). Filosofo italiano. Vicenza,
Veneto. Ritratto di Vincenzo Catena. Persona di spicco della cultura
rinascimentale, notissimo al tempo, il Trissino incarnò perfettamente il
modello dell'intellettuale universale di tradizione umanistica. Si interessò,
infatti, di linguistica e di grammatica, di architettura e di filosofia, di
musica e di teatro, di filologia e di traduzioni, di poesia e di metrica, di
numismatica, di poliorcetica, e di molte altre discipline. Nota era, anche presso
i contemporanei, la sua erudizione sterminata, specie per quel che riguarda la
cultura e la lingua greche, sull'esempio delle quali voleva rimodellare la
poesia italiana. Fu anche un grande diplomatico e oratore politico in
contatto con tutti i grandi intellettuali della sua epoca quali Niccolò
Machiavelli, Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico Ariosto,
Pietro Bembo, Giambattista Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila, Niccolò
Leoniceno, Pietro Aretino, il condottiero Cesare Trivulzio, Leone X, Clemente
VII, Paolo III, e l'imperatore Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per conto del
papato, della Repubblica di Venezia e degli Asburgo, di cui fu un fedelissimo,
come tutta la sua famiglia da generazioni. Scoprì e protesse l'architetto Andrea
Palladio, appena adolescente, nella sua villa di Cricoli, vicino Vicenza, che
venne da lui portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato al culto della
bellezza greca e delle opere di Marco Vitruvio Pollione. O. nacque da antica e
nobile famiglia. Suo nonno Giangiorgio combatté nella prima metà Professoreil
condottiero Niccolò Piccinino, che al servizio dei Visconti di Milano invase
alcuni territori vicentini, e riconquistò la valle di Trissino, feudo avito. Suo
padre Gaspare era anch'esso uomo d'armi e colonnello al servizio della
Repubblica di Venezia e sposò Cecilia Bevilacqua, di nobile famiglia veronese.
Ebbe un fratello, Girolamo, scomparso prematuramente, e tre sorelle: Antonia, Maddalena,
andata in sposa al padovano Antonio degli Obizzi, ed Elisabetta, poi suor
Febronia in San Pietro nel 1495 e dal 1518 rifondatrice insieme a Domicilla
Thiene di San Silvestro. Targa marmorea che Trissino fece
realizzare a ricordo del suo maestro Demetrio Calcondila in S.Maria della
Passione a Milano Trissino studiò greco a Milano sotto la guida del dotto
bizantino Demetrio Calcondila, sodale di Marsilio Ficino, e poi filosofia a
Ferrara sotto Niccolò Leoniceno. Da questi maestri imparò l'amore per i
classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita. Alla
morte di Calcondila, fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della
Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Sposa Giovanna, figlia del
giudice Francesco Trissino, lontana cugina, da cui ebbe cinque figli: Cecilia,
Gaspare, Francesco, Vincenzo e Giulio. Trissino sostene l'Impero come
istituzione, come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni,
ma ciò venne interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu
temporaneamente esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi
viaggi in Germania, l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò
all'aggiunta del predicato "dal Vello d'Oro" al proprio cognome e
alla relativa modifica dello stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae
gestare possis et valeas), che nella parte destra riporta su fondo azzurro un
albero al naturale con fusto biforcato sul quale è posto un vello in oro, il
tronco accollato da un serpente d'argento e con un nastro d'argento tra le
foglie, caricato del motto "PAN TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere
maiuscole greche nere, preso dai versi 110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che
significa "Chi cerca trova", privilegi trasmissibili ai propri
discendenti. Stemma di Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel
volume dedicatogli da Castelli. In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi
tra Venezia, Bologna, Mantova, Milano (dove conobbe Trivulzio, comandante
francese) e Padova (dove riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri).
Poi si recò a Firenze ed entrò nel circolo degli Orti Oricellari (i giardini di
Palazzo Rucellai) in cui si riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di
classicismo erudito, Machiavelli e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo
Rucellai ed altri. Qui il Trissino discusse il De vulgari eloquentia e compose
la tragedia Sofonisba. Questi anni agli Orti Oricellari furono centrali, sia
per quanto il poeta ricevette intellettualmente, sia per la forte impronta che
lasciò sui suoi sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di Bernardo Rucellai
e il poemetto le Api (in endecasillabi sciolti, concluso dalle lodi del
Trissino, cfr. il paragrafo sul Profilo religioso del Trissino) o le poesie
pindariche di Luigi Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le tante
digressioni erudite sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai Goti
che rimandano all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in
quegli anni. Anzi, le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso
Machiavelli a scrivere anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende
l'uso del fiorentino moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche). In seguito
si recò a Roma, dove stampò la Sofonisba -- dedicandola papa Leone X -- la
prima tragedia regolare, e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte
ne la lingua italiana (dedicata a Clemente VII), un arditissimo libello in cui
si suggeriva l'inserimento nell'alfabeto latino di alcune lettere greche per
segnalare alcune differenze di lettura. Intanto il figlio Giulio, di salute
cagionevole, venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica e, dopo il suo
soggiorno a Roma sempre presso papa a Clemente VII, divenne arciprete della
cattedrale di Vicenza. Sempre a Roma, O. diede alle stampe alcuni testi
fondamentali: la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari
eloquentia, Il castellano (dialogo sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed
ispirato a quello dantesco), le Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e
le prime quattro parti della Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica
di Aristotele, da poco riscoperta), con le quali il programma di riforma
letteraria classicheggiante avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso.
Per i prossimi 20 anni il poeta non stamperà più nulla. Queste opere
sollevarono un grande clamore per la loro arditezza e disorientarono (o meglio:
orientarono diversamente) la nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato
finora riformare addirittura l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare
l'intero sistema dei generi in uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni
e il poema cavalleresco, in primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè
poi quelli antichi (la tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi
libelli prese avvio la secolare questione della lingua italiana. A Bologna, nel
corso dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano Imperatore,
egli ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente VII e Carlo
lo nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della Milizia Aurata.
Secondo quanto riportato dallo storico Castellini, Trissino rifiutò posizioni
di potere offertegli dai pontefici a seguito dei successi riportati come
diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio l'arcivescovado di Napoli, il
vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia, in quanto desideroso di una
propria discendenza ed essendo il figlio Giulio avviato nella gerarchia
ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia del giudice Nicolò
Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di Bartolomeo O. Da Bianca
ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro come erede universale, si
scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo lottò in tribunale contro il
padre e il fratellastro per poi morire in odore di eresia calvinista. Anche a
seguito delle divergenze causate dai cattivi rapporti con Giulio, la coppia si
divise quando Bianca si trasferì a Venezia, dove morì. Trissino manifestò il
proprio fervente sostegno all'Impero dedicando, qualche anno prima della morte,
a Carlo V il suo poema in 27 canti L'Italia liberata dai Goti, il primo poema
regolare destinato, come si vede fin dal titolo, ad essere importante per la
Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Stampa anche la commedia I Simillimi,
anch'essa la prima commedia regolare. Villa O. di Cricoli Intanto nella villa
di Cricoli alle porte di Vicenza, già dei Valmarana e dei Badoer e acquistata
dal padre Gaspare, si radunava una delle più prestigiose Accademie vicentine.
Qui Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia dell'architettura,
Andrea Palladio, di cui fu mentore e mecenate, che portò nei suoi viaggi con sé
ed educò alla cultura greca e alle regole architettoniche di Marco Vitruvio
Pollione. Morì a Roma l'8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di Sant'Agata
alla Suburra. Vennero alla luce le ultime due parti della sua Poetica, la
quinta e la sesta (dedicate ad Antonio Perenoto, vescovo di Arras), che erano
comunque già pronte, come si evince dalla chiusura della quarta parte. Progetta
e attua una imponente riforma della lingua e della poesia italiane sui modelli
classici, cioè la Poetica di Aristotele da poco riscoperta, i poemi di Omero, e
le teorie linguistiche esposte di Alighieri nel “Della volgare eloquenza”
riscoperto da lui stesso a Padova. Un programma in piena antitesi sia con la moda
del petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del romanzo cavalleresco incarnato
supremamente dall' “Orlando furioso” di L. Ariosto, che allora infuriavano. Il
programma di riforma venne esposto attraverso saggi diversi, cioè un saggio di
orto-grafia e di orto-fonetica (Epistola dele lettere nuovamente aggiunte ne la
lingua italiana, dedicata a Clemente VII), un saggio di teoria della lingua
italiana (Il castellano, dedicato a C. Trivulzio), due saggi di grammatica
(“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”) e un manuale di teoria dei generi
letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie quella di modificare l'alfabeto
inserendovi alcune lettere greche così da rendere visibili le differenti
pronunce di alcune vocali e di alcune consonanti) e la riscoperta del “Della
volgare eloquenza” di Aligheri) sono clamorosi e fa esplodere in Italia la
secolare questione della lingua, idealmente chiusa da “I promessi sposi” di
Manzoni. Questa intensa speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in
quattro saggi poetici, tutte molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone
X), la prima tragedia regolare della letteratura moderna (regolare si definisce
un'opera costruita secondo le norme derivate dai testi classici, essenzialmente
la Poetica di Aristotele e l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti
(dedicata a Carlo V), il primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al
G. Farnese), la prima commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie
d'amore e di encomio (Rime, dedicato a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e
ispirato ai poeti siciliani, agli Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione
del Quattrocento, tutte cassate dal Bembo. Anche queste opere sollevarono un
grande dibattito, ma saranno destinate ad avere un ruolo centrale nello
sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se si considera l'importanza che la
tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta Europa. A lui si deve anche
l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza rima) ad imitazione
dell'esametro classico, anche questa un'invenzione destinata a fama europea. La
sua produzione comprende diversi generi: innanzitutto un Architettura,
incompleto, ricerche sulla numismatica, traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si
concentra solo sugli studi di teoria del linguaggio, si ha a che fare con pochi
testi, ma tutti rilevantissimi, attraverso i quali struttura un coerente
programma di riforma del linguaggio sui modelli classici e sul linguaggio
d’Alighieri ispirato alla Poetica di Aristotele, ad Omero e al “Della volgare
eloquenza”, un sistema da opporre sia alle Prose della volgar lingua del Bembo
di qualche anno prima, che aveva dato come modelli solo Petrarca e Boccaccio
(riducendo, quindi, i generi letterari solo alla lirica e alla novella), sia
all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che è un romanzo cavalleresco e non un
poema epico. Attraverso il proprio programma iverrà a creare una tradizione di
gusto classico del tutto nuova che nei secoli a venire si affiancherà al
bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il suo sistema iinfatti, vuole
sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo bembesco e proseguire lo
sperimentalismo della tradizione antica e quattrocentesca (la cosiddetta docta
varietas). Né egli e l'unico convinto di queste idee, come si dice ancora
oltre, ma era affiancato da Speroni, Tasso (padre di Torquato), Brocardo,
Tolomei, Colocci, Equicola e altri ancora. Volendo sintetizzare, le sue opere
si raccolgono intorno a tre date: Dà alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba”
(composta prima agli Orti Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere
all'alfabeto. Tutte le sue opere stampate in vita sono scritte secondo
l'alfabeto da lui congegnato e non con l'alfabeto usuale. Vengono date alle
stampe sei opera: “Della volgare eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il
dialogo “Il castellano, le Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta. Dà
alla luce il poema L'Italia liberata dai Goti, e la commedia I simillini.
Passeremo in rassegna le principali opere poetiche, tranne gli Scritti
linguistici, che hanno un paragrafo apposito. La Sofonisba è in assoluto la
prima tragedia regolare della letteratura europea, destinata a vasta fortuna
specie in Francia. Secondo il modello antico, Trissino compone una tragedia in
endecasillabi sciolti, che imitano i trimetri giambici (il verso a questa data
fa la sua prima apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono
canzoni petrarchesche mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno
anch'esse qui la loro prima apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi
Alamanni e poi ancora di Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile
differenza dai classici antichi) è storico (preso da Tito Livio), non
fantastico, mitico o biblico. L'azione, come poi sarà canonico nel teatro
regolare, si svolge nello stesso posto (unità di luogo) e nello stesso giorno
(unità di tempo) e prevede in scena un numero limitato di persone. Venne
recitata durante il carnevale di Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo
Andrea Palladio. La proposta piacque, tutto sommato, e riscosse successo:
l'endecasillabo sciolto, metro nuovo, fu approvato anche dal Bembo (come
ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da allora in poi il metro quasi canonico del
teatro italiano, specie tragico (vedi sotto). Anche nelle Rime si mostra uno
sperimentatore e il Petrarca, modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si
fonde con immagini derivanti da altre epoche e da altri autori, in special modo
la poesia occitana, quella siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti
quattrocenteschi. Nel sistema del Trissino è possibile usare ancora metri come,
ad esempio, i sirventesi e le ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre
particolari nuovi come gli occhi neri di guaiaco della donna amata, immagine
inventata dal poeta su un referente quotidiano della cultura cinquecentesca e
non in linea con le immagini tipiche del Petrarca (occhi di stelle e simili).
Il Castellano è un dialogo sulla lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante
francese a Milano. Si ambienta a Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti
Giovanni di Bernardo Rucellai (il castellano, appunto) e Strozzi, amici degli
Orti Oricellari. Il Trissino espone per bocca del Rucellai il suo ideale
linguistico, preso dal De vulgari eloquentia, cioè quello di un volgare
illustre o cortigiano, mobile ed aperto, fondato in parte sull'uso moderno e
concreto della lingua, e in parte sugli autori della tradizione letteraria.
Questi autori sono soprattutto Dante e Omero poiché dotati di enargia, cioè
della capacità di rendere visibili a parole ciò di cui stanno narrando. Le idee
linguistiche del Trissino sollevarono grande clamore (fondate com'erano su un
testo la cui paternità dantesca non era ancora assicurata) e fecero scoppiare
il secolare 'dibattito sulla lingua italiana' concluso, come detto, almeno
idealmente, dal Manzoni tre secoli dopo. Fra i molti che parteciparono al
dibattito si ricordi il fiorentino Machiavelli al quale il Trissino aveva letto
il De vulgari eloquentia sempre agli Orti Oricellari, il Bembo, ovviamente,
Sperone Speroni, Baldassarre Castiglione. Poetica Le teorie che soggiacciono a
questo vasto programma vengono esposte nella Poetica, libro fondamentale non
solo per il Trissino, essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa
ad essere modellato sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in
tutto il continente. Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire,
l'idea di resuscitare dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani
per gusto e ispirazione dalla società rinascimentale. Sul piano linguistico
immagina una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e illustre,
che contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una
collaborazione ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo
del toscano trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di
dialettismi. Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla
tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca.
Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora
contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si
mostra vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre,
inoltre, della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e
latino, come fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande
successo nei secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel melodramma.
Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga teocritea e del poema
omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni genere vengono date
ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le unità di tempo e di
luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative, per il poema epico.
Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo cavalleresco e il
poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda fantastica
costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle quali destinate
a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla conclusione generale della
vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà essere di matrice storica e
dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà venire raccontata dall'inizio
alla fine, e i pochi protagonisti dovranno ruotare tutti attorno ad essa, tutti
per un solo scopo, e le loro vicende dovranno venire concluse entro l'arco del
poema, non lasciando nulla in sospeso. Il genere epico, inoltre, secondo una
caratteristica che gli diventerà propria, viene dal Trissino investito di un
alto valore morale e politico, profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che
lo trasformano in un percorso di formazione morale e culturale. Per questi tre
generi nuovi, il poeta propone l'endecasillabo sciolto, corrispettivo moderno
dell'esametro e del trimetro giambico classici (vedi paragrafi sottostanti).
Sul piano dello stile e dei registri il poeta rimanda alle teorie dei greci
Demetrio Falereo e di Dionigi di Alicarnasso, che ponevano come vertice dello
stile poetico l'energia, cioè la capacità di rappresentare visivamente con le
parole le cose di cui s sta narrando, prerogativa, per il Trissino, dello stile
di Omero e Dante. Sempre dietro Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana
in quattro registri stilistici e non tre, come voluto dalla tradizione
medievale e bembesca (la cosiddetta rota Vergilii, secondo la quale esistono 3
registri stilistici soltanto: quello basso, esemplificato dalle Bucoliche,
quello medio dalle Georgiche, e quello alto o tragico dell'Eneide). Questo
veniva a reimpostare daccapo i rapporti ormai consolidati fra genere letterario
e registro stilistico, e fu una novità che avrebbe causato non poco
l'insuccesso di un poeta il cui punto debole fu proprio lo stile. Tornò in
scena con L'Italia liberata da' Gotthi, un vastissimo poema di endecasillabi
sciolti in 27 canti, iniziato intorno nell'età di Papa Leone X. Esso è di fatto
il primo poema epico moderno e sarà destinato, come la Sofonisba, a inaugurare
un genere del tutto nuovo, in dichiarata antitesi alla tradizione medievale del
romanzo cavalleresco che in quegli anni stava sfondando con Ariosto. L'idea che
soggiace alla composizione dell'opera è illustrata nella famosa Dedica a Carlo
V che precede il poema, dove O. dichiara di essersi ispirato ovviamente ad
Aristotele e all'Iliade di Omero. Con la guida di Omero e di Demetrio Falereo
(e non di Dante, si noti), inoltre, reclama l'uso di un volgare illustre che
contempli l'inserimento di voci dialettali, arcaiche o anche latine e greche,
come infatti nel poema avviene. Come detto più volte, inoltre, lo scopo del
poema è 'ammaestrare l'imperatore', non solo attraverso dei modelli
cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di architettura, arte
militare e via di seguito. Il poema è ligio, insomma, a quanto stabilito nella
Poetica: la trama è tratta da un accadimento storico cioè la guerra gotica tra
l'imperatore bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti che occuparono l'Italia
(per la quale il poeta segue lo storico bizantino Procopio di Cesarea), che
viene raccontata dall'inizio alla fine, e i (relativamente) pochi protagonisti
ruotano attorno ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno specchio di
altrettanti vizi e virtù da correggere, in questa crociata che sarebbe anche un
percorso di formazione bellica e morale del suo lettore ideale, cioè Carlo V
stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti italiani, fu uno dei più
clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana, come noto, anche se ebbe un
impatto profondissimo. Critiche violente vennero da Giambattista Giraldi Cinzio
(che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco Bolognetti, ma non solo. I quali
derisero il poema per la sua imitazione pedissequa dei valori dell'eroismo
classico (grandezza e generosità d'animo, nobiltà e gloria), per l'attenzione
estrema alla corretta applicazione delle regole aristoteliche, più che alla
fluidità della narrazione o al dare un rilievo psicologico ai personaggi,
assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa parola per parola del modello
omerico (ma in generale di tutte le moltissime fonti tradotte dal poeta) fu
ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento venne a scontrarsi con la
prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza rima costruito in maniera
formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende il dettato fiacco e
stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui il poeta si dilunga
nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della Roma medievale, di
città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe geografiche
dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di seguito, soffocano
la narrazione epica (nella prima edizione il poema è addirittura corredato da
tre cartine geografiche) e rendono il poema di difficile lettura. Ciò non
toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia un posto di rilievo nella
letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi solenni e composti nella
dignità del loro ideale e della loro missione, tipicamente aristocratici,
anticipava le preoccupazioni morali della Controriforma. Sarà proprio alla fine
del secolo, infatti, che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma
non solo. “I simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli sono
indicati da lui stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia antica
-- Menandro è stato riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della quale
il Trissino ha fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte
poetica di Orazio) ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da
Plauto (essenzialmente i Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti,
ovviamente, mentre i cori sono costituiti anche da settenari e sono rimati.Le
opere linguistiche Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino,
stampato con lettere aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I suoi
saggi di filosofia del linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola,
Castellano, Dubbi, Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese
discussioni suscita il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare
l'alfabeto classico italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell'
“Ɛpistola del Trissinω” delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua
italiana”, dove suggerisce l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e
consonanti della fonologia greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi
resi allora, e ancor oggi, con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed
“ω”) e chiuse, z sorda e “z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione
dell’“i” e dell’ “u” con valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v).
Ri-propone questa idea, sebbene ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico
della Crusca (cruschense) Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei secoli
a venire, invece, la sua proposta di utilizzare la “z” al posto della “t” nelle
vocaboli latini che finiscono in “-tione” (implicatione > “implicazione” --
oratione > orazione) e di distinguere sistematicamente il segno “u” dal
signo “v” (uita > “vita”) I punti principali dell'abecedario riformato sono
i seguenti: carattere fonema Distinto da Pronuncia “Ɛ”, “ε”; E aperta [ɛ] E e E
chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta [ɔ] O o O chiusa [o] V v V con valore di consonante
[v] U u U con valore di vocale [u] J j con valore di consonante J [j] I iI con
valore di vocale [i] “Ӡ” “SPERANӠA” “ç” – Sperança -- Z sonora [dz] Z z Z sorda
[ts]. Tali idee vengono confermate. Nel Castellano, propone il modello di una
lingua cortigiana-italiana formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei
letterati della penisola, non solo nel lessico ma anche al livello della
fonetica (visibile ormai grazie al suo abecedario ri-formato). La sua teoria si
appoggia ad Omero e soprattutto alla sua traduzione del “De vulgari
eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”, in riferimento a tutti i
generi letterari, ed e illustrata materialmente nella sua Grammatichetta messa
a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi grammaticali. Alla sua tesi si
dimostrano particolarmente ostili i toscani, ovviamente, visto che Aligheri
stesso asserisce nel trattato che il toscano non è il volgare illustre. Tra di
essi spicca il Machiavelli, come accennato, che compose un “Dialogo sulla
lingua” nel quale reclama la specificità del fiorentino in opposizione a Bembo
e anche a Trissino, che nella grammatica di base parte sempre dalla lingua
letteraria, anche perché l'unica in grado di assicurare a livelli profondi una
similarità fra i vari parlari italiani. Un esempio: se nel toscano di Poliziano
è normale usare “lui” in funzione di soggetto, Bembo invece rispolvera “egli” e
lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece, difende l'uso di “lui”, normale a
Firenze. La riforma trissiniana dei segni dell’abecedario italiano, applicata
sistematicamente da lui in tutti i suoi saggi (anche negli appunti!), è un
prezioso documento delle differenze di pronuncia tra il tosco toscano e la
lingua cortigiana, fra la lingua letteraria e la corretta pronounia Nordica (e
vicentino) perché applica i propri criteri nel pubblicare i suoi saggi o
nell'interpretare alcuni segni del toscano. La conseguente maggior difficoltà
non favoresce la diffusione della sua filosofia e porta diverse critiche da parte
dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene sia noto come esegeta aristotelico, il
Trissino si era formato, invece, sul finire del Quattrocento e nei primi del
Cinquecento nelle capitali culturali italiane sature di cultura neoplatonica e
mistica: non ci riferiamo solo agli anni a Milano presso il Calcondila (amico
di Marsilio Ficino) o a Ferrara presso il Leoniceno, ma soprattutto a quelli
trascorsi agli Orti Oricellari fiorentini e nella Roma di Leone X, figlio di
Lorenzo de' Medici. Importanti sono i due ritratti che ci vengono lasciati da
due contemporanei. Il primo è il quello di Giovanni di B. Rucellai, che nel
poemetto in versi sciolti Le api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e
della dottrina ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica: «Questo sì bello
e sì alto pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli
umani ingegni O., con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii
d’Acheronte ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei
mortali». Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del
pensiero platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le
esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del
Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane
dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta
in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali
non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin,
O.. Monografia di un gentiluomo letterato, Firenze, Le Monnier). A questo si
aggiungano ancora la ripetuta ammissione di credere nella salvezza per sola
Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a Marcantonio da Mula), cioè di
essere a rigore un luterano, e la lunga requisitoria contro il clero corrotto
contenuta contenuta nell'Italia liberata, requisitoria che però, come rilevato
da Maurizio Vitale (in L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla
lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto di Scienze ed Arti,
), non figura in tutte le stampe del poema ma solo in quelle indirizzate forse
in Germania. Anche quindi, auspicava un riordino interno della Chiesa e una sua
restaurazione morale, in linea con il generale movimento di riforma che
scoppio' nel Rinascimento, con Lutero, Erasmo etc.... senza per questo farne un
luterano in senso stretto. Insomma, è un tipico esponente della tradizione
religiosa pre-tridentina, in cui il fervido sostegno alla Chiesa romana e la vicinanza
coi papi non escludono forti iniezioni di filosofia idealista e della scuola di
Crotone, di stoicismo e di astrologia, di tradizione bizantina e millenarismo,
in cui Erasmo da Rotterdam, M.Lutero, Agrippa von Nettesheim, Pico, Ficino si
fondono in una forma religiosa eclettica e ancora tollerata prima dell'apertura
del Concilio di Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la sua morte e vi
verrà coinvolto, invece, il figlio Giulio, vicino al calvinismo, che subirà
l'Inquisizione. Il suo poema, una vera enciclopedia dello scibile, è molto
interessante a riguardo, e queste venature di pensiero religioso inquiete ed
eclettiche sono evidenti in maniera palese. Si ricordino gl’angeli che portano
nomi di divinità pagane -- Palladio, Onerio, Venereo etc... -- e che non sono
altro che allegorie delle facoltà umane o delle potenze naturali (Nettunio,
angelo delle acque, ad esempio, o Vulcano come metonimia del fuoco) come
indicato nel De Daemonius di M. Psello e nel pensiero idealista o accademico. E
questo uno dei punti più bersagliati dai critici contro lui, per primo, ancora
una volta, Cinzio. Di Palladio cura soprattutto la formazione di architetto
inteso come filosofo umanista. Questa concezione risulta alquanto insolita in
quell'epoca, nella quale all'architetto era demandato un compito
preminentemente di tecnico specializzato. Non si può capire la formazione
filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della costruzione
dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la protezione
di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo diverso e che
aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli cambia il
nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel suo poema
L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui e Gondola
ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della città di
Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i canoni
dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso totale
sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela
fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì
avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da
Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei
suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il
futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di
un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il
sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un
rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del
Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue
idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi
metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S. Speroni, e
uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema totale,
onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è regolato in
maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di riferimento
privilegiato. Bisogna fare a questo punto una distinzione essenziale fra le sue
produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le opere poetiche, forse con
la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono notoriamente brute. Lo
stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in mille meandri eruditi,
ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e ammirate, ma non apprezzate
né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione del verso sciolto, che e
centrale nella storia letteraria europea, infatti, non e destinata a fiorire
con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse accettata entro un poema di
genere e di stile alto come quello epico. La sua filosofia, invece, trova un
successo secolare, non solo in Italia ma in molti paesi europei specie nel
Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo specie per quel che
riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la tragedia e l'epica,
e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può dire che ha grande fortuna
col verso sciolto e col poema epico, ma minore col teatro tragico. La
Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia di imitazione
antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di Giovanni di
Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la tragedia
ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu soppiantata presto,
già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè piena di fantasmi,
conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma), riportata in auge
a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una linea di gusto
che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in pieno col teatro
gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana. Non così nell'epica e nel
verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato infatti da tutti i principali
autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede), da Bernardo Tasso (intento
anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che nella prima stesura era in
versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che compose contro l'Italia
liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via via fino a Tasso.
Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi del poema eroico e,
sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente come modello teorico
e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra cui la famosa morte
di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad esempio). Vale la
pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”, infatti, non fu
deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”), ma
dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza dell'opera
tassiana col poema trissiniano. Mentre nel Rinascimento i critici iniziavano a
discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo cavalleresco, si assiste a un
lento processo di 'acclimatazione' del verso sciolto nei poemi narrativi. Dapprima
viene usato nei generi minori, come le ecloghe pastorali, i poemetti georgici,
gli idilli o le traduzioni, ma alla fine del secolo sarà impiegato in opere
imponenti come l'”Eneide” di Caro, o nel poema sacro del Mondo creato di Tasso,
o nello stile fastoso dello Stato rustico di G. Imperiale o quello classico di
Chiabrera in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera (non a caso allievo di
Speroni) si può dire che sia il suo grande erede, animato come lui dal
desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi letterari sui modelli
classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti importanti, sia in difesa
del verso sciolto, sia dei generi metrici non bembeschi o nuovi, sia,
implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di Omero (cfr. il paragrafo
apposito in Chiabrera). O. ebbe ancora fortuna anche nel XVIII secolo, con
l'edizione in due volumi Scipione Maffei di Tutte le opere (Verona, Vallarsi,
ancora oggi punto di riferimento indispensabile), e con nove tragedie
intitolate Sofonisba, una delle quali d’Alfieri. Grande fu l'influenza anche
nel melodramma: si contano ben quattordici Sofonisba, una delle quali di Gluck
e uno di Caldara. Ma a parte la fortuna della Sofonisba, considerando che la
riforma poetica dell'Accademia dell'Arcadia si ispira dichiaratamente alla
poesia e alla metrica del Chiabrera, possiamo dire che il Trissino sia stato
uno dei fondatori della poesia arcadica e capostipite di una tradizione
letteraria, anche quella del melodramma settecentesco. Non a caso è uno degli
autori più presenti nella ragion poetica di Gravina, maestro del giovane
Metastasio, la cui prima opera sarà la tragedia Giustino, una riproposizione
quasi parola per parola del III canto dell'Italia liberata dove si narrano gli
amori di Giustino e di Sofia. PCastelli dedica la poeta una intera monografia
(La vita di Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può dire, quindi, che
non solo nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche nel teatro
italiano, anche se nelle forme del melodramma e non quelle della tragedia, come
tipico della tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto, alla mediazione
del Chiabrera, che seppe rendere le forme metriche del Trissino (prima fra
tutte il verso sciolto) di insuperabile eleganza. Nell'Ottocento si ricordino
l'Iliade di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito Pindemonte, che proseguono
la grande storia del verso sciolto nella traduzione italiana, e le
considerazioni di tre grandi scrittori. Il primo è Manzoni che, meditando sul
romanzo storico, rifletté anche sui rapporti fra creazione poetica e
verosimiglianza storica date da Aristotele nello scritto Del romanzo storico e,
in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Il secondo è
Carducci che stronca il poema ne I poemi minori del Tasso (in L’Ariosto e il
Tasso) e il terzo è B. Morsolin che compose la biografia del poeta (Giangiorgio
Trissino o monografia di un letterato) che ancora oggi è indispensabile.Francia
In Francia, invece, si assiste in un certo senso alla situazione opposta e le
teorie del Trissino trovarono vasta eco più nel teatro che nel poema epico,
questo anche perché in generale il teatro classico francese ha sempre
prediletto i modelli greci ai latini e il teatro, in genere, al melodramma. Nel
teatro francese l'influenza della Sofonisba sarà forte: la prima
rappresentazione documentata in francese è nel castello di Blois, davanti alla
corte della regina, Caterina de' Medici, non a caso una fiorentina. La corte di
Francia era già abituata d'altronde alla poesia italiana di stile classico da almeno
trent'anni, dopo il soggiorno presso Francesco I di Francia di Luigi Alamanni.
Da qui in poi si conteranno otto Sofonisba fino alla fine del Settecento, una
delle quali di Pierre Corneille. Non così invece nell'epica, genere che in
Francia trovò poco seguito, e nel verso sciolto, che non si acclimatò mai nella
poesia francese, poco adatta per suo ritmo naturale a un verso senza rima. Il
Voltaire, che amava l'Ariosto, ricorda l'Italia liberata nel suo Saggio sulla
poesia epica più che altro per rilevare le pecche del poema. In Inghilterra si
ricorda la fortuna del verso sciolto (blank verse) che avrà la sua
consacrazione nel Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino
da Pope nel prologo alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre
Sofonisba. Anche Goethe possede una copia delle Rime trissiniane Opere:
“Sofonisba, tragedia Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne
la lingua Italiana; De vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il
castellano, dialogo: Daelli; Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta;
L'Italia liberata dai Goti, poema epico I simillimi, commedia Galleria
d'immagini Gian Giorgio Trissinoincisione da Tutte le opere non più pubblicate
di Giovan Giorgio Trissino, Miniatura di O.. Incisione da Castelli La vita di
Giovangiorgio Trissino, Targa a O., in piazza Gian Giorgio Trissino. Targa
posta sulla casa natale di Gian Giorgio Trissino, in corso Fogazzaro 15 a
Vicenza, opera di Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione posto nel salone di Palazzo
Venturi Ginori, a Firenze, raffigurante Giovan Giorgio Trissino, membro
dell'Accademia Neoplatonica che lì ebbe sede. Bernardo Morsolin O. o Monografia
di un letterato del secolo XVI, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio
Trissino. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato
del secolo XVI,Margaret Binotto, La chiesa e il convento dei santi Filippo e
Giacomo a Vicenza, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino,
Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato.
L'incisione recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM
GRÆCARUM EMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS MENS. VET OBIIT JOANNES O. GASP. FILIUS
PRÆCEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMOPOSUIT. Castelli, La Vita d’O, ernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato; Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo
XVI, Giambattista Nicolini, Vita di Giangiorgio Trissino, Nell'originale
sofocleo "τὸ δὲ ζητούμενον ἁλωτόν", letteralmente "ciò che si
cerca, si può cogliere". Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato, Pierfilippo Castelli, La vita di Giovan Giorgio
Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio Magrini, Reminiscenze
Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato. Bernardo Morsolin, O. o Monografia di un letterato,
Silvestro Castellini, Storia della città di Vicenza. Castelli, La vita d’O,
nota. Morsolin, O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, 1Come i saggi
di Lucien Faggion ricordano, per preservare il patrimonio famigliare non era
inusuale sposare cugini di altri rami della medesima famiglia. La decisione di
scegliere Ciro come proprio erede ebbe ripercussioni drammatiche per diverso
tempo. Oltre al trascinarsi della causa civile intentata da Giulio al padre e a
Ciro, nacque una vera e propria faida tra i discendenti Trissino dal Vello
d'Oro e i parenti del ramo dei Trissino più prossimo alla prima moglie,
Giovanna. Le voci che fecero risalire a Ciro la denuncia anonima alla Santa
Inquisizione delle simpatie protestanti, spinsero Giulio Cesare, nipote di
Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti a Marcantonio, uno dei
suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre, accoltellando a morte
Giulio Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il venerdì santo del 1583.
R. Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello d'Oro, s'introdusse nella
casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la moglie, Isabella Bissari, e
il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano al proposito vari saggi
sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes, la famille et le devoir
de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette affrontare una
causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni ProfessoreAlvise
di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col patrizio Orso Badoer,
che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi Valmarana tentarono
di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il tribunale diede
ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion, Justice civile, témoins et
mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana et Cricoli au XVIe siècle,.
Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI, voce O. nel sito Treccani
L'Enciclopedia Italiana. Achille, Trissino, Giangiorgio, in L'Enciclopedia
dell'Italiano. "Palladio" è anche un riferimento indiretto alla
mitologia greca: Pallade Atena era la dea della sapienza, particolarmente della
saggezza, della tessitura, delle arti e, presumibilmente, degli aspetti più
nobili della guerra; Pallade, a sua volta, è un'ambigua figura mitologica,
talvolta maschio talvolta femmina che, al di fuori della sua relazione con la
dea, è citata soltanto nell'Eneide di Virgilio. Ma è stata avanzata anche
l'ipotesi che il nome possa avere un'origine numerologica che rimanda al nome
di Vitruvio, vedi Paolo Portoghesi, La mano di Palladio, Torino, Allemandi, Dal
volantino della mostra dedicata a O., in occasione dell’anniversario della
promulgazione dello Statuto del Comune, organizzata dalla Provincia di Vicenza,
Comune di Trissino e Pro Loco di Trissino. L. Cicognara, Storia della scultura
dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, Giachetti, Losanna,
1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi fondamentali:
Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino, oratore e poeta, ed.
Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o monografia di
un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti del Convegno di Studi su
Giangiorgio Trissino, Vicenza); Pozza, Vicenza, Neri Pozza, Sulla Sofonisba: E.
Bonora La "Sofonisba" del Trissino, Storia Lettaliana, Garzanti,
Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella Sofonisba di Giangiorgio Trissino, in
Tra Classicismo e Manierismo, Firenze, Olschki, C. Musumarra, La Sofonisba
ovvero della libertà, «Italianistica», Sulle Rime: A. Quondam, Il naso di
Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Ferrara,
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Milano-Napoli, Ricciardi, Richardson, Trattati sull’ortografia del volgare,
Exeter, University of Exeter, Pozzi, O. e la letteratura italiana, in Id.,
Lingua, cultura e società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, A. Cappagli, Gli scritti ortofonici di Claudio
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Cinquecento, Firenze, presso l’Accademia, C. Giovanardi, La teoria cortigiana e
il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni, M. Vitale,
L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia
liberata da' Gotthi», Istituto Veneto de Scienze ed Arti,. Sulla traduzione di Dante
e l'importanza del De vulgari eloquentia si vedano almeno (in ordine di
stampa): M. Aurigemma, Dante nella poetica linguistica del Trissino, «Ateneo
veneto», foglio speciale, C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura
italiana, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino,
Einaudi,Floriani, Trissino: la «questione della lingua», la poetica, negli Atti
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letterati. Studi sul dibattito culturale nel primo Cinquecento, Napoli,
Liguori, I. Pagani, La teoria linguistica di Dante, Napoli, Liguori, C.
Pulsoni, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia: Bembo e Barbieri, «Aevum»,
E. Pistoiesi: Con Dante attraverso il Cinquecento: Il De vulgari eloquentia e
la questione della lingua, «Rinascimento», Per le trafile del codice dantesco
posseduto dal Trissino, oggi alla Biblioteca Trivulziana di Milano, cfr.
l'introduzione diRàjna alla sua edizione del De Vulgari Eloquentia (Firenze, Le
Monnier) e G. Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del “De vulgari
eloquentia”, in Dante e la cultura veneta, Atti del convegno di studi della
fondazione “Giorgio Cini”, Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G. Padoan,
Firenze, Olschki, Tutti i testi d’O si rileggono nei due volumi intitolati
Tutte le opere Scipione Maffei (Verona, Vallarsi), che non riproducono però
l'alfabeto inventato riformato. Alcuni testi hanno avuto delle edizioni
moderne: La Poetica si rilegge nei Trattati di poetica e di retorica, Weinberg,
Bari, Laterza, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O. Scritti
linguistici, A. Castelvecchi, Roma, Salerno (che contiene la Epistola delle
lettere nuovamente aggiunte, Il Castellano, i Dubbii grammaticali e la
Grammatichetta). I testi sono riprodotti con l'alfabeto inventato dal Trissino.
La Sofonisba è stata curata da R. Cremante, nel Teatro, Napoli, Ricciardi, Il
testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O ed è dotato di un vasto
commento e introduzione. La traduzione del De vulgari eloquentia si può leggere
in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella collana “I classici italiani”, G. Getto,
Milano, Mursia, oppure, assieme al testo latino, nel 2 tomo dell’Opera Omnia
curata da Scipione Maffei (vedi sotto). Per l'Italia liberata dai Goti e per I
Simillimi si deve ricorrere, invece, alle prime edizioni o all'edizione del
Maffei o alle ristampe sette-ottocentesche. Per l'elenco completo di tutte le
stampe, ristampe, studi ed edizioni sul Trissino vedi Corrieri, O.,
consultabile (aggiornata al 2 settembre ) presso// nuovorinascimento. org/
cinquecento/trissino. pdf. A. Palladio O. (famiglia). Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia. Encyclopædia Britannica, Inc. O. Open MLOL,
Horizons Unlimited srl. O. Opere di Gian Giorgio Trissino, su Progetto
Gutenberg. O. Catholic Encyclopedia, Appleton. Italica Rinascimento: O,
L'Italia liberata dai Gotthi. L’uomo solo ha il COMERCIO del parlare. Questo è
il nostro vero e primo parlare. Non dico nostro, perchè altro parlar ci sia che
quello dell'uomo. Perciò che fra tutte le cose che sono SOLAMENTE ALL’UOMO E
DATO IL PARLARE,sendo a lui necessario solo. CERTO NON A a gl’angeli non a
GL’ANIMALI INFERIORI e necessario parlare. Adunque sarebbe stato dato invano a
costoro, non avendo bisogno di esso. E LA NATURA certamente abborrisce di fare
cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente considerare la INTENZIONE del
parlar [parabola] nostro, niun'altra ce ne troveremo, che il MANIFESTARE
all’altro questo o quello CONCETTO della mente nostra. Avendo adunque gl’angeli
prontissima e neffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello
gloriosi concetto, per la qual sufficienza d'intelletto l'uno è TOTALMENTE NOTO
all'altro, o per sè, o almeno per quel fulgentissimo specchio, nel quale tutti
sono rappresentati bellissimi e in cui avidis simi sispecchiano. Per tanto pare
che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha mestieri. Ma chi oppone a questo, allegando
quei spiriti, che cascarono dal cielo; a tale opposizione doppiamente si può
rispondere. Prima, che quando noi trattiamo di quelle cose, che sono che Q a
bene esser, devemo essi lasciar da 3 parte, conciò sia che questi perversi non
vollero aspettare la divina cura. Seconda risposta, e meglio è, che questi
demoni a MANIFESTARE fra sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere se
non qualche cosa di ciascuno, perchè è, e quanto è 1 : il che certamente sanno;
perciò che si conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI
INFERIORI poi non e bisogno provvedere di parlare. Conciò sia che per solo
ISTINTO DI NATURA sono guidati. E poi, tutti quelli animali che sono di una
medesima specie hanno le medesime azioni, e le medesime passioni; per le quali
loro proprietà possono le altrui conoscere. Ma aquelli che sono di diverse
specie, non solamente non e necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli
sarebbe stato, non essendo alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse
opposto che IL SERPENTE che PARLA alla prima femina, e l'asina di Balaam PARLA,
a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina e IL DIAVOLO nel serpente hanno
talmente operato che essi animali mossero gli organi loro. E così d'indi la
voce risulta distinta, COME vero parlare; non che quello de l'asina fosse altro
che ragghiare e quello del serpente altro che fischiare. Il testo ha: non indigent, nisi ut
sciant quilibetde quolibet, quia est, et quantus est. Parrebbe più proprio il tradurre cosi. Non hanno
bisogno di conoscere, se non ciascheduno di ciaschedun altro, che è,e quanto è:
ossia l'esistenza e il grado. Se alcuno poi argumentasse da quello, che OVIDIO
(si veda) dice nella Metamorfosi che LE PICHE parlarono, dico che dice questo
FIGURATAMENTE, intendendo altro. Ma se si dices che le piche al presente e
altri uccelli parlano, dico che è FALSO, perciò che tale atto NON è parlare, ma
è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si sforzano di
imitare noi in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO (cf. ‘talk,’ ‘speak’,
‘speak in tongues’). Tal che se quello che alcuno espressamente dice, ancora la
pica ride, questo non sarebbe se non rappresentazione, o vero imitazione del
SUONO di quello, che prima ho detto. E così appare agl’UOMINI SOLI e dato dalla
NATURA il PARLARE. Ma per qual cagione esso gli e NECESSARIO, ci sforzeremo
brievemente trattare. Che e NECESSARIO agl’uomini il COMERCIO, la CONVERSAZIONE.
Ovendosi adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI NATURA, ma per *ragione*. E essa
ragione o circa la separazione, o circa il giudidizio, o circa la elezione
diversificandosi in ciascuno; tal che quasi ogni uno de la sua pro [La voce del
testo, “discrezione”, sarebbe resa meglio dalla parola discernimento. del
parlare, pria specie s'allegra; giudichiamo che niuno intenda l'altro per la
sua propria AZIONE o PASSIONE, come fanno le bestie. Nè anche per speculazione
l'uno può intrar ne l'altro, come gl’angeli – JARMAN, La conversazione angelica
--, sendo per la grossezza e opacità del CORPO mortale la umana specie da ciò
ritenuta. E adunque bisogno che, volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE
IL SUO CONCETTO, avesse qualche SEGNO SENSUALE e *razionale*; per ciò che,
dovendo prendere una cosa dalla ragione, e nela ragione portarla, bisogna
essere razionale. Ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra
portare, SE NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE, e bisogno essere sensuale, perciò
che se 'l e *solamente* razionale, non puo trapassare. Se *solo* sensuale, non
puo prendere dalla ragione, nè nella ragione de porre. E questo è SEGNO (SENNO)
che il subietto di che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono, il
SEGNO (SENNO) è per natura una cosa sensuale. E inquanto che, secondo la
*volontà* di ciascun, *significa* qualche cosa, egli è razionale 1. Iltestoha:
Hoc equidem SIGNUM est, ipsum subjectum nobile, dequo loquimur. Natura sensuale
quidem, in quantum sonus est, esse. Rationale vero, in quantum aliquid
SIGNIFICARE videtur ad placitum. A noi pare più giusto l'interpretare questo
passo cosi. Questo segno, l'aliquod rationale signum et sensuale di cui ha
parlato poche righe più sopra, è per l'appunto il nobile soggetto di cui
parliamo. Sensuale per natura, in quanto è SUONO. Razionale, in quanto che, se
A che uomo e prima dato il parlare, e che dice prima, et in che lingua L’UMO
SOLO e dato dalla natura il parlare. Ora istimo che appresso debbiamo
investigare, a che uomo e prima dato dalla natura il parlare, e che cosa prima
dice, e a chi parlò, e dove e quando, e eziandio in che linguaggio il primo suo
parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima parte del Genesis, ove la
sacratissima Scrittura tratta del principio del mondo, si truova la femina,
prima cheniunaltro, aver parlato, cio è lapre sontuosissima EVA, la quale al
DIAVOLO, che la ricercava, disse, ‘Dio ci ha commesso, che non mangiamo del
frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo tocchiamo, acciò
che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in scritto si trovi la donna aver
pri mieramente parlato, non di meno è ragionevol cosa che crediamo, che l'uomo
fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa inconveniente mi pare condo la
volontà di ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale interpretazione
stala punteggiatura, e la voce esse del testo, che sarebbe di troppo ; ma,per
com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col senso di tutto
il Capitolo. Anifesto è per le cose già dette, che a pensare, che così
eccellente azione de la il generazione umana prima da l'uomo, che da la femina
procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato primier
mente il parlare da Dio, subito che l’ebbe formato. Che voce poi fosse quella
che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in pronto e io non dubito
che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per modo d'interrogazione, o
per modo di risposta. Assurda cosa veramente pare, e da la ragione aliena, che
da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio; con ciò sia che da
esso,& in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazionedel'u m
a n a generazione, ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è
ragionevol cosa, che quello che fu davanti, cominciasse da alle grezza, e
conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma tuttoinDio,& esso Dio
tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse
primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo
aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu,devette esser a Dio; e
se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello
che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo
averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella
LOQUELLA, che dicemo.Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non
si pieghino secondo il voler di Dio,da cuièfatta, governata, econservata,
ciascuna cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento della
natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio, di maniera
che fa risuonare i tuoni, fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi,
e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di Dio a far
risonare alcune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa
distinse?e perchè no? Laon de et a questa, et ad alcune altre cose credia mo
tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le
cose superiori,come da le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo primo
parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo parlante
parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo
crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che
egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni
perfezione principio et amatore,inspirando il primo uomo con ogni perfezione
compi, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima
cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le
obiezioni, 11 Iudicando adunque (non senza ragione trat, che non era bisogno
che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro segreto senza
parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella riverenzia, la quale
devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà
giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una
medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non
di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono,
colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo
credere, che da Dio proceda, che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne
allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori la
prima favella; perciò che se fu animato l'uomo fuori del paradiso, diremo che
fuori: se dentro, diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè
i negozii umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che
molti per le parole non intesi da molti, che se fussero senza esse; però fia
buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che
nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu
l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si nutri, e che nè pupil lare età
vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala è amplissima
città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo .Però qualunque si
ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco della sua
nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui parimente
sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna locuzione,a
tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata quella
diAdamo.Ma noi, acuiil mondo èpatria, sì come a'pesci il mare, quantunque
abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo tanto
Fiorenza,che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le spalle del
nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè se condo il
piacer nostro, o vero secondo la quiete de la nostra sensualità, non sia in
terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti e de gli
altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente si
descrive, e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo, e le
abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore, fermamente
comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che
Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e
molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone, che gli Italiani. R ir
tornando adunque al proposto, dico che una certa forma di parlare fu creata da
Dio insie me con l'anima prima,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e
quanto a la construzione de'vocaboli, e quanto al proferir de le con struzioni;
la quale forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro
sunzione umana non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa
forma di par lare parlò Adamo, e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de
la torre di Babel, la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa
forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono
detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro
Redentore, il quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin
gua de la grazia, e non di quella de la confu sione 1. Fu adunque lo ebraico
idioma quello, che fu fabbricato da le labbra del primo par lante . ' Il testo
ha: qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis,
sed gratiæ frue retur.E deve tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo
l'umanità, usasse della lingua della grazia, e non di quella della confusione.
Hi come gravemente mi vergogno di rin 15 e per De la divisione del parlare in
più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di
passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa, e l'animo la fugge, non
starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati, oh da principio, e
che mai non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua
corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a
tria de le delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà
della tua fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse
dal diluvio sommerso, il male, che tu avevi commesso, gli animali del cielo e
de la terra fusseno già stati puniti ? Certo assai sarebbe stato; ma come
prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza ; e tu misera
volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo, o vero
scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le
sferze, che erano rimase, venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e
superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto
persuasione di gigante, di, superare con l'arte sua non solamente la na tura,ma
ancora esso naturante, ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre in
Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava di
ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua
gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore. Oh cle menzia senza misura del celeste
imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi
non con inimica sferza, ma con paterna, et a battiture assueta, il ribel lante
figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta la
generazione umana a questa opera iniqua concorsa ; parte comandava, parte erano
architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le corde
", parte cavavano sassi, parte per ter ra, parte per mare li conducevano.
E cosìdi verse parti in diverse altre opere s’affatica vano, quando furono dal
cielo di tanta con fusione percossi, che dove tutti con una istessa loquela
servivano a l'opera, diversificandosi in molte loquele, da essa cessavano, nè
mai a quel medesimo comercio convenivano ; et a quelli soli, che in una cosa
convenivano una · Il Witte osserva che in luogo di pars amysibus tegulabant,
pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la volgata nel testo latino,
si deve leggere : pars amussibus tegulabant, pars trullis (o truellis)
linebant, e si deve tradurre : parte arrotavano sulle pietre i mattoni,parte
con le mestole intonacavano. istessa loquela attualmente rimase, come a tutti
gli architetti una, a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di
quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj
esercizj erano in quell'opera, di tanti varj linguaggi fu la generazione umana
disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno, tanto era più
grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma
rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente
biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono
una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono, sì come io comprendo,
del seme di Sem, il quale fu il terzo figliuolo di Noè, da cui nacque il popolo
di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua
dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin
gue non leggieramente giudichiamo, che allora primieramente gli uomini furono
sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni et angoli di esso. E
conciò sia che la P Sottodivisione del parlare per il mondo, principal radice
dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata, e d'indi da l'u no
e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione nostra
distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta, là onde primieramente le
gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta Europa. Ma
ofussero forestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima in
Europa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco ; e
parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la
settentrionale, et i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci, parte de
l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari, come di sotto
dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sassoni, Inglesi et altre
molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo solo per
segno, che avessero un medesimo prin cipio, che quasi tutti i predetti volendo
affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo idioma,cioè da
iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel tratto occupò.
Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e più oltra si stende,o
ve ro tutto quello de la Europa che resta, tenne un terzo idioma 1, avegna che
al presente tri partito si veggia ; perciò che volendo affermare, altri dicono
oc, altri oil, e altri sì, cioè Spagnuoli, Francesi et Italiani .Il segno
adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno istesso idioma,è in
pronto; perciò che molte cose chiamano per i medesimi vocaboli, come è
Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama,& altri molti.Di questi
adunque de la meridionale Europa, quelli che proferiscono oc tengono la parte
occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì,
tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a quel promontorio
d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la Sicilia. Ma quelli
che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto di questi ; perciò
che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni, dal ponente sono
serrati dal mare in 1 Il testo ha : A b isto incipiens idiomate, videlicet a
finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum
quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est protractum. Totum autem, quod in
Europa restat ab istis, tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A
cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un
altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa,
e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa
tenne un terzo idioma. 19 glese, e dai monti di Aragona terminati, dal mezzo di
poi sono chiusi da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è
bisogno porre a pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale
mettere alla prova, cimentare, ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle
cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la
variazione, che intervenne al parlare, che da principio era il medesimo. Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada, però so lamente
per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte, conciò sia
che quello che ne l'uno è ragionevole, pare che eziandio abbia ad esser causa
ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in
tre parti diviso, perciò che alcuni dicono oc, altri si, e altri oil. E che
questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente
provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli
eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo
il medesimo parlare si muta, e de la invenzione de la grammatica. A la quale
convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la edificazione
di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte cose
convengono, e massimamente in questo vocabolo, Amor. Gerardo di Berneil, « Surisentis
fez les aimes Puer encuser Amor.» Il
re di Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guinizelli, « Nè fè amor, prima
che gentil core, Nè cor gentil,prima che amor, natura.» Investighiamo adunque,
perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di
queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha
diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani,
e altramente i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi
cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi, ROMANI e
Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un
istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani, Ravegnani e Faentini ; e quel
che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli
che in una medesima città dimorano, come sono i Bolognesi del borgo di san
Felice, e i Bolognesi della strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e
varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste.
Dico adunque, che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto
effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni
nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a
nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu
che una oblivione de la loquela prima, et essendo l'uomo instabilissimo e va
riabilissimo animale, la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ;
m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi et abiti),
simutano;cosìquesta,secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va
riarsi. Però non è da dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con la
distanzia del tempo il parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ;
perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le altre opere nostre, le
troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli
altri de la nostra età, quantunque ci siano molto lontani. Il perchè
audacemente affermo che se gl’antiquissimi Pavesi ora risuscitassero,
parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora parlano in Pavia. Nè
altrimente questo, ch'io dico, ci paja maraviglioso che iI qualici siano molto
lontani (magis....quam a coetaneis per longinquis). ci parrebbe a vedere un
giovane cresciuto il quale non avessimo veduto crescere. Perciò che le cose che
a poco a poco si movono, il moto loro è da noi poco conosciuto; e quanto la
variazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è
da noi più stabile esistimata. Adunque non ci ammiriamo se i discorsi di quegli
uomini che sono POCO DALLE BESTIE DIFFERENTI, pensano che una stessa città ha
sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di
essa città non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia
divenuta, e sia la vita de gl’uomini di sua natura brevissima. Se adunque il
SERMONE nella stessa gente successivamente col tempo si varia, nè può per alcun
modo firmarse, è necessario che il parlare di coloro, che lontani e separati
dimorano, sia VARIAMENTE VARIATO; sì come sono ancora variamente variati i
costumi e abiti loro, i quali nè da natura, nè da CONSORZIO umano sono firmati,
ma a beneplacito, e secondo la convenienzia de i luoghi nasciuti. Quinci si
mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale grammatica non è altro che
una inalterabile conformità di parlare in diversi tempi e luoghi. Questa
essendo di comun consenso di molte genti regulata, non par suggetta al
SINGULARE ARBITRIO di niuno – GRICE, Deutero-Esperanto, High-Way Code --, e
consequentemente non può essere variabile. Questa adunque trovarono, acciò che
per la variazionee del parlare, il quale DELLA VOLGARE ELOQUENZIA. De la
varietà del parlare in Italia dalla destra e sinistra parte dell'Appennino. LA
VITA D I Gl OVAN GIORGIO O. LA VITA GlOVAN GIORGIO O., ORATORE, E POETA SCRÌTTA
DA CASTELLI VICENTINO. IN VENEZIA, Per Giovanni Radici.Con Licenza de’
Superiori, e Trtvììegio. sAlli Kob. Kob. Sigg. Co Co. PARMENIONE, ED ALESSANDRO
trissini, ^ier-Fuippo Castelli. t «1 et egli fu fempre le cita non fo lamento,
ma lodevol cojaa chiunque ha fatto penitelo di mandar a luce un qualche Juo
componimento, lo fceglìero a alca alcuno illujlre e ragguardevole perfonaggio,
a cui intitolarlo ; non fola mente per acquijlargli col nome di lui pregio e
ornamento y ma ancora per poterlo col favore di lui mede fimo dagl vividi morti
de' malevoli difendere, e ajfìcurare : mafiimamente di ciò fare a me fi
conviene, il quale avendo dìliberato di dare alle luce il già condotto a
maturità primaticcio frutto del poco e debile ingegno mio, voglio dire la V ita
del nobili fimo, e dottijfimo Poeta e Oratore Gì ovan Giorgio T rissino, decoro
e fple udore ampli filmo di que fi a no fi r a Città di Vicenda s a nobile e
buona guida con pili di ragione debbo accomandarlo, onde poffa fi curamente
ufcir fuori, Me migliore per tanto, nè piu fidata fo ritrovarne di quella della
molta Vofira Umanità, e Genti legga, Jllu I Illustrissimi, e Nobilissimi Sigg.
Conti-, concio [fi ache Voi Germe fiele di queir amie hi filma, e fempre
cospicua Famigliai Voi alla tefifiiitra, e alla pubblicazione di quejì Opera ni
avete piu volte inanimito, e follecitato ; e Voi per fine dotati fiete di sì
illuJlri prerogative, le quali ( comeche un largo campo me fe ne pari davanti )
per lo timore di forfè non offendere la fingolar VoJlra moaejlia ometterò. Non
voglio tuttavia la f dar di accennare V amor Vojlro alle lettere, e a chi le
coltiva, il quale ficco me dà a co no fiere quanto nobile fi a la Vofira
indole, e quanto colto il Vojlro ingegno, così Vi fu e fifere in Patria e fuori
fingo tarme nt e chiari. In fatti e chi e tra per la bre' ' C vita, e per ?ion
piu fajlidirvi la f ciò di dire, io umilio e dedico a Voi,. Nobilissimi* e
Chiarissimi Cavalieri, quejia mia prima Operai la quale y perciocché la V ita
contiene del non mai ablctJlan^a lodata Giovangiorgio Tr issino, fon ficuroy
che da Voi, che con lui comuni la patria, il cognome, e le virtù avete,
benignamente e gratamente farà accettata . E qui nella pregevol grafia Vojlra r
accomandandomi Vi faccia umilijftma riverenza, A Vita di GIO V ANGIORGIO O.,
poeta e orator celebre, ficcome per alcuni: è Rata già fcrirta, così parrà a
prima villa, che inutii cola ila Hata Io /crivella .di nuovo ; ma perchè quelli
tali Scrittori han di Lui molte cole dette, le, quali o non fono Rate per eflì
.bene difeufle, o forfè .anche furono dette a capriccio, perciò non Lenza
ragione rilolvemmo .di così fare . Tra efii uno fi fa eflere Rato il Signor
ApoRolo Zeno, di chiariffima memoria, il quale nella fine del le* colo
paflfatodiede jh luce la Vita d’O. inferita nella terza parte della Galleria di
Minerva in Venezia prejj'o Girolamo jilhrivjj 1 696. in foglio ; ma ficcome gli
uomini 'veramente dotti ed ingenui non fi vergognano di ritrattar quegli
errori, che nelle proprie Opere conofcono aver commefiì, così non ifdegnò egli non
pure di dirci a bocca, ma di farci fàpere eziandìo per lettera, mandataci da
Venezia addi iv. di Giugno dell’anno 1749., che nè quella Vita, nè ciò, che col
fuo nome fu Rampato e in quel tomo, e negli altri ancora della detta Galleria
di Minerva, riconofccva per cola fua : e quelle fono le fue parole . Sono
cinquanta e più anni, ch'io fcrijjì quella Vita dell' infigne Giangiorgio T
rijjìno, la quale fi legge nella Galleria di Minerva. Sappia però V. S., ch’io
prefentementc, anzi da gran tempo in qua non ricono feo per mio lavoro y ma per
aborto della immatura mia età tanto . la medejima Vita, quanto tutto quello,
che col mio nome fi legge flampato in quel tomo della Galleria di Minerva, e in
tutti i Jeguenti, Ci fono qua e là V'arj punti effendi ali e importanti, che
allora mi parvero con vero e fame difcujfy, e che ora per migliori lumi fopr
avvenuti ritratto, e condanno . Di tutto ciò mi è paruto avvi far la per fua
regola, e mia giufìife azione . Sebbene quali lo Hello avea egli fcritto affai
prima al P. D. Pier-Caterino Zeno, Somafco, fuo fratello, di fèmpre
celebratiffima ricordanza ; mentre tra le fue Lettere, di frefeo fìampate in
tre volumi in 8. col titolo di Lettere di Apoftolo Xeno ec. I n Venezia,
apprcjjo Pietro Valvafenfe ; nel z. Volume a car. 91. ve n’ha una a lui
diretta, fegnata di Vienna., in cui in proposito della riftampa dell* Opere del
Triffino allora ideata da’ Sigg. Volpi, così gli diC. fe : Vinti i fono, eh' io
diedi fuori nel /. Volume della Gallerìa la Vita di effo ( Triffino ) : ma Je
orai avejfi a ferriere, la riformerei tutta da capo a piedi : onde fe io ne fo
ora sì poco conto, avvertite anche i Sigg. Volpi a non far fopr a efja alcun
fondamento . Allorché in Verona preflò Jacopo Vallarli fi fece la ri Rampa
delle Opere del noflro TR ISSINO, proccurata dal chiariamo Sig. Marchelè
MafFei, ma primieramente ideata da 1 rinominatiifimi Sigg.Vol. pi di Padova,
tanto delle Lettere benemeriti (come appare e dalle parole della lettera
furriferita dei Sig. ApojRolo Zeno, e dal Giornale de’ Letterati d' Italia, . )
noi lappiamo edere Rato pregato il liiddetto Signor ApoRolo, che vi lalciaflè
premettere la detta Vita ; ma non avendo egli allora avuto tempo di r:
correggerla, «Rendo occupato in altro impiego, non volle acconientire . Ne fu
tuttavia fatto un breve Rjfìretto dal mentovato Signor Marchele, e fu alle
Opere luddette premeflo ; nel quale egli pur prele qualche sbaglio, eflendofì
(come a noi pare ) attenuto alla Vita inferita nella Galleria di Minerva, e a
MonEgnor Jacopo-Filippo Tommafini, che fu il primo a feri ver del TRI SS INO a
lungo, teifuto avendone un latino elogio Rampato in un cogli altri fuoi Elogia
Virorum literis, et f apienti a illuflrium : Patavii, ex T ypographia
Sebajtiani Sardi, . in 8. Datici per tanto con lollecito penfiere a racoorrc le
cole fparfe qua e là in varj libri, ed anche a cer. carne di nuove, trovammo a
calo in un Difcorfo intorno aìl'Opere del noRro Autore, del Sig. Cavaliere
Michelangelo Zorzi (Rampato nella Riaccolta dOpufcoli Scientifici, e Filofojìci,
toni. 3. a car. 398.) la quale cominciatali a pubblicare per opera b del P. D,
Angelo Calogero. M. Carnai, in VencTja appreJJ 0 Crifioforo Zane in 1 z.
leguitandoll tuttora a produrre da'torchj di Sirnone Occhi è già arrivata
alTomoXLVII.) citato a car.441. una dia manulcritta Vita d’O. i per la qual
cofa torto ricercatala con molta diligenza, ci venne fatto, per mezzo del
Signor Abate Don Barcolommeo Zigiotti, non pure di ritrovarla, ma di averla
eziandìo cortefemente in noftra cala, Quella Vita rt conferva di prelentc
appiedò i Sigg. Conti Triflìni dal Vello di Oro, dilcendenti del noftro Autore,
ed ha quefto titolo : Ragguaglio Jftorico, e Letterario intorno alla Vita di
GIOVA NGIORGIOO. Nob. Vicentino, Co., Cav ., Poeta, ed Oratore infìgne ; con un
Efame delle Opere da Lui fiampate, e col giudicio fatto delle medefme dagli
Uomini più celebri di quc' tetri pi, e con una ccnfura J opra il fuo Poema
Erpico intitolato L A ITALIA LIBERATA DA GOTI, eftratta da Critici allora più
famojì, e più intendenti della Poetica Difciplina . Aggiuntovi un,e fatto
Catalogo delle Opere tanto pubblicate, quanto MS S. dello fìe ffo O., ed un
Indice copio (0 d' Autori, che parlano di Lui, e che fomminijlraron no tifi e
per compilare la Vita prefente, Il Manofcritto è in 4., e comprende 653. facce.
Da quello titolo sì fpeciolo e pieno credevamo invero, che invano ci foffimo
medi all’opera, c che avedìmo perduta la fatica inutilmente ; ma piu cuore ci
facemmo a profeguirla, ed a compierla, allora che letta e riletta la Vita fleflà
trovammo ella poco piu in se contenere di ciò,, che detto aveano i predetti
Autori r oltreché ognuno recherebbe!! a noja il leggerla a cagione delle
parecchie lunghe digreffioni, che F Autore vi frappofe, lontane affatto dalla
materia, che e’ fi propofè di trattare ( vizio Colico nel Cavaliere Zorzi, ma
pure fcufabile in lui per la valla raccolta di letterarie erudizioni, che egli,
come in preziofà confèrva, nel teforo di fila mente ferbava ), benché per altro
cotali digreffioni in sé contengano molte curiofe notizie . Non polliamo
tuttavia non confeflàre, averci quello Manufatto varie cofè fommini firate, per
cui vie più. arricchita abbiamo quella noilra fatica ;la quale ficcome cola
nuova e vera, fperar vogliamo, che non abbia ad eflère fèr non di diletto.
V'abbiamo per entro fparfe alcune notizie letterarie ed ifloriche fpettand a
varj perfonaggi, che fiorirono nell età del noflro O., oa qualche fatto
notabile de! tempo fleffo, lenza però dilungarci granfatto dal hlo principale
dal racconto; le quali notizie vogliam parimente credale, che non faranno
difeare. A non oltrepafiare la brevità, che ci fiamo prefifla, abbiamo a bella
polla tra lafcia te alcune cole di non tanto conto/ perchè altrimenti fé avefà
fimo voluto dir tutto ciò, che ad O. 1 può. appartenere, di tanto fi farebbe
quella Vita. b z afiim prefazione. allungata, che, anzi che diletto, noja e
fafiidio apportato avrebbe . Quanto poi alle Opere del noRro Autore, crediamo
di non averne tralafciata pur una, come apparirà dal Catalogo, che fi pone in
fine di quella Vita y dove molte fé ne vedranno regiRrate, che non furono mai
Rampate, ed al Compilatore fopraccennato o non venute a cognizione, o dalui per
avventura non curate: e di molte eziandìo fi favellerà, che da qualche
Scrittore da fallace tradizione ingannato a GIOVAN GIORGIO furono attribuite .
Tutti i Titoli per altro delie Opere fleffe non ci fiamo curati di riferire
appuntino, come Ranno ne’ Frontelpic) delie edizioni, non ci parendo cofa di
grande importanza > e fimilmente se fatto nell’ allegare, e citare qualche
pafso di fue fcritture: e abbiamo tralafciato eziandìo i Caratteri Greci dal
noRro Autore inventati, non avendogli giudicati quivi totalmente neceflàrj, e
non già credendo di reìidcr così molto buon fcrvigio alla memoria di quel
grand’ uomoy come fi lafiiò ulcir della penna il per altro tanto benemerito
dottiilìmo editor della rifiampa delle Opere dei Trillino fatta in Verona j
imperciocché tenghiamo per fermo, che Te il Triflino folle vivo, figurerebbe a
afare nelle proprie fcritture quelle lettere da se con tanto Rudio ritrovate,
ulate, e difcle. Dopo di avere così Icritto ci confoliamo, parendoci di elserci
in quefio particolare uniti alla oppinio vir ©ppìnione del fu Signor Apollolo
Zeno, che nella più fopra citata Lettera al P. D. Pier-Caterino fuo fratello
così Icrilse : Lodo /'edizione di tutte /' Opere del T riflino . Ma fi farà
ella con gli Ornicron, e cogli Omega, e con la foli t a ortografia di quel
grand’ uomo? Si farebbe potuto regiftrar anche il catalogo di quegli Autori'*,.
che di Lui fecer menzione ; ma liccome molti lì troveranno già citati per entro
quella Vita, e gli altri non ne parlarono più che tanto, così noi ci lìamo
dilpenlati da .quella forfè dilutile fatica . A quello però può abbondantemente
lupplire la Tavola delle cofe notabili, che alla fine del libro abbiamo
aggiunta ; la quale altresì mette in un tratto lotto l’occhio del letrore tutte
quelle notizie letterarie ed illoriche, che, come lopra è detto, abbiamo fparfe
qua e là: Tavola che lenza quelli ragionevoli motivi, lì larebbe dovuta
certamente lalciare in un’Opera di pochi fogli, liccome lì è quella nollra.
Circa poi le correzioni ed ofservazioni critiche per noi fatte lòpra gli errori
d’ alcuni de’ detti Autori, lì vuol qui dire, che non s’intende giammai
d’olcurar punto la fama, che e£Iì godono più che chiara tra’ Letterari, ma fola
mente di far apparire il vero nella lua luce; e le allo ’ncontro qualche errore
lì troverà in quella Vita da noi innavvertenremente commefso, lì feulì la
piccolezza della nollra luffìcienza ; riflettendo maflìme, che rari lon quegli,
i quali vadano in tutto efenti da que’ difetti,, che ( come dicea l’Abate Anton
Maria Salvini ) fono patrimonio e retaggio di nofircc fievole umanità.
Finalmente fe vedremo y che quello primo parto del noftro rozzo ingegno lìa
gratamente ricevuto,. come ci giova iperare, dagli uomini lavji ed eruditi,.
noi allora con maggiore follecitudine attenderemo a profeguire la già da
parecchi anni incominciata faticolìllima Opera delle Notizie Letterarie ed I
(loriche degli Scrittori Vicentini da altri pure, ma Tempre infelicemente
ternata; nella quale,. le non andiamo errati r fperiarno di inoltrare,. che (
come lalciò Icritto il nollro Ba~ flian Montecchio nel- fuo- Trattato; De
Inventario’ tLeredis, et c . Venetiis apud Fransi feum Zilettum a car. 160. a
tergo, num, joz.- J Viceda foecunda fuit JvLxter et jiltrix poetarum
philofopborum, or a forum,, thcologorum,. jurif confiti forum y ant i queir
iorum medicorum, atque in qualibet facultate eruditorum ; e che per ciò elsa
noa è. a verun altra città inferiore KOI! Spcriarao prròdi vedere a luce rra
fonazioni intorno all a forte miiliopoeo tempo un’Opera ddl’cruditif»..! re
della Storia Ecclefiaftica r eSe~ Sig, Dr. D. Franccfco Fortunato Vi- J colare
della medefima noftra Patria,, gna, la quale conterrà V /fiorite Let- !
promclTe col dottifsimo fuo Preli/er 4 r/ e ricca del pari di facoltà» e di
Soggetti » che in ogni genere di profeffione illuftri ella ha prodotti in ogni
tempo . Ella è in parecchie linee divifa » e tra effe con particolar luftro
fplendc quella, che conofce per fuo gloriofiflimo afeendente quel
Giovangiorgio, di cui fcriviamo la Vita ; il quale alla nobiltà del legnaggio A
avendo accoppiate le più eminenti prerogative# che render pollano un
perfonaggio e’n rarità di dottrine, e’n cavallerelche virtù fplendentiflimo,
non fedamente tra’ Letterati, ma in una gran parte del Mondo celcbratiflìma, ed
oltremodo chiara lafciò la fama del fuo nome. Nacque adunque Giovangiorgìo
Trissino' in Vicenza il fettimo, o, fecondo altri, l’ottavo giorno di Luglio.
Suo Padre fu Gafpare Trillino, uomo d’armi, e colonnello di trecento fanti
alToldati col proprio danajo a fervigio della Repubblica di Venezia, appo cui
acquiftò (ingoiar merito; e fua madre fu Cecilia di Guilielmo Bevilacqua,
nobile di Verona. Non pure da un Epica- 1 luogo fi favellerà) cioè) che P fio
delle geftc del noftro Tms- anno 1487. per la morte di fuo SINO, collocato in
S. Lorenzo j Padre egli rimafe orfano di fette di Vicenza, di cui a fuo luogo '
anni . Ma liccomc egli non in diremo didimamente > ma da mohiflimi Scrittori
appare edere egli nato l'anno fuddetto, c fpczial mente da Monfignor Jacopo
Filippo Tommafini nel fuo tuteli luoghi di fue feri tture fida l’epoca del
fuonafeimemo in un medefimo anno, fccondochè lui bene tornava, e in utilità de*
fuoi dcmeftici affari ( come ci fe libro intitolato ; Elotia rirornm certi il
Sig. Abate Don BartoLittris et ftpitntia illuftrium lommeo Zigiotti, che tutte
vi' &c. Patavii ex 7 ypo{rapkia Se- J de, e rivide le private Scritture
bacioni Sardi 1644. in 8. a dell’Archivio de’Sigg. Co. Co. pag.48. Quello
tuttavia potrebbe [ Tri dì ni di lui eredi); cosi ci è non crederli, quando
fode vero! paruto miglior cofa edere lo acciò, che il T r issino medefi-
tenerci anzi alle autorità, e air irto dica in una fua mirini* far- 1 unanime
confentimento dei pre fic" come fu fuo maefiro quel Demetrio Calcondila
Ateniefe, la cui fama è sì chiara tra’ Letterati (5); al quale appreflb fua
morte erger fece il Trissino un bel Depofìto, ed Epitafio Scolpito in marmo
bianco nel facrario della Chiefa della Paffione della Città Aefifa di Milano,
come dicono Paolo Beni, c'1 P. D. Francefco Rugeri Somafco, cd altri, il qual
Epitaffio non V’ha un’epiftola addetto Giraldi in vedi Latini del Sacco di
Roma, polla nel 2. tomo delle fue Opere della edizione di 8 Mfilt.it per T
nomar» Guarinmn, infol. che autorizza il noftro detto cosi dicendo; tt Aec
dttfet Bembus, q*o » nere pr e fi art hot alter „ A«e q»cm Ntbilitar gene . tt
rit, f ac media triplex » Irejigreem fAcit, et viridi mihi notr s ab avo „ T r
1 * s t N U s, In fibra dum tt Grecai difeimm Urbe. Da una Lettera aliai lunga
del Trusino, fcritta da A-iilano li. all' txc cliente Medie» ( così Ha ferirlo
) M. Uini tritio da Afalgradt, fi ha, che egli non pure era fcolare del
Calcondila, ma che anche abitava in fua cafa. (6) Tratt . dell' Origin. della
Famiglia Trijf. lib. 2. a car.33. Nella Declamazione latina intitolata :
Trutina JOelpb»htdrki Tabellariatui Traiani 1 Boc Digitized by Google del
TRissino. 5 non pur fi conferva manufcritto con altre fue compofizioni fin ora
non date a luce, appretto i Sigg. Co. Co. Fratelli T riflìni di lui eredi*, ma
fu anche ftampato nella Biblioteca degli Scrittori Milanefi pubblicata dal Sig.
Filippo Argelati Bolognefe (8), e poi riferito fulla fede di quefto autore da
Criftiano-Federigo Boernero nel libro de' Dotti Uomini Greci riftoratori della
Greca letteratura nell’ Italia (p); ed è quefto. p. m. DEMETRIO CHALCONDYLyE
ATHENIENSI IN STUDIIS L1TERARUM GR^CARUM EMINENTISSIMO QUI VIXIT ANNOS LXXVII. MENS. V. ET OBIIT ANNO
CHRISTI MDXL O. GASP. FILIUS PRAICEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMO POSUIT. E di
fiat cui ini ice. Alon.ìchii fuisformis, CTfumptibmt cuffie Nicola hs tìmricHs,
t6aa. in 4. pag.xxi 1 1. e xxiv. ove dice: „Hic ( JojGeoru gius ) a viro do&ìllìmo
De„ inetrio Cbalcondyla Athc-,» nienti, tanca ingenii foclici„ tace, Gricci
fcrmonis latices, » haufic ut.... Attici cognomen, „ paucorununenfium
cuiriculo, „ ex fui prseceptoris fententia, „ verius proineruit : Magiftro i)
benemerenti gratiflìmu,, cui », McdioJani vita fun&o, mo » numentum
marmoreum in „ tempio Paffioni Servatoti, noftri facrum excitavit. (8) Philip
pi Arie lati Bono, nienfis Bibliotheca Scriptorum Alcdiolancnjìnm, five Alla,
et Elogia Virorum omnigena or odi. tionc illuflrium, qui in Metro, foli
Infubrie, Oppidifquc circum. jacentibut orti funi lice. Medio. Uni 174J. In JLdibus Palatini t; Tom. ix. in
fol. l’ Epitelio Chriftiani Frid. B temer i De E di ciò non .contento Giovangiorgio
volle j in fegno di gratitudine maggiore allo fteflò Tuo grande maeftro, farne
altresì lodevole menzione nel predetto fuo Poema (io). Donde fi deduce, che
molto lontana è dal vero la opinione di Giovanni Imperiali, Vicentino, il quale
fcrifse eflere fiato il Tassino affatto ignaro di lettere fino all’età di
ventidue anni; e che dipoi andato a Roma, al folo udì* re colà le aringhe de’
Letterati, tanto fi accen. defle in lui la brama di fapere, che giugnefle in
breve tempo a quella letteratura, che lo rendette poi così celebre, e così
illuftre: il che difsero anche Paolo Beni (i z), ed un altro autore. Allo De
dotti Hominibn i Gr tris Li- Il Calcondilt, che farà, che t trarum Gracarum in
Italia in- ditene (taur attribuì Libtr. Làpfi* in Bi- Verrà ftco in Italia, t
pian tliopolie Job. Frid . Sledijtchii terawi 1750. in ii.gr. Qui l’ Epitaffio
è II feme elette della lingua a car. 185. Greta, (10I Ita!. Libtr. da' Goti,
lib. fit ) Gio. Imperiali Mufxum *4. nella fine con quelli verli . Hiftortcum
óiC.Venetiù apuajunVtlgett gli occhi a luti pre- ; ttai . 1640. in 4. pag. 43.
dori ingegni ; ( li ) Tratt. dell' Orig. della Quello è BeJJarion, quell' altro
Famigl. Trzff. lib. 2. a carr. 33. i’I Gaxjt ; Qiiclli fu un certo G» . leazzo
Trillino in una Genea QnelV altre t'I Gemijle col 1 logica Narrazione della fu
a faTrapeftnxj», miglia, da effo iraslatata di la £ 'l C aleni’ dii e, f’I
Lafcari, e[ tino involgare. Di quefto vol*1 Muffure, 1 garizzamento fi trovano
parec * chic. Allo ftudio delle Greche lettere uni il noftro O. quello delle
feienze Matematiche} e tifiche (14), e quello ancora dell’ Architettura, in
èhie copie, c una è appretto il perfona del noftro Giovanrnentovato Sig. Co:
Parmcnione | G1orgìo, c che da edo ci fu‘Triflino, della quale ci fiamo rono
pare con umanilTima gcnferviti a fcrivere queftaf'it.», e tilezza trafmede a.
Vicenza. Forciceremla col nome di Gemalo- I le che detta Raccolta di Scric* già
delia Cafii Triffino di Galeaz. • ture queUa era, che da Paolo zj> Triffino
. Quello autore di- Beni viene citata nel predetto ce nel proemio di avere ac-
{no Trattato Manufcricto della trefeiura eda Narr Azione da (e Famigl. Trifs. a
car. 26. Ann. tradotta a inchieda di parco» 1404. con quelle parole: Gic: chi
fuoi amici e parenti, i qua- Giorgi o Tr issino» il li voleano i che c’ia defle
an- Poeta, di chì ragioneremo, nelP che in luce. Orazione che fece nel green
Con Un’altra copia nc ha il Sig. figlio di Tentila fer ricupera Abate D.
Bartolommeo Zigiotti Alone delle fue Decime nella Tilin tutto limile alla
predetta . Un Im di Tal d’ Agno, che fi legge Tello poi di quell’opera era già
fcritta a penna nelC Archivio appretto i p. P. Somafchi della del Sig. Co.
Bonifacio Triffino Salute in Venezia! e queftonoi j nel libro, che ha per
titolo Rimiamo, dite potefte ctTcrc I'IPrisca Triisjne^ Famioriginale. Con ctTo
era unita) ti .€ Monumenta.* et c.., la citata Aringa di G 1 o v a n- facendo
egli menzione delle Giorgio, c ’1 Trattato mano- Scritture defle anche a car.
29. fcritto della Famigl. Triff. di I del primo libro dello Aedo fuo Paolo
Beni, ed altre feri t tu re Trattato della Famigl. Triff ., concernenti alla
detta Famiglia: che è dampato, di cui più intutto in un libroin foglio, fui
nanzi faremo menzione. Dilli, cui cartone al di fuori lì legge- j che era nella
Libreria de’ P.P. delVano quelle parole: P r i se a t la Salute in Venezia,
perchè ogTrusinea Familismo-! gidi certamente ivi o non vi fono hu menta. Le
quali Scrittu- j ìe dette fcritture, o difficilmente prima erano appredo il
P.D. te fi podono ritrovare : conciof* Pier-Catcrino Zeno Cher. Rcg. fiachè io
col mezzo anche del Somafco, di gloriofa memoria} | P. D. Jacopo Maria Paltoni,
che come ci dide il Sig. Apoftolo j con tutta bontà mi favorì di diZeno, fuo
fratello, che di ede ligentemente cercarle, non abbia tutte nc eflraflc quelle
notizie, mai quivi potuto ritrovarla, che credette più fpettami alla) (14) Che
il Tr issino fof— - -, fc in cui molto fece di profitto, come ne fa fede non
pure un piccolo ir aitato in cotal materia da lui comporto (15)» ma la fabbrica
del fuo Palazzo nella Villa di Cricoli a mezzo miglio lontana da Vicenza, che è
tutto di fuo difegno fulle regole di Vitruvio (i Quia 1 ri* del nome loro. Non
fi può *,, Parthenius multaruni (cien-' veramente farne altro gìudicio, >»
tiarum homo, diù literas ibi i confederata con la prontezza di „ docuit,
erudivitquc canqu 3 m j cotefii ingegni, che voi harete », in Lyceo Juvcnes
nobiles Vi- da e fer citare, la finezza delle », cetinos maximè, ac Vcnctos.
veftre lettere, e la gentil manieri) Queita lettera, che fi ra, propria di voi
filo nel dilcgge tra la Lettere di xiu. mojtrarle . Entrate pure, Sig.Com
Uomini illuftri ec. In Venezia pare con franco animo in quefia per Comin da T
rino di Alonfer - eroica imprefa, e commutile at e rato, 1561. in 8,, a car.
180. e altrui i tefiri della vera dolche fu anche inferita nella terza trina,
parte con la voce, e parie del V Idea del Segretario di parte, ancora con la
penna, che Bartolommeo Zucthi, In Vene- non ho dubbio, che nell’ ameniz.ia prcjfo
la compagnia minima tà di quella vaga fan zia non vi léso, in 4. a car. 8 1. ;
Quella let- fi defti defiderio di qualche bel tera, dico, vogliamo qui rife- la
poefìat al che doveri fifpiCÙe; cd £ quella.. ( [ gntrvi la rimembranti, che
ogni trat Digitized by Google ti L A Vita S’era già ammogliato il noitro
Tassino a Giovanna Tiene, nobile Vicentina, da cui avea avuti due figliuoli,
l’uno chiamato Francefco, che morì giovane, e l'altro Giulio (25), il quale fu
poi Arciprete della Chiefa Cattedrale di Vicenza (26)$ ed eflfendo effa morta,
di tanto egli fi ram tratto il luogo vi darà del dot tijfimo Trisjino; in cui a
giudicio mio chiiirijftmo efempio ha veduto Reta noftra delle tre più pregiate
lingue, cc» Di Venetia olii xx. dì Maggio MDLV, Compari e fratello Paolo
Mariano . Ciò» clic della Villa (addetta di Cricoli lafciò fcritto il Sabellico
nel Poemetto intitolato Crater yiccntinus, porto nel tomo iv. delle fue Opere,
a car.550. ( nominato dal P. Rugcri nella ìua Declamazione a car. xxv.) fu
molto prima che ella fofsc ridotta alla perfezione, c vaghezza, che oggi fi
vede; la qual cofa fu osservata eziandio dal Beni nel luogo citato. Nel Palazzo
iftcfso di Cricoli ebbe diletto di foggiornare parecchie volte 1 ’ Arcivcfcovo
di Rofsano Monti?, nor Giovambatirta Cartagna » nobile Romano, Genovefc di
origine, nel tempo, che era Nunzio di Gregorio .irti, in Venezia; come dicono
il P. Rugeri Trutina&c. pag. xxv., c Paolo Beni Tratt. dell' Orig. della
Famigl. Trift. rtampato, a car. jj., e’lTom-{ I mafini Elogia &c. pag. 49.
e 50., ed altri; U qual Prelato fu poi [addi li. del Dicembre dell’anno 1583.
creato Cardinale, e poi a’ 1. fatto Papa col nome di Urbano vii. | Onde in
memoria di ciò fu la I cornice d’una porta d’una Ca| mera del mcdeìimo Palagio
vi tu incifaquertaifcrizionc; B E at issi m 1 Urbani VII. Hospitium ; e
fovrappoftovi il Bufto dello ftefso Pontefice. (14) Nel Ri/fretto della Vita
dei O. prcmcfso alle fue Opere dell^ rirtampa di Verona, quella fua prima
moglie è chiamata erroneamente Giovanna T r 1 ss 1 n a, quando ella fu
veramente (come conila dagli Arbori) della Famiglia de k Cor Co: Tiene. Di
quello Giulio avremo occaGonc di fare pcculiar menzione, a cagione de’ fuoi
lunghi litigj contro al Padre. (26) Che due figliuoli avefsc il Tr issino della
detta fua moglie» lo dice ilTommafini negli Elogi pag. 30., cd altri; ma il Tr
issino irtclfo nella citata lettera al Reve d’O.. 13 rammaricò, che non volle
più dimorare nella Patria 5 ma partitofcne tornò a Roma, dove già era ftato
effe ndo giovane; e quivi col cuore ingombrato da quello fanello penliero fi
diede a telfere la celebre -Tragedia della Sofonisba, della quale innanzi
parleremo minutamente. Frattanto eflendo morto il Pontefice Giulio 11 . gli
fuccedette Tanno a dì xi. di Marzo, o fecondo altri addì xv., il gran Cardinale
Giovanni de’ Medici» che fi fece chiamare Leone X., il quale, ficcome quegli
che era principal protettore de’ Letterati, avendo conofciuto il Tris sino,
s'innamorò ardentemente del fuo raro ingegno, e poi lo amò fempre quanto
ciafcuno illuftrc Perfonaggio del fuo tempo, c l’onorò fommamente, impiegandolo
eziandio in varj uffizj affai riguardevoli. Godea egli pertanto in quella Corte
tutti gli agi, e gli onori tutti, che a un Perfonaggio diletto al Pontefice fi
convenivano; quando venutogli nella mente il già goduto rìpofo nella fua Villa
di Cricoli, deliberò di Reverendo Prete Francefco di j ra poi del medefimo, che
non Gragnuola, che fu fuo macftro, c fra le (lampare, fcritta da Aiudandogli
ragguaglio delle cofe ' ratto al detto Giulio addì iS. della fua cafa, d’altri
non par- M*rz,o 1542., fi ha, che elio la, fuorché dell’ Arciprete con Giulio
fu primamente Cameriere quelle parole: Hebbì della yri- di Papa Clemente vii.
> c clic ma moglie un figliuolo, il qua- da lui fu poi fatto Arciprete del.
le è fatto-, ed è Arciprete di la Cattcdtale della Cittì noquefia Città. Da
un’altra lette- j ftra di rimpatriarli : laonde prefo commiato dal Pa» pa,
tornò a Venezia, dove fuori di rutto il fuo penfamento trovò materia, per la quale
e’ dovette per lungo fpazio di tempo anzi inquieta, che ripofata menar fua
vita. Ciò fu una per altro temeraria infolenza di alcune Comunità di certe
Ville del Territoria Vicentino, fpecialmcnte di Recoaro, e di Val d Agno, che
prefa l’occafione delle turbolenze e rivoluzioni, che travagliavano in
que'tempi non pure la noftra Patria, ma tutta la Lombardia, aveano fupplicata
la Sereniffima Signoria di Venezia fotto palliato colore di oneftà, che volefle
(gravarle dellobbligo, che aveano di dare le Decime delle loro ricolte
a'CorC.o: Triffmi della linea del noftro Giovangior.gi.o, i quali n erano i
foli Proprietarj e Padroni, come quelli, che dalla Signoria ilefsa ne erano
(lati invertiti a di 3. di Settembre. E benché addì 6 . di Ottobre dell'anno
1512. le dette Comunità avefsero avuta fopra ciò contraria fentenza in foro
civile, non però di me* no tentarono, fe favorevole giudicio ottener po tefsero
io foro ecclefiallico: e perchè ne furono molto Della Repubblica di Venezia fi
gloria d’ cfscrc volontaria prima fuddita la Città di Vicenza -, la quale anche
però è chiamata dagli Scrittoci Primogenita d’cfs a Repubblica, perche la Piuma
fu, che fra tutte le Città fudditc le fi donifse fpontancamcnte: il clic fu
molto torto impediti, però efli per forza dal fuddetto obbligo fi efentarono.
Ma in quello mezzo per giurto motivo quefte Decime applicate furono al Fifco
Pubblico. Tornato adunque Giovanciorcio in Patria, come dicemmo e trovati sì
fatti difordini, de’ quali dicea egli di non averne avuta, dimorante in Roma, veruna
relazione (so)-, pensò di ricorrere alla Signoria medefima, perchè almeno gli
fofle redimita del" le fuddette Decime la fua propria porzione- Se poi
egli efFettuaffe perfonalmente quello fuo penfamento, o fe altri in fuo nome
facefse la fupplica, noi noi fappiamo di certo: comunque ciò fofse, fatto ila,
che cfsendo Hata conofciuta la fua innocenza, e a riguardo fpecialmente di Papa
Leone, il quale la iatercertìon fua in ciò frapOttennero i Co; Co;Trifflniaddi
ia.di Novembre Lettere Ducali proibitive del non doverli trattare in foro
ecdefiaBico quella lite. Tommafini negli Elegi pag. 51. dice, clic furono
confricati i fuoi Beni ita urgente belli fortuna : c poco appreffo parlando
della refiituzionel fattagli de’ Beni Beffi dai Vene-! ziani, accenna la
cagione d’cf-| fa confifcazione, dicendo: fai, cognita ifjìut innteentìa,
Veneti Bona ab / enti jujìa confanguintorum culpa ob defetHoncm erepra, benigni
reflituerunt . Noi veramente fappiamo qual folle cotal colpa} maonefii
rifpetti, e necefsarj giuBi motivi non ci permettono di riferirla. Tanto egli
afferma nella fua siringa-, di cui diremo più datatamente a fuo luogo.
Irappofe, gli fu Tanno fuddetto . reflituita ogni cofa. In quello tempo
medefimo fu egli dallo fteffo Pontefice in aliai importanti affari impiegato; e
primieramente finché folfe palfato il verno di quell’anno, (dopo cui gli ordinò
medefimamente, che, prendendo la volta di Dacia, fe n* andafsc Nuncio a quel
Re), lo mandò fuo Ambafciadore all’ Imperator Maffimiliano ; nel quale impiegò
fi portò con tale prudenza, che e da ognuno in molta llima tenuto fu, e all*
Imperatore caro sì, che ne riportò grandilfimi onori (35): anzi è fama, che da
lui conceduto gli fofse, che nell’Arme gentilizia Tlmprefa del Fello d'oro
inferir potefìc, e che altresì Tri ss ino • dal Che Papa Leone frappont(Tc in
quello fatto la Tua intercezione, non folamente lo dice Monfignor TommaGni
negli Elogi, pag. 51., ove regiftra un frammento di una fua lettera al Conte di
Cantati, con cui gli raccomandava quefto affare; ma lo accenna Giovangior. Gto
fieffo nella già citata fua lettera al Revtr. Prete di Gragnuola con quefte
parole: Io fono flato per varj cafl: prima per qitcfle guerre fletti ot Panni
exule, e privato di tutte le tuie facult à, che per la benignità de la felice
ricsr dazione di P.P.... (il nome non è quivi cfprelfo, ma fu Leone) mi fu
reflituito ogni cofa, nel tempo, che if ero Legato di Sua Beatitudine a
Maxìmiliano Imperatore ; e nella fua Aringa dice, che ciò fu de l' anno 15 1
5., che erano tre anni a ponto dopo che li Communi aveano occupate le Decime.
La Dacia, dove il Trissino dovea andare, quella non è, che anticamente era
unagrandiflìma e vada Provincia dell’ Europa, c che oggidì c laTranfil vania;
ma quella, che oggi sì appella Dania, o Danimarca, la quale giace a
fetrenttionc dell, a Germania. Tanto afferma egli (Icffo nella Dedicatoria del
fuo Poema dell’ Italia Liberata eia'Goti.] dal vello d,' oro potefse
denominarli .. Ma perchè alcuni dicono eSsergli flato conceduto ciò anche da
Carlo V.» pero ci riferbiamo a parlarne altrove a minuto. Di tutto ciò, che
Giovan Giorgio operava nel tempo di detta legazione, avvisò il Pontefice -con
una lettera inclufa in un’altra diretta a Giovanni Rucellai, Tuo grande amico,
e confidente, il quale poi addi 8. di Novembre del Suddetto anno 15-15^ gli
riSpoSe da Viterbo, che avea congegnata al Papa la fila lettera; che elfo
l'avea letta molto 'volentieri,5 e che non pur dai motti e gefti fatti nel
leggerla conofciuto avea effergli -molto piaciuta, ma più affai da quelle fue
prexile parole: egli hi fino a qui proceduto bene y et non poteva meglio
exequire li mia volontà dì quello Jl * Soggiungendo appreffo aver dal medelìmo
commiffione di Scrivergli, che feguitaffe P ure, come avea fatto, a conferir
col Vefcovo FeU trenje gli affari che maneggiava; Siccome il Papa fleffo gliel’
ordina-va col Brieve, che gli trasmetteva in un con quella Sua lettera di
rifpofta (34)* Dalla qual lettera appare ancora avere avuto il Trissino ordine
dal Pontefice di trattare la pace universale, e l’impreSa contra degl*
Infedeli; poiché il Rucellai gli Scrive così: Per C li pie e Quella lettera del
Ruceliai fu ftampata a car. xv. del la citata Prefazione alle Opere del
Trissino. U pace univerfale, e l* impre fa c intra Infedeli vi ha•ucte a d «per
are totis v/ribut, perché Sua Santi ita t ba mi In 4 cuore, come fapete, e
crediate certo, che ne/funa altra caufa particolare non lo muove, fi non la
unione della Crifianitì 3 £ t/uefta fan ti firn a ImpreC*> benché fi, che vi
ricordate la COMMISSIONE fua y e con che affezione vi PARLÒ di t/ue/la cofa
(35). Ettèndo già intanto pattato il verno del predetto anno 1 5 1 5» volea
Giovamgiorgio proferire il Tuo viaggio verfo la Dacia, giufta la committionc
dei Pontefice; ma ne -fu impedito dalflmperadore, il quale volle, che invece al
Papa ritornatte, come Tuo proprio ambafeiatore, e lo pregafle in Tuo nome, che
volette fermare una nuova lega tra sè, el Re d’Inghilterra, e’1 Re di Spagna
contro a'Franzefi, i quali dittimulando la brama di vendicarli, voleano pattare
in Italia; giacche la confederazione altra volta conchiufa tra sè, e’1 Re cT
Aragona, s*cra fciolta per la morte di quello Re; mandandogli anche per Giovan
gidroio medefimo una ben lunga Jette- Rucellai finifee detta j de’ Medici,
cugino di Papa Leolcttcra con quefte patolc: Credo ine; il quale poi anch’egli
fu haremo pre/t 0 il Cardinal de' Medi- '.(aito Pontefice col nome di Cleri, il
quale è tanto vo/fro, quanto | mente VII.; abbiamo però rifedir fi pojfa,pcr
qualche lettera,rér|rite le parole fuddette del Ruha /cripto qui, dimojìra, che
molto celiai, perchè avremo occaftonc v ama perchè ha fallo fempre ho- ', di
dire gli onori da quello Papa rtorevtle menzione di voi. I fatti al Tr issi no
nel tempo Quello Cardinale era Giulio | del fuo Pontificato. . lettera,
pregandolo primamente, che Lui fcuCaffe, fé invece d’andare in Dacia, come era
Tua mente, alla Santità £ua ritornava* perchè ne 1* avea egli coftretto;
lignificandogli pofeia il pericolo imminente, e la necefiìtà dell’affare G z
RiceContenendo quella lettera dell’ Imperatore al Papa alcune curiofe
particolarità, fpczialmente intorno al noftro Tr issi n Oj abbiamo (limato bene
di qui traferivcrne buona parte; tralafciando di dire ciò, Che punto o poco fa
al noftro propofito. La qual Lettera ci fu comunicata dal Sign. Apoftolo Zeno,
di Tempre cara memoria. >, Maximiliamus Di vi« na favente Clementi^ Roma. „
norum Imperator S. A. &c >, Io. G e o r g 1 u s de T m s„ sino San&itatis fu. e
apud,» Nos Nuncius, Se Orator . », &c. ... In primis idem Ora-,, tor cxhibitis Litcris
noftris >, credentialibus Beat. Pònti fi-,» ci, cum omni filiali reveren-,,
tia. et obfcquiolàlutabitSan-,, Sitarmi fuam, Se commcn», dabit Nos, Screnifs.
Carolum Regem Hifpaniarum, Se „ alios Filios noiiros ad Suam,, Beatitudinem. Deinde deda „ rabit banditati Sua:, quod „
licet idem Orator ftatuiffet » iter fuum continuare juxta », mandata Beat.
Ponti ficis ad „ Screnifs. Regem Dacia:, fra„ trem, Se gcncrum Noftrum,,
cariftimum nihilominus Nos confidcrantes longè plus ex-,, pedirc rebus Sux
Sancfcitatis Se fuis, ac univerfx Reipub. Chriftiana* redirc propter oc„ currenda* ad S.
San&itatem,,, quàm profequi iter emptum, ob fingularem obfervantiam, Se
affeàum, quem No* habe„ mus ad San&ic. Pontificis, „ Se )us, quod
prxfumimus in omnibus miniftris, Se fervitoribus S. Beatitudinis, ipfum
Oratorem cùm venia noftra defeendentem ab itinere „ retraximus, et ad S. E.
redi» re computi mus, quo clarius». „ Se apertius rerum omnium,, Sancitati Sux
per Creaturam „ fuam tàm Ei affe&am deda» „ ramus. Ideo Bcatitudo Ponti„
ficis hxc sequo animo accipiat, „ Se fi in errore erracunv fit, quod
tamcnnonciedimus, id „ Nobis imputet. Caufaautcm hujufmodieft „ quod cum jam
Ser. Rex An„ glia: fratcr nofter cariffimus „ per Litcras, Se Oratorem fuum: „
apud Nos degentem, Se Or a„ torem Noftrum apud Se ref„ fidentem dcclaraverit
Beat. „ Pontificis, cognito
periculo,,, quod imminer, nedum Ita-,, lise, fed univerfx. Reipublicf m>
ChriRicevette volentieri il Papa quefte (cute, e accolfe il noftro T rissino
colla folita benignità» e ( omettendo di riferire ciò, che Tulle richiefte
dell’ Imperatore egli riiòivefse, come cofa poco Cbriftian ex magnitudine, Se
infoientia Gallorum forc », optimè contentimi, et idem „ maxime defiderare,
quod,» iidem Galli hunjilientur, Se n rebus fuis contcntcntur : qux „ quidem
fentcntia Sandlitatis », Su*,cùm Nobis fempernedum „ opti ma, fed valdè
neceflaria „ vifa eli, ex periculo, quod „ omnibus imminet, Se prxfertim Beau
Pontificis, et fu* „ Patri*, Se Familix, cùm il-,, lud antiquum odium, quem
Galli babucrunt ad Eum, quùm fecerint ipfum extorrem, et per xviil. annos.cr»,
rare à Patria, cùm maxime, calamitates compulcrint, nullatenus remiferint, td
omni„. nò auxerint, licei imprxfen„ tiarurn negant, et compri„ mane,
cxpedtantes tempus. vindidlx: Itaque cogiraverit, SandlirasSua comprimere eos,
Se ad illum terminum redigere, quod non liceat plus eis „
inSandlitat.Suam,quàmfiui-| » timos fuos, Se quam juftum fit . | >, Et cùm
Nos, et Scr. Rex j n Angli*, et Ci. mcm. olimj n Rex Arngonumid apertd pcr-l «
fpiceremus, fapienter cogita- j „ vimus de una confxderatio- ' », ne ad inumani
defenfionem ! », ad inviccm, Se etiam offèa-J,3 fionem cantra eofdem Gallos,
etiam crat Lex imer Nos, Se », ipfos conclufa : fed morte,3 ipfius clar. mera.
Regis Ara„ gonum dilata. Se interrupta I,» eft •, fed tamen cùm ex hoc „
pcticulum > ncc fublatum,3 ncc diminutura immò nia„ ximcaudtum fit,
vidccurNo„ bis omnino in eadem dclibc„ tatione perfiftendum, Se rogamus Beat.
Pontificis ut, confiderata nccdlitate hujus> 3, rei, vclit fpfà quidem
intra. 3, re foedus hoc,. Se tranfmitte3, re mandatum fuum apud Scr. Regfm
Angli* » ut ibidem ». contradletur» Se conciudatuu » Efficiamus autem, quod in.
„ locum Clar. mcm. Regjs dc-,» fundìi fuccedar Se r. Carolus,, Rex Hifpaniarum,
Se qui „ quidem in ca te proficerc poterir, idem Orator admo„ ncbit Nos. Agct
autem di-,» dus Orator, tee. „ Dar. iu Civitare noftr* „ Tridentina die
odiava,. „ Regni noflri Romani „ triccfimo ptimex.,, Locus 4 . Sigilli . Ad
Mandatum Ccfa„ re* Majcflatis prò. „ prium ]o. de B&», KL'ljjS- i n O. 12
poco alla preferite materia confacente) pensò indi a poco tempo di occuparlo in
altri impieghi • In fatti l’anno ftefso, che fu il lo inviò fuo Nunzio alla
Repubblica di Venezia per maneggiar forfè 1 affare della Crociata contro a
Selim Gran-Signor de Turchi, la quale gli flava molto in fui cuore. Nel tempo
di quella lua ambafeeria trovò il Tr issino? che le Comunità, di cui s’è fatta
menzione, pagata aveano 3I Fifco Pubblico la rendita della fua porzione delle
Decime fopraddette; negando in oltre coftoro di riconofccrne lui per Signore:
laonde egli ebbe novamente ricorfo alla Signoria di Venezia, la quale fubito
con fue lettere in data de’xvu f. Dicembre 15 itf. commife ai Rettori di
Vicenza ( che in quel tempo erano Ermolao Donato, Podeftà, e Girolamo Pefaro
> Capitano') che nel pofsefso dello Decime flefse lo riponefsero, come lo
era innanzi la pafsata guerra (39). Dalle quali lettere ebbe poi co mincia Lo
dice il Tri ss imo Hello nella Tua Aringa, d meglio nella lettera al Prete di
Cragmtol a con quelle parole : Sua Beatitudine mi mandò .... Legato a Venezia,
ovt fui molto ben veduto da quella Jlluflr : f. Signoria . Al Papa quello
affare premeva si, che perciò maneg-j giòj c tlabilì una lega tra mol- j | ti
Principi Crifliani ; ma por per la morte di Maffimiliano li difciolfc, e di sì
alta e pia impresi fvant 1’ effetto defidera* to. MTr issino in propofito di
ciò nella fua Aringa dice cosi : Per effer abfente la mia facoltà fu tolta nel
Fifcho ; et detti Comuni però, quantunque ritmtjfero tutte le farti di que fic
D. 2.J tro Bembo, fuo Segretario, la quale opportuno crediamo di qui
trafcrivere. JO: O. y I C 1 H X I 11 o.,, Cationi am opera, et diligentia tua,
atquc „ virtute certis in meis, et Reip. rebus uri quam„ plurimum volo, quarum
rerum caufa, te ut » alloquar, magnoperè oportet: mando tibi, ut quod tuo
comodo fiet, Leonardo Lauredano Principe Venetiarum falutato, ad me confe„ ftim
revertare.,, Dat. Non. Januarii M. D. XVII. Anno „ quarto. Roma. Andovvi egli
prettamente, niente penfando, che perciò iettar dovette in pendente l’efito
della Tua lite. Non lappiamo precifamente a che il Papa lo aveffe richiamato a
Roma: del retto non molto egli quivi dimorò, perciocché nello ftef-' io anno
1517. ritornò a Venezia-, e fé fi vuol dar fede a Paolo Beni, xitornovvi anche
a quella volta come Nuncio Apoftolico per trattare di ftabilire una lega contra
1 Imperio de’ Turchi (41) . Vero è tuttavia', che il Papa in tale • ; occafio
(40) Quella lettera fi legge ' Simonìe Vinctntii fin fine ) Dùncl libro
intitolato : Ferri Bembi, niftus ab Harfioexrndebat Lugdu • EfiftoUrnm Ltonis
Decimi Ton- j ni. ! r I 11 . in 8 ed è tif. Max. nomine fcriptarum Li- ! la 35.
del lib. xlll. pag. bri xvi. Ledimi apud Hercdts \ Paolo Beni nel T ratent. L a
Vita occafione inviò per lofteflò Tr issino una lettera al Doge Leonardo
Loredano, dalla quale appare, che egli avea a trattare col Doge a nome della
-Santità Sua cofe di fomma importanza: la qual lettera non vogliamo lafciare parimente
di qui traferivere, ed è la feguente. Leonardo lauredano Principi Venetiarum.,,
IP Roficifcenti Venetias Jo:Georgio TrissinoVì* 5, centino; quem quidem propter
bonarum artium „ do&rinam, et politiores literas, excellentem>, que
virtutem unicè diligo; mandavi, ut tibi „ falutem nuntiaret mcis verbis;
tecumque certis de rebus ageret, quae cùm mihi cordi flint, „ tùm noftra
utriufque intereft ea confieri : tibi „ vero edam hone fiati, atquegloriae funt
futura„ Dat. prid. Non. Septemb. Anno quarto . jj Ronitif Non oftante che in
tanti e si diverfi negozj notò del titolo di Legato ApoA (4») Quella lettera fi
legge Jlolico inviandolo a Adajpmilia-ìahicsì nel citato libro delle Lctno
Cefare. Ritiratofi alla Pa- 1 tere fcrittc a nome di PapaLiotria, fa di nuovo
chiamato a &>-I nc dal Bembo, lib. XI II. ma nel principio dell' anno
IJ17. ; 16. pag. jiy. Ciovangiorgio occupato forte, avea condotta* a fine la
fbprammentovata Tua Tragedia della Sofonìsbti y cui ( dopo eflere flato
lungamente in forfè y come dice egli fteflo nella Dedicatoria) indirizzò al
luddetto Pontefice con lettera, che in poi flampata colla ftefla Tragedia
l'anno 152^ in Roma. Leone gradì fommamente qucfto componimento r e ficcomc
egli era giudiciofiflìmo e. fapientiflìmo letterato, ne fece tanta. Rima, che
volle forte con reale magnificenza, e con tutto lo sfoggio degno di se
rapprefentata (43 K Non può negarli, che il Tr issi no non abbia comporta
quella Tragedia con tutto lo sforzo dell’ingegno fuo; perchè quanto al
Suggctto, fcelto avendo l’ avvenimento funefto di Sofonisba Regina di Cartagine
r fi fece conokcrc giudiciofo sì, che per teftimonianza di Nic D colò Di ciò
veramente altra !»» mationibus adjudicarus fuit.ficura pruova addurre non pof-
j Benché dalle infraferitre pacamo, fuor folamente la fama role, che Giovanni
Rucellai agc la tradizione, che fe ne hn; | giunfc in fine della fopraccitata e
in oltre l’ aurorità ( fe pur va- j fua lettera al Trmsino fognale)
dclTommafini, il quale ne. | ta addi 8. Novembre 1515. di gli Elogi, pag. 50.,
cosi lafci b- yiterbo, fi potrebbe ancora conferino : » Summa duksdine, I
ghietturar quello fatto. Abbiate „ Se majeftatis pondero calami - 1 a mente (
dice egli ) Sophonitb. 1 „ rofum Sophonisbi Regine voflra, che forfè Phalijco
fari evtntum drnmatc exprcfiit .'ratto fuo in qutfla venuta del „ Quod cùtn
Leone X- li cera.- j Papa a Fiorenza .,, rum Moecenatc benignifiìmo I Difcorfi
intorno alla „ in Scenam magno apparata T rag* dì a . /n P’icenz.a, appreffo „
eficc projuitum, primus illc Giorgio Greco. in 8 . c. 14» „ Italia: puòiicis
lauree accia, [a tergo che (non oftante che ad alcuni quefto componimento non
-fia perfettamente piaciuto, come vedremo) elfo fu ftimatiflìmo, e non
fidamente vivente il fuo Autore, ma appreffo fua morte, e d’ogni tempo r e i
noftri Accademici Olimpici elfo feelfero a rapprefentare l’anno 1562. nella
Sala del Palazzo della Ragione in occafione di provare il modello del famofo
Teatro Olimpico di Andrea Palladio ( 45 ); e ciò fecero con sì ricca
magnificenza, che, fecondo che dice Marzari 1, vi ccncorft quafi tutta la Nobil
m Il Sig. Marchefe Maffci',» rem Siphaci». filiam Afdrunei preambolo a quella
Trage-j„ bali», captam Satina adamadia riftampnea uri primo tomo „ vie, et
nuptiis fa&is nxorerrt del Tuo T entro Italiano, che d-|„ babuit ;
caftigatufque a Scr1 tremo a fuo luogo, dice intorno J „ pione » venenum
tranfmific* al Soggetto di dia, che chi leg- „ quo quidem baufto illa degerà il
trtnttjìmo libro di T . Li- [,, ceflir . vio, ravviferà y come ninna fe\ ( 46 )
Di quella notizia ci conn' è fatta mai, che fervafft fi* ( fediamo unicamente
debitori al fide all' iftoria, e che jì nel S ig. Abate D. Bartolommeo Zitnttoy
come nelle farti fi* infi- grotti, femprc intento a cercali fiejfe in effa :
aggiugnendo, che nuove cofc, onde ampliare la le fcgucnci foche farole dell ’ .
fua bell’ Opera delle Memorie antico Efitomatore fremevo ne, del detto Teatro.
ffiegano i' argomento a ba]l alila : ( 47 ) Jft orla di Pie enza CC. u
Macinili.» Sophooiibam, uxo- | In Piceni,* > affreffo Giorgio Qn Nobiltà
dell* Lombardia, e delU Marca Trevigiana . E da Manofcritti dell’Accademia
Olimpica fi viene anche in chiaro, non (blamente effere fiata ella Tragedia
magnificamente rapprefentata» ma tale e tanta efsere fiata la ma. gnificema,
che alcuni Accademici penfarono non doverfi mai più fare tali fontuofe
rapprcfentazioni, temendo, che l’Accademia non foffe per riportarne mai più
lode e ftima si univerfale. Ma gli altri più giudiciofi Accademici a sì fatto
penfamento non aflfendrono; laonde meglio penfata quefta faccenda, e gravemente
ponderata, tutti in fine conchiufero, (e ciò fu l’anno I57P-) che moderata in
buona parte la fpefa, fi dovettero pure dall’Accademia fare tali pubbliche
i-apprefentanze . E’n fatti a’X. d'Agofto dello fletto anno fu ordinato,
doverfi fare feelta d* Lina Favola PajìoraU da recitarli pubblicamente nel
Carnovale dell'anno appretto 1580. (48): benché per altro fotte differito il
recitarla ad altro tempo. Di Ma ri Greco, . in 8. lib. 1. a ferratori delle
Leggi, Contradi Cai. 160. c 161. 'centi. A: adertici, et Secretar j Per
ripruova di ciò G deli' Ac adorni* delti Olimpici, vuol qui traferivere intero
in- \& delle Parti prefe nel Configli» tero l’atto deli’ Accademia, che di
ejfa Academia. Qual inco fi legge \m un Litro manoferit-, mincia . Anta pteJTo
di me, Legnato » c no terno della fejfa Olimpiade intitolato; Libro delle
Crtatio- 'fino 7. Aprile 1581. L’Atto è r-tdc Prencipi,Confalicri t Con- \
quello . j> Adi X. Agofto 1 5 79. In Cou Ma ripigliando il lafciato filo,
eflendo morto l'anno 152,1. addì 2. di Dicembre il lodato Pontefice Leone X..,
il quale? come s'è veduto, Sommamente amo il Tris si no, e ne fece moltiffima
ftima ( anzi fu detto per alcuni, come riferisce, Coniglio, dove inrervencro »
il Sign. Prencipe, Conlìglic•99 ri doi, cioè il Sign Hicroni>, mo Schio
follituto per il Sign.,, Marco Brogia, et ilSign. Fau>9 fio Macchiavelli, il
Teforic9, ro contraddente foflituco, il „ Cavalicr CriHoforo Barbaran per nome
del Co. Leonardo M Tiene, et il Sign. Antonio Ca„ mozza confervator delle Lcggì
foftituito per il Sign. Antpnio Maria Angiolcllo, con,, aie Secretano; in tutti
al numero di 14.,, Par che, la rapprefentazio-,, ne della Sofonisba Tragedia
.*, dell’ Eccellerli ifT. Sign. Ciò:,9 Giorgio Trjssino già no-,, flro Patricio.
„ pel Palazzo publico per la rip„ feita Tua non purcon fodisfa„ tione, ma con
meraviglia di 9, chi ne furono fpettatori, hab.9, bia caufato fin fiora in
quell’ Accademia un quali continuo 9, filentio a fpcitacoli publici, „ come che
potendoli diflficilmente fperare più da lei im„ prete tanto illuBri,fofire
meglio 9, per non declinare non rcetterfi » più a veruna anione tale peri’
avvenire . Ma certamente cf 99 fendo l’Acadcmia noflra fon9, data fopra i
continui cfercizf,9 virtuofi, &c dalFclperienza di,9 molti anni, elfendo
già co-,, nofeiuta tale, che può fpcra9, re fempre d’ operare fe non,9 cqfc
uguali 9 almeno degne di 99 fe mede lima, et della Patria j 99 non deve da
quello .troppo,9 fevero rifpctto lafciarfi impe99 dir quel sì lodevol corto, a
99 cui dal genio > dallo (limolo 9, virtuofo, dal debito della pro-,t
feflìone, dal defiderio, et dall’ « afpettatione altrui lì fenteee„ citata.
Laonde andari Parte* „ che quello proffitnocarnafciale venturo lia recitata
publi„ camente a Cafa dell’ Acadc9, mia con quella minor fpefa,,9 clic fia
poflìbilc, atccfa Isde9, gnità, una Favola Ptjlor ale, „ come cofa nuova et non
più „ fatta fin’ ora da quell’ Acad. „ quelii cioè 9 che farà eletta „ dal
Sign. Prencipe nolìro, et da „ 4. Acadcmici, che per quello „ CanGglio faranno
a tal cari-,9 co deputati, i quali habbiano „ ancoinfieme cura d’informar» lì
da perfone perite della fpefa, 9, che vi potrà andare, acciochè,, fi porta f.\r
la provi (ione dei den». ferifce Ciò vanni Imperiali, che efso volea conferirgli
il -Cardinalato-» ma che da lui fu ricufato per poter nuovamente prender moglie
) a cui fuccedette Adriano VI. ; il noftro G10•vangiorgjo fece da Roma a
Vicenza ritorno • Quivi attendendo à’fuoi ftudj, e fpecialmentc alla Poefia,
compofe tra le altre cofe una Canzone in loda d’ Ifabella Marchefa di Mantova,
a cui mandolla, ed ella poi ne lo -a» denaro io tempo, et dar prin” cjpio ad
imprcfa cosi hono-,, rata, rifervata poi la elettio•'»» nc di Accademici, coni’
», è detto di /òpra, la qual paf» sò di tutti i voti. »> l'or ballottati i
fottoferitti. »> 11 Sign. Paulo-Cihiapino prò 1 1. 3. »9 -II Sign.
Criftofano Darbaran .Cavai ier .... prò p. 4. »» 11 Co. Leonardo Thiene . prò
8. 5. » Il Sign. Hicronimo Schio prò io. 3. -9, Il Sign. Antonio Maria 9»
Angiolello . . prò ri. 1. »» 11 Sign. Alfonfo Ragona * • • ..... j>ro 16.
Rimate il Sign. Paulo Chi*», pino, il Cavalier Barbarano, „ il Sign. Hieronimo
Schio, et „ il Sign. Antonio Maria An-,, giolcUo » come fuperiori di,, voti.
Mufeum Hifloricum 8cc. pag. 43.,, Munito libi ad Leo„ nis X. gratiamaditu,
infplcn„ didiflìmo Mularum et virtù»,, tum atrio fic vixit, ut Non„ nulli
delatum fibi purpurar ho„ norem prolis gratia rejc&utn,, ab ipfo
prodiderint. Da alcune Lettere man uteri t« te del Tris si no appare veramente,
avergli voluto il Papa varie ecclefiadiche Dignità conferire, che ivi non fi
fpecificano, e che tutte da lui furono ricuf.ite. (jo ) Quella Principefla fu
figliuola d’ Eccole I. Duca di Ferrara, cd è quella ideila, cui tanto efalta il
nodro Autore nc’ Ritratti - lo ringraziò con Tua lettera in data di Mantova del
dì ics.; e gli fcriflc pur da Mantova un* altra Lettera (52), pregandolo, che
volefle a fuo agio colà andare dov ella era, perchè diGderava fornai amente di
vederlo non tanto per godere e gufi gre U amenità dell’ ingegni, e dottrina fu*
y ma perchè volea, che nelle fcienze e nelle lettere ammaetìxafle Ercole fuo
figliuolo» da che fegno dava di buona docilità, e di buon ingegno, e d’eflere
allo Audio letterario mirabilmente inclinato i pregandolo in fine, che pel
mcfso a polla mandatogli volefse farla avviata del tempo della fua andata,
acciocché lo poteJGfe afpettare; noi per altro non abbiamo ficura contezza,
s’egii v’andafse. Sappiamo bensì» che l’anno apprefso 1523. addì 20. di Maggio
efsendo flato eletto a Doge di Venezia Andrea Grilli, di glori ofiflìma memoria
» Quella Lettera c Rampata San Francefco della Vigna di nella citata Prefazione
alle Opere, Venezia entro un fuperbo depodcl noftro Autore a car.xvm. fito,
fopra cui fu fcolpitoquc( ji) Anche quella Lettera Ito .Epitafio: • Ha nella
fuddetta Prefazione, a Andre* dritto, Duci Opti car. in. | mo, et Reipub.
Amantijfimo, pa Non folanicnve nelle (ij terra, mari^hepart* A*&*ftorie di
Venezia, ma in altre ri, ac Veneti terejìris imperli ancora fi poflono leggere
le ge- Vindici, et Conferva! ori, Hafte di sì invitto e gloriofo Pria- rcdtt
pientiffmi . Vixit A», cipe, che mori dcì 1538. in eràLXxxui. Mtnf. vili. Dici
xt, di anni 83., e fu feppcllito in; Lecejpt V Cai. 3 r ed efscndo cortume di
que* tempi, che le Città fuddite mandafsero Oratori a congratularli col
Principe eletto, fu dalla noftra Patria a tale uffizio feelto il T rissino,
unitamente con due altri ragguardevoli Cittadini (54^ il quale avendo comporta
perciò una elegante Orazione jn lingua Italiana, in pien Collegio allo ftefso
Doge la recitò \ della quale orazione, che fi leg* ge tra quelte raccolte dal
Sanfovino (55}, e che fu anche più volte rift. rapata, favelleremo afuo luogo.
Nell'anno medefimo 1523. a dì 19. di Novembre efscndo flato afsunto al
Pontificato il Cardinale Giulio de’ Medici, col nome di Clemente VII., il quale
(come già fi è detto) amava grandemente il noftro Trissinov quertri una lettera
gli fcrifse di congratulazione (e forfè allora medefimo gl'inviò la Canzone
(56), che fece in fua lode ) facendogliela confegnare in proprie mani pel
Cardinale Giovanni Salviati, fuo ( J 4 ) Quefti furono Aurelio dai!’ Acqua, e
Piero Valmarana amendue gentiluomini Vienici- j ni. Oraziani di Divtrfi
Huotnini Jlluftri raccolte da Franctfca Sanfovino, in Penezia per AltobeUa S
alleato . . in 4. Pait. 1. a car. 1 jy. ! Qucfta C tenzone ( che fu j {Unipara
da prima in Penezja j per T olomeo Janicolo da Bref~ fa, in 4., fenz’anno; c
poi itRampata più volte come in fi. ne fi dirà) comincia cosi. SIGNOR, che
fofii eternamente elette Nel Conjìglio Divi n per il governa De la fua fianca e
travasata nave ; Or thè novellamente ec. fuo amici filmo, a cui mandolla con
altra Tua letrcra. Aggradì Clemente la officiofità di Giova n giorni o sì fattamente,
che, dopo aver letta con molta giocondità d’animo la pillola di lui ordinò-
allo ftefso Cardinale, che gli fpedifsc tolto un fuo Breve, col quale lo
chiamava a Roma ( 57) Tenendo egli lo invito del Papa r fi partì lubito, di
confenfo eziandio della Signoria. Affinchè meglio appa-j ja la verità' di
quante s’è ora detto, vogliamo qui traferi vere la Lettera del fuddetto
Cardinale ferina al Trksino, entro cui tirandogli il Brtve del. Pontefice } cd
è quella. „ Magnifice Aniice, et tan* quam Frater Garifllme. „ Io era
ctrtiffimo della „ molta allegrezza di V. S. pei „ la felice affunpuone della „
Santità di Nollro Signore,,, come fe preferite mi fulTì „ che mi Benderei molto
più,. „ fe- non fuffi certillìmo, che „ la S.V. per fc medefima lo „ cognofce.
Del bene, et fc-,» licita mia non le voglio di-,, re altro, fenonchè quanto*
»> più farà, di tanto più qucl» la potrà a-ogni fuo benepla„ cito difporre;
et quanto nc,, difporrà più, farò io tanto 1 „ più contento . La Lettera» fua
detti in mano propria » di fua Santità, là quale con >, fornirlo piacere la
lede : &c „ flato, come quello, che al- j » più mi diflcndOrci intorno,,
cuno non cognofccvo, clic'»» aqucllo» che amortvolmen»,, più meritamente fe ne
do-j», tc mi rifpofe, fe Sua Beati* „ vedi rallegrare; perchè la-'» tudine con
uno Breve ( il „ feiamo Bare lo univerfal be* [,» quale con quella fari) non„
ne, che tutta la Criftianità |,, avelie ordinato di rifponde„ ne afpetta,
&: quali mani fe- », te- alla S.V., la quale cec-,, (lamento ne vede » il
che », tifico, che fetnpre che ver-tutti e buoni et virtuofi, 1 », rà, farà
vcdutadaSua-Bea„ come è V. S. debbono fom- „ titudine come dolciilimo;,,
mamente deftderarc; chi più j»- amico; et da me come dol-,, di G-i anc! orcio è
da,, ci (Timo fratello; &• a quella» „ fua Beatitudine amato ? ! « mi
offero. Se raccomando.. „ Chi più di lui fc ne può, Roma XI. Decembris Mdxxiii.
„ ogni cofa promettere ì In j,, lo. Cardin.dc Salviate,, Qucgnoria di Venezia
(58 ); e giunto a Roma fu da Clemente accolto con fegni di ftraordinario
affetto, e apprefso anche fu deftinato a ragguardevoli impieghi, come diremo
più fotto. Ma avendo egli intanto fatto pubblicare nel Luglio dell’anno 1524.
colle ftampe di Roma la fua Tragedia, pensò di dar fuora nuove cofe a -utilità
della noftra favella; e però fcarfo parendogli l’Italiano alfabeto di caratteri
atti a fignifìcare tutti i varj fuoni delle voci, inventonne di nuovi, o a dir
di più vero, ne tolfe alcuni dall’alfabeto Greco, e all’ Italiano proccurò di
aggiungerli. Ma non tenendofi pago di aver ciò nelle propie fcritture ufato,
diftefe nel Dicem.bre dello fteffo anno 1524. cotale fuo penfamento in una
lettera al predetto Pontefice intitolata ^59). Circa il principio del Secolo
XVI. vi fu veramente nell’ Accademia di Siena chi avvisò di aggiugnere
all’alfabeto Tofcano alcuni Elemcn* E ti per Quella lettera fu flampata a
\fubito mi fcrifft uno Brieve, ricar. xv ir. deila Prefazione alle j cercandomi
che io dovtfft andar Opere del Tr issi no più voi- a Berna-, et io con il
confenfo, te citata . I (he d'Jft fuori fìmil pcnfìcro. Gli venne non per tanto
fallita in buona parte quella fua bella intenzione (come chiamolla l'Abate
Anton Maria Salvini di chiariflìma ricordanza): imperocché oltre allo avere
egli fteflo a rovefeio, e non nella dovuta maniera, ufate da prima le nuove
lettere, e così per lo modo del linguaggio Lombardo indicando falfa pronunzia,
ebbe più lodatori, che feguaci, come accenna Giovanni Imperiali y del quale
errore avvedutotene poi egli Hello n € Dubbj Grama ricali, ftampati appref* fo
a difefa del fuo ritrovamento? fe ne amrnen* dò U3), Da Corr.ment. all'
]ftoria\ della Polgar Poefìa-, Vol.i.Lib.vi. ; a car. 408. della ediz. di
Venezia . j Fra l’ altre Lettere dal Trissino tolte dal Greco alfabeto, ! due
fono più offervabili, cioè Fi, ci’ a, Pro/e Tofane, Par. 1, Lcz.xxxi. a
car.i9i. dcH’cdizione di Firenze, apprejfo O'infeppe Manni, 1735. in 4. (Mufaum
Hi/ioric. pag. 4Z.„ Rem paritcr molitus per„ arduam, charaftercs Graecos „
noflris immifeendi litetis ad i » varios fonos aptius fignifi-j candos, ut
repente multosad » fui vel laudem, vel iurgi* „ traxit Reclamante Do „ ètorum
ccetu, quod in tan»> tis dodtrinarum momcntis,,, monftruofa elemcntorum no„
vitate animos haudquaquam „ turbandos putaverint. (63) Protelìa egli in quefti
Dubbi d’avere aggiunte le dette Lettere al noftro alfabeto a fine folamcntc di
giovare agli ftudiofi della noftra lingua; c foggiugne, che non tralafcerà^ fuo
potere coti bello, e coti nobile injlituto : ringraziando i fuoi riprenfori,
come quelli, che per lo avergli fcritto contro d’O.. Da alcuni Scrittori fu il
noftro Autore per tal sua invenzione rigidamente appuntato; e prima da Lodovico
Martelli? Fiorentino, il quale manda fuori una Rìspofta all’Epì fi ola d’O.
delle Lettere nuovamente aggiunte alla Lìngua volga te Fiorentina (64); nella
quale s' ingegnò di inoltrare, che vana era Hata, ed inutile la di lui
invenzione, allegando fpezialmente, che non doveaA punto alterare la maniera
dell'antico fcrivere Tofcano. Indi comparve Agnolo Firenzuola, Monaco
Vallombrofano, il quale oppofe ad O. tra l’ altre cofe, che poco lodevole tra,
e poco ncieffario, e infofficiente lo aggingnìmtnto delle nuove Lettere al
fcmpliciffimo alfabeto Tofcano, perette con effe gli fi toglieva la fua naturai
femplicità. In quella fua opera il Firenzuola trapafsò per verità i limiti di
quella moddtia, con cui fi vantò nel principio di voler riprendere la
invenzione del Trissino, perchè fì moftrò nel fuo dire alquanto appallìonato,
non curandofi di apparir tale ancora nel frontifpizio, taccian E i . dolo tro
furon cagione» che fi fa- 1 nell’ Eloquenza Italiana ec..... ce (Te paltfe la
natura, t la uti- \ In Venezia appreffo Criftofor » lità di effe lettere. Zane
. c.ir. 27J. Nell' Non dille il Tu 1 s s r- Operetta del Martelli, chcè in 4.
no d’aggiugner le nuove Let - 1 non v’ha il fuo nome, nèqucltere alla lingua
volgare Fioren- lo dello ftamparore, nè l’anno; tina, come avvisò il Martelli;
1 nel fine però fi legge pompata in ma alla lingua Italiana r il che Fierenzji
. fu notato anche dal Montanini ! (Quell’ Opera c così in filo Ddolo in fine
d’ufurpatore degli altrui ritrovamenti, con dire, che prima d’efia e
l’Accademia Sanefe aveva avuti limili penfieri, e alcuni giovani Fiorentini pi»
per e fcr citare i loro ingegni, che per metterla in Optra della medefima
imprefa parlato aveano ; i ragionamenti de’ quali efsendo fiati naf cefi amente
uditi dal T rissino, da eflo poi come ftto proprio trovato fenza far di loro
alcuna menzione, furono meli! in luce ( ) . Finalmente Claudio Tolomei, fiotto
nome di Adriano Tranci, ftampò egli ancora un libro l’opra quella materia, e lo
intitolò U volito, Rifpofe il Tr issino a’ Tuoi Oppòfitori colla fuddetta opera
de’ Dubbj Gramatìcali j ed anche col Dialogo intitolato il c aftcllano, e molto
bene fi difefe -, ma non fu fiolo in ciò, che anche Vincenzio titolata :
Difcacciamento delle nuove Lettere inutilmente aggiunte nella Lingua Tofana ;
fenza efprcflìone di luogo, c di ftampatorc. Trovali anche tra le Prtfe del
Firenzuola ifteflo a car. 306. della edizione di Fiorenza, apprejfo Lorenzo
Torrentino, mdlii. in 8. Fu poi altre volte riftampata, ed eziandio nel Tom. 2.
delle Opere dei Tr issino della edizione di Verona. Non può negarfi » che
l’Accademia di Siena non avvilitile ella prima, che O. pubblicane la fua
Lettera, di aggiugncrc ( come già dicemmo ) nuovi elementi al noftro alfabeto;
ma che egli fi valeflc interamente di quello di lei penfiero, come dille il
Firenzuola, non è da credere, che troppa ingiuria fi farebbe al fuo gran nome.
E ’n fatti il Varchi nell’ Ercolano dell’ ultima edizione di Padova, apprejfo
il Cornino, 1744. in 8. a car. 468., dice avere il Firenzuola ferino contra il
T rissino piuttofto in burla, e per giuoco, che gravemente, e da dover 0. La
(lampa di quell’ Opera fu fatta in Roma, per Lodovico Digitized by Google DEI
Trissino. 37 cenzio Oreadino da Perugia flampar volle a di fefa del di lui
ritrovamento un dotto latino opufculo, il quale eflendo flato per lungo tempo
fmarrito, fu ritrovato per diligenza del Sig. Marchefe Maffei, che Io fece
ritlampare nel tomo fecondo delle Opere del medefimo noftro Autore per lui
raccolte. Che dovico Vicentino i j 30. in 4. Ve- vifato dall' Accademia Sane/e
* di fopra di ciò il Foncanini nel- per quel che fcrive il Firenzuola Eloquenza
Italiana, a car. la nel Trattateli del Difcac- . ciamento delle Lettere, impref
11 Crefcimbeni nc’ Commenta- fo tra le fue Profe. Tutto ciò rj al! Jffor. della
Volg.Poef. Tom. abbiamo noi voluto riferire, r. lib. vi. a car. 408. dice, che
acciocché (ì vegga quanto popcrché andò r Accademia indù- co a ragione fia
(lato il Trisgiando di pubblicare lì fatto av- sino dal Firenzuola tacciato di
vifo, Giovanciorgio Trissiwo ufurpatore. La qual cofa più fu il primo che de ff
e fuori un fi- evidentemente appare in riflccmil penfiero : indi regiftra FAI-
tendo, che O. avea fabeto Italiano coi caratteri dal già medi in opera i Tuoi
caratTr issino aggiunti, che è ceri anche prima di dar fuori quefto; abcdtfgche
gh j quello fuo penfamento ; cioè kiljmnopqrustfu nella Sofonitba, fcritta, e
far. z v q x 7 th ph h: e poi dice I ta leggere, come dicemmo, fotcosi: In quel
medefimo torno, 0 to il Pontificato di Leone X.ladpoco dopo, M. Claudio T
olotr.ei dove folamente nel principio del non gli parendo, tra l’ altre co - Secolo
XVI., come dice ilcitafe, buono il penfier del Tris- to Crefcimbeni, 1 ’
Accademia sino, ritrovò un'altra manie- diSiena avvisò lo aggiugnimcnra,
togliendo la forma de'Ca- \ to di nuovi caratteri. rat ieri, che avevano a
duppli- ( 68 ) Il fuddetto Opufcolo carfi, dagli fi effi caratteri del no-
dell’ Oreadino in detta riftampa fico alfabeto, Cime appare dall' è cosi
intitolato : Vincentii Orcaalfabeto, che fiegue : a (T c d dini Perufini
Oprfeulum, in ecf^gh lilmneopqr 1 quo agit utrum adjcìtio no va rum sftv-t/uz z
. E quefio | litter aratri Italica Lingua all(foggiugne il Crefcimbeni) noi
quam utilitatem peperit : Ad crediamo, che fia l’ alfabeto av-^Thomam Severum
de Alphamt Vi- Che alquanti dementi di greco alfabeto prendere egli per
aggiungerli al nostro italiano, non era certamente per mio avvifo quella
fconvcnelezza, che gli antidetti Scrittori credetterfi> condolila cola (come
già notò il foprammentovato Abate Salvini che l’Italiano alfabeto fia ftato
altresì di parecchi altri caratteri Greci formato. Tuttavia non riufcì affatto
inutile il di lui penfamentoi perchè due delle nuove Lettere da lui propofte,
cioè H, e Kv confonanti, veggonfì oggidì univerfalmente abbracciate dagli
Scrittori, anche Fiorentini, come necelfarie a torre ogni equivoco EQUIVOCO
DELLE VOCI EQUIVOCO GRICE delle voci: onde a ragione diflc il predetto Signor
Marchefe Maffei (70j che * Luì » han» obligo’ le Jlampe dì tutta C Italia, che
le u fatto perpetuamente . Laonde non bene fi appofe il celebre Signor Domenico
Maria Manni, Letterato per altro eruditismo, e dìgniflì- Virum eruditijpmum, et
Cenci- I la noftra lingua habbia bi fogno/ vcm Optimum . Girolamo Ru- 1 delle
Lettere aggiunte dal DRtsccllai nelle fue note all’ Orlon- sino, et dal Tolomei
cc. doFuriofo dell’Ariofto della cdi-| Cioè il Tolomei, e zionc di Penez.ia
> aM re J[° ] Firenzuola nelle Opere lopracEredi di rinccnz.io Talgrìfio, '
cerniate.. . a car. il. facendo! (7°) Profe Tofcane, In Ftun’ ofT.rvazionc
gramaxicale fo - rence, nella Stamperia diS.f. pra la voce corrò ( accorciato
A. -per I Guiduecit e Franchi » dal verbo coglierò) con cui l’A- 17 2 5 « 4 * P
ar * P 1 * 012 Acz. liofto comincia la danza 5 8. del ; a car. 523. primo
canto*, dice cosi : Et in j lucila Prefaz. alle Opequtjtt tai voti Ji cottofee
quanto, re del noftro Autore a car.xxx. dignifTimo Accademico Fiorentino >
in dicendo nelle, fue Lezioni di Lingua T ofeana j che 1 ’ / confonante i cioè
quello, che j lungo fi appella, conte trovato d’O., e da Daniello Bar t olì
po/lo in ufo, non è ricevuto da per tutto : e pure egli ftefio Io usò nelle
medefime Tue Lezioni (73)* Monfignor Fontaninij da cui fu UTrlssino chiamato In
Firenze nella] sintonie Muratori, legnata dì Stamperia di Pietro Gaetano,
Venezia li 12. Marzo 1701; fìViviani. in8. a car. 43. 1 gnificandogli la allora
frefea e- Bene è vero, che l’ufo I dizione delle Poche degli antidi quello j
lungo, o fia con - 1 detti d*ue poeti Vicentini, diffonance, ritrovato dal T r
i s- 1 fc, avere quelli in dette loro sino, fcfu abbracciato univcr. poefic pretefo
di ravvivare l’ orfalmente nel plurale de’ nomi, I 1 agrafia fcrupolofa del
vecchio che nel numero del meno fini- Lr Trijftno, ftnza però quelli f cono in
io di due fillabe, in epfilon, e quegli omega, co' quacui Vi non lìa gravato
dall’ ac- li voleva imbrogliare iinejlro alenato, come vizio t vario, eli-
fabeto Italiano. Colle quali pamili, i quali nel maggior nu- ! cole troppo
veramente difprezmcro più rettamente il ferivo- jzòe quelli poeti, e la buona
vono col detto j lungo in ifcam-llontà del Trillino, la quale, cobio de’ due
ir, come a dir vime è delio, non riufeì affatto zj, varj ; fu rifiutato l’
ufario do- I inutile, vcggendoli abbracciapo l’L in luogo del G c dell* E | te
dall' Accademia medefim* nella voce EGLI, c in luogo del | della Grufca le due
fopraddettc G nell’articolo GLI, feri vendo ; Lettere J, e F* confonanti, come
LJI, come fece fempre il Trissi- ' fi può vedere nel fuo Focabolano. La qual
maniera di fcrivere fu I rio alla lettera I. §. xi.j e alla poifeguitata, ma
con poca lode, j Lettera F. La lettera poi delZeda Andrea Marana, e da Antonio
no è Hata ultimamente pubbliBergamini, amendue di Vicen- cara in un coU’ altre
lue erudiza, uomini per altro di lette- 1 udirne lettere in tre Volumi, ed
ratura Italiana, Latina, e Gre-| è a car. 44. del primo, che ha ca molto
intendenti. Il Sign. I quello titolo : Lettere di jìpoApoflolo Zeno, di Tempre
glo- fole Zeno, Cittadino Fcneziariofa, e a me cara memoria in ! no, Iftorico e
Poeta Cefareo. ec. una fua lettera al Sign. Lodovico I Folumt primo in Fenezia
tO (74) Novello Cadmo, C Cadmo Italiano, fu di oppinione, edere ftata altresì
invenzione del medefimo noftro Letterato 1* ufare la z j n cambio del t dopo
vocale, e innanzi all’ /, cui fegue altra vocale, come nelle voci vìzio,
malizia, e fomiglianti. Ma, per pigliare il filo principale del noftro
racconto, l'anno 1525 . ( nel quale il Re Francesco I. di Francia eflendo
ritornato in Italia, donde l’anno avanti era ftato cacciato, e avendo già prefo
Milano, attediava la Città di Pavia, la quale fu appreflò liberata dall’
efercito di Carlo V- > che mife in Sconfitta 1* ofte Franzefe, e fece
affrtff» Pietro Falvafenfe . i Nella Eloquenza Italiana a car. 36. e 339. In
proposto delle Lettere aggiunte « Valerio Ccntannio. Medico Vicentino, di cui
parla lodevolmente il Marzari nella tua Jftoria di licenza, a car. 183. fcriffe
al Trissino il feguente curiofo Sonetto, che ci fu comunicato dal più volte
mentovato Sign. sportolo Zeno . ì’O grande A» tji Urici nominato. A dijfertnlia
Ai quel, cb‘ i tu ir. a rii VE difl' ignudo i 1 di pie» valori, A luta ai Alph'
al Giet" accorti pugnato i Ch* nel fcnvir Tofcan ha ritrova • to Voflr’
alt’ ingegno i facindo maggiori Numcr di Lettre : eh’ in vano tino’i Si anno a
chi nin ha 'l cervi ! fia catoi 1 Verrei faptr t Si noi Urica Scrittura
Leggenda > dtbben ritener* il futi-, no, Che nel Uggir Tofcan Kiara fi
finti. Ri ff tendete Signore che la cenfura. Et gran judicio vofira, a mt tal
fono, Qual Sol ad g orno : a nette fioco ardiate. Andar mi vi in a minte D'
addimandar 1 fi l' Ita Gri't » timi La voce t eh' a V E Taf co fi ceti « m». Et
forfè dicttn bini Quelli, che voljan pir ditti d' Hv miro L' Ita fuonar s cimi
il Taf cu E primiera . Bramo faper il vero. Adunque fa- fi l' O Tofcan antico
Terrà ’l fuun d' il Grt co 0 :cht minor dico. Il Servo di Veflra Magn. Valido
Cintannio fece prigione il Re fte{fo(7 Papa Clemente impiegò in varj negozj il
notlro Giova n gì orcio. e intra gli altri lo mandò una volta Oratore alla
Repubblica di Venezia C 77)» e ' [ferma per la concordia degli Ma quel
[degnato, horntil-vente fiero * Scrittori, c per lo Elogio, che Con Pungine, ri
rofiroil batti, elo '^tfU Chiefa di San Lorendìmtna Si fai lamenti, eh' ci
fuggendo a fina Hcrfer lo [campo f ho trova fenderò . Tal che aebaffata in lui
fi» con gran fretta, Et forfè affatto fjenra l'arroganza, Che tutta Europa già
foft in itlanza: ! dal Papa folte O. Ottd'io tengo nel cor ferma fgtranza,
mandato Nunzio prima alla RcChe il Citi farà dei torti afpra ve »• pubblica di
Ve.'CZÌa, e poi all’ detta | Imperatore: ecco le fue parole: ACriflo fatti,§ a
tuttala fua fetta .1 >} Clemcr.tis Septimi acerrimi Cosi afferma il Tris-',,
teftimatoris nutu ex Romana sino medefimo nella fua Ari».',, Curia ad Carolum
Carfircnt ga, dicendo: Papa Clemente fu' „ Nuncius cfl elc&us : inde ad
eletto al Pontificato,.,. S. Santità,, SapicntifTìmum Vcnetorum fubito mi
fcriffe uno P, rieve, ri- „ Scnatum . « In ciò fu egli cercandomi, ch'io
dove/fi andar (e guicato dal Signor Marchefe a Roma, et io col confenfo, CT I
Maffciìad Ri fretto deila P'ita del I zo di Vicenza allato all’altare idi detto
Santo fi legge, e die I di fotto tra feri veremo . Gioivano! Imperiali nel
Afufeo Jflo \rico a car. 44. lafciò fcritto, che gno dì parttcolar menzione fi
è un altro pubblico contralfegno deiramore, che gli portava. Ciò fu l’anno
1530. in occafìonc che dovea coronare folennemcnte in Bologna l’Imperatore
fuddetto (79)1 imperciocché, fecondo che affermano alcuni Scrittori (80), e
appare chiaro da una d’O., e da altri : ma ficcome quelli Scrittori non ci
daono il tempo di corali Legazioni, cosi noi non ci facemmo fcrupolo in notarne
pri ma una che l’altra; e tanto più, quanto che può edere veramente, clic
andafle egli Nunzio a Sua MaclU Cefarea molto tempo dopo di edere dato Oratore
a Venezia, cioè dopo il Sacco di Roma fatto dagl’ Imperiali nel IJZ7., in cui
effendo dato ditenuto Io Bello Pontefice, e poi liberato per commillìonc dell’
Imperatore, edo lo mandò a ringraziare per un fuo Nunzio, accennato folamente
in una Lettera di congratulazione, che Io Redo Imperadore al Papa riferirle in
data di Burgos addi xxn. di Novembre di detto annoi .; la qual lettera Ci legge
nei tomo primo delle Lettere di Priadpi » ecv raccolte da Girolamo Rufcclii, Ja
Veneti a appre/fo Giordano Ziletti, 1564. in 4. a car. no. a tergo; fe pure ciò
non fu l’anno 1529., cioè dopo la pace tra loro fatta in Barcellona, di cui
parla, tra gli altri, il Guicciardini nel terzo degli ultimi quattro litri
della fua Ifi$ria\ avendovi una lettera di Sua Madia al Papa in data di Genova
addi xxix. di slgo/lo ., che fi legge nel citato tomo delle fuddette Lettere di
Prinnpi a car. 123.» nella quale fa menzione di un fuo Nunzio con quelle parole
: Havendo intefo dal detto Duca,et da' Reverendijfmi Cardinali . fuoi Legati
...., et dal SUO NUNZIO,. et Zmbafiiatore, cc.....; il quale può perle fuddette
cofc fondatamente crederli, foflTe Giovangiorgio. Carlo V. fu coronato da-
Clemente il giorno di Santo Mattia Apoftolo, cioè a dì 24. di Febbrajo: ed è
JlTervabile, che nei mede^mo* giomcr egli e Ila nato, ed abbia prefo i fegni e
gli ornamenti d’ Im- peratore. Si vegga Alfonfo Ulloa nella Vita di Lui molto
eruditamente feri tra ( 80 ) Gio: Imperiali, Mhfaum Hi/l or. a car. 44.
Toirmiafini Elogiaste, a car. 53. e Paolo Beni Trattato dell' Orig. della
Famigl. Trijf. lib. 2- manufcritto, a car. 34., ove nota anche di malevolo il
Giovio, che riferendo paratamente tale folcnuna lettera manufcritta del noftro
Autore medefimo (81), da tanti Principi e Cavalieri, che a tale folennità fi trovavano,
Clemente tralcelfe il TiussiNoa portargli lo ftrafcico Pontificio; .onore» che
per innanzi era /olito farli a Perfonaggi di nobililfima Schiatta, e molto
qualificati. Si trova fcritto apprelTo qualche Autore (Si), che Carlo V.
facefie conte e cavaliere fi noftro Giovangiorgio» e lui co’ Tuoi difendenti
privilegiaffe, che potefse mettere nd/arme dellaFamiglia la Imprefa del Tofone,
c fi potefle in oltre dinorninare dal vello d'oro. Noi non vogliamo ora
dilàminare, fe ciò fia vero, anzi il crediamo; che conte e cavaliere egli
fteflò in qualche Tua lettera s intitolò (83), e alzò la detta Imprefa» con
foprapporvi il mòtto Greco to zhtotme. ;non aax2ton, prefo dall’ Edipo di Sofo
F 1 eie folennkà, nulla facefle del Tri jliN o menzione. JvQucfta lettera di
prò. prio pugno* del noftro Autore | c tra le altre lue manuferirte, cd è
'quella, che diramino più d’una volta in quefta Vita, fcritta da Marano
all’Arciprete Giulio fuo figliuolo, fegnata 18. A/arz.0 IJ42. In effa egli
parla cfprcffamentcdi quefto étto, ricordandolo al figliuolo qual /ingoiar
h*neficiodal Pontefice a fe ufato. ( 8a_) Cioè approdo il Tom mafjni, Elogia
cc.-, a car. 54. c ’1 P. Rugeri, T ratina ec. a car. xxxin. ( 83 ) Veggafi la
lettera di lui al Reverendo Prete Francefco di Grugnitola già fopracciiata,
all’ annotazion. 3.C 26. Il Fontanini nell’£/tfquentLa Italiana a car. 380.
riferire e fvariatamctwequAlo motto, rcrivendo in quefta guifa T o 2HTOTMENON A
A ftTON* diche fu appuntato dal Signor Marchcfe Ma fife i a car. 8j. dell’
Fiume d’ elio libro del Fontani eie (85)} che lignifica conftguir chi cerca ma
nsn chi trafeura ; ed anche ftamparc la fece o ne’ frontefpizj, o in fine delle
fue Opere. Si vuole bensì avvifare, che fe egli ebbe dall’Imperatore
Maflìmiliano primieramente» come abbiamo accennato al di fopra, e poi ancora da
Carlo V. il privilegio di potere l’arme gentilizia adornare di detta Imprefaj
come tengono alcuni, e come forfè volle dire il Signor Marchefe Mafie i, quando
difle, che il Trissino imperaci ere Maffìmilian » riporto il Tofon d’ Or o\ e
fe ; egli fu ni, che approdo citeremo, tratto delle fue OffervaiÀoni
Letterarie, fn Serena nella Stamperìa del Seminario per Jacopo Saltar fi in la.
Articolo VII. a c.vr. 103. Verfo 110.
Nel fopraccinnaro Elogio, che è in San Lorenzo di Vicenza, fi legge:
Aurei fucilerie infìgnibui, et Corniti* dignitate prò fe, et Pojlerit ab iifdem
Impp. ( MaKimiliano, et Carolo) decorato . Il Padre Rugcri nella Trotina
&c. a car. 33. pare che affermi, avere il T rissino avuto il fuddetto
privilegio da Carlo V., poiché gli t cbbc niarfdatoa donare (come diremo ) pel
fuo figliuolo . Ciro il Poema dell'Italia Liberata da' Coti. Quelle fono le fue
parole : T itm vero P o s TQ.U A m ledi 1T1 mai cjtjitm fiiius Cyrus, poema
iliaci eidem Carolo V. patrie nomine donariam confccrauit, Aurei Velieri s
Agalma dimidiato in Umbone fui Aviti Stemmati!, Imperai or is auttoritate, et
concezione appingi voluìt, quo fa. cilius hac velati tejjcra, è fuo Pipite
dedali a Sobolet, ab aliis et Laude, et Vice ti *, f amili* nobilijfm*, et
numcro/tjfimafurculit dignofeerentur . Contutcociò noi troviamo* erteti* Giova»
Giorgio denominato dal Vello d' Oro ^rima che Ciro prcfeniaffc il detto Poema
all’Imperatore. Può effere bensì, che avendo egli avuto da Maflimiliano il
detto privilegio, confermato poi gli forte da Carlo V. Nel Riflretto della Vita
del noffro Autor, preme fl o la rirtìmpa delle fuc Opere. egli fu veramente da’
Monarchi medefimi fatto Cavaliere; non dee perciò dirfi, che forte egli da efli
fatto Cavali er del Tofo» d'oro: concioflìac»fache non fia mai fiato il T
rissino arrolato in quell’ordine. Le fa f Che ciò fia vero, ba- Trissino, che
non era da fievolmente è provato dal Fon- trafeurarfi, quando veramente canini
nella Eloquenza Italia- vi [offe fiato; e ciò tanto meno, va, ove a car. 380.
dopo regi- che in quefio affare ci entrano Arata la primiera edizione del anche
gli Araldi, 0 Re £ Armi, Poema dell’ Italia Liberata da' per ajfegnare a
ciafcun CavalieGoti, così lafciò fcritto. Qui re lo Scudo, e /’ Infegne, tutte
in fine, e in altri fuoi libri fi le quali Ji leggono efprejfe dal vede la
pelle, 0 vello d'oro del C biffi elio . E a car. 474. dopo Montone di Friffo,
da lui fof- j aver regi fi rato i Difcorfi ini or pefo a un Elee in Coleo, e
cu- f no alla Tragedia, di Niccolò fi adito dal Drago Volendo | Rolli., tornò a
dire, come fc il TR1ss1no con quefia fua 1 guc ; Effendofi già mofirato non
Imprefa alzata all'ufo di que' \fujfi fiere, che il T rissino, tempi alludere
alle fue lettera - 1 comecnè talvolta fi dicejfe oAr. rie fatiche, e da fe
ancora in- \ Vello d’oro, e meritaffe per - titolanàofi dal Vello d’Oro . j
altro ogni onore, foffe perciò Ca.Ala non per quefio egli intefe di valier del
Tofone, perchè meri far fi Cavaliere dell'Ordine del 'tare non vuol dir
confeguire, qui T ofone - E poco apprelTo ; L'\fi può aggiugnere, che quefio
Su• Ordine del Tofone fu conferma- premo Ordine, detto in latino to dai Sommi
Pontifici Eugenio Vclleris Aurei, nelle lingue voi IV. e Leone X. ; e
Gianjacopo gari fi chiamò del Tofone .Chifflezio ha data la ferie de' Nè può
effere inutile il ridurfi Cavalieri » e de' Uro fupremi a memoria, come ne’
tempi del Capi dalla prima fua ifiitud-o- Trissino fiorì /’ Accademia aie fino
a Filippo I v. Re di Spa - degli Argonauti conquifiat ori del gna, erede àe’
Duchi di Borgo- Vello d’Oro, poco fipra acc cagna: e ne ba fcritto ancora un,
nata* Se poi egli fi diffe Cotemo in foglio Giambatifia A/au-j me; et Equcs,
ciò nulla imporrizio e altri pure han- ita, petchè non fu foto a chiana pubblicati
gli Statuti dell' ' mar fi in tal guifa . 11 Mar C'rdine, e gli Elogi de'
Cavalle - 1 cii'eje Maffci nell’ E fame del ri: ma fenza alcun merlo del [
(udektto. Libro del Fontanini, Digitized by Google 4 fìccome l’altra volta, la
fentenza incontro. Tuttavolta collo ro infiftendo, agli Auditore Vecchi
appellarono di ella fentenza, dai quali fu poi rimeffa la Caufa al Configli dì
xl, civìl-Nuovo. Ma quella volta Gì ovan Giorgio delibero di orare elio
pubblicamente, e dire in Configlio le fue ragioni : per la qual cofa comporta
in comunal dialetto Lombardo una forte Aringa (pi)» sì bene, e con tale
efficacia davanti ai Giudici la recitò, che all’ultimo (pi), con grande feorno
e rabbia degl’ incaparbiti Comuni, egli fentenziarono a di lui favore (p$). Sera
egli ammogliato la feconda volta a Bianca (P4). figliuola di Niccolò Trillino,
e di Caterina Ver Quella è l'Aringa da noi citata sì fpctfo nella prefentc
Vita-, e Cc nc conferva copia nella Libreria de’Cherici Regolari Soraafchi
della nolìra Città di Vicenza. Avvitatamente s r è detto all' ultimo,
perciocché non tappiamo, che il Tri ss ino per la narrata cagione piatile più
colle dette Comunità : ben è vero, che i di lui Poderi appo fua morte ebbcro«a
foffrir da colloro per lo ftctTo motivo nuovi difturbi . Crediamo ciò fofle o'
nel principio dell’anno x 5 3 1. ? 'o nella fine del precedente; e | lo
argomentiamo da ciò che e* 'dice nella citau Lettera al Pre~ ! re di
Grugnitola, ed è; Le cofe | della [acuità mia dopo molti tra| valji fono quaji
tutte rajfcttate, e trovami manco povero ch'io ' fojft nati, I « quella
.ftponda fua | moglie fa il T r iss 1 no onoratole njènzione nc‘ fuoi Ritratti
> Citila» Re (fa fi parla altresì con lo.Je’nel libro intirolaro:7"
atte U Dgnne maritate, Vedove,, è’ I)ongeil/ \ ptr Lugrezio Beccandoli Bologne
fé *»/ magnanimo’ Ai, Fr ance [co elei Scolari, Eresiano, na Verlati (p?), e
già vedova di Alvife Tri Arno (ptf): la quale partorì a Giovangiorgio u n
figliuol [ciano, [no Signore . in 4» fcnza efprcffione di luogo» anno, e ftampatore.
Se il Tommafini negli Elogi, a car. 53. dicendo:,, De-,, funóto Leone X. in
Pacriam rc„ diic.... Anno mdxxiii. fe» cundas cum Bianca fui Sxcu3, li Helena,
Nicolai Triffini », Vidua nuptias contraxit volle dire, che Bianca, quando fi
fposò a Giovangior g 1 o foffe vedova di Niccoli Trillino» prefe certamente uno
sbaglio, come lo prefe il Sigi Apollolo Zeno nella Galleria, e gli altri, che
ciò affermano apertamente. Imperciocché Bianca non fu vedova, ma figliuola di
Niccolo Tuffino, come dalli fcguenti Alberi dal Sig.Co: Anco» nioTriffino del
Sig.Co:Piero, corr umaniflìma gentilezza fomminillratici, evidentemente appare»
1. i Birtolommeo Trillino. NICCOLO' Tullio©» Cafparc Trillino» in in in Chiara
Mirtinengbi. Caterina Verlati» Cecilia Bevilacqua. 1 L 1 ALVISE BIANCA.
CIOVANGIOR.GIOPoet.ec» in in in BIANCA di Niccoli 1. ALVISE di Battolar»-
BIANCA di Niccoli Trillino ; da cui la li- mio Trillino . Trillino, da cui li
Nob» nei del Nob- Sig.Co: a. GIOVANGIORGIO Nob. Sigg. Co. Co. CiPiero. Tuffino
Poeta ee. r®, e Nepoti Trillino •Senza di che Paolo Beni ncljwe/rfe, figlio
unico (cioè di MaTrattato dell' Ori*. della Fa ! fchi ) ec. In oltre dalla
Scrittumigl. Triff. lib. 2. Manofcritto, ! ra nuziali d’ effa Bianca, fedove
parla delle Donne illufiri | gnata addì 18. di Febbrajo.... della detea
Famiglia, venendo | fatta col fuddetto Alvife Trifa Bianca, dice; Bianca peri
fino, fi ha non pure che effo la fuafingolare belletta merita-' fu il primo fuo
marito, madie mente chiamata l' Helena della j il valore della fua Dote fu di
Dufua età, hebbe due mariti dell’ | cali tremillccinqucccnto, cioè ifteffa
famiglia: fu il primo . di lire Vi niziane 21700. ; Dote Luigi figliodi
SartoiomeoTrif-' affli Cofpicua 3 quc’tcmpi. EJ fino, et di Chiara Martine ri ]
anclie di q-uefta notizia ci con» ga, a cui partorì 6. figli mafihi, fediamo
debitori al predato Siti' 2. fenmine : fu il fecondo gnor Conte Antonio
Trillino. Giovangiorgio, Poetaf (96) Alvif: Triflino fe te» Gr Oratore, et
hebbe Ciro-Cl>- \ ttamento del ijìi,, c poco di poi t I del Trissi.no. 4P
figliuol mafchio, appellato Ciro, ed una femmina . Ora dopo qualche tempo
nacquero diffenfioni tra Bianca, e l’Arciprete Giulio, figliuolo della prima
moglie d’effo Giovangiorgio: delle quali principal cagione fi fu, che amando
ella teneramente, ficcome è naturai coti, il fuo proprio figliuolo Ciro, s’
adoprò in guifa, che il marito Umilmente facefle, e feemando l’affezione fua
verfo Giulio, lui più cordialmente inchinalfe ad amare . Le quali cofe diedero
apprelfo motivo all* Arciprete di piatire lungamente col padre, da cui prctefe*
e in fine poi confeguì non poca parte di fua facoltà. In quello mezzo la Patria
impiegollo in un affare molto importante . Ciò fu fpedirlo fuo Oratore (in uno
con Aurelio dall’Acqua e Piero Valmarana, Gentiluomini Vicentini,) a Venezia
per contrapporre ad una troppo altiera richieda degli Uomini della Terra di
Schio, Dillretto di Vicenza. Volevano coftoro non iftar più foggetti al
Gentiluomo Vicentino, che reggevagli, e regge ancora con titolo di Vicario; e
però nel principio dell’anno 1534. ardirono di chiedere al Senato Veneziano,
che rimolfò quello, un fuo Nobile Patrizio defse loro a Rettore . Ma sì giulle
furono le ragioni da’ Vicentini G Ora poi fopravviffe; ficcome colla \o in
quell’ anno, o l’anno apiolita gentilezza mi fc certo il preffo Bianca fi farà
a G iovanSig. Co: Antonio Trillino fud- ciorcio rimaritata, detto, fuo
difendente; laonde Digitized by Google 50 L A Vita Oratori addotte in prò della
Patria, che non ottante che Baftian Veniero, gentiluomo Veneziano, incontra
nringifse, i Giudici confermarono la giurifdizione della Città noftra, e
condannarono gli avverfarj a rimborfarla delle fpele dovute fare pel detto
motivo: loro davvantaggio vietando penalmente di più contravvenire a tale
deliberazione. E per dire di altri onori, a cui fu egli dallaPatria elevato,
troviamo, che nel 1536. addì 27. di Maggio era uno dei Deputati alle cofc utili
della Città (p 3 >; ficcome nel mefe fufleguente era Confervatore dette
Leggi : e pochi anni appretto, fu ricevuto nel numero di que’ Nobili, che
formar doveano il Configlio centumvirale > detto anche Graviffìmo, dcll^
Città, allora allora riformato.. Morì in que’ tempi il celebre Poeta Giovanni
Rucettaii tanto amico delnoftroTiussiNoi il quale fin dall’anno 1524. (nel qual
tempo era Cartellano di Caftel Sant’Angelo in Roma) avendo com Veggafi io
Statuto no-| Statuto noftro fuddet firo lib. 4. pag. 176. a tergo . to, Lib.
Novm Partium, pag. Noi ci fiamo ferviti dcli’cdizio- : 197. a tergo. Qui il
Trissino nc fattane con ! è schiantato Dottor, &£qnes. quello titolo ^ Jhs
À/nnicipale \ (99) "Statuto noftro, ivi » l'iccntinum, cum sìddit ione
Par- png. 19H. a tergo.. tium Jlluftrijfimi Dominii . Vt - 1 (loo)Statuto cc..
Ivi, pag. nttiit, Motxvii. ad infiantiam I 185. c 186. a tergo, cdanchcqui
BartMomei Centrini. infoi. | il Trissjno è detto Cavaliere. 1 compiuto il
belliflìmo luo Poema delle /#/>/, non volle pubblicarlo infinoattantochè il
Tassino da Venczia> ove era Legato di Papa Clemente, non foffe ritornato,
perchè volea farglielo rivedere.. Ma non avendo' potuto ciò effettuare
fopraggiunto dalla morte, al fratello Palla, nel raccomandargli prima di morire
tra gli altri Tuoi componimenti il detto Poema, notificò tale Ilio penfamento :
onde quelli poi fauna 1 5 39. mandandolo alla luce, al Tm ss ino lo intitolò
(101). Intanto effendo la fopraddetta feconda fua moglie Bianca pallata di
quella vita l’anno 1540.. C102), le liti già incominciate tra fe e’1. figliuol’
G 2. Giu. La Dedicatoria di Pai- 1 Antonio Volpi, il quale poi lai ta Rucellai
al Tr issi no è . fece pubblicate in un col Pocfegnata *li Firtnzj addi li. di
ma ftdlbdelle Api, ecollaC*/.5.6 in e(Ta affer- ] tivazione di Luigi Alamanni „
ma di efeguite in Dirar ai templi di Ciprigna, e Marte Le mie vittoriofe, e
chiare palme, Cosìdiceegli nella Dedicatoria del Poema fletto a Carlo V.; ma in
una Lettera al Cardinal Madrucci, che appretto allegheremo, accenna d"
averne glieli, per efsere anch’efso malato di quartana;accomandando con fua
lettera al Cardinal Criftofano Madrucci, Vefcovo e Principe di Trento, il
Dottore medcfimoi e pregandolo, che ali' Imperatore lo facefse introdurreQuelli
sì fece; el dono fu fommamente gradito alla Maellà Sua, che moftrò nello
flefsotempo gran delìderio d’ averne: ancora il rcftante.. La qual cofa da Giov
angiorgio intefa, ritornò prettamente a. Venezia, e gli. ultimi diciotto libri,
colla maggior, follecitudine: a perfezionar fi diede; e poi fattigli ttampare
l’anno^ 1548., a quella volta pel figliuol Ciro gliel’inviò; elfo altresì al.
lùddetto Cardinale raccoman-dando con maggiore affetto-,, dicendogli, che per
la fua giovanezza egli più abbifognava di conliglio, e di ajuto (106): i quali
libri da fua. Maellà. Vegganfi le Lettere \ fiche fùe cTAnhi Venticinque*.
dall' Autor noltro fcritte a Sua ! che le avea dedicate c mandaMacftà, e al
predetto Cardina- te, grate le foffero Hate, e acle in propoli to di ciò,
inferite ! citte . foggiuogendo*. che nont nella, già citata Prefazione del | a
vendo ardi mento a chiedere coSig. Marchefe Maffei alle Opere j fa alcuna, al
perfetto giudici» di lui a car.xxt. xxn.. xxit 1 . 1 della Maefià Sua, come
fapien-' c xxiv.; in una delle quali, I tiflìma, c liberali/fma che era,, che è
a car. xxwi. al Cardina* | fi rimetteva . le indiri eca * fegnata di Venezia I
Qui vuol novamente notarGiovcdì, addì x.. di Dicembre fi,. che dalPcHferfi il
Trissino 1548., dice, che dcfiderava,! in quelle Lettere foferitto. Dal che da
Sua Maefià fojfe noti fi- ; Ve ilo d’OKo, chiaro» appare, cato ai Móndo per
qualche ma- ! non aver egli avuto da Carlo nifeflo fegno, che le vigilie e fa-
[ V. per la Dedicazione del detto Maeftà furono ricevuti collo itefso
.gradimento, che i primi. Ma per pafsare ad altre cofe, fu il noftro T r issino
familiare eziandio del Pontefice Paolo III., a cui nel .1541. efsendo per
andare (come in fatti vandò) ad abboccarli la feconda volta con Carlo V. a
Lucca, indirizzò «un fuo Sonetto: e altra volta certo vino mandoglf,3 donare ;
del qual dono, e deH’efserfi ricordato di fe, il Papa Io fece ringraziare pel
Cardinale Rannuccio Farnefe, grande amico del Trissino (iop). Nel tempo, che il
noftro Autore era lontano dalla Patria, ed infaccendato nel mandar a luce i
proprj componimenti, l'Arciprete Giulio, che pure continuava la fiera lite
contro a lui -, •tutte le fue rendite fece ftaggire: il perchè in fran to Poema
la conceflfìonc di cosi denominarli, comcpare, che voIeOTc il P. Rugeri nella
citata ' Declamazione; ma fc pur da lui ! l’cbbe, come dicefi anche nell’
Elogio dianzi mentovato, che in San Lorenzo di Vicenza fi legge, certamente
molto rem», po avanti la ebbe, cioè quando in Bologna alla Coronazione dell'
Imperatore medcfimo fi trovò prefente. Quello Sonetto, che incomincia: Padre,
fot to' l citi Scettro alto rifofa, cc. | e che non è tra le fue Rime dcllà
prima edizione, eflcndo j Hate molto tempo avanti ftampare^ fi legge nella
Raccolta dell' Atanagi, par. pr. a car 89, a icrgo \ e nella edizione di
VeronaTom.i.a car. 3La Lettera di quello Prelato al T rissino (cricca d’ordine
del Papa, c in data di Roma. Nella citata Raccolta dell’ Atanagi a car. 90. fi
vede un Sonetto d’O. al predetto Cardinale indirizzato. granditfima ira montato
egli, fe tc-ftamento, e in tutto e per tutto Giulio difereditando, Ciro
inftitui erede d’ ogni Tuo avere; aggiungendo, che morendo quelli fenza
dipendenza, gli fuccedelfero nell’ eredità del Palazzo di Cricoli i Dogi di
Venezia, e nel rimanente de’fuoi beni i Procuratori di San Marco con ugual
porzione . Dichiarò CommelTarj del detto Tellamento il Cardinal Niccolò
Ridolfi, allora Vefcovo di Vicenza, Marcantonio da Mula, e Girolamo Molino;
ordinando, che appreffo la morte di fe, folle il fuo corpo feppellito fui campo
di Santa Maria .degli Angeli di Murano in un avello di pietra ijiriana: la
quale volontà mutò dappoi in un codicillo, ordinando invece, che volea cfsere
fepolto nella Chicfa di San Baftiano di Comedo * territorio di Vicenza, ce»
ornamento di rofe, e lidia fepoltura 'vi fofsc polla quella fempliee breve
iscrizione; £uì giace ciò : G io AG io t rissino . Pur finalmente anche quello
piato ebbe; fine ma Giovangiorgio fuori di tutto il fuo penfie ro n’ebbe la
fentenza incontro, e dal figlio fi vide fpo (llo) Si può credere fonda-
\Janiculo, 1548. in 8., introdut. -urente, che per aver egli do- ì cede il
perfonaggio nominato vuto (offerire tante c si fiere ; Sìmitlimo Rabbatti a
così fdaliù, avvifatamentc nella fualmare contra gli Avvocati ; c Commedia de'
Simulimi* contro a ogni forte di Im para in Venezia, per T olmmeo j gio . O rra
fpogliato d’una gran parte de' propri beni. Della qual cofa sì fi crucciò} e
difpettò che rifolvette di abbandonare affatto la Patria* e lafciati prima
fcritti due molto rifentiti componimenti in fegno di fua indignazione (ni),
andofsenc H dirit- O maledette fian tutte le liti » JT uni i garbugli, e tutti
gli Avvocati, Nati a ruina de f umane Senti, Che fi nutrifeon degli altrui dif
canài Difendendo i ribaldi con gran cura'. Et opprimendo i buoni ; che i
feelefii • Gli fon più cari, e di maggior guadagno: Nè cofa alcuna è federata
tanto, *Che non ardifean ricoprirla, e farla Rimanere impunita da le Leggi, Di
cui fono la pefie, e la ruina . Sono rapaci, e fraudolenti, e pieni ~D' in
fidie, di perjuri, e di bugie, S end alcuna vergogna, e fenz.a fede, Servi de
l'avarizia, e del denaro . Mentre che fiato fon f, opra 7 Palaz.zo Quafi tutt'
oggi in una lite lunga D' un mio Parente, l' Avvo cato awerfo : Tanto ha
ciarlato tc. Da quelle ultime parole fi può dedurre, aver egli in ciò avuta la
mira alle proprie liti. I Componimenti die c’ fece avanti la fua ultima
partenza dalla Patria, fono primieramente il feguente Epigramma latino, che fi
legge eziandio llampatO' negli Elogi di Monlìg. Tommafini pag. j 6., ed anche
tra le OpcTe del noftro Autore della riftampa di Verona Tom. 1 . in fine. „
Quatramus terras alio fub 1, cardine Mundi, f „ Quando mihieripitur frau„ de
paterna T)omus. „ Et fovet hanc fraudem Venetum fententia dura Qux Nati in
patrem comprobat infidias: >» Qux Natum voluit confe&um xtate Parcntem,
„ Acque xgrum antiquis pellcre limitibus. „ CharaDomus, valea*, dulcef„ que
valete Pcnates, „ Nam rnifer ignotos cogor adire Larcs. Indi un Sonetto, che fu inferito nella Biblioteca
Potante del Cinclli, Scansìa xxn. aggiun- dirittamente all’Imperator Carlo V.,
al quale cariflìmo era* da cui apprefso licenziatofi, da Trento, fenza
purpafsare per Vicenza, fe n’andò a Mantova r e quindi da capo, tuttoché
vecchio fofse, e molto gottofo, fi ritorno a Roma, dove era Rato tanto onorato,
ed amato. Ma poco quivi fopravvifse, concioflìachè. tra per lo cruccio, e passa
di quella vita. Non fi fa veramente ove fia di prefen giunta da Gilafco Eut
elide» fc, Pafiore àrcade, ( cioè dal P.Manano Rude Carmelitano cc. In Roveredo
frego Pierantonio Perno, 1736. in 8.: a car. 82. e 83. il qual Sonetto fu
comunicato all' autore di quella S con zia dal ! Cavaliere Micbelagnolo Zorzi,
| di cuifeperciòa car. 8+. lodevol menzione, E' notabile l’errore cotnmeffo da
Luigi Groto, foprannominato Cieco d’sldria, in propoli to di quello Sonetto
nelle tue Lettere familiari. In Venezia, preffo Gioì sintonia Giuliani, 1616.
in8.a car. 124.; perche quivi parlando del Tr issi no lo chiama Brlsci ano, e
Padre deir Jtalia Illustrata. (na) In alcune manoferitte memorie intorno al
noltro Autore, comunicateci cortefcrr.cnte dalla gentilezza del lodato Sig.
Apoftolo Zeno, dopo 1 ' Epigramma e Sonetto fuddetti, ili legge come fcguc. M.
Zan! zorzi fece ciò per una lite, che \ veniva tra ejjo, et P Arciprete | M.
Giulio fuo figliuolo di la Ca \fa di licenza, ove dillo M. Zanzorzi hebbe una
fententia centra in Quarantia, et con queftà opinione andò a P Imperatore, e
ritornato in Trento fenza venir di qua per la via di Mantova, Ticchio, pien di
gotta Il rimanente non s’ intende per edere rofo il foglio. Che il Trissino
moridc l’anno 15 jo. conila non folamente dal concorde confcnfo degli
Scrittori, ma da una Lettera di Giulio Savorgnano, fcritta a Marco Tiene,
gentiluomo Vicentino, fegnata di Belgrado addì 29. di Dicembre 1150.: della
notizia della quale al già mentovato Signor Abate Don Bartolommco Zigiotti ci
confefflamo unicamente debitori. preferite il fuo monimento } ma Autóri
parecchi hanno fcritto, eflergli ftata data fepoltura in Roma medcfimo nella
Chicfa di Sant’Agata entro lo ftefso Depofito, in cui era ftato fepolto molto
tempo innanzi il famofo gramatico Giovanni Lafcari (114); e Jacopo- Augufto
Tuano nelle lue Morie) facendo di Giovangior.gio molto onorata menzione)
accenna) che gli fofse ftata anche fatta una lapida» poiché dicc 5 che efsen H.
2 do Tra gli altri Scritto - 1 della Città coltra, di cui il P, ri, che addurre
li potrebbono, Rugcri avea fatta menzione avvi Paolo Beni, che nel T rat- nella
detta fua Opera a car. xxvr. tato àell'OrigMlla P amigl.Triff. | dice come
fegue .,, Quoniam manoferitto, a car. 34. cosi dice : Partitofi ( il noftro
Autore) nell' A. 72. della fua et 4 per di f gufi 0 dalia Patria-, il che egli
efpreffe con alcuni verfi latini et volgari ( cioè l’ Epigramma, c*l Sonetto
predetti) li quali ferini a penna nella libreria Ambroftana di Alitano con
altre molte fue compojìtioni non ancora fiampate fi conferva . no, andò in
Germania a ritrovare l' Imp. Carlo r., et ritornato in Italia per la via di
Trento, e Mantova pafsb a Roma, ove morì, et fu il fuo Cadavere poflo in
Depofito nella fepoltura del Lafcari. E Olindro Trillino in fine della
DeclamazJone latina del P. Rugeti, citata di fopra, da elfo fatta (lampare,
traferi vendo il già mentovato epitaffio, che fi legge in San Lorenzo meminit
Au&or Epitaphii, „ Cenotaphio loann. Georg. •„ Trifiini Vice ti* infculpto
„ (Relliquum cnim tanti Vi-,, ri, quod Claudi poterat, Ro-,, M.C in Tempio S.
Agatb* in „ Suburra Conditu.m Fuit) illud hic &c.“ E finalmente anche lo
Beffo Rugeri nel citato luogo afferma, che Eius offa-, ( di G1oVAN GIORG I o ),
Roma cum Jo. Lafcari cineribut affervantur . Comunque lia di ciò, fatto fta che
al prefentc in S. Agata di Roma tuttoché fuffiffa il fepolcro del Lafcari, non
fuffifte più veruna memoria del Tr issino; come ci fe certi il P. Girolamo
Lombardi della Compagnia di Gesù con fua lettera fcrittaci da Roma addi 11. di
Novembre di queft’ anno 17} 2. do diroccato il monimento nella reftaura2ione‘
del Tempio (non ifpecifica quale^, ove era Ila*to feppellito, gli eredi Tuoi un
altro gliene pofero in San Lorenzo di Vicenza nell’avello de’ fuoi Antenati In
fatti in San Lorenzo fi vede l’infrafcntto epitafio, opiuttofto elògio, tante
volte in queft3 VitA citato, da Pompeo Trillino, e da’ fuoi affini' fatto ivi
fcolpire, non veramente fa 1’ avello' degli antenati fuoi, come erroneamente ha
lardato fcritto ilTuano, ma allato all’altare dr detto Santo, a perpetua
decorofà memoria di; un sì grande uomo. IOAN- lllujhis Viri J m obi Au~ Xufii T
hunni Hiftoritrum fui tem. pori s Ab Anno Domini i J43. nfque . libricxxxvt 1
I. Gcnev* apud Heredet Pctri de U Roviere Lite. D. „ Obli c et hoc anno « I.
Georgius Triflinus peran» tiqua, nobiliquc Vicetise fa. » milia, ad virtuccm,
Se lite „ ra* natus, linguarum periti fj> fimus» Se omni Scienciarum,,
genere exercitatiffimus »> Roma laboriofz virar finem „ impofuic anno xtaris
lxxii. >» Diruto Monumento» dum „ Templum inftauratur, in quo „ conditus
fuerac, Hacrcdes al iud i» ei ad S. Laurentii in Majo„ rum Scpulchro Vicctia
pò» fuerunt. IO' ANNI GEORGIO O. Putriti o Vicent. tAtn nobilitate, quarti
dottrina, (fi integt itato Leoni Decimo, et Clementi VII. p 0 „t. Max. necnon
Alaximil. (fi Car. V. Impp. aliifique Pfincipibus acceptijfimo, Legationibus
prò Cbrifiiana Repub. temporibus difficillimit fattici cum oxitu apud eofdem
per alì is : Dacia inde Regi desinato . Jn Coronai ione Caroli Imperatorie ad
Sacra Palla Pontificia nitentis ferendi Syrmatis Munus, infignioribus
Principibus ad hoc ipfum afpirantibut pofi habitis, Bononia eletto . Aurei Ve
Iter ij Infignibus » (fi Comitis dignitate prò fi » et Pofieris ab eifdem
Imperatori b. decorato. Apud Ser. Remp. Venetam fapixs Legati nomine de
Clodianis Satin ù, de Ve. rona refi itut ione, De Pace, Deq\ aliis negotiis
gravibus re ad votum tran fatta. Sublimiori gradu Sobelis ergo r confato.
Operibut plurimi e cum antiquitate ceri antibus elucubrati s. Rebus finis* et
Pofieris eidem Inclyta Reipublìca Ven. ex tefi amento commendatis . Vitaq;
religiofijfimì funtto Anno Aitai is Sua LXXII. Virgìnei vero Partus A4. D. L. P
ompejus Cyri Comitis, et Eq. fil. unicus Superfies, Nepes, (fi Hares, AJfinefq;
T anti Antecefioris Memores pii, gratiq; animi A4. P.P. An. Salu. A4. DC. XV.
Non (116) Di ciò non facemmo [nc abbiamo trovate tipruovc più fpecial menzione,
perchè nonjficure. Non dee tralafciarfi di qui trafcrivere altresì l’ Oda
latina da Giufeppe Maria Ciria fatta in laude del noftro O. - j) FAma centenis
animata linguis » Aureo pergat refonare cornu 3> Trissini Busto fuper 5 et
jaccntés 33 Excitet umbras. 33 Fas ubi trilli gemuere lu e Lamino Perugino nel
MDXXjy in 4. . e C^enza luogo > anno> e ftampatore ) in i e (Cón la
SofonUba, i Ritratti, e l'Orazione al Principe Oritti ) In renezJat per
Girolamo Penzio da Le. che, C Venezia per Agoftino Sindoni e finalmente in
rerona coll’ altre Tue Opere ( 1*1 )• li. EPISTOLA de le Lettere nuovamente
aggiunte ne la 1 2 > Lin- Nel Catalogo della Libreria Capponi, 0 Jta de'
Libri del fa Afarchcfe Alejf andrò (ire. gor io Capponi, Patrizio Roma-\ no ec.
C on Annotazioni in di- j verfi luoghi cc.. .. i n R oma ap- preso il Bernabb,
e Lazza. : rmi 1747. in 4. a car. .|
vedcfi regillrata tale edizione;) ma farà forfè quella fleila, che fic fu fatta
unitamente co’ Ri- ! tratti, e colla Sofonisba, cd al- ‘ tro, da noi per altro
non ve-| duta, che ha quelle note in fi-| j ne P. Alex. Benacenses F. Be- na.
V. V.; fecondo che dice il j Cavaliere Zorzi nel Ragguaglio ! JJlor. della rita
d’O. manoferitto, in fine> cd anche nel Difcorfo fopra le Opere di lui,
llampato nel tomo 5. della Rac colta A'Opufcoli ec. in Venezia apprcjfo Crijtoforo
Zane, i 7 jo. in la. car. jp8. Di quella Rac- colta ne è benemerito Autore il
celebre P. D. Angelo Calogerà. ( Tom. a. a car. 2 7 p. . Digitized by Googlc -.
rugino e m Venezia ( Tenz’ anno, e ftampatorc in 8. e ( COn la Sofonisba,
l'Epiflola de la Vita ec., ed al- Tom. 3. a car. . ( ia8 ) Tom. 2. a car. 201.
Il Fontanini nel regi- ftrare nella tua Eloqu. hai. a car. * 75 - la fudJetta
edizione, prete uno fbaglio, notando Venezia in vece di Vicenza. Tom. 2. a car.
243. ( l ì*J Nella Prefazione alle I Opere del rioftró Autore a car. xxx. ( 1 3
2 ) Si legga il Difcorfo del I Cavaliere Zqizì {opra C Opere j del noftro
Autore a car. 440. Nel Catalogo della Libreria Cap- [poni, a car. 377. Ih
regiftrata [un’edizione di qucft’Opcra in j 8. lenza nota di ftampa, ma quella
ed altro ) In Venezia per Girolamo Pernio da Ischi mdxxx. in 8. e V* net. per
Ago/lino Bindoni e finalmente in Verona colle altre Tue Ope- re Il T rissino
fcrifle quell:’ Opera a mòdo di Dialogo, e in ella lodò parecchie Donne rag-
guardevoli del fuo tempo i facendo tra le altre menzione )come fopra è già
detto) di Bianca fua feconda moglie, chiamandola beiuffima giovinetta . Vi. Il
Castellano, Dialogo, nei quale jì trae. ta de la lingua Italiana . In Vicenza (
fenza nome dello ftampatorc, nè anno della ftampaj ma ter Tolomeo Janiculo . )
in foglio. e ( colla Volgar Eloquenza di Dante) in Ferrara per Domenico
Alammarelli 1 1 K in 8. Fu riita mpato anche tra gli Autori del ben parlare, e
in Verona coll’altre fue Opere. O. manda quello suo Dialogo a lo ili ufi re
Signor Cefare Trivulzio, fottO il nome di Arrigo Dori a ; e iperfonaggi, che
v’introdulfe a favellare, sono Giovanni Ruceiiai col nome di Ca/iciiano, il
quale di- fende l’Autore da quanto gli fu fcritto contro circa le nuove lettere
} Filippo Strozzi, che lo Cdlfura, e gli quella forfè farà, che abbiamo] (133)
Tom. 1. a car. accennata al di fopra nell’anno- . Tom. r. a car. 41. (azione
ITom. 2. a car. c gii oppone le parole medcfime de’fuoi avver- sari ; e Jacopo
sannazx.aro y che difende le ragioni del Trissino. Della Poetica; Divisone i.
n. m.*iv, Jfu riceva perT olomeo Janiculo da Bretfa MDXXIX. di Aprile. in
foglio . Monfignor Fontanini regiftrò nell’ Eloquenza ita. liana quelle quattro
prime Divijìoni in tal guifa : Dalla Poetica di Gìangiorgio Trijfmo, Divijìoni
iy. in Vicenda per Tolommeo Janicolo. in foglio: ma flc- come noi non abbiami
vedute altre edizioni, che la fuddetta del 152 p., e quella di Verona ; e di
altre non facendo menzione nè il Fontanini medefimo, nè l’Autore del Caia -
lego della Libreria Capponi, nè ’1 Cavaliere Zorzi in nefliina delle due fue
Opere intorno al Traino, (138), nè finalmente chi compilò la Biblioteca
italiana; così crediamo agevolmente, che egli in ciò fi fia ingannato . Lo
Hello diciamo parimente della feguente impresone delle altre due Divijìoni, da
lui notata i 140) . A car. 354. j 1718. in 4. a'car. Coll’ altre fue Opere, e
17. e nell’Indice: Il Com- Tom. a. a car. 1- ! pilatore di quella Biblioteca fu
Cioè nel Difcorfo /o-jNiccoIa Franccfco Haym Ro- pra le Opere di lui, e nella
Vita mano. del medefimo manuferitta. ! Neil’ Eloqnjtal. a car, { li9)
Biblioteca Italiana cc. In 354. Venezia prejfo Angelo Geremia . 5 che pure non
farebbe il folo errore conv meflfo dal Fontanini in quella fua Opera. Della POETICA;
Divifione . In Ve . - per Andrea. Arrivatene, Sono fiate tutte ultimamente
riftampate ì* a?»»* coll’ altre fue Opere. Quelle ultime due Divìfioni furono
dedicate dall* Autore ad Antonio Perepoto Vefcovo di Aras ? con dirgli > non
aver loro data 1' ultima mano per effere fiato in quel tempo grandemente
occupato nella teffi.- tura del fuo Poema dell’ Itali * Liberata da Goti, Nelle
prime quattro Divìfioni tratta egli de’ Ver- fi, delle Rime, e delle varie
maniere de’ Li- rici Componimenti volgari : e dice in princi- pio » che fé bene
da molti Poeti tra fiato pot tic amen* te Jcrittoy e con arte, pure nefiùno fin
al fuo tempo avea deir^r/ a voffra Reve- Furono più volte flant-j rtndìffìm a
Paternità molto, et pata. V. fopra car.31. annor 55. | molto mi raccomando. ove
s’c favellato di quefta Ora- i Da Cric oli-, di luni, cincone . V‘t di Marza
del mille cinque Tom. 2. a car. 28?. cento trenta/ette, il tutto di In fine di
quefta Let- \ Fopra RevcrenditfmaTatermta. tcra fa il Tris sino menzio - 1
Giovanceougio Trissino. ile fuccinta eziandio di certi al - 1 Quefta lettera
non (apremmo tri Villaggi del Territorio di perchè non fi a (lata inferita
nelViectiza ; c poi termina con | la edizione di Verona, quefte parole: A 1 on
faro più I (^ P inrgia appreffo lungo, perciocché effondo Monf,-\ Pietro dei
Nicolini da Sabbio gnore Brevio noftre lo apporta- \ mdm. in 4 * * Car> 3 ^
1, a tcr S 0, tare di quefta, egli fupplirà a I (iji) Ivi» ed anche a car.
bocca a quello, che io bavero. in fine. D’O. GRAMMATICES introduci ionie Libcr
Primus. Verona afkd jintonium Putellettum Fu rijtempato quello Trattatello in
Verona unitamente coll’altre fue Opere dove si premette un breve avvilo al
Lettore, dicendo in eflb, che la detta Operetta forfè è quella, che fittone. me
di Grammatica fi cip* da quelli, C hanno fatto U Catalogo dell'onere del *oJItq
T*is«no, e forfè ancora nella prima edi. itone fi è dallo Stampatore coti
nominata > Libro Primo 5 per rifletto 4' altro giceiolo Libretto » che
contiene le inflituzioni della Grammatica del celebre Guari» Veronefi, e che
figuitandogli immediatamente, fui far le veci di Secondo diquejfa materia. Non
fi fa in fatti che il Tri ss ino altri ne facefle i e certamente altri non ne
avrà compofti, concioffiacofachè nulla manchi alla perfezione dell’Operetta
medefima* in cui egli attenendoli alla Italiana Grammatùhetta, tratta
compiutamente delle otto parti dell’ Orazione . K i OPETota. i.acar.197. OPERE
i D’O. >. In Verlì Stampate. LA SOFONflSBA (in fine} Jfampata in I v Rama
per Lodovico Scrittore, et Lautitio Perugino intagliatore con p rohibitione,
che nefsuno poffa Jfampare queft opera per anni diece t - come appare nel
Brieve concedo al prefato Lodovico dal San . tifiimo Noflro Signore Papa
Clemente VII. per tutte le Opere nuove che 'Iftampa. in 8. Laltefià. Jn
Vicenzjt per T olomeoj articolo e In Venezia ( con li Aitratti I* Epiftola a
Margherita Pia Sanlevenna y f Orazione ai Doge Gritdj e la Canzone a Clemente
VII.) per Girolamo Pernio da Lecbo. in 8» e ivi ( lenza la Canzone ) per Agoflino
Bìndoni Ivi ancora (reparatamente) prejfo u Gioliti mdliii. in 12. c Ivi per
Francefco Lerenzini MDLX, in 8# * e Ivi P” u Gioliti ( tratta dal fuo primo
efemplare) mdlxii. in n. - *' £ Jn Gntovrfapprtffo Antonio Bellone * e Venezia
per Ginfeppe Guglielmo, >s T UO- Nuovamente ** Venezia prejfo Altobello
Salica io Poi In Vicenza prejfo Perin Librar o t e Giorgio Greco compagni in
12. e in V me zia prejjo li Gioliti mdlxxxv. e mdlxxvi in n. e Ivi per Domenico
Cavale «lupo. ili 8. e Ivi preffo Michel Bocobello " Poi ancora inVicenzA
appreffo il Brefcia e in V inezia per Gherardo Jmbcrti . Fu riftampara eziandio
unitamente con la Dpijtola de la Vita ec. (con li Ritratti, e X Orazione al
Doge Gritti) fenza nota di ftampa, con certe note in fine, in 8. (15?)
Finalmente fu impreffà tre volte, in re. rena prej/b Jacopo raiUrji, F una .
nel primo tomo del 7 Wr» italiano (154), l’altra nel 1729, colle altre Opere
del noftro Autore, e la ter V. fopra annotazione l2c. a car. 67. ( >54 J Di
quell’ Opera ne dobbiamo laper gradoni Signor Marchefe Maffei, il quale v' ha
premevo ancora una dotta Prefazione, da noi altrove accennata, in cui difeorre
molto eruditamente della Sofonisba, che occupa il primo luogo. Quell’ Opera è
cosi intitolata t Tea-\ tro Italiano, o Jìa Scelta di Traj gedie per ufo della
frena ; ec. i in reron a prefso Jacopo Vallar fi 171S. in 8. Tom. 1. a car. .
Tralafciando di riferire le vcrfiotti fatte di quello Tragico Componimento in
altre lingue, fedamente vuol di rii, efTere cffo fiato tradotto in metro
Jambico latino da Giulèppe Trillino la terza nel prima toma del fuddetto Teatro
italiano ultimamente rillampatoQui dovremmo ftenderci a defcrivere a minunuto
le bellezze di quella Tragedia, aia per non dilungarci troppo, ci riftringeremo
(blamente a riferire ( come di fopra prometto abbiamo ) le oppenioni di
parecchi illuflri e chiari Scrittori fopra la fletta, £ primieramente Niccolò
Rotti, tanta ftima ne fece* che non pure ditte ( 1 5 . che ella tra tutte le
Tragedie de’ Tuoi tempi teneva il primo luogo? ma la fcelfe di più per materia
de’ Tuoi Dimorfi intorno alia t rogo dia. Angelo Ingegneri? Veneziano, laido
lcricto, non efler troppo agtvol cofa P arrivar P Arìoflo nella Commedia,
atrissimo nella Tragedia r del qual fentimentO fu pure Giovambatilla Giraldi da
Ferrara, per altro rigido appuntatore del Trissino, dicendo, che tra’ noftri
Comici è recito p Ariofio eccellentijfmo, et il TrHsino nelle Tragedie ha
riportato, et ragionevolmente grandijfmo honort . Benedetto Varchi poi, uomo di
molta erudizione fornito, non dubitò di dire nelle fue Leudoni > là dove
trattò dei no, Cherico Regolare Soma- 1 meffaa* fuoi Difeorfi intorno alla (cor
la qual traduzione fta ma- j Tragedia . V.’car. 1j.aonot.44. nufcritta nella
Libreria de' P. P. I Della Poefia RappreSomafchi di Vicenza con que- 1
fentativa, et del modo di rap fta femplice ifcrizione: Sopho- I prefentarr le
Favole Sceniche cc. NUB/t Tragedia metrico-latina 1 In Ferrara per littorio
Baldini Paraphra/ìt . IJ98. in 4. a car. a. Lettera a’ Lettori pre -1 Ne' fuoi
Difeorfi intorno dei Traici Tofani (159), edere ftato il noftro CjIOVANGIORGIO
il P R 1 AIO » che fcrivejfe Tragedie in queJU lingua degne del nome loro. E
flOIl pure il Vàrchi gli diede quella lode* ma eziandio il fopraddettoGiraldi,
il quale nel fine della Tua Orbecche introducendo la Tragedia a favellare a chi
legge, le fece dire cosi: £’l O. gtWtH, che col fno canto Prima d Ognhn dd
Tebro, e dall UH f so Già trajje la Tragedia all’ end e et Arno . E a
tralafciar altri autori, non fu minore la ftimaj che d’efia fe il Signor
Marchefe Maffei, il quale nella fua raccolta di tragedie date a luce Col titolo
di Teatro Italiano, dando all 1 Sofonisba nel primo tomo il primo luogo, dille,
che ella il primo luogo altresì occupa fra tutte quelle Tragedie, che dopo il
rinafeere delle bell' arti in moderne lingue apparsero ( 161 ); foggiungendo
cfler mira. HI terno al comporre dei Romanzi,] (160) Nel principio della delle
Commedie, e delle Trage-i Prefazione, o Difcorfo, che vi dte, cc. in Vinezia
appejfo Ga - premette . briei Giolito de' Ferrari, &\ Avverte qui
dottameli. Fratelli, . acar.14jr.Jtc il Signor Matchefe, che benLegioni di A 4
. Bene- j che vero fia, clic avanti la Sodetto Varchi Fiorentino lette da'
fonisba il nome di Tragedia in lui pubicamente nell' Ac ademia J Italia fia
ftato a’ componimenti Fiorentina, ec. in Fiorenza per | volgari impofto,
poiché, die’ Filippo Giunti 1590. in 4. a car.J-egli, con queji' ijtejjo
belliffmo 681 •, argomento una Tragedia abbia ' mo, è il ctfa, come la [rim a
Tragedia riufcifle cui eccellente: C po CO apprell'o a fieri, che chiunque no n
abbia » come in molti accade, il gufo del tutto guafto da certe Romanzate
ftramere, non [otrà certamente non fentir/ì maravigliosamente com. muovere
dalle belle vue di queftaTragedia, e da' p a fi tenerijfimi, c Singolari, che
in ejfa fono. E finalmente in un altro luogo lafciò fcrittOj'che vera e
regolata Tragtdia in quefla, o in altra volgar lingua non fi vide avanti la
Sofonisba d’O. a cui il bell' onore non dee invi diarfi d'aver innalzate le
nofir.e /cene fino a emulare i fiamofi efemplari de' Greci* Ma degno di
(ingoiar lode 5 e d’eterna memoria fi rendette il noftro Giovangiorgio per aver
ufata in quefta Tragedia una nuova maniera di verfi, e da veruno non prima
ufata, dico i verfi fciolti, cioè non legati dalla rima*, di che e il Giraldi e
per la condotta tanto fi allontanano dal regolato ufo del Teatro, e dalla furia
degli antichi Maeflri, che non hanno fatto confcguir luogo agli slutori loro
fra ^ Poeti Tragici; onde la gloriaci' aver data al Mondo la Prima ! Tragedia,
dopo il riforgiment» 1 delle lettere, e delle bell' arti, è rimafia al O. . i A
car. iv. della fud* j detta Prefazione, o Difcorfo p.renjeflfo al detto T entro
Italia * no . I Difccrfi cc. a car. 23 6. ! Di f par crebbe non altrimenti ap*
1 preffo noi una Tragedia fe di ver1 fifo tutti rotti, 0 mefcolati cogl’ !
intieri, o co gl' intieri foli c'h.u j veffero le rime, fifle tutta compìfi a,
che havtrebbe fatto appreflo i Greci, et i Latini, fefujfeft at a 1 ccm . d’O.
. ‘ Si Ivlaffei (154) afsai lodatilo, e dicono, che perciò gli debbe fentir
molto grado la noftra lingua. Ben’è vero, che vi fu chi a Luigi Alatnanui.,
famofiilimo Poeta Fiorentino, attribuì la gloria d’aver prima d’ognuno pofto in
ufo co.tal Torta di verfii e ciò perchè egli -nella Dedicatoria delle lue opere
To/cane dille d aver mejfi in ufo i .ver fi fenza le rime non ufati ancor mai
da' noftri migliori.,Ma come notò molto giudiciofamente l’eruditiffimo Signor,
Conte Giovammaria Maz 2 uchelli [166), o che l' Alamanni contezza non ebbe
della Tragedia del Trissinoj e però fi pensò d‘ efsere il primo a fcrivere in
detti verfi, o che accennar volle colla voce migliori qué’foli antichi
fcrittorij .che fon venerati per primi Maeftri L della é compofia di Dimetri,
di Adonii,\ Fiorenti* . in 4. a car. 7. di Jindec afill ahi, ovtro di éjfa-
come pure il Bocchi nc’ fuoi E Iometri, perchè le fi leverebbe con' gj a car.
68., ed altri allegati la gravità il verifimile ; le qua- \ dal Sig.
Co.'Giovammaria Mazli due cof* levatele, firimarreb-\ne ucheìli nella Pira
dell’Alare ella fenz.a pregio. Et però manni per etto dottamente ferie— debbono
aver molto grazia gli' ta, e (lampara • in Verona per huomini della nqfira
lingua al ! Pierantonio Berno, 174 j. in 4. T R 1 s s ino, eh' egli quefli ver-
j unitamente colla Coltivaz.icne Ji fcielti lor dejje, ne' quali la j dello
ftcflfo Alamanni, c colle Tragedia pigliale la fede della \ Api di Giovanni
Rucellai, fu* Maefià con vera fembianzut amendue gentiluomini Fiorenatl parlar
communi* I tini . (164) Nella Prefazione al j A car. 47. della pcc’ Teatro
italiano. I anzi citata Tita di Luigi Ala Il Poccianti nel Cata-j manni. logo
Scriptcr, Florentitiorum della Poefia. Fatto fta però avere il T rissi no» come
già è detto» la Tua Tragedia comporta vi* ventc Leone X. a cui la dedicò » cioè
a dire prima che l’ Alamanni fcrivefle le Tue Opere» che furono ftampate nel in
2 E perchè v'ha una Commedia di Jacopo Nar* di, Fiorentino, intitolata amicizia
(j e dell' ortografia antica della predetta Commedia, e fu Taverla il Nardi
chiamata nel Prologo fabula nuova, c primo frutto di Ytvovo autore in Idioma
Tofco, decife francamente > effcr la piti antica, e la prima di tutte le
Commedie, che fi vedeffe feruta in 1/crf, Italiane: aggiungendo, che dalle
quattro stante ftampate in fine di efla Commedia ( 172), appar chiaro efier
efifa finta compo L 2 fila * I. " L - - u j, j Il Crefcimbejoi nella [che
egli verarnente prete yno Star, della l^olg. Poef. dell’ edi- 1 sbaglio, perchè
il Varchi dille zione di Venezia* tom. r. lib. folamcnre, che il Nardi usi in
lib. J. a car. 1 1 V parlando del ! una fua commedia i verfi fciolti. verfo
fciolto j dice, cheiIVar| A car. 4J5. e fcg. chi, lafciando indubbio, fe il J
Quelle Stanze fono le Tris e dì guerre accefe in Tofcana, e per tutta l' Italia
: il che (dice egli) pienamente corriffondt all' annoi 494. in congiuntura del.
la venuta del Re Carlo Vili, in Italia-, e della cacciata de' Medici da Firenze
. Ma quanto egli favellale a capriccio? ognuno-, che fiore abbia di letteraria
erudizione, può agevolmente chiarirfene. Conciolfiacofachè quantunque Da quel-,
da cui ogni falute pende Letitia et paco: a cui fittoil tuo fogno Si pofa : et
lieto ogni tuo bene attende: j Et ceffi il Martial furore et /degno: Cbe fa
tremare H Mondo: Italia incende, Chel clanger delle tube, et il fuon dettarmi
Non laffa modulare i dolci carmi. Ma quello Dio, che olii alti in- gegni
afiira: Et ogni opera dif prezza abie- tta dr vile: Tanto- favor benigno oggi
ne fint- eti pur la fronte extollt il ficco umile. Ma fi lodore antiquo non re-
fi™ Stufate lo idioma : et baffo fHle. Et fcujt il tempo Ihuom fag. gio et
difereto Che molto importa il tempo fri fio 0 lieto . ]_ Quando farà che in
porto al | ficco lido Salva (Fiorenza mia ) tua barca vegna Secura in tulio
homai dal mare infido: T efio : Se il Sacro -Apollo il ver minfegna Segua pure
il Nvcchkr ac- corto et fido : Et viva, et regni pur Chi vive et regna-,
-Allhor (fé alcun difir dal Citi' s impetra) Diro le laude tua con altra Cetra
. -Allhor mutato il Cielo in altro afielìo Renoverà nel Mondo il Secol dauro-.-
si libar farai degni virtù re- cepto : Cipta felice: et di mirto, et di Lauro
Coronerai chi honore ha per obietto. Et nota ti farai dallo Indo al Mauro. Ma
hor eh' il ferro et il fico it Mondo a in preda Convita eh' a Marte ancor
Minerva ceda 8$ tunque di ciò, che il Nardi dice in principio delle fud dette
Stanze, (cioè che elle fi cantarono falla lira davanti alla Signoria» Quando fi
recitò la predetta Conr media) racC ogli e r fi poflìi e (Ter efsa fiata
rapprefen- tata in tempo che Firenze non avea cefsato ancora d efsere
Repubblica ; nientedimanco nè da quefte parole > nè dalle stanze fiefse può
dedurli che il tempo della recita d’efsa Commedia cor . rifa onde Piènamente .
in congiuntura de- gli avvenimenti fuddetti. E fe egli in dette stanze fe
menzione di guerre moleftillime a tutto il Mondo, non che all'Italia, non ne
fpecifica pe- rò il tempo j anzi le accenna in maniera che fi potrebbe più
verifimilmente conghietturare aver egli voluto in efse indicare le guerre in
cui dall’ armi ddl’Imperator Car- f lo V. Roma fu prefa, e Taccheggiata, il
Papa (che era Clemente Vii. di cafa Medici) fatto pri- v gione, l’Italia molto
travagliata, e tutto il Mondo, dirò così, afflitto da gravilfime turbolenze.
Oltreché non è probabile, che la signoria in tem- po di guerre e di turbolenze
inteftine fi fofse data bel tempo, e fe la fofse pafsata (comefuoi dirli) in
allegrie, e in divertimenti di Gomme die. Laonde con migliore probabilità fi può
dire, che la Commedia del Nardi fofse rapprefentata nell’anno 1530. giacché in
queft'anno e Clemente, Vii. ritornò a Roma dopo la pace fatta col fud. detto
detto Imperatore, e dopo averlo anche folenne-^ mente coronato nella Città di
Bologna; c Aleflan- dro de Medici fu fatto Duca di Firenze dal mede- fimo
Imperatore; fotto il Dominio del quale la Città non lafciò in certo modo
d’eflere tuttavia Re- pubblica. E verifimilmente un de’ due accennar volle il
Nardi nella voce Nocchiero, ufata nel quinto verfo della terza ftanza, e ad uno
de’ due pari* mente, o fors’ancbc a tutti e due pregò egli PitA t Rtgn? nel
fedo verfo della ftanza medeilma r E viva > et regni pur Chi vive et regna.
Se poi egli chia- mo la Commedia fabula nuova i e primo frutto di nuovo uè ut
or e in idioma t ofeo, volle con ciò indicare la novità dell’Argomento, ma non
mai la novità del verfo, come pretefe di farci credere il Fontani- ni nel
citato luogo : c perciò fu giuftamente cen- furato dal Dottore Giovannandrea
Barotti nella fila JOifefa delti Scrittori Ferrar e fi A quel che fi è detto fi
può ancora aggiungere * che non fi troverà certamente, che lo Zucchetta, per
cui fi crede, che fofle anche fiata fatta la pri- ma edizione della predetta
Commedia * libro al- cuno ftampato abbia avanti! 1517.» 0 al più al più avanti
> quando il Trissino avea già com- Parte feconda A car.n j. I tutori / opra
P Eloquenza Italia- Queft’ Opera del Sig. Bacotei faina del F anfanivi,
Roveredo[ ma Campata tra gli Ejfami di Tarj veramente Venezia) comporta là fua
sofonhba. Ma per- chè più chiaro appaia l’errore del Fontanini ? e del Guidetti
altresì nella fua relazione al Var- chi, e come a torto vuol toglierli al Tr
issino da alcuni moderni la gloria della invenzione dei Verfi fcioltij vogliamo
qui riferire ciò ? che al medefimo noftro Autore dille Palla Rucellai nella
lettera ? colla quale gl’ intitolò il Poema delle Api di Giovanni Rucellai ?
Ilio fratello? che che è fegnata di Firenze Voi fofte il Primo (gli dille) che
quejio modo di fcrivere in •verfi materni liberi dalle rime ponefte in luce, il
q»al modo fa Voi da mio fratello in Rojmunda primieramente, e poi nell' ji- pi
» 0 nell' Orefie abbracciato, ed ufato: e apprellò chia- mò f Opere dello
fteflo fuo fratello Primi frutti della Invenzione del Trissino. Per le quali
cofe tutte forza è, che conchiudiamo? che a gran ra- gione non pure dagli
antidetti Scrittori? ma dal Tuano e da altri ( ìycr ) fu il noftro Au- tore .
Veggafi la foprallega- ! FHJlor. &c. Toni. 1. lib, ta lettera di Giovanni
Rucellai vi. Ann. 1550. pag. 200. lctt. ai Trissino fegnata di Fi - \ D.„ Jo: G
e or g i U s Tbis> terboaddt 8. di Novembre mdsv. j », sihi's .... Primus
genu$ stampata nella Prefaz. alle Ope-',> canninis foluti foelicitcr ufur-
re dello fteflo Trissino a car. ‘ „ pavit, cum a temporibus Fr. xv.} e a car.
xvm. v’ha una „ pcirarchae Itali Kythniis ute- Lettera della Marchcfa
Ifabclla,, rcntur. di Mantova al nollro Autore; ( 176 ) Filippo Pigafctta, Vi-
de* di 24. di Maggio 1514. in ccntino, nel Difccrfo mandata cui gli dice, che
avea ricevutola Celio Malafpina in materia una fua Lettera, Ferfi, et Ope- ‘
dei due Titoli del Poema di retta, la quale fi può crede- Torquato Tallo,
premeflò al re, folTc la Sofonìsba, Poema fteflo delia edizione di Fette-
Digitized by Googl SS •' La Vita torc chiamato Primo inventore di qucfti verfi.
Ma per tornare alle opinioni degli Scrittori fopra la Tragedia del Tassino» non
fu ella efen- te da’fuoi critici, rare eflfendo quell’ Opere, in cui non fia
ftato notato qualche difetto. Il Var- chi nel citato luogo volendo darne giu-
dizio, la oenfurò fpezialmente per la locuzione, dicendo COSÌ: Io per me quanto
alla favola, e ancora in molte cofe dell'arte non faperrei fe non lodarla -, ma
in molte al* tre parti, e fpezialmente d’ intorno alla locuzione non faperrei,
volendola lodare, da qual parte incominciar mi dovejfi . E nell* JErcolano
diflfc: La La Sofonijba del Tr isslno, c la Rofmunda di mefier Giovanni
Rucellai, le quali fono loda tijftme, mi piacciono sì, ma non pia quanto a
molti altri. 17 al C k Venezia per Francefco de' Fran- j che come fi avea d
aver grazia, cefchi. in 4., dice, che \\\al Tr 1 s j i N o, c'havejfe dati
Tr1ss1no fu il Primiero; que verfi ( fciolti ) alla Scena, che in italiano
abbia ofato, e | così cc. Finalmente il Giti di faputo ..., camminare per fen -
1 medefimo in una delle fueLettiero erto, non più calcato da terc.tra quelle di
Bernardo l af' vernn altro dal tempo antico in fo. In / 'a dova ., apprefi quà,
faivendo in Verso dal- fo il Cornino-, in 8.; toni. a. a la rima Sciolto, con
avvefttu- | car. 198. apertamente chiamo 1 rato ardimento, la Sofor.isba Tra -
ITr.ssino Inventore di tali tedia ce.. HGiraldi poi ne* Di fi ! verfi : la qual
cofa fu olTervata cor fi cc. a car. 92. favellando dei anche dal predetto Sig.
Co: MazVerft Sciolti, chiama il noftro ! zuchelli, a car. 47. annotaz. Gì
ovangiorgio loro in- j 1 22. della fuddetta l'ita di Luiventore-, e approdo
dice qucdc' gi Alamanni, parole: Veramente mi pare, che | Lezjzioni ec. a car.
68 r,. Monfignor il Bembo, giudiciofo A car. 393. e 394 del Scrittore ..... il
vero dice fio, | la ciraw edizione di Padove quando a Bologna mi diffe, che I 7
-H -,n X» "E L T RI S S,I N O. Giraldi poi fu appuntato il nollro Autore;
per eflcrfi in quella Tragedia più dato (come £ dlfle) a fcrivtre i co fimi, e-
le m Anitre de i Greci, che nonfi conveniva ad uomo, che firiveffe cofa Romano,
nella quale tn. traffe la maejlà. delle perfine, ch'entra nella Sofinisba, Alla
quale obbiezione veramente potrebbe nlpondcrfi colle parole del fuddetto Signor
Marchefe Maffei (180), cioè che certe azioni, 0 detti, che ci pa jonoJn Per
finali grandi aver talvolta troppo del famigliare > .non danno dif gufi 0 a.
chi . ha cognizione de' Tragici Greci, egra* ttìca de' co fi unti antichi * E
sì . parimente altri difetti furono appuntati an erta Tragedia, che per dir
breve fi ommet> tonoi ma con tutto quello farà elfa da tutti i dotti Tempre
in grandilfimo pregio tenuta: perchè quantunque lì creda lontana da quella
perfezione, a cui fi può condurre un componimento teatrale! (oltreché Tiftelfo
potrebbe forfè dirli delle Greche Tragedie ancora, come dice il predetto Signor
Marchefe egli è per altro certo, no» molte prelfo chi ben intende annoverarli
Tragedie in lingue volgari, che portano gareggiar con la Sofinuha, la quale
fola farebbe ballante a tener tempre viva gloriofamcnte M appreC f 179)
Difiorfi del Giraldi e. liane luog. cir, car. 179. in fine, e a car. Prcfaz.
alle Opere de ( lio) PreCaz. al Teatre Jta.\ Trissino a car. xxvii. Dìgitized
by Coogle 5>S 'La Vita apprcfso i letterati la memoria del Tuo AutoreA ciò
che abbiam detto fi può aggiugnere ancora il giudicio del mentovato Signor
Cavaliere Zorzi, il qual dille, che la Sofonùba ì u n Tragico Poemetto,
migliare de’greci, e /nitriere ai Latini, Italiani » e Franzefi Scrittori. LA
ITALIA liberata tia i Goti. Stampata in Roma per Valerio, e Luigi Dorici a
petizione di plutonio A/aero Vicentino con Privilegio di N. S. Papa Paulo Jll,
di altri Potentati. RarifDifcorfo fopra l’ Opere \ al Clcmentijfimo ed Invit
tijfimo del Trissino a car. 415. 11 ^Imperatore Quinto CARLO Quadrio nella
Storia e Ragione > Maffimo : e quelli primi nove d' ogni Poefia Voi. 3. libi
1. Dift. ì libri fono di carte 175 I fcI. cap. iv. Particcl 2. a car. 65. condì
nove, che contengono regimando quella Tragedia, ac- carte 181, furono Rampati
l’anCenna i difetti fuddetti in clfa no approdo nel Mcfe di Novem notati dai
predetti Varchi cGi- bre, come appare da quelle pallidi ; ma apprelTo
foggiugne, fole, che in fine fi leggono : che efla ciò non cjtantc ha fem-
Stampata In Pene zia per T 0pre avuta ejiimazJone non poca: torneo Janiculo da
Brejfa nell' annominando anche la traduzio- no MDXLV 111 . di Novembre . ne
Iranzcfc di detta Tragedia Con le grazie del Sommo Fonfatta per Claudio
Mcrmctto, c tifico, e de la JlluHriJfima Siimprcfla in Lione l’anno 1583.
gnoria di Venezia, e de lo Illu( Quello Poema fa dal Jlrìjfimo Duca di
Fiorenza, che Trissino, come è detto di ninno non la poffa riftamparc lopra,
mandato in luce in più per anni X. fot za efprejfa licen tempi. 1 primi nove
Libri » i za de l’Autore. Gli ultimi noquali hanno il titolo fuddctto,;ve
finalmente furono llampati ma co’fuoi nuovi caratteri, fu- janch* effi in
Venezia P anno rono llampati l’anno 1547. nel Hello MDXLVII . per Io Redo Mcfe
di Maggio ; attorno il qual Janicolo, ma di Ottobre (cioè titolo v’ ha eziandio
il motto un mcfe innanzi a'Scconai no. della, imprcla da lui alzata TO ve)
collo Hello privilegio. E / HTOTvevon A auto >1 i e tutti quelli XXV II.
Litui (che dopo fegue la fua Dedicatoriafono, non già. come Ov pi Rariflìma è
quefta edizione } e due fole copie n’abbiamo noi vedute in Venezia y una nella
celebre Libreria Pifani? e l’altra nella preziofa Libreria del fu Signor
Apoftolo Zeno (184) 5 apprefso cui Vera anche un efcmplare dell’ impresone
feguente. J tali a &c. riveduta e corretta per /’ Abate Antonini ec. in
Parigi nella Stamperia di Ciovanfrancefco Rteapen . Tom. 3- in 8. Fu anche
riftampata unitamente colle altre Opere del noftro Autore nell’edizione tante
volte da noi citata j (ma fenza i caratteri da efso in inventati) in Verona
preffo Jacopo PalUrfi 1729. i n e tiene il primo luogo nel tomo primo • Ma
Anche ionie diflero erroneamente il Fonranini nell’ Eloquenza italiana à car.
580. . e 1 Autor del Catalogo della Libreria Capponi a car. 377.) fono uniti in
un volume in 8. Il Cavaliere Zorzi nel fuo Dif offa intorno alle Opere del
Tkissino a car. 4 y). sbaglio prefe in dicendo, che i primi libri furono
ìmprtfft in Roma, e gli airi IX. in Venezia . Dal Signor Apoftolo Zeno fu la
detta fua Libreria donata con teftamento a P. P. Domenicani della flrctta
offervanz.a di Venezia nel mefe di Settembre dell’anno i7jo.» nel quale poi
addì xt. di Novembre placidamente p.ifsò di quefta vi ta. Della cui perdita li dorranno
mai Tempre i Letterati, ed tifa da noi non pure in quel tempo, in cui appunto
eravamo in Venezia, ma continuamente farà compianta. Cinqui abbiam voluto
dire., per Iafciare un pubblico arredato, della noftra gratitudine alle molte
cortcfie ufjtcci dal meiefimo. Per altro un elogio alla memoria di sì grand’
uomo col Catalogo delle fuc Opere ha pubblicato l’erudito Autore della Storia
Letteraria d'Italia (il P. Francefco Antonio Zaccaria Gcfuira ) nel Voi. 3.
lib. 3. cap. V. num. 1. c fegg. pubblicata in Venezia nella Stamperia Polttiv
1752. In 8. Anche quefto Poema fu da varj letterati ITomi-^ ni e Iodato? e
cenfurato in molte cofe. E quanto alle cenfure, il Titolo primieramente non è
affatto piaciuto ad alcuni, giudicandolo dii troppo lungo, e ravvolto,
diròcosì* dicendo, non bene diftinguerfi, fe i Goti, o pure altri da' Goti
abbiano liberata f Italia (18*) . Scipione Erriccy Poi nelle fue Rivolte di
Parnafo Criticò 1 - AtJtore noftro, che fece fare fenza necelfità veruna ai
Perfonaggi del Poema lunghi ragionari, e che introduce la gente nella Zuffa,
parlante aguifa di Dialogo, facendo che l’uno ricominci dove l’altro terminai
il che è lontano affatto dal verifimile j concioffiacofachè nelle guerre non
s’odano che poche voci, e folamente fi fenta, il fragore delTarmi : e in altro
luogo ky criticò, perchè troppo alto cominciamento die. de alla guerra i
dicendo, che meglio avrebbe fatto', fe avefse porto Belifario o dentro a Roma,
o per lo meno in Italia v e tacciando in oltre gli amori di Giuftiniano di
troppo goffi c lafcivi, c d’indegni del fuggetto, a cui furonoappropriati
(188): delle quali cenfure dell’Erri- CO fi Veggafi Udcno Nificli tic'
Proginnafmi ec. Rivolte di Parnafo di Scipione Errico . In Me finn per gli
Eredi di Pietro Urea 164.1. in iz. acar. 63. Rivolte di Pam a fe a car. 64.
Rivolte ec. a car. . pj to fi dolfe poi non poco Gafpare Trillino colla Lettera
a lui indiritta ? la quale fi legge nelfè efse Rivolte di Pimi/,, (i8p). Attché
il Fontanirri nella Eloquenza Italiana ( jpo ) notò qnefto fallo commefso d’O.,
foggiugnendo, che egli Poi ravvedutoli, ne fece l’ammenda, riftampando le
carte, e mutando i verfi già fcritti (ip r ; s pafiando appreffo a riprendere
chi riftampò le Opere di lui, perchè avendo tralafciata l’ortografia dal Tri ss
ino fieflb inventata, v’ avelie poi inferite le cofe ** M medefmo
volontariamente ritrai utt (ipi). Da S * ÌV r ° lte J C - * car - «o-. | eolie
parole, e le parole io' ben(iyo) A cai. 581. 1 fieri: le quali fofto perciò fem
so^Aelìa Ubr^'r ^ C * ! * lo \t lici e P«re, e di quando in quan. go della
Libreria Capponi a car. | do con virgìnal modeffia trasfe &Y.T„“fT
''jT'I’t'v" 4 CanonTo G fZt d I Rissino, die*; nelle An- : ni Checozzi
nella fùa dotta Ltt TZntL C alcll q0Cl1 ’ \ *»* di,enfiva ’ «tata al di fopra
An!dli r q '"'"^ont all 1 annotazione 101., dice che {jù 1 ; isst {
;j:zz:iu f :rr ir ™ s ìz o ìvT cho t bcmì ! 2 *’ 119 J. \ io ’ »,iche >
àoveglifcherzi qualche e 1 31., che fi e tentato di leva - 1 volta p affano
aver Inaio ma UaVitìc *‘ r l ÌC l n ? }{ molto pia nelle ferie, et ed oraMa
Vincenzio Gravina nella fua tcrie. * Opera intitolata Della Ragion Poetica
libri due cc. Jn Venezia frejfo singioio Geremia 1731. in 4. lib. a. a car.
106. non dubitò di lafciarc fcrirtó non foiamen- Le parole delFontanini nel
luogo citato fono quelle z Reca gran maraviglia (dic’egli j che ojjendendofi la
memoria, e riputazione dd Tritino nel ri fi n 1. ^ te chela Qifd. -r
riputazione del J njf.no nel ri te che lojhle del Tassino \fiamparfi le fue
Opere ( non pe e caffo e frugale; ma ancora che] ri con l'ortografìa da lui fi
tifo tatti ifitoi penfien fon mi furati j inventata ) fiafi voluto in onta fua
» .Vita' Da Gio: Mario Crefcimbeni nella Stiletta dilla Fdgar Totfm { ipj), fu
il Tr issino cenfurato di troppo efatto nella deferizione delle parti,• e
particolarmente del veftire dell’Imperatore Giuftiniano; concioflìacofachè gli
abbia fatto metter prima la camicia, e poi 1* altre robe di mano in mano fino
alli calzari; foggiungendo, che l’efempio d’Omero inventore di cotali foverchio
diligenti narrazioni, non lo dee in ciò feufare. In fatti l’avere Giovangiorgio
troppo efattamente imitato quello Greco Poeta, fu la cofa principaliflìma, che.
gli ha nociuto. Di che eziandio Giovambatiila Giraldi ? Cintio, Ferrarefe, appuntollo,
dicendo (194)5 che £ energia non iftà ì come il noftro Autore fi credette, nel
minutamente feri, vere ogni copicela, qualunque volta il Poeta fcrive
eroicamente; ma nel fla, e non fenza contumelia della Chrefa Romana fargli l'
oltraggio di preferire alia giufta fua correzione le cofe, volontariamente da
lui meclefimo ritrattate, cantra le quali da onorato gentiluomo-, e da buon
Crifiiano altamente fi fdcg -crebbe, Je foffe in vita. Con quelle parole
accennò il Fontanini la rillaihpa» che delle Opere del T n i s‘s i n o fi fece
in Verona ; del che il Marchefc Maffci fe ne rifenri nell’ E fame fopraccirato,
a car. 73., dove dice, che il detto Boema fi è ristampato a Verona | fecondo /’
impresone con Privilegio di Papa Paolo Terzo ufiiI ta . lo certamente non ho
vo; Juro darmi la briga di confrontare la primiera edizione ; colla riftampa'
del Poema fieffo, per chiarirmi» fe vere ricino quelle mutazioni predicate dal
Fontanini . Bellezza della Volgar ' Poefia di Gio: Mario Crtfcimj beni ; In
Venezia, preffo Loren\zo Bafeggio, in 4. Dialog. Vili, a car. 157. Ne’ Di f cor
fi ec . a car. 6 a. ma nelle cofe, che fono degne della grandezza della
materia* if'ha il. Poeta per le mani: e prima ( 195 ) dille quelle parole: Come
l'età di Omero e i collumi di que' tempi, e le fingo lari virtù, che fi trovano
in queflo divino Poeta, fecero toler abili quelle- cof e in lui', così l'averle
il Trijsino in ciò imitato ne/r Italia, .altro non fece, che ffiegliere
dall'oro del componimento di quel poeta lo fi creo, (il quale non per fuo
vizio, ma dell età ci fi trapofe ),.e imitare i viz,j, ( parendogli di avere
affai fatto, fe bene gli efprimeva ), e accogliere tutto quello, che i buoni
giudicii vollero trai affiate, moftrandofi in ciò foco grave. Oltreciò lo Hello
Giraldi (i 96 ) notò in quello Poema, vìziofe eflere le invocazioni; e la
favola di Farlo e di Lìgridonia elTervi introdotta, e fuori dì ogni bifogno, e
fuori d'ogni dependenza ; aggiungendo, quell’allegoria efler tolta da altri, e
in parte dall' Ar lofio nella favola et Ale in a, e di Logifiill * * C
finalmente in una. Lettera a Bernardo Tallo (198) dille, chele il Tr ISSINO
fiecome era dottiamo, così foffe fiato giudiciofo in eleggere cofa degna delle
fatica di venti anni, avrebbe veduto, che così fcrivere, com'egli ha fatto, era
uno fcrivere Smorti ] inferir volendole il Poema non era letto. Ma chi dogni
appuntatura de'Critici a quello Poema parlar volette, llucchevole forfè e
nojofo riufeirebbe ; elfendo già flato fatto queflo dal Difcorfi ec. a car. 33
.[quelle d’effo Taffo, ( Voi. a. t 9f> \ ^r 0T r cc ‘ 3 car ' 49 - a Car.
196. e fegg. ) (lampare — l J cor fi cc e fopra i Poemi di alcuni più chiari
Epici non dubitò d’, innalzarlo. Nè minor conto ne fece Benedetto Varchi,
poiché in una deile fue Leeoni (20 6) dille, che 1 Italia Liberata da Goti fe
bene era lodata da pochijfimi meno che mezzanamente, e da molti in finii amen.
t e biafimata,.e quafi derifa, pareva a fe nondimeno, che -Quanto a quello, che
è prof rio del poeta, ella mcrìtdffc tanta lode, anzi tanta ammirazione, quanta
altra potft*, che JSj fia dogo fico, ed a teffer lavoro Somigliante a quei di
Virgilio, a d' Omero, e di quejlo fpezialmente eh' egli prefe a imitar del
tutto. Lettere, Voi. 2. acar. 416. Il T rissino > la cui dottrina nella
noftra età fu degna di maraviglia, il cui Poema non farà alcun» addito di
negare che non fia dijpojlo fecondo i Canoni delle leggi d' lArift utile, e con
la intera imitazione d' Omero, che non fia fieno d erudizione atto a infegnar
di molte belle cofe ec. 11 O. medefimo nel 1. libro di quefto fuo Poema, a
car.22.dcll’cdizione di Roma così dice ; „ Ma voi beate Vergini, che „ fofte „
Nutrici, e figlie del divi - 1 a> no Homcro, [ „ Ch’i ammiro tanto, e vo
feguendo Torme „ Al me’, ch’io fo, de i fui „ veftigi eterni; Reggete il
faticofo mio viaggio: „ Ch’ io mi fon pofto per „ novella ftrada, „ Non più
calcata da terrc.^nc piante . E in quefti ultimi verfi potrebbe crederfi, che
avefle egli voluto indicare non pure d’eflere flato il primo a comporre Poemi a
imitazione d’Omero, ma d’effere anche flato il primo inventore del verfo
fciolto » in cui il Poema è dettato. Lib. 2. acar. ioj. I Lezzioni di M.
Bcnedetto Varchi a car. f‘* dopo Omero fiata firitta, e dopo Virgilio:
foggiungcnclo appreflo, che deve molti fi ridono del T n. i ss i n ® > che
confi fio d'aver penato XX. anni a comporla » a luì pareva, che ciò a gerle
giudizio porre, e attribuire fi gli doVcHè > Finalmente ( a tralafciare il
fentimento di altri Scrittori circa quello Poema, e fpecialmente del Tommafini,
e dell’Imperiali Salvini, che fu uno de’ più begli ornamenti, che abbia avuto
in quelli ultimi tempi la Città di Firenze, così fcrille (2op) in torno al
Poema Hello, e al fuo Autore: 11 nofiro leggiadrijfimo Rutilai tefii in verfi
fiiolti il fuo poemetto dell' Api dedicandolo al Trissino, che nello fiejfo
tempo dello Alamanni » che la celebratifiima f u a Coltivazione mife in verfi
fiiolti > compofe alla gran guifa Omerica I'Itau a Liberata dai Goti, il
qual Poema fu tanto da un drappello diPaftori Arcadi confidar ato ripieno di
bellezza, e virtù poetiche, che ave ano a varj /oggetti dato un Canto per uno,
per metterlo in ottava rima, per farlo più leggibile con quefio lenocinlo alle
fihiz,. zìnafiy per dir, coti, orecchia Italiane ( 2 to) • ed in Un e nel primo
tomo delle fue opere della riftampa di Verona j e con altre fue poefie nella
prima Parte della Scelta di Sonetti e Canzoni de' pi* eccellenti Rimatori
d'ogni fecolo (alj). . RI Jm ^214) Mi pare, che qui da tralafciar non fia il
Sonetto da Benedetto Varchi mandato al noftro Giovangiorgio j giacché con dio
non pare lui lodò, ma avendo forfè la mira alle altrui critiche fopra il di lui
Poema, inanimillo a?profeguire gl’incominciati fuoi Audi . 11 Sonetto è
qticfio, e fi è traforino dal libro intitolato: J Sonetti di M. Benedetto
Varchi, ec. In Venezia per Plinio Pietra Santa, 155-5. in S.acar. O. altero,
che con chiari inchiojtri T e ’nvoli a morte, e 7 foco l noftro bonari,
Rendendo Italia a' fuoi pajfati honori. Di man de' fin crucici barbari moftri
Tu con nuovo cantar l'antico' moftri Sentier di gire al Cielo, e tra'migliori
Le tempie ornarfi dì honorat i allori Pi* cari a cor non vii, ohe gemme et
oftri. Per te l' Adria, la Brenta, e ’t Bacchillone Al dolce fuori de tuoi
graditi accenti Vanno al par di Pento, del T tbro, e d'Arno . Deh, fe 'i gran
nome tuo ftntpre alto fuone, £ faccia ogni gentil pallido 1 e fcarno, Tuo corfo
l'altrui dir nulla rallenti. Scelta di Sonetti e Canzoni de’piìt eccellenti
Rimatori dì ogni Secolo ec. DEL TRI'SsrN'O- roi XV. RIME. In Vicenza per
Tolomeo laniccio. Diccfi j che l’anno medefimo fofler ivi riftampatc per lo
Hello janicoia in 8>; ma quella edizionoi non l’abbiamo veduta. Furono bensì
riftampate 1» Verona coll’ altre lue Opere. Il Tris si no dedicò quelle Rime al
Cardinale Niccolò Ridolfi, Velcovo di Vicenza in quel tempo ( non a Leone X.,
come fcrifle erro* nearnente il Signor Canonico Conte Giovambatifta Cafottì,
che fu perciò ne[ Giornale de' letterati £ Italia, modcllarrrente corretto) e
nella Dedicatoria, la quale non ha daLa, egli dice, che gli mandava w'ft* Tuoi
giovanili componimenti per ubbidire alle fue molte infianze . Di quelle Urne,
non meno che del loro Autore, favellò con molta lode il Quadrio nella più volte
citata Opera fua della Storia e Ragione di ogni Ree* : c Federigo Menini lafciò
fcritto et* fere W4, che contiene i Rimatori an- Tom. prim.acar.349i fichi del
1400. e del 1500. fino j Nella Prefazione. In Venezia r Vrofe e Rime de'due
Buonaccorpreffo Lorenzo Rafcggio . in 12. 1 fi « Rampate In Firenze nella Voi.
iv. La Canzone è a car. ! Stamperia di Giufeppe A/anni 303. del Vol.i.e di efla
se fatta 1 . menzione al di fopra all’annot. ! Tom. xxxvl. Arde* 56. Olitila
Scelta, che era fiata ix. a car. 224. in 12. prima in Bologna Rampata, fu poi j
Voi. 2. lib. I. Difi» riprodotta in Venezia inpiùVo-’i. Cnp. 8. Parriccl» s. a
car» lumi. IOÌ L A V i f A fere i Sonetti del" noftro Autore e buri,
fentenzàoft, e' patetici Sette Tuoi sonetti, i quali mancano nelle fuddette
Rime, furono ftampati nella già citata Raccolta delle Rime di diverfi nobili
PeetiTofeani fatta dall* Atanagi: il primo de’quali fu da Giovan* Giorgio
indirizzato al Pontefice Paolo Terzo > e l’abbiamo accennato altrove; il
fecondo a Ottavio Farnefe, allora Duca di Camerino} e poi di Parma c Piacenza*
il terzo a Margherita dAuftria* il quarto al Cardinal Farnefe foprammentovato;
il quinto a Girolamo Verità, gentiluomo Veronefej il fefto a Paolo Giovio»
Vefcovo di Nocera, e Storico di chiaro nome» il fettimo finalmente è il
fopraferitto, da eflo fatto poiché terminato ebbe il fuo Poema dell 5 Italia
Liberata da Goti. Ancora Un fuO Sonetto, fcrittO al Cardinal Pietro Bembo
(224;, fi legge tra le Rime di quefto Autore il quale un altro Sonetto Nel
Ritratto del So- j cenza fua Patria. Sono chiarii netto 1 e della Canzone In
Vene- \ fent trizio ft, e patetici, zia apprejfo il Bertoni > 1678.' A car.
8?. a tergo, e in il., a car. io?. Ecco le fuc, feguemi. parole Giovan -
Giorgio! V* fopra et car. 55. al. T rissino, nobile Vicentino, l annotazione 1
07. oltre alla Tragedia delta Soft- j V. ivi. nisba e oltre all'Italia' Quefto
Sonetto C0 Liberata, Poema Eroico, che \ inincia : fu il primo ad ejfer dettato
fe- j Bembo, voi ftet e a qne bei condo It regole d'^driftotele, e ftadj
intento . fatto ad, eferr.pio di Omero 1 fe J Rime di M. Pietro molti Sonetti
ftampati in Vi- Bembo: In Bergamo appretto Pietro DEL, TRI5SIN Q. j ^ .Sonato
nelle medefime definenze gli mandò in rilpofta. Altre lue Rime poi dono fparfe
nelle Raccolte del Varchi» del Rufcelli, e d’ altri: ma dal Signor Marchefe
Maffei tutte adunate furono, e poi fatte Rampare in un colle altre di lui
opere, colla giunta ancora di altre poefie del mcdefimo (ma non di tutte), non
prima date in luce, e di alcuni Sonetti da altri Poeti a lui fc ritti. Ma perchè
alcune poefie, che fono tra quelle del noftro Autore, veggonfi altresì tra le
rime o de Buonaccorfi, o di qualche altro Poetai però egli è ragione, che
diciamo intorno a ciò qualche cofa, avendone già diffufamente parlato altri
Scrittori, e fpezialmente il Cavaliere Zorzi. Tra le Rime adunque de’
Buonaccorfi Ieggonfi quattro Sonetti interi, e cinque foli verfi di un altro
Sonetto (11 fuddetto Signor w tro Lanccllom 174 J. > in 8 . a car. Quello
Sonetto comineia: Così mi rentU il cor page, e contente . e fi legge in dette
Rime a car. 94 -Tom. l. a car.Difcorfo /opra l Opere'. del T r 1 $ $ t n o, a
car. 404. e ! feguenti 11 -primo ^i queftiSonerti, che a car. 1. delle Rime del
noftro Autore fi legge; ed a càr. 2 96. di quelle dc'JBuonac. 1 corfi, della
mentovata edizione di Firenze 1718. in 12., comincia coste La bella donna, che
in virtù d" Amore . il fecondo che principia: Li occhi foavi, al cui
governo Amore ; nelle Rime de’ Buonaccorfi c a car. La vita Signor Conte
Cafotti incaricando (2jo) modefìamente il noftro Trissino, favoreggia i due
Poeti: e nel domale de' letterati tf /taiu fi accenna folamente, ma non fi
feioglie cotal viluppo » Il Cavaliere Zorzi dice, che perciò fare converrebbe
andare a Firenze, ed ofservare fc Antico, o no, fia il carattere, onde fono
fcritte le poefie de’ poeti fuddetti •, concioffiacofachè pofsaefsere, che
da'copifti, (le copie fono)> o come a car. ., cd in quelle del ine allenirne
de’ Buonaccorfi a Trissino a car. 4. Il terzo, car. lvi. che ha quello
principio: j Tom. xxxvr. Artic. Qando 'l piacer, che’l defia to bene; \ b o>
he 1 Sonetti^/ I ; non fieno del piovane Buonaccor-,è a car. 4. a tergo delle
Rime fi, offendo firitti a Palla di del noftro Autore, cd a car. Noffcri
Strozza, ea'fioi figliuoli quelle de’ Buonaccorfi . 11 li > tutti fuoi coni
empcr enei - I quarto finalmente, clic fi leg- '.y chc| DelLi edizione di Veti
legge tra quelli di qucfto \nez.ia 1546. in 8. a car. 7..; la Autore
dell’edizione di Firenze * qual Canzone, che nelle Rime e comincia: (del Trissino
è a car.' 5. Quanto più mi dijlrugge il ( principia. mio pen fiero-, . Amor, da
eh' e' ti piace nelle Rime del Trissino cl -Chela mia lingua parli-, cc a car,
. j IOJ La Vita con vcrfi di Tette, e di undici fillabe, tutti Tciolti, e
ufolla in una Cantone indiritta al Cardinal Ridolfi : il qual modo ftravagante
e fconfigliata cofa parve al Crelcimbeni (i* ma, come dille Maffei Tu bizzarria
d’un iblo componimento. I Simulimi (Commedia in verfo fcioito) In P rnezja per
Tolomeo J unitola da Breffa. Quella Commedia ( dì cui non Tappiamo eflerci
altra riilampa, Tuorchè quella Tatta in Perona unitamente coll' altre Tue
Opere) Tu da lui compoftaa imitazione dei Mtnemmì di Plauto, aggiungendovi il
coro-, e varie coTe mutando-, Teguitando in effe altresì le tracce degli
Antichi, ed accoftandofi Tpezialmente ad Arifto/ane . Nella Dedicatoria al
Cardinal Farnefe dice, che avendo in quefia lingua Italiana compoJ} 0 e l 4
Tragedia, e lo Eroicoy gli ' t* rut ° oU tra futili di abbracciare ancora
qaefb' altra farle di $“fia, cioè la Com . Quella Canzone end nd primo tomo
ddla riftampa di Verona,. a car. 371. cola.., c comincia; Paghi, fu feriti, *
venerandi Colli i cc. ( ma non Tragedia, fi il TafTo, che non compofe Commedia,
fua non eflendo quella, che fu imprefla col nome di lui (23P). A che volendo
noi alludere abbiamo fatto di quattro differenti poetiche corone adornare il
Ritratto del noflro Autore, che in fronte di quella Vita fi vede. Nella Prcfaz.
alla ri- | Rampa di Verona a car. Xxv. Tra’ lodatori della commedia del nostro
autore, j uno fi fu il P. Rugcri, cosi parlandone nella citata Declamazione a
car. xxiiù,1 Hic fior Georgivs) anti„ quorum poetarum, qui Co— n mie® Poefis
lauream adepti,! » Slori® termino* pofteris cir. j cumfcripfifle videbamur,
Rre-,» nui adeò coocertationc ingej„ nii adarquavir, eruditiflìmo !» PoCmatc,
metro jfcripto quod Sim itL r mos infcripfit ut quonefeumque >» Comicum
illuci Carmen le- ftionc parcarro, ipfa fe mihi » antiqure Poefis facies
verert-,, do, gravique afpc&u referar,» contemplanda. Egloga fafitrAie (in
verfo Italiano) nella quale Tìrfe pallore invitato da Bauo capraro» piange la
Morte di cefAre Trivuiào fotto nome di DAfm bifolco. Quello componimento fu
inferito coll’ altre fue ogere nella riftartipa di Verona Altra Egloga (parimente
in verlo Italiano), in cui parla Batto Capraro folo. E quella altresì fu
llampata coll’ altre fue Opere Pharmaceutria U4* )• De mtTU Anche quella
Compofizione, che è di clxxvil. verlì Latini, fu unita alle altre fue Opere
nella riftampa di Verona (244): e perchè nel Codice v’era Tom. I. a car.
\ffripfft, quifquis ille fiat, qm Tom. I. a car 375. \titulum aididit, non
ertim ei,m À Gli eruditici ini Signo- arbitror effe a manu Io. Gìor rì Volpi di
Padova, i quali fic- gii Trissini, quei» come aveano ideata Una edizio- ÌGracas
litteras egregie caUuìJne delle Opere del Th iss l»o|/f. apud The ocn ( comc è
detto nella Prefazione) J tum che ineptì hanc E- Fracaftoro. tlogam PiiAUM
aceutri am in- (T Tom. U a car. IOS V’ erano alcuni vani? perciò dal foprammentovato
Gafpare Tri ss ino eruditamente furono empiuti > e quivi fi veggono
contraflegnati con carattere diverfo. Encomium MAximUiàni ctfarit . Sta quefto
altresì coll’altre fue Opere della detta riftampa. Due Epigrammi latini. 11
primo di quelli Epigrammi (i quali furono dati a luce parimente in detta
riftampa (245); fu fatto dal Trissino in morte di Pulifena Attenda, Celcnate,
piagnendo egli in perfona del Marito* Quefto fu tratto da un libretto ftampaco
in Venezia» in cui fi legge anche un’Orazione di Jovita Rapicioj da Rrefcia,
detta in Vicenza in morte della ftefla. L’altro Epìgramm* è quello, che s’è
riferito al di fopra, fatto da lui prima della ultima fua partita dalla Patria.
Tom. 1 . a car. più nella Seconda Parte, a car. Qucùo Encomio è di CHI. Vcrfi
63.efeg.91.eieg. 192. c fcg. dello eroici latini, e comincia Cosi. Specimen
Paria Ut ceratura, &c. Heor.rn Jì fatta mihi, laudcfvo Btixia 173 9. 4.
pubblicato dal -Dei-rum non meno per dignità, che per Quandoq; ut ctlebrem
permit - virtù inorali, cd intellettuali tii carmini Phàebe, Eminentiffimo
Cardinal Qui. En tempus, ncque fallar, a- fini : e nella Libreria Ere defi}
&c. feiana di Lion ardo C o^z^ando, Tom. 1. a car. 398. \in Brefciu\ 6 vq.
per Gio: Maria Di Jovità Rapicio ' Rizxxrdi in S. a car.. ove fi trova latta
menzione neli, £’r-|è chiamato Raviz.zat, c fr dice, colano del Varchi a car o
che fu lcctore di umanità in Vili ella Scan zia xx 1 1. della Biblio- j ccnza .
tcca Polamcz car.120.121. mal all’ annotazione m. Digitized by Google tio L a
Vita Alcune poetiche Latine Compofizioni del Tr issi no non inferite nella
fuddetta riftampa di Verona, furono ftampate nella Scambia XXIL della
Biblioteca Volante- di Giovanni Cinelli ( MW • Quelle fono primieramente due
ode; dopo cuifeguitano due evitati in morte dì Vincenzio Magre, fuo caro amico
j e appreflfo feguita un epigramma ad fonticuium /: e finalmente una
Compofizione intitolata leges conviva les . L’Autore di efia scam.i a nel luogo
citato dice» che quefie Poefie ad intelligenti, che le hanno vedute, fembrano
cofe fatte dal TnissiNO ne'fuoi pii* giovanili anni: ag>» giungendo, che il
il Codice, onde le trajfe, benché fia ferie to net 1500;, mofira che già
inclinava al fine il fecole, ed in confcgutnz.a molto tempo dopo l A di lui
morte. DÌCC 1U oltre, che U Copifia era poco intendenti del Latine -, per. che
vi fi trovano > alcuni errori, che mai fi poffono ’ attribuire a n illufire
Autore. xxxrn.' A car. c 81. E‘ mentovata da noi all’ annotazione in. { ajo) La
prima di quelle Ode comincia: Du&urus aurum nobile per Mare Carafve gemmai
n avita fluttibus Non ante fe cautus mari . nis Crederet, et rapidi s procella
8 cc. L'altra' ha quello principio: Pulcher o Sol, qui nitido s dies &'
Das, et idem fubtrahis, a eque ter rie Humidam noSlem *. et placidam quietone
Riddi: avarie Sic. Quello Epigramma è diverfo da un altro dal noftro i Aurore
Grecamente compollo fopra il mcdcGmo fuo Fonticello di Cricoli, il quale di
fotto regiftriamo tra le fuePoefie non ancora date a luce 1 VOLGARIZZAMENTO .dì
alcune Ode MQrazio* Quelle noi non le vedemmo» ma follmente ci atteniamo
.all’autorità del Fontanini {252), e del •Quadrio )1 il primo de'quali dopo
avere regiftrato un libro intitolato: Odi diverfe d' Orario volganzjzate da
Memi nobilitimi ingegni, e raccolte per Giovanni Nar ducei da Perugia : fy
Venezia, per Girolamo Polo. in 40 foggiugne fubito come fegue. Q*tJH vdga fi
datori fora XIJ. ai le f andrò Cofanzo, Annibal Caro Cosimo Mortili, Curzio
Gonzaga, Domenico Venitro, Francefco Veranda, Francefeo Crìftiani, GiovangIOr
cio Tri «ino, Giulio Cavalcanti,, Marcantonio T ile fio. Sir . Jorio ELOQUENZA
ITALIANA, a alleai»»? di luì ftampate in 5er‘ Car falla fola autorità del gemo
per Pietro Dance dotti I7JX quale viene riferito quello libro in 8. a car.
xxtv. tra le opere anche nella Biblioteca degliauto- del Vcniero regiftrando
anche la ri Greci e Latini volgarizzati traduzione di alcuneOde dtO«nferita nel
tomo jcxii. c fegg. hrazio da lui fatta, taluna dice, » della Raccolta
Calogeriana alla di quefte fi trova fiammata in un yoceOrazio, dovr ai
tomoxxiv. I libro, che io mai non ho potuta 3 ° 7 * f' sggiange ; libro avere,
e che ha penitelo : Odi rari fimo, che non ancora abbi*. .diverfe ec. che è il
libro da noi mo avuto incontro di vedere . ; fopraeckato, E pure grande Tappiamo
cffcrc 1 ( 25+ ) Veramente il Signor ìiata la diligenza del P. Paico- j
Anton.Fcdcrigo Seghezzi, di m, autore di detta Biblioteca, 'chiara memoria,
nella Vita del per ritrovar un tal libro. [Caro per lui dottamente ferir V 2 J
3 ) Storia e Ragione dì ta, e premcfTa alle lettere delio ogni Poefia-, tom. 2.
lib. t, Dift ! ftcflfo dell’ultima edizione di I. cap. vili. Particcl.iv. a
car. I Padova, apprejjo Giufeppe Comi* 394. e falla autorità di lui il|m> .
in 3. tomo primo, benemerito delle lettere Sig. Ab. niente dice, che il Caro
tra1 icr-Antonio Serrani nella Virai dotte aveffe Odi eli Orazio, di Domenico
Venterò, premeffa I uà La Vita torio Quattr ornarti, e Tiùerio Tarfia. L'altro
pòi riferì' fee medefimamente quefta Traduzione, cd edizione, e i nomi degli
fteftì Volgarizzatori. OPERE In prosa non istampate. YV IV T\ UE ORAZIONI di
Sereniffidee Mente di re. JL) mrje, ter ifirevere le Ci, ed dir*"™ imgoftn
riedificazione delle J*e Mora.. ORAZIONE, ovvero ARINGA ( dettata in lingua
Lombarda) de, e. 2 M*U, ter ridare U D„m‘ * rei d ‘ V,.ni,d di de,,. Terre. Di
quella Orazione s e già favellato a baftanza per entro quella r „. . Breve
Trattato ài Architettura, coirai cune Piante di Edifizj fecondo le regole di
Vitravio.. Di quelloTrattateli, abbiamo fatta meuzione nel principio di quefta
r,ta IMD TRATTATO intorno ‘1 Mero Arbitrio. Due lettere latine a Monlignore
Jacopo Sadoleto. . fopra paj- 8. annot. IJ. :I7$ Un Volume di lettere, fcritte
a molti ragguardevoli Perfonaggi del fuo tempo, tra le quali molte ve n’ha da
Soggetti cofpicui, e da dottiflìmi Letterati fcritte al T RrssINO ; ficcome
altresì ve ne fono di Principcfle, e di Dame illuftri di quel fecoio . Da
quello Volume fono -Hate eftratte dal Signor 'Marchefe Maflfei quelle, che
leggonfi inferite nella iu a Prefazione alla riftampa delle Opere di
Giovangiorgio» nella •quale egli nomina anche alcuni di que’Soggetti* 2e
Lettere de’quali indiritte al T RlS jrN© trovanfi nello ftelfo Volume* e di
quelle Lettere-, tanto llampate, quanto manuferitte, ci fiamo noi fpezialmente
ferviti per compilare quella vita . Gli Originali di tutte le fuddette opere in
Prof a manuferitte (fuori de\Y Aringa) > e delle feguenti pur manoferitte in
Verfo, fi confervano di prefente apprelfo i mentovati Signori Conti Trilfini
dai vello d'Oro, difeendenti dal nollro Letterato 1 le quali tutte fono Hate
con molthTima diligenza raccolte, cd unite in due volumi in foglio dai Signor
Abate Don Bartolommeo Zigiot-ti, che colla Lolita gentilezza* e benignità -ce
ne •ha data contezza* e ci ha proccurato la comodità di vederle. Due LETTERE
Volgari al molto Reverende Mejfer Hieronymo di Gualdo Canonico . L’Originale di
quelle Lettere, (le quali purcnon fono tra le fuddette)* fi conferva
prefentemente nella Libreria P de u 4 tfc’PP, Somafchi della Salute in Venezia,
in una raccolta di lettere di diverfi fcritte ai Co: Co: Gualdi ; donde anche
furono eftratte quelle che fono ftate pubblicate col titolo di Lettere dPUomini
Jlluflri del Setolo decimo fettimp non fin fiampate L’ una di quefte due
Lettere è fegnata di Roma; l'altra è fenza data OPERE he Venezia, nella li
della Madre di Dio a canili. Stamperia Baglieni, della Prefazione al fuo S.
Pier edizione p roccarata, e di note Grafologo ltampato Venetiis acorredata dal
più volte nomi- pud Thomam Bettinelli nato P. Paitoni. fol. „Ne...
ingratiffìmis quibufLa notizia di quefte «quevidearaccenfcndus, illau. due
Lettere ci fu comunicata «datura iri non panar ci. et dal fuddetto P. Paitoni,
a cui „do ut dr eorum fibi gratiam cónciliarit y et magnani apud omnet
auiloritatem . Digitized by Google del Trissino; 117 Ìli Italiano ) In Vicenza
per T olomeo Janiculo da Brejjfa > mdxxix. in foglio. e ( col Dialogo del
CafielUno ) In Ferrara ter Domenico Mammartlli in 8. e (nella Galleria di
Minerva, parte feconda, a car. 3 5 *) InVi inezia preffo Girolamo Albrix.z&
> 16 $6. in foglio; e finalmente coll’altre fue Opere in j 5 ? tona H Libro
è dedicato da Giovambatifta Dona a l Cardinal de’ Medici. Si dubitò per lungo
tempo ^ fe Dantè fia ve* ramente fiato autore del tefto Latino di queft* Opera,
di cui a tempi del Tr. issino niuno v’ era, che ne a vette contezza. Egli fu il
primo a pubblicarla in Firenze, allora quando vi fu con la Corte di Leone X.,
come dice il Fontanini, il quale anche lungamente favella di molte letterarie
contcfe, alle quali die motivo la pubblicazione del Libro fteflb, che
finalmente fu riconofciuto per vera fattura di Dante . Ma cosi non poniamo noi
dice del Volgarizzamento, di cui e fi dubitò, e fi dubita tuttavia, f e fia del
Taissinq: e non oftante che tra le fue Opere (a6i) Tom. 2. a car. 141. 1 ( 262
) V. il Fontanini nell’ Eloquenza lui. dalle car jjy. I tino alle car. 246. e
ndl'Aminta di Tajfo difefo ec. In Venezia 1730. per Stbaftia • noColeti, in 8.
a car. r Opere d annoveri, molti letterati vi Tono, i quali affermano non
effere di lui . Tra quefti fpezialmente v’ha il Cavaliere' Zora, il quale nel
Difcorfo /ofra r- opere del noftro Autore {26$ )> dopo aver regiftrate le
Opere di lui in Profé) dice di ommetter la verfione de’ libri de vvlgari
ELOQUENTI A di Dante, torchi non li giudica tradotti dal Tri ss ino, nté
fatalmente da Lui fatti /lampare', aggiugnendo, provar egli ciò con buone
ragioni nella «m del me defimo Tjussino da lui fcritta A car. xj>o. a tergo
» ciò riferito il titolo nella Prefa-,c feguenti» . Jljj ;altro ci fcmbra affai
frivola, perciocché moke altre opere del noftro Autore han tralafciato di
regiftrare quefti Scrittori.) Oltre a ciò dice, che effendo detta -verfione
malamente dettata in Italiana favella, farebbe!! perciò «* affronto patente ai.
la fempre verter abil m (moria d’O., aggravando, . e sfregiando ing'mfiamente
la fua reeognizione, col? attribuirgli un lavoro male intefo, t malamente
tradotto-, facendo anche offervazione, che non d’O., ma da Giovambatifta Doria,
Genovefe, è ftata quella Traduzione dedicata al Cardinale Ippolito de' Medici,
con dirgli nella Dedicatoria, che Dante Jiccome ave a ferino f Opera fieffa in
Latino idioma, cosi la trafportaffe nell'Italiano. Soggjllgne di più lo fteffo
Signor Cavaliere, che fe Giova NG ioRGio foffe flato l’Autore di quella
verfione, e’ non l’avrebbe poi allegata nel fuo dialogo del Gabellano a fua
difefa, come fe foffe fiata Opera di penna altrui Que- X B, . .1 M Fontanini
neH’£/equenza Italiana a car. 10A. diffc, eflere ftata la detta veriionc
pubblicata dal Trjssino ; c ’l Muratori nella Prefetta Poefta Italiana tom.
prim. a car. 2 3. della edizione di Modena Il T r 1 ss 1 ho nell’ accennato
Dialogo fa, che Gio. vanni Rucellai lotto nome di Caffettano dica ad Arrigo
Doria quelle parole: Deh per vofra gentilezza M. irrigo guardate un poco nel
mio ftudio, e fende, che il libro portate qui il Libro della VolDe Volgari
Eloquenti* trafporta-\gar Eloquenza di Dante tradotto in Italiano, fu dato alla
Ite- J to in Italiano . et dal Trissimo. ! no Quelle, ed altre rimili ragioni
adduce Cavaliere a provare» che il Tlissi no non fia {lato l’Autore di tale
Volgarizzamento i alle quali aggiugner fé ne può un’altra piò torte, cioè, che
fé egli non ebbe alcun riguardo a pubblicare, come è detto, in Firenze il tefto
Latino di queft' Opera col nome di Dante, Tuo vero autore, molto meno l’avrebbe
avuto a iar fapere? che fua propria era la traduzione Italiana*, e manco
avrebbe comportato, che il Doria nella Dedicatoria al fuddetto Cardinale
dieeffe, che Dante (il quale, fecondo il Tuo dire, l’Opera fteffa in Latino
compofe, affinchè intefa [offe dagli Spagniuoì li, Provenzali, e Pranzo fi) la
TRASPORTASSE ancora nel r.oftro Idioma. Anche il Fontanini U, con aggiugnere,
che il noftro G io va n Giorgio net pubblicare quella ver bone; fi f* r ì
fervùo de\ fuoìcarat. t tri Greci, perchè da lui creduti migliori per
Pefprejfione perfetta di noftra Italiana favella . Con quelle ragioni, e con
altre, che ommettiamo a motivo di brevità, foltengono i predetti Scrittori, non
elfer del nollro Autore la fuddetta verdone; e ’1 Signor Marcitele Maflfei fe
la fece (lampare, come abbiam detto, tra l’ altre lue Opere, non però di meno
non dice» elfer cflà fattura di lui. Comunque fi fia, abbiamo giudicato miglior
cofa elfere e non porla tra le Opere da lui fenza dubbio compolle, e non
tralafciare affatto di regillrarla, sì perchè va attorno col nome di lui» e sì
ancora perchè avvi qualche fcrittore> che la cita come di lui fattura. R
ERUM ricent irtarnm Compendiane a Io. Georgio Trusjno confcriptum . In fine
leggonfi quelle parole : Ha* fìrhfi t*fi dtpepulationtmUrUt Rome, dum Le.
lattee tram apud Remp. renet am prò Clemente rii. P.M. Quello Componimento non
è mai flato Rampato 5 cd una ( rita del Tr I s* 1 n o fima» ed utilidìma Stor.
e Re. manuferìt. a car. 294. a tergo, gion. d'ognì Paef. Tom. I. lib. VeggaG il
Qua dr nè da niuno certamente fi sa, dove effe fi trovino di prefentev e non
oftante che abbiano detto i predetti Tommafini, e Beni, che allora fi con-[V.
fopra a car. jr. f Trattar, dell' Orig. Prefazione alle Opere * ec. tib. a.
manoferitto a car. tc. z ar. xxxi. jj. Elegia &c. a car. (180 ) Difcorfo
ec. a car. 44»» D’O. ;i2,y fi conferva vano preflfo i fuoi credi (28O? pure
quivi certamente non fono. Anche il Doni veramente ne regiftrò il titolo fenza
più nella seconda lì. ireria ( 2.8ì )* ma con quella differenza? che T ultima
d’efle Opere fu da lui chiamata Frontefpixio delle clone. E benché nel
principio di quella fua Opera dica il Doni di aver mejfo infiemt tutti i
Cicalai tri da sé veduti a ferma, de’quali 11 C aveva avuta notizia j e benché
foggiunga? che di tali litri etmfofii (e regiftrati in detta fua Libreria,
fochi c’credeva fodero per elfere ftampati» con con ciò fofle colachè erano libri
rari, e inma. no di per fané, thè non li voleane dar fuori, mapiuttofio
ardergli : nondimeno ci accordiamo volentieriflìmo colla opinione del Sig*
Marchefe Maffei intorno a tali Opere? cioè che non fi fono vedute mai ; ma che
iono Hate alcune per equivoco EQUIVOCO GRICE, altre ridicolmente intitolate. E
crediamo parimente, che lo fteflfo fi debba dire d’un altra Opera dal medefimo
Doni, e dal Tommafin. loog. eie- ! Nella Lettera, die egli jQfud Comitcs T
rijfnos iffius i' colla fua lolita bizzarria intitoFi are ics affervantur : La
Bafe la A coloro che non leggono, a del Chrifiianoì ec.Beni Trattar. car. io.
eli. fc. lQ0g.cit.L4 Bafe del Chri- 1 {'184) Prefazione alle Opere Jtianoec.con
altre Operette ferie. 1 ec. a car. xxx 1. te in prò fa, fono in Caf a de’ fuoi'
(285) In un’ altra Opera, io Utrcdi. cui regiftra le Opere ftampatc La Seconda
Libreria ài Autori Volgari, intitolata.' del Doni ec. Jn Vincgia 5 jj. La
Libreria del Doni Fiorenti. in 8. a car. 91. i no, nella quale fono ferini cut
ti ili Digitized by Google I2 c dove ftampata 47 -»-? 4 Meliini ( Giovanni)
pittor celebre non fece il Ritratto del Trillino. 64. effo Ritratto premefTo a
quella noftra Opera perchè adornato di quattro differenti corone poetiche 107.
fua morte 6J. Bembo (Pietro Cardinale,) lodato 4. ». 4. fue EpiftoU dove
Rampate 23. ».40. citate 24. «.41 due di effe fcritte a nome di Leone X.
riferite a 3. e feg. fcrivc regole di noftra lingua 69. fa autore il Trifsino
del verfo fciolto 88.». 17 6. fue Rime pubblicate per opera del Sig.
Ab.Sertaffi citate 102. ». 225. rifponde nellemedefimedefinenzea un 5onerto del
Trifsino. Beni ( Paolo ) fi crede autore di certo libro. 3. ». 2. filo Trat-
Favola delle Cofie Notabili. 12.9 T ruttata del? Origine della Famiglia T
rijfino dove Rampato . ivi. iua erronea opinione incorno al Trillino 6. e
intorno all’ ifcrizione dclfuo palazzo nella villa di Cticoli io. nora di
malevolo ilGiovio 4*. n. So. fa il Trillino autore di «ree opere . 51. ». xoi.
1 1 J.a fegg. fina al fine . lo fa fepolto pel Depofuo del L afe ari 59. n.
114. parla con lode di Bianca feconda moglie del Trillino 48. ». 95. citato 4.
ia. ». 23. 23. w.41. Benrivoglio ( Ippolita ) a lei c indirizzata un’ Ode
latina dal Trillino 115. Bergamini imitò .con poca lode la manieradi Ceri vere
tifata dal Trillino • Bragia ( Marco ), Con Agli e dell’ Accademia Olimpica vi
mette un SoRituto ». 28.48. Buonaccorfi . Vedi Montemagna. c C Arco trote, a (
Demetrio ) fu macftro del Trillino nella Greca letteratura. 4. dopo morte gli è
dal medefimo eretto un Depofico con Epitafio in Milano ivi. lodato dallo RefTo
nel fuo poema dell* Italia Liberata . 6. ». io. Calogeri ( P. D. Angelo )
lodato per la fua Raccoltad'Opufcoli Scientifici, cc.lll.e / allog. già nel
Palazzo del Tri di no nella Villa di Cricoli * e quando . 12. ». 23. fatto
Cardinale * e poi Papa col nome di Ufbano VII. ivi . Suo Bullo in pierra
collocato in detto palazzo con ifcrizione, e quale, ivi. Cartellano, uno degli
interlocutori del Caflellano del Tuffino, chi Ha ? t perche così detto 70. • ‘
Cavalcanti fu® Giudizio /opra la C anace cc. dove ftampato (fuo volgarizzamento
d' alcune Ode d* Orazio, tu. Centanni/) ( Valerio ) fuo curiofo Sonetto al
Trinino, riferito 40. ». 7J. Checozzi (Canonico Giovanni) illuftta un luogo-
del Poema delle Api di Giovanni Ru* celiai, a difefa del Trillino 51. rat 01.
chiama pio e ca/tigato il Trinino 93. ». I9T. Chiapino Vedi Bar- bar ano . C
biffi ezio l GiovanjaCopo ) (nell* Infatti* &c. Antuerpix ex officina
Plantinian* 1632. in 4. ) -non mette tra’Cavalieri del Tofon d Oro il Trinino
4J. e fegg. ». 88. Cindli Vedi Raf- ie. Ciria{ Gìufeppe Maria) Tua Ode latina
in lode del Tuffino, ri- H CUt^ntt vi' Papa . Vedi &A D y 0 'J?%tfix
doic^ftLpata ledici antt t,cn .' - f :i te _ CoRoza, Villaggio deiscenti-, arre
poetica - J »* « £lo, ' A m famo'o Covolo vie- Ilo latino de c.^1uon a
«I"f |i 11-1 breria Brtffiann love Rampa- »o. * 4- da cbi .Btoccurateiw.
Coment* j dove Rampati }4-| e /^', . pentiluomo ir. 6o. fa il T tiffino il
primo, Dw-tfo ( Ermolao U Martbcfa di ! Mantova ringrazia il TrifTi- 1 no per
certa Canzone man datale lo invita a fe, e perchè . ivi. efaltata nei Ritratti
del Trillino. 39. » 50. lettera a lei fcritta dallo ftclTo, citata F arnese a
lui viene indirizzato un Sonetto dal Tuffino, c dóve fi legga. ( Rannuccio
Cardinale ) grande amico del Tuffino, j j. icrive allo fieflb una lettera d’
ordine di Paolo HI. ivi ». 108. dal Tuffino gli è dedi- cata la Commedia de’
Simu- limi. io 6. Sonetto dal Trif-i no a lui dove fi legga fioretti (Benedetto)
V. Nifieli (Udcno). Firenzuola ( Agnolo ) fuo Dif- (acciamente cc. dove Rampa-
! to . e feg. feri ve contro a! Tuffino . ivi. e 37. ». lo taccia di ufurpatore
. 36. e fg. n.6j. quanto falfamcntc . ivi. fcriffe piuttofto per giuo- co, che
daddovero. è citato nell’ Ercolano del Varchi ivi . citato 68* Fontane delia
Villa di Cricoli lodate dal Triffino con lati- na poefia. ito. e con un c- pigr
.mma Greco ivi ». Fontattini ( Monfignor Giulio) fuo libro dell' Eloquenza Ita-
liana dove, Rampato 35.» 64- Efami fopra d'effa ftampati cenfurato giuftamentc
dal Si g. Marchcfe Mattici. . »j . difefo da ccnfura dello lìdio 46. ». 88.
chiama Novell 10 Cadmo, e Cadmo Italiano • 11 Trillino 39. giudica in- venzione
di lui 1’ ufare la Z, in vece del T. ivi. fuoi sba- gli. . ». . e feg. . e f e
ii- . critica V Da- lia Liberata 93. non viene confermata la fua ccnfura dal
Catalogo della Libreria Capponi ivi. ». i9i. riprende il Marchefe Ma Aci 94. «
1s2.il quale gli rifponde ivi. Vol- garizzamento d’ Orazio da lui riferito, dubbiofatnente
da noi riportato . ni. Aminta del 7 affo da lui difefo ion le Offervazietti d'
un Accademi- co Fiorentino dove Rampato li luogo ambiguo di quell' Opera lai.
». z6g. fua oppimene circa il iraduc- tor del Libro de Volgari Elo. quentia di
Dante. . e feg. Fortunio (Francefco) feri ve re- gole di nollta lingua. .
Fracafioro ( Girolamo) amicif- fimo Tavola delle Cofe Notabili. 1$; fimo di
Giovambatifta della loda la Sofonùba ivi . la bi*. Torre. 10S. ».. fimaS9. come
gli rifpondail Francefco I. Re di Francia, è Malici ivi. critica/’ balia li-
fatto prigione dell’armi dell* berata . nell’ Orbecchc la au- Imperator Carlo
V. e ’1 fuo torc il Trillino delle Trage- cfcrcito feonfitto. 40. gedic ferine
in Italiano 7 9. Erancefì, feonfitti dall’ armi di come pure del verfo fciolto
Carlo V. Imperatore, c cac. . fua lettera dove ciati d’Italia, ivi. fi legga
ivi, citato 90. ». Franti ( Adriano) V. T t tornei. ( Lilio-Gregorio ) fu con-
G difcepolo del Trillino nel- lo Audio delie lettere Greche. G aza (Teodoro ) nominato
4* ne fa menzione in certo con lode nell* Italia lite- \ fuo Latino poema .
ivi. ». 4. rata 6. ». io. ! Giulio II. Pontefice, fua mor- Gemi/lb ( Giorgio)
nominato al- ! te quando fucceduta 13. tresi con lode nella Refluivi. 1 G abbi
( Agoftino ) fua Scelta Ghilini ( Girolamo ) (nel fuo' ài Sonetti cc. dove
publicji- Teatro d'Uomini letterati. Ve-\ t» . ». aij. nezJa perii G aerigli;
Gonzaga ( Curzio ) fua tradu- non regiftra tra le Opere deli zione d’alcuncOde
d’Orazio, Trillino il Volgarizzamento j citata ni. di Dante de Fulgori Eloqucn~
j ti Gragnuola (Prete Francefco) tia. 118. j fu il primo maeftro del Tril-
Gilafco Eutelidenfe . Vedi Lue- j fino. 3. lettera a lui fcritto le., |
dalTriffino ove fi legga ivi. Giorgi ( Monfig. Gio: Domcni- { citata 13. ». 26.
ai. ». co ) Compilator del Calalo- 1 ». . go della Libreria- Capponi . Gravina
( Vicenzio ) fua Ka > Vedi Capponi., ' ' I adone Poetica dove ftampata
Giorgio (Gio: Lorenzo) Noda-| . in efla loda il ro Veneziano . » 101. Trillino
itti, fa grande ftima Giornale de’ Letterati d’Italia del di lui poema dell’
Ita- ccnfura il Cafoni 101. «.228. 1 Un Liberata. 97. non decide fc alcuni
Soneui Gritti ( Andrea ) Doge di Ve- fieno del Triffinoio.) nezia, quando vi
tulle elcr- lo fa bensì autore dell' in- 1 to . 30. gli è recitata in tal
venzionc del verfo fciolto occaltone un’Orazione congratulatoria d’O a Gìovio
(Paolo) tacciato di ma- nome della città di Vicenza, levolo da Paolo Beni, c
per- 31. citata . 73 e feg.76. fua che . gli è fcritto morte quando feguita 30.
un Sonetto dal Triffino. 102. »-JJ. dove fepolto, e con Giraldi (Gio: Battila )
fuoi Dif- qual Epitafio ivi. cerji dove Campati 7S. ». tj8- Grato (Luigi)
fuprannominat» i Cie. Tavoli, delle Cieco. £ Adria, filo grotto sbaglio ». in.
Gualdo (.Girolamo) due lettere dal Tuffino aldi' fcriue » ove. liano - ( Paolo
) fua Vita- di Andrea Palladio dove fi legga 9. Lettere Originali a’ Guai* di
dove fi. confcrvino- IV}e feg. Guarirti ( Guarino ) Vcronefc 5 fcriflc colè
gramaricali io lingua Latina. 7J. Guicciardini- ( Franccfco ) fuoi Quattro
libri della fua Storia ( nott pia fiammati.. Venezia ftr Gabriel Giolito 1
ciati Guidetti. ( Franccfco ) fua rclazioae a Benedetto. Varchi, . ccnfurata. H
I ! . H a y m (-• Nicola- Franccfco ) fua Biblioteca Italiana dovei Rampata I
liingo, o fia confonante, trovato dal Trillino > e abbracciato dagli
Scrittori an. che Fiorentini. 39. ». 73 Jjenicol» ( Tolommeo ) folito Rampato»
del Trinino .lai. Imperiali ( Giovanni ) fuo Mufaum Hifioricum dove Rampato . .
». 11. dove il fuo Mufaum Phyficum 8. ». 17fua erronea opinione intorno ai
primi Rudj. del Triffino.6. e intorno ad Andrea Palla, dio . 8., loda il’.
Tuffino . éj. ». lift. c il di lui poema Co fé Notabili. deli’ Italia Liberata
citato- Ingegneri fua Opera della Poe fia Rapprefentativa ec. dove Rampata
78.». 157loda la Sofonùba. del Tuffino.. *»»• licrizione al Sepolcro del
Calcondila dell’Accademia Triffina attorno alla porta del Palazzo del Tuffino
inCricoli io., a che fine vi. fotte collocala . . al BuRo di Vrbano Villa.
»•»?• «1 sepolcro di Andrea Gritti Doge. 30. ». J3al Sepolcro del T tifiino da
lui fòrmatafi, ma non. metta in ufo» e perchè. 56.., altra, in forma diElogioéi
IL L ascari ( Giovanni) nominarlo con lode nell Italia /*barata ». io. ove fia.
fqrpolto. . »• 114àttere di XIII - Uomini illit~ftri dove Rampate n. ». . d'
Uomini Illuftri dei Se. colo XVII. dove» per cui ope. ra pubblicate» c donde
cavante XM* »• Z S , Libreria Arobrofiana 52^ ». io»j. - Bertoliana di Vicenza
3. ». a. chi nc è. Bibliotecario ivi dei Nobili Uomini Pifanj in Venezia ;
conferva la prima edizione rariffima della Italia liberata da’ Goti PI.. de’ '
de’PP.Somafchi della Sa* I Maffei ( MarChefe Scipione ) >b* Iute di Venezia,
confervava un MS.-de'Trifftni, ed uno del Beni originale7. ». . con • fervagli
originali di . olcilfi • me Lettere fcrittc a’Gualdi .. '• j - dei detti PP. di
SS. Filippo, e Jacop > di Vicenza conferva 1” Aringa MS. del Triffino 47.
n.91. e una eradazione in latino . MS. della Sofoniiba. «.. Vedi C Apponi .
Colando . Plutoni . Rude. Zeno ( Apportelo ). Lombardelli (t'razio ) lettera di
Torquato Taffo a lui fcritra • dove fi legga 96. n 101 Lombardi (P.Giroiamo )
Gefui ta, citato . Loredana \ Leonardo ) Doge di Venezia. Lettera del Ponrefi.
ce Leone X. a lui ferina, -e prefen taragli dal Trifòrio, riferita. 24. Leone
X. Papa. Vedi de' Medi, ci (Giovanni). M M acchiaveui (Faufto) Accademico
Olimpico, in. xerviehc a un Configlio. della fua Accademia . 28. ». 48.
Madrucci ( Criftofano ) Card ni. Vcfcovo, Principe di Trento, introduce a Carlo
V. un meffo dei Triffino. 54. lettere a lui feriteci citate ivi 1 06. al lui c
raccomandato Ciro 1 Trissino da 'Gioan.Giorgio fuo Padre. 54. Mairi (Vicentino^
due Epigrammi latini fatti dal Ttif- 1 fino, per la mòrte di lai do-, • ve fi
leggano no. dizione delle Opere del Trif. fino da lui procurata, premefiòvi un
Riftretto della Vita dello fteffo, citata foftiene, che il Trillino valeffc
nella Filofofia Platonica e Pitagorica 8. ». i^enore nel fuddetto Riftrettodi
luicommcflb 12. ». . fuo Teatro Italiano ci. tato 26 . ». 45. 79» c feg. n.
161.89.». 180. più volte ftam. paro 77. loda la Sofonisba. la difende dalle
altrui cenlure - loda la Gramat iebetta del Triffino 69. e la Italia liberata e
la invenzione dc’nuo. vi caratteri 38, fua falla cppinionc intorno 1’ ufo che
ne avrebbe fatto il Triffino . . la fa autore del verfo fciòL to8l. lo difende
dalCrefcimbeni per una nuova maniera di Canzoni da lui ufata 106. interpreta fi
ni Riamente un dettodcl Fontanini . ». . lo ccnfura giufiamente 43. ». 84.
cenfurato da lui fc ne Tifcnte 94. fuo E fame fatto all* Eloquenza Italiana
dello fteflo dove Rampato fue Offer. vazMtni letterarie dose ftam* pare 44. ».
84. lodato afferma non efierdi Torqua~ i I J/j Tavola delle Co fe Notabili.
quato Taflb certa Commedia che è ftampata col nome di lui 107. Vedi 7 'ajfo
(Torquato) . prova non effer del Triflìno certa opera Latina 123. nè certe
altre ridicole compolmoni dn Malgrado (Vincenzio) a lui fcrive il Trillino una
lettera 4. ». 5. Mattiti ( Domenico Maria ) fuo detto cenfurato 39. lue Lezioni
dove (lampare, ivi. . Mattux.it} ( Paolo ) fua lettera a Bernardino Parremo
riferirà. . Marana( Andrea) imita con po ca lode la maniera dì fcrive. re ufata
dalTriffino. 3». ». 73 Martelli ( Lodovica ) fcrive contro al Trillino in
proposto de Tuoi nuovi caratteri. 35. fuo deteo coytrctto. ivi. ». «4.
Martintngo (Chiara) madre di Luigi Trillino primo marito di Bianca feconda
moglie di Giovan-Giorgio . Martiri ( Jacopo ) fua Jfioria di ricetta, dove
ftampata z6. ». 4". Maj]tmiiiatto, Imperatore, onora il TrifGiro. 16. fi
crede, gli abbia conceduto il Vello ef Oro . ivi . non gli falcia profdguir
Certo viaggio . lo rimanda fuo amb afe Latore a Papa Leone X. ivi . fua lettera
latina al detto Pontefice . 1 9'.»?-»47._fuo Specimen varia litttrattcra dóve
ftampato. ivi. ' R R aoona ( Alfonfo) Accademico Olimpie o. Vedi Angioiello . •
Rapido (Jovita) fua Orazione accennata 109. menzionato da più autori . iviy ».
24.7. fu Lettore di Umanità in Vicenza ivi. vicn chiamato Ra Cofe Notabili.
vizza dal Cozzando . ivi . Rccoaro, villaggio del Viccntino.Vedi Comuni
diRccoaro ec. Ridolfi ( Cardinal Niccolò ), Vcfcovo di Vicenza, eletto dal
Trillino per uno de'Commiffari del fuo teftamenco . J6. gli fono dedicate dallo
Aedo le fuc Rime 101. Canzone del Trillino in di lui lode, accennata . 106.
Roma, Taccheggiata a’ tempi del Trifsino. . Rojp ( Niccolò ) fuoi Difcorfi
interno alla Tragedia dove ftampati 2j. ». 44. citati 45. »• 88. loda la
Sofonisba del Trifsino. 2J. 7S. Rucellai ^Giovanni) fuo Poema dell ' sìpi
quando ftampato * io elfo loda il Triffino. 8. ». 14. volea fotte riveduto da
lui prima di darlo in luce. 51. e 124. cosi le fuc tragedie dell' Ore/?*, e
della Rofmunda 123. e feg. luogo ofeuro di detto Poema dell' Api illuftrato dal
Signor Canonico Giovanni Checozzi è grande amico del Trifsino 17. rifponde a
una lettera di lui ivi. dove efta rifpofta fi legga ivi . ». 34. f*i. è
Caftellanodi Caftel S- Angelo 50. * e con quello nome c uno degl’ interlocutori
dell’ Opera del Tuffino, che per ciò s’ intitola il Cafiellano. a lui è
intitolato il Poema dell’ Api. V. Rucellai ( Palla ). la fua Rau fmunda non
piace affatto al Varchi 88. corretta dal Trifsino 123. e feg. fua morte jo.
lodato dal Salvini 98. citato 2J. ». . $ % ( Pai . V 140 1“ avola delle Cefe
Notabili» ( Palla) dedica al Trillino li | poema delle Api di Giovanni 1 S filo
fratello, c quando 51.». ' 101. 87. lo fa autore del ver- qabellico (
Marc’Antonio) lofio fciolto 87. O dò in un fuo poemetto la £uele (P. Mariano)
Carmclita- Villa Cricoli, c quale 12. no, fua Stanzia aggiunta al- 23. la
Biblioteca Colante di Gio Sadoleto ( Jacopo ) gli fono vanni Cinclli, dove
Rampata fcritte due lettere latine dal $7' c f e t' n ' in. regiftra alcune
Trifsino. iti. compofizioni dei Trifsino non Salviati ( Cardinale Giovanni )
più Rampate ivi . e 1 1 o. fa meta- prefenta al Papa una Canzozione di J ovita
Rapido 109. ne d’O. 31. fua lette. ». 247. ra al Trifsino, riferita. 32. Ruderi
( P. D. Francefco ) Soma- n. 57. gli manda un Breve dà feo . Sua 7 'ratina cc.
dove Clemente VII. ivi . Rampata 4. rt.’j. da chi fatta Salvini ( Anton-Maria)
citato Rampare accenna Vili. 38. loda il Poema dell’ T alloggio d’Vrbano VII.
nel Italia liberata . e P Palazzo di Crico/i . Api del Kucellai, e la Col vuole
che Carlo V. f»cefle tivazione dell* Alamanni ivi. Conte, e Cavaliere il Tri
fsi- fu c Profs To/cane dove ftanv no 43. e quando 44. ». 86. paté 34. . quanto
in quello egli s’ in- Sannazzaro (Jacopo ) uno deganni 55. ». 106. loda il gl
lnterlocutori del CaJleUaTrifsino 6 J. e la fua Poeti. no del Trifsino . e la
fua Coni- Sanfevcrina ( Margherita Pia) a media Ì07. ». 239. accenna lei è
dedicata un’Opera del aver il Trifsino icritti Infe- Trifsino 67. gnamenti
Rettorici 116. ». Sanfovino ( Francefco ) edizio260. come debba!! intendere ne
della fua raccolta di Orativi. zioni di diverfi Uomini Ulte Bufcelli loda P
/tri divifa in due parti, cita invenzione de’nuov! caratte- ta 31. ». J$. fa
volte più ri del Trinino, c del Tolo- volte pubblicata . mci.38. «.68. fua
raccolradi in e da ha luogo un’OrazioLettere di Principi, ec. cita- ne d’O., e
quale ivi . ta . 42. ». 78. nelle Rime Sajp (Giufeppc Antonio) lodapcr lui
raccolte lì trovano to . Je. . delle compofizioni del Trif- Savorgrtano
(Giulio). una lettefino . 103. fuc note al Fu. radilui a Marco Tiene
ftabiriofii dcH’Arioflo, citate ivi. | lifcc l’anno della morte del Trifsino. .
Scaligeri (Mattino, e Antonio) in qual tempo vi veliero. 71. Scamozzi
(Vincenzio) chiariffimo Tavola delle fimo Architetto . io. ». «. discepolo del
Palladio ivi . di che non ne fa menzione nei Tuoi libri ivi. Schio ( Girolamo )
Configliere dell’ Accademia Olimpica, a chi foftituito . ». . . Vedi Angiolello
. Terra del del Vicentino, manda Oratori a Venezia a a chiedere un fattizio
Veneziano in Rettore in vece del Vicario Vicentino . 49, difefo da Baftian
Venicro Gentiluomo Veneziano. 50. per. de in tutto, e per tutto, ivi. degli
Scolari ( Franccfco). Vedi Bcccanuoli . Scotto nd fuo hi. nerarium ec. parla
dtlh AccademiaTriflìna. m. ». 22. Vedi da Cap ugnano. Stghezii ( Anton-Federico
) fcrive la Vita di Annibai Caro in. ». 274. dove flampata ivi. non regiftra
tra le Òpere di lui alcuna traduzione dell’ Odi d’ Orazio . ivi. fu a edizione
delle lettere diBcrnardo Tasso, citata Serra# ( PìcriAmoqiQjjpubbli. ca le Rime
del Bembo io». . e quelle de’ Venie» ledendo la Vita di Domenico, HI. ». 2
JJ.Speroni ( Sperone ) Sue Opere dove ftampatc Giudizio fopra la fra Canate da
chi comporto, vedi Cavai, canti ( Bartolotnmeo ) . da Somacampagna ( Gidino )
primo Scrittoredc 11 ’ arte Poetica, in Italiano. 72. inqual tempo viveffe.
ivi. Statuto Vicentino citato ' feSS Strozzi (Filippo) uno degli Interlocutori
nel Cartellano . Sub a f ano . Vedi degli Aromatari. T T Asso ( Bernardo )
edizione delle Tue lettere ( proccurara da Anton-Federico Seghezzi ) citata
aia. loda 1 ’ Italia liberata. fue Lettere dove ftampate .. lodala Poetica del
T tif. fino 7j. edizione della Aia Gerufrlemme citata 87. e frg. ». 176.
edizione di altre fuc Opere ». aot. loda i’ Ita.,, Ha liberata . 96. non è
Aurore ( feconde il Sign. Marohefe Maffci (a) ) della Commedia
("intitolata gl' Jtrichid' -S } Amo (a.) Facendo però il Taffo menzione di
certa Commedia, che andava lavorande in, Tua Lettera a Giovambaiti'fta
T.icinio, la quale fi legge a car. iff. del Libro intitolato: Lettere del Sig.
Torquato Tuffo, non più ftam . fate ec. Bologna. por Bartelomto Cocchi
quand’anche non fia egli l'autore della Commedia degl' Intrichi d" Amore,
di che per forti ragioni (e ne moftra.anzi dubb>ofo, che no, l’autore della
Prefazione alla nobiiillìma edizione dell’-Qprrr di Torquato Tuffo in Firenze
per li Tariini e Franehi . iti Volumi m fol. viene a renderli affai vacillante
la decisiva temenza del Signor Marcitele, cioè non avere Tasso compofte Commedie.
Tavola delle Cofe Notabili. Amore) febbene porta il fuo ne X. H. n. 31. vuole
che il nome . fno Amine» da • Tri /Tino foffe fatto- Conte, chi difcfo, vedi
Font /mìni. t Cavaliere da Carlo V. T»rji» (Tiberio) fuo volgnrìz- 43. fua
cfpreflìone dubbiozamento d’ alcune Ode d'Ora- fa. .». . riferifce unepì. zio
citato uà. gramtna del Triffìno di Ttmfo (Antonio) fcrifle in rii. non fa
menzione del ItalianodcH’ Arte Poetica. 7a. Volgarizzamento dell’ Elo. c quando
ivi. quenza di Dante fatto dal T ibride » ( Antonio ) fua Lettera Trillino 118.
attribuifee al dìfcnfìvAi citata ( della qua O. molte Opere non le fi tiene
eflcre Autore il mai vedute. 124. loda laSo- Sig. Arciprete Girolamo Ba-
fonisba 98. afferma effere fta- ruffaldì ) . 1 io. ta rapprefentata con grande
Tiene ( Giovanna) prima mo. apparato per comandamento glie del Trillino . 12.
fua di Leone X. 25. ». . «itato morte ivi . . ». Accademico . Olimpico
foflnuifcc ano » della Torri che intervenga a fuo no- fua mone pianta dal
Tri/fì- me a un configlio dell’ Ac- no fu amico di cademia. citato Girolamo
Fracaftoro. ivi. 0. ifteffa. ; j T rape futi z.io (Giorgio ) noroina- Vedi
Saver- 1 to con lode nell’ Italia libe- &»»no ! rata. 6. ». io. Tilefio fuo
voi- Triffina Famiglia. Sua antichi- garizzamento d' alcune Ode tà, e nobiltà.
1. divifa in più d’ Orazio citato ni. linee. ivi. Autori, chen’han- Tolomci
(Claudio) fcrive con- no fcritto . 3; ». 2. Alberi tra il Trillino in-
propofito tre di quella Famiglia alle» dei nuovi caratteri fotto no- g«i . J. i
difecndenti me di ^idriono -f ranci fuo della linea di GioVan-Giorgio alfabeto
> e caratteri da lui inveititi delle Decime di ai- trovati . . ». . citato
38. cune Ville del Vicentino. . 1 fan lite per rifcuotetle con- Tomafini (
Monfig. Jacopo Fi- tro ai Comuni d’effe Ville., lippo) fuoi E log. yirar. Lit -
ivi. vengono loro confifca- ter. t ir fafitnt. Jlluftr. do- te effe Decime, e
perchè . 1 j.. ve ftampati . 1 1 J. . 1. fu pofledono l’ Opere manofcric- il
primo a parlar a lungo te del detto GiotGiorgio.nj. del Trinino . . lo fa ftu-
Trijftno ( Co: Aleffandro) lodato, diofiffìmo dell’ Architettura . Vedi la
noftra Dedicatoria . 8 .». 16. accenna l’alloggio di . (Alvifej primo mari.
Urbano VII. nei Palazzo di to di Bianca O. Cricoli. ta. ». . regiftra un quando
abbia fatto il fuo Te. franamento di lettera di Leo» fomento, Co: An. 7 avola
delle Ceft Nut abili. Iodato j. e . Padre di Alvife, primo marito di Bian- ca
feconda moglie di Giovan- J Giorgio j. feconda Moglie di Giovan Giorgio, fuoi
ge- nitori . ». fua dote . ivi . fuo primo Marito chi folle ivi. di fomma
bellezza. ivi. detta V Eleva del- la fua età. ivi. di lei parla il Beccanuoli,
e dove. .». - f“o Teftamento. da chi rogato . lodata da Giovan-Giorgio
confervava on MS. appartenente alla Fa- miglia Triflina. j. n.tj.figliuolo di
Giovan Giorgio O. ammalato. ., e feg. porta allTmpcrator Carlo V. gli ul- timi
diciotto libri dell’Italia liberata di fuo Padre.raccomandato da Gio-
van-Giorgio al Cardinal Ma- drucci. ivi. figliuolo di Gì ovan-Giofgto^aaoti^io
va- ne. za., fuo sbaglio intorno a Giovan-Giorgio O. . ». zj. fuo trac-) tato
della fua Famiglia, cita- to. ivi. e h. . ( Gafpare ) padre di Gio- van Giorgio
O.. 2. mi- lita a fue fpefe per la Repub- blica di Venezia . ivi. fua mor- te.
3. traduce in metro latino la j Sofonisba di Giovan-Giorgio ! O.. . h.ijj. dove
fi cenfervi. ivi. fi lamenta con Scipione Errico, per aver que- lli criticato l
'Italia liberata . una lettera di lui dove fi legga . ivi . riempie alcuni vani
d’ un’ Egloga latina di effo Giovan Giorgio non llabilifce fempre nello fteffo
anno la fua nafeita. 2. ». 1. nominato nell’ ulpi del Ru. celiai. 8. ». 14. fuo
Sonetto riferito, e in qual occafione fatto. 41. ». 7 6. fu creato da
Mafsimiliano, c daCarlo V. Conte, e Cavaliere, ma non del Tofon d’ Oro con
altri privilegj. quando. altro fiso Sonetto riferito quanti anni abbia fpc- fi
nell' Italia liberata . 53. e feg. ». 106. Suo Epi- gramma latino riferito 5 7.
». in. fatto Brcfciano erronea- mente dal Cieco d’ Adria. 58. ». ilteffa. La
fua Italia liberata è chiamata erroneamen- te dallo Hello Italia il latra- ta.
ivi . da una iferizionc Sepolcrale riferita, appare ef- fe re flato Nunzio per
le iali- ne di Chiazza, e per la refti- tuzione di Verona, diche in altri
luoghi non ne abbiamo trovata memoria Catalogo delle fue Opere ftam. paté, e
MS. tanto in Profa, quanto in Vc.tlo. ., e fegg. la fua Italia liberata, come e
quando Rampata. 53. e feg. . di quanti libri compofta. ivi . errori in que- llo
dclFontaniai, e del Com- pilatore del Catalogo della Li- breria Capponi, ivi.
ia pri- mi Tavola delle ma volta ftampata per Privi- legio di Papa Paolo 4. w.
. fi tentò vetfione del- la fiefia in ottava rima. . le lue Rime dedicate non
al Cardinal Ridotti, ma a Leo- ne X. . lue Opere ad altri attribuite, cioè
lette Sonetti a' BuonaccorfiJ. 101. -e feg. uno a Guittone d' Arezzo ioj. ed
una Canzone all’ Ariofto ivi . fuo Ritratto in- tagliato dal Sign. Franccfco
Zucchi perchè adornato 'di quattro CoroncPoetiche . fila Opera imperfetta da
chi compiuta ( Giulio ) figliuolo di Giovan-Giorgio -natogli dalla prima
moglie. 12. lette- ra di fuo Padre a lui, citata. gì. ja. »Cameriere di
Clemente Vii. poi Arciprete della Cattedrale di Vicenza litiga contra il Padre,
e per- chè 49. cui fa ftaggire le rendite viene da lui di- fendalo vince la
lite con tro di lui. ivi. Padre di Bianca, moglie di Giovan-Giorgio pubblica
un' Opera del P. Rugeri, c quale. }.«.ii. dove facciafc- polto Giovan-Giorgio (
Co: ParmcMiotie ) Bibliotecario delia Bere oliana di Vicenza confcrva copia del
Volgarizzamento di certa Genealogia di fua Famiglia 7. n.i 3. Vedi la
Dedicatoria Nipote di Gio- Cose Notabili. van-Giorgio fece in un cogli alrri
fuoi affini fcolpirc un Elogio allo Zio, e dove . lo Beffo Elogio riferito
Trinizio a lui manda O, il fuo Cartellano forco il nome di Dona fua morte
pianta in un’ Egloga da Giov.n-Giorgio^ xo8- Consonante, invenzione d’O.,
abbracciata dalla Crusca Faccari avea traf- pottato in . ottava rima un Canto
dell’ Italia liberata io. Val d.’Agno. Vedi Comuni di Recoaro cc. Fate» ararla
(Piero) va con O. a Venezia Orator per la Patria Farchi edizione del suo
Ercolano citata. afferma c!- e il Firenzuola fende contro O. per giuoco loda la
Sofonisba la biafima fue Legioni) dove stampate loda l’ Italia liberata. . no»
decide la quertione circa l’ inventore del verso stiolto. mal inteso da
Fontanini edizione de’ fuoi Sonet. ti, citata «.a Sonetto ad O. riferito ivi.
loda Jovita Rapido citato F'ewimi Nobile Veneziano, avvoca in Venezia a favor
della Comunità di Schio con Tavola delle Cofe Notabili contro Vicenza, e perde
( Domenico ) tuo Vol- garizzamento di alcune Ode rvr In cambio del T da chi, di
Orazio citato ut. fue Ri- j / j e come fi comincia ad ufa- da chi pubblicate.
n. 1 re . ZaccariaVerità Sonetto ai nio)Gefuira, fua StoriaLet- lui foriero
d’O., ove) teraria, dove stampata. si legga roi. I. fa 1 Elogio di Apposto-
Verlati, madre di; lo Zeno ivi. Bianca, feconda moglie del ' Zeno ( Apposolo )
ritratta la O. sua Vita d’O. inferi. Vicenza, perchè detta Primoge- ta nella Galleria
di Miner vita della Repubblica di Veva I. e feg. fue Lettere dove nczia quando
fi fia Rampate citate donata alla flefla ivi. manda c fegfquarci Oratori di
congratulazione al j di lettere ferine all’Autore Doge Andrea Gritti, e chi j
di quella vita c ne invia contrai munica all’ Autore varie noti- la Comunità di
Schio dozie per telTtrc quella Vita ve manda un Vicario a governarla ivi . è
fatta piena WI12. donde l’abbia giuftizia alle fue pretefe. J eflratte fuo
sbaglio conlerifce ad O. varie lodato dignità, e quali . ivi sua Vigna fue |
Libreria a chi donata ivi. Differì azioni promeffe Vili. | fua morte quando
feguitam. fuo Preliminare dove lodato dal P. Zaccaria con Rampato ivi. I lungo
elogio, ivi . non tcn- Volpi lettera) ne, che O. folle piti a loi fctitja dal
Sign. Cano- j per ufare i caratteri da lui nico Checozzì iir-tèifcfa del'
inventati non tenne per O,, dove fi legga fattura d’O. certa operi. ioi. | ra
latina citato (il fo j Vedi Giornale de’ Let- praccennato)eGaetano fratelli) I
rerati d’Italia, (del quale cf. furono i primi a idear una edi- clfedone egli
il principale unzione di rottele Opere delTrif- tore con ragione a lui fi at-
fino U. u Io- 1 ttibuifee tuttociò, che inef- xo ( Ifcrvazionc erudita fopra j
fo fi contiene). il titolo d’ un’ Egloga del Trif- ; ( P. D. Pier. Caterino So,
fino m. lodato Vrbano Vedi Cafiagna. j Zigiof ti 1 cfamina P Archivio de’ Co:
Trilfini conferva co- Tavola delle pia del volgarizzamento di certa Genealogia
della famiglia d’O. lede un’ Opera delle Memorie del Teatra Olimpico di Vicenza
citato raccoglie tutte le Opere MS. D’O. lodato ZorzÀ fuo Ragguaglio Jjlonco
intorno ad O. MS. ci- tato IV. fuo Discorso intorno alle Opere dello Kctfo, do.
ve fi fcgga . tao. citato nominato con lode del P. Ruelc, c dove in. fuoi
sbagli difende O. per l’invenzione de' nuovi caratteri loda la Sofonisba numera
le cen-. fare fatte alle opere d’O. e dove - at- Cose Notabili rribuilce certa
Opera ad O. ufi-fua opinione circa alcuni Sonetti, at- tribuiti a’ Iluonaccorfi
non vuole O. Autore del Volgarizzamento dell’eloquenza volgare di Dame nò d’
un’ altra Opera latina lo crede bensì Autore di certe Opere, che mai non fi
fono vedute ivi Zucchetta ftampatore quando cominciò a pubblicare Opere dai
fuoi torch) Zucchi fua Idea del Segretario,ec. dove ftamta intaglia il Ritratto
d’O. premeffo a quella Vita il Fine della Tavola. Gian Giorgio Trissino dal
Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua italiana, filosofia del
linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di comunicazione, il parlare
umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la parlata dei genovesi, la
filosofia della lingua in Alighieri, l’eloquenza, la filosofia del linguagio,
only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oro” -- Luigi Speranza,
“Grice e Trissino” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Orrontio: la ragione
conversazionale e la scuola di Roma – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Abstract. Grice: “We don’t have
‘senators’ at Oxford!” -- Filosofo italiano. A senator and follower of Plotino
– cited by Porfirio. Orrontio. Keywords: categoriae. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Orrontio.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Orsi: all’isola
-- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia
fascista – la scuola di Palma di Montechiaro -- filosofia siciliana – filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Palma
di Montechiaro). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Palma di Montechiaro, Girgenti,
Sicilia. Grice: “Orsi uses ‘psicologia speculativa’
where I would use ‘psicologia filosofica,’ since speculativa opposes to
prattica, rather!” -- Allievo d’OTTAVIANO (vedasi), insegna a Catania. Pubblica
nella sua attività di ricerca scritti minori di autori italiani e il saggio “Gl’hegeliani di Napoli.” Cura l'edizione
dell'opera d’OTTAVIANO (vedasi) su CAMPAILA (vedasi), CAMPAILLA; “La psicologia
filosofica di SPAVENTA (vedasi)” – e stato nella segreteria della rivista “Sophia”.
Altri saggi: “Lo spirito come atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al
bivio: immanentismo o cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”;
“Psiche e meta-fisica” “Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and
indeed a Domenico D’Orsi, back in the 1700s, are a very noble family in Sicily.
D’Orsi is associated with “Sophia”, founded by OTTAVIANO (vedasi). His
interests have been many and varied – but most notably philosophical psychology,
which the Italians call ‘psicologia speculativa’ as opposed to cheap scientific
psychology. They have the great Spaventa, who philosophized on the most
abstract issues concerning the old Roman idea of an ‘animo’. Compared to which Ryle’s
and Watson’s psychological behaviourism is a no-no-no!” D’Orsi has
philosophized on democracy. I democratici can be ingenuii, as I prefer them, or
critici. He has also ‘cured’ the edition of Ottaviano on Campailla, and went
continental to study Napoli!” Grice: “Orsi has done a lot to allow us to
understand Spaventa. As most Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and
cared to translate an esay that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi
di psicologia speculativa. I can imagine Spaventa wondering what he was doing,
bringing Lotze’s ‘seele’ as ‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by
Spaventa, are elementary enough – but the section on the ‘soul/body’
(anima/corpo), ‘animo/corpo, corpo animato, corpo inanimate) is interesting.
But far more interesting is Orsi’s unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica”
– not to be confused with LABRIOLA’s essay of the same name. This is a hodge-podge
of reflections. But mainly anti-materialistic. While an emergentist, Spaventa
(as discovered by Orsi) struggles to understand the connection between
‘sentire’ and ‘sentito’ and more generally, between the ‘sentire’ as a processo
fisiologico – Spaventa goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ –
the first is the processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as
unearthed by Orsi, calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is
the ‘unita reflessiva del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold,
there’s cold qua processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated
bodies cannot FEEL cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive
from say, HEAT. And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a
‘unita reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or
represents, or stands for the sensation itself. Domenico D’Orsi. Orsi. Keywords: animo, amore,
Ottaviano, Campailla, Spaventa, gl’hegeliani di Napoli, Sophia. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Orsi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Ortensio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Ortes –
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del verso – la
scuola di Venezia -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Abstract. Grice: “Ortes’s little treatise on the
philosophy of language supports my claim about philosophy of language NOT being
a necessary discipline on which to give a seminar at Oxford, since the pupil
would already know the stuff!” Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice:
“Being English, I was often confronted with that very ‘silly’ song by Cleese
and Idle, but then they were never the first! Which is good, since they are
Cambridge and Ortes is Oxonian! Viva
La Fenice!”. Considerato uno dei più dotati tra i filosofi veneti
settecenteschi, precursore nell'analizzare dal punto di vista della produzione
complessiva alcuni aspetti come popolazione e consumo. La sua impostazione
filosofica si fonda su un rigoroso razionalismo. Nel mercantilismo vide far
gran confusione fra moneta e ricchezza. Fu un sostenitore del libero scambio pur
con alcune restrizioni della proprietà che interessavano il clero, anche se
appartenevano al passato ed è considerato per questo un anticipatore di Malthus,
ma con qualche contraddizione. Malthus prevede l'aumento della popolazione, in
trenta anni, in modo esponenziale, quindi molto di più dell'aumento delle
sussistenze. Altre saggi: “Grandi, abate camaldolese, matematico dello Studio
Pisano, Venezia, Pasquali, “ Dell'economia nazionale” (Venezia); “Sulla religione
e sul governo dei popoli” (Venezia); “Saggio della filosofia degli antichi” -- esposto
in versi per musica (Venezia); “Dei fedecommessi a famiglie e chiese,” Venezia,
“Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto all'economia nazionale:
errori popolari intorno all'economia nazionale e al governo delle nazioni” (Milano,
Ricciardi), Donati (Genova, San Marco dei Giustiniani). Catalano, Dizionario
Letterario Bompiani. Milano, Bompiani, Citazionio su Treccani L'Enciclopedia. Quanto
i suoi studi matematici influissero sul suo metodo economico, vedremo; qui, brevemente,
come in fluissero sulle sue considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle
opinioni ed ecco si studia di ridurre a “Calcolo sopra il valore delle opinioni
e sopra i piaceri e i dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato
dal Custodi, degli ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero
determinato il valore dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa
qualità che lo pone innanzi agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli.
Questa buona opi nione nasce o dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o
dallaprofessione,come la milizia, le lettere ecc.,o da qualche prerogativa,
come dall'autorità, dal merito ecc. Ciascun uomo fornito di alcuna di queste
qualità gode di qualche cosa che non godrebbe se ne fosse privo. Ortes si
studia di determinare il valore di questi beni recati dall'opinione. Valga un
esempio. Se si chiede quanto aggiunga di valore alla nobiltà l'opinione della
stessa, O. ragiona così: postoche larenditagiorna liera di tutte le famiglie
nobili sia 20,000, quella che proviene da cariche, magistrature, commende ecc. 3,300,
quella che vien data dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti,
e colla riputazione dei grandi sul volgo, a 700, posto che il numero di tutti i
nobili sia 10,000, il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300
+ 700 = 2. Falo stessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser
pretesto la virtù, ma vero fine l’interesse proprio, poichè, dipendendo il
valore delle opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si
deve prima d'ogni altra cosa cercare l'utile proprio. Avverte che v'ha sempre
un'opinione predominante che varia col variare dei secoli: ai tempi di ROMA
libera e la conquista; sotto OTTAVIANO illusso; il platonismo ai tempi di
Costantino; l'investitura ai tempi di Gregorio VII; le lettere sotto Leon X ;
finalmente l’ozio a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione, PIACERI
E DOLORI. tuttavia 1?O. mostra come il pretesto della virtù coprisse basse mire
di privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto dell'ordine, benchè sia
figlio di vana alterigia. L'uomo che dee servire a molte di queste opinioni
sarà più civile, ma più timido e finto; chiapoche; sarà più rozzo, ma anche più
sicuro e più libero. E come O. si studia di ridurre a calcolo le opinioni, così
parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno astruso è O. in questo
saggio. Con molta inesattezza di idee e di lingua, espone da principio la
dottrina che tutto ciòche è conforme alla conservazione e sviluppo del nostro
essere, genera piacere; il contrario, dolore. Parla dei dolori e piaceri del
senso, dei dolori e piaceri dell'opinione. Mostra l'uomo naturalmente soggetto
al dolore, e che il piacere non è che un sollievo del dolore; con ragionamento
curioso studiasi mostrare che il piacere non può mai superare il dolore, perchè
il piacere essendo preceduto, secondo O., dal dolore, sopito che questo sia,
tutto quel di più di piacere che si volesse applicare generera dolore contrario
-- come l'indigestione dopo la fame cessata, la stanchezza dopo la danza ecc.
Il calcolo del piacere e dei dolori dipende dal grado della elasticità delle
fibre onde alcuno è fornito, e, quanto ai piaceri e dolori d'opinione, dalla
stima che ciascuno fa degli stessi. L'autore non pretende a novità di dottrina,
professa di avere scritto secondo la propria esperienza, con un temperamento
indolente é coi suoi sensi in un'età di mezzo.Vedrem poi com’egli stesso ne
abbia dato un giudizio severo. Due altre opere filosofiche si hanno di O.: un
ragionamento delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla felicità
umana; — e riflessioni sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle
cognizioni umane per rapporto alle lingue. Ma si può dispensarsi dal tener
dietro a questi discorsi, che, a dir vero, son pesantissimi. In sostanza l'uno
si riduce a mostrare l'ufficio delle umane facoltà nella scienza e nelle arti
belle, anche queste intitolandole scienze ma dilettevoli, in contrapposto delle
altre che chiama scienze utili. Nelle scienze tiene il campo l'intelletto,
nelle arti belle l'imaginazione. Quelle hanno per oggetto il vero com'è, queste
il vero ma elaborato dalla fantasia. Quindi discorresi in quali termini sia
concesso il lavoro dell'imaginazione e concludesi sul tenore dell'epigrafe: Sol
la scienza del ver giova ed alletta. L'altro ebbe occasione dalla traduzione di
Pope, perchè volendo ragionare delle difficoltà del tradurre, si trova così
accresciuta in mano la materia, che piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne
un saggio a sè. In fatto prende la cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà
reale degli oggetti e sulla varietà nel modo di rappresentarseli, onde s'apre
l'adito a discorrere delle lingue e delle loro diversità, quindi intorno l'uso
della parola, e particolarmente intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era
partito, e conclude che se il traduttore può benissimo esporre le verità
apprese da altra lingua, non potrà tuttavia produrne tale impressione negli
animi, come ne è prodotta dall'originale, se non facendo sene come nuovo
autore, esprimendole cioè inmodo; tip. Pasquali. SUL MODO DI TRADURRE. Non si
può negare che osservazioni argute si tro vino spesso in O. anche in queste
riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui costumi, e sulle cognizioni umane
per rapporto alle lingue; ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura assai
noiosa. Qualche volta dà risalto a quell'idea che vedremo poi sua prediletta in
economia, che cioè quello solo riesca ove siavi la pubblica persuasione, non
già ove questa non corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente dice, che allora
un ammiraglio potea condurre gli’inglesi in America, come un tempo un romito
potea condurli in Soria, perchè gl’inglesi stessi voleano e avean voluto così.
Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si conduce a qualche sentenza netta e
perspicua, come, p. es., dopo GOLDONI, COLTURA ALLAMODA, PUB. OPINIONE. Adatto
all'indolee ai pregi della propria lingua. Chi volesse calcare l'autore
straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un ritratto con soprapporvi
isuoi colori, coprendone così e confondendone letinte,ecangiando il quadro in
un mascherone o in un empiastro. necessità invece che gli scrittori s'accordino
sempre col carattere nazionale de'lettori; e qui O. osserva, che il miglior
poeta comico italiano de'suoi tempi potea bensi starsene in Francia per passar
quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai perchè il suo talento comico fosse
così ben rilevato nella lingua francese a Parigi, come il e già in Venezia nel
dialetto suo veneziano. Qualche volta sembrerebbe anche gaio,come quando si
lagna che, temendosi la fatica dello studio, si trascurassero le cognizioni
vere, contentandosi di dizionari, giornali, compendi o altri repertori per
dilettare, divertire, o come diceano, per amuseare! È USO DELLA PAROLA PEI
GOVERNI avere deplorato che il mondo governisi da chi più ciarla, non da chi
più sa, egli conclude: se chi pretende governar altri senza render ragione del
suo governo, e uomo assai vano; il sarebbe non men certamente chi pretende
governarli per sola copia ed eleganza di voci. Qualche volta infine dimostrasi
d'animo aperto e sollecito per le innovazioni. Qui cade a proposito, così egli,
d'avvertire l'errore di quelli che si figurano di richiamar nelle nazioni la
verità e la ragione comune, cioè gli interessi comuni, pubblici, universali in
contrapposto ai particolari, privati, speciali) perquantovi sifosse smarrita,
col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni a'tempi de'loro
bisavoli, progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e la ragione
comune potrà ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi trasandati fosse
stata più riconosciuta per sè stessa in quei costumi, di quel che il sia ai
tempi presenti per costumi che la modificassero in contrario di sè medesima;
giacchè essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ma il
richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando tali
modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una
miseria di mente, per cui si creda la natura non più capace d'invenzioni in sua
natura, di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar in
sua rece. Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in troducendo, e
deplora gli usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son
modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gl’usati che a quelli
dan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della comun
ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se ciò
fosse contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto innocente,
tanto inevitabile e necessaria, e potendo, anzi dovendo, quella comun ragione,
per disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo suo artefice,
praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in sembianze ché non
siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè medesima. Senza
questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non esercitarsi che
per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la verità, la ragione,
e la religione stessa per le sole loro modificazioni esterne di tempi molto
remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed interno di queste virtù,
incariabili per sè stesse, riducendole a quelle materiali loro modificazioni
esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor senso e significato. Si pigli
intanto O. in parola, poichè avrem campo di trovarlo in seguito così reluttante
a certe modificazioni che non sembra quel desso. Meglio avremo occasione di
riandare alcuni suoi pensieri dello stesso libro, che con certo apparato
filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi, da lui tanto
raccomandata nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora queste meditazioni
di filosofia. Errori popolari intorno all'economia nazionale considerati sulle
presenti controversie fra i laici e i chierici in ordine al possedimento dei
beni; Della Economia nazionale, parte prima, libri sei; Lettere concernenti la
stessa (oltre quelle che si hanno nel • Custodi, quelle publicatesi in questo
libro); Dei fedecommessi a famiglie, a chiese e luoghi pii, in proposito del
termine di manimorte introdotto a questi ultimi tempi nella econ. naz.; Lettere
in proposito;Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto alla
econ. naz.; Dell' ingerenza del governo nell'econ. naz., publicato da G. Fovel.
Venezia, tip. del Commercio; Della eguaglianza delle ricchezze e della povertà
nel comune delle nazioni, publicato dal Cicogna. Portogruaro; Riflessioni sulle
rendite del Principato e sulle rendite publiche in proposito di economia
nazionale; Discorso sull' economia nazionale; Popolazione perchè non cresca per
l'agricoltura, per le arti e pel commercio; Vari pensieri economici sull'
interesse del denaro, etc. Tra gli scritti d'Ortes nella Marciana. LETTERARI.
Traduzione del saggio di Pope sull'uomo; Saggio della filosofia degl’antichi
esposto in versi per musica; Riflessioni sopra i drammi per musica e l'azione
drammatica, Calisso spergiura, sonetti; nelodrammi; traduzione dei treni di
Geremia, nella Marciana; dei sonetti, ve n'ha anche di publicati in raccolte;
FILOSOFICI. Delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla FELICITÀ
[cf. H. P. Grice, “Notes on ends and happiness”] umana; Calcolò sopra il valore
delle opinioni, e sopra i piaceri – EDONISMO -- e i dolori della vita umana,
Riflessioni sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per
rapporto alle LINGUE, alla LINGUA; Lettere relative; Calcolo de’ vizi e delle
virtù, nella Marciana). ATTINENTI A MATEMATICA E FISICA. Vita del P. Grandl,
Calcolo sopra i giuochi della bassetta e del faraone, con un estratto di
lettera sul lotto publico in Venezia, Calcolo sopra la verità della Storia;
Venezia; Sulla probabilità di vincite o perdite nel giuoco delle carte;
Problemi geometrico-matematici; ed altri di matematica e fisica, nella Marciana.
Parmi che molte sien cose scolastiche; in ogni modo, non da trascurarsi per gli
storici delle scienze fisiche e matematiche nel secolo scorso. RELIGIOSI. Della
religione e del governo dei popoli per rapporto agli spiriti bizzarri e
increduli de' tempi presenti, Lettere di estratto; Della confessione fra i
cattolici; Delle differenze della Religione cattolica da tutte le altre (nella
Marciana). POLITICI. Dell'autorità di persuasione e di forza fra loro divise;
Della scienza e dell'arte politica; tutti due publicati da Cicogna.
Portogruaro. Inoltre lettere, in parte stampate, in parte inedite presso
Cicogna, e le memorie autobiografiche, publicatesi da Cicogna. Ometto i saggi
che Cicogna indica solo come accennati d’altri, e ometto pure alcuni saggi che
Cicogna indica nella Marciana, ma che in parte sono manifestamente cose
scolastiche, in parte mi sembrano ricordi sceltisi d’O. per suo studio, senza
che si possano sicuramente dir cose sue, in parte son cose del momento. Del
resto non importa aggiungere se non l'osservazione, che volendosi ripublicare
scritti d’O., converrebbe far collazione delle edizioni coi manoscritti, che
servirebbero a correggerle e completarle. Riflessioni sugl’oggetti
apprensibili, sui costumi, e sulle cognizioni umane per rapporto alla LINGUA.
Degl’oggetti apprensibili, de’costume, e delle cognizione umane, per rapporto
alla lingua.\>atu jB>ttl{otFircac vMtì^^trì |^ynel tcv nr{» {« tRomaine
^«.^ieKHot .i^rtfi|/j^»jmnaj;o, L e frefentì rìfle$ont innò origine d’una
prefazsonCy cb' io volea premenere a un opuscolo filosofico, da me tradotto
pili' anni innanzi dalla lingua e poejia della Britannia nella dell’ITALIA;
nella qual traduzione efiendomì allontanato dalle maniere solite usarsi
dagl’altri in simili casi, O crede di dover di ciè render conto al lettore.
Questo non puo lui fare senza entrare a ragionare della divergiti degl’oggetti,
de’costumi, e delle cognizioni, quali pili corrono nelle diverse nazioni, e
della attiviti e spirito delle lingue diverse per esprimere tutto quefioy sia con
precisione sia con eleganza ciò che non mi riufciva mai ben di fare, ne' brevi
limiti eh' io m' era prefiPfo (f una Refezione, per quante volte in piu modi la
volgefil e rivolgevi in mente. Depofto pertanto ogni pensiero per ejfa ò
giudicato piu facile, anzi che jerivere una prefazione insignificante, di
Jìendere tutto ciò che è detto proposìto della lingua, e di cose per essa
espresse mi si presenta alla mente in un trattato completo y e inteso a questo
espressamente; il quale così non d pili che fare colla traduzione suddetta, ma
à molto che fare per quanto mi sembra, colle maniere di pensare sugli studj,
sulle cognizione umana, sugl’affari comuni, e sulla religione medesima, per
quanto code/le maniere essendo al presente diverse dalle usate a'tempi passuti
y si reputano di quelle migliori. Questto trattata dunque b Lettore, c quello
eh' io qui ti presento e che h jeritto per mia e tua ijiruzione migliore y e
per avventura dt pochtjjimi altri, e non gid di tutti; sempre piu falda in
quella mia majjima che la cognizione vera e reale ha e puo esser di pochi, a
differenza delle superficialt e apparenti, che possono e debbono ficnderfi a
molti e sempre più convinto altresì nel mio particolare, che nulla per me
/limerei di f opere di certo y fe nulla sapejji dt geometria DEGL’OGGETTI
APPRENSIBILI, DE’COSTUMI, E DELLA COGNIZIONE UMANA, PER RAPPORTO ALLA LINGUA.
vfc/ievAA<vdv> ^srssrSFST^. La favella nell’uomo è quel dono eh’egli U
'f'^'^ M ^ COMMUNICARE ad altri l’immagini pre- Oggetti ap Pii § fl Tentate al
suo cervello dagl’oggetti efter- prensibili ori» W ^ quivi combinate inpìbmodi
dalla fa intellettiva, dono e qualità più ancor sìngolare e più sublime
dell’umana natura. Quelle immagini che se non s’intendono per quello nome non
s’intendono per spiegazione d’elio veruna, sono più o men vive, a norma
dell’impressìoni che gl’oggetti llein fanno diversamente sull’un cervello più
che sull’altro, o coll’aspetto loro attuale, o colla memoria di elTi appresi
altre volte, come la ftelTa percolTa imprime orma diversa nella creta, nel
gellò, nella cera o nel piombo. E quantunque s’imprimano fors’anco su
qualdvoglia materia pur insensata, non si combinano che sulla materia animata
mediante la facoltà intellettiva suddetta, o la separazione delle più
proporzionali ed armoniche dalle più dissonanti e deformi, per la quale così
diconfi appunto combinarli A ia'è<i 1 1 ^ . infra esse. Una simile
operazione dell’intelletto tende a confrontare gl’oggetti fra loro, e d’un
sìmil confronto a rilevare su essi e per essì quelle verità, che senza ciò
rimarrebbero ascole ed ignote, non arguendosi il vero che dalle consonanze
d’alcuni oggetti con altri, siccome dalle dissonanze degl’uni dagl’altri se ne
arguisce il falso. Perchè poi delle consonanze o dissonanze d’oggetti ben
arguite è indizio l’approvazione o disapprovazìone per elle d’altri che abbiano
o non abbiano similmentc combinate quelle immagini; e perchè una simile
approvazione o disapprovazione non può conseguirsi che per qualche mezzo
sensibile per cui esprimere e partecipare gl’uni agl’altri codeste
combinazioni; quindi è dunque che un simile mezzo fu ilHtuito nella FAVELLA
(FABVLA), per la quale appellando ciascune immagini o ciascuni oggetti dai
quali quelle derivano, con altrettante voci o parole diverse, e collocando
quesse con certa disposizione e corruzione analoga a quelle, H partecipa da
ciascuno ad altri i modi coi quali gl’oggetti che occorrono all’immaginazione
son da se appresì e combinati, afHne di verificare quanto sian efTì giusti, per
quanto reflino approvati dal concorso maggior di piu altri; di maniera che
quelle combinazioni d’oggetti s’appellin migliori, alle quali più altri
preflinò un assenso più facile e pronto, e quelle s’appellin peggiori, le quali
non sìan fecondate, ma sìano all’incontro contraffate da più altre a quelle
opposse e contrarie, COMUNICATE ciascune a tutti mediante una comune favella. È
chiaro, quelle immagini combinate e COMUNICATE così altrui pella favella, non
esser diverse dai proprj sentimenti d’animo, coi quali ciascuno si manifesta agl’altri
non solo ne’proprj giudicj sugl’oggetti esterni, ma nelle proprie azioni
ancora, e negl’ufiìcj e decenze della vita comune che da quelli derivano, per
non provenire tai sentimenti che dall’impressioni appunto degl’oggetti esterni,
e dalle combinazioni che sé ne formano nelle ciascune menti. A quedo modo
parlando pella verità e fuor d’illusione, pare che 1’uomo tolto pella parte sua
fifìca, non didèrifca dai tronchi e dai faflì, se non in quanto imprimendosi si
in lui che in quelli l’immagini degl’oggetti coi quali del pari COMUNICANO,
egli solo mediante 1’anima ragionevole che lo informa, à la facoltà che non an
quelli, di segregarne alcune dall’altre e di combinarle insieme, e quindi di
COMUNICARLE colla favella agli altri, affine di verificarle, e di dedurne
quelle verità che sugl’oggetti medesimi possono per lui concepirsi, e dalle
relazioni fra quelli », t. scuoprire per quanto a intendimento mortale è
concesso, gl’usi e le convenienze maggiori alle quali dall’autore della natura
son pur desinati. Che s’egli sì lascierà trasportare dalle combinazioni casuali
che l’immagini degl’oggetti imprimeranno sui suo cervello senza scelta o
interesse alcuno, quella facoltà non è in lui diversa dalla Pazxìa, la quale in
fatti non è che un abbandono alla propria immaginazione, commossa dagl’oggetti
veduti o rammentati, e stranamente accozzati insieme. Se poi egli combina tali
immagini per le sole consonanze apparenti ed esterne di pochi particolari
oggetti a sè vicini, pelli quali pertanto ei è prevenuto per suo solo piacere e
interesse, nulla badando all’oltraggio o danno che quindi ne provenisse ad
altri, per non iflendere quelle combinazioni ai moltiffimi alr’oggetti ren-.oti
coi quali quelli avefTero relazione, e doveDero in conseguenza combinarsi;
quella facoltà si dice in lui errore, o ragione intereffata particolare, il cui
indizio è quefto d’ottener cita l’approvazione di alcuni, ma colla
disapprovazione di tutti gl’altri, potendo così l’errore eller bensì
particolare di pochi, ma non mai comune di tutti. E fe finalmente egli
applicherà a combinare le immagini colla scelta e discernimento più accurato,
ed ellefo al maggior numero d’oggetti, e dirtinguendone le relazioni e le
consonanze tanto più armoniche quanto più sparse in lontano, quali collocherù
nel miglior grado di Ibmiglianza fra elle, c quali fegregherà dall’altre colle
quali aveller quelle rapporto minore, o non ne avelfer nelluno; allora ei
ftenderà l’interdlè e il piacere che da tali combinazioni derivano, da sè ad
ogni altro, senza oltraggio d’alcuno, e una tal facoltà fi dirà \n\n\ verità o
ragione comune, come quella che riconofeiuta da tutti, non potrà contrallarfi
da alcuni, o contradata da alcuni, relterà ognor vendicata dall’allenfo comune
di tutti gli altri. Quello dà facilmente a conofeere, come gli uomini in
generale, mediante la facoltà intellettiva suddetta, o l’anima ragionevole che
gl’informa, paffino dall’insensatezza alla pazzia, col combinare gl’oggetti
fortuitamente ed a caso; e come dalla pazzia pallino all’errore, combinandoli per
proprio solo inteTcfle e piacere SENZA RIGUARDO AD ALTRI – of course you don’t
until I tell you --; e come finalmente dall’errore fiano tutti condotti alla
verità loro comune, pella quale combinandoli per interelTe e piacerecomune,
agitati dapalTioni particolari, ma corretti e follenuti pelle comuni, tutti pur
infiemc fudidono. E febbene tal non fia d’elTi in particolare, per provvidenza
pure particolare, giacché quafi tutti invero dalla pazzia o dalla inconseguenza
nella quale si trovano da BAMBINI, padano all’errore nel qual si trovan
d’adulti, ma non tutti da quell’errore padano alla verità comune, nella qual si
trovan ben molti nell’età più matura, ma tutti non vi si trovan che al punto
ellremo di vita; tal però è d’elliin generale per provvidenza eterna. Che
s’alcuni spiriti timidi e ombrofi giudicano l’errore più comune della verità,
in quanto gl’uomini bene spesso contrallano, e non cosi di leggieri s’accordano
ne’loro penfieri; ciò nondimeno la verità fi feorgerà sempre dell’error più
comune, in quanto elTa in etì'etto o previene, o modera, o pon fine sempre a
quei contraili medellmi anco ad onta loro, fenza di \ che nulla v’avrebbe di
certo nelle combinazioni d’immagini, nelle cognizioni che ne derivano, e nelle
azioni per le quali fi fulTide, che da tali cognizioni dipendono, contro
l’esperienza manifesta, giacché pur fi fuflTifte. Ma intanto quindi apparisce,
come non edendò LA LINGUA idituite che per esprimere e COMUNICARE altrui i
proprj sentimenti dell’animo o le proprie combinazioni d’immagini, per quindi
rilevare quanto ciafcuno per le vie dell’insensatezza, del delirio, e
dell’errore nello dato materiale, di bambino, e d’adulto proceda nell’età ferma
alla verità comune nella quale alhn s’adagia e tranquillo fudide; la cognizione
di quelle dipende dalla conoscenza di quede. Ond’è che per ben ragionare della
NATURA DELLA LINGUA dove ragionarsi PRIMA della cognizione umana da manifedarsi
per quella ad altri, non edendo certamente podibile ragionare o intender i
mezzi coi quali conseguire un fine, senza la conoscenza di quedo fine medesimo.
Siccome ancora da qued’edèr LA FAVELLA intefa a esprimer ioltanto la propria
cognizione falle verità o dilla ragione comune, e dall’cder eda propria del
solo uomo, si rileva, al W solo uomo dunque eder dato il penetrare
coll’intelletto e r alzarfi a simili cognizioni, occulte a tutt’altre Ibdanze
anco animate, ma prive della favella; in guisa che siccome ei solo possede la
favella, cosi ei solo in queda vita mortale è dedinato dalla provvidenza eterna
alla conofcenza delle cofe per una simil ragione, non odante il deviamento da
eda di alcuni, riconoicìuto sempre dalla ragione medefima a tutti gli altri
comune. Per comprender meglio le cofe fuddette, e come gli oggetti combinati
nelle ciafcune menti si comuni- Della fornichino altrui mediante la favella, O.
confidera da un 8'9 canto, che fogliono quedi del continuo rinovarli gli . uni
negli altri secondo alcune leggi di moto in che consiste la vita, e la essenza
di tutte le cose mortali, e senza di che refterebbe il tutto coperto e ingombro
di quiete, morte e nullità eterna. Quelle leggi sono collanci e invariabili,
cui natura non preterifce giammai, come si dimollra nel lirico, e da quello li
arguifce pur nel morale, per la ragione di non procederfi a quello che per le
vie di quello, o per la Icorta de’sensi, onde non poter formarli regola per lo
morale che non è in conformità a quelle per cui si conofcc proceder il fisico.
Pertanto gl’oggetti rinovati per tali invariabili leggi, debbono altresì elTere
invariabili e fra loro consimili, ciò eh’ è molto conforme all’ armonia
universale e alla concordia di tutto il creato, non prodotto dal caso cieco e
impossibile, come figurano gli fpenfierati, ma ufeito di mano di un folo,
eterno e sapientidìmo autore. O. confidera dall’ altro canto che quella
somiglianza d’oggetti la quale feorre da tutti ein in cialcuna specie a tutti
ein nelle innumerabili altre fpezie nelle quali lì trovan divifi, non toglie
che gli oggetti medefimi non fian fra loro diverfì, colla diflerenza ancora che
gli oggetti della HelTa fpecie come fon fra lor più confimili, così fono meno
diverlì dagli oggetti nell’ altre fpecie, dai quali più e più diverlìficano.
Ciò che non può provenire che dalle modificazioni diverfe e infinite, colle
quali procede il moto medefimo fìsico o morale fra gli oggetti. tutti creati, e
che pur concorda colla potenza e sapienza infinita del fupremo autore della
natura, cui non conviene replicar un oggetto nelle varie o nella llella fpecie
di elTi, e colla varietà di natura medefima, cui difdice ad altri fpogliare
delle infinite forme di oggetti de’quali è adorna, per rellrignerla folo ad
alcune. Quelle confiderazioni Habilifcono dunque quella verità, che gl’oggetti
creati fono bensì tutti Confimi^ li y per le llefle collanti leggi di moto
fisico o morale per cui fullìllono, ma che fono altresì tutti Diverfi, pelle
diverfe modificazioni di codello moto che procede colle tnedefime leggi,
fcorrendo quella Ibmiglianza e dilTomiglianza per gradi inrenfibili dagli
oggetti di ciafcuna Ipecie a quelli di tutte le altre contigue dal regno
minerale al vegetale, e dal vegetale all’animale fisico, e lo stesso dee
intenderli del morale, come è noto ai naturaliHi e agli altri filosofì per quel
misero finitefìmo di natura che fi trafpira, e dal quale foltanto lice arguir
di tutt’ella. Tal ogni oggetto in ciafcuna fpecie nel confumarlì procede per
gradi di fomiglianza indifcernibile, e conferva i caratteri della fua fpecie
con sè medefimo, e cogli altri ne’ quali va a riprodurfi, paflando per insensibili
gradi di modificazioni diverfe da uno flato all’altro prima nella fua fpecie, e
pofcia da quella ad altre contigue più e più così fimili e refpettivamente
diverfe in infinito, finché dal tronco più informe e infenfato, fi pervenga
all’uomo megfioorganizzato e più faggio. Siccome dunque il moto è la caulà di
tutte le produzioni create, cosi certe leggi di elfo Habili fon la caufa per
cui fi producono e n confervano elle tutte confimili; e le diverfe
modificazioni di un moto che procede per le medefime leggi, fon la caufa della
diverfità di ciafcuni oggetti in ciafcuna delle loro fpecie e in tutte le
fpecie loro, reflando così il creato uniforme e moltiforme, perchè prodotto e
confervato per quel moto, per quelle leggi, e per quelle mifure e modificazioni
di elio . Senza moto, non vi avrebbe cofa alcuna in natura . Senza leggi di
elfo, non vi avrebbe per il moto che un caos di follanze confufe ed incerte, e
da una rapa per efempio ufcirebbe una rofa, da una rofa una ferpe, da una ferpc
un coniglio, ma il tutto informe e inoHruofo fenza diHinzione e progreflìone di
fpecie, con ifconvoglimento di tutto il creato . Senza modificazioni diverfe di
moto, per elfo e per le fole fue leggi non s’ avrebbe in natura che una fpecie
di follanze inalterabili, folTer poi elTe tutte rofe, tutte rape, tutte ferpi,
o tutte conigli. £ folainente per un moto che proceda per le medefime leggi e
per diverfe modificazioni di eflb, può formarfi e confervarfi in natura quella
uniformità e varietàdi follanze, per le quali effa pur fi vede ordinatamente
fuflìftere . Che fe la rofa verbigrazia è più fimile alla rofa che alla rapa,
alla ferpe, o al coniglio ; ciò non deriva da diverfità di leggi, ma da
diverfità di modificazioni in un moto, che ferbando le leggi medefime, più che
da rofa a rofa, procede da rofa a rapa, a ferpe, a coniglio. E d’altronde la
rofa, la rapa, la ferpe, e il coniglio fi diran fempre fimili, perchè prodotti
per le flefle leggi motrici, avvegnaché fempre diverfe per le diverfe
modificazioni di quelle. Alcune di quelle leggi colanti di moto, e di quefte
modificazioni di eflo diverfe particolari, furono alìegnate e conofciute dai
geometri, ma il pretender di tutte raccorle con mente mortale, o di portarli da
quelle che fi conofcono alla maffima di tutte dalla quale per avventura tutte
dipendono, farebbe lo ftelloche pretendere di mifurar l’infinito con una
fpanna, non che di infonder l’oceano in un bicchiere. Che però gli oggetti fan
fempre diverfi, fi conofce maffimamente da ciò, che la detta rofa verbigrazia
non è già alla fera qual era al mattino, e un uomo non è in vecchiaia qual era
in giovinezza, e io flefib può arguirfi d’ogni altra cofa che abbia fenfo onon
lo abbia. Quella variabilità poi negli oggetti creduti più volgarmente gli
flefii, dee maggiormente feorrere Irai creduti diverfi, contemporanei o
confecutivi, nella fielTa fpecie e nell’ altre eziandio contigue e diffimili ;
dimanierachè non folamente tutte le rofe fian diverfe da tutte le uova, e tutte
le uova da tutti gli uomini, ma di tutte altresì le rofe, di tutte le uova, di
tutti gli uomini, non ve n’ abbian pur due, fra i quali non corra qualche
indifccrnibile difparità, mercecchè lefolfer perfettamente le fteffe, non due
ma una farebber quelle rofe, queir uova, quegli uomini, e la prima divina caufa
motrice non più infinita, ma farebbe limitata e finita. Ciò che negli uomini
può arguirfi dai fesni ancor materiali edefierni, per cui ciafcun d’eiTifi
didingue da ciafcun altro per iembianze di volto, di voce, di carattere, di
portamento e (Imili, e lo liefFo avverrebbe delle rofe, dell’ uova, e de’ grani
ftefli di miglio, fe fe n’ avede una pratica corri fponden te . E quel che
avvien delle rofe, dell’ uova, de’ grani di miglio, dee avvenire d’ogni altro
oggetto particolare minore e maggiore, e del compleflb di più altri ancora
vifibili e invifibili ad occhio umano, della terra, degli adri, delie
codellazioni, e di tutto infomma il creato . Così la terra fempre a sè defla
confimile, è pur fempre dasè diverfa, e dove al prefente forgonole città, v’
aveano ad altri tempi i deferti, dove s’ alzano! monti, fcorrevano i fiumi o i
mari, e viceverfa ; alla quale diverfità fi procede per gradi quanto
infenfibili, tanto continuati e incelTanti. Gli oggetti dunque creati pafTati,
prefenti, e futuri fono tanto fimili per le delle leg^i di moto, quanto diverfì
per le infinite modificazioni, colle quali può edb variare, padandofi per
infiniti gradi e in infinite maniere di madima fomiglianza e di minima varietà,
dall’uno all’altro nella deda fpecie, e dall’ una eziandio all’altra delle
infinite fpecie contigue di eflì, e accodandofi ciafcun uovo ^r fomiglianza, e
fcodandofi per diverfità da ciafcun altro o da Ciafcuna rapa, per oggetti
infiniti intermedi va rie fpecie, fenza però mai adomigliarlo o didbmigliarlo
del tutto; vale a dire fenza effer del tutto quel dedb o quella rapa, o senza
didrugger del tutto l’altr’ uovo o 1’altra rapa . Quel che s’ è detto degli
oggetti filici, dee pur applicarfi ai morali, giacché fìcome quelli fi
confervano e fi rinnovano io ciafcuni per le deffe leggi di moto fifico, così
operan quedi per le deffe leggi di moto morale che da quello dipende. In
confeguenza di che 1’ equità, il valore, la codanza, 1’ amore e gli altri
affètti umani virtuofi [Oggetti come apprefì diverfamente . ] tuofi o viziofi
ancora, fi diran propagarfi dagli uni agli altri in ciafcuni fempre conlìmili,
ina tuttavia diverfi, non folo ciafcuni in genere, ma nelle loro fpecie ancora
in ciafcuno individuo, come paffioni bensì confimili, ma che fono modificazioni
diverfe d’ una verità o d’un errore, eh’ ellendo lo fielfo e indivifibile in
ogni paflione, è nondimeno vario in qualfivoglia fua apparenza o modificazione
particolare. Tallo Ipirito di conquida per efempio in Alelfandro, in Maometto,
in Roberto Guifeardo, o il genio di filofofia in Salomone, in Numa, in Marc’
Aurelio, o il fentimento di libertà comune in Giunio, in Catone, in Gregorio
VII-, furono ciafeune paffioni medefimein sè llefle, benché ciafeune
diverfamente modificate in ciafeune di quelle perfone, attefe le diverfe
circollanze de’ tempi, e le varie difpofizioni de’ popoli, per le quali ancora
furono diverlàmentc fecondate, e iortirono vario efl'etto. La fomiglianza e
refpettivamente diverfità d’oggetti fuddetta, è quella che coliituifce le
diverie relazioni fra effi, non riferendofi un oggetto all’ altro che per
quanto ad effo è fimilc, o da effo è diverfo. Le quali relazioni così fono
infinite, per gl’ infiniti gradi di fomiglianza e di diverfità, coi quali gli
uni fi accodano agli altri o fi feodan da quelli, e per li quali podbno infleme
paragonarli, fia l’uno coll’ altro nella deda fua fpecie, fìan gli uni cogli
altri nelle fpecic loro diverfe. Qui prima di proceder più oltre, piacemi
avvertire, che parlando io d’infinito, comeò fatto innanzi e farò in féguito,
non intendo parlarne come di cofa eh’ io comprenda per sè, ma come di cofa eh’
io non intendo che per approlfimazione, immaginandolo qual conviene a mente
finita, vale a dire qual finito, maggiore di quanti pollano alfegnarfi giammai
in ciafeuna fua fpecie ; inguifachè egli fia per l’aggregato di più e più
finiti fenza fine di quella Ipe cie eie d'oggetti di che fi tratta, per cui fi
porga all’ intelletto umano queir idea qualunque incompleta, che àffi
dell’infinito, fenza perciò che fi confegua elFo, o fi raggiunga a comprendere
polìtivamente giammai. Ciò avviene per le forze intellettuali umane limitate al
contrario e finite; perciocché fe ad intelletto umano fofle dato di apprendere
verbigrazia tutti gli oggetti e tutte le infinite relazioni fra loro, un
intelletto tale non farebbe più umano o finito, e non combinerebbe gli oggetti,
nia farebbe un Dio, che fenza combinarli li apprenderebbe tutti ad un tratto,
come quegli che li avefle creati, e ne avefle ordinate le relazioni di tutti i
luoghi, e di tutti 1 tempi. £ quan* tunque di quella conofeenza l’uomo fcevro
dai lenii, per quanto comporta il grado di fua intellettualità, fia per
partecipare nella vita avvenire ; nella prefente di che II tratta, non potrà
egli mai flenderfi in elTa che per quanto lo conducano le tracce limitate
de’fenfi medefimi, reflrignendofi così le fue cognizioni ad alcuni oggetti per
combinazioni foltanto finite, fenza fìenderfi a tutte per comprenfione d’ efiì
intuitiva e infinita . Ciò porto, non dirtinguendofi per or gli oggetti che per
le lor dette relazioni diverfe, ed elTéndo tali relazioni per ciafeuni di erti
tanto infinite, quanti i gradi di fomiglianza odi diverfità, co’ quali poifan
fra lor riferirfi, fia nella ftefla, fia nelle fpecie loro diverfe,
corrifpondenti alle infinite modificazioni d’un moto che procede colle medefime
leggi; ciafeun intelletto particolare, che per le forze fue limitate dee
apprenderli non per tutte, ma per alcune fole di tali relazioni, dovrà
apprenderli per relazioni diverfe da quelle, per le quali le apprenda ciafeun
altro, e in confeguenza dovrà apprenderli diverfamente da tutt’ altri . In
ellctto dovendo la fomiglianza e diflbmiglianza fra gli oggetti a|>prenderfi
da ciafeun intelletto finito ad un modo, edeffendo infiniti i modi, coi quali ciafeun
oggetto può paragonare come fimile o diffimile agli altri ; non potrà di quefti
infiniti modi quello col quale apprende quell’oggetto uno, effer quel delTo col
quale lo apprende un altro, ma dovrà l’uno effer dall’ altro diverfo, per
quanto pur poffa efier a quello più e più confimile. A quello modo faran gl’
intendimenti umani per gli oggettr medefimi tanto diverfi, quanto le loro
fifonomie o alia) C.II, n.^. tre fembianze loro efterne fuddette che poffono
bensì affomigliarfi in bellezza o in deformità, ma non mai in modo di effer del
tutto le fteffe, o di non corrervi qualche differenza, per cui uno non fi
ravvifi o non fi diflingua, pollo al confronto coll’altro. Ed efIcndo gli
oggetti diverfi e confimili, e le relazioni fra effi infinite ; di infiniti
ancora intelletti umani fe fìa poffibile paffati, prefenti, e futuri, fu i
quali cadano le immagini d’unaflella, d’un fiore, d'un fallo, non ve ne avran
pur due che le concepifeano ifleffamente a per le medefime relazioni ad altri
oggetti, ma farà 1’ immagine di quella (Iella, di quel fiore, di quel faffo
diverfa nelle ciafeune menti di quelle infinite perfone, confimile però più o
meno l’una all’altra, quanto queflc relazioni fian più proporzionali ed
armoniche, ancorché armoniche e proporzionali Tempre dìverfamente. Fuori di
quello cafo non due, ma uno farebbero quegl’ intendimenti, i quali ConcepilTero
gli flelli og. getti per le fleffe immagini, o riferiti ad altri oggetti per le
fleffe finite relazioni delle infinite che ve n’ànno, ciò eh’ è impoffibile.
Qui occorre offervare, come non è folamcnte la diverntà degli oggetti apprefi
avvertita difopra (r), ma quella ancora delle relazioni loro agli altri diver\
(g gjjg (j avverte al prefente, per cui fi concepìfcano quelli da ciafeuni in
vario modo, tanto al medefimo tempo uno lleflo identico oggetto, quanto à tempi
diverfi quell’ oggetto a sé confimile, ma da sè diverfo a diverfi tempi in sè
fleffo o nella fuafpecie. Per la qual cofa Tolomeo per efempio, Ticonc, e
Galileo n diranno aver tute’ a tre immaginato il Sole ' diverlamente,
quantunque il Sole veduto dal primo in Alessandria à Tuoi giorni, non folTe
identicamente lo Iteflo che il veduto per avventura dai due altri all’ idei fo
giorno, quattordici fecoli dopo nella Dania o in Ita* lia, ma folle da quello
infenfibilmente dillimile, per rinfenfibile alterazione fofl'erta da ogni
corpo, e in confeguenza da ogni pianeta nella Tua durata medefima, come s’è
veduto. E ciò per le relazioni finite del Sole dell’uno e dell’altro tempo,
tolte dall’ infinità di tutt’ elle cogli altri oggetti di qualfivoglia tempo,
per le quali relazioni cialcun dei tre potea concepire il Sole, e didinguerlo
dagli altri oggetti, o paragonarlo con quelli. Quello è ben vero che la
diverlìtà, colla quale fi concepifcono da piò perfone al medefimo tempo e nel
medefimo luogo gli oggetti identici, farà molto minore di quella, colla quale
fi concepifcano a tempi e luoghi diverfi oggetti folo confimili, per variar
appunto in quello cafo gli oggetti ancora da sè medeiìmi, e concorrer cosi non
una, ma due ragioni a diverfilìcarne le immagini . Ond’ è che ne’ diverfi
luoghi e a diverfi tempi, fi dovrà ragionare di oggetti conlimili con più di
diverfità, di quel che fi ragioni al medefimo tempo e luogo di oggeui identici
llelfi. Del rimanente quella maniera in ciafcuno diverfa d’ immaginare gli
oggetti llelfi o confimili, fi riconol'ce dai giudici diverlT che fe ne formano
daciafcuni, i quali giudici dipendono appunto da tali immaginazioni. Se quei
giudici fugli oggetti llelfi folTer gli llelfi, allora potrebbe dirli, che
quegli oggetti follerò apprefi e immaginati illelTamente . Ma giudicando
ciafcuni diverlamente del color verbigrazia rolFo o del azzurro, convien pur
dire, le immagini di quelli colori eflér diverfe nelle ciafcune immaginazioni.
Anzi fe un giudicalTe del rolTo come un altro dell’ azzurro, potrebbe dirfi,
apprender quegli perrolTo quel cheque /V! Oesetii come nominati per la fteffa
favella. ’fti apprendelTe per azzurro, e viccverfa . Ma ciò non è vero nemmeno
e attefa la infinità delle relazioni di ciafcuni oggetti a tutti gli altri, e
la fingolarità iti ciafcuni di apprenderli (/»), le immagini d’cfTì deftate fui
ciafcuni cervelli fon fcmpre diverfe, come diverfi ne fono i giudicj, e non
folo uno apprende ciafcun colore, ma li apprende ancor tutti in vario modo da
ajuel che li apprenda ciafcun altro, inguifachè il rollo, r azzurro, il bianco,
e il nero imprimati di sè diverfe immagini fui ciafcuni cervelli non mai le
Itelle, e non mai permutate, ma fempre diverfe e impermutate, avvegnaché fcmpre
conlimili. P orte quefte confiderazioni fulla diverfità degli oggetti, e fulla
maniera in ciafeuno diverfa di concepirli, per apprendere come querto
concepimento fi comunichi da ciafeuno ad altri mediante la favella, è da
avvertirfi, noneflcr certamente portibile il communicarlo per voci del tutto
corrifpondenti, e che il figurarfi un efatta analogia fra le immagini colle
quali s’apprendon gli oggetti, e le voci colle quali s’ efprintono, è figurarfi
un aflurdità . Imperciocché ert'endo ciafcun oggetto infenfibilmcnte diverfo da
ogni altro in ciafeuna e in tutte le fpecie, dovrebber le voci colle quali
fignificarlo, variar infenfibilmentc com’eflb dall’ altre voci colle quali
fignifìcar gli altri oggetti, ed crtér così le voci tante quanti fofler gli
oggetti individui, appellandofi oggetti confìmili ma noniilertì, con voci pur
confìmili ma non iftelTe in partato, al prefente e nel futuro; anzi
appellandofi con voci diverfe una rofa fterta per efempio al mattino e alla
fera, e un uomo ftertb prima e dopo una febbre quartana. Oltre ciò per effer
ancora le immagini di quelli oggetti medefimi nelle ciafcuni menti diverfe, o
per apprender ciafeuno gli oggetti diverfamente da un altro, ne dovrebbero
altresì le efpreffioni diverfifipre nelle ciafcuni bocche irtertamente, o
dovrebbero le favelle cfler tante quante le perfone favellatrlci, eiafeuna
delie quali apprendendo gli oggetti così diverfi per relazioni eziandìo diverfe
ad altri oggetti, dovrebbe altresì pronunciarli in modo diverfo . Ognun poi
..vede quel che avverrebbe per un fimil garbuglio di favelle, per cui non
farebbe poìTibile intenderli fra padre e figlio, o fra marito e moglie, più che
fra gli antichi fabbricatori fcefi dall’ altiflima torre di Babelle. Poiché
dunque non è poHìbile applicar alia favella, nè la diverfità degli oggetti
individui, nè quella delle immagini loro nelle cìafcune menti, ed è pur
necelTario che quelle immagini lì comunichino dagli uni agli altri, per
conofeere quelle verità che da mente nmana polTono concepirfi nello flato di
vita mortale; non refla fe non che gli oggetti s’efprimano per voci identiche
flelTe accordate per confenlo e per ufo, per le quali gli oggetti o le figure e
immagini loro, s’ efprimano non elattamente, ma proflimamente, e non già per
quanto farebbe neceflario, ma per quanto foltanto è poflibile ; in guifachè
elTendo tali immagini tutte fimili e tutte altresì diverfe, le voci
corrifpondenti le efprimano bensì efattamente quanto alla lor, fomiglianza
comune, ma non quanto all'individua loro diverfità. Quello è ciò che avviene in
efietto, mentre oggetti precifamente non iflelTi, e non concepiti da ciaIcuno
ifleflamente, s’appellano non per tanto con voci flefle precife, e un faflb per
efempio, un fiore, una ilella fi proferifeono fermamente con quelli flabili
nomi quafi folTer indifcernibilmente gli llefli, e li concepiflero
ifleflamente, quando per verità non lo fono, e fono da ciafeuni ^preli in
maniera diverfa . Con ciò fi vede, come effetto della favella è quello di
rellrigner il numero degli oggetti e dellefimmagini loro indeterminato e
infinito, a numero tanto finito, quanto quel delie voci colle quali fogiiono
profcrìrfi gli oggetti medeOmi per quanto fono confnnili, e non per quanto fono
diverfi, giacché alla ìftcflTa voce d’ una lUlla, d’ un fiore, d’ un fafTo non
fi deflano in ciafcu* ni le flelTe immagini, ma fi deflano tanto diverfe,
quanto quella (Iella, quel fiore, quel fallo cosi appellati fono
individualmente variabili, e fi riferifcono da ciafcuni non agliflefli, ma ad
oggetti altri diverfi pur variabili, ed apprefi diverfamente, e appellati
tuttavia per quelle voci. Un tal lavoro poi non può feguire, che mediante cert’
ufo e certa convenzione di quei particolari che piò comunicano di immagini e di
voci, di appellar appunto con voci immutabili e precifamente ifleffe, oggetti
individui e immagini loro, che non fono le flelTe colla precifione medefima,
fia per sè fia nelle ciafcune apprenfioni; o di appellar verbigrazia col nome
immutabil di rofa un oggetto tanto variabile quanto una rofa, e lo flelfo dee
dirfi d’ogni uomo e d ogni altro oggetto particolare per sè vario, ed apprefo
da ciafcuno in vario modo, ancorché pure confimile . La qual convenzione e il
qual ufo è arbitrario, e libero, mentre come fu convenuto di appellar r acqua e
il fuoco con tali denominazioni, cosi niente impediva che non fi convenirle di
appellare alJincontro 1’ acqua col nome di fuoco, e il fuoco col nome di acqua.
Perché poi poflbno gli uomini convenire di chiamar gli oggetti per quanto fono
confimili con al. gypg yQgj jjQj, poflono convenire di render quegli oggetti
cosi invariabili come quelle voci, o di concepirli ciafcuni al medefimo modo ;
quindi avviene che r analogia delle voci invariabili cogli oggetti variabili in
sè fleflì, e nelle ciafcuni immaginazioni, non può verifìcarfi che molto
imperfettamente, o in quanto fi affuman per oggetti invariabili, quelli che in
effètto non fon tali che per approlTimazione, variando eflì d’altronde del
continuo per gradi infenfìbili e indeterminabili. In fatti quelli oggetti eie
maniere di concepirli, cangiano del continuo non can giangiando le voci colle
quali s’appellano, ed emendo le voci in ogni lingua tanto finite, quante
poffononumerarfi ne’ Dizionarj, gli oggetti e le immagini loropoffono dirfi
tanto finite, quante le innumerabili modificazioni di moto, dal qual derivano
quelli, o le innumerabili relazioni degli uni oggetti a tutt’ altri, dalle
quali derivano quelle in ciafcuno . Il qual ciafcuno benché apprenda oggetti
finiti per relazioni finite, per eller però quelli e quelle in infinito
variabili, li apprende in guifa diverl'a da quella d’ ogni altro, febben in
guifa d’ogni altro conlimile (<?), per le medeli me leggi di moto, per le
quali fi confervan gli oggetti, proferendoli però lempre per le ftelfe invariabili
voci d’ ogni altro. Onde redi pur llabilito, la moltitudine di oggetti e d’
immagini loro nelle ciafcune menti, effer a numero incomparabilmente maggiore
della moltitudine delle voci, colle quali pofian quelli denominarfi ed
efprimerfi . Un contralTegno efpreflb della detta imperfezione d’ analogia fra
le voci, e le immagini d’ oggetti per effe fignificati è quello, che ciafcuno
nello fpiegare altrui le proprie immaginazioni oi propri fentimenti d’animo,
non trova cosi pronte le voci che gli occorrerebbero, ech’ei defidererebbe,
come trova le immagini, e non v’è cofapiù familiare, quanto il dolerfi uno di
non poter per voci dar così bene ad intender ad altri ciò eh’ ei fente e
intende per sé medefimo, di che gli amanti foglion lagnarli il piò fpeffo. Ciò
che non può derivare, che dal conofeerlui molto bene, che gli altri per quelle
voci non apprendon gli oggetti per elle efpreffi, com’ei le apprende, ma li
apprendono in modo piò o meno diverfo, e che quelle voci dellando nelle altrui
menti non le lleffe, ma confimili immagini, fpiegano ad altri una verità
apprefa fempre con maggior chiarezza da quei che la proferifee, che da quegli
cui vien proferita . Lo che fi verìfica tanto delie menti piò chiare che delle
piò confufe, effendo certo che ficcome un uomo fensato per quanto ei fia
eloquente, intende meglio i fuoi penfamcnti di quel che gl’ intendano altri ai
quali ei li fpieghi per voci ; cosi un inCenfato ancora, benché non intenda lui
ftelFo quel che vuol dar ad altri ad intendere, è però fempre mcn capito da
altri di quel eh’ ei capifea sè HelFo, ed è fempre men feimunitoin sé, di quel
eh’ ei fia concepito da altri. Applicate come fopra una volta alcune voci ad
Oggetti co- jlA. alcuni oggetti in certo luogo e a certo temine nominati po, fe
quelle voci come fono finite riguardo a per favelle quegli oggetti, così il
follerò riguardo a fe ftellé, ® avellerò con quegli oggetti una necclTaria
connef qiie(p applicazione avrebbe dovuto elTere univerfale di tutti i luoghi e
di tutti i tempi, e non v’ avrebbe al mondo che una favella, la quale formata
una volta, fi farebbe prefervata dappertutto la fiefla, invariabile per tutti i
fecoli, per efprimer gli oggetti per quanto almen fono fimili, fe non
(l)C.iy.n.t. per quanto Ibno diffimili. Il fatto però è, che febbene le voci
lian finite riguardo agli innumerabili e infiniti oggetti per elle efprefli,
fon però elle pur innumerabili e infinite riguardo a sè medefimc, fenza perciò
avere quella infinità relazione alcuna con quella ; mentre laddove quella degli
oggetti dipende dagli infiniti modi, coi quali procede il moto, che per le
ItdTe invariabili leggi li prelerva e li rinuova in ciafeuna e in tutte je
fpecie; quella delle voci dipende dai moti pur infiniti, co’ quali l’aria
fiella può ufeir dalle labbra, fpinta e percolla dagli organi della favella, e
quei modi non àn che fare con quelli. Quindi apparifee perchè le lingue abbiano
ad elTer diverfe a diverfi tempi e nei diverfi luoghi, perciocché elléndo le
maniere, colle quali le voci poffono articolarfi infinite, c dovendo elle
adoprarfi a numero finito per elprinier oggetti mcdelimi e confimili, benché
infiniti j non v’à ragione perchè a quell’ 'it nfo s’adoprino l’une anziché
l’altre di effe, o perchè CAP. vA un faflo, un fiore, una della appellati ora
in Italia con quedi nomi, non fodero appellati o non foder per appellarli ad
altri tempi in Italia o altrove con nomi diverfi. Per quedo s’è odervato, gli
oggetti non appellarft con certe voci, che per convenzione particolare divifa
fra quei che più comunicano d’ immagini, a efclufione di tutt’ altri chemen
comunicano, non potendo quelli eder mai tutti. E perchè l’infinità delle voci
nonà alcun rapporto a quella degli oggetti, quindi è ancora che una tal
convenzione non è neccllaria per certe voci, ma è libera ed arbitraria per
tutte, e dove s’applicano ad oggetti dedì e confimili alcune di ede, dove
alcun’ altre, e quando quelte, quando quelle, fempre diverfe perchè Tempre
finite, tolte dall’infinità loro intiera. Se l’tina infinità fode relativa all’
altra, il farebbero pur 1’ una all’altra quede applicazioni, ma moltiplicandofi
allora le lingue colle imma< ginazioni delle perf>ne in infinito, ne
feguirebbe quella babilonia di lingue odèrvata di fopra per cui non farebbe più
podìbile fpiegarfi gli uni cogli altri, e per eder quede infinite quante le
perfone di tutti i tempi e di tutti i luoghi, non farebber nediine in alcun
luogo, o ad alcun tempo. Come poi egli avvenga, che LA LINGUA una volta
introdotta si cangia in altra ai diverfi tempi e ne’diverfi luoghi, si comprenderà
da ciò, che dovendo gli oggetti per le voci didinti eder gli dedi per le dede
invariabili leggi di moto, ma dovendo ciafeuni in ciafeuna fpecie rinovarfi con
infenfibili difparità per le infinite modificazioni o mifure di quedo moto
medefimo (c)j dovranno dunque efll appellarfi per le (f)C. //. ». 2 . voci una
volta loro affide e applicate, in guifa però che confervandofi quede le dede
per lo primo riguardo, fi vadano insensibilmente alterando e degenerando in
altre per lo fecondo. Queda ragione s’ avvalora e s’accrefee per le nuove arti,
per le quali gli oggetti e amedefimi e confìmilì fi fan fervine a nuovi ufi,
a(Tumendo eflì quindi pur nuove denominazioni c divcrfe di pria, e
introducendofi nelle lingue nuove voci a efclufione di altre all’ introdurfi di
nuove arti, collo fmarrirfi delle antiche. Dell’introduzione di nuove voci in
qualfivoglia lingua fon prova evidente tutte quelle, che nelle lingue vive
fervono all’ arti di nuovo introdotte nella milizia, nella meccanica, nella
fiampa, e fimili ; o quelle colle quali fi fpiegano le nuove foggie di vediti,
di mobili, di utenfili e così feguendo, le quali prima dell’introduzione di
tali arti e foggienon potevano avervi. E della perdita delle antiche fono
indizio quelle innumerabili nelle lingue morte, fulle quali indarno fofifiicano
gli eruditi per trovarvi il fignificato nell’ arti ed ufi di oggetti prefenti,
quando meglio dovrebbero non penfarvi, come ad appartenenti ad arti ed ufi di
oggetti già fmarriti, e la cui conofcenza col fignificato di tali voci rimarrà
fempre irreparabilmente perduta . Perciocché il figurarfi che al forger di
nuove arti o di nuove maniere di fuflillere non abbiano generalmente a
fopprimerfene e a perire altrettante, è una puerilità e debolezza di mente, per
cui fi credan gli uomini in genere più fiupidi o più fvegliati, e più taciturni
o più loquaci a un tempo che a un altro, ciò che non fi darà mai ad intendere a
chi meglio intenda la fpecie umana, e la natura generai delie cofe. Variando
dunque infenfibilmente gl’oggcìt loro ufo per ordine di natura, e quindi per
difpofìzione d’ arte ; le lingue altresì debbono variare infenfibilmente per
efprimere quegli oggetti e quegli ufi, finché col lungo corfo di fecoli quelli
e quelle prendano nuovi afpetti, refiando gli oggetti gli rteflì per le fiefie
leggi di moto, ancorché diverfi per le diverfe modificazioni di quello ; e
refiando le lingue pur le lleflè per la llelTa perculTìone d’aria dai polmoni
foIpinta, ancorché fempre diverfe per le diverfe articolazioni di voci
provenienti da quella percufiione, modificata in varie maniere. Ad accrefcer
però e ad affrettare moltiffìmo una fimile alterazione e rinovazione di lingue,
s’ aggiugne la mefcolanza di popoli di lingue diverfe che comunichino di
favella; perciocché appellando gli uni e gli altri oggetti fteffi o confimili
con voci diverfe, e non avendo ciafcuni maggior ragione di così appellarli, è
pur forza che riefcano a inferir gli uni le loro voci nelle voci degli altri,
onde imballardite così le lingue, vengan di due a formarfene una o più altre di
quelle compone, e da quelle del pari diverfe. Egli è poi da oflervare, come per
cffer gli oggetti confimili fempre divertì, e per eflere una tal diverfità
molto più notabile a tempi e in luoghi difparati (a) ne’ quali s’ufino favelle
diverfe, che alloflef- v.]. fo tempo e luogo, ove non fe n’ufi che una ; quegli
oggetti efprelTi in un tempo e luogo con favella d’altro tempo e d’altro luogo,
non fi concepifcono perciò quali furono o fono a quei tempo o in quel luogo
natio, ma feguono a concepirfi quai fogliono in quello, colla fola diffferenza
di replicarli così in mente, e di cfprimerli altrui con favella ancora
ftraniera . Cosi le produzioni ftefre di animali, di piante, di minerali, più
diverse nell’antica Italia e nella presente Britannia di quel che il fiano
nell’ Italia prefente, efprelTe qui ora colle voci italiane antiche o colle
presenti britannici, non si concepifcono quali sono in Italia anticamente o
quali sono al prefente nella Britannia, ma quali sono al prefente in Italia. £
sebbene per la voce VIR si fìgnifìca verbigrazia allora in Italia un uomo come
un Lentulus, e per la voce britannica man si significa ora nella Britannia un
uomo come un Richard, e per la voce uomo si concepisca ora in Italia un tale
come un Giampietro. Per tutte quelle voci VIR, MAN, UOMO, -- cf. Locke, a very
rational parrot -- si concepirà ora in Italia del pari un tale come un
Giampietro, e non mai come un Lentulus o come un Richard. Lo che fi dice per
avvertire, che la cognizione delle lingue morte o vive Oraniere, non amplifica
per nulla la cognizion degli oggetti, ma carica foltanto la mente di più
termini d’eflì apprefi ad un modo folo, diritto o torto ch'ei fiafì, lafciando
cìafcuno nello flato d’ ignoranza o di dottrina, nel quale d’altronde ei fi
trovi . Certo è che quantunque ciafcuno apprenda gli oggetti diverfamente da
tutt’ altri, per appellarli con più nomi non li apprende con più maniere, o
colle maniere degli altri, ma fegue a concepirli all’ ulato fuo modo . Ond’ è
che per apprendere più lingue n apprendon più voci, per le quali replicar in
mente gli oggetti, e comunicarli a perlone di linguedìverfe non diverfamente
all’une che all’ altre, fcnza apprender perciò niente di più fu quelli, o fenza
accrefcer per nulla le proprie cognizioni ; quand’ ancora la mente occupata ed
ingombra dalla farragine di quei moltiplici termini fugli oggetti medefimi, non
reflafT'e perciò impedita dal concepirli con più chiarezza e con più
precifione, reflando così le cognizioni fu effi tanto più limitate e riftrette,
quanto apprefe per più mani di lingue, come v’ù gran luogo di dubitare. /^Uella
diverfltà e refpettivamente fomiglianza, che Della divef- V^_s’è veduta correre
fra gli oggetti della (lefTa e fità poffibile di diverfe fpecie, e fra le
maniere diverfc di (^)> è manifefto dover molto più ampiaC./i/ » " ^ver
luogo fra le combinazioni di quelli nelle ciafcune menti, le quali combinazioni
cosi faranno diverfe e confimili non folo quanto gli oggetti, ma quanto altresì
pofTono quelli confimilmente combinarli o accoppiarfi infieme a numero minore o
maggiore, feparatamente gli uni dagli altri . Da quelle moltiplici combinazioni
d’ oggetti in ciafcuni diverfe procede quell’ordine, per cui gli uomini
diverfificanod’ inclinazioni, di genj, di temperamenti, e quindi di maniere di
penfare e d’operare, ciò che coflituifce i divcrfi cojìumi loro ne’ divcrfi
luoghi e ai diverfi tempi. Imperciocché llante una fimile diverfità di oggetti
diverfamentc combinabili, non farà poflìbile che s’accordin eglino di applicare
tutti ad oggetti delle ftelTe fpecie, ma dovranno applicare quali all’une,
quali all’ altre di quelle, e quando a quelle, quando a quelle, per riferirli
cialcuni e combinarli con altri oggetti di tutte le fpecie diverfamente, onde
deriveranno appunto le moltiformi inclinazioni e coHumi fuddetti . Quindi
apparifce la necedìtà di una limile diverfità di collumi negli uomini adunati
ancora più Hrettamente infìeme, la qual procede dall’ impodìbilitàfuddetta di
applicar ciafcuni in particolare, e più ancora di ellì in comune, alle ftelTe
fpecie d’oggetti, e di combinarli e riferirli fempre al medefimo modo finito,
quando tali fpecie d’oggetti e tali modi di combinarli e riferirli fono
infiniti, e il finito tolto dall’infinito in palTato, alprefente, e nel futuro
per infinite fiate ancora fe fia polfibile, è fempre diverfo. Quella diverfità
d’opinioni e di combinazioni d’immagini, per ufo di combinare ciafcuni più
particolarmente oggetti d’ alcune fpecie in luogo d’altre, è cofa familiare, e
fi manifella ai frequenti incontri per le impreflioni diverfe degli oggetti
medefimi fulle menti di quelli, che lìan più o meno avvezzi ad apprenderli, e a
combinarli. Ed è certo l’incantefimo per efempio del villano fra i cittadini,
l’orgoglio del cittadino fra i villani, laprelunzione del cortigiano fra i
dotti, la noja del dotto fra i cortigiani, non proceder da altro, che da
maggior ufo in ciafcuni di quelli di combinare più particolarmente oggetti di
diverfe fpecie, nelle varie circollanze nelle quali ciafcuni fi trovano. Chi poi
da una fimile diverfità d’opinioni ecofiumi riputalfe derivar difordine e
fconccrto fra gli uomini, s’ ingannerebbe di molto, perciocché per quanto
diverfi fian gli oggetti apprefi e combinati più frequentemente da ciafcuno,
purché le combinazioni cogli altri ne fiano armoniche, e conformi alla
llelTaragione comune, non potran quelle elTere che pur consimili, e perciò
conformi fra elle, nè potran i codumi che ne derivano effer difcordi o generar
fra cfli difordine, eflendo anzi tutti in ordine a una ftelTa verità o comun
ragione. In eflètto rcflTer le opinioni e i coflumi diverfi non toglie che non
poffan elTer confimili, e ficcome gli oggetti fon confimili per la femplicità e
invariabilità delle ftedè leggi motrici, per cui Il confervano c fi rinnovano in
cialcuna e in tutte le l'pecie, e fono diverfi per le diverfe mifure e
modificazioni, colle quali procede quel moto in ciafcuniper le medefime leggi ;
all’ ilidìo modo le combinazioni loro, e i cofiumi che ne derivano, fon pur
confimili nella loro diverfità, per una ragione comune invariabile in sè
fiefia, ma variabile nelle fue modificazioni, lecondo le quali quegli oggetti
fi a ppret\dono, e fi combinano da ciafcuni . Che le fi domandi un rifcontro,
per cui conofcere quella conformità di coftumi colla ragione comune, fi dirà
quello efl'er quello, per cui apparila, che elTendo elfi utili a sè niedefimi,
il fiano altresì agli altri, lenza che alcun ne rifenta nocumento od oltraggio,
mcrcecchè fe elfendo quelli a sè utili, fulfero ad altri nocivi, allora non
firebber elfi alla comun ragione o alla verità di natura conformi, la quale è
Tempre concorde e non mai a sè lidia oltraggiofa; ma làrebber in conformità
all’errore o alla ragion particolare d’ alcuni a quella comune contraria,
dillruttiva disè medefima neila dillruzione degli altri, come s’è dillinto da
principio. Con ciò apparifee, come la diverfità di combinazioni d’immagini, e
quindi d’opinioni e collumi, non folo non apporta difordine in matura, ma ne
collituifce aU’oppolto l’ordine e la concordia migliore, purché non s’
allontanino dalla llelTa ragione a tutti comune, ciò che può avvenire in
infiniti modi; e in tai modi appunto diverfi fi dirà pollo l’ordine e l’armonia
medefima di natura morale, come ne’ modi di combinazioni in conformità alle
ftefTe segni motrici filiclie, è polla l’armonia di natura pur liiTca. E invero
dall’ applicare gli uomini di concerto, quali fu alcune, quali lù altre fpecie
d’oggetti più particolarmente, ne proviene che le cognizioni fu effi e per erti
refpettivamente s’accrefeano, e gli uni accorrano in foccorfo degli altri,
derivandone quindi quella perfualìone e prudenza umana, per la quale ciafeuni
per quanto è polìibile, ne’ varj ullicj, profertioni e modi di vita per erti
intraprcli piacevolmente fulfirtono. Senza ciò combinando ciafeuni calualmente
gli onnetti fenza fcelta e fenza difeernimento di fpecie, non s’avrebbe che
confufìone, e per clTer gli uomini di tutte le opinioni, i collumi c le
profellioni, non farebbero di nellune. Ov’è da oU'ervare altresì l’iinportìbiltà
in alcuni foli di riconofeer tutte le azioni e tutti i cortumi, per quanto fian
quelli utili a tutti, e conformi alla coniun ragione, dovendo una tal
conofeenza dipendere dalla ragione appunto comune, e non mai dalla particolare
di quegli alcuni . Se quello folfe portabile, la natura avrebbe dertinati gli
uomini non in foftegno, ma a carico ed oppreHione gli uni degli altri, e avendo
formato alcuni foli intendenti ed attivi, avrebbe collituito tutti gli altri
llupidi e inerti. Egli è ben necellario, che alcuni riconofeano le azioni e i
collumi tutti, per quanto forter quelli contrarj al bene e alla ragione a tutti
comune, al qual fine furono illituiti i Governi de’ popoli; mentre il conofeer
fe un’azione coll’crter utile a sè il fia pur ad altri, o fja ad altri nociva,
è dato ad ogni uomo in particolare, e martime a chi è dertinato a quella
conofeenza. Ma il prefumer alcuni* d’ inventariare e regolar tutte le azioni, i
collumi, le opinioni e le profèlfioni, per quanto fian utili a tutti, è un
prefumer d’efler quei tali di tutte le azioni, i collumi, le opinioni e le
profertìoni, cofa allurda, non elTcndo ciò dato dalla natura ad alcuni in
particolare, ma agii uomini in generale di tutti i tempi, e di tutti i luo IV.
Infatti poiché le combinazioni di oggetti fono infinite non folo in tutte le
fpecic, ma in ciafeune ancora di e(fi, e non può intelletto umano apprenderne
che un numero finito ; e oltre ciò poiché gli oggetti non fi combinano che per
conol'cere le verità fu effi c per efiì, e tali verità non poffono rilevarfi
per tali combinazioni, che pel confenfo di molti fu quelle; iàrà dunque forza,
che molti concorrano ad apprendere c combinare, quali oggetti di alcune fpecie,
quali di altre particolari, clTendo cosi altri di alcune, altri di altre
inclinazioni e collumi meglio intefi e iftruiti, a efclulìone limile di tutte
le altre; non efi'endo d’altronde poHibile che tutti gli uomini, ciafeuni de’
quali debbono apprendere e combinare alcune fpecie fole d’oggetti finiti; delie
infinite fpecie che ve n’ ànno, s’ imbattano ad apprenderli e combinarli delle
lleflè fpecie finite a efclulìone delle infinite altre, e in tal guifa ad eflér
tutti d’un umore, d’ un’ inclinazione, e d’ un collume. A quello modo fi può
dire, eh’ tlfendo le immaginazioni d’oggetti diverfe, edelfendo pur diverfe le
opinioni e i collumi, fra 1’ una e 1’ altra diverlità v’ à però quello divario,
che elfendo la prima in riguardo a ciàlcun uomo, la feconda è in riguardo a più
d’ elTi, e che non avendovi pur uno che immagini gli oggetti come un altro (r),
ve n’àn però moltilTimi della llelfa opinione c collume, diverfi dalle opinioni
e collumi degli altri; in guilàchè ladiverlìtà di opinioni e collumi, anziché
divider gli animi, tenda ad unirli dalla diverlità molto più amplafra le loro
particolari immaginazioni col vincolo d’ una loia ragion comune, alla quale
quelle opinioni e quei collumi, avvegnaché diverti, fian pur femnre conformi.
Lo che non avviene indarno, ma è llabilito con provida dilpcfizione, alfine di
verificare l’armonia delle immaginazioni diverfe per la conformità delle
opinioni confimili, giacché la diverfità poid’opinioni fra tutti non induce
confufione o difcordia fraefll, per la uniformità appunto di molti in ciafcuna
di effe, e per non opporfi nelTuna alla ragion umana comune, della quale anzi
ciafcuna opinione particolare coitituifce una parte, ed è modificazione
particolare diverfa. Certo è, che ficcome la diverfità degli oggetti immaginati
non confonde la natura, anzi ne coltituifce la vaghezza e perfezione migliore ;
cobi la diverfità delle opinioni e cofiumi, che di quella è la conleguenza, non
incomoda alcuni come quella che coftituifce anzi la varietà delle azioni, e
colla varietà la libertà, che di quelle azioni è il carattere più gradito e
migliore, efléndo così ladiverfità de’ colìumi umani tanto necelTaria all’umana
fulTidenza, quanto ladiverfità nelle fpecie d’ oggetti lo è nella natura
univerfai delle cofe V. Per altro ciò che fa credere come fopra, che WC.Ff.
n.ila diverfità degli oggetti combinati, e de’ coflumi che ne procedono,
apporti confufione edifordine, è l’equivoco EQUIVOCO GRICE di confondere la
diverfità colla contrarietà di dii oggetti e coflumi, e di prender quella per
quella, non potendo negarfi, che per opinioni e coflumi repugnanti e contrari
non s’apporti fconcerto e non fi dia motivo a difordini, ciò che non è da
temerfi per opinioni e coflumi diverfi. La contrarietà però è tanto lungi dalla
diverfità in tutte le cofe, quanto è appunta ad effa contraria, ed è quella
tanto implicante nelle immagini degli oggetti e ne’ coflumi che ne derivano,
come lo è negli oggetti tutti creati, i quali pofìbno bensì efler diverfi, ma
non mai contrari, per dover efier tutti confimili, e poter bensì la fomiglìanza
aver luogo fra gli oggetti diverfi, ma fra i centrar) non poterlo avere
giammai, come per più induzioni e rifeontri fi farà chiaro qui in feguito.
Della contrarietà impofTibile de’ coflumi. Per meglio comprendere le cofe
fuddette è daconfiderarH, gli oggetti de’ quali fi tratta, e dai quali procedon
le immaginazioni, le opinioni, e i collumi umani, non poter efferc che gli
efjftenti, politivi, e creati, e non mai i negativi, non efiftenti, e non
creati, i quali non vi fono, e non fon nulla . Polli poi alcuni oggetti
pofitivi, i negativi loro contrari non poter efl'er pofitivi giammai, e in
confeguenza non poter efl'er del tutto, e pertanto gli oggetti contrari efler
del tutto impoflibili . In efletto fe oggetti tali folfer poflìbili ed
efiftenti, rimarrebber dibrutti gli uni negli altri nella loro efillenza medefima,
nè vi avrebber più quelli nè quelli • e il fupremo artefice della natura
farebbe autor ai contrari, o farebbe un principio contradittorio e implicante
lui Ueflo, vale a dir nullo ; quando pur non piacefle ricorrere al ripiego di
due principi in natura contrari ed ambo efiftenti, per il’piegar appunto
codefta fuppofta contrarietà di oggetti pofitivi cercati ; ripiego adottato in
vero da alcune menti fupcrficiali, ma tanto pur contradittorio e allurdo elio
llelfo, quanto la fuppofizione medefima, a fpiegar la quale fu vanamente
chiamato in foccorfo . Il fuppor gli oggetti pofitivi c creati contrari fraeflì
procede da materialità di mente, per cui fi crede contrario all’altro quel che
fembra diftrugger l’altro fol perchè il vince d’ efletto, e fi crede cosi uno
di quelli negativo dell’altro, quando fon tutt’ due pofitivi del pari, e quella
apparente dillruzione non procede da qualità contraria, ma da forza maggiore,
per cui uno fupera la forza dell’altro, e non la vince nella parte che per
prefervarla nell’ tutto . Cosi r acqua per efempio gettata fopra un incendio,
fi dirà fpegner il fuoco, non perchè ad elfo contraria, o il negativo di
quello, ma per impedir al fuoco di diftrugger il tutto. E all’ iftelfo modo fi
dirà, una fornace di fuoco aflorbire e vincere una pinta d’ acqua fparfavi
fopra, per l’ attività allora fuperiore del fuoco nel confervare fe flelTo, e
del par pofitiva a quella dell’acqua, giacché nell’ uno e nell’ altro cafo
ciafeun di quelli elementi efercita tanto di fua polla full’ altro, quanta ne
efercita quello fu quello, accordandofi così entrambi anco a collo di loro
ellinzione particolare, per la confervazione loro e delle cofe comun politiva,
e non mai per la diflruzione loro e comune, eh’ è negativa, impolfibile, e
nulla. Se li domandi un contralTegno, per cui dillinguer gli oggetti politivi e
efillenti dai negativi e inelidenti, giacché dal volgo fi confondon gli uni
cogli altri, fari facile additarlo in ciò, d’eU'er quelli fufeettibili di piò
modificazioni o mifure, quando quedi il fon di nellune, come il nulla ch’é
appunto di nelTuna mifura e non efide . Cobi 1’ acqua e il fuoco fuddetri
perché fufcettibili di piò modificazioni e mifure, fi diran politivi ed
elidenti del pari, avvegnaché creduti negativi e contrari l’uno all’altro. E
all’incontro il calore, la luce, il moto, il pieno creduti contrari e negativi
del freddo, delle tenebre, della quiete, e del voto, faranno tali in effetto,
per elfer quelli di piò modi, quando quelli il fon di neffuno . Ma per quedo
appunto faran quelle qualità create pofitivc ed elìdenti, quando quede faranno
non create, negative, e inefidenti, o non elideranno che nella mancanza di
quelle. Con ciò fi dirà, il volgo ingannarfi nel primo cafo col creder l’acqua
contraria al loco, quando èfoltanto da quello diverfa, e non ingannarfi nel
credere quedi due elementi del pari efillenti ; e nel fecondo fi dirà lui
ingannarfi all’incontro nel creder quelle qualità tutte efìdenti, non
ingannandofi nel crederle contrarie, mentre per quedo appunto eh’ efiflono il caldo,
la luce, il moto, il pieno che fon di piò modi ; i contrari loro freddo,
tenebre, quiete e voto che non fon di nclTun modo di quelli, non potrebber
fuffidere. E in vero col toglier del tutto il calore, la luce. Il moto, 1’
eftcnfione, non è che fi generi cofa alcuna pofitiva, come freddo, tenebre,
quiete, voto, ma è foltanto che annichilate quelle qualità nelle fofianze
create, vi rimangon quelle come nulla di quelle, giacché il negativo è nulla di
quel che nega fenzaeffer cola alcuna per sé pofitiva, e gli oggetti o follanze
create di calde, lucide, mobili, ed ellefe che fono in più modi, tolte quelle
qualità, rellan non calde, non lucide, non mobili, e non ellefe ad un modo,
vale a dire a nelTun di quei modi. Quel che s’ è qui detto degli oggetti creati
fifici, dee altresì applicarfi ai morali, oai collumi uma come fi li avvedrà
dall’appiicarlo alle umane palTioni figlie delle imprelTioni di quegli oggetti,
e madri di quelli collumi . Imperciocché tali palTioni effendo fra sé diverfe,
e fullillendo come tali, non fono fra sé contrarie, e come tali non potrebber
fulfillere che con ripugnanza e contraddizione, eh’ è quanto a dire non
potrebber fulTillere in modo alcuno. In ell'etto l’amore, la compallione, la
giullizia, la libertà, e r altre virtù morali fon tutte palTioni pofitive,
create, ed efillenti ; e 1’ odio, l’ ingiullizia, 1’ oppreffione, la crudeltà
tenute volgarmente per palTioni viziofe a quelle contrarie, non elìllono
altrimenti come tali, ma fono all’incontro quelle prime palfioni medefime che
in luogo di adoprarfi in ufo comune e polfibile, per lo quale fono create, fi
adoprano in ufo particolare e negativo, per lo quale non fono create e fono
impolfibili. La contrarietà dunque delle palfioni non é tale in sé llella, ma é
apprefa per tale dalla dillruzione che fi feorge per elTe nel particolare per
p'fefervare il comune, come la contrarietà degli elementi è apprefa dal vederli
uno vincer l’altro nel particolare, quando quella vincita é intefa a prelèrvar
1’univerfale (A) . Con ciò fi dirà, che quel che fa le palfioni pofitive, fia
lo llcnderfi efiTe.da sé ad altri, con che la fpecie umana fi conferva coll*
ordine di natura creato c che fuflìfte; e che quel che la fa negativa, fia il
concentrarfi effe in sè llcffe con danno d’ altri, contro quell’ ordine che non
fuflìfte, e per lo quale il tutto fe fofle poflìbile s’ annullerebbe e andrebbe
in difperfione ; lo che però non avviene per la provida natura, che converte
quel difordine particolare in ordine univerfale- Tal Tinterefle per le foftanze
fparfo da sè ad altri, s’appella equità, prudenza, gratitudine, e tali altre
virtù confervatrici ; e riftretto insè folo, degenera in avarizia, ingiuftizia,
ingratitudine, per le quali contro natura tutti languirebbero e perirebbero .
L’ ambizione di onore, di potenza, grandezza e fimili, difufa da sè ad altri, è
virtù d’ ordine, e di concordia pofitiva; e confinata in sè folo, è vizio di
fuperbia, di oppreflìone, e di difpotifmo . L’ amor di fenfo fparfo da sè ad
altri, è amor pudico, amiftà, compaflìcne, per cui la fpecie fi propaga e
fuflìfte; e raccolto insè folo, è lafcivia, odio, crudeltà, per cui refterebbe
la fpecie fpenta e diftrutta. In fomma qualfivoglia paflìone, eflèndo virtù
confervatrice fra tutti difufa, lì cangia in vizio diftruttore di tutti col
contrarfi in sè folo ; e finché le foftanze, gli oi»ri, i piaceri procurati per
l’interefle, l’ambizione, famore, colfeller proprj fi dilatano ad altri, quelle
paflìoni fono virtù, non illando la reità di elle nel procurare il bene per sè,
ma nel toglierlo ad altri, o ne! procurare il proprio utile e piacere con
altrui feiagura, onta, od inganno . Perchè poi tutti certamente fuflìftono, e
finché ciò avviene non è da dire che tutti non fufliftano, fi diranno le
paflìoni effer fempre virtù pofitive e come tali fulfiftcrc, e come vizj a
quelle contrari o negativi di quelle, non fuffilter efle giammai ( « ), eflèndo
tanto contraditto- (j) C.VlI.ti.\. rio che fulTiftano inficine vizj e virtù fra
sè contrari, quanto che gli uomini tutti fufliftano e non fuffillano . Non
dubito, che quello dichiarare cosi ampiamente, che le paflìoni non fufliilano
come vizj, non abbia a parer Urano e (ingoiare a quei poveri di fpirito, a’
quali fembra molto bene veder i vizj trionfare in alcuni. Lo sbaglio però di
cortoro Ha, nel confonder che fanno il particolare col comune degli uomini, e
nello (lar colla mente pur fitti in quello, come chiufi con quello in un facco,
quando la natura e il grande fuo aurore non opera che per lo comune, e ogni
particolare alforto e immerfo ncH’univerfale fi perde del tutto e s’annulla.
D’altronde fe il vizio è contrario alla (j) C. in, virtù ei contrari non fon
pclHbili (//), poiché la vir3 - certamente fudllte, il vizio dunque non può
dirli che ludiila che per equivoco. E quell’equivoco fi dirà proceder da vuote
immagini, per le quali fi prendono a torto per politivi, oggetti che non fono
che i negativi di quelli; e quindi fi apprendono gli uni e gli altri per
eiillenti, quando per verità i negativi perquefio appunto che fiifiiilono i
pofitivi, non potrebber lulli(lere c(Ii (ledi . Cosi quantunque gli oggetti
detti volgarmente contrari, li prendano a vicenda per, pofitivi e p.r negativi
gli uni degli altri, è certo nondimeno i pofitivi (oli eilere efillenti creali,
ei negativi noncnérche il nulla di quelli, o il nulla alfoluto, il qu^l non
fuffille, o (udìile folo nella negazione del pofitivo . Per la qual cola il
contrario dell’ amore, della compadione, della equità, della libertà come
(opra, non è 1’ odio, la crudeltà, la iniquità eia opprefTione come volgarmente
è creduto, ma è il non amore, la non equità, non comp.idione, non libertà che
non fudìllono, come il contrario del fuoco c dell’acqua non è 1’ acqua o il
fuoco, ma il non fuoco, e la non acqua che pur non vi fono. Quelle
coiifiderazioiii fulle padroni umane, che elTendo virtù diverle non fon mai
vizj contrarj a quelle virtù, fan conofeere, che i codumi altresì che ne
procedono, pollono bensì clfer diverlì, ma non mai contrarj, e che fe perquefli
tufcono difordini, ciònon' avviene che per quel bene, che dovendo procurarli
per sè e per tutti com’è polfibile, fi vorrebbe procurato per se a efclufione
degli altri, quafi ^ruggendo in tutti quel che vuolfi per sè parte di quelli
tutti, ciò che non può avvenire, e che in fatti non avviene, giacché ogni bene
procurato per sè con danno di altri, lì diUrugge alla fine in sè ancora per la
oppofizione e il contralto di tutti gli altri . Procurandofi il bene al primo
modo, le difcordie faranno imponìbili, e ciafcun di tempera diverfa e non mai
contraria a quella dell’ altro, s’ unirà ad elio per coitumi diverfi e non pur
contrari, il collerico col tranquillo, il timido coll’ ardito, il fcmplice
coll’accorto, e limili altri, come l* acqua col fuoco, e la terra coll’aria
nella compoGzione de’ corpi fifica . Ma procurandofi quel bene al fecondo modo
o con altrui oltraggio, le difcordie faranno inevitabili per rimpollìbiltà di
unire i contrari, ^ poterfi bensì unir l’ardito e il timido, ma non 1’ ardito e
il non ardito, e il timido e non timido, come può unirfi acqua e fuoco ne’
corpi, ma non acqua e non acqua, e fuoco e non fuoco, quafi fi voIelTe
fulllfter da un lato quel che fi volefre difirutto dall’altro, o quel che non
potefle fullìftere fenza la diliruzione di quello che pur fullifte . Egli è ben
vero, che ficcome un elemento nel fìfico non illrugge mai 1’ altro, per quanto
contrafiino nel particolare, attefe le leggi di moto invariabili ed eterne ;
cosi nel morale una paffione, e un cofiume che ne deriva, non dillrugge mai
l’altra nel generale, per quanto pur nel particolare s’ apprenda per a quello
contraria, per elTer tutti pofitivi e conformi a una comune ragione, non mai a
sè lleffa contraria. Ciò che conferma quel che s’è detto, le opinioni e i
cofiumi umani eficr diverfi, e combinarfi diverfamente, mediante una ftefia
verità comune, della quale fiano modificazioni diverfe e non mai contrarie,
come gli oggetti fon diverfi e fi combinano ineme nell’ opere di natura
inedianti le fleflè leggi di moto, delle cjuali (ianpur modificazioni nsion
trui contrarie c tempre diverfe . Airoppotlo non pt)ter quelli nè queffi etler
contrarj, nè combinarli in contrario j er errore comune, o per contralleggi di
moto impoflibili e nulle, per le quali foltanto potrebbero clfer tali, e per r
implicanza di ruflilter la t'pccie umana per coiiumi, e la natura umverl'ale
per leggi di moto, infierne col principio che dovefle dillruggerle, o per cui
dovelfero eller nulle . E conferma ciò ancora quel che è aggiunto (/»), di
elFer bensì poflTibile per attenzione particolare d’ alcuni nelle nazioni, il
riconofccrvi ogni male e 1’ deluderlo da elle, per elfcr quello negativo e d’
un Col modo . Ma non elTer cosi poflìbile per l’attenzione meddima, o
introdurvi o crearvi ogni bene, per la ragione contraria di dfer quello
pofitivo, e di modi infiniti, onde l'uperare elio ogni particolare attenzione
che s’è detto finora dà facilmente ad intenCollucni ere- Vedere, che non è già
la diverlità, ma la contraduci comrar) j-jetà e ripugnanza de’ coflumi quella,
per cui non 1 . noco- degenerino quelli in errori, e per cui nal'can fra gli
uomini Iconcerti e difordini, e ciò per la contrarietà fimilmente e non
divcriità di oggetti e di combinawC.VI.n.i. zioni loro, ful’e quali verlin le
umane menti, e dalle quali quei collumi derivano. Quelle combinazioni d’oggetti
diendo innumerabili, ed elléndo gli uomini nelle diverte iorcircollanze avvezzi
quali all’une, quali all’al(OC. F/. n.i. tre Ipecie di elle, faran dii cosi di
divcrli collumi, allor conformi alla verità, quando gli oggetti combinaci fian reali,
pofitivi edefillenti; e allor contormi all’ errore, quando tali oggetti fian
negativi, imponibili, innefiflenti c nulli . Imperciocché lebbene gli oggetti
fian d’innunurabili modi, e il nulla d’ un folo, ciò nondimeno ficcome la
verità eh’ è una, è di tanti modi, di quanti puòcfTa atlermarlì nelle cok
divcriè; cosi l’errore altresì eflTendo uno, s’apprende pur di tanti caP- Vili!
modi, di quanti quella verità può negarfi, inguilà che tanti fiano i modi
politivi di fullìlìere per la verità, quanti s’ apprendono i negativi di non
rulTifìere per 1’ errore, fuililìendo ogni cofa a un modo, e non lulli» ftendo
la Aia contraria al modo a quello contrario, e corrifpondendo verbigrazia 1’
ardito, il timido, il collerico, pofitivi tutti creali, ad altrettanti negativi
loro non ardito, non timido, non collerico, con cller ciò non oAante quelli
tutti di più mudi, e queAi d’ un modo folo o di nelTuno, come il nulla eh’ è di
neffun modo . E^li è poi da confiderare, eh’ effondo la verità e la eiiAenza
tuttociò ch’efiAe, ed eflendo 1’ errore o il nulla tuttociò che non efilìe, e
non efilten* do cola alcuna che per la combinazione di oggetti di> verli, e
non mai contrari; parrebbe che il tutto C.Vir.n.t. dovclie l'ulfiAerc per la
verità, e nulla per l’errore, e che ficcome nella efilìeriza degli oggetti,
così nelle combinazioni loro e nelle inclinazioni e coftumi che ne derivano,
non dovelfe avervi che verità, efclufo fempre l’errore, cofa non generalmente
creduta dal volgo, il quale all’incontro non parla che di errori, e di
contrarietà nelle inclinazioni e ne’coAumi fra gli uomini. Chi però meglio
rifletta, conolcerà, quello elTcr verifftmo, ed elfer l’errore cosi lontano dai
coAumi umani, come dall’ opere di natura, che non ammette contrari, e non erra
giammai . Che fe v’ à chi crede diverfamente, ciò deriva da equivoco GRICE
EQUIVOCO di prendere il particolare per lo comune, come s’è accennato, eco-
C.W. «.4, me più efprelTamente fi dichiarerà ora, per ifpiegar meglio coi fatti
quelle verità, che fon lempre alcofe al volgo, e che bene fpedo fi nafeondono
ai filofufi ancora, che nel fìlofofare non fanno Aaccarfi dalle volgari maniere
di penfare, reAand > coi,i nella loro filolofofìa più all’nfcuro del volgo
medeltmo. Si dice dunque che lo sbaglio di prendere il negativo per pofitivo, o
l’ errore per la verità, nafee da» £ z equivoco di prendere il particolare per
univerfafe, c di credere che ciò che può efler in quello con ripugnanza e
dilordine, poflTa pur avervi in quello con ordine ed armonia. E invero l’errore
col nome fuofteffo, non porta alla mente che un’ immagine di mancanza e di
nullità, e il crederlo nei collumi comune quando non è che particolare, procede
da errore appunto o da mancanza di difeernimento, per cui occupata la mente da
vani timori, dà corpo all’ ombre ed al nulla. Del rimanente s’ ei fembra
nafeere e avvalorarfi :n alcuni, non fi vede mai (lefo a tutti, e in quegli
alcuni medefimi non lì vede che vinto, e dillrutto dalla verità a tutti comune
. Il fullìller poi vinto e didrutto non è fullìller in modo alcuno, in guifache
chi fi lagna dell’error ne’coflumi, fi lagni di elTo che volendo pur con vane
lulìnghe e con faifeapparenze inlìnuarfi e fuHìllere nel particolare, non tenta
mai altrettanto neU’univerfale, e in quel particolare medelìmo è didrutto da
quedo univerfalc, che il difapprova e il dichiara pur nullo . Per quedo il
comune degli uomini fi vede Tempre correggere il particolare, e non mai
all’oppodo; di che prova evidente fono i governi de’ popoli, fra i quali tolti
i più colti e fenfati, non v’à dubbio che non confidano quedi in ciò, che per
ellì colla verità e la ragione comune di tutti fi didruggan gli errori, o le
ragioni particolari di alcuni a quella contrarie . Che le il governo delTo
reggede i popoli per la ragione fua particolare alla comune contraria, o per 1’
errore contrario alla verità, come nelle nazioni barbare o fconcertate ; allora
non elTendo quedo certamente poflibile, quell’ ederno governo fi vedrebbe
cangiato in fimulazione, o in nullità elTo dedb, redando nondimeno la ragione e
la verità comune interna a governar la nazione realmente, Tempre per 1’ errore
particolare da elTa vinto e didrutto in ognuno, e nel governo medefimo ;
verilicandofi così Tempre, che la verità c la ragion comune fia cofa reale,
pofitiva’i^A~prv'ìTr. ed efiftente, e che 1’ errore fia cola negativa,
innefìilente e nulla, comechè i'empre dilirutta da quella verità medelima. Chi
dunque precorre provincie e climi diverlì, e incontra opinioni e collumi, per
li quali fi fulTide in un luogo, alieni da quelli, per li quali fi fulTilte in
un altro; creda pure tali coliumi quanto fivogliandiverfi, ma non li giudichi
giammai contrarj, per eller ein modificazioni diverfe d’ una verità a tutti
corna* ne, che non è mai a sè fleffa contraria. £ fe apparifcon contrari, li
creda tali per fola appunto apparenza, attefo ungoverno pur apparente, fimulato
c nullo, (a) giacché l’apparenza e la fimuiazione è
nulladiquel^^jjc.p;;/.,,.che è in fatto. Del rimanente che fin a tanto che
tutti nelle nazioni fufTiliono, i coliumi comuni benché diverfi, non fian mai
contrarj a una verità comune, fi manifclia da quelio, che 1’ errore contrario a
quella verità fi troverà periéguitato e punito, vale a dir diiirutto da per
tutto del pari, e ciò fempre nel particoJare e non mai nel comune ; altrimenti
converrebbe dire, che laddove gli uomini fulTiliono a un tempo e in un luogo
per la verità, fuUìlielIero all’ altro per 1’ errore e per la menzogna
contraria e diliruttiva di quella verità, cofa affatto affurda e impolTibile.
All’ilielTo modo i difordini ne’ fenomeni ffici debbono ìmputarfi a
irregolarità, particolari ne’ moti conformi alle leggi collanti e generali, per
le quali il tutto fuffifte, vinte però quelle irregolarità e fuperate fempre da
quelle leggi, lenza di che il tutto perirebbe, effendo cosi il difordine, la
dillruzione e l’errore fempre particolare, e 1’ ordine, la confervazione e la
verità fempre comune, fia nel fifico. Ila nel morale, e quell’ errore fempre
vinto e diflrutto da quella verità. Qui può oflcrvarfi, come quell’ effer l’
errore fempre particolare in ogni nazione e non mai comune, e quell’, e
queft'annullarfi per quello, quanto per fa verità comune in e(Ta ruflìRe, dà a
conofcere, che le fedizioni, i tumulti, le dilcordie, le guerre fono nelle
nazioni Tempre errori particolari, e non mai verità comuni, come quelle che in
effe diliruggono ciò che pur Tuffìfte in modi diverfi, ma non mai contrari .
Che fimili diTafiri intcreffìno le nazioni intiere, cuna’ è la Trafc
d’efprimerfi de’ Gazzettieri, non è che uno sbaglio, per cui come fopra (a) fi
prende 1’ ambizione e Terrore particolare d’ alcuni, come Te TolTe comune di
tutti, i quali all’incontro non pnfl’on fufiìfiere e non fufiìfiono, che per la
comun verità e dilàmbizione. E fi ila pur certi, che ogni nazione adonta di qualfivoglia
an bizione o interclle particolare che muova in tifa difeordia, prefa in comune
non amerà che la concordia e la pace. Quell’ ambizione poi e quell’ intcreflfe
fi manifefiano particolari dal fatto, per iadifiruzione che del pari ne fegue
delle parti ambiziofe e interefiate, fufiìliendn le nazioni nell’ intiero per
la concordia, al tempo fieiìo che per la difeordia fi difiruggnno nelle parti .
Che fe quella difeordia parefie comune, non farebbe di nazione che fufiìfielle,
ma farebbe dell' ultimo particolare fuo avanzo, che facrificaiTe fe (lelTo al
riforgimento di altra nazione, che fulle reliquie della già diilrutta a parte a
parte per errori particolari, fi nnovafle intieramente per la verità a tutti
comune, eh' è il calò di tutte le rivoluzioni negl’ irnperj . Ma tolte alfine
tutte le nazioni progrefiive e contemporanee, e tutti gli uomini in genere,
fempre fia che ogni difeordia, guerra o tumulto fra effi abbia a terminar in
concordia, pace e amillà per la verità comune che difirugga 1’ errore particolare,
quando pur fi voglia prefervar la fpecie umana, ficcome ogni pelhienza o
procella dee terminar in aere falubre e tranquillo, quando pur fi voglia
prelervar la natura, e non mandar tutto il fifico e il murale in nonnulla.
S’aggiunge, che la detta prevalenza della ragione c A P. Vili, o verità comune
full’ errore particolare a quella contrario, fi manifeda non folo negli uomini
conolciuti per giudi, ma in quelli ancora che fi reputano, e cliepià fembran
malvagi, e ciò per lo timore che accompagna infeparabilmente quedi fecondi .
imperciocché un fimil timore fe ben fi confideri, non è che una pofitiva virtù
eh’ edinta ogni altra, reda in cialcuno a moderare e rafirenar i luoi eccedi
negativi medefimi. Laonde edèndo qualfivoglia malvagio Tempre più timido che
malvagio, non efclufi i tiranni medefimi ; farà Tempre ogni uomo più virtuoTo
che reo nella deTfa Tua reità, e farà Tempre vero, che 1’ error negativo
rimanga annichilato e didrutto da virtù politiva a 'quello fuperiore in quegli
deffi, che più Tembran menarlo in trionfo. In queda guiTa il timor pofìtivo e
virtuoTo, con frenar l’ambizione e rintercH'e dall’ offènder altri, impedifee
che quede padìoni, di pofitive e virtuoTe che pur fono in propria e comun
fuffidenza, diventino negative e viziofe in didruzione altrui e propria
(<i), e tien luogo di virtù nello dedb malvagio, ia)C.VlI.n.^. come un
elemento altresì nel fìfico contradando coli’ altro per la confcrvazion
pofitiva del tutto, impedifee la didruzion generai di natura, che tolto un (imii
contrado ne leguirebbe, fcnzachè negativo alcuno lùlTida, Tempre per 1’ aperta
implicanza di fudidere cola alcuna negativamente. Una fimil providenza nel
WC.W/.«.i. morale (i manifeda non folo ne’ rei fuperbi come fopra, ma ne’ giudi
ancora da quelli oppredì, i quali fon così virtuoli nella loro tranquillità e
nella loro fidanza, come il fon quelli nella loro agitazione e nel loro timore;
ed è certo, ogni oppredb innocente eder così contento per la verità comune che
lo allolve fugli occhi dell’univerfo, come il fuo oppredbre è feontento per 1
error fuo particolare, che combattendolo con quel timore, lo cruccia nella Tua
ignoranza fe non à talento, efe à talento, illude nel fuo rimorfo. Refta dunque
Tempre più flabilito, non avervi di contrario in natura che la verità e 1’
errore, ed elfer quella una modificazione di tuttociò eh’ eflde, e quello una
modificazione di tuttociò che non efifle. Il confidcrar ciò cIT efìfle come
contrario a ciò che pur efille, è un afTurdità ; e fe gli uomini apprendono per
contrarie quelle cofe che non fon che diverfe, ciò è Tempre per errore
particolare, che non paflà ad cfTer verità comune. Il contrassegno poi, per cui
avvederli Te gli oggetti fian diverTi o contrar) farà quello, di eflTer effi o
non efTer efiflenti, mercecchè Te eTiftono Ton certamente diverfi, e Ton
contrarj Te non eTillono . Ma per ben giudicare di quella efillenza o non
eTiflenza loro, debbon elR riTerirfì non al Tolo particolare, ma al comune di
tutti . Il dolore per eTempin e il piacere, poiché ambo Tuffiflono, Ton
certamente TenTazioni diverTe, ed elTendo diverTe non Tono contrarie . RiTerite
però al particolare s’ apprendono per contrarie, ciò che non rieTce Te Ti
riTeriTcano al comune . Di ciò è prova evidente ognuno che Tofl'ra il dolor con
piacere, Tol che il riTeriTca non a sé Tolo, ma al comune degli altri ; come
Muzio contento del pari e d’arder il Tuo braccio nel Campo di PorTena, e di
llrignerTi con quei braccio al Ten la Tua Clelia, per addurre un Tolo degl’
innumerabili eTempj di eroi TacrihcatiTi con dolore al piacere di giovar alla
religione, alla patria, alla verità inTomma comune, ciò che non avverrebbe Te
tali TenTazioni ToTfer contrarie. Quella comun verità non è in Tollanza (0
C.r/J.a.j. che la virtù (c), la qual contrallata dai vizj particolari e non mai
comuni, può dirTi travagliata, ma non per efiì opprelTa. Laonde elTa fola può
dirli comune, come quella eh’ è approvata da tutti, quando il vizio non può
appellarTi che particolare, come quello eh’ è dctelfato da ognuno, e
dilàpprovato da quei medeTimi che lo proTelTano, indizio evidente di eller
quella poTitiva ed efìllente, e di efier quello negativo e nullo. Certo è die
(iccome futTifle quel eh’ è voluto ed è approvato da tutti, come la virtù ;
cosi quel che non è voluto e non è approvato da alcuno, come il vizio, non può
dirfi fuffìlìere . E lo sbaglio di conlìderar quello come efiftente Ila in ciò,
di confiderar per efiftente quel eh’ è voluto da alcuni coi contrailo di tutti,
quando non può confiderarfi per tale, che quel che voluto da tutti, non è
contraHato da alcuno. Io non fo, fé tali dottrine convengano con quelle che lì
dicono degli antichi iloici, accademici, platonici, o altri, interpretate dagli
eruditi, e eh’ io non ò mai avuto la flemma d’ interpretare . So che le ò
apprefe dai lume naturale, dal quale poteano apprenderle quelli, e può
apprenderle ogni altro che fia i'eguace della verità comune, non alterata da
errore o da educazione corrotta particolare, e fappia che un uomo non è tutti
gli uomini, nè tutto il creato, ma uno folo di quelli, e un’opera fola di
quello. Se poi le mie dottrine non convengono con quelle che corrono al
prefente anco fra i più fludiofi, ciò è per errore appunto particolare di
quelli, che fedoni maffìme a quelli tempi da dottrine fuperhciali di Comici che
fi fpacciano per fìlofofi, vorrebbero pur perfuadere il tutto effer peggio,
contro il fatto evidente, per cui la natura e l’uomo, col conferv'arfi e
fufliflere, dimoflrano il tutto efler meglio . La dottrina fra le altre della
nullità dei contrae) (a) non dee dirfi nuova, dacché fi troverà ella convenire
coll’ altra non nuova del tempo e dello fpazio, che efiendo quello la durata
fola, e quello la fola diflanza degli oggetti e delle foflanze create, non
fuflìflono così che negativamente, e fulTiflendo in tal modo, pofitivamente fon
nulla. Tolte quelle foilanze pofitive e create, il tempo e lo fpazio reflan
come nulla di quelle, o come nulla adoluto, non pntendofi inver concepire come
polfan pofitivamente fufliflere o tempo, o fpazio, o diflanza di cole, che non
fufliflauo elleno flefle. Procedendo le inclinazioni e i coftmni dagli
oggetDella (labilità ti creati ertemi, e dalle combinazioni loro nelle e
inabilità de' umane menti, è certo eh’ ellendo tali oggetti invariaro(lumi.
bili per le rtelfe invariabili leggi motrici, dalle quali derivano, faranno
altresì quelle inclinazioni e coftumi invariabili e cortanti, per la rtdià
inalterabile verità e ragione comune, per cui naCcono, fi confervano, e fi
rinnovano. Per la qual cofa ficcome quegli oggetti fi vedon perfeverare gli
rterti in ogni fpecie, e ogni pianta e animale fi rinuova in pianta e animale
confimile, (enza degenerar mai in altra di natura diverfa; all' ilierto modo
l’ambizione, l’interertè, l’amore, il timore’, e limili altre partìoni, dalle
quali rifultano i cortumi, fon collanti in natura, nè tralignan mai in partìoni
diverte nel propagarfi dagli uni agli altri, e il fimile avvien dei cortumi.
Quanto però cederti cortumi per quelli motivi tono rtabili e fermi nella loro
natura, tanto nelle modificazioni loro fon variabili e incollanti, come appunto
gli oggetti dai quali derivano, o le modificazioni delle rtellè leggi di moto,
dalle quali quelli oggetti procedono. Ertèndo poi le modificazioni dall’ una e
dall’altra parte infinite, ed ertendo quelle di ciafeun tempo e di ciafeun
luogo finite ; i cortumi di ciafeun tempo e luogo, fempre gli rtelll per la
rterta verità comune, faran per le modificazioni di quella verità fempre
diverfi da quelli di un altro, come gli uomini finiti d’ un luogo e d’un tempo,
fimili fra loro per la rtabile loro natura, variano nondimeno infenfibilmente
in infinito di fembianze, d’afpetto, di maniere da quelli d’un altro per le
modificazioni diverfe di quella natura rterta . Con ciò rinovandofi gli oggetti
e le loro combinazioni in altre pur fempre diverlè, anco per tempi e luoghi
infiniti ; i collumi, le opinioni, i gen), e le inclinazioni umane di ciafeun
luogo e tempo vi dovranno variare in infinito, come modificazioni fempre finite
tolte dall’infinità di tutt’ effe fcnza di che dovrebbe dirfi, che degl’
infiniti oggetti i. creati, o dei coflumi che ne derivano, doveffer gli uni a
un tempo efier gli ftellì che gli altri ad un altro, ciocché ripugna colla
fapienza e perfezione infinita del fupremo autore della natura nelle fue opere.
Perchè poi tutti gli ilabilimenti umani in riguardo alla fucieià, e gf Imper)
lieffi dipendono dalle opinioni e coliumi in effi comuni ; per effer quelli
nelle loro modificazioni ederne cosi variabili, non potran tali focietà o
Imper) avere labilità alcuna dipendente da quelle, ma dovranno infenfibilmente
variar di maniere, cola comprovata molto bene dal fatto, per cui fcorrendo con
occhio fugace per tutta quanta la ferie de’ tempi e de’ luoghi da Noemo a noi,
non ci fi rapprefenta alla mente, che una perpetua rivoluzione di Stati e d’
Imper) . Infatti effendo le opinioni e i collumi in ogni impero attualmente
finiti, ed effendo quelli di maniere infinite pollibili, debbono dunque col
variar de’ tempi e de’ luoghi finiti variare infenfibilmente di maniere attuali
e finite , e con ciò variar quegP Imper), la cui divifione cosi, ellenfione e
forma effendo fempre tanto (labile e ferma, quanto la verità e la ragione a
tutti comune ; farà eziandio tanto cangiabile, quanto le modificazioni dìverle
e infinite di quella verità, o quanto la divifione, ellenfione e forma delle
opinioni e collumi in ciafcun impero particolari, e comuni. Vero è, che fimili
rivoluzioni negl’ Imper) o ne’ governi de’ popoli non fempre fon fubitanee e
impetuofe, anzi il più delle volte feguon per gradi infenfibili ; ma fono in
ogni cafo le lleffe, o producono i medefimi effetti, e la differenza ne dipende
folo dalla verità o ragione comune che Ila piò o men riguardata dai
particolari, e per la qual, folamente poffon le nazioni fulfillere. Perciocché
fe quella verità farà dalla nazione fparita, l’errore ol’ ambizione particolare
che d’ effa avanza, dovrà dì flrug F a gerla,,. IiT~gerIa, o diftrugger fe
ftcflb colle difcordie e le guerre, per dar luogo a quella verità di ricorrere
a rinovar quella nazione fott’ altro afpetto, e talvolta fott’ altro nome, nel
qual cafo fi diranno feguir le rivoluzioni con più di violenza e di fdegno . Ma
fé quella comun verità fi foderrà nelle nazioni a fronte di quìifìvoglia errore
particolare, le rivoluzioni allora vi feguiranno a (Irida quiete, fenza
violenza e per gradi infenfibili, trovandoli nondimeno ia nazione col corfo di
lunghi l'ecoli del pari cangiata da quella di prima per varietà di opinioni e
coliunii, non però mai fra loro contrarj. Del primo cafo è elempio qualfivoglia
Impero d’ Afta o di Grecia più rinomato, e in particolare l’antica Roma, volta
di Regno in Repubblica a’ tempi di GIUNIO, e indi di Repubblica in Impero a’
tempi di Giulio CESARE, per ia verità comune a quei tempi in e(Ta fmarrita, e
per l’errore o per 1’ ambi Ìone particolare non da timore frenata redatavi
fola, per cui non era poflibile che quel go%^erno, (la in forma di regno o di
repubblica più fuUìdefle. E del fecondo polFon eller efempio quegli Stati
prefenti Europei più moderati, che contano più migliaja di fecoli per
fuccedioni di Sovrani, ma che per opinioni e codumi non fon certamente quali
erano alla loro origine y e ciò per la delTa verità o ragione comune non mai da
e(Ti partita, quantunque diverfifìcata in modificazioni diverfe, che (on
appunto quelle divcrfe opinioni e codumi. Tuttociò fa conofcere, come quel che
cangia gl’ Imperi è in ogni evento la ragione comune di tutti, per la quale pur
fi confervano, e la qual ricorre fempre a occupar il luogo dell’ errore particolare,
per cui fe folTe pofTibile rederebber le nazioni tutte didrutte, fenza che
l’attività particolare di Giunio, di Giulio, o d’altri v’abbia più parte di
quella di qualfi voglia altro che podìeda una fimil ragione, e che coll’ unirla
alla ragione di quelli la renda comune . Del rimanente che le nazioni prefenti
d’ Europa non fian quali erano da principio, e fi fìan rinovate in altre, non
ferbando di fe (ielFe che i nudi nomi, fi comprova da quello, che tolta
qualfivoglia diede, potrà quella ben appellarfi collo (Iciro nome di due
i'ecoli innanzi, come per la lleda verità comune fudlilere, ma non perciò fi
troverà la llefla per forma d’ inclinazio' ni e coftumi comuni che la
collituifcano, o per modificazioni di quella verità medefima. Anzi fi troverà
da quella tanto diverta per quello capo, quanto dall’ altre nazioni fue
contemporanee, e lo fieiro avverrà retrocedendo di due in due fecoli più o
meno, per quanto le memorie ne fiano a noi tramandate. Cosi i Francefi prefenti
diflèrifcono forte più per maniere e cotlumi dai pur cosi detti Francefi di due
fecoli innanzi, di quel che differifcano dai prefenti Italiani dillinti da etti
di nome . £ gl’ Inglelì che ora fon d’opinione di difertar per l’America, avran
forfè più di conformità coi prefenti Francefi loro emoli, di quel che
pretendano aver per cotlumi cogl’ Inglelì loro antenati, eh’ erano d’opinione
dv difertar per Soria, e così di più altri . E’ poi chiaro, una fimile
rivoluzione di opinioni e cotlumi nelle nazioni dover efier tale, da non ricorrere
o rinovarfi mai in netfune allo lleflo, fempre per la detta ragione delle
combinazioni di oggetti, e delle modificazioni che ne derivano ne’ cotlumi, che
tolte dall’ infinito a numero finito, fon fempre diverfe fune dall’ altre per
quante pur volte fi prendano (rt) . E ciò non per dil^fizione umana
particolare, ma per fitlema imperferutabile di natura. Il comprender quello
fitlema, vale a dir 1’ ordine, la ferie, i rapporti di tali combinazioni di
oggetti, e di tali modificazioni di cotlumi, o perchè e come a certune abbiano
a fucceder cert’ altre, in luogo di tutt’ altre qualunque, è rìferbato alla
mente dell’ autore del tutto, nè potrà ciò mai penetrarfi da mente creata,
finché fi trovi nel pafieggiero fuo flato, avviota c ridretu dalle ritorte e
dagl’ inganni de’sensi. Qui cade a propofito d’avvertire l’errore di quelli,
che lì figurano di richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune per
quanto vi fi folTe l'marrita, col rinovar quelle leggi che ne preferivevano le
modificazioni a’ tempi decloro bifavoli, progetto del tutto affurdo e
impofTibile . La verità e la ragione comune potrà ben richiamarfi per leggi,
per quanto a’ tempi trafandati folle Itaca più riconofeiuta per fé ItelTa in
quei coltumi, di quel che il fia a’ tempi prefenti per coltumi che la
modificairero in contrario di sè medelìma, giacché elTa in sè llelTa è una fola
di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ma il richiamarla al prefente per le fue
modificazioni antiche, quando tali modificazioni debbon ad ogni tempo elTer
diverfe, non può elTere che una miferia di mente, per cui lì creda la natura
non più capace d’invenzioni in fua condotta, di quel che fiafi un povero
Conllgliere fecreto che creda operar in fua Wce. Chi declama contro i nuovi
coltumi che fi vanno introducendo, e deplora gli ufati che fi van diftifando; à
molto ragione fe i nuovi coltumi fon modificazioni dì una ragion men comune, di
quel che il fiano gli ufati che a quelli dan luogo . Ma fe i nuovi coltumi fon
tanto buone modificazioni della comun ragione, quanto gli ufati che fi perdono
; ei declama inutilmente, come fe ciò foffe contro il variar de’ venti, elTendo
1’ una e l’altra cofa quanto innocente, tanto, inevitabile e neceflaria, e
potendo, anzi dovendo quella comun ragione per difpofizion di natura, e per
fapienza illimitata del fupremo fuo artefice, praticarfi fempre per
modificazioni diverfe, e comparire in fembianze che non fiano giammai le
flelle, elTendo nondimeno la. ItefTa per sé medefima . Senza quelto una fimile
verità o ragione, correrebbe rifehio di non efercitarfi che per inganno ; ed è
ancor vero, che talvolta con richiamare la verità, la ragione, il valore e la
religione fteflfa per le fole loro modificazioni eflcrne di tempi molto remoti,
f» rielce a perdere tutto il fenfo reale ed interno di quelle virtù,
invariabili per sè flede, riducendole a quelle materiali loro modificazioni
eflerne, fenza alcun rapponto a quell’ interno lor SENSO E SIGNIFICATO. Ma
intanto è qui da avvertire, che quel che s’è detto finora in ordine all’
illabilità de’coflumi, non fa torto ad alcuno, e non è detto per accufar gli
uomini di leggerezza o d’incoflanza, ma per anzi giuflificarli d’ ella, e per
renderne ragione, come di cofa inevitabile e neceffaria, la qual non riguarda
in eflì coflumi che le modificazioni eflerne d’una ragione comune interna, che
debbon cangiare, come le modificazioni eflerne degli oggetti fenfibìli, dalle
quali quelle tengono dipendenza. Dail’altro canto ficcome quelli oggetti
cangiando modificazioni fon purglifleffi in tutti i luoghi e a tutti i tempi,
per le fleffe leggi di moto che li producono ; il medefimo avviene de’coflumi,
ed è fempre una flefla invariabil ragione e verità comune, che per varie vie li
guida e governa . Per quello s’ è veduto, quella ragione comune effer la fola,
per cui gli uomini lufTiflano infìeme, come per quella che può ben effer
diverfa nelle diverfefue modificazioni, ma non può mai a sè flcffa effer
contraria, nel qual cafo foltanto la comun fuffiflenza farebbe impoffibile ;
ond’ è che non è effa contraria che per difetto o ragione particolare di
alcuni, e non mai di tutti. Ciò fa che i governi o gl’ Imperi fian fempre
confimili, per quella fleffa ragione comune per cui fullìflono, avvegnaché
diverfi per le modificazioni diverfe di quella ragione medefima, non oflante
qualfivoglia irregolarità particolare, come gli oggetti fenlibili eflemi fon
fempre confimili nelle loro fpecie, perchè fempre in conformità alle flefle
leggi motrici, benché ne fìano diverfe le modificazioni, e non oflanti alcune
irregolarità in eflì fifiche . £ potranno quelli e quelli fuffiflere a ragione
benché dive rfa, giacché i mollri nel filico e le calamità nel morale lòn cafi
infoliti e particolari, e il confueto e comune non è calamità e difordine, ma é
ordine ed armonia . In effetto la ragion comune, dalla quale deriva il
difintereffe, la dUambizione ed ogni altra virtù, per la quale fuflillon gl’
Imperj, é invariabile, ed è di tutti i luoghi e di tutti i tempi, e ne fon le
modificazioni infinite. E iflelfamente la ragion particolare, dalla quale procedono
1’ intereffe, l’ambizione, e gli altri vizj per li quali col diflruggerfi fi
rinuovan gl’ Imper), è pur la lidia, in quanto é Tempre contraria alla comune,
con modificazioni altresì infinite a quelle contrarie . Ma è poi imponibile che
quella ragione particolare viziofa diventi comune, com’ è imponibile che i
turbini e i terremoti fiano incdlanti e collanti, mercecché in quello cafo
rimarrebbe la natura non variata, ma dillrutta, come in quello rimarrebber non
rinovati, ma dillruttì gl’Imp.rj. Nel rimanente le diverfe circollanze comuni e
particolari, nelle quali fi trovino le nazioni per le divcrlé modificazioni d’
una lldfa ragion pur comune o particolare, fon quelle che giullificano o non
giuflifino le opinioni e i collumi diverli. Così gl’ Inglefi avran per
avventura tanta ragione di difettar ora per l’America, quanta ne avevano
innanzi di difettar per Sorla, fe tali opinioni diverfe faran conformi del pari
alle diverfe circollanze o modificazioni di ragion loro comune d ambo quelli
tempi, di che farà indizio appunto l’ellèr quelle all’uno e all’altro tempo
comuni. Perciocché fe la nuova opinione non folfe cosi comune come l’antica,
non farebbe quella così conforme alla comun ragione, come lo era l’antica, ma
potrebbe elfere qualche opinione o errore ancora particolare alla verità comune
contraria. Il fuppor gl’ Inglefi che difertan per Bollon più fenfati di quei
che difettavano per Sorìa, quando quelli difettavano di comune confenfo, e
quelli difertano coll’oppofizione di mezzi i voti della nazione, è un’
alTurdità . Del redo non fi nega che sì una fpedizione che un pellegrinaggio
non pofian eficr conformi alla comun ragione, purché fian efiì tali da attirare
il comune confenfo. E ciò non per attività d’un Ammiraglio o d’ un Romito che
li pcrfuadano, ma per ragioni piò alte, ordinate da una fapienza eterna, la
quale nel crear una fola ragione, ne coditu) le modificazioni diverfe, e volle
che non ladiverfità, ma la contrarietà delle opinioni e coftumi fodè quella,
che da queda comun ragione li dividede. Quelche s’ è detto di fopra, che le
immagini C A P. X. degli oggetti da ciafcuni apprefi non tengan rap- De’
cofhimi 'porto necedario alcuno colla favella e colle voci, efpreffi perla per
le quali fian ede efpredè agli altri, dee applicarfi f»ella. eziandio alle
combinazioni di quelle immagini, dalle quali derivano le inclinazioni e i
codumi diverfi, le quali combinazioni d’immagini non terran così nedunnecedario
rapporto con quelle delle voci, o colle regole gramaticali di lingua, per le
quali fi manifedano, oli partecipano agli altri. Ciò fi verifica idedamente
dall’ edere tali regole pure dabilite di comune confenfo arbitrario di quei
foli, fra i ^uali quelle combinazioni d’ immagini debbono comunicarfi (c), e
che così comu- (#)C.iF.«,i. nicano di codumi e d’inclinazioni a efclufione d’
ogni altri . Ond’ è che ove manchi queda comunicazione, nedune lingue o regole
di ede fono in ufo, e ove effa v’abbia, le lingue e le regole d’ede perciò
introdotte, non s’ apprendono dalla natura, ma da fola meccanica fcoladica, o
da idruzione pratica d’altri, fenza apprender perciò niente più di reale (d), e
fuor di WCy.n.ì. queda meccanica, l’ ufo dejle lingue farebbe impoflìbiIc. Del
primo è prova ogni felvaggio, il quale perchè non in calo di comunicar ad altri
le proprie combinazioni d immagini, non à favella veruna, nè articola alcune
voci introdotte fra gli altri, non occorrendone certamente a lui alcune per
efprimerfi a sè medelìmo. E del fecondo è prova ogni bambino, che alla villa
degli oggetti che le gli prefentano, non proferifce naturalmente che
llravaganze, finché colla propria efperien- za e coll’illruzione non
ifcientifìca, ma pratica altrui, non s’ alTuefaccia a proferirli e cultruirli
per voci alla maniera accordata fra gli altri, coi quali più COMUNICA, e non
mai alla maniera fra quelli, coi quali non comunica d’immagini e di collumi .
Ancorché poi le combinazioni d’ immagini degli stessi oggetti, non abbian verun
necessario rapporto colle combinazioni di voci, colle quali li proferifcono;
per elTere nondimeno quelle tutte consimili, atteli gli (ledi oggetti, e tutte
diverte, attefe le diverse combinazioni loro nelle ciafcune menti; c per edere
altresì una FAVELLA (fabula) colla quale spiegarle la della per ciascuni, ma
pur diverse le combinazioni in clfa di voci nelle ciascuni bocche
d’innmnerabili persone ancora le quali ESPRIMANO ALTRUI uno STESSO SENTIMENTO colla
llelTa FAVLELLA, siccome non ve n’àn pur due, che apprendendo gl’oggetti dell!
li combinino indiamente nel lor cervello; così non ve n’àn pur due, eh’ esprimendoli
con quella FAVELLA, li espriman colla deda disposizione di voci; in guisa che
poda dirsi eziandio, che quede innumerabili persone liccome edendo della della specie,
pur son diverse ciafeune dall’altre per sembianze ederne e per tuono delFo di
voce, così essendo dello dedo sentimento e della Itelfa lingua, s’esprimano
nondimeno agli altri cialcuno con diverta disposizione di voci o di termini di
quella lìngua medefmia. Inoltre quella idabilità d’oggetti, eh’edendo gli dedt
per le Itede leggi motrici, pur lì cangiano del continuo per le infinite
modificazioni di codedo moto; e quella delle inclinazioni e codumi, eh’ essendo
gli dedi per le delle padioni d’una ragione comune, van pur perpetuamente
cangiando di modificazioni,(! riconosce altresì nelle lingue, eh’edendo le
llefle per la stessa impulsione d’aria fofpinta dai polmoni, rielcon pur
diverle per l’ARTICOLAZIONE di voci, o per modificazioni diverse di quell’aria sospinta.
Perciocché essendo esse intese a esprimer l’immagini quali son combinate, e i
codumi quali son praticati, egli è pur forza che feguaciò che per nota esperienza
si vede seguire, vale a dire che difufati in ciafeuna lingua del continuo
alcuni termini, fe ne sostituifean di nuovi, non per altro certamente, che per
fecondare la detta diversìtà di modificazioni, (la nelle immagini degl’oggetti,
sia nella pratica de’ coAumi che ne derivano. E quantunque quella diversìtà di
modificazioni negl’oggetti e ne’cofìumi, proceda con più d’uniformità, per
elTer ella opera di NATURA; non manca però più o men esattamente di tener
dietro a quella la diversìtà de’termini in ciafeuna lingua, con quella
imperfezione, colla quale si vede sempre l’arte imitar LA NATURA – GRICE SEGNO
NATURALE, SEGNO ARTIFICIALE. In efi'etto, del difufo suddetto di termini in
ogni lingua viva, e dell’introduzione in efla di termini nuovi fuir eftinzione
di quelli, non sì saprà afìegnar altra ragione, che quella degl’oggetti appresì
e combinati, e de’codumi che ne derivano, eh’ elTendogli flefit per la flclTa
ragion comune, si van rinovando per modificazioni di quella diverse col variar
de’feco- Ji, giacché le lingue non sono inllituite e non fono intese che a
quello, d’esprimere quegl’oggetti e quei collumi così combinati e cosi diversamente
modificati. Dimanieraché per la stessa ragione, per cui non v’à luogo, in cui
corrano le opinioni e i costumi di più secoli innanzi, cosi non v’abbia luogo,
in cui s’ adopri la lingua d’allora; e sia cosi imposìbile di richiamar fra gl’uomini
quei coftumi (c), com’è imposìbile il richiamar quella lingua. Da ciò
s’apprende, come il determinar una FAVELLA di tutti i luoghi e di tutti i
tempi, sarebbe lo stesso che determinar un opinione e un costume, o una
combinazione d’opinioni e di costumi pur d’ogni luogo e d’ogni tempo; vale a
dire che determinar la facoltà intellettuale umana, e limiurla non solo
all’ellenfìone, ma alla qualità ancora e ai modi delle sue cognizioni in ogni
luogo e ad ogni tempo; cosa 1’una e l’altra imponibile, per non poter elTa
accordafi colla fleda limitazione umana intellettuale. Perciocché l’intelletto
umano per quello appunto di edere limitato nelle sue cognizioni, dee variarne’
modi e nelle qualità di edè; e per eder quedi modi e quede qualità infinite,
dee versar più quando fu alcune di ede, quando fu altre, e quindi adottar
quando alcuni, quando altri codumi, esprimendo in conseguenza e COMUNICANDO
tuttociò altrui, quando coU’une, ^uandolcoll’altre voci o FAVELLE. Siccome poi
col variar di combinazioni d’oggetti e di codumi non si ricorre giammai ai modi
usati altre volte, ma le modificazioni ne son sempre diverse; così col variar
delle lingue vive non si ricorre giammai a rinovame o a replicarne alcune delle
morte oltrepadate, ma fe ne formano altre dapprima sempre inaudite, e non mai
per innanzi adoprate. Il tutto per le infinite maniere, colle quali possono
combinarsi gii dedì oggetti, gli dedi codumi, e le dede articolazioni di voci,
colie quali proferirsi [GRICE UTTER], attesa una sapienza eterna e infinita
[GRICE GENITOR – ‘God as an expository device who cares for his creatures’ --],
che regola tutto quedo magìdero con leggi uniformi in sé dede, ma varie sempre
nelle loro modificazioni. Per quedo gl’eruditi pudono bensì lufingarfi d’
idruird. e di ragionare de’ codumi e delle lingue antiche, per quanto é
podibile ravvifarle a un lume che d va sempre allontanando, e per quanto è
podibile alla vita umana caduca tener dietro al tempo indancabile ed eterno. Ma
il figurarsi d’aver de’codumi e delle lingue perdute, quella contezza che si à
de’codumi e delle lingue viventi, o il lufingarsi di raccapezzar dai pochi
frammenti che redano, quel tanto più che non teda de’ lècoli antichi, é una
vana credulità; ed è come lufìngarfi d’indovinar per le poche fandonie che
foglion narrarfì delle Sibille, tutto quel che per avventura avelTero queste scritto
ne’libri loro, che si di-, con arfi nell’incendio del campidoglio romano. Per
altro la diversità di lingue, che come sopra dee avervi nelle nazioni, per la
diversità in elle d’oggetti combinati, e di collumi che ne derivano, e 1’impossìbilità
di elTer tutti d’un collume e d’una favella (a), fan conoscere che la natura
unisce in vero; gli uomini hno a certa misura, alla quale polTan elTi giovarsi,
ma li disgiunge oltre a quella misura, nel qual caso la loro unione essendo
inutile, farebbe incomoda, e potrebbe renderft ancora nociva. Certo è, che fe r
ufo dell’ illelTa FAVELLA indica la necessità di llar gl’uomini uniti, per
accorrere gli uni in SOCCORSO DEGL’ALTRI – GRICE PRINCIPLE OF CONVERSATIONAL
HELPFULNESS --, ciò che non può verifìcarsì che per favella che sia la llelTa;
1’uso di fevellar diversamente indica la nelfuna necessìtà di Har elTi uniti a
quell’effetto, giacché fra persone di favella diversa nessuna COMUNICAZIONE DI
SENTIMENTI, o nelfuna scambievole ali^ llenza può interceder giammai.
D’altronde le occorrenze umane sono ognor limitate, e non poflbno llenderfì
oltre a quei limiti che con disagio comune degl’altri, e con illusione
particolare disè medefimi, essendo in vero un’illusione e un inganno, che quel soccorso
– GRICE PRINCIPLE OF CONVERSATIONAL HELPFULNESS -- Ila di provedimento, di
diletto, di piacere, di difefa o d’altra qualunque occorrenza, che ognun può
conseguire da altri loncan tutt’al più dieci miglia, abbia da attendersi ed alanguirsi
d’altri, di FAVELLA ININTELLIGIBILE, e lontani le migliaia e migliaia di mK
glia. Con ciò^ sì direbbe, che quel che congrega gl’uomini lino a certo numero,
al quale possano conservarsi dell’ illelTa FAVELLA, sia la natura amica della suflillenza
e del piacere verace; e che quel che li congrega oltre a quello numero, al qual
non possano conservarsi d’una FAVELLA, fia l’ambizione particolare dillruttiva
della specie, corruttrice del vero piacere, e amica del De’coftumi espressì per
favelle diverse piacere ingannevole. Ciò si comprova dal fatto, per cui gli
uomini finché son dell’ifiefla favella, più convengono insieme, e più
s’accrefcono per arti di moderazione e di pace, come nelle nazioni più limitate
d’ Europa, e qualor diventano di più lingue, come negl’ imperj più valli dell’Asia,
non possono sofienerfi che pella forza, e si distruggono per queir arti stesse
di luflb e di guerra, pelle quali credono bonariamente di conservarlì, e di SOCCORRERSI
GL’UNI GL’ALTRI – GRICE THE PRINCIPLE OF CONVERSATIONAL HELPFULNESS --; come in
fatti si trovano quivi a molto minor numero che nell’altre nazioni d’una sola
lingua, avuto riguardo all’ellenfion delle terre. E si comprova ciò pure dalla
dipendenza necessarìa degl’uni dagl’altri, quando pur voglian gli uni cogli
altri supplire ai BISOGNI COMUNI. La qual dipendenza d’ordinazione e sub-ordinazione
può ben avervi fra persone della fleU'a lingua, ma fra quelle di lingue diverse
non può avervi che con inganno, essendo invero impossibile che gli uni dipendan
dagli altri, quando ignorano fin la favella, per la quale dipendere. Dacché si
conclude, che la saggia natura vuol veramente uniti e congiunti insieme tutti
gl’uomini dell’ universo, ma per il solo vincolo d’amore e di ragione loro
comune; e che quel che li tiene uniti per tutt’altro titolo, non sia che la stolta
ambizione e 1’interesse loro particolare, ben diverso da quell’amore e da
quella ragione, e talvolta a quelli contrario. Quella ragione che fa, che gli
uomini dell’illeffo luogo e dell’ifteflb tempo fiano dell’illeffa favella, per
la necessità di comunicare insieme d’immagini d’oggetti, e di collumi (rf), fa
non meno che a luoghi e tempi diversi sian di diverse favelle, per la nelTuna
necessità allora di una simile comunicazione, essendo d’altronde le voci, colle
quali comunicar d’immagini e di collumi per le llef fe infinite, ed essendo
finite quelle, colle quali a'qualunque tempo e luogo particolare, comunicar
d’immagini e di collumi di quel tempo, e di quel luogo particolare. Ma oltre
ciò quella ragione che fa, che ciascuna lingua vada alterandoli riguardo a sè
llefla, per r alterazione che va seguendo nelle modificazioni degl’oggetti e
de’collumi medelimi allo IlelFo tempo e nello ItcITo luogo, fa che s’ alteri
molto maggiormente riguardo all’ altre di tempo e luogo di verfo, per feguire
l’alterazione degli oggetti e de’ collumi molto più notabilmente ne’ luoghi e
tempi feparati e lontani, che in un iltelTo luogo e tempo (c), o lotto al
medefimo afpetto de’ pianeti . Da ciò ne deriva, che non polfan gli uomini mai
fpiegar così bene le proprie combinazioni d’ immagini, e i proprj collumi e
fentimenti con lingua Itranicra d’ altro tempo e luogo, come li fpiegano colla
propria, ciò intefo degli uomini in genere, e degli affari e collumi loro non
già meno fìgnificanti, che fi trattano nelle accademie 0 ne’ gabinetti, ma dei
più fìgnificanti e comuni, che fi trattano nelle piazze e nelle famiglie. E
invero effendo ogni favella illituita per elprimere gli oggetti e 1 collumi d’
un luogo e d’ un tempo, e dovendo quella variare col variar di quelli;
l’adoprar a un tempo c in un luogo una lingua illituita per efprimere oggetti e
collumi d’ un altro, farà ognor più difficile, per doverli allora follituire
alle voci più proprie e più precife di quegli oggetti e collumi, voci intefe a
clprimcrne altri da quelli diverfi, e in confeguenza men proprie per
elprimerli, e men precife . Che gl’oggetti e collumi di ciafeun luogo e tempo
fian diverti da quelli di ciafeun altro, e che per ciafeuni corrifpondano
termini e voci diverfe, fi manifella oltre per quel che s’è detto, per li
Dizionari ancora particolari, ciafeun de’ quali fi vede più carico e ricco di
quelle voci, che più corrifpondono agli oggetti e collumi del luogo e tempo, in
cui la lingua d’eiTi è nativa; carichi in confeguenza cricchi meno di quelle,
che più corri fpande{Iero agli oggetù e costumi d’ogni altro luogo e tempo,
incuifolTe quella lingua straniera. Non per altro certamente, fé non ' perche
ciafcun luogo e tempo à i Tuoi coslumi che non son precisamente quelli d' un
altro, e per esprimer ì quali non mancando mai le voci nella lingua di quel
luogo o tempo, mancano bene fpefTo nella lingua dell’altro. Per elempio nel
vocabolario arabo dicesi, il cammello espredo con voci mille ed una, quando
nell’italiano si tiene per espreflTo abbadanzapet qued’una sola, lasciate fuori
le mille [GRICE: “We spent a whole term learning Eskimo]; e ciò non per altro,
che per la moltiplicità d’usi di codeiio animale nelle contrade arabe maggiore
che nelle italiane, per la quale moltiplicità, gl’oggetti e i costumi diversihcando
nell’une e nell' altre regioni, diversamente s’esprimono. E lo steifo si direb^
d’ innumerabili altre produzioni animali e vegetali diverse degli uni luoghi e
tempi, in riguardo a quelle di altri. Ch’ è la ragione, per cui un dragomanno
pratico del pari della lingua araba, e dell’italiana s’arreda bene fpelTo nel ragionar
di cose italiane colla prima lingua, e nel ragionar di arabe colla seconda; e
per cui parrebbe ancora, che CICERONE (vedasi) defl'o non potcfle al prefente
elTer cosi buon secretario di lettere latine in Roma, come alcun crederebbe,
per gl’oggetti e affari romani prefenti molto diversi da quelli, de’quali ei scrive
ad Attico a’suoi tempi, e richieder pertanto gl’uni e gl’altri qualche diversità
ne’modi d’esprimerli. Tutto ciò si dice, non perchè il posseder più lingue non
abbia a riputarsi un ornamento, necessario ancora a chi non contento degl’oggetti
e codumi vicini, che forfè non intieramente intende, anela ed applica ai più
lontani che intenderà sempre meno; ma perchè si sappia che gl’uomini delle
nazioni, siccome ciafcuni ànno i propri oggetti e codumi diversi da quelli degl’altri,
cosi ànno una propria lingua, per cui esprimerli, che non può esser quella
degli altri: e che~^~ A T vi" siccome non adotteranno mai bene gli altrui
oggetti e costumi comei propr), cosi non esprimeranno mai quedi cosi bene coll
altrui, come colla propria favella. Dall’ altra parte la cognizione di più
lingue non è cognizione f«r se Itella, ma è un mezzo per cui COMUNICARE soltanto
a più altri quelle cognizioni, che solle cose e non sulle parole, si foflcro
apprese - e un WC.F. n. 3. dotto farà sempre tanto dotto con una lingua, come
con dicci, siccome uno sciocco non si manifesterà men Iciocco con dieci lingue,
che con una sola. A ciò riguarda lo zelo, col quale i più sensati antichi, e
moderni ancora, si sono ognor dichiarati a favore, e àn sempre altamente
parlato in commendazione de’patri lari, de patrj collumi, de’patrj iflituti, e
della patria tavella. Ognun che trascuri tutto questo per quanto é suo, affine
di adottarlo per quanto folle dUltri, fia certo che trafeura quel che a lui è
più naturale, per aflumere e tenerfi a quel che gli è meno, e che ciò è coinè s
ei fpogliafle 1 proprj velliti per adoffarfi gli altrui, che non fe gli
adatteranno mai bene indoflb . Un uomo di tutti 1 coftumi, di tutti i
fentimenti, e di tutte le lingue, fuole dal popolo e dai romanzieri ammirarfi
come un portento . Un uomo tale per la verità c per la natura, farebbe un
arnefe infignificantee contraddittorio, di nelTun coftume, fentimento, o
favella che almen foffe Aia propria (A), com’ei farebbe di nelTuna nazione e
religione, quando intendeffe eflèr di tutte. Del rimanente col diffinguere come
fopra, idiverfi oggetti e coffumi di ciafeun tempo e di ciafeun luogo (c), non
s è già pretefo di dividerli in modo, y che non abbian poi a convenire allo
llelTo, per auan *°‘“«,'.P™«donp dalle ffefle invariabili leggi motrici, c dall
iffefla ragion urnana comune ; per la qual cofa le lingue altresì fi vedon poi
quafi confluir tutte in una, allorché gli oggetti, i coftumi e i fentimenti in
fomma umani efpreffi in una favella, fi trafportano a qualfivoglia altra. Ma
s’è pretefo con quello foltanto di far conofcere, che quella convenienza che
corre fra r une e 1’ altre lingue in riguardo appunto a codefie leggi e a
codefia ragion comune, per cui gli oggetti e i cofiumi fono confimili, non
pofla correre in riguardo alle modificazioni di quelle leggi e di quella
ragiotie diverfe, per le quali gli oggetti e ico». 1 . Itumi fon pur diverfi.
Ona è che per 1’ une e T altre lingue s’ efprimono oggetti bensì confimili, ma
diverfamente modificati, e per le voci vir, uomo, e s’esprime il medesimo uomo,
ma diversamente modificato in Lentulo, Giampietro, e Ricardo, come s’è veduto.
Queste modificazioni dunque diverse d’oggetti e cosìumi consimili fan fempre
conoscere, eh’efpreffi ciafeuni di quelli in una favella per modificazione a sè
naturale e nativa, trasportati ad un altra non pefTon serbare la nativa lor
proprietà e vivezza, ma debbon perdere di loro espressione più naturale. A
quello modo fi dirà, che pofla ciafeun valersi d’una lingua slraniera
qualunque, per quanto gl’oggetti, i collumi e i sentimenti sono gli llelfi e
confimili a tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma che non possa poi così
propriamente valerli di efla come della propria, per quanto quegl’oggetti,
collumi e sentimenti essendo consimili nelle loro specie, son poi dissimili
nelle loro modificazioni col variar de’ tempi e de’ luoghi. Dacché apparifee di
nuovo, come natura sempre a se steflà uguale e sempre saggia, avendo ordinato
gl’oggetti, i collumi e i sentimenti tutti consimili, ma pur diversi ; col
conceder agli nomini la ilefla FAVELLA perchè poteflero SOCCORRERSI GL’UNI
GL’ALTRI [GRICE PRINCIPLE OF CONVERSATIONAL HELPFULNESS] per quanto occorrefle,
la concefle altresì diversa, per quanto un simil soccorso poteflè renderfì loro
inutile, o potefle ancora convertirli in dannoso. Ma all’illeflb tempo conservò
nondimeno tutte le favelle consimili, per avvertirli d’ una Ulefla ragione e
amore COMUNE – GRICE CONVERSATIONAL SELF-LOVE, CONVERSATIONAL OTHER-LOVE --,
per cui doveflero tutti trovarfi uniti e concordi; quafi avvertendoli, che per suppLire
ai bisogni scambievoU di iudilienza, basta 1’opera immediata di pochi fra loro
vicini d’ una litigai medesima; e che peramarfi dovevano tanto stenderli,
quanto le favelle loro essendo diverse, foflcr tutte consimili, dovendo cosi il
circolo dell’ amore fra eSli edere incomparabilmente più ampio, di quello dell’
interede comune medeSitno. Ma ritornando airalterazione Solita seguir col
progredo de’tempi in ciascuna lingua viva, è da odervarfi, che Sebbene queda
foglia, e debba molto imputarli al commercio degli uni cogli altri popoli di
lingue diverse, e all’invasioni d’un popolo d’una lingua solle terre de’popoli
di un’altra; ed a nondimeno dee sempre principalmente attribuirsi alle
modificazioni degl’oggetti e codumi, che col progreSTo de’fecoli son Sempre
diverfe nelle consimili Specie loro ^ Perciocché lasciando pur dare, che
prescindendo ancora d’invasioni e commercio ederno, la lingua italiana o
l’inglese d’ora non è già la delTa che la italiana di Guiton d’Arezzo, o l’inglese
di Caucer; è certo che per quelle invasioni e per quel commercio ederno, non è
che gli uni adottino la lingua degli altri, ma é che dall’ impado di due lingue
(e ne forma una terza, che non è alcuna di quelle, liccome dalla composìzione
dell’une coll’altre inclinazioni e codumi ne rifulta un’altra a quelle
consimile, ma non mai la deSTa che quelle, prevalendo però Sempre in tutto
quedo l’indole degl’oggetti edemi attuali e presenti, e non mai dei lontani e
padati. L’introdurre in una nazione i codumi e la lingua d’un’altra, quando
tutto ciò va cangiando in qued’ altra fteSTa, è un’ aperta implicanza; e il
pretender tutti d’un codume e d’ una lingua medesima farebbe lo deSTo, che
limitar la natura come in ciafcuna Sua opera così in tutte, quando eSTa è tanto
infinitamente Simile in tutte, quanto infinitamente diffi H z niile in
ciafcune. Quindi è che per quanti barbaci) C. II. n.z. ri così detti, fian mai
fceft in ITALIA, i coftumi iu> liani àn potuto bensì coiromperfi ed alterarsi,
ma non mai perciò renderli così barrati, come i colìumi di quelli. E Io lleflb
è avvenuto delia lingua, che coll’ alterarsi per quello motivo, conserva sempre
1’indole dell’antica LATINA, e non già della gotica antica. Il tutto per gl’oggetti
e le produzioni italiane sempre nel rinovarsi men diverse da sè medeTime, di
quel che il potelTero essere da quelle della Gozia. Per la qual cosa dovevano
ben i goti più piegare ai collumi e alle inclinazioni italiane, che gl’
italiani ai collumi e alle inclinazioni de'goti, giacché quelli col trasportarsì
nelle pianure del Lazio e della Lombardia, non vi avevano trasporcato i diacci
o le rupi delle loro regioni. Certo, la verità delle coTe non apparire
airafpetDelle cogni- to ellerno di elTe, ma doverli invelligar per induzioni
reali, e ^ioni da cagioni occulte ed interne, quando più quando e e ipparen-
come apparisce dalle molte implicanze nelle quali s’incorre nel giudicarne di
prima villa, per le quali implicanze quel che sembra vero all’ellerno, Ti
Tcuopre realmente non efler tale, e Ti riconoTce fovente elio Hello eller Talfo.
E’ certo altresì, una tal verità dover nelle cofe eller unicamentre fe folTe
più d’ una o folTc da fe Heffa diverla, quella cofa ancora di cui fols’ elTa la
verità, farebbe pure più d’ una, o farebbe diverfa da sè medefima, ciò che
certamente è impoffibile . Ond’ è che fe d’ una cofa llelTa fi giudichi in più
maniere, tali giudici non faran veri, ma faran dubb) ed incerti, e tutt’al più
faran probabili e verifimili, come foglion pure appellarfi; e allora foltanto
faran elfi veri, quando elfendo d’un modo, fi riconofcano non poter elTere d’
alcun altro. Ciò fa ch’io dillingua le cognizioni umane vere t reali, dalie
verifiOlili ed apfarcnri, conlidcrando quelle per tali, la cui verità non poffa
cambiarfì con altra, comechè dedotta da ragioni immutabili e neccfl'arie, colle
quali non poflan altre competere, o polTan a quelle refiilere; e confìderando
quede per tali altre, la cui verità poffa eziandio cfler diverfa, comechè
fufcettibile di più e di meno, o proveniente da ragioni che s’ arreffano
Aiirefferno, e che eflendo a quel modo, potrebbero ancora efferlo a un’ altro,
ancorché non da altre apertamente fmentite. Del primo genere fono le cognizioni
che fi direbber geometriche affratte, della cui verità l’animo riman talmente
convinto, che di più non ricerca per effe . E del fecondo fon tutte le più
ufate, folite fpacciarfi da chi applica coi metodi più comuni all’ifforia, alla
fifica, alle leggi, alla politica e fimili ffudjpiù praticati, filile quali per
quanto la verità apparifca lotto a un afpetto, lafcia pur luogo di apparir
fotto a un altro fenza contraddizioni, conofciute almeno ed efpreffè; fcgno
evidente di non effer dunque tali cognizioni reali, ma di effer foltanto
apparenti, giacché le reali non fon che di un modo ( rt), e quelle fon di più
modi . Dell’ incertezza di quelle feconde cognizioni in confronto alle prime,
non diffentono gli rtefli coltivatori di effTe Ilorict, filici, legilli,
politici ed altri, quando convengono, le cognizioni loro ei fiffemi di più
modi, non effer cosi evidenti come le verità per efempio numeriche elementari,
da loro pure e da ogni altro conofciute a un fol modo. Chi ben attenda a quello
conofcerà, l’intelletto umano effcre molto più inclinato alle cognizioni
efferne ed apparenti, che alle interne e reali, ciò che procede non già dall’
effer ei più capace del falfo che del vero, come immaginan alcuni ; ma dall’
effer quelle cognizioni più facili di quelle, non efigcndofi per le apparenti
che certa attenzione fuperficialc, quando per le reali fi efige un’
applicazione più diligente e più dilìntereffata. Quella applicazione poi più
diligente e difintereflata richieda per le cognizioni reali, proviene ‘ dalla
neceflltà di 6flar per elTe lo fpirito per sè volubile e fugace, a un punto
foto dei moltiflinii, fra i quali ei fuole fvagare trafportato da’ cavalli
dell’ immaginazione fervidi di natura; e molto pià provien ella dalle feduzioni
de’fenli a proprio interelle, a che ei (la fortemente attaccato . Per la qual
cofa la mente umana o non cura idruirfi di fotta alcuna, e fchiva d’ ogni
applicazione, s’abbandona all’inerzia; o nell’ iftruzione medefima s’ arreda
alle prime imprellìoni, o fegue più la fcorta de’ fenlì in fuo prò, che quella
della ragione, intollerante di quel freno che quella cerca d’imporre a quelli,
perchè non la traggano lunpi dal vero. Certo è che tolta quell’ inerzia e
quella intolleranza, farebbero gli uomini cosi ben idrutti della verità delle
cofe, come ne fon mal idrutti/ gli ottimi conofcitori del vero farebbero nelle
piazze e ne’ mercati, nelle accademie e nelle corti, cosi familiari e
frequenti, come vi fon gl’ ignoranti e gl' impodori, e tutti parlerebbero di
verità, come i Parrochi nel. le Chiefe, e come i filofoli migliori ne’ privati
loro recedi. Pare dunque, che la verità reai del le cofe dia fituata a certo
punto di mezzo unico e indivifibile, innanzi e oltre il quale fia vano il
cercarla, o non fia podibile il rinvenirla che con dubbierà e incertezza ; e
che gli uomini per lo più o non fi muovano a ricercarla del tutto, o
neirinquifizione di elTa trafcendano quel punto, (edotti e ingannati dai fenfi,
che per loro interede particolare li trafportano dall’ une all’ altre
apparenze, lenza difcernere o arredarfi al punto reai delle cofe, fuor che ben
rare volte . In effetto il didinguer fra tutti quel punto folo, efìge certa
infidenza e applicazione, che non è volentieri incontrata, ma è al contrario
fchivata e abborrita ; e dall’ altra parte l’ affidarfì ad un punto folo degli
infiniti che ve n’ ànno, fra i quali può la mente fvagare nella traccia del vero,
è cofa ardua e difficile. Laonde le verità nuile o peggiori faran“cAp xiT
fempre più coltivate delle alcune o migliori, e gli uomini ad ogni tempo e in
ogni luogo faran Tempre nelle lor cognizioni medefime più Aiperfìciali e
diftratti, che rifleffivi e raccolti ; perciocché non potendo le cognizioni
reali acquiltarfi che per applicazione più laboriofa, c per aftrazione dai
fenfi, non faranno dunque elleno mai comuni fra gli uomini, alieni comunemente
da quel lavoro e da quell’ aerazione, maffime per l’interelTe loro che
v’interviene particolare, al quale principalmente riguardano i fenfi .
S’aggiunge a ciò, che quel che induce gli uomini ad applicare di via ordinaria
alle cognizioni apparenti, non ollante refler clTe divcrfe dalle reali, è ancor
quello, che quelle cognizioni per quanto fian dubbie, oltre al prefentarfi
Tempre in fembianza di reali, lon bene fpeffo reali effettivamente effe fteffe
; e la differenza dell’ une dall’ altre confifte foltanto in ciò, che laddove
le reali fon conofciute tali immediatamente per sè medefime, le apparenti non
fi riconofcono per reali che dagli effetti confecutivi, o dall’ cfperienze
eventuali che lor corrifpondano o non corrifpondano, attendendofi cosi da
quelle la prova della verità loro reale, o della apparente . Allora poi le
cognizioni corrifpondono cogli eflfetti confecutivi, o fon comprovate per elfi,
quando effendo quelli dagli altri diverfi, non fono a quelli contrarj; e allora
non ccrrifpondono, o non fi verificano per gli cfl'etti che ne confeguono, quando
quelli fi trovano implicanti, e a tutt’ altri o ai comuni contrarj .
Imperciocché le cognizioni, all’ illello modo che gli oggetti creati, e i
cotlumi c le ^inioni umane che ne derivano, poffon bensì cller diverfe, ma non
poffon fra sé trovarli giammai contrarie, e quelle e quelle finché fon diverfe,
fon reali e conformi alia verità comundi natura ; e qualor fi readon contrarie,
fono apparenti, imponìbili, e conformi al/alfo e all’errore. Le cognizioni
dunque apparenti polTono e(Tcr reali ancorché fempre noi (ìano, perchè
dipendendo dagli effetti confecutivi, poflbno queffi effer dagli altri diverfi,
ancora chè poffano eziandio efler a quegli altri comuni contrari ; a differenza
delle cognizioni reali così dette, le quali non dipendendo da effètti confecutivi
alcuni, ma da sè fole, ed effendo fra sè diverfe, non poflbn efler contrarie nè
fra sè ffeffe, nè negli effètti comuni che le confeguono . Gli uomini poi
inclinano più a quelle che a queffe cognizioni, per eflTer più facile attendere
la verità dagli eventi confecutivi benché dubbioli, che logorarli il cervello,
come lor fembra, nel ricercarla per sè medefima e di prima mano. E ciò tanto
più, quanto per le lufìnghe de’ fenfi, o per interefie loro particolare, le
cognizioni apparenti dilettano molto più delle reali, avvegnaché queffe
iffruifeano più di quelle, e ognun vede, che inclinando elfì fempre più ai
diletto de’fenfì che all’iffruzion della mente, faranno dunque efft fempre più
avidi di cognizioni apparenti che di reali, in tutto ciò che riguarda la ricerca
del vero. Ma intanto qui fi vede, come le cognizioni diverfe e reali, alle
apparenti ad effe contrarie tengono la ffclTa relazione, che gli oggetti pur
diverfi e reali, ai contrarj ad effì e aita comun ragione, per queffo appunto,
che quei primi coffumi procedono da quelle prime cognizioni, e queffi fecondi
da queffe feconde. Quello ch’io vorrei qui malTimamente avvertito, egli è, che
quantunque il punto fuddetto nel quale fu detto dler polla la verità reai delle
cofe, per edere indubitato e folo, fembri non poter convenire e non poter
confeguirfi che nelle cognizioni affratte e geometriche cosi dette, convien
elio nondimeno e fi trova molto bene in ogni genere di cognizione pratica. Chi
crede la fola geometrìa e l’ altre cognizioni affratte, dette ancora teoriche,
capaci di certezza reale, e l’altre cognizioni dette volgarmente pratiche, non
ca-‘ paci della certezza medefìma; non avverte, l’adrazione di quelle prime non
confidere appunto che nell’ a<ha> rione dai fenll, e la evidenza di elTe
dipendere dal metodo d’ inveliigare il vero, o di dedurre le verità più compone
dalle più femplici. La qual aerazione dai ienfi e il qual metodo può aver
luogo, anzi dee averlo, ed applicarfì a qualfrvoglia facoltà di leggi, di
Itoria, di fìfìca, di politica, di teologia liefla e di morale, e di tant’
altre, nelle quali foglion dividerfì le cognizioni umane; di ciafeuna delle
quali fi giudicherà Tempre realmente, fol che fi aftragga dagl’ inganni e dalle
feduzioni de’ fenfi, e fi giudicherà femprd con dubbio, non afiraendo datai
feduzioni, o non correggendole per lo reale della ragion comune, come fi
pratica nelle cognizioni dette appunto afiratte e teoriche. In guifa che 1’
incertezza delle feienze pratiche come le appellano, in confronto delle
teoriche o afiratte, dipenda Tempre dall’inganno de’ fenfi, dai quali gli
uomini s’ingegnano in vero di aflrarre o di prefeindere, quando meditano, ma
non fan rifolverfi di far lo fieflb, o duran fatica a farlo, quando operano. A
quello modo ogni fpecie di cognizione umana, qualor lia verace e reale, fi
renderà una fpecie di geometria, e non rendendofi tale, non farà che una
cognizione fuperficiale, apparente ed incerta, come quella che involve le
illufiioni de’lènfi, perle cui apparenze può ciafeuno cafualmente imbatterfi nei
vero, ma può ancora rellar ingannato o trovarli involto nel falfo. Anzi la geometria
cosi detta, non farà per sà stessa cognizione, ma parlando più propriamente, fa
il metodo ola regola, per la quale dillinguere in qualfivoglia specie di
cognizione il reale dall’apparente, e di rilevare in ella la verità per quanto
è possìbìle, o di disingannare per quanto non è possibile di rilevarla
convenendo così elTa colla Logica comune, o ellendo la Geometria una Logica
pratica, quando la } comune cosi detta, non è che una Logica fpeculativa, men
facile a praticarli e men ficura . Del rimanente è poi vero che parlando in
genere, lo fpirito umano in ordine a cognizioni, parte (i trova fotto al punto
reale e più precifo di elTe difopra accennato, e parte ancor Io oltrepalTa e
trafcende e che quello è il coliume del popolo più incolto ed abietto inclinato
alla pigrizia, quando quello è il folito del popolo più colto e volgarmente
Hudiofo, amante per lo più delle follecitudini e della gloria alfannola .
Perciocché egli è vero, che gli uomini fchivi di quella laboriofa applicazione
eh’ elige la ricerca del vero reale, s’abbandonano fpeflb all’inerzia e non v’
applicano di Torta alcuna . Ma dall’altra parte è vero altresì, che avidi elTi
di cognizioni, e Idegnofì per mancanza di quelle di vederli confufi col comun
della plebe, s’alzano fopra quella nella ricerca medellma, nella quale poi
impazienti di freno, lìlafciano trafportare dalie illulìoni de’fenfi come s’è
detto, oltre quel punto, e lo sfuggono fenza avvederfene, feorrendo
dall’ignoranza propria del volgo più rozzo, a quella propria de’ comuni
(ludiofi, che per lo più fono i troppo lludiofi. L’una e l’altra ignoranza può
dirfi comune, ef< tendo ben pochi quei che fcevri da illulìoni, ricerchino
la verità con accuratezza fenza penofa follecitudine, e eh’ elTendo tranquilli,
non fiano pigri ed inerti. E l’una e l’altra ignoranza fi dirà ancora comune^
del pari ; mercecchè chi toglielTe a follenere, quella' de’ comuni lludioli
elTere meno ellefa, e più tollerabile di quella de' comuni idioti, torrebbe a
follenere ardua e didicil cofa, e a ben riflettere s’ accorgerebbe, la
differenza dell’ una dall’altra ignoranza elTèr polla in ciò foto, che elTendo
quella degli idioti più fempliceemen fallofa, quella dei più fludioiì tien più
di fallo, e men di femplicità. Poiché le cognizioni apparenti ed ellerne fon
molto pià coltivate delle reali ed interne (a), egli è certo, che gli uomini
nella condotta de’ loro aSari, dovranno di regola generale govemarfi per
quelle, più che per quelle cognizioni, dovendo certamente govemarfi ellt
comunemente Mr cognizioni che fiano fra lor più comuni, anziché per quelle che
fodero men comuni. Una llmil condotta loro non può negarli in pratica da chi
dia ad olTervarli, ed ogni perfona più accorta s’ avvedrà molto bene, che
tenendo ciafcun in mente certa verità reai delle cofe non abballanza da lui
fviluppata ed attefa, pure co’ fuoi penfìeri e colle fue azioni fa forza a sè
delTo per adattarli alla verità di quelle apparente, e ciò per conformarli al comune
degli altri, che paghi di quella verità, mal foflfrono di procedece a quella .
Nè v’è cola più familiare, quanto il vedere i più fenlati in ogni fpecie d’
aflàri loro economici e civili ancor più fer), adattarli con certa ripugnanza
interna colle cognizioni loro reali per quante ne tengono, alle apparenti dei
men fenfati, come altresì a quantità di ulRcj, formalità, e convenienze ederne
di vita vane ed inutili, che di quegli adari più fer) fon per lo più la
difpofizione, il. veicolo, e l’impulfo maggiore . Lo che non per altro
certamente fuccede, che per la facilità maggiore, colla quale quegli adari fi
conducono a proprio intereffe colla fcorta dei fenfì per cognizioni apparenti,
di quel che li conducedero per reali, con più d’efame e con più adrazione dai
fenfi, fodrendo così ciafcuno con qualche fua pena negli altri quella
negligenza di cognizioni, che brama con maggior fuo comodo da altri fodèrta in
lui dedb . Tutto quedo poi avviene fenza difordine, e con efito ancora felice,
purché- quelle cognizioni apparenti non s’oppongano alle reali, ciò che negli
uomini che fi regolino a quedo modo non può conofoerfì che per gli effetti 1 2
con- Cognizioni apparenti più pratiche delle reali. Consecutivi come s’è
veduto, o per Toltraggio o danno che fe ne fcorga provenuto negli altri.
Perciocché fe quegli aflari cosi condotti, eflendo utili a sò fteflì, non
riurciran dannofi ad alcuni ; le cognizioni apparenti,- per le quali (I
conducono, faran conformi alle reali e procederanno elll felicemente, e il
contrario avverrà, fe da quell’ utile particolare ne feguirà danno ad altri,
nel qual cafo non potrebber gli ad'ari procedere, che con ifconcerto e
difordine. E invero fe gli uomini tutti fi- governalTero direttamente per
cognizioni reali e teoriche, gli fconcerti fra loro farebber tolti del tutto e
farebbero impolTibili, tutti fi troverebbero d’ un fcntimento conforme ed
unanime, nè vi avrebbe il cafo di diirenfioni dell’uno coll’altro in
qualfivoglia genere d’ intereife o . d’ affare. Ma essendo quello iirpoffìbile,
attefa la (0 feduzione de’fenfi a proprio intercfle, ei bada dun* que per
evitar gli fconcerti, che governandoli effi per apparenza e per pratica, non
s’oppongano almeno al reai delle cole . Quegli fconcerti poi procedono dalla verità
di natura, la quale non laida di regolare gli uomini per io reale, ad onta
d’ogni lor propenfìone, dilegno e inffllenza di regolarfi pure per apparenze .
Ond’ è, che fe tali apparenze fon contrarie a quel reale, debbono quelle andar
vuote d’effetto, o confeguir-i lo con difordine, per poter bensì l’apparente
averluogo, quando non na al reale contrario, ma non pcteraver mai, quando al
reale s’ opponga {d) . Quello regolarfi gli uomini da sè fteflì per apparenze,
e regolarli la natura irrefiffibilmente per io reale, fa conofeere, che fe effi
pur reggono e fuffiffono, e i loro affari procedono felicemente, ciò avviene
per difpofizicne e faper di natura, e non mai per fapicn-za loro, giacché
governandofi effi al primo modo errano bene ImITo, e fi trovano fvergognati
dalla verità reale, quando natura governandoli al fecondo non erra giammai, ed
è Tempre a sè llelTa conforme . Egli è ben vero, esser poi quefto ftcflTo il
gran delirio di quei politici, ed altri che più prefumono di prudenza umana, i
quali vedendo cosi fpenb mancare i loro progetti più ipeciofì, non s’ accorgono
derivar ciò da quello appun< to, di elTcr quelli contrari al reai delle
cofe, per non riguardarne che l’apparente, per la qual cofa la natura che non
intende apparenze, fconcerta le loro inifure, e delude per lo reale quanto per
1’ apparente eflt tentano, e non è Tempre polTibile che riefca . Peg § io però
intendono e ufan quei fcimuniti, che vedeno i molti difordini che corion fra
gli uomini, fogliono imputarli alla natura, o al grande autore di e(Ta « quando
è certo che debbon quelli imputarfi agli uomini Itein, che in luogo di
applicare al reai delle cofe, applicano all’ apparente, che può a quel reale
elfer conforme, ma può ancora a quello cder contrario, e perciò impolTibile a
riufcire ( <» ) ; in guifa eh’ effen- ».j do gli uomini Tempre occupati a
imbarazzarfi infìeme per fole loro follie, la natura non fembri occupata
d’altro, che di sbarazzarli, emendando e correggendo quelle follie medefime .
Quello che qui lì dice è tanto più vero, quanto la verità reale non è già per
gli uomini un arcano, ma è cofa palefe ad ognuno, che nel cercarla fappia
prelcindere, o non fr lafci ingannare da illulìoni di fenfi . Ciò fi manifella,
oltre per la forza che come (opra ognun fa a fe llelTo nell’ adattarfi al
penfar apparente degli altri (é), per quello ancora, chegrin-iganni medefimi,
nei quali bene fpelTo cadono gli uomini per quelle illufioni, appena incontrati
da una parte da alcuni, fono riconofeiuti da tutti dall’altra, non folo per gli
effetti contrarj che fpelTo ne derivano, ma per lo pianto ancora, e pel rifo
che più ancor di frequente fi fparge full’ azioni umane. Perciocché le ben fi
confideri, l’uno e l’altro di quelli non è pollo che in ciò, di riconofeer gli
uni, che s’ollinino gli altri a regolarfi per apparenze, quando la natura e
Hiria neceffità li aftrigne a regolarli per lo reale . Dacché procedon fra loro
quei tanti inganni, e quelle miferie, che vedute in altri folTerte per altrui
opera, generan la compaflìone ; e vedute fofferte da altri per loro colpa,
generano il ridicolo . Non avendovi poi genere di peribne di quallivoglia arte,
ufficio, o profeflìone, fui quale non cada qualche fpecie di compaffione o di
ridicolo conofciuto da tutti, non v’avrà genere di perfone, che non fi governi
per apparenze . Ma quella riconofcenza comune medefima farà molto ben noto, una
verità reai delle cofe elTer da tutti fentita, ancorché men coltivata, per
eflcre veramente più facile compatire- le altrui miferie o ridere degli altrui
inganni, che coltivar quella verità con più d’ attenzione, aliraendo dai fenfi
e dalle loro illufìoni a proprio favore, E qui s’ oflfervi, come di quella
verità reale fentita, ma non attefa, fon del pari lontani ed ignari e quei che
delle azioni umane fentono compaflìone, e quei che ne conofcono il ridicolo,
colla fola differenza, che l’ignoranza dei primi pare efler quella della plebe
meno fludiofa, e l’ignoranza dei fecondi quella degli fludiofi di fole
apparenze, o dei vanamente ftudiofi, quando quei che applicano al reai delle
cofe, non piangono nè ridono mai delle verità che conofcono. Così Eraclito, e
Democrito, come vien detto, erano tanto faggi, quanto a conofcer le apparenze
per cali, ma non quanto a diftinguerle dai reale o a conofcer le verità uefTe
reali, al che nelTuni procederono tanto innanzi, quanto ifilorofì del
crillianefimo. Quello però non impedifce, che in ogni flato, poiché le
cognizioni reali vengono in confeguenza della iflruzione, e le apparenti in
confeguenza del diletto durato nell’ acquiflarle, gli uomini più propenfi a
quefto diletto che a quella illruzione, non lian più ricchi di quelle che di
quelle cognizioni, e che gli affari loro condotti per aroarenze, non fi
conducano femprecon implicanze e difordini, di che non lì ceflTa di lamentarfi,
e a che non fi cefla di fiudio per provvedervi. 1 quali difordini, (oliti mal
attribuirfi alla debolezza delle umane cognizioni, e peggio a diHètto di
natura, abbian tutti a cadere come s’ è detto, fuU’ WC.A^///.».z, avverfione
fuddetta all’ifiruzione migliore^ e filila pròpenfione al diletto fiiperfìciale
e peggiore ; mercecchè dovendo Tempre gli affari proceder per verità reali, e
con certo ordine di natura flabilito dal fupremo Tuo autore, qualora voglian
diflrarfi per apparenti contrarie a queir ordine, non potranno a meno di non
procedere con difordine. Qui non può a meno di non prefentarfi alla mente una
verità, la quale è quella, che diflinguendofi gli affari particolari dai
communi, poffano nell’, ellerno molto piò facilmente condurfi per cognizioni, reali
quelli che quelli, per edere appunto il particolare più facilmente condotto per
Io reale, di quel che fiafi il comune, che come s’ e veduto, non è con-
WCJCILn.i, dotto che per apparenze . Una fimile verità quantunque di fatto, non
fi efprimerebbe da alcuni con parole, quafi per timore di non mollrar per effa
dì credere, o di dar a credere, che al governo degli altri non fi richiedan che
cognizioni apparenti, polle le reali tutte dapparte. Allopollo però di quello,
chi ridetta più finceramente apprenderà, che per quello appunto di dover il
comune degli uomini regolarfi per cognizioni apparenti, è necelfario fra elfi
un governo ellerno, per cui da quell’ apparente fian tutti condotti al reai
delle cofe ; mercecchè fe il comune degli uomini fi regolalfe per lo reale,
ogni governo allora fra loro ellerno farebbe inutile e vano . In edètto fe fi
confìderi che per necedità di natura debbon gli adàri procedere per lo reale, e
che l’apparente può invero elfere a quello reale conforme, ma può ancora non
eflèrlo; ^li è dunque d’ uopo per non trovarfi colla natura in contrailo, che
v’ abbian alcuni, i quali più bene intefi, più efperti ed illrutti degli altri
nelle verità reali ( che o bene o male fon fentite da tutma non da tutti dalle
apparenti dipinte prefìedano agli altri, e diftinguan loro quali di tutte le
cognizioni apparenti per le quali fì regolano, fianò alle reali couformi, e
quali fìano a quelle contrarie . Quefto infatti è ciò cn è intefo per ogni
Governo, prima per la perAiaHone della Religione, depofìtaria delle verità
reali non corrotte da apparenze contrarie, e desinata così a infegnarle ai
popoli per regola delle loro paOioni, delle loro azioni, e de’ loro coftumi ;
ed indi per la forza o il comando del Principato, deAinato a far valere quelle
verità medefime, e a difènderle, per Quanto colle apparenti a quelle contrarie
foffero contralUte . La qual difinzione di Religione e di Principato nel
governo non è un giuoco dì fpirito, ma una necefìtà di natura, per cui nella
condizione umana non è pofibile, che un perfuada a ciò a che dovefe pur af
rignerc, o afringa a ciò a che dovefle pur perfuadere, per l’ abufo d’una di
quefe facoltà che ognun vede poter allora feguire nell’ ufo dell’ altra, come ò
altrove dimofrato ampiamente . Io qui parlo de’ governi ben ordinati e fenfati,
ne’ quali la Religione appunto e il Principato nelle refpettive loro
appartenenze iuddette, fon del pari lìberi e indipendenti, come nelle nazioni
più colte e più crìfiane,* e non de’ governi difordinati, ne’ quali confufe
quelle due appartenenze in una, o oppredà l’una dall’altra, il governo (lelTo
non è che una fìmulazione o impofura, rapprefentato da una fola autorità più
forte, e foggetta alle UriTe illufioni d’ ogni altro, come nelle nazioni men
colte, o nelle quali più prevale la fchìavitù e 1’ ignoranza. In qualunque modo
però proceda un governo* egli è fempre vero, che attefa l’inclinazione comune
all’apparente più che al reale, elTo non efibifce oprefenta mai ai popoli le
verità reali, che coll’afpetto delle ‘ apparenti, e che nel adattare appunto 1’
apparente conforme e non il contrario al reai delle cole, è pollo tutto
l’arcano e l’arte ben difficile di regger i popoli, fenza di che quella non
farebbe, che un’arte ben facile di follazzare sè lleflì . I governi poi ben
ordinati dagli fconcertati fi dillinguono appunto per quello foto, eh’ eflendo
gli uni e gli altri occupati nell’ accomodare il reale all’ apparente, o all’
intendimento fuperficiale del popolo, i primi per quell’ apparente non li
fcollano mai dalle verità reali molto ben conofeiute da chi governa, quando i
fecondi per quell’ apparente s’ oppongono più o meno a quelle verità reali,
feonofeiute ed ignote talvolta più a chi governa, che a chi da altrui è
governato . Ma intanto quindi apparifee, come non potrebbe dirli cofa più
inlenfata di quella, che la Religione non abbia ad aver parte nel governo de’
popoli nell’ illruire, come loà l’Impero nel comandare, o nell’ allrignere alle
verità medefime, per le quali i popoli fon governati; Tempre ciò intefo de’
governi (inceri e reali, e non delle fimulazioni o apparenze di ellì, contrarie
elTe (lede talvolta al reai delle cofe. Quello poi ch’è pur detto da alcuni con
qualche circofpezione e riferva, toma però a quello che con minor riferva è
detto da più altri ; cioè che al governo Udrò ballino cognizioni pratiche, vale
a dire apparenti, e che le teoriche o reali fìano del tutto inutili . lo fon
certo, che gli uomini di (lato più accorti, converran Tempre meco, che ogni lor
pratica abbia da procedere da conifpondente teorica, e che per quella fola da
quella difgiunta, gli (latifli non dovelTer riufeire che a tanti ciechi, che lì
battdTero infìeme / nel qual cafo i popoli di elfi più faggi àvrebber ragione
di lafciarli fare, governandoli inunto da loro llelfi. P t^emefle quelle
conftderazioni Tulle cognizioni urna ne reali e Tulle apparenti, per rilevare
1’ effetto Imperfeiione della favella nel comunicarle altrui, gioverà
confiderà- dell» favella re in prima pur quella fotte un doppio afpetto, o di
dichiarare ad altri le cognizioni della prima fpeciepià ardue e men note, o di
trattenerli su quelle della fe> conda più facili, e quai fon conofciute
comunemente ; giacché in eflètto quallìvoglia ragionamento verfa fempre su
qualche foggetto, noto bensì ad ognuno per le lue apparenze più generali ed
elìerne, ma ignoto altresì comunemente per li Tuoi principi afcolì ed interni.
Siccome poi le prime cognizioni fì fon vedute intefe a idruire, e le feconde a
dilettare ciafcuni che vi applicano (a); così ufficio della fa\ella fi dirà pur
doppio, o d’ iflruire altri nelle cognizioni non per anco da effi acquilìate, o
di dilettarli nelle giàacquilìate; quello molto più familiare di quello e
frequente, giacché il più confueto degli uomini è d’ intrattenerfì fra lor per
diletto, favellando di quel che fanno; e l’inllruir gli uni gli altri di quel
che quelli non fanno, par cofa riferbata alle fcuole, e da non praticarfi fuor
d’efle che con altrui fallidio, dai foli pedanti. Nientedimeno, poiché la
favella é pur dellinata a partecipare ad altri le cognizioni da cialcuni
acquiUate, e tali cognizioni dipendono da oggetti appreli e combinati; é
altresì da confiderare, eh’ elfendo 3 ue(li oggetti a numero incomparabilmente
maggiore elle voci, per le quali poflfano denominarfi (r), le voci in ogni favella
mancheranno bene fpelTo, come per nominar quegli oggetti, cosi molto più Mr
efprimerne le cognizioni, e la favella a quell’ enetto rinfeirà un mezzo
dubbio, confulo e imperfetto . E invero quantunque ciafcuni oggetti in ciafeuna
favella tengano alcune voci più efprelfìve e diUinte, dette perunto \ot
proprie", ciò non fa che tali voci non pollano eziandio applicarli ad
oggetti da quelli diverli, per le quali diventan traslate, non per altro
certamente, che per la povertà appunto di clTe voci in riguardo agli oggetti,
eaU’impoinbiltà di appellar ciafcuni con voci talmente proprie, che non pòiTan
elTer d’altri . Oad’,é che una voce medeGma dellinata cosi a più oggetti, gli
cfprime Tempre con proprietà maggiore o gap. xiv. minore, ma non mai per la
fola e precifa, che cor-' ril'ponda per la cognizione di dii. II. S’ arrese,
eh’ dTendo le apprenfioni e le combinazioni d’oggetti diverfe nelle ciafeune
menti y tali combinazioni che ne derivano, debbon pur dier per ciafeuni
diverfe, e il comunicar uno agli altri le proprie, potrà bensì edere per
regolarle e confrontarle con quelle degli altri, ma non mai perchè diventino
cosi proprie d’altri, come fon fue. All’incontro la favella è a ciafeuno
comune, ed è la deda in una deffa nazione, e quando dante la diverfità
d’apprenfioni e di combinazioni d’oggetti, le cognizioni particolari fono in
altri più chiare ed edefe, in altri più ofeure e ridrette ; le voci per cui
efprìmerfi, non fon più chia> re o copiofe per ^elli o per quedi, ma fon le
dede per tutti, e il più fciocco parlerà forfè tanto e più ancora del più
lenfato. Per la t^ual cofa la favella dovrà ognor trovarfi inedìcace o
imperfetta per efprimere le cognizioni, dovendo eda eder tanto comune al dotto
che più ne podìede, che all’ indotto che ne poffiede meno, e dovendo
necedariamente adattarfi all’ intendimento non dei più, ma dei meno intendenti,
che fono a maggior numero fra quei che l’adoprano. A quedo modo parlando più
propriamente, fi direbbero le lingue idituite non a efprimere le cognizioni, ma
a fufcitarle più o meno nelle menti a norma dei ciafeuni intendimenti, giacché
per le dede voci altri le apprende più didinte e moltiplici, altri più limitate
e confufe . Perciocché per quanto il dotto tenti partecipar le fue all’indotto,
ufando la deda di lui favella; quedi non le concepifee mai che in relazione
alle per lui apprefe dianzi, per gli ometti dedi da lui combinati diverfamente
dall’altro. Per quedo di cento che odano un rt^ionamento, o che leggano un
libro deffo, ciafeun fe ne idruifee a norma della qualità delle cognizioni da
lui podedute e apprefe dianzi, e il dottO' K a puù può per un libro fciocco
> rettificandolo e migliorandolo per le Tue cognizioni, farìfipiì^ dotto,
<|uando l’indotto per un libro de’oiù Irafati, può divenir più sguajatodt
prima, o renderli per quella lettura più (Iucche vote e più Impertinente, ma
non già più dotto. Se ciò non fofle, ogni difcepolo al folo udire il maedro,
diverrebbe così dotto che lui, e per divenir Capiente come il Galileo dovrebbe
badare il leggere le fue Opere, che parlando generalmente è tanto vero, quanto
il pretendere di partecipare alla fua dottrina, per adìbiarri quel fuo certo
collare che forfè fi conferva per memoria di un tanto uomo, ma non per ridampar
qued’uomoad ognun che Io adìbj. III. Per altro qui cade a propofito di
riflettere alquanto Alila diverlità delle cognizioni umane, e Alila moltiplickà
per ede e varietà, con cui procede natura nelle Aie operazioni. Perciocché
edcndo in prima le voci in ciafcuna lingua a così gran numero, quanto è pur noto
; quedo numero moltiplica colla ferie de’ tempi infiniti e de' luoghi finiti,
efomminidra una moltitudine innumerabile di lingue, in ciafcuna delle quali le
voci lon all’ idedb modo moltidtme . Contuttociò fe A confiderino le maniere,
colie quali quede voci prefe a numero maggiore e minore fogliono combinard e
permutarA in una favella, A conofcerà, tali combinazioni e permute collocate
pur con fenfo e difcemimento, edere a numero incomparabilmente fuperiore a
quello delle voci in eda, ed eder in tutte le lingue a tanto più ancora, quanto
imfwrti quedo gran numero di pennute e ' ' di combinazioni in una lingua,
moltiplicato nel numero delle lingue di tutti i luoghi e di tutti i tempi
Padando poi dalle voci e combinazioni loro, agli oggetti ocmbinati per ede
efpredt, e alle maniere di cognizioni che ne derivano ; A conofcerà, la
moltitudine di tutto quedo edere incomparabilmente ancor fuperiore a quella
delie combinazioni di voci, e tantoAiperiore in ciafcuna lingua, quanto per
ciafcuna combinazione di voci in efla ciafcun apprende e combina gli oggetti
fiedì difl'erentemente, e ne forma diverfe le cognizioni, proferendole
iftelTamente . Tantopià poi fuperiore in tutte le lingue, quanto quel numero di
cognizioni diverfe in ciafcuno di diverfa lingua, moltiplicato pure nel numero
delle lingue tutte diverfe palTate, prefenti, e future . Quello poi che reca
maggior forprefa egli è, che tutta quella prima prodigiofa quantità di voci e
combinazioni loro, non deriva da più, che da venti elementi o lettere d’ alfabeto,
più o meno pronunziate in ogni lingua . E che queda feconda tanto più
prodigiofa e incredibile quantità di apprenfloni e di combinazioni d’oggetti, e
di cognizioni su e(Tì, non deriva che da alcune leggi di moto quanto più
femplici e vere, tanto più uniche e fole, giacché tutte le apprenfioni e
cognizioni umane, per quanto fiano individualmente diverfe in ciafcuno, pur
fono in tutti confimili. Tutta poi C. II. mi.. codeda varietà e fbmiglianza di
cofe è unita e concatenata infìeme, e procede e fi confegue con certoordine e
ragione eterna e immutabile, lenza la quale {^un comprende nulla poter
avvenire, e a comprendere la quale ognun conofce in sè dedb, poter edenderfi
ben per poco la umana capacità, colla fcorta di fenfi infermie fallaci. Niente
di meno in quedo dedo natura non manca, giacché dal minimo faggio che di ciò fi
trafpira, può altresì ognuno arguire, quanta e quale fiala pofTanza e la
fapienza del fupremo autore di tutto quedo, e quanto ammirando l’ordine e il
raagidero con ch’ei governa e regola l’univerfo. U NA affai curiofa confeguenza
che dalle cofe Aid- dette fi viene a dedurre è queda, che l’ imper- ImMrfezione
lezione accennata delle lingue, per cui le voci riefcono dell» favella a numero
molto minore di quello degli oggetti per dell effe efpredi, par che torni non
già a diffctto come fi. crederebbe a prima vida, ma a perfezione ed eleganza di
quelle maggiore, in quanto non avendovi cosi nefTune voci talmente proprie e
attaccate ad alcuni oggetti, che non poiTano applicarfì anco ad altri ; gli
oggetti tiefli polTono efprimerri, o dedarfene le immagini negl’ intelletti,
non folo per voci dirette, ma per fHÙ altre ancora indirette chiamate traslate
come s’è veduto, d’t^getti a quelli analoghi e confimili. A quello modo lebbene
manchino nelle lingue le voci dell’ ultima precisone alle immagini degli
oggetti determinate, foprabbondano per le indeterminate, e in mancanza e
neU’impofTibiltà di adoperare per ciafeuna immagine ciafeuna voce diverfa, le
ne adoprano non una, ma più e più altre d’ oggetti a quelk affini e confimili,
per le quali non una, ma più immagini fìmilmente occorrono all’ intelletto pur
fra sè confimili e combinabili, ciò che Tuoi avvenire con molto diletto e
foddisfazione dell’ intelletto medefimo. Cosi appellandofi DIO ottimo e
grandiffimo, non folo per quello venerando più proprio fuo nome, ma per altri
ancora traslati di via, di verità, di vita e fimili, fi dellan nell’ animo
tutte le immagini proprie e bro affini, polTibili più o meno a dellarfi per
quelle ciafeune voci, a mifura dell’attività dell’animo Udrò, onde figurar alla
mente con più efficacia e grandezza r idea di quella ineUàbile elTenza . E
generalmente laddove fe ciafeuna voce propria corrifpondellè efattamente a
ciafeuna immagine a efclufione di tutt’ altre voci, da dieci voci proprie per
efempio, non fi deUerebber nell’ animo che altrettante - immagini combinabili
in alcuni modi; corrifpondendo quelle nonefattamente e non a efclufione di
altre, vi fi dellan per dieci voci proprie e più altre traslate, pur altrettante
immagini combinabili in nioltifiime più altre maniere. Su quella condizion
delle lingue, o fu quello difetto in effe di vocaboli per efprimer gli oggetti,
è pollo tutto i! pregio deli’ eloquenza, e da ciò derivano tutte le perfezioni
e tutti gl’ incantcTimi dell’ arte oratoria, e più della poetica; vaie a dire
non folo i traslati, ma le allegorie ancora > le allulioni, le parabole, le
(imiiitudini, le analogie, le efagerazioni, il palTaggio dal proprio al
metaforico, dal ferio al gio<cofo, dall’ animato all’inanimato, e fimili
ornamenti che fan la grazia, la forza, e la bellezza eh’ è invero delle
immagini dedate e .combinate nell’ intelletto, ma che in eflb non fi
dellerebbero e combinerebbero, fei termini nelle lingue coi quali efprimer gli
ometti, foffer tanti quanti eflì . Perciocché dall’ dfer folo quelli a molto
meno, ne avviene che non fiano quelli cosi propr) di alcuni oggetti, che non
polTanu eziandio trasferirfi ad altri, per li quali con numero d’ immagini
maggiore, certe verità intefe afignificarfi, fi rapprefentino all’ intelletto
con più di vivacità e di vaghezza . Egli è ben vero che affinché ciò riefea
felicemente è d' uopo, che tali traslati feguano con certa fcelta e giudicio,
fenza di che tutti gli ornamenti rettorici e poetici non avrebbero fenfo; e non
confidendo edéttivamente l’ infenfatezza che nella combinazione d’oggetti fatta
fenza dilcernimento, fe le voci proprie fofler applicate ad oggetti trasìati
pure fenza difeernimento ed a cafo, non potrebbe quindi derivare che ofeurità e
confufìone . Laonde i traslati nelle lingue per quanto pur fian difparati,
debbono ferbare certa conneffione e mifura, per la quale fian conofeiuti fimili
e relativi agli oggetti lor propr), fenza di che chi fi credefle il più
l'ublime nell'eloquenza, potrebbe edere il più proffimo alla fatuità, e dalle
immajgini più ardite e più ingegnofe di Pindaro, lì potrebbe Korrere con breve
pafso alle più infenfate aisurdicà d’ un vifionario. Quefta .condizione non è
della fola rettorica e poetica, ma di tutte le bell’ arti ancor cosi dette, e
di tuue le opere di entufiafmo, nelle quali il più fublime delirio confiru
infcnlìbilmente col più Urano ridicolo, e il pittore e il mufico più eccellente
neirarte fua, con un pafso più oltre trafcende il giudicio, e diventa una Aia
caricatura di piazza, nella quale pur procedendo per gradi, può toccarfi
l’eftre* mo, fino all’efser condotto allo fjpedale qual pazzo dichiarato . Ch’
è la ragione, per cui comunemente ancor fu odervato, ogni pazzo tener un non fo
che di poeta, di mufico o di pittore, fìccome ciafeun diqueAi, tener talvolta
in lor virtù qualche irregolarità, che li denota prodimi alla pazzia. Per altro
quedo diletto che così apporta la favella, col trafportar l’intelletto dal
projprio al figurato degli oggetti, fa conofeere che l’ imperfezione e la
incapacità conofeiura in efsa difopra («), per partecipa». 1. 2. re altrui le
proprie cognizioni, dee edere intefa in riguardo principalmente alle reali, per
le quali reda la mente idrutta, e non già in riguardo alle apparenti, per le
quali fuol eda dilettare. E in vero i traslati, le analogie, e gli altri
ornamenti rettorici fuddetti, convengono molto bene alle cognizioni di quedo
fecondo genere, per eder ede note comunemente, onde giovar rapprel'entarlc
altrui con pluralità d’ immagini, che imprimendole nelle menti con più di
novità, producano quel diletto . Laddove per efprimere le cognizioni del primo
genere più afeofe e men conolciute, ognun vede edere necedario valerfi di
termini più propr) e precifi per quanto è podibile, e che r uiare i traslati
non farebbe che od'ufcar quelle cognizioni maggiormente, e renderle a chi n’ è
privo più ofeure ancora ed ignote. Ed è vero che per quedo fecondo edètto, le
voci proprie mancano bene fpeA fo, quando per quel primo le traslate non
mancati giammai . A quedo modo parlando più propriamente, didinguendo la
favella dall’eloquenza, fi dirà, che ficcome quella è imperfetta, cosi queda è
nociva finché fi tratti di verità reali, o d’ idruir altri di quel che non
fanno. Ma che trattandofi di fole verità fupcrficiali e apparenti, conofeiute
comunque da tutti, quella favella dovelTe eflere un’ arte non folo inperfetta,
ma ancora nojofa, quando non fofle foccorfa dall’eloquenza, la quale con
rinovar alle menti quelle verità coli qualche varietà d’immagini, riefcille
così a dilettarle per elle • Quella attività maggiore della favella per le
cognizioni fuperficiali più conofciute, che per le reali men conofciute, perchè
aHìdita dall’ eloquenza, fa che lepcrfone più applicate alle verità reali lian
parche di parole ne’ familiari difcorfi, che d’ordinario non fon che ferie
confecutive d’immagini conofciute, e rapprefentate altrui colla favella fenza
efame, e fenza conneflìone dimodrativa per effe ; al contrario delle perfone
contente della • cognizione più volgar delle cofe, le quali fon copiofiffìme di
parole, e parlan rapidamente di tutto . Le donne in particolare, men atte per
la delicatezza e debolezza de’ loro organi a penetrar nelle verità men comuni,
fe non fon frenate dalla modeffia, che di quella debolezza è il compenfo più
caro e gradito, favellan delie più comuni con più diff'ufìone eprontezza degli
uomini, più robuffi di tempera, e più (ermi dipenfamento. Vero è che per quello
lleffo parlando generalmente, i menrillelHvi c più loquaci dilettan più quando
illruiì'con meno, a differenza de’ più taciturni eritìeffìvi, chediJettan meno
quando più illruifcono . £ che i gran parlatori di verità apparenti, lafciano
per lo più i loro uditori muti e llorditi, quando i parchi dicitori di verità
reali, lafciano i loro più fereni di mente, e migliori ragionatori di prima.
Per comprovare che l’eloquenza nella favella fia intefa non già a illruire, ma
a fol dilettare, gioverà ancora avvertire, che una delle condizioni principali,
per le quali piùeffa rifalta, è quella dell’accento, del numero, della
inflellìone tenue o piena, grave o dolce, affrettata o fofpefa nelle voci, per
le quali fi porti effa all’ udito, cofa più efpreiramente praticata nella
poefia, ma che fi llende a ogni genere di eloquenza, L per Eloquenza come
nociva alle cognizioni reali. per cui il periodo giunga air udito piùfonoro,
quali a guifa di canto. Tutto quello certamente non è diretto che a dilettar
l’udito, percuotendolo con vibrazioni d’aria pìd regolari; e perchè le
l'enfazioni della favella qualunque fieno, dall’ organo dell’ udito paUàno
all’intelletto; quindi è che quello Hello per quelle sensazioni a lui
tramandate, nerella dilettato al modo medelimo, prefeindendo da cognizioni di
qualunque genere, e non rellando cosi più illrutto delle cole, di quel che ne
redi l’orecchio materiale. Ognun vede quanto per quello capo rellino
pregiudicate le umane cognizioni, per Tabulo allora così evidente della
favella, la qual dellinata a illruire, o a pur dilettare T intelletto colle
cognizioni reali, o almeno apparenti delle cofe, s* arrclla all’ udito per
follcticarlo con percuflìoni più rodo grate che ingrate, e non tramanda alT
intelletto che il diletto elimero che da tal folletico ne deriva; quali
deludendolo con prefentargli per cognizioni quelle, che per veritù non fon
tali. Certo è che T armonia mu(leale, dipendente da confonanze di fuoni uditi,
è diverl'a dalla intellettuale, dipendente da confonanze d’ oggetti e di cofe
intefe, perciocché podbno efprimerfi con verfi canori i più alti drambezzi,
ficcome podbno efprimerfi con afpro fuono di voci le verità più reali, non che
le apparenti ; ed io conofeo un gran filolbfo che canta aliai male, come ò
conofeiuto un celebre violinilla, che ragionava molto male del fuo violino. P
oiché come s’è veduto, le cognizioni reali ed interne non elìgono eloquenza, ed
è queda ferbata per le apparenti cd ederne, chiara cofa è che il più che
prevarrà nelle nazioni e nello fpirito del fecolo T eloquenza, il più
prevarranno quelle cognizioni, prevalendo men quelle. Perciocché per quanto
l’intelletto umano fia capace ed attivo, e forpadì per cognizioni Tua l’altro,
eiTcndo non per tanto eì Tempre limitato e finito, non potrà quell’ attività
niedefima pii adoprarfi falle cognizioni più trafcurate a tutti comuni eh’
efigono eloquenza, fenza flenderfi meno Tulle rifervate a pochi che non la
efigono, attenuandofi cosi in tutti le cognizioni reali, quanto più lo fiudio
dell’ eloquenza, che non può occuparfi che Tulle apparenti, farà coltivato ed
efiefo . Si Ta che chi inclina al diletto più comune, sfugge l’iftruzion men
comune, e viceverfa fimilmente; e per regola generale ^ gli applicati all’ une
e all’ altre cognizioni, tanto più riefeono in ciafeune, quanto men fi (iendono
ad altre, e ognun che fi flenda a più generi di cognizioni, riefee in ciafeuno
più leggiero e più fuperficiale . L’ elTer poi gli uomini in generale, non fol
più inclinati a cognizioni apparenti perchè più facili, che a reali perchè più
difficili, ma dcfiderofi eziandio di renderfi per cognizioni accetti a maggior
numero d’ altri, fa che inclinino altresì facilmente allo fiudio
dell’eloquenza, proprio di quelle, e non di quelle cognizioni > Onci’ è che
fcbbtne le lingue fian dellinate a iflruire e a dilettare, lo fiudio e l’ufo
più frequente d’ efle fia in riguardo più a quello fecondo, che a quel primo
ufficio, affine d’elT'er uno cosi per efle intelò, approvato e applaudito da
maggior numero di perfone, rellando intanto per la molta eloquenza più riputate
ed eltcfe le cognizioni apparenti,, e le reali più trafcurate e neglette. Qui
cade a propofito di oflervare, che fe le cognizioni fra gli uomini fembrano a’
nollri giorni più avanzate che ad altri, e fi reputan eflì p«ù illuminati e
più. iflrutti delle cofe di quel che foflero i loro antenati, ciò non potrebbe
accordarft che in riguardo alle cognizioni apparenti, giacché una fimite
riputa- zione ridonda inelTì dalla facilità maggiore, colla qual fi ragiona da
tutti d’arti e di feienze, e dalia molti- plicità de’ libri che feorrono
dappertutto fu ogni genere di cognizione, tanto più comuni a tutti, quanto L z
più adorni de’ pregi dell' eloquenza. Quefto giudicar però le cognizioni più
avanzate, perchè più comuni e perchè più facili, indica abbalianza eflb fteflb,
non poter tali cognizioni elTer dunque che le apparenti, che in effetto fon
tali ; laddove le reali, per la diffi- cile aerazione daifenfi, eia infiftenza
maggiore richic- fta nell’ acquiftarle, non è poffibile che lian facili o fian
comuni. Il pretender poi per iftudio d’ elocuzione o per meccanifmo di parole,
di render facile e comune ciò che per sò è difficile e non comune, o d’
inclinar gli uomini generalmente più alla fatica di apprendere il reai delle
cofe, che al diletto di tratte- nerfi full’ apparente, farà fempre difperato
configlio, ad onta di quanti dizionari – I give a hoot what the dictionary says
-- , Giornali, Compendi o altri repertori poffan formarfi di cognizioni
qualunque fieno, e che fembrino facilitarle . Di ciò par che con- vengano gli
fieffi autori de’ libri letti il più comune- mente, quando dichiarano di
fcriverli per dilettare, divertire, eamufe(ire^ come direbbero, tutto il mondo,
di maniera ch’ei lembri, che ognun di quelli dovefle quafi recarfi a vile, di
fcrivere per iftruir feriamente lol pochi, nelle verità reali ed interne. Con
ciò fi direbbe, che tanta follecitudine fra noi di applicar tut- ti a tutte le
cofe non folle intefa, che a meglio elu- derfi gli uni gli altri per apparenze,
e che dovendo le verità reali rimaner tanto addietro, quanto le apparenti
procedeffero innanzi; per effer dunque quello fecolo d’ ogni altro il più
adorno per cogni- zioni apparenti, doveffe trovarli ( fia detto per mo- dellia
), il più fcempiato d’ogni altro per cognizioni reali. Comunque fiafi, nelTun
negherà che llante l’inclinazione comune al diletto, non potendo le verità
reali eller comuni (c), lo lludio dell’ eloquenza, col render le apparenti più
diffufe e più riputate, noti efcluda maggiormente di infra gli uomini le reali,
e che ogni eloquenza così adoprata per diffonder le verità in genere, lungi
dall’ ottenere di ftender la più reale, non ottenga al contrario di llenderla
meno, per non adoprarfì quella che l'ulla verità apparente più comu- ne, a
elclulione della men comune e reale, che non elige eloquenza. Lafcio conliderare,
fe fia perciò che folle creduto, le verità più venerabili e più arca- ne di
religione, la cui cognizione reale può certamen- te tanto meno clièr comune al
popolo, doverli ad elio annunciare con lingua a lui ignota, e da lui più ri-
fpettata che intela . Certo è, le religioni ancora più materiali antiche,
eirerli cipolle al popolo fra le nazio- ni riputate più laggie con liinboli,
hgure ed emble- mi, c non mai con elprelfioni verbali ; per elFerlì 'ognor
giudicate le verità d’clfe qualiunque follerò, tan- to più venerande, quanto
più ineH'abili, e non con voci eiprimibili . Ma parlando pure di verità
femplici naturali, che 1’eloquenza col lublimar le apparenti tenda ad
allontanar le reali, lì troverà verificato trop- po ancora per pratica ; e chi
poflìede l’arte d’inten- dere, non potrà certamente a meno di non farli un tri-
llo Ipettacolo, diveder come alcuni polFedendo eminen- temente l’arte del dire,
riconvochino IpelTo intorno gran turbe di popolo nobile e ignobile, e
prevalendofi della comun debolezza bro e pigrizia per le cognizioni reali, li
traggan l'eco perle più fuperfìciali e apparen- ti, non lapciido elfi Itelli
ove abbian a riulcire . Per- ciocché l'oratore, adulatore fempre e lulìnghiero,
rap- prelentando almo uditore credulo fempre e vano l’ap- parente, come le
folle indubitatamente reale, lo confer- ma bensì nel vero quando ei lìa tale,
ciò che avvien rare volte, ma Io conferma altresì e indura nel falfo ? quand’ei
noi lìa, il che avviene più fpelfo, fenzache né lui, nè la ciurma de’ Tuoi uditori
aguifa di pecore, fappiano lo perchè, o lo come. Per altro quel che s’è detto
finora delle cogni- zioni apparenti, non fia già creduto clferfi detto pec
difanimarle, o avvilirle del tutto . Ma fi creda detto fol-,'^o*t3nto per
avvertire, di noa prender in effe per rea- le quel che folle folo apparente, e
perchè non s’attri bulica tanto a quello eh’ elìge eloquenza, quanto a la*
feiar del tutto da banda quella che non la elìge. Dall' altra parte egli è poi
vero, che non potendo le co> gnizioni reali effer comuni, giova che per
occupazio- ne almeno, per commercio di vita, e per diletto ap- punto comune,
tali fian le apparenti, pur che ciò avvenga in modo, che non s’ oppongano alle
reali, ma che dipendano Tempre quelle da quelle . £ in vero quel che s’ è detto
de’ collumi, ch’cffendo diverli poHono non- dimeno aver luogo lenza implicanza,
ed effer utili a tutti purché non fiano centrar) (a); Io Hello dee ap- plicarft
alle cognizioni umane, che eilendo apparenti poflono illeffamente non effer
implicanti, nel qualcafo . non fono alle reali contrarie, ma fi concilian con
efe fupplifcono a quelle. 11 diltinguer poi quan- do r apparente difeordi, e
quando concordi col reale in genere di cognizioni, dipende dalle cognizioni ap-
punto reali, o apprefe per fe medefime e per teoria, allraendo da illufioni di
fenfi ; cofa che non può ap- partenere al comune degli uomini incapace di tali
allra- zioni, e Iblito verificar le fue cognizioni per fola pra- tica
confecutiva de’ fatti, bene fpeffo ingannevole ; ma dee appartenere a pochi fra
tutti piò faggi, e più il- luminati degli altri. Quelli s’è già avvertito dover
ef- fer quelli che agli altri prelìeduno, fia colla perfuafio- ne della
Religione, fia colla forza del Principato ( 0 C.A///.b, 4 ._( f j dellinati
perciò all’ ufficio di giudicare quali fra tutte le verità apparenti, per le
quali fi conducon gli ailàri comuni, concordino colle verità reali, e quali da
effe difeordino, o fiano a quelle contrarie.. £ ve- ramente che un fimil
giudicio o una fimile cogni- zione abbia ad appartenere, e poffa convenire del
pari, non folo al nobile e al manovale, o al citta- dino e al rifuggiate, ma al
chierico ancora che iflrui- £ce, e al cialtrone che dee effere iflruito, o al
Ma giflraciftrato che comanda, e al fuddito che dee obbedirlo,ó quella un’
aperta impitcanza, malTime quando già tutti convengono, chegli uomini
generalmente fon più fpenfierati che riflelTivi, e che le cognizioni reali fon
riferbate ai foli più rifleinvi . Ora piacemi ancora olfervare, che quell’
clTer le cognizioni reali note per sè ftelTe a fol pochi, e quello dover perciò
tutti rcllar a quei pochi fubordinati, non fa torto ad alcuno, e non è che per
quello flanatura cogli uomini parziale od ingiuHa. Imperciocché non è già elTa,
che concedendo le cognizioni reali ad alcuni, le ricufì a tutti gli altri ; ma
fon gli uomini flein, che inclinando più al facile che al dilhcile, lì lafcian
condurre da illufìoni de’fenfi a proprio favore, anziché da rifledione, per cui
conofcere fe le cognizioni che quindi loro derivano, fiano reali, adraendo
ancora dai fenfi . E quella fubordinazione non fi rende neceflaria, che per
fecondare codeda loro inclinazione più geniale al facile, e per follevarli da
quella più difficile riflelfione . Sol che gli uomini tutti s’ accordino d’elfere
riHclfivi, ogni fubordinazione ceflerebbe fra loro, tutti fi governerebbero da
sè per cognizioni reali, nè v’ avrebbe d’ uopo di chi li govcrnafle per quelle.
Ma efl'endo quello impolfibile, per la propenl'ione comune più aldiletto delle
cognizioni apparenti, che all’ illruzione delle reali, come s’ é replicato più
volte; e dovendo pur eglino governarfi per cognizioni reali, quando voglian
fulTillere infieme ; egli è dunque forza che alcuni almeno fra edì aduman le
veci di tutti, o fupplifcano al loro dilètto, prefìedendo al governo degli
altri, con quella verità reale, che altri ricufan di darfi la pena di
didinguere e d’ invedigar per sé dedì. Vero é però, che perla propcnfione
lleffa invincibile e comune all’apparente e al facile, quella verità mcdellma non
può poi produrli al popolo da chi governa che per l’apparente, ciò che può
avvenire lènza implicanza, per edere ogni apparente al reale conforme, quando
non fia a quello contrario: Dimanierachè il fiflema d’ ogni nazione fia quello,
che le verità reali fi propongano per le apparenti non a quelle contrarie, e
per tali conofciute e difiinte da un governo, procedendo così tutti gli affari
per apparenze, con ficurtà di non opporfi per quefìe al rcal delle cole, mercè
l’intelligenza fuperiore di chi a tutti prefiede. Se in un fimil governo la
perfuafione eia forza faran libere e indipendenti, il governo farà giufio e
fenfato, e la nazione libera e tranquilla ( giacche quelle due facoltà nella
condizione umana debbon pure dilìinguerfi, e o bene o male fi difìinguono
dappertutto ). Se faran le due facoltà confufe in una, o una minilira e non
compagna dell’altra, farà il governo fimulato e difpotico, e la nazione
inquieta ed opprelfa. Il tutto non per difetto di natura, ma degli uomini e de’
governi fleffi in particolare, che anzi eh’ effer liberi e tranquilli, amaffero
elfer opprcflì e agitati. Sempre però Ila, che la fubordinazione a un governo
fia per fc flcffa non un dilòrdine, ma un ordine anzi faggio e ammirando, per
cui 1’umana fiacchezza fi alìolve dall’ applicare a quelle verità reali, che
fofier per eflà faticofe ad apprenderli, e fi concede ad ognuno di abbandnnarfi
ancora alle apparenze e al diletto Hello de’ lenii, purché ciò fia in
conformità alle regole, calle leggi llabilite e preferitteda un governo, che
per la fuperiorità de' fuoi lumi, e per fenno e fapienza fia più illrutto degli
altri, nel difeerner quale apparente fia al reale conforme, e quale fia ad elio
contrario. C Olfellerli dichiarato di fopra, di dover l’eloquenza verfare fulle
cognizioni più comuni, non s’è perciò intefo di degradarla in modo, che abbiano
gli oratori, e i poeti a confonderli per fapere colvolgar della plebe . All’
incontro fi sa, dover efli molto bene dilìinguerfi per cognizioni dal volgo, e
laco/ pia pii di cognizioni, e lo ftudio degli oggetti su i quali ftenderfi la
loro eloquenza, dover precedere l'eloquenza medefìma, fenza di che non farebbe
poflibile dilettare per ella, e non favellando l’oratore al fuo uditore che di
ciotole e di pianelle, anziché diletto, non potrebbe recargli che noja e
faftidio . L’oratore dunque dee più del fuo uditore elTere iihutto e ricco di
cognizioni, per ornarle pofcia coi fregi dell’arte fua, e fì; li dice tali
cognizioni dover efler comuni, ciò non può verifìcarlì che in quanto abbian elle
ad elTere delle più apparenti, e delle più facili a concepirli da Mnuno . Ciò
conviene con quanto s’ è avvertito pur mpra ( ), di ftar la giuHa cognizion
delle cofe in certo punto di mezzo, innanzi e oltre al quale fìa vano il
cercarla, come che quinci e quindi ha polla r ignoranza di elTa ; col folo
divario d’ efler dalf una parte la ignobile, propria degl’ idioti e del popolo
più rozzo i e dall’ altra la ignoranza nobile, propria delle perfone più colte
. A quello modo fi dirà, l’oratore e ri poeta rare volte comunicar di
cognizioni e d’immagini col popolo più ignobile al di qua di quel punto, e folo
trattenerli quivi con quello ne’ foggettì più comici, burlefchi, o latirici; e
qualor s’alzi colla tromba più fonora a celebrar eroi, o a trattar argomenti
gravi e fublimi, allor fi dirà lui trafcender quel punto, e confarfi col
p<^lo più nobile e più ri S utato . Ma intanto fempre Ila, che al giullo
punto i mezzo, al quale s’arrellano le cognizioni reali, ei rare volte o non
mai fi foflèrrni, per^ l’ inutilità dell’ arte fua qualor lì tratti di verità
reali, fuperiori a ornamenti rettorici e poetici, atti più tollo a ofcurarle,
quando fulle fuperliciali e apparenti quell’arte fa di sé prova e pompa
maggiore. L’ufo delle efagerazioni – GRICE HYPERBOLE, de? traslati, delle
allegorie, e rimili figure proprie della fola oratoria e poetica, fan conofeere
tutto quello, e come tali articoli’ amplificare o ellenuaie gli <^etti, fi
trattengano fotto quel punto o lo formontino ; mentre quantunque le c(^nizioni
Tulle quali verfano, ogii argomenti de’ quali trattano, fiano agli uditori men
noti; pure per efler quelle cognizioni fuperficiali e apparenti, e in
conleguenza facili ad apprenderfi dall’ uno e dall’ altro popolo, polTono da
quello elTer apprefe nell’ atto lieflo di ellerne ei dilettato . Con ciò fi
direbbe, che il partito degli oratori e de’ poeti in ordine al vero, foffe
quello dei disperati, i quali diffidando di sè stessi per assegnarlo al giullo
suo punto, scegliellero più to Ito di raggirarvisi intorno inocrtamente, e di
quasi controillruire per più dilettare con varietà d’immagini facili, ma tirane
e TpetTo IMPLICANTI, nell’incapacità conosciuta d’iltruire colle piu difficili
e più veraci. Quindi ebber luogo quei tanti poemi su passioni ed azioni oltre
il credibile. Le donne, i cavalier, l’armi, gl’amori, e quei tanti strambezzi
sugli eroi là volosi e sull’antica mitologia, i quali dilettan molto più di
quei che versano su argomenti filosolici e morali, Alila vera religione, e su
azioni deferitte quai son accadute precifamente, che non diletterebbero più di
un processo civile o criminale, cfpolio a un auditor di rota. E ciò sol perchè
in quel caso può la mente svagare dappertutto a suo talento, quando in quello
elTa è allretta a hllarfi ad un punto, e a Aarvi confìtta come ad un chiodo;
elfendo d’altronde impossibile di supplire ad un tempo llelTo a due oggetti, di
dilettare e d’ iAruire precifamente, o supplendosi almen meglio ad un solo di
quelli oggetti, che infieme ad entrambi. Per quello ftelTo le rappresentazioni
massime teatrali, tanto più fogliono dilettare, quanto più dal vero, o dal
verisìmile ancor di natura, trafeendono all’IMPLICANTE od al falso
dell’immaginario, brillando sempre il diletto a spefe dell’ iAruzione migliore;
tanto è quello comunemente diverso da queAa, e tanto1’eloquenza e1altre arti
analoghe ad elfa, c compagne del diletto più comune, sfuggono l’iAru zion XCI
xion più feverj c meno comune. Chi trova indecente che Temiftode canti andando
a morte, non bada che a queda Uhuzione, che non trafcende il vero ed èbeti di
pochi; ma sol ch’ei badi a quel diletto, che trascende il vero ed è di
molciffimi, troverà quel canto adattato all’azione, e piagnerà ad eflb, purché
fia preparato a dovere, e accompagnato da quel debile che richiede l’azione
medefima. Ma infomma generalmente chi riprende i poeti per la futilità
degl’argomenti, ai quali d’ordinario e’ s’appigliano, e per la fallacia delle
cognizióni che inOnuan per edi, non bada a quedo, d’eifere il hne Principal
loro quello di dilettare e non d’istruire e di dilettare non i più dotti ma il
comune del popolo che non è dotto, e che parlando generalmente,.n.i ceflTan
eglino di dilettare, todochè prendono a istruire. Le allusioni certamente, le
immagini, i traslati suddetti, proprj e neceflarj dell’arte loro, occorrono
alla mente a numero incomparabilmente maggiore pelle cognizioni più facili al
volgo note, che per l’efatte e didicili riferbate ai più dotti, per le quali
non è così agevole passare dal proprio e preciso – youre my pride and joy -- al
metaforico – you’re the cream in my coffee -- e figurato. Cosi la luna per
esempio, concepita pelle immagini più facili che ne dànno le antiche favole,
non che col nafoecolla bocca Come sugl’almanacchi, dà motivo a mille allusioni
e figure che non darebbe apprefa per lo reale de’suoi monti, e delle fue ombre
nel sistema planetario; e finché il popolo la concepirà più facilmente al primo
che al secondo modo, il poeta canta, e ha ragion di cantare con più dolcezza
del naso della luna che de'suoi monti. Gl’occhi ideflamentc, cosa la più
conofeiuta e più triviale, appresi pelle cognizioni di effi più volgari e
comuni, somminidrano alla mente mille immagini, ond’effer chiamati luci
leggiadre, vezzofi rai, fiammelle vivaci, lucide delle, pupille ferene, drali omicidi,
faci gemelle, adii d’amore, che non somminidrerebbcro appresi pell’irruzione d’
effi più efatta, o pelle dottrine ottiche e anatomiche migliori, ma men
conofciute. Anzi s’olfervi di più, come da ciò procede, che l’oratoria, la
poetica, e l’altre arti dilettevoli non soffron nemmeno regole istruttive per
esser tai regole ellratte dalla ragione più elàtta per cui appunto s’iftruHca,
quando quell’arti per illituto principale, debbono trascender quello reale per
dilettare coll’apparente. Quindi avvien bene rpelTo che un’orazione, un poema,
un’azione teatrale dettata secondo tutti i precetti che ne dànno Longino,
Aridotele, ORAZIO, o GRAVINA, dilTecca nondimeno l’anima, e fa sbadigliare,
quando un’altea senza quelle regole, ma ornata più di drane apparenze, attrae
tutto il popolo fìa noÙie o ignobile, il quale seguace del diletto, schiva ogni
idruzione per eflo, e prevenuto anzi per lo mirabile falso e apparente che per
lo vero naturale e verisimile ancora, non intende precetti, per cui fìa qnello
confinato e ridretto; giudicando di quel che ode e vede, pelle ragioni
superficiali pur vedute ed udite, e non per le interne che non vede, e che non
potrebbe vedere che prefeindendo dai sensì di che il popolo ( e il fod'ra LIZIO
), non è mai capace. Quedo preferirfì poi per l’oratoria sempre l’apparente al
reale, non può negarsì che non torni in abuso, il quale però faria tollerabile
finch’ei fi reftrignede al divertimento appunto teatrale, e all’ozio delle
corti e dell’accademie, senza perciò opporli al U)CJOI.n,j. medefìmo, com’è pur
podibile. Ma il fatto è, che bene fpeflb ei li dende ancor filila condotta
degli affari più fer), ne’ quai l’ eloquenza col folfermarfì più full’
apparente, fa più perder di vida il reale di edi, con altrui dainno e feiagura
; come apparifee ki pratica per più (inceri uomini e dabbene, fopradàtti e
delufì ne’ loro intereffì da chi per fola facondia, e per artificio di
ragionare vai più di loro . E il peggio è ancora, che dagli affari particolari,
l’ abudo medefimo s’inoltra facilmente ai comuni cosi detti di governo,
ne’quali per l’adulazione, la lusinga, e la simulazione che più o meno
indispensabilmente v’àn luogo, L’ARTE DEL DIRE è ancor più accetta che altrove
. C^d’è, che Aiblimando quella più le verità apparenti, mette più a rifehio
d’allontanarfi e d’obbliar le rnli. Su quelle conliderazioni farebbe a
riflettere, fe giovi a’ di nollri tanto animare e apprezzar l’eloquenza su i
tribunali e nei fori, o fe anzi oltre al dovere non fi trovi effa incoraggita e
apprezzata. Certo è che sebbene gl’affari comuni abbiano a condursi per
cognizioni apparenti; nientedimeno ciò dee seguire senza scollarfi dalle reali,
come s’ è ridetto più voi-’ te, e ciò per imitar per quanto è poflìbile la
natura, che falciando difputar gl’uomini, accarezzarfi e idolatrarfi fra loro,
regola il tutto per lo reale SENZA PROFFERIR MAI PAROLA. Se poi chi pretende
governar altri senza render ragione del suo governo, come ufa natura, sarebbe
un uomo affai vano; il farebbe non men certamente chi pretende governarli per
sola copia ed eleganza di voci. Quei medefimi che si reputan più valere per
eloquenza ne’congressi, e ne’PARLAMENTI, converranno di quelle verità, se
L’ARTE DEL DIRE è in lor pari al buon senso; e accorderanno non meno che quegli
oggetti grandiosi di prosperità, di felicità, di potenza pubblica, che si
spesso dai rollri amplificano all’orecchio del popolo, non fon poi tali quai da
lor ir promettono, o almen ne dubitan ellt nelfi, e ne rellan in gran parte
fofpefi. Dall’altra parte, le repubbliche antiche non sono mai più feoncertate
che a’tempi dell’eloquenza più sublime di Demostene e di CICERONE, quafichè si
governano allora per cognizioni più popolari e apparenti, che per vere e reali,
per le quali quelle repubbliche si farebber per avventura meglio follenute,
come A TEMPI DEL PARCO LICURGO E DEL RELIGIOSO NUMA. Fi 1TInora ei pare che non
fi fia ragionato di doquenza, che affine di screditarla, e di renderla fra gli
quen» filile uomini odiosa, proverbiandola come inutile, vana,
cogaizioDire-pregiudiciale, inhdiofa, e nociva alla miglior condotta de’privati
e de’pubÙici affari. Perchè però non fia creduto, efferfi di cosi mal umore
contr’efla, quanto a volerla del tutto sbandita dalle nazioni, è da avvtrtirfi,
non efferfi cosi favellato dell’eloquenza, che in quanto fuoleffa versare sulle
cognizioni apparenti e fallaci, lardate a parte le reali e migliori. In
coneguenza di che si apprende che l’odiofità suddetta non cade già
full’eloquenza in genere, e che non è effa cosi pregiudiciale nelle nazioni per
sè medefima, ma pella qualità appunto delle cognizioni alle quali d’ordinario
s’appiglia, e alle quali stante la propensione comune umana al piò facile, dee
eifa cotnunemente appigliarfi. Con ciò confiderando ogni cofa, s’arguirà dunque
eziandio, che fe l’eloquenza, in luogo d’occuparfi a fiabilir negl’animi le
cognizioni apparenti, s’applica ad ornare e a meglio prcfentar alle menti
co’suoi vivi colori le più reali; lungi dall’elfer nelle nazioni nociva, fi
renderà anzi a quelle utile e giovevole. Infatti s’ è veduto, ufficio della
favella esser quello d’istruire e di dilettare, vale a dire d’istruire nelle
verità non conosciute, e di dilettare nelle già conosciute. E perchè le verità
di qualfivoglia genere non polTono esser conosciute che per qualche istruzione,
questa dunque dovrà fempre precedere il diletto che proviene dalla favella, e
1’oratoria così, la poefra, non meii che r altr’arti tutte dilettevoli, dovran
generalmente conseguire la filofofia, la morale, e 1’altr’arti klruttive, fiano
apparenti o fiano reali, fcnza che polfan mai quelle preceder quelle, non
elfendo certamente polfibile adornar coi fiori dell’eloquenza, e con immagini
traslate e sublimi, ciò che non fi fia pri xcv prima appreso per voci PROPRIE,
più piane e precise. Stando dunque al diletto della favella, è certo che
dovendo quello cunfeguir l’istruzione, tanto può conseguir la più superficiale
e comune, quanto la più vera ertale eh’ è mcn comune; e che ficcome possono con
figure – GRICE FIGURES OF SPEECHL METAPHOR MEIOSIS LITOTES HYPERBOLE -- e
immagini adornarsi le verità men el'atteepiù popolari, conofeiute da molti;
cosi si poflbno pur le più efatte e men popolari, riferbare a sol pochi . £ la
differenza farà, che effendo nel primo caso 1’eloquenza la più popolare e
comune, della qual s’è favellato finora; fi renderà ella nel secondo più
particolare, difufa a non molti, della quale s’aggiungerà qui qualche cofa.
Egli è vero' pertanto, che gl’uomini amanti generalmente più del diletto che
dell’istruzione, foglion trattenerli più fulle cognizioni apparenti perchè
piùfiicili e perchè apprefe, che sulle reali perchè non apprefe, e perchè
foticofe ad apprenderli, ond’ è che il più frequentemente ufino 1’eloquenza fu
quelle cognizioni, applicandola ben di rado a quelle \b) Ma ciò non teglie che
non poflà effa a quelle applicarli, e che non vi fi applichi talvolta
effettivamente. Anzi quello fa, che l’eloquenza medefima coll’effer nel primo
cafo più comune, Ila altresì più apparente ed equivoca, e in tal guila
perigliofa come s’ è detto ; quando nel fecondo coll’ elfere men comune, fi
rende più ficura e reale, e con ciò giovevole, prendendo il diletto che ne
proviene ognor tempera e qualità, dall’iUruzione e dalla cognizione apparente o
reale che lo precede. Così uno fpirito altiero e ambiziofo, potrà tirarfi
dietro un popolo di fpenfierati, e -condurli per le verità apparenti
all’incredulità, e quindi alla fchiavitù, alle difeordie, alle guerre, e alla
povertà che ne derivano, e ciò con tanto più di veemenza, quanto in lui fìa
maggiore l’ARTE DEL DIRE. E dall’altra parte può un tìlofofo più sensato colie
verità reali, perfuadere i più rideliìvi ' per quanti ve n’ànno, alla religione
non finta, e con ciò alla libertà, alla concordia, alla pace e alla felicità
che pur ne confe^uono, con tanto più iiledamcnte di forza e di grazia, quanto
in lui v’abbia più di facondia. £ la prima eloquenza farà indubitatamente
futile e dannosa, eflendo quell’ altra più utile e reale, giacché in eflètto
ogni apparente termina in reale, per la 'natura che non devia mai da quello,
per quanto gli uomini fi lafcino sbalordire da quello . Ond’ è che (ebbene quel
primo cafo (ìa il più frequente in pratica umana, rella nondimeno e^o fempre
tolto per lo fecondo, o per la pratica della natura, eh’ è la più vera, perchè
pratica infieme e teorica, di quanto a.v viene nel corfo generai delle cofe.
IH. S’arroge, che la detta dillinzione xkll’ idruzionc dal diletto che procede
dalla favella, non è poi tale, che 1’ un di quedi s’ efcluda per 1’ altro, o
che abbian perciò f arti dilettevoli a non efler idruttive, e le idruttive non
dilettevoli . Perciocché aU’ incontro può ancor dirli, che 1 ’ idruzione deda
non vada difgiunta dal diletto, ancorché quedo proceda non dalla favella, ma
dalla verità per eflà avvertita ed intefa, il qual diletto così é compagno e
contemporaneo all’ idruzione medefima, quando r altro che procede dalla
favella, confegue 1’irruzione, e non mai 1’accompagna, e molto men la precede .
E fi dirà idedanaente, qud di letto eder di quedo molto maggiore, mafdine in riguardo
alle verità reali, come quello che li dende all’ intelletto, quando quello
della favella (i porta all’immaginazione, e talvolta s’ arreda all’ orecchio.
Certo é che il diletto d’ un geometra nel concepire una verità, fupera di gran
lunga quello d’ un Oratore nelteder l’elogio, o nel commendar legeda d’un eroe,
come lo fupera eziandio quello di quedo eroe ncH’efequir quelle geda, quand’ ei
pur le efequifea ; e quattro linee di Euclide con illruire piit di dieci
orazioni di CICERONE (vedasi), dilettano altresì più di quelle, che ben fovente
dilettano con inganno. Per quello i precetti fondamentali, e le regole generali
di morale, di giurifprudenca, e tali altre verità, per quanto fono reali e
geometriche, dilettano coll’ illru- 1«) zione tanto a’ dì noUri, quanto a
mill’anni innanzi ; vale a dire con diletto più fenfato e durevole . Laddove i
lìmboli di Pitagora, i fogni di Platone, le minuzie d’ Omero, che a’ lor tempi
rapivano gli animi, col diletto per avventura fugace della fola elocuzione ; al
prefente o non lì comprendono, o non apportan diletto, quando ciò non folTe in
riguardo lòlo a chi avelTe l’abilità, di formarfene uno della loro antichità
medelima. Le lingue dunque finché si trattengono nell’ufficio d’istruire,
ancorché non dilettino per fe lleffe, dilettano per le verità, delle quali
ilhuifcono; e le s’ avanzano a dilettar per fe Ireire, ciò non é, che per
figurar alla mente con colori più vivi le verità medefime per efle apprefe, e
ciò con eloquenza frivola e vana, fe le verità fon comuni e volgari, e con
eloquenza robulla creale, fe le verità fon pur reali e fuor d’ ogni inganno .
Verbigrazia s’ io dirò : La Luna coll’ attrar più la fuperficie convelTà che il
centro, e più il centro che la fuperficie conca„ va più dillante della terra, alza
la parte acquola „ che più cede, filila falda che men cede nell’ una e „ nell’
altra fuperficie di elTa ; ond’ é che quelle due „ elevazioni d’ acque
comparifcono tulle llabili ripe, al paflàr d’ ella Luna per Io punto fuperiore
e in„ feriore del meridiano di ciafcun luogo terrelhe Io con ciò non farò, che
dilettar l’intelletto colla illnizione men comune, ma più vera che polla darli
del fiulTo del mare, fenza punto dilettarlo per la favella, per cui Cia efpolla
quell’ illruzione, non potendo ella efportì per termini più femplici e più
precisi. Che fe dopo aver dilettato T intelletto con quc Ha iftruzione, dirò
come in quel terzetto: Sai perché fale alternamente, e fcende Il mar, che a
Cintia che fi /pecchia in ejfo, Innamorato in fen fi /pigne e tende ; allora
palTerò di più a dilettar l’ intelletto medefimo coir eipreflìone ancor d’
eloquenza fu quell’ iHruzione, tralportandolo dalle immagini proprie di Luna,
di mare, di attrazione, alle figurate e fimboUche di Cintia, di fpecchio,
d’amore, per le quali quella verità già conofciuta, fe gli prefenta con più di
novità e di vaghezza; e ficcome quell’ iftruzione è migliore febben men comune,
cosi quella eloquenza che la confegue, può appellarfì migliore . Ma fe in luogo
di tutto quello, fupponendo 1’ uditor pure iftrutto di qualcuna di quelle più
volgari dottrine, per le quali iogliono. più comunemente fpiegarfi le maree, io
prendelfi ad ornarla con immagini fimilmente traslate, con figure rettoriche, e
con efprellìoni enfatiche ; potrei pur con ciò dilettarlo, defcrivendo un cieco
turbine interno, una prelfìon d’aria verticale, una imprelfion di vento
orientale ellerno, o fimil altra opinione folita fpacciarlì a quello propofito,
delle quali tutte vien detto, che mal loddisfatto un filofofo dell’ antichità,
prendelTe la rifoluzione di gettarli in mare, dichiarando elfer giudo che folTe
da quello capito, chi non potea quello capire- Comechè però tali opinioni, per
elTer più facili e più comuni, fon meno efatte e peggiori ; così la eloquenza
fu clTe che le confeguilfe, farebbe imperfetta, o farebbe un inutile
vaniloquio. Il diletto dunque che proviene dall’ eloquenza, può confeguire le
cognizioni tanto apparenti e comuni, quanto reali e meno comuni, e per quello
ilelTo di elTer ogni eloquenza confecutiva all’ illruzione. Bc, chiunque afpira
al diletto d’ efla migliore, dee prevenirlo per la migliore irruzione
corril'pondente, e per le verità non quai fon conofeiute dal popolo, ma quai
fono in fe ftede, mentre quel diletto confeguendo la irruzione fuperfìciale del
popolo, non potrà appunto elTcre che fuperficiale, e talvolta efimero e
menzognero, come nel cafo degli equivoci, de’ fofirmi, degli enimmi, de’
paralogifmi, e degli altri prodigi cosi detti dell’ eloquenza > Per la qual
cofa, che i poeti dilettino più cogli argomenti quai fono apprefi popolarmente,
s’ è detto ciò eflTere in riguardo al popolo, al quale più frequentemente
favellano (/r). E fi aggiunge ora ciò elTere ancor con inganno, in. quanto quel
diletto che confegue 1’ idruzinne peggiore, è ingannevole, e non v’à diletto di
eloquenza reale, che quel che confegue pur l’ irruzione vera e reale {b)^
Dacché s’apprende, perchè 1’eloquenza, e generalmente 1’ arti di diletto più
comoni, rade volte appaghino le genti di miglior fenno, e perchè gli fciocchi
fieri ne refiino cosi toflo annoiati per elTer quelle in confeguenza .della
irruzione peggiore, che foggetta ad inganno, non può dilettare che con inganno,
e quero non avvertito ancora, non può a meno di non generar noja e fpiacere.
Quindi è che agli fpettacoli, alle fere, ai conviti, e a ogni fpecie infomma di
divertimenti comuni nobili e ignobili, è d’uopo dar fempre nuove forme, Quando
ancor del tutto non fì cangino in altri, fenza i che ogni fpecie di popolo alto
e bafTo' ne reda rucco e ammorbato. L’ uomo è fatto dall’autore della natura
per l’ irruzione inreme e pel diletto reale, ad onta, de’ fuoi fenH che lo
incantano full’ apparente ; come H convince da ciò,. che l’ irruzione allor
più. diletta, quando è più diligente ed efatta ; prova J |uefla. evidente della
fuperiorità, e immortalità del i uo intendimento fopra tutte le cofe
mortali.(#) c.hu.j^ Laonde s’ ei fi lafcia trafporur dal diletto apparente Ni
fcnza iftrurione, o coll’ irruzione priore, non pnò alfin ciò riufcire che a
Aio rincrefcimento, e con fu» naturai ripugnanza. L'oAinarfi poi a contraAar
quel reale con quello apparente, è come contrallar il cor* fo del Sole con un
tiro di cannone, o penfar di dillnigger la natura in sè Aeflb, come fi
dillruggono J uattro poveri ingannati, che A difendono in una iazza . QE
piaccia applicare il detto finora folle cognizioni Delle tradu- O umane, e
Alile lingue per le quali s’efprimono, alle zioaidall’uoa traduzioni dell’
opere d’ingegno ferine dalP una all’ altra all’ altra fa- favella, èda
avvertirfi, eh’ elTendo le lingue intele oa velia. iAruire nelle cognizioni
reali, o a dilettare colle appa(a}CJC/Kn.i. tenti (a), il trafporto delle
cognizioni dall’ una all’altra lingua potrà agevolmente riufcire, quanto al
primo capo dell’iAruzione reale ; perciocché non richiedendoA a ciò che un’
efprellìone d’oggetti per li termini lor più proprj e precifi, queAi in
ciafeuna lingua fono determinati, o efprimon gli oggetti colla precilìone
medefìma, eh’ è una per tutti i luoghi e per tutte le lingue. Laonde baderà a
queAo effetto, che il traduttore ben intefo del fentimento dell’ autore, e
iArutto per pratica de’ termini precifì d’ ambe le lingue, foAituifca gli uni
agli altri di quelli, con quella coAro-, zìone o difpoAzione che a lui fembri
piò naturale nel la Aia lingua ; coB' che egli iAruirà così bene in queAa, come
1’ autore nella lingua Aia originale . Ma quanto al fecondo capo di dilettare
colle cognizioni apparenti, poiché il diletto delie lingue proviene da
Amilitudini, alluAoni, e altre immagini d’oggetti anco traslate, queAe in
ciafeuna lingua fon più o men naturali, più o men giudiciofe o ingegnofe, a
norma degli oggetti Aedi, eh’ eAendo conAmili, Aan più o meno diverA, e a
combinar i quali Aa una nazione piùo meno familiarizzata. E pertanto
trafportate quelle iminagiai per foAituzione di termini come fopra, dall’ una
favella, debbono perder di molto della lor grazia, e della lor forza
nell’altra. In effetto, quelladifferenza che nelle combinazioni d’ immagini
proprie, e molto più traslate, s’ è oflervato paflàre fra perfone di varie
condizioni in una fteffa nazione (a)j non (a)C.n.n,i. v’à dubbio che non abbia
a rendersi vieppiù notabile fra perfime di varie nazioni e lingue, i cui
coflumi, profeflìoni, e modi altri efierni, per impreflìoni più o men forti e frequenti
d’oggetti diversi benché consimili, son più rilevanti, non sol fra ciafcuni in
specie, ma fra tutti eziandio generalmente; procedendo da ciò un SIGIFICATO più
o men eliefo ne’termini delle lingue, per eprimer gl’oggetti fterti o
consimili, che si direbbe tanto più efiefo nelle lingue diverse, quanto quella
diversità supera quella dei diversi dialetti in una lingua medesima. Egli è
certo, da quella diversità d’oggetti consimili nelle varie nazioni, derivar le
diverse indoli, spiriti, e umori nazionali, come pur le diverse indoli e
spiriti cosi detti delle lingue. Concioflìachè siccome le piante, gl’animali, i
minerali di qualsivoglia specie, e gl’uomini flefli nel lor materiale, ancorché
consimili, son pur diversi in ciascuni climi per C. T. ». j-tcflìtura di parti
più dure o più elafliche, più dense o più rare, più fragili o più compatte;
all’ifleflo modo il SIGNIFICATO delle voci, colle quali esprimer tuttociò nelle
lingue, è più o meno eflefo, e le voci stesse più aspre o più dolci, più
risonanti o più molli, più acute o più ottuse. Ciò eh’é ben noto ai
viaggiatori, che vaghi d’investigar una tal varietà, feorrono da"^ dima a
clima e da nazione a nazione; e un britannico che per tal suo capriccio muova
da Londra all’Egitto, o un affricano che per sua disperazione sia tratto
d’Algeri in America, non trova minor disparità fra i suoi coflumt e i coflumi
egizj o americani, di quella che trova fra le maniere diverse d’esprimerli
lotto ciafcuni di quelli climi, rimanendo ciafeun C.Jff. dei due allettato più,
come delle fue die delle altrui immaginazioni e collumi cosi de’Tuoi che
degl’altrui modi d’esprimerli; non per altro che pella diversìtà deg’oggetti e
voci corrispondenti – TO COWARD: WHAT DID YOU LEARN IN AUSTRALIA, KANGAROO --
ai quali le respettive lor menti sìan più afluefatte ed avvezze. Per efler
dunque la verità delle cose reale una, ed invariabile dappertutto, e per elTer
le maniere di apprenderla e di dilettare con elTa moldplici e innumerabili,
saran le lingue tutte del pari, qualor lì tratti d'idruire nelle verità reali,
ma saran fra elTe diverse, qualor si tratti di dilettare culle apparenti,
essendo generalmente elle illituite non per quel fulo udìcio, ina ancora per
quello, e non per tutti in tutte le nazioni, ma per ciafcuni in ciafcune. La copia
e moltiplicità di termini in una lingua al paragone dell’altra è un indizio di
tutto questo, e di quanto una lingua puo dilettar più d’un’altra; per provenire
quella moltiplicità dalla maggior quantità d’immagini, colle quali esprime
ciafcuna gl’oggetti llein o consìmili; non introducendosi una nuova voce in una
lingua che per introdurvi una nuova immagine, o per dividere e appellar per due
voci l’immagini, che prima s’appella per una. Pella qual coa la lingua più
ricca di voci è più capace d’immagini divise o traslate, per esprimere la lidia
quantità d’ oggetti, e per dilettare con elTi; perciocché se un oggetto stesso
o consimile vorrà esprimersi per due lingue, lì dove pella più povera di voci
appellarlo talor pella voce che folle pur propria d’un altro; laddove colla più
ricca appellando 1’uno e l’altro con voci diverse – WHAT IS THAT: A FLOWER –
FIORE --, coll’applicar poi a quello la voce propria di quello, e viceversa, u
viene a esprimerli entrambi per traslati e figuratamente. Per esempio un britannico
appellando propriamente un furbo e un fervo per la llelTa voce knave non può
per queAo capo indur analogia veruna fra quelle due persone; e l’italiano
appellando ciadcun di questi con quelle voci proprie diverve, collo stender poi
all’uno la voce propria dell’ altro, riesce ad appellarli tutt’a due
allusivamente, e a significame i caratteri, quando occorra, con più di forza e
con più di vivezza. Con tal fondamento ei parrebbe che numerandoli nella
favella italiana da 38000. termini o voci, e non numerandosene nella britannica
che da zdooo, deflunti gl’uni e gl’altri proflimamente, e colla Udrà regola dai
più comuni respettivi dizionari; la prima favella superalTe la seconda per
capacità di alluuoni allusioni, e d’immagini traslate, in ragione di ip.aiz.,e
che di tanto più potesse quella sopra di quella dilettare nell’opere a ingegno
scritte. Ma fopra tutto è cosa mirabile TolTervare, come dalla detta diversa
ellenlion di SIGNIFICATO ne’termini delle lingue, e dal grado impercettibile
d’elTa con cui li palla dall’uno all’altro oggetto, unitamente a non li là dir
quale collocazione dei termini lleffi, dipende quella inesplicabile forza,
armonia, e grazia di Jiiley che nelle produzioni d’ingegno rapifcegli animi, e
fa bene spesso il più bello e il più dilettevole di elTe; lieve così, che
sfugge molte volte il senso dei nazionali medesimi, e che i forellieri
cerumente non aggiungon giammai. Io non ò trovato oltramontano, per illudiofo
che fosse della lingua italiana che rilevalTe differenza veruna jIì flile infra
il sonetto per esempio del Cafa sopra la gelosìa, e quello d’ogni altro comune
studente di RETTORICA che imita quello poeta, e non folfe disposto a giudicar
il primo del secondo autore, e il secondo del primo, quando ciò gli folfe stato
dato ad intendere. Le bellezze altresì che trovano i forellieri nello flile del
Petrarca, d’ALIGHIERI, del Tasso, son diverse da quelle che vi riconoscono
gl’italiani, e la novella di Giocondo, dilettando del par gli uni e gli altri
pell’invenzione; pelle grazie dello stile, e pell’efficacia dell’elocuzione,
non diletterà mai tanto un gallo come un italiano nell’Ariosto, nè mai tanto un
italiano come un gallo nel Fonténe. Ciò che fa, che di via ordinaria, chi
giudica dell’opere d’ingegno d’altra lingua e d’altro tempo, s’attacchi ai
difetti che hanno in elle dalla parte del sentimento, del quale è giudice
ognuno, come di cosa di tutte lingue e di tutti gl’intendimenti, senza badare
che Hando al diletto dell’espresione, quello sfuggendo un tempo e un luogo,
spazia molto bene in un altro, rilevando talvolta sui sentimento medesimo. Così
il moto verbigrazia della terra pell’annua sua paralade colle Helle fìlTe, che
n’è la cagione di tutti i luoghi e di tutti i tempi, può comprenderfì d’ognuno
del pari, fiaper la propria, sia per l'altrui favella ; quando il Capitolo dei
Lorenzini sulla vendetta, o simil altro tratto di poesia italiana, il cui
pregio confida nella sola collocazione, cnfafi, dite, e SIGNIFICATO di voci,
per cui dipingere all’immaginazione le passioni umane, non fa mai da neduno
cosi ben rilevato, come dall’italiano, per eder tutto ciò diverlb in ciascuna
lingua, e in ciascuna nazione Egli è dunque vero che trattandosi di traduzioni
d’opere d’ingegno scritte dall’una all’altra favella, non potran quede mai riuscire
quanto al diletto della favella deda, o qualora il traduttore aduma di
dilettare coll’espresìoni del suo autore, trasportate nella propria lingua.
Quedo nondimeno è quel che volgarmente suol farli, ed è queda la ragione per
cui le traduzioni quand’anche idruifcano ugualmente che gl’originali, dilettan
sempre meno di quelli, e riescono per quedo capo quanto inutili per chi intende
ambe le lingue, tanto imperfette per chi non ne intende che una. E ciò allor
più, quando nell’opere tradotte, il diletto della favella prevale alla dottrina
deir idruzione, come nelle novelle, ne’romanzi, nelle produzioni teatrali,
poetiche, e sìmili altre, più cv di spirito che di sentimento. II pretender di
dilettare per sodituzioni grammaticali di termini d’una lingua a quelli
d’un’altra, come nel caso suddetto d’idruire \a)y è una vanità, simile a quella
di chi crede di meglio ricopiare un ritratto originale, con soprapporvi i suoi
colori, cuoprendone cosi e confondendone le tinte, e cangiando il quadro in un
mascherone, o in un empiadro. S’aggiunge trattandosi di poesia che il numero,
L’ACCENTO (Grice), la rima (“Never seek to tell they love, love that never told
can be, pleasure, treasure” – Donne, four-corners – cabbages and kings -- ], e
1’altre condizioni, per le quali il diletto dell’eloquenza rileva moltidimo, e
che dipendono dall’armonia che palTa all’intelletto per le vìe dell’udito, sono
if>)C.XF.n. del tutto imponibili a tral^rtarfì dall una all’altra favella; e
che sìccome la musica dell’Italia può farsì udire nella Gallia, e la della
Gallia in Italia, ciascuna nel suo carattere, ma non è podibile tradurre la
musica verbigrazia di GALLUPI (vedasi) in quella di Monsù Ramò. All’ ideflb
modo non è podibile per quedo capo, tradurre r una nell’altra poesia. E il
miglior poeta comico d’ITALIA de’nostri tempi, potrà darfene nella GALLIA per
padar quivi meglio i fuoi giorni, ma non giammai perchè il suo talento comico
da così ben rilevato in Parigi, nella lingua galla non sua, come il è già in
Venezia, nel dialetto suo veneziano. Da ciò A conclude, che non potendo il
traduttore nella nuova lingua dilettare coll’epressioni dell’originale, non gli
rederà dunque per tradurre ben che dilettar coll’espresioni della propria;
inguifachè impodedato A lui del sentimento dell’autore per idruire com’edo,
l’esponga poi con quei colori di stile, e con quelle fraA d’eloquenza, che
nella sua lingua son più vive e più forti, per dedare il piacere, n terrore, la
tenerezza, la compasione, e gl’altr’affetti, quai più occorredero. £i dee
Agurarn d’effere autore, per non isAgurare il suo autore, e lasciar a lui
l’arte di dileture colla sua lingua, per dilettar O ci €» colla propria; e
alTumendo le dottrine e l’immagini di quello, esprimer 1’une e rappresentar
1’altre, coi COLORI (COLORE – Farbung – Grice) colori della sua lingua e poesia
che meglio conosce, e non con quei dell’altra lingua e poesia, che non potrebbe
mai cosi bene conoscere. In altra guisa gli riulcirebbe bensì di privar la sua
traduzione del diletto, che potesse provenirle nella propria lingua, ma non mai
di venirla del diletto che 1’animala nell’altra. L’indizio poi per cui
ravvisare, s’ei si fia nel tradurre comportato con quelle regole, fa fo que
fio, di piacer tanto la sua traduzione a quei della lingua tradotta, quanto
l’originale a quei della lingua originale, o di poter quella palTar per opera
così originale fra quelli, come 1’originale medesimo pafia per ule fra quelli.
Accogliendo ora le principali verità efpofte di fo- Epilogo, e pra, fi
apprenderà facilmente, una di quefie CoDcluCone . efl'er quella, di dover
difiinguerfi fra le cognizioni umane le apparenti, e le reali. Perciocché io
non ò già preteso per quanto ò qui scritto, di persuadere gl’uomini a
governarli col solo reai delle cose, e di difiruggere infra lor 1’apparente del
tutto, come potrebbe alcun lòspettare. Ciò faria fiato come voler persuaderli a
lasciar le vie piò facili e pronte di governarsi, per appigliarfi alle piò
lontane e difficili, e ad abbandonar quegli alietumenti de’sensi, dai quai
dipende tutto quel commercio di passioni, dipende ri, e d’azioni grandi e
luminose, per cui piacevolmente fufiifiono; cosa che non s’è mai ottenuta, e
che in conseguenza non è da sperarsi che s’ottenga giammai. Al contrario di
ciò, mio disegno è fiato sol quello, di didngannare gl’uomini fu su quello
apparente mededmo, e di rappresentarlo loro per quello eh’egli è, avvertendoli
che oltre a quello, per cui fogliono elfi governarsi, v' à nelle cose un reale,
per cui li governa irredllibilmente natura, o riferire 1’uno all’altro di
quedi, dipende quella felicità, di cui fon tanto ansiosi e soJlecitt, o quella
infelicità, per cui alzan- si trilli e si fpein lamenti. E ia vero non potendo
gl’uomini acquillar cognizioni che per mezzo de’sensi, e non^ iflendendofi
quelli che alla superficie apparente degl’oggetti, le cognizioni loro fu quelli
non possono al primo tratto essere che superficiali e apparenti. Vero è che
oltre ai sensi, son eglin dotati dalla natura eziandio d’un intelletto, per cui
confrontando giuHamente fra loro quegli oggetti inferiori ed ellerni, arguir le
verità fu elH piu sublimi ed interne, e farsi cosi dal visibile degl’oggetti
creati, all’invisibile di Dio eterno e increato. Ma efigendofi a ciò certa
allrazione dai sensi medefimi, da non praticarsi che con ripugnanza, per l’amor
proprio che tiene a quelle apparenze fortemente attaccati/ non è poi llupore,
le gl’uomini di via ordinaria s’ arredano sulle prime impressioni, e fe paghi
dell’intereire proprio per quelle, non elaminanpoi, fe quedo concordi o non
concordi col comune degli altri, o colla ragione reale di tutti. Una fimil
pigrizia in edi e tanto più fcufabile, quanto le apparenze medelìme non son
fallaci per sè, ma per sola mancanza di ridedìone, poda la quale, si rendono
elTe dede il reai delle cofe . £ oltre ciò i disordini che quindi ne seguono,
facendo ben todo accorti gl’uomini de’loro inganni dopo edervi incorsi, fan si
che se ne correggano, e conoscano quegl’errori che potean prevenire, ma che non
àn prevenuto, ciò che non è altro che condurli idedamente dall’apparente al
reale, benché proprio mal grado, a che riguarda quel detto popolare che la
necedità, o le angudie alle quali li conducono gl’uomini da sè dedi, insegnan
gran cose. Un’altra verità dedotta dalle cose suddette è pur queda, che le
dette cognizioni reali, alle quali O z conducono l’apparenti, non son poi tanto
fconoIbiute ed ignote, nè da ^efte tanto diverse, quanto raflembrano, e
eh’eifendo anzi quelle inufitate nella pratica edema, nel sentimento e nella
pratica interna, son più note e paleft di quede. Lo che si comprova non sòlo
per quella coinpadione e quel ridicolo che s’è odervato cadere sì di frequente
sulle azioni e debolezze altrui \ ma per quella circofpezione ancora, e dudio
d’ognuno d’occultare le verità, o di presentarle e palliarle ad altri con
colori alterati, e talvolta MENTITI – GRICE MEAN MENTARE MENTIRE -- da quel che
si conoscono. Perciocché in ed'etto ciò non è, che tacere il reai delle cose
che più si sente e s’approva, per regolarci cogli altri pel1’apparente, che 11
lente e s’approva meno, amando meglio adulare e lufingare col facile che
illuminar col mdìcile, e infadidir sà dedi con tacer quel reale, più todo che
offendere o turbar altri con lor palefarlo. E ciò non ]xr altro che per
conciliare una pari condifeendenza d’altri verso di sè medefìmi, contenti cosi
gl’uomini con sì bel garbo, quasi d’ingannarfi a gara a chi fa far meglio, e di
convenzione comune. Essendo poi queda più o meno la pratica universale, il reai
delle cose non è dunque così arcano e incredibile, come è creduto, ed è anzi
più noto ed approvato dell’ apparente, ancorché fimulato quello, e adombrato
nelle azioni comuni ederae. E s’odervi, come queda simulazione delle verità
reali conofeiute in occulto, è poi altresì SMENTITA – GRICE MEAN MENTIRE MENTARE
SMENTIRE SMENTARE -- elfa deda io palele d’ognuno, allor eh’ei dichiara ad alta
voce, che le cognizioni umane son tutte incerte e fallaci, e che gl’uomini son
soggetti tutti a sbagli e a illusioni, alle quali espressioni tutti fan eco ed
applauso; ciò che propriamente é un vero accordarsi da tutti che sebbene
gl’uomini si regolino pell’apparente, per cui s’ingannano, tengono nondimeno mi
mente e in cuore un reale, per cui alla line del conto, puc ad onta loro li
disìngannano. Ed è cosa maravigliosa, come è lecito ad ognuno di dichiarare
impunemente e con lode che fian gl’uomini in genere deboli, lufinghieri, e ad
errore soggetti; e non ardisca poi alcuno di far la ileda dichiarazione ad un
altro, di quello stesso in ispecie, anzi sia quella creduta cosa villana e
indiscreta. L’ignoranza dunque delle verità reali è polla non già nel non
conoscerle, ma nel simularle ad altri pelle apparenti j mercecchè d’altronde se
tutti conoscono, le cognizioni umane elTer generalmente fallaci, in quella
conoscenza medesima additano molto bene, le reali eHer loro pur note, e a
qualche modo non son più nell’inganno, rollo che conoscono d’eflTervi . Quindi
si presenta f altra verità pur avvertita, la qual è, che se gl’uomini prendono
errore nel regolarsi per cognizioni apparenti, senza badare se convengano o non
convengano quelle colle reali, il prendono molto maggiore, quando condotti
perciò in un pelago di contraddizioni e d’IMPLICANZE O IMPLICATURE, dal qual
non fan come uscirne, e per uscire dal quale son indi allretti a ingannarli, a
tradirsi, a combattersi insieme con quella serie di calamità, delle quali non
cessano di lagnarsi, si volgono a imputar tutto quello alla natura, o ai grande
autore di ella; quando C.Z//7.n.a» ò indubitato doverli tutto ciò ascrivere alla
loro pigrizia, per cui non curano di proceder dall’apparente al reai delle
cose, e s’arredano alle prime im» S rdfioni degl’oggetti edemi a loro favore,
senza ba- are se con ciò ìiano giudi o ingiudi cogli altri. E in vero che
gl’uomini per certa inerzia e condifcendenza, prefertfcano d’adularfi e
d’accarezzarfi insieme con vide d’ambizione, di fado, e di altre verità
apparenti, in luogo d’iltuminarfi colle reali, temendo ancora per quede di
od'endere o conturbare i più inclinati a quelle; può ciò palfarfi, benché con
poco onore dell’umana ragione, purché ne’mali che O 3 con 'Òt ex con ciò
s’adunano intorno, si compatifeano e si difendan fra loro. Quello infatti è ciò
che avviene di via ordinaria, e ben fel vede ogni più faggio ed attento, nel
quale eccita ancor tenerezza il vedere come quelli poveri spenlìerati, poiché
son caduti per inavvertenza negl’inganni più vergognosi, fatti indi accorti di
quelli per li difordini che ne confeguono, accorrano ad alfillerfi per ufeirne,
a compatirli, e a prellarfi SOCCORSO GL’UNI AGL’ALTRI – HELPFULNESS --,
comprovando cosi a elTervi incorfi quasi di consenso uniforme. Fin qui li
mollrano elfi di un carattere timido e incauto, ma buono almeno e sincero. Ma
che poi vi fian di quelli, i quali degli errori e de’mali che s’attirano sopra
per loro pusillanimità e miseria di spirito, accusino la natura, quando quella
con ingenuo candore fuggerifee loro che oltre all’apparente v’à negl’oggetti un
reale, cui va quello riferito, al qual fine oltre ai sensi, per cut apprender
gl’oggetti, dà altresì un intelletto, per cui confrontarli; quella non può
negarsi che non sia la cecità r e la llolidezza maggiore. PalTando poi al
proposìto delle lingue, la verità più considerabile avvertita di sopra in
ordine ad elTe e che quantunque sian quelle dellinate a rapprefentare ad altri,
e a esprimere gl’oggetti e le cognizioni per quelli apprese; non son però così
atte a far quello, come il sembrano a prima villa; e eh elTcndo anzi elTe
imperfette per esprimer le cognizioni reali, servono di fomento per dilatare e
dar rifalto al- (.é)CJCyi.n.u ìe apparenti a esclulìone delle reali medellme.
Cib avviene per mancanza d’analogia necessaria fra le cose e le parole – GRICE
ON GELLNER AND FOUCAULT -- per cui s’esprimono, e fra la diver-11 tà colla
quale s’apprendono e si combinano gl’oggetti, e quella colla quale si
proferifeono e si combinan le voci; come altresì fra le foggie, colle quali
cangiano quelli e quelle, che non àn connefilone o dipendenza necessaria veruna
l’une coll’altre. Quefta osservazione che pare nuova nell’enunciarla non n
trova tal nella pratica, se si ponga mente alle tante ^legazioni, coment!,
glose, e interpretazioni che {penb occorrono per i’ intelligenza degl’altrui
pensamcnti sui libri, o sulla lettera di efli, massiime se sì tratti di leggi,
di costumi, e d’azioni antiche cfprefie con lingue perdute. Le quali
interpretazioni fan conoscere che non solo i costumi diversi pallati non àn
relazione necessaria conosciuta veruna cogli (ieflTi presenti, ma che le lingue
pur morte diverse non 1’anno con una llefla pur viva, e ciò senza dipendenza di
ciascuna di quefle relazioni coll'altra; giacché per le flelTi voci antiche si
dedano diversi, e talor contrari concepimenti in persone d’una lingua medefìma
da quella diversa, alfiflellb tempo. Quindi molto più apparisce l’incapacità
delle lingue per dettar regole di vita, che servano a tutti i tempi e i luoghi,
ne’quali si cangiano e i costumi e le lingue; e come elTendo le azioni, per
quanto pajan connmili, ciascuna diversa da tutte l’altre alio flelTo, e molto
più a’tempi diversi, ciascuna doveflb (j)C.F/. ».t. efigere quasi una legge
diversa, o dettata diversamente, essendo invero impossibile il comprenderle e
regolarle tutte, colla fiefia esprefiìone di voci. Certo è che nella pratica
ancor più sensata una legge per esempio che non può dettarli dai legislatore
che su tutti i casi in afiratto non avvenuti, dee sempre dal saggio giudice
interpretarsi nell’applicarla ai casi avvenuti particolari, cial'cun de’quali è
noto diversificare da tutti gl’altri per adiacenze, occasioni, circostanze e
motivi che lo accompagnano; senza di che quella legge si trova sempre al
proposito o rigida o lenta, o mancante o eccesiiva, o facile o severa. I
britannici che pa|ono aver sempre del singolare, col soggettarsi alla lettera
materiale delle lor leggi più tolto che al SENSO O SPIRITO d’esse, non si sono
accorti che d’uomini ragionevoli eh’ ei sono, si son contentati di confiderarsi
come tanti automi, da muoversì per quelle leggi come per molle, a guisa di
figure in un quadro movibile; operando cosi non pella ragione lor viva, ma per
la morta di alcuni loro vecchi parlamentari, non certamente d’efll più
ragionevoli. Finalmente dall’esser le lingue più atte a diffonder le cognizioni
apparenti che a efpor le reali, si conferma la verità prima suddetta che
gl’uomini in generale abbiano ad elTer più ricchi di quelle che di quelle
cognizioni; giacché la favella, per cui s’avanza 1’apparente, è infatti più
comune della riflelfione e della meditazione, per cui s’avanza il reale. Ciò
che conviene col detto ancor popolare che la verità e la virtù sincera Ila
nell’azione e non nella favella – a man of words and not of deeds is like a
garden full of weeds --, e che gl’uomini più millantatori e loquaci – come
CICERONE -- Ibn meno attivi degl’altri – COME MARCO ANTONIO --. Il giudicarli
più virtuosì e più saggi, perchè più parlano di virtù e di saviezza, ognun fa
eh’è un giudicio dubbio ed equivoco; e che quando ancora si verifica elTo della
virtù e faviezza apparente, della reale non potrà verificarli giammai. Del
rimanente io son certo che in proposito di quella mia solenne distinzione
d’apparente e di reale – BRADLEY APPEARANCE AND REALITY --, di che ò fatto qui
si grand’uso, alcuni avrebbero desiderato eh’io ravelli meglio specificata,
esemplificandola su soggetti particolari, e tnalTime su quei che riguardano la
comun fulTillenza e i comuni aflàri, e aflegnando in elfi ciò che sia apparente
e ciò che sia reale, o distinguendo 1’uno diair altro. Quello non puo io qui
fare, trattando d’oggetti, di costlumi, e di cognizioni in genere. Trovo però
d’averlo fatto in altro luogo, ove trattando particolarmente dell'economia e
del governo de’popoli, ò polle molte proposizioni col titolo d’errori popolari,
che sono tante verità apparenti alle quali ne ò contrappollo altrettante col
titolo di ^JJiomi, che non sono che veri- '-Secxiii ^ errori contrarie delle
quali proposizioni un saggio fa ancor veduto da alcuni. Lo lleflo potrà farsi
d’ognuno in qualsìvoglia altro particolare soggetto che se gli presenti alla
mente j o eh’ ei prenda in consìderazìone, fui quale procedendo col metodo col
quale io son proceduto in quello, allora dovrà sempre temere di giudicare per
1’apparente, quando flando alle prime impressioni de’ (enfi, badi al particolare
di sè fteflo o d’alcuni, trafeurando il rimanente degl’altri; e allora potrà
a(^ sicurarsi di giudicare realmente, quando badando al particolar di sè (le(To
o d’alcuni, abbia altresì riguardo al comune di tutti, a somiglianza di giuda e
imparziale natura. Que(ia amica di tutti, non tien nelTuni nemici, e non opera
mai per uno, che con relazione all’univerfale degl’uomini e di se def- (a ; e
il medesimo dee fare chiunque penfi imitarla. I N- /^Ggetti apprenGbili origini
della fiTelIa. Gianmaria Ortes. Ortes. Keywords: verso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Ortes” – The Swimming-Pool Library. Ortes.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Ostiliano: la ragione converazionale e il portico
romano -- la filosofia romana sotto il principato di Vespasiano -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Astract. Grice:
“In Der Streit des Facultaeten in drey absichten,” Kant memorises how hard he
found to find ‘eternal peace’ with the theologians, the jurists, and the
medics. The same could be said of Ostiliano. His only claim to fame is that his
philosophical theory was completely banished by Vespasian. The implicature
being that Vespasiano MUST be right, whereas Ostilliano MUST be wrong! It may
be further argued that one of VESPASIANO (vedasi)’s implicature was that the
Porch itself should be banned. ‘Hardly academic!’”. Filosofo italiano. A
follower of the Portico. His claim to fame is that Vespasiano (si veda) banishes
him from Rome. Ostilliano.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice ed Otranto:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola
d’Otranto -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Otranto). Filosofo italiano. Otranto, Puglia. Grice: “Otranto writes
a tractatus ‘de arte laxeuterii,’ which is an art of ‘divination,’ as when we
say that smoke divinates fire!” -- Grice: “Had Otranto not written ‘scritti
filosofici’ we wouldn’t call him a philosopher!” – Filosofo. Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si
sa dove oggiorna e studia, né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia,
però, lascia immaginare una formazione molto solida. Insegna a Casole. Traduce la
liturgia di Basilio ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue competenze
linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete al
seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani. E a
Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello scalpello”,
con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di testi
liturgici; “Dialogo contro i giudei” – Grice: “It reminds me of Ayer, the then
enfant terrible of Oxford philosophy” --; Tre monografie o syntagmata “Contro i
Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici
ed ortodossi, quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo;
un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di lettere; Hoeck-Loenertz, O. Abt von Casole. Beiträge zur Geschichte der
ost-westlichen Beziehungen unter Innozenz III. und Friedrich II., Ettal. M.
Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου μονής Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): Διάλεξις κατά Ιουδαίων. Κριτική έκδοση. Athena, Hoffmann: Der anti-jüdische
Dialog Kata Iudaion des O.. Universitätsbibliothek
Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degl’italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on in Italian Byzantine
convents under Roman rules. Longobards being raped, or raping Greek monks.
Grice: “At Oxford, I was often criticised for referring to William of Occam, as
‘Occam,’ but then in Italy nobody complains about referring to Otranto as
Otranto!” Nicola Nettario d’Otranto. Otranto. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool Library. Grice ed Otranto
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Ottaviano: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale nel secolo d’oro della filosofia romana sotto il principato
d’Ottaviano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. It should always be kept in mind, when
approaching the philosophy of H. P. Grice, that he enrolled at Oxford in the
only philosophy programme then available – having won a classical scholarship
to Corpus from his alma mater at Clifton. Therefore, he had first to pass
classical moderations, which he did with a first – to pursue philosophical studies
at ‘greats’ and where critical thinking of the philosophical kind was first
required. Therefore, an interest in the philosophy behind Rome’s first emperor
– or ‘prince,’ strictly – would hardly been foreign to him. Indeed, it was the
positivist creed that was taking root at Oxford – brought by whom he calls the
‘then enfant terrible,’ Ayer – which was the ‘furriner’. In Ancient Rome, there
was no clear distinction between philosophy and other branches of culture, and
Ottaviano excelled as a philosopher, if a Roman would have been so bold as to
utter’ excell’! Filosofo italiano. Il primo principe. Historia augusta, scritta
d’Ottaviano. His philosophical teachers are well known. The education of a
prince. O. lascia alla sua morte un dettagliato
resoconto delle sue opere: le Res Gestae Divi Augusti. Svetonio in particolare
racconta che una volta morto, lascia tre rotoli, che contenevano: il primo,
disposizioni per il suo funerale, il secondo, un riassunto delle opere, da
incidere su tavole in bronzo e da collocare davanti al suo mausoleo, il terzo:
la situazione dell'Impero. Quanti soldati sono sotto le armi e dove erano
dislocati, quanto denaro era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali,
oltre alle imposte pubbliche. Il testo dell'opera è tramandato da un'iscrizione
in latino. E incisa sulle pareti del tempio, dedicato alla città di Roma e ad
O., situato ad Ancyra -- l'odierna Ankara, la capitale della Turchia -- e
pertanto è stata denominata Monumentum Ancyranum. Altre copie, molte delle
quali sono giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi
a lui dedicati. In uno stile volutamente stringato e senza concessioni
all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli erano stati
via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da lui resi; le
elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo Stato,
ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue
spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra. Il documento non
menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua
famiglia, con l'eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa,
Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio. O. e totus
politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendica egli stesso nelle sue
memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le
sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista
e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini
politici. Si tratta di un miracolo ed egli capì subito che anda capitalizzato.
Durante i giochi da lui organizzati in memoria di GIULIO (si veda) Cesare, in
un momento di massima incertezza politica, tra liberatori perplessi e cesariani
frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben VII giorni. Il
fenomeno fa molta impressione. «l volgo – scrive O. nelle sue memorie -
credette -- “vulgus credidit -- che quella stella significa che l'anima di
Cesare e stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto (quo nomine)
feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di GIULIO Cesare che fa
consacrare nel foro. Il brano è citato da PLINIO nella Naturalis Historia, il
quale commenta. Queste furono le sue parole, destinate al pubblico, ma una
gioia intima gli suggere che quella stella era NATA PER LUI e che lui nasce in
essa. L'episodio ha avuto una eco imponente nella letteratura poetica e
storiografica, coeva e successiva. La formale decisione del Senato romano - che
stabili essere GIULIO Cesare ‘divino’ - ha luogo. Divus lulins. In tal modo O.
diventa ope legis, figlio di Dio, Divi filius. C'è chi pensa che già in
concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, O. ottene tale
prezioso riconoscimento. Ma di fatto le premesse O. le aveva poste con
l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una vasta tradizione
superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma al benefico
astrum Caesariso fa già riferimento VIRGILIO, e ormai rinfrancato, nell'Ecloga.
La carriera d’O. e incominciata già l'anno prima, quando, neanche allora in
ottima salute, aveva raggiunto GIULIO Cesare in Ispagna per esser presente
all'ultima durissima lotta contro i pompeiani, culminata nella battaglia, fino
all'ultimo incerta, di Munda. Difficile stabilire se GIULIO Cesare lo avesse già
allora notato, se Azia - madre di O. - abbia attratto l'attenzione di GIULIO
Cesare su di lui, se O. forza la situazione superando le esitazioni materne.
Quanto ci sia di riscrittura post eventum e quanto invece di autenticamente
vero in questo passaggio, che i biografi cortigiani d’O. esaltano come
premonitore, forse non si potrà mai accertare. In ogni caso spicca la capacità
dimostrata da GIULIO Cesare di scegliere un successore. In politica non accade
quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre che l'idea della propria
indispensabilità, anche la certezza della propria superiorità. Di qui la loro
sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel quale pur debbono pescare
chi verrà dopo di loro. A sua volta O. cerca per anni, e resta tra gli arcana
delle sue ultime ore di vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta
(Svetonio, Vita di Tiberio). E ben si comprende. GIULIO Cesare sceglie un
figlio adottivo ed erede che puo, se si e confermato capace, diventare un
capoparte; O., invece, pur avendo restaurato la repubblica cerca un successore.
Anche dal modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali
viene fuori il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la
certezza della propria insostituibilità' -- che rende, tra l'altro, ancor più
disperante la ricerca di un successore -- si sposa con la tenacia nel
perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione,
dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di
conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una
riproposizione aggiornata del principato di Pompeo. Gli anni della lunga pace
non sono facili. Non sono mancati, in quei lunghi anni di governo solitario,
congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si riaprissero. Da
qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non irrilevanti. E se
Seneca ne e informato vuol dire che ne trova la traccia nelle inedite Historiae
ab initio bellorum civilium che suo padre continua a scrivere e ad aggiornare
ma non se l'era sentita di pubblicare. E anche questa prudenza di uno storico
accorto, che fa a tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per
O., alla fine, l'unica scelta possibile era quella della storia sacra. Perciò,
quando la lunga pace civile del suo interminabile governo non ha più bisogno di
una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica,
egli inventa un altro strumento che affermasse in modi essenziali e
monumentali, sperabilmente per sempre, la sua verità: il solenne e
sacralizzante ri-epilogo dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi,
non soltanto ad una cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nasce
in lui l'idea delle Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero
e perciò salvatesi: covate e limate nel corso degl’anni, e alla fine pronte,
oltre che per l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato
intimidito e allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca
dell'erede designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui
Druso. Per Roma e una radicale novità. E la via epigrafica alla storia sacra,
sul modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico -- Dario a Bisutun --
e del mondo egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae e quello non solo
di dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare
anapoditticamente ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare
accettare questa verità come l'unica vera nel momento stesso in cui la
successio dinastica ne rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro
grandezza e, insieme, la loro fragilità. VOX AVGVSTA. Petrarca, nel secondo
capitolo del primo libro delle Res memorandae, racconta d’essergli avvenuto,
ancora giovinetto, di leggere un libriccino contenente gli epigrammi e le
lettere agli amici dell’im- peratore Cesare Augusto, conditum facetissima
gravitate et luculentissima brevitate adorno di forbita dignità di stile e di
eloquente brevità; un volumetto quasi intonso e mezzo divorato dalle tarme, che
andò per- duto, e che, per quanto disperatamente cercasse, Petrarca non riuscì
più a trovare. I dotti dubitano della veridicità della notizia, ma forse
dubitano a torto, giacchè nessuna ragione poteva avere Petrarca di men- tire la
notizia, e da nessun’altra fonte che dalla diretta lettura avrebbe egli potuto
derivare un giudizio così vero e preciso sulle doti stilistiche degli scritti
di Augusto. Non resta, dunque, che dichiararci contenti che a rivelare al mondo
la grandezza di Cesare Augusto scrittore sia stato il primo umanista d’Italia,
e che a nessun altro sia riuscito meglio che a lui di definire, in fresco e
saporoso latino, le caratteristiche dello stile del figlio adottivo di Giulio
Cesare. Molti secoli passarono prima che si ponesse di nuovo mente ad Augusto
scrittore, e solo quando fu ritrovata l’iscrizione di Ankara in Anatolia i
dotti si diedero a raccogliere i frammenti degli scritti imperiali e a
riprodurli più volte in edizioni belle e brutte, rintracciando meticolosamente
il benchè minimo frammento. Sulla iscrizione dell’ Augusteo d’Ankara storici e
filologi discutono ancora, voglio dire che ancora non si sono messi d’accordo
sulla natura e significato di uno dei quattro documenti che O. consegna,
insieme col testamento, alle vergini Vestali perchè alla sua morte fossero
letti in Senato. I quattro documenti erano le disposizioni per i funerali, il
resoconto delle sue gesta, una relazione sulla situazione militare e
finanziaria dell’Impero, i consigli a Tiberio sul modo come reggere e
amministrare la cosa pubblica. Ci è giunto intiero il secondo dei quattro
documenti: ma non già nell’esem- plare che Tiberio, obbedendo alla volontà di
Augusto, fece scolpire nel bronzo dei due pilastri collocati innanzi al
grandioso Mausoleo, che sorgeva, nella parte setten- trionale del Campo Marzio,
tra il Tevere e la via Flaminia; bensì nella copia che fu incisa nella pietra
dell’Augusteo di Ancyra, capitale della Galazia, cioè nell’Augusteo di Ankara,
capitale della nuova Turchia. Ivi, nel capoluogo di una provincia romana, le
Res gestae Divi Augusti furono incise nel testo latino det- tato
dall’Imperatore e nella traduzione greca fatta eseguire dal successore Tiberio,
perchè le parole di Cesare. O. sonassero più intelligibili alle popolazioni
orientali. Questa è l’iscrizione nota col nome di Monumentum ancyranum, da
venti anni a questa parte riprodotta in un testo sempre meglio corretto,
essendo stata rinvenuta un’altra copia dell’originale latino nella colonia
imperiale di Antiochia di Pisidia. Ma, come ho detto innanzi, i dotti discutono
ancora sul significato del documento, nel quale Augusto volle rendere pubblica
ragione delle cariche ricoperte, dei donativi elargiti e delle imprese operate.
E, purtroppo, anche in questo caso, taluni critici, per cercare di scoprire i
diversi momenti della redazione dello scritto, hanno affermato che il piano
generale dell’opera è disorganico e disordinato, che molte sono le incoerenze
di alcune parti, e che però Cesare Augusto ha redatto il documento ampliandone
uno precedente, più modesto e meglio ordinato. Insomma... una quistione
omerica, che, a parer nostro, è facilissimo distruggere nelle sue false ed
ingannevoli argomentazioni con poche parole. Il documento di Augusto non è un
bilancio, non è un testamento politico, non è un'iscrizione del tipo degli
elogia; ma è rendiconto, testamento ed elogium, perchè Augusto l’ha redatto
quando si appressava il giorno della morte. Per ciò stesso non rientra in
nessun genere. La solennità del latino del documento augusteo non è soltanto
nello stile, ma è nei fatti che vi sono esposti, e soprattutto è nel fatto che
al Senato e al Popolo di Roma parla il fondatore dell’Impero, il Padre della
Patria, Augusto, e non per esaltare la sua propria opera, ma per proclamare che
essa rimarrà in eterno legata alla fedele collaborazione del Senato e del
Popolo di Roma. Svetonio afferma che Augusto soleva scrivere tutto ciò che
dovesse dire, che scriveva perfino quello d’importante che dovesse dire a sua
moglie Livia; e che si era assuefatto a scrivere meticolosamente i suoi
discorsi al punto che, quando la troppo cagionevole gola gl’impedisse di
arringare la folla, un araldo leg- geva ad alta voce il suo manoscritto:
praeconis voce ad populum contionatus est. Perciò io dico che anche questo
documento è un discorso al Popolo di Roma: l’ultimo discorso nel quale il Padre
della Patria, Cesare Augusto, rende conto dell’opera sua. E le prove della mia
affermazione sono la presunta incoerenza e il presunto disordine scoperti e
biasimati dai critici. Ma non sono malinconicamente ridicoli quei critici i
quali cercano di dimostrare in « sede scientifica » che Cesare avrebbe copiato
da Posidonio molti capitoli di un libro dei commentarii della guerra gallica (e
sono, purtroppo, Italiani); o questi altri (e fortunatamente non sono Italiani)
che scoprono in Augusto un errore di cronologia? Giacchè, se dovessimo dar
retta a costoro, O. avrebbe commesso l’errore di menzionare alla fine del
documento i due maggiori titoli del Pater Patriæ e di Augustus conferitigli dal
Senato e dal popolo negli anni 27 e 2 avanti Cristo. Invece che nel
trentaquattresimo e trentacinquesimo paragrafo, O. avrebbe dovuto ricordarli, a
giudizio di cotesti critici, molto prima: chè insomma avrebbe dovuto fare opera
di storico mediocre e dimenticare di essere Cesare Augusto. Leggete il
documento. Esso comincia: annos undeviginti natus exercitum privato consilio et
privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione fac- tionis
oppressam in libertatem vindicavi: « all’età di diciannove anni, di mia
iniziativa e con danaro mio apparecchiai un esercito, e con esso restituii
libertà allo Stato oppresso dalla prepotenza di una fazione. E si chiude così.
Tra il sesto e il settimo consolato mio, dopo ch’ebbi soffocate le guerre
civili ed assunto, per universale consenso di tutti i cittadini, il supremo
potere, trasferii dalla mia persona all’arbitrio del Senato e Popolo romano il
governo della cosa pubblica. Per questa mia benemerenza, mi fu conferito, con
decreto del Senato e Popolo romano, il titolo di Augustus... Durante il
tredicesimo mio consolato, il Senato, l’ordine equestre e il Popolo romano mi
acclamarono Padre della Patria, e decretarono che questo titolo dovesse essere
iscritto nel vestibolo della mia casa e nella curia Giulia, sotto la quadriga
che per decreto del Senato fu eretta ad onor mio. Quando redigevo questo
documento, avevo settantasei anni. Comincia: annos undeviginti natus; finisce:
annum agebam septuagesimum sextum. Non dimentichiamo questa chiara e
significativa corrispondenza tra l’inizio e la chiusa del documento, nella
quale sono compresi i cinquantasette anni della vita politica di Cesare
Augusto. O sembra, forse, strano che per sublime orgoglio il primo cittadino
della Roma imperiale, acco- miatandosi per sempre dalla plebe romana, di tutti
i titoli e honores ch’egli ebbe in vita, voglia ricordare alle generazioni
avvenire il nome di Augustus e il titolo di Pater Patriæ? O. era infermo, la
morte si appressava non temuta, ma serenamente attesa, chè infatti morì di
bella morte. Egli parla per l’ultima volta al Senato e Popolo di Roma, come un
cittadino, che, amministrata la cosa pubblica, dimesso dall’ufficio, consegni
al successore l’incarico e chieda, con coscienza onesta e proba, il benservito.
C’è in questo documento un crescendo di tono, che verso la fine raggiunge il
maestoso: dal venticinquesimo paragrafo in poi esso si fa solenne come litania:
mare pacavi a praedonibus; omnium provinciarum populi romani fines auxi;
Ægyptum imperio populi romani adieci; colonias deduxi; signa militaria
reciperavi; Pannoniorum gentes imperio populi romani subieci; ad me ex India
regum legationes saepe missae sunt; ad me supplices confugerunt reges; a me
gentes Parthorum et Medorum reges habuerunt; e finalmente i due ultimi
paragrafi sopratradotti. Sui mari ha debellato i pirati, ha allargato i
territori di tutte le provincie dell’Impero, ha aggiunto la nuova provincia di
Egitto, ha fondato nelle più lontane regioni colonie di Roma, ha recuperato
bandiere e vessilli: a lui hanno fatto ricorso in atto di supplica i re di
tante nazioni, da lui le genti di Oriente hanno avuto i re che avevano
dimandati. Col trentesimo terzo paragrafo si chiude il rendiconto delle imprese
operate da Cesare Augusto; nel trentaquattresimo e nel trentacinquesimo
paragrafo risuona il ricordo del nome di Augustus e del titolo di Pater Patriæ.
Al Senato e Popolo romano, alle genti tutte dell’Impero, alle generazioni
avvenire Augusto si raccomanda e consacra, prima che la sua terrena giornata si
chiuda, con quel nome solo e solo con quel titolo. ws Cesare Augusto affida il
manoscritto alle vergini Vestali perchè fosse consegnato dopo la sua morte al
Senato e inciso sul bronzo. Il successore Tiberio fece riprodurre il testo
com’era, con una brevissima appen- dice e in ortografia un tantino diversa da
quella prefe- rita da Augusto, ma certo senza nessuna sostanziale
modificazione. Dunque, noi possediamo un’opera intera di Augusto, la quale ci
rivela la sua grande personalità di scrittore. Il latino d’O. non è QUELLO DI
GIULIO CESARE. O. scrive e parla IN PRIMA PERSONA, ma si può dire che in questo
scritto egli raggiunga la stessa efficacia dei Commentari. Non giudica, NON
AGGIUNGE NESSUN COMMENTO ai fatti che espone pacatamente e senza enfasi, ma
dalla secca enumerazione dei templi fondati, degl’edifici pubblici restaurati o
costruiti, delle somme elargite all’erario e alla plebs, delle genti
soggiogate, dei nemici sconfitti, delle terre conquistate, delle leggi
promulgate, spira il calore dell’epopea e della leggenda. La sua opera appare,
quale fu, colossale; e vien fatto di ripen- sare ai primi quattro versi della
prima epistola del secondo libro di ORAZIO (si veda). Se io tentassi di rubarti
un po’ di tempo con una lunga chiacchierata, o Cesare, peccherei contro
l’interesse dello Stato, giacchè da solo sostieni tante e così gravi cure, e
l’Italia difendi con gli eserciti, e ne incivilisci i costumi, e con leggi la
emendi. Epico è il tono di questo scritto d’O., anche là dove sono riassunte in
brevissime parole imprese che durarono anni. Colonie militari ho inviato in
Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due Spagne, in Acaia, in Asia, in
Siria, nella Gallia Narbonense, in Pisidia. E l’Italia diciotto colonie
possiede; dedotte per ordine mio, le quali, per tutto il tempo ch'io vissi,
sono state assai popolose e prosperose. Leggendarie appaiono le legioni, che,
guidate da lui o dai generali suoi sotto ì suoi auspici, marciano, di conquista
in conquista, verso confini sempre più lontani; e avvolte nella leggenda
sembrano le triremi sue che fanno vela, =_= 1 -:-—=- esse poni “bi ski audaci,
verso nuovi lidi: « La mia flotta corse l’Oceano dalla foce del Reno fino al
territorio dei Cimbri ad Oriente, dove, nè per terra, nè per mare, nessun
Romano prima di allora era giunto... ». Augusto ha uno stile sobrio,
nient’affatto enfatico, e tuttavia solenne. Egli adopera vocaboli che sono
sempre esatti e tecnici, censuit, decrevit, ussit, creavit, per dire che il
Senato e Popolo romano ordinò, decretò, comandò, nominò. La collocazione delle
parole è semplicissima, lineare, chiara, antiretorica, come in questo periodo
che è uno dei più ricchi sintatticamente: nomen meum senatus consulto inclusum
est in saltare carmen, et sacrosanctus in perpetuum ut essem et, quoad viverem,
tribunicia potestas mihi esset, per legem sanctum est. Il mio nome per decreto
del Senato fu compreso nel carme dei Salii, e che inviolabile io fossi in
perpetuo, ed a vita avessi il potere tribunizio, fu per legge sancito. Non fa
mai il nome degli avversari suoi; tace quello dei congiurati che assassinarono
il padre suo Cesare: qui parentem meum interfecerunt, eos in exilium expulsi
iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea bellum inferentis rei publicae
vici bis acie: «Quelli che assas- sinarono il padre mio li cacciai in esilio
punendo con procedimento legale il loro delitto, e, in seguito, quando essi
portaron guerra allo Stato, per due fiate li sconfissi in campo ». E continua,
pacato e grave: « Guerre per terra e sui mari, civili ed esterne, in tutto il
mondo più volte ho combattuto, e vincitore risparmiai tutti i cittadini che
dimandarono grazia. Le genti straniere alle quali fu possibile, senza pericolo,
perdonare, preferii conservarle anzi che distruggerle. Sotto le mie bandiere circa
cinquecentomila cit- tadini romani militarono. Di essi più che trecentomila
mandai nelle colonie o feci ritornare ai loro municipi, dopo ch’ebbero compiuto
gli anni di servizio, e a tutti assegnai terre oppure donai danaro a ricompensa
del servizio prestato. Seicento navi catturai, non includendo in questo numero
quelle di tonnellaggio inferiore alle triremi. Entrai in Roma ovante, due
volte: tre ebbi trionfi solenni e ventuna volta fui acclamato imperator,
sebbene il Senato mi decretasse un maggior numero di trionfi, ai quali tutti
rinunciai. L’alloro dei fasci lo deposi in Campidoglio, e così sciolsi il voto
che avevo solennemente fatto in ogni guerra. Per le imprese felicemente da me o
dai miei generali sotto i miei auspici operate in terra e sui mari, il Senato
cinquantacinque volte decretò che si rendessero grazie agli dèi immortali.
Ottocentonovanta furono i giorni nei quali, per decreto del Senato,
s’inalzarono pubbliche preci. Nove re o figli di re furono nei miei trionfi
condotti innanzi al mio cocchio. Ascoltatelo quando riassume in un periodo solo
la sua opera di legislatore: « Con leggi nuove da me promulgate richiamai in
vigore le consuetudini antiche dei padri, che già cadevano in oblio nella
nostra generazione, e io stesso ho lasciato alle generazioni avvenire esempi di
molte cose, degni d’essere imitati. Sentitelo quando ricorda gli onori che il
Senato e Popolo di Roma conferì ai suoi due figli adottivi, e leggerete in un
brevissimo inciso il dolore del padre per l’immatura morte di Gaio e Lucio
Cesare, e l'umano e affettuoso compiacimento suo nel ricordare che appena
quindicenni essi furono acclamati principi della gioventù romana e designati
consoli. I due figli miei, che il destino mi strappò ancor giovani, Gaio e
Lucio Cesare, il Senato e Popolo romano per farmi onore li designò consoli
appena quindicenni, che entrassero in carica dopo cinque anni. E il Senato
decretò che dal giorno della loro presentazione nel Foro partecipassero ai
pubblici consigli. E tutti i cavalieri romani li acclamarono principi della
gioventù, e offrirono in dono scudi e lancie di argento ». E, infine,
ascoltatelo quando ricorda gli anni di Azio e dell’ultima guerra civile. Mi
giurò fedeltà l’Italia tutta intera, spontaneamente, e mi volle condottiero
della guerra nella quale vinsi ad Azio. Mi giurarono fedeltà anche le provincie
delle Gallie, delle Spagne, d’Africa, di Sicilia, di Sardegna. O. è filosofo
accortissimo, che aborre da ogni lenocinio sintattico o lessicale, ma che nel
giuoco delle congiunzioni, del polisindeto e dell’asindeto, riesce a far
leggiero o grave il tono della voce, più lento o più celere, ma non mai
concitato il movimento della frase. Abbiamo letto or ora un esempio di
asindeto, in cui le pause tra un nome e l’altro delle provincie rendono più
solenne l’immagine del mondo romano stretto nel giuramento intorno al suo Duce;
eccone, invece, un altro di polisindeto, là dove O. ricorda l’iscrizione dello
scudo d’oro offertogli dal Senato. Il testo originale dell’iscrizione era il
seguente. Il Senato e Popolo di Roma offre ad O. questo scudo per il suo valore
clemenza giustizia pietà – VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTOTIÆ ET PIETATIS CAVSA – e,
naturalmente, VIRTVS sta a significare l’opera del condottiero d’eserciti, e
PIETAS il profondo ossequio alle istituzioni religiose. Ma O. riunisce più
efficacemente in due endiadi le quattro virtù, essendo le due prime proprie
dell’opera sua di condottiero, le altre due del magistrato civile e supremo
amministratore dello Stato. VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTITIÆ ET PIETATIS CAUSA.
Perciò io dico che è molto difficile tradurre bene i paragrafi delle res gestae
d’O. A questa grande iscrizione, che Mommsen chiama la regina delle iscrizioni
latine, è mancato chi la traducesse nella lingua del principe, perchè è stata
rinvenuta troppo tardi. Nei tempi moderni avrebbe potuto tradurla solo
Tommaseo, ma non l’ha fatto perchè non la conosce. TOMMASEO traduce solo le
sette parole che son citate da SVETONIO nella vita d’O, ed io le ho ripetute
nella mia traduzione copiandole dal Dizionario d’estetica, e le ripeto di nuovo
con accanto il latino d’O. BIS OVANS TRIVMPHAVI ET TRIS EGI CVRVLIS TRIVMPHOS.
O entra in Roma ovante, due volte: tre volte ha trionfi solenni. Solo la
collocazione delle parole semplice ed efficace, e un raro accorgimento nella
scelta dei vocaboli e dei sinonimi potrebbero soddisfare il desiderio nostro di
una traduzione italiana che riproduce gl’effetti del latino d’O. O. e filosofo
elegante e temperato. SVETONIO riferisce che egli filosofa su molte cose,
alcune delle quali legge NELLA CONVERSAZIONE DEGL’AMICI, quasi dinanzi a un
uditorio come le risposte a BRUTO (si veda) intorno a CATONE (si veda), che
essendosi messo a leggere, giunto un pezzo innanzi, finalmente stanco dovè
farne terminare a Tiberio la lettura; l’esortazioni alla filosofia, ed alcune
notizie della sua vita che espose giungendo fino alla guerra cantabrica e non
più in là. Compone anche qualche verso. Rimane, al tempo di Svetonio, un
volumetto in esametri sulla Sicilia e un altro di Epigrammi, i quali egli e
andato COMPONENDO DURANTE IL BAGNO. Anche incomincia con grande alacrità una
tragedia, ma non essendo contento della forma la distrusce, e agl’amici che un
giorno gli dimandano che fa di bello il suo Aiace, risponde che il suo Aiace
s’e buttato non sulla spada, ma in una spugna. Spregia di fare uso di vocaboli
dotti e difficili o com’egli stesso li define reconditorum verborum fetoribus.
Ha a noia i leziosi e gl’arcaizzanti, ciascuno vizioso nel suo genere, e
talvolta li mette in derisione e sopra ogni altro il suo MECENATE (si veda) di
cui continuamente riprende i riccioli stillanti unguento, come li chiama. Non
la perdona neppure a Tiberio che anda a caccia di parole stantie, e da del
matto a Marc’ANTONIO (si veda), come colui che FILOSOFA PIÙ PER FARSI AMMIRARE
CHE PER FARSI INTENDERE. Nei discorsi, di alcuno dei quali leggesi in CICERONE
menzione entusiastica, sappiamo che O. si preoccupa di riuscire eloquente senza
mai ricorrere alla verbosità e pesante sentenziosità dell’allora decadente
oratoria. In una lettera ad Agrippina, lodando l’ingegno di lei, l’ammonisce
che si studi di non CONVERSARE in modo disgustevole e lezioso. E per riuscir
chiaro, sì che tutti potessero capire, preferiva una sintassi limpida ad una
sintassi più armoniosa e serrata, e adopera le preposizioni anche dinanzi ai
nomi di città, facendo cosa che un diligente maestro dei nostri tempi
sottolinea con frego azzurro nel compito del malaccorto scolaro. Svetonio, che
ci racconta questi particolari della grammatica e sintassi d’O, e che ha modo
di consultarne gl’autografi, ricorda anche che O non divide mai le parole in
fine di riga per terminarle nella riga seguente, ma le ripiega sotto
chiudendole con una linea curva. E aggiunge che l'ortografia d’O, abituato a
scrivere per CONVERSARE, e quella di chi scrive COME PRONUNZIA. Se dobbiamo
credere agl’antichi, d’O. restano famose le lettere. Raccolte per tempo in più
volumi e alcune di esse rimaste vaganti, non costituirono mai un vero e proprio
corpus, ma andarono a poco a poco disperse. Esse non hanno la buona e cattiva
ventura di entrare nelle scuole come libro di testo, e neppure l’altra d’essere
raccolte in antologia. Restano però i giudizi degl’antichi e alcuni frammenti
degni d’essere ricordati. O. discorre alla buona, familiarmente, sia che
filosofa di affari politici, sia che si rivolgesse ad amici e parenti.
Sollecita VIRGILIO (si veda) che gli mandas almeno l’abbozzo dei primi versi
dell’Eneide; scherza con ORAZIO (si veda) rimproverandolo che non conversa mai
di lui, e chiedendogli se per caso non crede di rimanere infamato presso i
posteri, qualora dai saggi suoi appare chiara la loro intimità. All’amico
MECENATE (si veda) un giorno scrive che essendo infermo e tuttavia indaffarato
in più cose, chiama e fargli da segretario il suo ORAZIO; lo richiama cioè dal
parassitico desco del nobile etrusco alla sua mensa di pontefice massimo.
VENIET ERGO AB ISTA PARASITICA MENSA AD HANC REGIAM ET NOS IN EPISTVLIS
SCRIBENDIS ADIVVABIT. E un’altra volta gli scrive una lettera che si chiude con
questa forbita apostrofe. Salute o mio ebano di Medullia, città etrusca, avorio
d’Etruria, laserpizio di Arezzo, perla tiberina, smeraldo dei Cilnii, diaspro
degl’Iguvini, berillo di Porsenna, carbonchio d’Adria, e, per dirle tutte in
una parola, céccolo delle meretrici. Suo nipote Gaio Cesare e da lui chiamato
in segno di affetto, asellus tucundissimus; e al figliastro Tiberio egli scrive
lettere gonfie di tenerezza e confidenza, raccontandogli come avesse passato il
giorno, quanto avesse perduto al giuoco, parlandogli dei suoi digiuni imposti
dalla cagionevole salute, e d’aver sbocconcellato in lettiga, tornando al
palazzo, un’oncia di pane e pochi acini di uva secca. E quando Tiberio, il
quale milita lontano con gl’eserciti, scrive di essere smagrito per le continue
fatiche della campagna, ei lo supplica di riguardarsi, chè, alle cattive
notizie della sua salute, et ego et mater tua (Livia), expiremus et summa
imperti sui populus romanus periclitetur. Alla figlia Giulia vuole un gran
bene, e la licenziosa vita ch’ella conduce amareggia assai l’animo suo. Sole
dire di aver DUE FIGLIE, tutt'e due DELICATISSIME, la RES PVBLICA E GIULIA. E
molto spesso nelle lettere, come riferisce il vecchio PLINIO, recrimina
penosamente la dissolutezza di lei. Umano egli e sempre e ricco di sentimento.
Qualunque cosa scrive, politica o familiare, alieno da ogni lenocinio di forma
e incline piuttosto ad accogliere espressioni còlte sulla bocca del popolo. Non
scrive die quinto ma diequinte, chè così comunemente dicevasi. E per esprimere
la celerità di un avvenimento, dice ch’esso e accaduto più prestamente che non
cuoce uno sparagio, celerius quam asparagi coquuntur. E per dir stolto adopera
baceolus che corrisponde al nostro baggeo. E per dire che sta male in salute
dice vapide se habere. Abbiamo poco dei suoi scritti, di intero la sola
iscrizione delle res gestæ in latino, e alcuni decreti ed editti in greco, non
tradotti da lui direttamente, ma certo da lui corretti e controllati. Svetonio
racconta che O., sebbene conoscesse il greco e sempre lo legge e studia,
tuttavia non si prova mai a scriverlo, chè teme di non conoscerlo abbastanza.
Studia con retori greci, i quali gli appresero cose di larga erudizione. Ma
scrittore, come ci appare nel lapidario latino della iscrizione delle res
gestæ, egli s'e formato sull’esempio di Cesare, nell’azione ed esperienza
militare e politica di tutti i giorni. Aveva innanzi tutto imparato ad evitare
non la facondia, ma la loquacità, e a reputare perciò che L’ELOQUENZA CONSISTE
NEL NON FAR MOSTRA D’ELOQUENZA: PARTEM ESSE ELOQVENTIÆ PVTAT ELOQVENTAM
ABSCONDERE -- che è poi la grande virtù della parola destinata a commuovere i
popoli e a guidarli alla vittoria e all’impero. I contemporanei lo salutarono
coi versi di VIRGILIO. Ecco Cesare Augusto, l’eroe che ci era stato promesso e
che resusciterà nel Lazio e nelle campagne d’Italia, dove in antico regnava
Saturno, l’età del- l’oro; e l’Impero di Roma amplierà fino al Fezzan e
all’India, di là dalle vie delle stelle, fin dove l’instancabile Atlante
sostiene sulle spalle lo splendente astro dei cieli. Lo avevano veduto entrare
tre volte in trionfo nelle mura di Roma, e pagare agli dèi d’Italia l’immortale
tributo dei suoi voti consacrando più di trecento templi, e fra l’applauso
della folla e i canti delle vergini e delle matrone, mentre sugli altari
fumanti cadevano immolati migliaia di tori, l'avevano ammirato, sulla soglia di
marmo e di alabastro del tempio di Apollo, ricevere dall’alto del trono i doni
dei popoli sottomessi per abbellire le magnifiche colonne del superbo
porticato. L’immagine virgiliana -- VIRGILIO (si veda) -- dell’apoteosi di
Augusto si è trasmessa, di generazione in generazione, come l’immagine della
pace romana creata dall’eroismo e dalla vittoria delle legioni, e dalla volontà
pura di uno spirito umanamente libero trasformata in religione politica e
ideale di civiltà: riformatore della costituzione, difensore del territorio,
organizzatore dell’amministrazione e della società, Cesare Augusto rappresenta
la maestosa dignità dell’Impero e il diritto fondamentale dello Stato. I
simboli del suo destino, l'adozione di Cesare, la battaglia di Filippi, la
vittoria d’Azio annunziano, nel tramonto di Roma repubblicana, la luce di Roma
imperiale; più chiaramente ancora l’annunzia il nuovo suo nome di Imperator
Caesar Augustus, che è un simbolo anch’esso e riunisce in un solo destino
l’eroe creatore e la volontà implacabil- mente lucida del fondatore
dell’Impero. Religiosa eredità fu quella di Cesare: e infatti duravano ancora
le leggi, le istituzioni e gli ordina- menti, coi quali Cesare era salito al
potere e il culto del divus Iulius e diventato il culto dello Stato, garanzia e
patrimonio dell’Impero. Ma rafforzando e difendendo la Romanità così che niente
mai potesse distruggerla, Augusto risolveva a favore dell’Occidente l’antitesi
tra l'Oriente e l'Occidente che Cesare aveva drammaticamente vissuta negli
ultimi anni della vita sua, e che s’era ripresentata, fortunosa e tragica,
nella lotta tra Ottaviano non ancora Augusto e Marco Antonio. È però costruendo
in Occidente la Roma imperiale sognata e creata da Cesare, Augusto che aveva da
Cesare ereditato la legittimità aggiunse alla grandezza del padre suo la gloria
d’aver tenuto a battesimo la civiltà europea. Insieme con GIULIO (si veda)
Cesare, O. è il simbolo della dignità imperiale, e il nome suo di imperator
cæsar avgvstvs consacra l’identificazione dell’impero con l’occidente. Il
titolo di ‘cesare’ da il diritto di successione al trono; quello di ‘augusto’
concede la dignità imperiale: il rito iniziato dai Flavii e ufficialmente
inaugurato d’Adriano e poi consacrato nelle formule del protocollo. Creatore
dell’impero e Cesare; fondatore e O., il quale e riuscito a far sopravvivere
l’opera e la gloria di Cesare in cinquantasei anni di regno, e della santità di
Cesare fa il patrimonio e il fondamento dell’Impero. Appare dunque ricco di
conseguenze per il mondo l’atto di adozione, col quale Cesare proclama suo
erede il nipote di una sua sorella, quel giorno che, alla vigilia di una battaglia,
mentre fa tagliare un bosco per costruirvi il campo delle legioni, ordina si
risparmiasse una palma come augurio di vittoria, e quella sùbito gitta polloni
alti e fiorenti. All’albo della Rinascenza, quando si inaugura la ricerca
storica e si annunzia fecondo di civiltà il quasi voluttuoso amore del passato,
e la romanità risorge nella cultura e nell’arte nutrite dalla possente vita dei
sensi, allora i due nomi di cesare e di augusto tornano ad essere creatori
della religione dell’impero. Allora il romanticismo eroico dell’umanesimo
celebra ed esalta l’idea imperiale di Roma con tanto devota ammirazione che
gl’italiani ne trarranno motivo di orgoglio e di serena fede, quando il predone
straniero spoglia e insozza le loro terre. E da quel grido di amore per
l’antica grandezza romana nasce un appassionato libro del Risorgimento, sul
primato della nostra gente e sulla universale missione d’Italia. |Allora,
all’alba della Rinascenza, fiorirono le leggende sui monumenti che sono rimasti
segni tangibili della sua presenza, a testimonio della grandezza d’O. Ed O.
apparve garante del miracoloso destino d’Italia, come nella formula dell’impero
che saluta l’imperatore con l’augurio che fosse più fortunato di Augusto:
felicior augusto. E si divulga la fama che nel mausoleo comunemente noto col
nome di Austa sorge circondata dalle tombe un’abside, ed O. e i sacerdoti suoi
vi celebrassero sacrifizi solenni, fra sacchi di terra raccolti d’ogni parte
del mondo a perpetuo ricordo delle genti sottomesse all’impero. L’Austa divenne
una fortezza inespugnabile, la fortezza più contesa di Roma, ed e strascinato
allo campo dell’Austa il cadavere di Cola di Rienzo e là e bruciato in un fuoco
di cardi secchi, in quegl’aanni che Petrarca scopre e vaticina nella grandezza
di Roma imperiale l’ideale politico italiano, distruggendo ogni antitesi tra il
passato e l’avvenire. E dopo che il maestro Marchionne d’Arezzo ha costruita
presso il Mercato di Traiano l’alta Torre delle Milizie, allora nasce, più
suggestiva e più vera, anche l’altra leggenda: che sotto la torre e un palazzo
incantato ed O. vi riposa. E un giorno si desterebbe dal sonno e tutto armato
uscirebbe con milizie e legioni, quando Roma e pronta a reggere e guidare per
la seconda o terza volta le sorti del mondo. Ottaviano. Keywords: vox augusta.
Ottaviano. Luigi Speranza, “La ragione conversazionale: Grice ed Ottaviano,”
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “ The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza. Ottaviano.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Ottaviano:
all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e il collettivismo
– la scuola di Modica – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Modica). Abstract. Grice: “The problem with Latin and Italian
is that Ottaviano can mean the first emperor or a Sicilian philosopher. Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Modica, Ragusa, Sicilia. Grice: “Perhaps with
Holllinghurst, and Hogarth, of course, Ottaviano is one of the few who have
cherished in the analysis of ‘la curva’ or ‘la linea’ – and it has revived a
debate which should fascinate a few!” Diplomatosi a Modica, si laurea a Milano.
Straordinario di storia della filosofia a Cagliari – Grice would oppose this
Italian tendency to encapsulate philosophical disciplines in ‘chairs’ like ‘the
chair’ of ‘storia della filosofia,’ or indeed at his own Oxford, the chair of
metaphysical philosophy as opposed to the theory of moral philosophy--, poi a Napoli,
ottenne la cattedra, conseguendovi la libera docenza ne passa poi a Catania,
dove fonda e diresse l'istituto di magistero, insegnandovi. Fonda la rivista “Sophia”. Grande conoscitore della
filosofia del periodo medievale, di cui peraltro ritrova e studia molte opere
inedite, elabora una propria teoria. Delle due saggi, “Critica dell'idealismo,” Rondinella,
Napoli, e “Metafisica dell'essere parziale, Milani, Padova, la prima ma è ben
presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica
all'idealismo di GENTILE (vedasi). Questa sua opposizione a GENTILE (vedasi),
nonché le sue critiche a CROCE (vedasi), gli valeno dure vessazioni
accademiche. Compone inoltre un ampio e comprensivo manuale di storia della
filosofia, Napoli. Membro dell'accademia d'Italia, si occupa, per primo, della
filosofia di FIORE (vedasi), esaltato d’ALIGHIERI (vedasi) nella commedia, pubblicandone
un saggio. Pubblica il codice oxoniense di “Joachimi Abbatis Liber contra Lombardum,”
che attribuisce a qualche seguace della scuola di FIORE (vedasi). Mentre
celebra, a Novara, LOMBARDO (vedasi), riprende a parlare di FIORE (vedasi),
presentandolo come un romantico ante litteram e un filosofo della nazione
italiana. Segnala pure due ignorati codici di FIORE (vedasi) della biblioteca casanatense
di Roma, occupandosi altresì della condanna di FIORE (vedasi) – Hardie: “What
do you mean by ‘of’?” -- da parte del concilio lateranense ed evidenziandone lo
sgomento suscitato. Inoltre, nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora
edita dalla MILANI di Padova, da spazio a vari studiosi di FIORE (vedasi). Sempre
sull'argomento, ritenne dapprima FIORE (vedasi) un triteista, ma, dopo aver
visionato le tavole del liber figurarum, scoperto da TONDELLI (vedasi) propese
invece per un'ortodossia trinitaria. Fonda e diresse un partito nazionale
d'impronta social-liberale, che però non ha seguito. Saggi principali: Abelardo.
La vita, le opere, il pensiero, Poliglotta, Roma; Il Tractatus super quatuor
evangelia, di FIORE (vedasi), Archivio di filosofia, Padova, Testi medio-evali
inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda), Abelardo, Incertus
auctor, Olschki, Firenze; Joachimi abbatis Liber contra Lombardum (Scuola di
Gioacchino da FIORE (si veda), Reale Accademia d'Italia Studi e documenti,
Roma, Un documento intorno alla condanna di FIORE (vedasi), Rondinella, Napoli;
LOMBARDO (si veda), in Celebrazioni piemontesi, istituto d'Arte pella decorazione
e l’illustrazione del libro, Urbino; La tragicità del reale, ovvero la
malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova; CAMPAILA
(vedasi): contributo all'interpretazione e alla storia della setta di Cartesio
in Italia, introduzione e note – H. P. Grice, “Descartes on clear and distinct
perception” -- Orsi, MILANI, Padova; Scarcella, Dizionario biografico degli
Italiani, Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di O., quotidiano “La Sicilia”,
Catania, di. Orsi, Tra Socrate e Gesù, Sicilia, Catania, Scarcella, Dizionario biografico
degl’italiani, Istituto dell'enciclopedia italiana, Roma, FIORE (vedasi), Pace,
Info Magazine. Grice: “I love Ottaviano:
he had three main interests: philosophy, philosophy, and philosophy. More
specifically, as a Sicilian, he was not interested in Italian philosophy, which
he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved Gentile – he
corresponded extensively with him! La
visione cristiana di Buonaiuti, Campitelli, Foligno. A proposito di un libro
sul Prepositino, Rivista di filosofia scolastica, traduzione, prefazione e note
di: Cantuariensis, Opere filosofiche, trad. pref. e note di O., Carabba, Lanciano.
Metafisica del CONCRETO. Saggi d’una apologetica del cattolicesimo, Signorelli,
Roma. Ricerche lulliane,
Estudis universitaris catalans; Otto opere sconosciute di Lullo, Rivista di
cultura; L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le fond
ambrosien de Lulle, Paris; ristampata: L'Ars compendiosa de Lulle, avec une
étude sur la bibliographie et le fond ambrosien de Lulle, O., Librairie
philosophique Vrin. Auxerre.
La vita, le opere, il pensiero, Biblioteca di filosofia e scienze, Roma. A
proposito di un libro su AOSTA (si veda), Rivista di filosofia scolastica. I
problemi del realismo, Giornale critico della filosofia italiana; Le
Quaestiones super libro prædicamentorum di Faversham, R. Accademia dei Lincei. Roma.
Traduzione, prefazione e note di AQUINO (si veda), Saggio contro la dottrina
dell’unità dell’intelletto, Carabba, Lanciano. Traduzione, prefazione e note di
AQUINO (si veda), Saggio sull'essere e l'essenza e altri opuscoli, prefazione,
traduzione e note critiche d’O., Carabba, Lanciano. Frammenti abelardiani,
Rivista di cultura, Prof. P, Loescher, Roma. Il Tractatus super quatuor
evangelia di FIORE (si veda), Archivio di filosofia, Padova. Osservazioni
critiche sui presupposti del problema della conoscenza. Il superamento
dell'immanenza sulla base della nozione di INDIVIDUO – P. F. Strawson e H. P.
Grice, INDIVIUO --, Archivio di filosofia. Il pensiero e il suo atto, Archivio
di filosofia. La riforma della logica del Lizio, Archivio di filosofia. Nota
polemica, Rivista di cultura. Le opere di Faversham e la sua posizione nel
problema degl’universali, Archivio di filosofia. Traduzione, curatela e note
di: TRACTATVS DE VNIVERSALIBVS attribuito ad AQUINO (si veda), cur. di O., Reale Accademia d'Italia, Roma. Introduzione,
traduzione, prefazione e note di AOSTA (si veda), Il Monologio, Palermo. Antologia
del pensiero medio-evale. Per le scuole medie superiori, Ires, Palermo. Testi
medio-evali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda), Abelardo,
Incertus auctor, a cura di O., Olschki, Firenze; San Vittore, la vita, le
opere, il pensiero, Lincei, Traduzione, prefazione e note di FIDANZA (si veda),
Itinerario della mente verso Dio, traduzione, prefazione e note di O.,
Antologia del pensiero medio-evale, Palermo. Il pensiero di ORESTANO (vedasi),
Ires, Palermo. Il superamento dell'immanenza in VARISCO (vedasi), Archivio di
filosofia, Traduzione e note di: Abelardus, Epistolario completo. Contributo
agli studi sulla vita e il pensiero di Abelardo, trad. it. e note critiche d’O.,
Ires, Palermo. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum. La Scuola di FIORE, cur.
O., Reale Accademia d'Italia, Studi e documenti, Roma. Critica del principio
d'immanenza, Rivista di filosofia scolastica, Il perduto “Liber de potentia,
obiecto et actu” di Lullo in un manoscritto romano, Estudis franciscans, Un
documento intorno alla condanna di FIORE (si veda), Rondinella, Napoli, Siculorum
Gymnasium, Catania. Storia, filosofia della storia, scienza della storia,
Rivista di filosofia scolastica, Un brano inedito della Philosophia di Conches,
Morano, Napoli. Il cosiddetto riferimento necessario alla coscienza nell'idealismo,
congresso di filosofia, Padova, Novità in filosofia, Milani, Padova. LOMBARDO
(si veda), in Celebrazioni piemontesi, istituto d'arte pella decorazione e l’illustrazione
del libro, Urbino. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli, Milani, Padova, Traduzione,
prefazione e note di: Abelardo, L'origine delle monache; e La regola del
Paracleto, traduzione, prefazione e note di O., Carabba, Lanciano.
L'unica forma possibile di idealismo, Rivista di filosofia scolastica, La
scuola attualista ed Eriugena, Rivista di filosofia scolastica, Riflessioni
sulla polemica ORESTANO–OLGIATI, Rivista di filosofia scolastica, Curatela di:
CAMPANELLA (si veda), Epilogo magno, Fisiologia italiana. Testo inedito con le
varianti dei codici e delle edizioni latine, cur. O., Reale Accademia d'Italia,
Roma, Kritik des Idealismus, mit einer Einfuhrung von Rintelen:
Realismus-Idealismus?, Aschendorff, Munster. L'unità del pensiero di CARTESIO e
la setta di CARTESIO in Italia – GRICE, Descartes on clear and distinct
perception, MILANI, Padova. Scritti con giudizi della critica italiana, Agostiniana,
Roma. Panteismo o trascendenza, Humanitas; Il problema morale come fondamento
del problema politico – GRICE, politico-legal – iustizia --, Milani, Padova. L'idealismo
trascendentale e la metafisica, Rivista di filosofia scolastica; La soluzione
scientifica del problema politico, Rondinella, Napoli. Le incertezze – Grice,
Intention and uncertainty -- della scienza moderna, Padova. Progetto di un
disegno di legge per salvare la democrazia dalla dittatura, MILANI, Padova. Dalla
democrazia ingenua alla democrazia critica, MILANI, Padova. Che cosa è il
social-liberalismo, MILANI, Padova, Lineamenti programmatici per una
riforma della scuola italiana, MILANI, Padova. Presentazione di Sepinski,
Cristo interiore secondo FIDANZA (si veda), presentazione O. trad. di Orgiani,
Politica popolare, Napoli. La tragicità del reale, ovvero la malinconia delle
cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova. Critica del socialismo: ossia
Introduzione alla teoria della proprietà per tutti, MILANI, Padova. Introduzione
alla teoria delle proprietà per tutti, ovvero la mia soluzione al problema
economico-politico, MILANI, Padova. Didattica e pedagogia. Ovvero la mia
riforma della scuola, MILANI, Padova. La legge della bellezza come legge
universale della natura. Considerazioni teoretiche e applicazioni pratiche, MILANI,
Padova. Manuale di storia della filosofia, La Nuova Cultura, Napoli. Manuale di
storia della filosofia, La Nuova Cultura, Napoli. Appunti di pedagogia
contemporanea. Personalismo e COLLETTIVISMO. Introduzione alla teoria della
proprietà privata per tutti, Solfanelli, Chieti. CAMPAILA (vedasi): contributo
all'interpretazione e alla storia della setta di Cartesio – Grice, Descartes on
clear and distinct perception -- in Italia, introduzione e note cur. Orsi, MILANI,
Padova. Sophia: fonti e studi di storia della filosofia, Palermo: Ires, Il
complemento del titolo varia in: rivista internazionale di fonti e studi di
storia della filosofia; poi in: rassegna critica di filosofia e storia della
filosofia. Luogo ed editore variano in: Napoli, Rondinella; poi in: Padova, Milani.
Alcuni dei saggi più significativi da O. per Sophia: Le rationes
necessariae in AOSTA (si veda), in Questioni e testi medievali, Sophia, Novità
abelardiane, in Questioni e testi medievali, Sophia; Storicismo attualista,
Sophia, Storicismo attualista, seconda puntata, Sophia; Controversie medievali.
A proposito della paternità tomistica AQUINO (si veda) di un “Tractatus de
universibus, e della data del De unitate intellectus, Sophia, Intorno al congresso
di filosofia di Padova, Sophia; Intorno alla critica dell'immanenza, Sophia,
Critica del principio di immanenza, Sophia, A proposito della storia, Sophia. I
grandi idealisti, Sophia. L'idealismo sulla via di Damasco, Sophia. Contraddizioni
idealistiche, Sophia. La fondazione del realismo, Sophia. Postilla alla difesa
del principio di immanenza, Sophia; Postilla a Immanenza, idealismo e realismo,
Sophia. Idealisti per forza, Sophia, Ancora sulla fondazione del realismo,
Sophia; Fanatismo idealista, ovvero l'agonia dell'idealismo, Sophia; Illustrazione
del documento intorno alla condanna di FIORE (si veda). Postilla, Sophia; Intorno
all'idealismo e al realismo, Sophia, Postilla a CHIOCCETTI (vedasi): “A
proposito dell'idealismo d’O., Sophia; Anti-moderno – Grice: MODERNISTI E NEO-TRADIZIONALISTI,
Sophia; Intorno alla critica all'idealismo, Sophia; Intorno alla valutazione
della filosofia, Sophia; La teoria delle species e l'idealismo immanentistico,
Sophia; La natura della SENSAZIONE – Grice, “Some remarks about the SENSES” -- e
la fondazione del realismo, Sophia; Referendum ai nostri Lettori in occasione
della ripresa delle Rivista, Sophia, Sophia, Il vero significato della
relatività di BONAIUTO-GALILEI nel movimento, Sophia. Natura pura e
soprannaturale – Grice, TRANSNATURALIA --, Sophia. I fondamenti logici della
relatività, Sophia. Gl’argomenti probativi dell'evoluzionismo, Sophia, Intorno
al significato storico dell'idealismo italiano, Sophia; Intorno alla legge di
conservazione dell'energia, ossia del MATERIALISMO – una delle duodici bestie
nere di Grice --, Sophia, Intuizionismo e logicismo in matematica, Sophia,
Intorno alla gratuità dell'ordine soprannaturale – Grice TRANSNATURALIA, Sophia;
Postilla a Riverso, Aporie e difficoltà del positivismo logico, Sophia; Valutazione
critica del pensiero di CROCE (vedasi). L'estetica, Sophia, Valutazione critica
del pensiero di CROCE (vedasi); Lo storicismo assoluto, Sophia, Bilancio di CROCE
(vedasi), Sophi. Einstein filosofo – la fisica, Sophia, Giudizio intorno alla logistica,
Sophia, Logica, matematica, poesia, Sophia, Crolla l'idolo einsteiniano,
Sophia, Il compagno Scioccherellov, ossia la tragi-commedia del comunismo,
Sophia, M’intrattengo ancora con il compagno Scioccherellov, Sophia, “Individui
di tutto il mondo unitevi”, ossia Critica della democrazia come idea-forza,
Sophia, Giudizio su CROCE (vedasi) come uomo politico, Sophia. L'assalto alla
diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica all'assalto del tesoro
della stato, Sophia, Difesa della scuola statale, ossia l'anti-stato contro lo stato,
Sophia, L'ordine della scuola italiana, Sophia, In difesa dell'umanità Abbasso
gli scienziati, viva i filosofi!, Sophia. Come integrare la dottrina
relativistica di Einstein, Sophia, O. nella filosofia, Atti dei convegni tenuti
a Milano e Catania, cur. Rando e Solitario, Prometheus, Milano. Cartia,
Tempo, memoria e infinito. I temi del tragico nell'opera di O., cur. Ghisalberti e Rando, Prometheus, Milano Bontadini,
Dall'attualismo al problematicismo, Brescia. Coniglione, Sophia. Nel segno d’O.:
una rivista a tutto campo, in La cultura filosofica italiana attraverso le
riviste, cur. Giovanni, Angeli, Milano, Croce, Conquiste filosofiche a passo di
carica e a suon di tromba, Critica, Orsi,
Il filosofo della quarta età: ricordo d’O., Sicilia”, Catania, Orsi, O: Tra
Socrate e Gesù, Sicilia”, Catania, Orsi, Appunti auto-biografici ed evoluzione
filosofica d’O., Archivium historicum mothycense, Orsi, Metamorfosi di un'opera
quale compendio di una vita filosofica, Introduzione a O., CAMPAILLA (vedasi).
Contributo all'interpretazione e alla storia della setta di Cartesio – Grice,
“Descartes on clear and distinct perception” -- in Italia, introduzione e note
a cura di Orsi, MILANI, Padova, Noce, Il problema dell'a-teismo, Teismo e A-teismo
politici: postulato del progresso e postulato del peccato, Mulino, Bologna, Noce,
Gentile, Mulino, Bologna, Tommasi, Compendio di una vita filosofica: O,, in
Voci, cur. di Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta Ferro, L'anti-moderno – Grice:
modernisti e neo-tradizionalisti -- di O., Rivista di filosofia scolastica, GARIN
(vedasi), Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, Mathieu, La filosofia
italiana, Le Monnier, Firenze Mazzantini, La riduzione ad absurdum
dell'immanenza gnoseologica, Rivista di filosofia scolastica, Vita e Pensiero,
Milano. Mazzarella, Il contributo di O. agli studi di filosofia, Sophia,
Mazzarella, Tra finito e infinito. Saggio sul pensiero di O., Milani, Padova, Mignosi,
O., Tradizione, Minazzi, Il principio di immanenza nel dibattito filosofico
italiano: il confronto tra PRETI (vedasi) e O., Protagora, Aspetti e problemi
della filosofia italiana, cur. Quarta, Scarcella, O. in Dizionario biografico
degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Sciacca, Di una recente
critica del principio di immanenza, Ricerche filosofiche, Sciacca, Il secolo
XX, Bocca, Milano. Carmelo Ottaviano. Ottaviano. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Ottaviano” – The Swimming-Pool Library. Ottaviano.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Ovidio: la ragione conversazionale e l’implicatura
convrsazionale – Roma – la scuola di Sulmona -- filosofia abruzzese --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona).
Abstract. As a
scholar in the lit. hum. programme at Oxford, Grice was introduced to the
classics before he was introduced to philosophy. Strictly, he had to sit for
the ‘classical moderations’ – in which he got a first – before moving to the
‘greats.’ Both Latin and Greek, or Laughing and Grief, were then part of his
first curriculum, as it was for most European philosophers up to the time when
‘philosophy’ gained some sort of ‘independence’ from the classics. Not all
philosophers survive Ovidio; Grice did – Ryle did not, and soon moved from the
Lit. Hum. to the P. P. E. proramme recently instituted that avoided the
classics altogether. The idea of conceiving philosophy – within the sub-faculty
of philosophy – within the greater Faculty of Literae Humaniores – was a very
good one, for as Grice would later tate, ‘a classical education’ – most of
which he had aquired already at Clifton anyway – is ‘required’ for the sort of
proficiency a philosopher needs. On top of that, Ovidio can be fun. In Ancient
Rome, philosophia, or amore della sapienza (Hardie: “What do you mean by
‘of’?’) was hardly a separate compartment, and on most of what philosophers
then did philosophise was the same stuff that other cultivated members of the
elite did. Ovidio is a good example. Filosofo
italiano. Sulmona, L’Aquila, Abruzzo. Publio Ovidio Nasone. Muore a Tomi,
rivela influssi filosofici assai svariati. A Posidonio, mediato da Varrone, si
fa risalire la rappresentazione dell'età dell'oro e dello sviluppo della
cultura (“Met.”; “Fasti”). Dalla setta di Crotona deriva in larga misura
il libro XV delle Metamorfosi, in cui Pitagora -- di cui si dice che si innalza
sino al divino colla filosofia e scorge con l’animo ciò che la natura nega agli
sguardi umani -- espone ai discepoli un ampio insegnamento sulla natura, il
divino, numerosi problemi naturali oscuri e condanna l’uso delle carni animali,
giustificando questa proibizione con la teoria della metempsicosi. Nella
tesi che nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che anche gli elementi si
trasformano gli uni negli altri, si notano invece influssi eraclitei e di
Girgenti. La formazione del mondo dal caos (Met.), in complesso, riecheggia il
portico, ma include anche elementi che fanno pensare a Girgenti, ad Anassagora
e a Lucrezio. For a
contemporary Roman reader of Ovid's Metamorphoses – usually just the emperor --
who has made his way through the labyrinth of mythological tales that comprise,
one segment becomes in some ways a fresh start. It begins the third and last
pentad. As he marks this formal boundary, Ovid introduces what he calls a
*historical* emphasis. Troy is founded, and from Troy's story that of Rome
arises. Roman matter, settings, and themes occupy ever more of our attention as
the thing approaches its end. Ovid includes some of the same tales that he had
used in his less successful (less read, not even the emperor read it!) in the Fasti, his “most Roman work” in terms
of its proclaimed matter: the very Roman calendar – “tempora cum causis Latium
digesta per annum.” – And the Romans always found a cause to celebrate! As we
read of Hippolytus deified as Virbius, or encounter the list of Alban kings,
the last pentad of the Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more
imperial readership the “Fasti.” And yet the latter ‘Roma historical’ part of
of the Metamorphoses is fully continuous with the first part, simultaneously a
fresh start and a seamless continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is
a development of long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects
signal the work's conclusion, wherein the large-scale historical progression
promised in the work's opening lines will be fulfilled: having set out
"from the first beginnings of the world," primaque ab origine mundi
Ovid's narrative will now reach "my own times," mea tempora the
present for both author and readers. Thus, if we, after reading of so many
nymphs and maidens transformed into trees or waterfowl, are surprised to find
Romulus and Julius Caesar turning up, Ovid's development and fulfillment of
narrative patterns also remind us that from the start we had reason to expect
such figures to appear. His vast work of transformative myth embraces even
them. Whereas Rome contribute something new to the last pentad of the
Metamorphoses, she also functions in a fashion that Ovid has made throughly
familiar. Already at the start, the council of the gods, called by Jupiter to
discuss Lycaon's crime, offers a striking Romanisation of heaven's architecture
and social distinctions, with mention of “atria nobelium,” “plebs,” and the
like." When Ovid represents Jupiter summoning the gods to the “palatia Caeli,”
Jupiter becomes not only Romanized but a reflection of Ottaviano, whose casino stood
on the earthly Palatine Hill. Shortly thereafter, Ovid explicitly addresses
Ottaviano in a context that links Lycaon's assassination attempt on Jupiter to
contemporary attempts on Ottaviano’s life. Both crises cause astonishment
throughout the world. “Nec tibi grata minus pretas, Auguste, tuorum est, quam
fuit illa loui.” Thus, in returning to current events Ovid recalls to our minds
their heralded arrival near the beginning. Also familiar is the narrative use
Ovid makes of the Roman matter. Rome functions largely as a frame for other
tales, which are often only tenuously related to the newly-prominent national
theme – or rather the theme of the history of the nation. We are well aware,
when we arrive at this point, that traditionally important and familiar cycles
of myth, such as those concerning Theseus and Hercules function mainly as
framing devices that connect tales. Many of these are only tangentially related
to the framing narrative, or are even altogether remote from it. No sooner does
Ovid introduce Troy than he begins to employ it in this now-familiar narrative
mode. The traditional story appears to establish a structural pattern for the
progress of the narrative, but it is soon displaced, as tales succeed tales.
Troy may be familiar ground, but its familiarity does not enable us to predict
our convoluted path through Ovid's work with any confidence. Who could guess,
when Laomedon founds Troy, that Ceyx and Alcyone would occupy much of our
attention? As we read their tragic tale, we may observe thematic links to other
tales in the Metamorphoses, as in the personification of Somnus, which formally
recalls those of Inuidia and of Fames. Yet the topic of Troy has disappeared,
at least for now, from view. So has the new historical emphasis. For the tale
of Ceyx and Aleyone is as mythical, as fabulous, as anything in the preceding material.
Indirection and unpredictability remain characteristic of the narrative even as
Ovid draws Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical
themes to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters
them. An especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his
last and most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and
Aleyone, Ovid abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts
the sacrifice of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But
before proceeding with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive
passage on Fama, beginning with these lines: “orbe locus medio est inter
terrasque fretumque caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod
est usquam, quamuis regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis
ad aures. Fama tenet summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at
the middle of the world, between land, sea, and the heavenly region, at the
boundary of the threefold universe. From here one can see anything anywhere,
however distant its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor
holds it, and selected its topmost summit for her house. This is the last and
the most ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications
in the Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid achieves
a rich and grimly detailed impression of corporality through his descriptive
language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise description.
The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's house, but in a
way that defeats definition; for the house occupies a liminal site, hovering at
the boundaries between earth, sea, and sky. The structure itself if it can be
called a struc-scarcely separates inside from outside, for its porous nature defeats
such distinctions: “innumerosque aditus ac mille foramina tectis addidit et
nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet; tota est ex aere sonanti,
tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit. nulla quies intus nullaque
silentia parte.” She added innumerable approaches to the building, and a
thousand openings. With no doors did she shut its threshold: it lies open night
and day. The whole house is of resounding brass, produces a roar, echoes and
repeats what it hears. There is no quiet within, silence in no quarter. In and out
of the house issue personified rumors: atria turba tenet: ueniunt, leue uulgus,
cuntque mixtaque cum ueris passim commenta uagantur milia rumorum confusaque
uerba uolutant. A throng occupies its halls; they come and go, a light crowd;
lies mixed with truth wander here and there by the thousands; and the confused
words of rumor roll about. Only when this expansive description is finished do
we learn its relevance to its surroundings: rumors of the Greek expedition have
reached Troy. This house of Fama and her attendant rumors, "lies mixed
with truth," creates a remarkable preface to the beginning of the Trojan
War, inviting us readers to consider it as an interpretive comment on all that
follows. Feeney connects the passage to themes of poetic authority in the
Metamorphoses; indeed, the authority of Ovid's epic predecessors, especially
Homer's lad and Odyssey and Virgil's Aeneid, is at issue in the later books of
the Metamorphoses, where extensively adapted sometimes severely
distorted-versions of their tales are woven into a new fabric. For much of the
rest of Book 12, for instance, Nestor narrates the battle of Lapiths and
Centaurs, as he did in Book 1 of the liad: but Homer's version is a brief
summary, meant to illus-trate a point in its context, Ovid's a vast expansion
that engulfs its context, displacing the Trojan War in our attention for
hundreds of lines. Fama dominates the rest of Ovid's poem, from Book 12 to the
end, not only because of the formal introductory description of the house of
Fama, but also because of the increasing role of internal narration in the
later books: as the poem proceeds, the epic narrator recedes, and more and more
tales are reported by an internal narrator to an internal audience. Fama also
forms a boundary, prominently recurring at the very end of the Metamor-phoses,
where fama provides the means of the poet's continued sur-vival: perque omnia
saecula fama,/ siquid habent veri uatum praesagia, winam. The recurring
presence of Fama serves as a reminder of the fundamental lack of definition and
stability characteristic of narrative style throughout the work. Flux remains
Ovid's theme to the end, and Fama provides both a symbol and an embodiment of
flux within the narrative. Fama resists the tendency toward interpretive simplicity
and transparency that the introduction of historical and political topics might
lead us to expect. As we proceed through the last pen-tad, historical and
historico-political modes of understanding events, however pervasive their
presence, ultimately never reduce Ovidian flux to order. Fate, for instance, a
cosmic principle beloved of some Greek and Roman historians, whose workings
they trace in the unfolding of events, duly turns up from time to time in
Ovid's Metamorphoses, and does so as a theme of historicized myth that is
likely to remind us of Virgil's Aeneid. Yet, whereas the Aeneid is deeply
imbued with a sense of fate, guiding the reader to a teleological understanding
of myth and history, fate is an historical prop in the Metamorphoses part of the
furniture of historicized myth. Far from dominating its context, the context
dominates it, as in the summaries of the Eneide that Ovid employs as framing
devices -- non tamen euersam Troide cum moenibus esse/spem quoque fata sinunt.”
These lines introduce Enea’'s departure from Troy with unmistakable reference
to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil integrates fate (fatum, il fato) into
the structure and architecture of the “Eneide”, however, Ovid reduces fate and
its impact on events to barest summary. Ovid acknowledges Virgil's historical
vision without permitting that vision to structure his narrative or his
readers' experience of it. Instead, Ovid shamelessly *appropriates* Virgilian turns
of phrase in the national epic for a characteristic Ovidian witticism, playing
simultaneously on the literal and figurative senses of euersam. Troy's walls
are physically overturned, but her hopes, conceptually and metaphorically are
not overturned. Sylleptic implicature of this kind saturates the Metamorphoses
and embodies its themes of transformation on the narrative surface: the loss of
human identity in metamorphosis, the shifting of boundary between human and
natural, indeed the obscuring of any such boundary are events typical of the
Metamorphoses;. Ovid now sets the plot of Virgil's Aeneid among them,
exploiting Virgilian language for his own transformative wit. Although there is
a shift to historical and this national theme, and with them a more direct
engagement with Ovid's epic predecessors, the Metamorphoses remains the same
poem it was. The porous, echoing, boundary-less, and visually indistinct house
of Fame incorporates all within it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous
presence and readers familiar with them may try to understand Ovid's material
in similar terms. Yet Ovidian slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned
down, to yield to interpretive stability, although his readers may crave it. In
fact, by introducing interpretive frameworks familiar from his
predecessors-Virgilian fate, for instance, in the lines quoted above Ovid takes
advantage of his readers' desire for clarity: he invites us to reach
conclusions, then fails to sustain them. The concept of fate drawn from the
philosophy of the Porch is one interpretive possibility that turns up in the
Metamorphoses, yet without the structured development that Virgil gives it;
Augustan historical vision is another. By introducing historical and political
subjects into his work, Ovid invites readers to consider the relationship of
the Metamorphoses to the world outside it -- not only to the Aeneid and earlier
Roman epic on historical themes, but also to Augustan ideology and its
expression outside poetry -- in the architectural projects, for instance, by which
Ottaviano “transforms’ the Romans' physical environment. When he introduces the
voyage of Aeneas alluding to the plot and eventhe vocabulary of Virgil's epic,
Ovid acknowledges his contemporary readers' awareness that the Aeneid has
overwhelmed other versions of this story. Ovid could not retell this story with
directing readers awareness from his own text to Virgil's. When Ovid
incorporates the apotheosis of Romulus into the narrative of Book 14, readers
are likely to find that their thoughts turn unavoidably to Ottaviano’s identification
of himself as Romolo – Roma’s first king --, and to accompanying images and
slogans concerning the foundation of Rome. Because Ottaviano eventually gains,
like Romolo, a place among the dia, Ovid's apotheosis of Romulus invites his
readers at least provisionally to define the relationship between this figure
from the remote past and his contemporary embodiment. Ovid presents a parade of
heroes in the later books of the Metamorphoses. Hercules leads the way; then
Aeneas, Romulus, Julius Caesar, and Ottaviano form a triad of apotheosised
mortals. These three figures are already iconic when they turn up in Ovid's
poem iconic in the sense that they resemble images that are powerfully
identified with meanings, like the statues of these very heroes that stood in Ottaviano's
forum. Because Ovid's parade of heroes arrives accompanied by preexisting
interpretive baggage, it will be worthwhile to contrast these two fundamentally
different sites of meaning, each with its own ways of associating ancient with contemporary
heroes. The Forum of Ottaviano an architectural space well designed and
equipped to promote a unified and coherent set of messages about the
relationship of past to present; and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on
the prevalence of change, whose author enacts his theme by mischievous
artistry, establishing patterns of meaning, then disrupting and fracturing
them. Historical patterns are among those that Ovid deliberately reduces to
incoherence. Each of these sites of meaning is powerfully manipulative, and
each achieves its impact by means well suited to the message. Meeting a Roman
hero in the “Forum Augusti,” the observer's upward gaze would encounter not
only an impressive image, but also a titulus, identifying him, and an elogium,
recording his achievements. Furthermore, this experience takes place within an
architectural complex, the Forum Augusti, erected by Ottaviano in payment of a
vow made while fighting his adoptive father's assassins at Philippi.Within so
structured an experience, the observer of its visual images and inscriptional
texts is unlikely to go far astray in interpreting them. Although the battle
occurred some time ago, the Forum itself, dedicated, is a recent reminder of
that event for the readers of Ovid's Metamorphoses. In the parallel exedras
along its longer sides stood statues of Enea on one side and Romolo on the
other. For Ovid to set the parallel apotheoses of these same heroes near each
other is to make inevitable the reader's recognition of Ottaviano’s meanings
attached to these deified heroes. At the same time, in the Metamorphoses these
figures are iconic in a far less tightly regulated context of meanings than
they are in the forum. Though now purely verbal, they resemble ideological
statements less than do the forum's statues. Ovid presents his portraits, so to
speak, without titulus and elogim to regulate their interpretation. Thus
exposed, the portraits lose their interpretive transparency and become
vulnerable to incorporation into Ovidian flux. Consistent with the organization
and coherence of the Forum Augusti is the fact that its symbolism is easy to
interpret. Within the temple of “Mars Ultor,” for instance, stood cult statues
of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s father, parent and protector of the Romans,
and Venus, the ancestress of the Julian gens. Everything about these images
directs the viewer's attention away from the adultery of Marte and Venere so
prominent in their mythological tradition. Only the irreverent and satirical
perspective that Ovid offers in Tristia 2 resists the ennobling abstraction of
such figures and drags adultery back into view. There, Ovid describes the cult
statues of Marte and Venere, who stood next to each other in the temple's
cella, as Venus Vitori ncta (Ir.), "Venus joined to the Avenger" -- an
expression that invites reflection on the sexual significance of “iungere."
Venus's husband stands outside the door, wir ante fores."? A myth of
political origin, its official representation in art, and resistance to it are
prominent also in the Metamorphoses in the tale of Arachne. It is enough to
emphasize here that the tale offers rich reflections on official interpretation
of art. When Minerva chooses to depict her victory over Neptune in the two
divinities' dispute over the naming of Athens, her tapestry, decorously ordered
and balanced, promotes its didactic message with unavoidable clarity, while
offering an aesthetic correlate to the power of enforcement that lies behind
that message. Readers often side with the Arachne and her irreverent depiction
of divine misbehavior; yet Minerva does not ask for our approval, nor need she
take much thought for the judges of the con-test. Her views of the story are
enforceable and will determine the outcome of the plot. Her power allows her to
impose her perspective on events. Because the historical subjects of the later
books of the Metamorphoses so often bring official interpretations within view,
it is worth noting that, according to one political approach to literature
currently in favor, only official interpretations are possible. On this view,
all activity of writing and reading takes place within a fixed political
system, often unrecognized by the participants, that "advances the
interests" of "elites."' Proponents of this approach offer a
powerfully reductive historicism: nothing is important about literature except
the historically determined power-relationships that govern its production and
reception; all attention to literary qualities of a text is sentimental and
self-indulgent aestheticism. Whereas this view contracts all understanding of
literature to the narrowly political, some recent writers on history in Roman
literature expand the historical to a larger field that embraces Varro's
theologia tripertita and the universal history of Cornelius Nepos, Diodorus
Siculus, and others. In the shift, for instance, from mythological to
historical subjects in the Metamorphoses, we can see a broad similarity to
Varro's “De gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of history in the
Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical principles is far
deeper and more intimate than has been recognized before. For instance, the
poem's "alternation between diachrony and synchrony is a narrative
technique characteristic of universal history. The poem's chronological
framework from first origins to the present also reflects the aims of universal
history; yet Wheeler, like most critics today, does not view the poem "as
a natural process of evolution from chaos to cosmos, culminating in the peace
and properity of the Augustan age."' Arguing for a subtler and less
overtly political patterning of events, Wheeler traces historical principles
behind the increasingly historical subject matter of the last pentad. The
movement from myth to history represents "a shift," in Wheeler's
view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis." The terms
are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses alongside Varro's
“Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and comprehensive
work, among whose aims was to organize conceptions of divinity into mythical,
natural, and civic (Aug., Ci. Dei). Ovid is known to have used the “Antiquitates”
as a source in the later books of the Metamorphoses as well as in the Fasti,
and it is surely right to call attention to the presence of Varronian
principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does not
structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly
informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s
mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic
predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently
argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's
vision is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that
Virgil self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has
much to teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs;
yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that
Ovid's work in fact thwarts and defies. The historical vision of the
Metamorphoses remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing,
and intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his
work escapes their power to shape his material and to govern our responses to
his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse, unpredictable,
and provocative as the "fabulous" books that precede them.In Book 11,
the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the 'historical' section
actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be sure, the poem has
pursued the course of history from the opening lines of Book 1, while Romanization
on both a large and small scale has kept contemporary reference, analogies, and
allegorical interpretive options before our eyes throughout the progress of the
work. Yet the foundation of Troy, which turns up as a narrative topic just
after King Midas has received ass's ears, abruptly brings the poem's
subject-matter within the boundaries of history. For the Romans, in so far as a
distinction was made between history and myth, the Trojan War tended to mark
the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next three books. Because,
however, Rome's origins are in Troy, this also begins a narrative sequence that
continues to the end of the poem, and indeed to the moment of reading for
Ovid's Roman audience. In the last pentad, "mythical" tales continue
unabated, but now jostle with tales from Roman history and even "current
events," all brought within the narrative sweep. Among "current
events" we may locate the transformation of Julius Caesar's soul into a
star. Yet this transformation is thoroughly mythologized, for it occurs among
the activities of the goddess Venus. With Troy's foundation, history arrives
well integrated into the poem's patterns of mythological narrative. We might
expect that lin-carity and clarity of narrative progress would arrive along
with historical subjects, and indeed the last pentad is sometimes described as
if this were the case. When we reach Laomedon's Troy the principle of
chronological sequence takes charge again: it is 'after that' rather than
'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But Wilkinson's impression
is in fact illusory. The amount of material recounted by internal narrators
steadily increases in the later books, so that chronological movement is constantly
interrupted and postponed by tales of the past, recent or remote. Even more
remarkable is the fact that history arrives together with manifest anachronism.
It is often noted that the participation of Hercules in the foundation of Troy
-- his rescue of Hesione and his capture of the city after Laomedon refuses him
the promised horses -- occurs lines after the hero's death and apotheosis. Ovid
makes no attempt to reconcile the chronology. Wheeler has explored Ovid's
anachronisms in revealing detail, showing that at Hercules' death. Troy is assumed
to exist already in the world of the poem, and that "Ovid could have
avoided the anachronism by placing stories about the dead and deified Hercules
in the mouths of characters who report retrospective events in inset narratives
that temporarily suspend the main chronological thread. Instead, Ovid flaunts
his disruption of chronology, first recounting Hercules' death and apotheosis,
then introducing a narrator, Alemene, mother of Hercules, to recount his birth.
Chronology appears to reverse direction, but chronological dislocation turns
out to be more complex than simple reversal. Wheeler's conclusions refute the
common notion that Ovid's shift to historical topics results in a more linear
narrative explication and greater chronological regularity. The reintroduction
of Hercules is therefore part and parcel of a larger web of anachronism
involving the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis, both of
which should have occurred already in the poem's historical continuum. It
should be clear, furthermore, that Ovid's transpositions of the foundation of
Troy and the marriage of Peleus and Thetis are a deliberate structural strategy
to furnish new points of origin for the narrative of the final books of the
poem. That is, Ovid deliberately violates his earlier chronological scheme to
provide new beginning points for the final pentad i.e., from the foundation of
Troy and the birth of Achilles to the present) As a result, the formality and
regularity of the pentadic structure produces a paradoxical result: on the one
hand, it divides the work symmetrically into thirds and hence to some extent
structures the experience of the reader: we may compare the division of
Virgil's Aeneid into halves, in allusive reference to the Odyssey and Iliad."
On the other hand, in effecting a new beginning for thelast pentad, Ovid
reinforces the narrative indirection and unpredictability that have
characterized the Metamorphoses from its beginning. The tales that follow the foundation
of Troy both illuminate and obscure the newly initiated narrative patterns of
the last pentad. At this point, Ovid's readers may expect him to expand upon
the origins of the Trojan conflict. He does so in his account of Peleus and
Thetis, the parents of Achilles, but hastily summarizes the elements of the
story that are traditionally the most important: Thetis receives a prophecy
that she will bear a son who will surpass his father; Jupiter, despite his
passion, avoids mating with Thetis "lest the universe contain anything
greater than Jupiter" (ne quacquam mundus loue maius haberet). Ovid alters
the authority for the prophecy, substituting the shape-shifting divinity
Proteus for Themis as its source. He then develops the story in his own way,
dwelling upon a description of the bay frequented by Thetis, Peleus's attempt
to, assault her (which she thwarts by shape-shifting), Proteus's advice to
Peleus that he tie her up as she sleeps, and the successful results. Some of
this account will remind us of epic predecessors, for Proteus is familiar from
the Odyssey as well as from a brief appearance carlier in the Metamorphoses and
from Virgil's Georgics. Yet in emphasizing shape-shifting and sexual assault,
Ovid flaunts the unedifying nature of his account and its lack of relevance to
any of the large-scale themes, providential, historical, and originary, that
one might expect at the threshhold of events that lead to the foundation of
Rome. An account of origins this may be, with reference to historical subjects,
and formally analogous to Virgil's reworking of Homeric material in the Aeneid.
Yet Ovid offers it manifestly without the interpretive guidance that would
associate it with Virgilian themes. As an account of origins, it explores
causes of the Trojan War still more remote than those developed by Ovid's
pre-decessors, suggesting a line of interpretation that traces events back to
lust, violence, and deception at least as much as to beneficent destiny. Ovid
on the one hand traces Trojan subject matter from its origins, and on the other
characteristically takes his narrative into unforeseen directions. The tales of
Daedalion and his daughter Chione and of Geyx and Aleyone are intricately
linked to the matter of Troy; yet in them Ovid pursues free-wheeling
digressivevariety that is entirely consistent with the earlier books of the
Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or goal-directed than
formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate turn up in another
tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus, a son of Priam
first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone, whose unhappy
tale of fidelity and loss has long occupied our attention. Observing the royal
couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an old man and his
neighbor shift their conversation to another sea-bird, the diver, who likewise
turns out to have a human history and even royal lineage. In a send-up of
learned claims to poetic authority," Ovid's narrator cannot tell us which
of the two interlocutors is the source for the story: proximus, aut idem, si
fors tulit... dixit. The irony of this crisis of authority is especially marked
by the genealogical king-list that follows, which approaches annalistic, even
inscriptional style: et si descendere ad ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt
huius origo Ilus et Assaracus raptusque loui Ganymedes Laomedonue senex
Priamusque nouissima Troiae tempora sortitus. frater fuit Hectoris iste: qui
nisi sensisset prima noua fata iuuenta forsitan inferius non Hectore nomen
haberet. And if you wish to follow his lineage down to him in continuous
sequence, his ancestors were llus, Assaracus, Ganymede, seized by Jupiter, and
Priam, allotted Troy's last days, That bird there was Hector's brother. If he
had not experienced a strange fate in early youth, perhaps he would have no
less a name than Hector's. Ovid appears simultaneously to claim and to obscure
authority for the tale. To complete the paradox, he refers to the king-list as
ordo perpetuus, "a continuous list": thus the pretensions of his
carmen perpetum to be a universal history, conducted in unbroken sequence from
first beginnings to the present, serve to introduce a tale of admittedly
indeterminate origin. The tale that follows is primarily a natural actiology,
incorporating both historical and epic subjects into an account of how Hector's
brother became the origin of a species of sea-bird. Aesacus chasesHesperie, who
in her hasty flight steps on a snake, Eurydice-like, and dies of its bite. Her
pursuer is introduced as hating cities and devoted to rural life, yet unrustic
in his susceptibility to love: non agreste tamen nec inexpugnabile amori/
pectus habens. Amor agrestis is not uncommon in the Metamorphoses and will soon
be fully developed in the tale of Polyphemus. What is unusual in Aesacus are
his guilt and remorse at Hesperie's death: uulnus ab angue a me causa data est.
ego sum sceleration illo, qui tibi morte mea mortis solacia mittam. The wound
was given by the snake, the cause by me. I committed a greater crime than the
snake, and will send you consolation for your death by my ow. When he throws
himself from a cliff, the sea-goddess Tethys pities him and transforms him into
the diver; the verb mergitur at the end of the story echoes the noun mergus at
its beginning. Thus, the whole story is framed as an aetiology of the bird's
name, and so establishes a link between the history of Troy and the origins of
the natural world. Trojan history, along with all notions of historical
progress to the glorious present, becomes naturalized and incorporated into
aetiological explication; natural phenomena, meanwhile, receive a history, and
suggest that an historicized understanding of nature is possible. Natural
actiologies are prominent in Ovid's integration of Trojan subjects into the
Metamorphoses. As he introduces more Roman subjects and Roman heroes into his
narrative, his atiological focus turns from the earth to the heavens. The
poem's first apotheosis is that of Hercules. A sequence of apotheoses and
catasterisms follows. After Jupiter promises Venus to make the soul of her
descendant, Julius Caesar, into a star, she, although unable to prevent
Caesar's murder, snatches the soul from his limbs and carries it to the
heavens. There, having become a star, it rejoices to see its own deeds outdone
by those of Ottaviano. When Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to
his father's, personified Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri
quamquam uetat acta paternis, libera fama tamen nullisque obnoxia iussis
inuitum prefert unaque in parte repugnat. Although he forbids his own deeds to
be preferred to his father's, nevertheless Fame, free and not yielding to any
commands, prefers him against his will, defying him in this matter only. To
attribute modestia to a ruler is standard in panegyric, and equally standard
are the exempla that follow;'' but because these lines appear in the
Metamorphoses, they invite multiple perspectives on the events described.
Readers are already familiar with Fara as the source of "lies mixed with
truth," which issue from her echoing house, and have met her also as
"the herald of truth," offering an accurate prophecy about the royal
succession among Rome's early kings: destinat imperio clarum praenuntia
ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his authority for predicting
the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam. To be sure,
any claims of truth for Fama are problematic in the Metamorphoses. The
identification of Fama as praenuntia weri occurs in a context of manifest
anachronism, the irony of which would have been obvious to Ovid's Roman
readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an accepted part
of the historical record. But Ovid's readers knew well that the tradition of
his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically impossible.
Cicero (Rep.; Tusc.) and Livy point out that Pythagoras did not come to Italy
until the fourth year of the reign of Tarquinius Superbus, years after Numa's
death. The Ovidian narrator, however, exploits the audience's awareness of the
anachronism to launch one of the greatest non-events of the poem. After Fama's
appearance in the tale of Numa, her recurrence as an agent in the tale of Julius
Caesar's soul exemplifies the ambiguous natureof the politically charged
episodes at the end of the Metamorphoses. Few passages in the work provoke such
widely divergent views as the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I
would maintain, can find support in Ovid's text and are in fact generated by
it: that Ovid introduces the apotheosis and Augustan panegyric "in all
seri-ousness," and "employs the official terminology in an entirely
loyal fashion", that this material is ridiculous, satirical, even subversive.
This is intentionally incoherent, presenting the reader with irreconcilable
interpretive options. Certainly there is a striking dichotomy in modern
critical positions taken on whether the apotheosis is integral to the larger
work or loosely added as extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the
account of Giulius Caesar's apotheosis are not the organic end of a persistent
thematic development. It should be evident from the numerous examples of apotheosis
in the Metamorphoses that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a
common tale-type, which is associated with the end of narrative sequences,
books, and pentads, and the poem as a whole, however. As for the apotheoses of
Aeneas and Romulus, we find that they prepare for and introduce not only the
apotheosis itself of Caesar's soul, but also the interpretive questions it
raises. Ovid resumes the engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and
intermittently pursued. Ovid takes over from Virgil the burial of Aeneas's
nurse Caieta as an initiatory gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and
Ovid's version of Aeneid begins here, too. Ovid adds an epitaph for Caieta: hic
me Catam notae pietatis alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne cremauit. By
emphasizing Caieta's rescue from one fire and cremation by another, Ovid calls
attention to an etymological explanation of her name from kaiew, glossed by
cremare. Thereby Ovid alludes to the derivation that Virgil omitted. Ovid is in
a sense commenting on Virgil's text, noting an etymology that would later find
a place also in Servius's commentary on the Aeneid. Another effect of Ovid's
revision is to fill out the earlier account, suggesting that there is more to
the story than what Virgil provides. There follows a severely abridged summary
of the Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in Latium up to
Venulus's embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here resumes his
earlier procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he reduces to
brief, sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many tales not
in Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the lliad,
expanding the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length, and
adding two tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle between
Achilles and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate over the
arms of Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated until it
is barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that had
offered accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed to
seabirds (Aen.; Met.), and Aeneas's ships, transformed to nymphs (Aen.; Met.). In
Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal justice typical of
the Metamorphoses, though thematically remote from the Aeneid: Acmon,
recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the hands of Venus,
impiously provokes her (Met.). Dicta placent paucis (Met.), "his words
picase few" of his com-rades; but Venus punishes both Acmon and those who
opposed him with arbitrary transformation. Her power is amply demonstrated; yet
the lesson of the tale remains at best ambiguous, and its conclusion seems to
transfer its uncertainties into the visual sphere. These are uolucres dubiae,
and any attempt to identify them must remain frus-trated: 'si, uolucrum quae
sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum, sic albis proxima cygnis
(Met.). The alternating pattern of severe abbreviation and vast expansion of
Virgilian material provides a context for the apotheosis of Aeneas, an event
foretold but not narrated in the Aneid. Jupiter begins his consolatory prophecy
to Venus in Aeneid 1 by mentioning the foundation of Lavinium and Aeneas's
apotheosis. Both are assurances that fate and Jupiter's established plans have
not changed: parce metu, Cytherea, manent immota tuorum fata tibi; cernes urbem
et promissa Lauini moenia, sublimemque feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean;
neque me sententia uertit. Cease from fear, Cytherea: your fates remain for you
unmoved. You will see the city and promised walls of Lavinium, and you will
carry aloft great-souled Aeneas to the constellations of heaven; my decision
has not changed. Jupiter's prophecy, which at this point already has passed
well beyond the plot of the Aeneid, embraces all Rome's fortunes within a
reassuring teleological vision. Among the events prophesied is the
reconciliation of Juno with the Romans, which is to prove important both for
the Aeneid and for Ovid's recontextualization of Virgilian topics: quin aspera
luno, quae mare nune terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius
referet, mecumque fouebit Romanos, rerum dominos gentemque togatam. Furthermore,
harsh Juno, who now wears out sea, earth, and heaven with fear, will turn her
plans to a better course; along with me she will cherish the Romans, lords of
all, the people of the toga. We ought better to call this not the but a
reconciliation, for, introduced after Jupiter's mention of Romulus and the
foundation of Rome, it appears not to refer to the reconciliation that actually
occurs in Aeneid. There, shortly before the final encounter of Aeneas and
Turnus, Jupiter appeals to Juno to give up her wrath. Juno does so, stipulating
that the Latins not be required to give up their language and dress, and that
Troy remain fallen (Aen.). In Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales”
in dating Juno's reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's
own subject, as Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia
bello Punico secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil
mentions the chronologically later reconciliation long before describing the
former. In Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a
conflict introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of
Carthage, will eventually be resolved happily. Whether we take Juno's
reconciliation in Aeneid 12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only
some of Juno's grudges, it contributes only a partial sense of closure to the
end of Virgil's poem. Ovid's transformation of Aeneas into the divine Indiges
more specifically recalls Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of
Jupiter's address to Juno at Am.: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/
deberi caelo fatisque ad sidera tolli' Ovid does not closely follow the
chronology of Juno's reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead
to a time beyond Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas,
which indeed it serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem
ucteres finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli
tempestius erat caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled
all the gods, even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources
of rising lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for
heaven. The thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid
introduces these lines into bizarre, surreal surroundings of his own making.
Their immediate context is one of the strangest transformations in the poem-the
tale of Turnus's hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town
Ardea may be Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote
from Virgil, and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is
typical of Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of
a species, tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of
traits and features in the change from the old to the new shape. This case goes
beyond the typical in the sheer imaginative effort required to make the shift
from a ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human
social organizations, are characteristically distinct from the natural. This is
not just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's
enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name
in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies
et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa
urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted
condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's
name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself,
with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the
apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no
invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas
and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up
their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical, and
political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis
becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician:
ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and
seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for
her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these
details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in
the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough:
'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These
lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed
that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of
Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was
to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for
Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si
tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano
iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen.). But if your mind
has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice,
twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane
effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the
death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could
have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes
that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be
found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's
time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's
Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has
asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in
Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's
crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba
Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is
profoundly historical, for how Romans understand the altars and temples of
their gods, how they connect the remote to the recent past, depends on the
symbolic narrative or narratives that their minds associate with monuments in
their city. Ovid's revision of Vergil is the revision of a well known and
compelling historical vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as
editors note, offer a parallel to the language of an inscription for a statue
of Aeneas found at Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum
n/umero relatus (CIL = Dessau). Mention of the turba Quirini looks forward to
the apotheosis of Romulus, but first there intervenes a king-list an annalistic
structuring of the past remarkable in finding a place in the Metamorphoses.
Like the renaming of Aeneas, the list of Latin kings also recalls to Roman
readers their reading of inscriptions. This king-list also recalls earlier
lists in the Metamorphoses, such as the genealogy of Aesacus. His
transformation is a natural aetiology, and likewise Aeneas's shift to divine
status as “indiges” can be viewed as just another transformation, an addition
to the tale of Ardea transformed into a heron. We might almost think of it as
an undifferentiated item in a vast accumulation of transformation-tales that
could be arbitrarily lengthened by further addition. The reason, however, that
we cannot quite do so is the fact that it is not isolated, but participates in
a pattern of apotheoses. The apotheosis of Hercules establishes a pattern that
is reinforced strongly by the apotheoses of Romulus and of Julius Caesar's
soul. Their greater number toward the end of the poem appears to signal both
their own importance and their closural impact. Ovid's list of Latin kings does
not lead directly to the apotheosis of Romulus, but to the tale of Pomona and
Vertumnus, which he dates to the reign of Proca. The tale is rich in closural
features, cut from the same cloth as the apotheoses that frame it. Viewed as an
incident of deceptive seduction and barely-suppressed violence, the tale of
Vertumnus can also appear a distraction, leading the reader's attention away
from the transformation of historically important heroes into gods. The tale is
a "romantic comedy," yet regards it as compromising its context. It
is no secret that it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is
otherwise far from being a Roman epic just when it begins to show promise (or
make fraudulent promises) of turning a new leaf and beginning to be such an
epic, and one in the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas
and Romulus, the tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope
of the poem's imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's
destiny as Rome's) because an ample and effective representation of the myth of
Romulus would be crucial to a celebration of Rome's place at the end of history
as the end of history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted
king-list, he remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in
the passive voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives
mention by name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque
senex amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia
conduntur. Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might
of unjust Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's
gift, the kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls
are founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to
explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid
avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no
opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's
foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to
avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations
themselves are speculative, but the text seems to call for explanation because
Ovid has so strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of
Rome's origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His
text demands interpretation without providing the resources to arrive at one.
Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the
self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because
Romulus was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical
parallel to Ottaviano, few topics are richer in potential for allegorical
exploitation and panegyric symbolism; and this potential goes almost totally
unrealized here. Ovid's approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits
the founder's exploits and shifts all attention to the divine sphere. The
apotheosis of Romulus and, as it turns out, that of his wife Hersilia result
from divine actions, whose description is the province of myth. Historians who
record their exploits give them standing as historical figures. Deprived of
exploits, they re-enter myth. By remythologizing history Ovid incorporates it
into the world of the Metamorphoses, in which divinities are active and humans
largely are acted upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the
shift from mortal to divinity, in accordance with which a human's heroic
actions approach and approximate the divine, resulting in the hero's veneration
as divine by other humans, and his reception among the divinities as one of
them. Ennius's historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death,
Romolo now has a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus
aeum/ degit. Ennius probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's
deification. Virtue and political merit open the gates of heaven. It is highly
likely that the deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of
founding the city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been placing
Romulus in the tradition of the great monarchs who won immortality by emulating
Hercules. Although the details of Ennius's account are far from clear, Ovid's
non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his principal source,
the original and canonical version of Romulus's deification. History appears to
be going backwards as the divine agents in the Romans' war with Tatius take
action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite having so
recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus tacitorum
more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt portasque
petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit nec
strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures, keep their
voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose bodies are
sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had barred; yet
one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she turned it on its
hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation earlier, in the
apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly inconsistent. We may try
to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's historical framework, by
which Juno gives up her wrath at the second Punic War. But Ovid makes no
attempt to clarify and so rescue historical consistency; indeed, he appears to
mock the tradition of multiplereconciliations of Juno, exploiting it for its
comic absurdity. There are serious consequences as well: the equation of
history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable to the Romans
once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other divinities
intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in unbarring the
gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the Forum Romanum to
come to her assistance. Their spring, normally cold, they bring to a hasty
boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the Romans time to arm
themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting deification for Romulus as
the fulfillment, now: due, of a long-standing promise. Mars cites Jupiter's
original words, representing them as an exact quotation: tu mihi concilio
quondam praesente deorum (nam memoro memorique animo pia uerba notaui) "unus
crit, quem tu tolles in cacrula caeli" dixisti: rata sit uerborum summa
tuorum. Once, at an assembled council of the gods, you told me (for I remember,
and marked the pious words in my retentive mind),there will be one whom you
will carry to the blue of heaven.' Let the content of your words be fulfilled. The
words Marte quotes appear to gain even more authority by referential
confirmation from outside the text of the Metamorphoses doubly cited, as it
were: for while Mars cites Jupiter, Ovid cites Ennius's Annales. Readers of
Ovid's contemporary Fasti will remember the recurrence of Ennius's line in a
third context, for Mars cites it there as part of a parallel appeal for
Romulus's deification. Although Marte describes his son to Jupiter as the latter's
"worthy grandson" (Met.), Romulus's exploits have no part in the
appeal. Deification results directly from Jupiter's promise, so strongly
emphasized, and at the beginning of the speech Mars needs only to establish
that now is the time for its fulfillment: tempus adest, genitor, quoniam
fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab uno, praemia (sunt
promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris inponere caelo. Since,
father, Roman affairs are well established on great foundations, and do not
depend on a single protector, it is time to pay the reward it was promised to
me and to my worthy grandson to remove him from the earth and to place him in
heaven. In all this there is no mention of Romulus's great benefactions, such
as might sustain a euhemeristic interpretation of the hero's advancement to
divine status. Far from avoiding comparison to Ennius, Ovid ostentatiously
quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact that in stripping the
hero of exploits he has eliminated Ennius's interpretation of them. Ennius's
words, transferred to so un-Ennian a context, may appear well suited to a
familiar allegorical parallel, reminding Roman readers once again of their
second Romulus, likewise destined for the skies. Yet Ovid's apotheosis of
Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely because of its lack
of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's Romulus offers readers
little to go on in drawing conceptual parallels to the achievements of
Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis of Romulus in the
Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes an emphatic
identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing relatively recent
developments in the story. In both Ovid quotes the line from Ennius and repeats
the apostrophe Romule, tra dabas (Met., F.) at the moment when the apotheosis
occurs. Yet in their larger contexts the two passages are remarkably dissimilar.
While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his whole story -simply one
in a series of apotheoses extending from Hercules to the end of the work, in
the Fasti his apotheosis has a context in the life and exploits of the hero.
Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes concerning him are
numerous enough to trace out a biography of him, even if by installments. Ovid's
version of the Roman year gives Romulus an unprecedented amount of space, far
beyond the natural occasions offered by tradition (such as, for example,
Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual rituals of the
Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with Romulus even to
the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of Romulus. If the
violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti” make him a
problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives himself an
easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of his
narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead brother
Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas in the
Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the
attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical
interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for
apotheosis because Rome's condition, now well-established, "does not
depend on a single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met.). Hence,
Romulus can be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark
makes a poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that
afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The
apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing
revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia
there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can
invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition
granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis
without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for
being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own
people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine
women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents,
Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius; Dio
Cass.). Her other signal achievement takes place shortly thereafter. According
to Livy, Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which resulted
from their pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia,
importuned by the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to
argue that their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita
rem coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is,
according to LIVIO's patriotic interpretation, the whole point of the rape of
the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence
or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the
two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes
Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this
pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her
husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the
whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so
important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus,
Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia
as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de
Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become
reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a
people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that
Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason,
Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under
Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the
Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi
coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani
regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my guidance
seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the temple of
Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to Romulus's hill.
A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine portentand she
passes into the air. Rome's founder receives her, changes her name and body,
calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met.). Of course, Ersilia's
apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as panegyric. There’s a parallel
to LIVIA, so reinforcing the connection of Romulus to Augustus. Yet if Ovid's
goal in this double apotheosis is to promote panegyrical identifications, he
has lost an impressive opportunity. Especially after his irreverent, even
scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid could now have made
amends with Ottaviano and with history by serving up a traditionally patriotic
rape of the Sabines, including the achievements of Romulus and Ersilia, both
available for cuhemeristic treatment. Ovid's version is once again
conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's
transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably
originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history,
reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to
serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the
Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the
work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from
the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to
a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance
with which the fabulous incorporates all else into its domain-including
history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and
"mythological," of course, are not simply descriptive of the subject
matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the
fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all,
Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to
the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her
husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/
fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met). Hersilia is using caclum
as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer aptly
notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.); Bibulus in
caelo est (Att.). Hersilia supposes Romulus "lost" (amissum, Met.)
and evidently knows nothing yet of his apotheosis -certamly nothing about her
own. She simply uses a conventional, proverbial form of speech to express her
anticipated happiness. But events make her expression literally true, as the
star descends and Hersilia rises to the heavens. Ovid's transformative wordplay
often operates in just this way: words that initially appear figurative become
literal, the conceptual shifts to the physical, and a transformation described
in terms of plot is enacted first on the level of style." Hersilia's
apotheosis is a fine instance of Ovidian wit, yet is also a typical instance,
similar to many others that readers have enjoyed by this stage in the work's
progress. As they enjoy another of Ovid's transformative witticisms, they also
may reflect on the power of his transformative vision, which now incorporates
even their own history. As he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a
joke, Ovid grants us an ironic perspective on Roman origins, compromising their
fated-ness and bringing out their contingent character. Throughout the last pentad,
historical events lose their connection to fata and pass under the sway of Fama
in its full range of ambiguity and contradiction: "lies mixed with
truth" (mixtaque cum ueris... commenta) issue from the house of Fama,
while "Fame, the herald of truth" (praemuntia uri/ fama), announces
Numa's impossible visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the fractured
historical vision of the Metamorphoses. Fasti (Ovidio) Fasti Ritratto immaginario di Ovidio
(di Anton von Werner) Autore Publio Ovidio Nasone Original ed. Editio princeps Bologna,
Baldassarre Azzoguidi, Generepoema epico Lingua originalelatino Manuale. I
Fasti sono un poema che espone le origini delle festività romane, quindi è
un'opera di carattere calendariale ed eziologico di Ovidio, scritto in distici
elegiaci, ad imitazione degli Aitia (Cause) di Callimaco, di cui riprende,
oltre che il metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche.
L'opera, scritta molto probabilmente per aderire alla moralizzante propaganda
tipica dell'età augustea, fu progettata in un totale di 12 libri, secondo
l'andamento del calendario. Con essa l'autore, che probabilmente attingeva a
Varrone e a Verrio Flacco, si era proposto di spiegare l'origine della
differenza tra i giorni fasti (dalla parola latina "fas", lecito) in
cui i Romani potevano trattare gl’affari pubblici e privati, e i giorni
“INfasti,” nei quali era vietato. Al tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio
di turno, indaga e rivisita, mese per mese, tutti i molteplici riti, le festività
e le consuetudini, tipiche del costume e dell'uomo romano, che, al suo tempo,
si praticavano senza ormai conoscerne l'esatta origine o valenza.
Tuttavia, dei Fasti si sono conservati solamente 6 libri, da gennaio a giugno.
Questo fatto si spiega con la famosa relegatio (esilio che non comportava la
perdita dei beni né tantomeno dei diritti civili) che colpe Ovidio e che non
gli permise di terminarla. Indice 1Struttura 1. 1Libro I: gennaio
1. 2 Libro II: febbraio 1.3 Libro III:
marzo 1. 4 Libro IV: aprile 1.5 Libro V: maggio 1. 6 Libro VI: giugno 2 Voci
correlate 4 Altri progetti 5 Collegamenti esterni Struttura Libro I: gennaio Il
primo libro doveva presentare una dedica ad Ottaviano. Quest'ultima, ora
spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell'esilio di
Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al nipote adottivo di Augusto
stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca brevemente la nascita del
calendario romano e il significato dei giorni fortunati o dies fasti, per poi
passare al mito di Giano, esposto dal dio stesso in colloquio con Ovidio, sul
modello degli Aitia callimachei e, dopo un distico sulle None di gennaio,
modellato sulle sezioni astronomiche di Arato, all'esposizione dell'origine dei
riti agonali, dei riti in onore di Carmenta, inframmezzato da una esposizione
sulle Idi, che divide questo mini-epillio in due sezioni, la prima delle quali
è una lunga profezia sulle origini di Roma recitata dalla stessa ninfa.
Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al distico elegiaco, che Ovidio afferma di
aver piegato alla poesia eziologica, dopo che in gioventù fu il suo verso
d'amore e ad una dedica a Cesare (forse Augusto), si passa a parlare
dell'origine del nome februarius, per poi discutere delle calende, con la
rievocazione del mito di Arione, delle none, con il mito dell'Orsa Callisto, di
Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica. Ovidio rievoca, poi, le feste
Quirinalia, le cerimonie ferali e la festa del dio Terminus e si sofferma a
parlare del regifugium, con la leggenda di Lucrezia. Infine, parla della festa
degli Equirria. Libro III: marzo Sezione vuota Questa sezione sull'argomento
opere letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro IV: aprile Festività romane Fasti (antica Roma) I Fasti di P. Ovidio Nasone; tradotti in
terza rima dal testo Latino ripurgato ed illustrato con note dal dottor
Giambattista Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia Rosa Traduzione in
inglese dei Fasti, su tkline.freeserve Publio Ovidio Nasone Portale Antica
Roma Portale Lingua latina Portale Religioni Categorie:
Opere letterarie in latino Opere di Ovidio Opere letterarie del I secolo.
Ovidio. Publio Ovidio Nasone. Ovidio. Keywords: implicatura trasformativa.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ovidio.” Ovidio.


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